23.12.2013 Views

LE PMI ITALIANE: UN QUADRO INTRODUTTIVO - Intertic

LE PMI ITALIANE: UN QUADRO INTRODUTTIVO - Intertic

LE PMI ITALIANE: UN QUADRO INTRODUTTIVO - Intertic

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 13<br />

CAPITOLO PRIMO<br />

<strong>LE</strong> <strong>PMI</strong> <strong>ITALIANE</strong>:<br />

<strong>UN</strong> <strong>QUADRO</strong> <strong>INTRODUTTIVO</strong><br />

(a cura di Cenciarini R.A., Dallocchio M., Dell’Acqua A., Etro L.L.)<br />

INTRODUZIONE<br />

Le piccole e medie imprese rappresentano per molteplici aspetti il vero cuore<br />

pulsante dell’economia nazionale. In un contesto competitivo sempre più globale,<br />

caratterizzato da una concorrenza agguerrita e quasi incontrollabile, le<br />

Pmi sembrano essere le più pronte, per dinamicità e capacità di adattamento,<br />

ad affrontare la sfida.<br />

Questo primo capitolo ha lo scopo di introdurre sinteticamente, nel primo<br />

paragrafo, il contesto storico che ha portato alla nascita delle Pmi in Italia,<br />

senza tralasciare gli avvenimenti storici più significativi accaduti a livello<br />

internazionale.<br />

Nel secondo e nel terzo paragrafo viene approfondita la situazione economica<br />

odierna del Paese, facendo specifico riferimento al Rapporto Annuale<br />

ISTAT del 2003 e alla Relazione Annuale 2003 della Banca d’Italia.<br />

Il quarto paragrafo ha lo scopo di far conoscere meglio il modello di capitalismo<br />

italiano, descrivendone punti di forza e debolezza. Viene inoltre evidenziata<br />

l’importanza che le piccole e medie imprese hanno per l’economia<br />

del Paese, sia dal punto di vista occupazionale che da quello della ricchezza<br />

prodotta, con uno sguardo attento rivolto anche oltre confine.<br />

Il capitolo si conclude con una sintetica ma efficace descrizione della struttura<br />

finanziaria delle Pmi, indispensabile per comprendere l’analisi empirica<br />

effettuata nei successivi capitoli.<br />

13


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 14<br />

Cap. Primo<br />

1.1 IL CONTESTO ECONOMICO DEL PAESE DAL SECONDO<br />

DOPOGUERRA AD OGGI: CENNI STORICI<br />

1.1.1 L’Italia nell’immediato dopoguerra<br />

Alla fine del secondo conflitto mondiale l’Italia si trovava ad affrontare<br />

numerose e difficili sfide: da un punto di vista strettamente politico si trattava<br />

di dare una spinta di credibilità internazionale al Paese e alla Repubblica,<br />

la nuova forma di governo che aveva soppiantato la monarchia in seguito al<br />

Referendum popolare del 1946; da un punto di vista economico il Paese<br />

doveva rapidamente risolvere i problemi della ricostruzione, della riconversione<br />

delle industrie e della ripresa della produzione industriale; dal punto di<br />

vista sociale il problema maggiore era rappresentato dalla disoccupazione crescente<br />

e dalla miseria delle campagne, che spesso davano luogo a tensioni<br />

sociali che rischiavano d’incrinare seriamente la stabilità del Paese.<br />

All’aprirsi dell’età repubblicana il sistema industriale italiano si presentava<br />

articolato. Accanto ai settori ad alta intensità di capitale, caratterizzati da<br />

un elevato grado di concentrazione e da economie di scala e di diversificazione,<br />

erano presenti quelli nei quali flessibilità, design e qualità costituivano<br />

un fattore assai più rilevante nel determinare il successo di un’impresa.<br />

Un dualismo rinvenibile anche all’interno di alcuni comparti, come quello<br />

meccanico, dove alle grandi imprese dedite alla produzione di massa si<br />

affiancava un ampio strato di piccole e medie aziende che operava in funzione<br />

di sub-contracting oppure in nicchie specializzate. Così a fianco dei<br />

grandi oligopoli pubblici e privati si trovavano molte piccole imprese di<br />

natura semiartigianale.<br />

A livello competitivo è opportuno ricordare che nei settori più avanzati una<br />

distanza considerevole separava l’Italia dalle nazioni leaders del processo di<br />

industrializzazione (Germania, Inghilterra e Stati Uniti) in termini di capitale<br />

investito, di tecnologie applicate, di grado di specializzazione degli impianti.<br />

Se da una parte evidenti erano le difficoltà attraversate nel dopoguerra dagli<br />

organismi di maggiori dimensioni, che dovevano fronteggiare mancanza di<br />

domanda e riconversione industriale, dall’altra si proponevano nuovi ruoli e<br />

nuove prospettive per le piccole imprese, in passato non certo favorite dalla<br />

politica industriale e monetaria del Regime, che apparivano ora le meglio<br />

attrezzate a resistere nella problematica congiuntura postbellica. Al presidente<br />

dell’IRI, Giuseppe Paratore, che sottolineava la grande capacità di adatta-<br />

