miseria anche materiale <strong>della</strong> società del tempo. Creare oggi comunità familiari <strong>di</strong> accoglienza è allora nello stesso solco <strong>di</strong> quella storia <strong>della</strong> carità e <strong>di</strong> quella creatività <strong>della</strong> tra<strong>di</strong>zione cristiana del nostro popolo che ha dovuto far fronte al vuoto <strong>di</strong> umanità prodotto da ideologie stataliste e spesso antiumane. Il maturare <strong>di</strong> un’opera La carità, che sempre nasce da incontri concreti e particolari, in <strong>don</strong> <strong>Gnocchi</strong> crebbe fino a farsi carico dell'opera nelle sue <strong>di</strong>mensioni più larghe e istituzionali: <strong>don</strong> Carlo <strong>di</strong>venne perfino partecipe dell’ONIG, l’ente statale nato inizialmente in concorrenza con la sua opera, e che lui seppe piegare al principio <strong>di</strong> sussi<strong>di</strong>arietà, in modo che agisse <strong>di</strong> concerto con la sua nuova fondazione, la Pro Juventute. La carità crebbe dentro un immenso e incessante lavoro, sempre su più fronti, anche internazionali, sempre creativo, come quando per sponsorizzare le proprie iniziative organizzò la storica trasvolata atlantica a bordo dell’Angelo dei bimbi, il monomotore che realizzò nel 1949 il record <strong>di</strong> 14 ore <strong>di</strong> volo, o come quando nello stesso anno organizzò, lui, prete motociclista, il raid motociclistico Milano-Oslo: venticinque scout in sella alle loro Guzzine. Il rischio <strong>di</strong> una riduzione sociologica <strong>della</strong> carità <strong>Don</strong> Carlo è efficace, non è efficientista. Così si trova in crisi, quando ad un certo momento si accorge che l’opera nata intorno a lui rischia pesantemente una sorta <strong>di</strong> “riduzione sociologica”. Nel 1951 scrive: «Ho avuto (…) oggi come non mai la sensazione <strong>della</strong> mia solitu<strong>di</strong>ne spirituale e ne ho molto sofferto (…). La ragione vera e intima <strong>della</strong> mia tristezza è (…) quella <strong>di</strong> non sentirmi più circondato dalla poesia <strong>della</strong> carità e dall’ideale <strong>di</strong> fare il bene per il bene, in quelli che ora sono <strong>di</strong>ventati i miei collaboratori. Ho degli “impiegati” intorno a me; <strong>di</strong>staccati dal lavoro che atten<strong>don</strong>o, che non hanno l’angoscia dell’economizzare il tempo, il gusto del sacrificio; che calcolano la loro prestazione, che fanno sentire quanto danno in più del dovuto, che non s’interessano, per godere o per soffrirne, delle sorti buone o tristi dell’istituzione, che non hanno progetti, <strong>di</strong>segni, critiche da fare ma si accontentano <strong>di</strong> eseguire; che insomma non lavorano con me o come me, ma accanto a me» (pag. 136). E’ la tentazione del tecnicismo, del professionismo che mette in valore più le cose da fare che non le persone, e così si fanno male le cose e non si guarda più al bene delle persone. Amare il mistero <strong>della</strong> persona in Cristo crocifisso Un’opera che non nasca dalla carità in prima persona e da una fede “coralmente vissuta” sarebbe un’opera già morta. Paradossalmente è <strong>di</strong>nanzi alla morte che questa esigenza <strong>di</strong> verità dell’esperienza gli si fa a lui più chiara. Scrive <strong>don</strong> Barbareschi, che lo accompagnò fino alla suprema soglia: «<strong>Don</strong> Carlo supera la sua crisi <strong>di</strong> fede quando si innamora <strong>della</strong> persona <strong>di</strong> Cristo. Non si capisce niente <strong>di</strong> <strong>don</strong> Carlo se non si approfon<strong>di</strong>sce questo aspetto: il suo rapporto con la persona <strong>di</strong> Cristo». In punto <strong>di</strong> morte, <strong>don</strong> Carlo chiede che gli vengano letti alcuni brani: i primi sono versi <strong>di</strong> padre David Maria Turoldo dagli accenti esistenziali, perfino carnali: «Eppure mi tenta ancora questa avventura del Figlio pro<strong>di</strong>go / … / Potere un giorno / <strong>di</strong>re coi sensi che le cose /gridano a un essere più alto, / a una più alta gioia /… / sono i sensi il tempio / <strong>di</strong> una incrollabile fede». <strong>Don</strong> Carlo commentò così questi versi: «Se devo aggiungere qualcosa <strong>di</strong> mio, <strong>di</strong>rei così: sono innamorato del mistero <strong>di</strong> ogni persona umana e <strong>della</strong> sua libertà» (pag. 140). Chi conosce un po’ l’opera <strong>di</strong> quell’altro grande frutto <strong>della</strong> Chiesa ambrosiana del dopoguerra che è <strong>don</strong> Luigi Giussani, che com elui amava Leopar<strong>di</strong> e Péguy, e non può fare a meno <strong>di</strong> coglierne una profonda sintonia <strong>di</strong> pensiero. Un’identica sintonia affiora nella scelta dell’altro brano me<strong>di</strong>tato da <strong>don</strong> <strong>Gnocchi</strong> in punto <strong>di</strong> morte: è la famosa professione <strong>di</strong> fede <strong>di</strong> Dostoevskij, scritta in prigionia: «…Credere che non c’è nulla <strong>di</strong> più bello, <strong>di</strong> più profondo, <strong>di</strong> più simpatico, <strong>di</strong> più ragionevole, <strong>di</strong> più coraggioso, né <strong>di</strong> più perfetto del Cristo (…). Più ancora: se qualcuno mi avesse provato che il Cristo è al <strong>di</strong> fuori <strong>della</strong> verità… avrei preferito restare col Cristo piuttosto che con la verità» (pag. 141).
<strong>Don</strong> <strong>Gnocchi</strong> spirò così, il 28 febbraio 1956, all’età <strong>di</strong> 53 anni, aggrappato in ultimo sforzo al crocifisso per baciarlo, così come aveva fatto innumerevoli volte nella campagna <strong>di</strong> Russia, quando, stringendo tra le braccia i suoi alpini prima che venissero deposti per l’ultima volta nella neve, abbracciava in loro Cristo stesso. GC Stefano Zurlo, <strong>L'ar<strong>di</strong>mento</strong>. <strong>Racconto</strong> <strong>della</strong> <strong>vita</strong> <strong>di</strong> <strong>don</strong> Carlo <strong>Gnocchi</strong>, ed. BUR