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L'ardimento. Racconto della vita di don Gnocchi - Fondazione Don ...

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l’autore del libro che tale risposta è l’esatto capovolgimento <strong>della</strong> consueta idea che fa del<br />

dolore dei bambini un’obiezione alla fede, che non piuttosto un aiuto ad essa. Su questi temi<br />

<strong>don</strong> <strong>Gnocchi</strong> costruì una sua spiritualità specifica, che confluirà nel suo libro del 1956,<br />

Pedagogia del dolore innocente.<br />

Un principio evangelico guida l’intera opera <strong>di</strong> <strong>don</strong> <strong>Gnocchi</strong>: «Qui facit veritatem venit ad<br />

lucem» (Gv 3, 21). Alla lettera: «Colui che fa la verità viene alla luce». La verità non si <strong>di</strong>ce,<br />

non si immagina, la verità si fa. L’uomo è sempre, come anche ha scritto <strong>don</strong> Giussani, un io in<br />

azione. Anche l’accoglienza non si <strong>di</strong>ce, ma si fa: così tutto ciò che <strong>don</strong> <strong>Gnocchi</strong> scrive e <strong>di</strong>ce<br />

appare piuttosto come una riflessione sulla sua propria esperienza <strong>di</strong> carità che non una serie<br />

<strong>di</strong> teorie astratte, e perfino la sua spiritualità del dolore è messa alla prova dell’esperienza:<br />

come quando, <strong>di</strong>nanzi ad un bambino saltato su una bomba, rimasto senza gambe e senza un<br />

occhio, con vaste ferite ovunque, <strong>don</strong> Carlo gli chiede a bruciapelo: «Quando ti strappano le<br />

bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». L’incapacità del piccolo <strong>di</strong><br />

comprendere perfino la domanda stessa convinse <strong>don</strong> Carlo che c’è tanta più sofferenza,<br />

quanto più essa non ha senso, dal momento che non si ha nessuno per la quale valga la pena<br />

offrirla: «Io ebbi la precisa, quasi materiale, sensazione <strong>di</strong> una immensa, irreparabile sciagura:<br />

<strong>della</strong> per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> un tesoro, più prezioso <strong>di</strong> un quadro d’autore o <strong>di</strong> un <strong>di</strong>amante <strong>di</strong> inestimabile<br />

valore. Era il grande dolore innocente <strong>di</strong> un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile e insignificante<br />

(…) perché non <strong>di</strong>retto all’unica meta nella quale il dolore <strong>di</strong> un innocente può prendere valore<br />

e trovare giustificazione: Cristo crocifisso» (pag. 81).<br />

Era la percezione angosciata <strong>della</strong> forza negativa del nichilismo, incapace <strong>di</strong> sostenere il senso<br />

<strong>della</strong> <strong>vita</strong> e del dolore, a meno che la sofferenza non sia coscientemente incorporata a Cristo,<br />

come bene avevano saputo, invece, molti dei suoi alpini caduti in Russia, educati<br />

cristianamente. Quando <strong>don</strong> Carlo, in punto <strong>di</strong> morte, dopo avere dettato il testamento e<br />

celebrato la messa, chiede <strong>di</strong> ascoltare Stelutis alpinis, il canto degli alpini caduti, aveva certo<br />

coscienza <strong>di</strong> questo significato cristico, <strong>di</strong> offerta che era inconsapevolmente racchiuso in quelle<br />

semplici parole:<br />

«Quando a casa tu sei sola / e <strong>di</strong> cuore pregherai per me,/ il mio spirito volerà attorno a te; /<br />

io e la stella alpina saremo con te».<br />

Una «baracca» nata dalla carità<br />

E’ straziante l’ingresso <strong>di</strong> uno dei primi mutilatini, nel <strong>di</strong>cembre 1945, nella nuova casa <strong>di</strong><br />

Arosio: una <strong>don</strong>na porta a <strong>don</strong> Carlo un bambino <strong>di</strong> otto anni, cui una bomba aveva strappato<br />

la gamba. Aveva speso tutto per le cure e da due giorni non mangiava: «Non ce la faccio più –<br />

lo implorava-. Me lo prenda lei, padre, il bambino. Che almeno possa vivere. Io posso gettarmi<br />

sotto un treno». La madre baciò la sua creatura, poi scappò gridando: «vai con lui, Paolo, vai<br />

con lui». Il piccolo gridava e invocava la mamma. Per due giorni delirò per la febbre, graffiava<br />

e picchiava <strong>don</strong> Carlo e invocava la mamma la quale, fatta ricercare, sembrava <strong>di</strong>leguata nel<br />

nulla. Fu uno strazio, poi accadde l’impossibile: «Il sacerdote non si separa mai da lui. Lo aiuta<br />

a mangiare, gli parla (…), dorme con lui, l’occhio sempre aperto (…). Poi, dopo quarantotto<br />

ore, Paolo getta le braccia al collo <strong>di</strong> <strong>don</strong> Carlo. Piangono insieme, abbracciati, come un padre<br />

e un figlio. E’ la svolta» (pagg. 79-80).<br />

Era l’impatto con la trage<strong>di</strong>a dell’abban<strong>don</strong>o e insieme l’esperienza unica <strong>di</strong> una nuova<br />

paternità. <strong>Don</strong> <strong>Gnocchi</strong> amava chiamare «la mia baracca» l’opera cui <strong>di</strong>ede origine. Come<br />

scrisse il «Corriere <strong>della</strong> Sera» alla sua morte, egli «aveva cominciato con pochi ragazzetti: e<br />

adesso erano migliaia e migliaia. Non poneva un limite alla capacità dei soccorsi, come non lo<br />

poneva alla necessità <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re la conoscenza del dolore umano», ma il suo immenso<br />

lavoro <strong>di</strong>ede speranze insperabili: «il cieco, il fanciullo senza gambe, il ragazzo “mulatto”<br />

piegato nel complesso del colore, non erano più i dolenti <strong>di</strong>spersi nell’amaro deserto <strong>della</strong> <strong>vita</strong>.<br />

Se un bambino senza mani scriveva, se un fanciullo con le stampelle giocava al pallone, se un<br />

“mulattino” gli chiedeva <strong>di</strong> imparare a suonare uno strumento, il passo verso la speranza era<br />

compiuto» (pag. 159).<br />

Una considerazione in margine: oggi una legge ha imposto la chiusura degli istituti per minori.<br />

<strong>Don</strong> <strong>Gnocchi</strong> creò degli istituti per minori. Era un altro momento storico, ed è bene che oggi sia<br />

maturata una <strong>di</strong>versa sensibilità in proposito. Ma occorre non <strong>di</strong>menticare che ciò che oggi è<br />

perfino denigrato all’origine nasceva da una cultura dell’accoglienza che si poneva<br />

all’avanguar<strong>di</strong>a rispetto alle scarse risorse messe in campo da uno stato spesso assente e alla

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