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Il Tabloid del festival Time in Jazz 2008

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36<br />

PAV - progetto arti visive<br />

Stage/Backstage<br />

<strong>Il</strong> <strong>festival</strong> e i suoi artisti attraverso lo sguardo di professionisti e non professionisti <strong>del</strong>lo scatto<br />

Che movimento, a <strong>Time</strong> <strong>in</strong> <strong>Jazz</strong>. C<strong>in</strong>que giorni di corse attorno a Piazza <strong>del</strong><br />

Popolo. <strong>Il</strong> quarto giorno può capitare di <strong>in</strong>contrare uno per la prima volta,<br />

Dov’eri? Qua, da lunedì. Qua sì, ma di corsa, e <strong>in</strong> corsa ci si <strong>in</strong>contra solo<br />

per caso. Non è utile d’altronde <strong>in</strong>dugiare per i giovani <strong>del</strong>l’associazione,<br />

dalla piazza alla sede alle mostre. E neppure al pubblico conviene attardarsi,<br />

per non perdere eventi che talvolta si sviluppano <strong>in</strong> contemporanea, o quasi.<br />

Poi, quando il <strong>festival</strong> è f<strong>in</strong>ito e stai assorbendo gli scatti e le emozioni,<br />

degli altri scatti ti vengono <strong>in</strong> soccorso, a raccontarti quello che avevi<br />

perso: ecco Iva Bittova – dov’eri quando cantava così? – ecco Jeanne Lee<br />

a Bisarcio, solenne. Fotografare <strong>Time</strong> <strong>in</strong> <strong>Jazz</strong> è un modo, uno dei più nobili,<br />

per rallentarlo, salvarlo: rivoluzione filosofica, rappresaglia l<strong>in</strong>guistica.<br />

Si lascia fotografare <strong>Time</strong> <strong>in</strong> <strong>Jazz</strong>, da tutti. Quelli ufficiali, di fotografi, ai<br />

aggirano come ladri davanti alla prima fila. Girano per le chiese, le mostre,<br />

i sentieri. Cercano le f<strong>in</strong>ezze. Maniaci <strong>del</strong>lo scatto, per chi li guarda storto<br />

dalla prima fila. Tutti gli altri – volontari, spettatori, artisti, anche – <strong>in</strong><br />

modo più grossolano, cercano piuttosto una testimonianza, prove, documenti.<br />

E poi, a volte, anche loro trovano la foto comme il faut. Ma <strong>in</strong> un<br />

posto come la Berchidda di quei giorni forse è più facile, dicono.<br />

Cosa si potrebbe fare con lo sterm<strong>in</strong>ato materiale fotografico raccolto a<br />

Berchidda <strong>in</strong> venti edizioni <strong>del</strong> <strong>festival</strong>? Se ne potrebbe riempire una parete,<br />

certo, per una mostra. Insieme, si potrebbe, specie per le primi edizioni,<br />

recuperare la memoria storica <strong>del</strong>la manifestazione e dei suoi vent’anni. Le<br />

foto più antiche, e più “artigianali”, hanno un fasc<strong>in</strong>o particolare, raccontano<br />

anche la Berchidda di vent’anni fa, le metamorfosi di Piazza <strong>del</strong> Popolo.<br />

E poi beh, quante piccole storie, dentro e fuori dal <strong>festival</strong>; c’è il racconto<br />

di quel bamb<strong>in</strong>o <strong>in</strong> bicicletta che girava sempre quel <strong>festival</strong> lì, sempre <strong>in</strong><br />

mezzo a tutti – aveva domande per ognuno – e alla f<strong>in</strong>e lo vedete, che assiste,<br />

davanti al camion <strong>del</strong> service, la bicicletta ferma.<br />

La filosofia che muove questa mostra è per così dire enciclopedica, da Jon<br />

Hassell ai volontari agli anziani <strong>del</strong>la piazza. C’è Paolo Fresu con una birra<br />

<strong>in</strong> mano, e il trombettista <strong>in</strong> mille pose, e a volte c’è solo la tromba, e Paolo<br />

Fresu lo devi immag<strong>in</strong>are tu, perché dev’essere lui, lì, è la sua mano, quella.<br />

Magia <strong>del</strong> non detto, <strong>in</strong> molti scatti d’autore. E così <strong>in</strong> tante fotografie<br />

restano dei movimenti a metà, <strong>del</strong>le azioni abbozzate, <strong>del</strong>le espressioni<br />

<strong>in</strong>compiute. Lì si ferma l’occhio <strong>del</strong> lettore, da lì si staccano forme, <strong>in</strong>canti,<br />

romanzi.<br />

Fabrizio Crasta

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