14


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 15<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

mento delle piccole imprese rispetto alle più grandi, faceva eco il presidente<br />

della Confindustria, Angelo Costa:<br />

“Noi non potremo mai pretendere di fare, salvo in alcuni casi, della grande<br />

industria… Viceversa, abbiamo tutti gli elementi favorevoli per uno sviluppo<br />

assai maggiore dell’attuale della piccola e media industria… Su tutta la produzione<br />

che il mercato mondiale richiede, c’è una parte di prodotti in serie –<br />

e su questo campo noi dobbiamo limitare la nostra produzione – e una parte<br />

di prodotti riservati alla piccola e media industria; è per questi che non vedo<br />

il pericolo di una concorrenza estera alla nostra produzione…” .<br />

Non tutti erano però disposti ad accettare l’idea di un’Italia orientata alla piccola<br />

impresa dedita alle produzioni di nicchia; tuttavia la presenza delle piccole<br />

e medie imprese era considerata dai più come non ideale ma inevitabile,<br />

dato il grado di inefficienza mostrato dalle grandi imprese.<br />

1.1.2 Il miracolo economico degli anni Cinquanta:<br />

quando grande era bello<br />

Il decennio che segue il 1950 vede un processo di modernizzazione socioeconomica<br />

del Paese che segna la definitiva affermazione dell’industria e del contesto<br />

urbano come forma prevalente d’insediamento. Si ripete, ma con maggiore<br />

intensità ed estensione territoriale, quanto era avvenuto all’inizio del<br />

secolo, un periodo per il quale si è parlato di rivoluzione industriale italiana:<br />

gran balzo in avanti del reddito nazionale la cui crescita annua sfiora il 6%,<br />

consistente incremento del contributo dell’industria alla formazione del prodotto<br />

interno lordo, particolare sviluppo all’interno del settore secondario dei<br />

comparti ad alta intensità di capitale e a più elevato contenuto tecnologico,<br />

raddoppio della popolazione delle città capoluogo con i centri superiori a 100<br />

mila abitanti che passano da un’incidenza del 20% al 25% del totale della<br />

popolazione. Dopo gli anni dell’autarchia e della guerra riprende dunque la<br />

rincorsa nei confronti delle nazioni leader dell’Europa occidentale.<br />

È difficile delineare con chiarezza le cause di una simile esplosione, anche se<br />

i maggiori fattori possono essere ricondotti a: voglia di riscatto e capacità di<br />

sacrificio degli italiani; basso costo della manodopera; domanda interna in<br />

forte crescita; rapido aumento delle esportazioni di merci italiane, soprattutto<br />

in seguito alla costituzione del Mercato Comune Europeo (MEC) nel 1957,<br />

all’ingresso nella Comunità Economica Europea (CEE) e all’adesione alla<br />

Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). L’apertura dell’Italia<br />

15


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 16<br />

Cap. Primo<br />

all’economia internazionale non fu però all’insegna della concorrenza e del<br />

liberismo, se si ottenne di mantenere sino agli anni sessanta i dazi più elevati<br />

rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale per i prodotti siderurgici, le<br />

automobili, gli apparecchi elettrici, i filati e se sussidi e agevolazioni creditizie<br />

e fiscali vennero concesse ripetutamente alle imprese italiane.<br />

L’avvento di un mercato di massa – conseguenza diretta dell’aumento della<br />

domanda interna ed estera – per beni essenziali al consumo di un paese che<br />

andava rincorrendo con rapidità quelli più avanzati, non poteva non trovare<br />

quale principale interlocutore la grande impresa che già dall’inizio del<br />

secolo in Italia, come del resto ovunque nel mondo industriale, dominava i<br />

settori di base, la metallurgia, la meccanica, la chimica, la produzione di<br />

energia. L’improvviso e inaspettato espandersi della domanda costituiva<br />

senza dubbio una occasione difficilmente ripetibile sia per consolidate<br />

società industriali di medie e grandi dimensioni, che da sempre lamentavano<br />

la ristrettezza del mercato interno, sia per nuovi entranti, e tuttavia al<br />

tempo stesso rappresentava una sfida di non poco conto per imprenditori e<br />

managers. Era necessario investire in nuovi impianti superando il timore<br />

della sovrapproduzione; espandere il profitto totale e abbassare quello unitario;<br />

ricercare la crescita per ridurre drasticamente i costi unitari e non<br />

come strumento di contrattazione col mondo politico; concentrare tutte le<br />

risorse su una ben definita filiera produttiva eliminando rischi di dispersione;<br />

innovare anche radicalmente il disegno organizzativo sia nella struttura<br />

generale dell’impresa sia all’interno della fabbrica, così da creare un<br />

fluido collegamento fra produzione e mercato. Le imprese di maggiori<br />

dimensioni decisero così di intraprendere investimenti di dimensioni mai<br />

viste fino ad allora; i maggiori beneficiari furono l’industria automobilistica<br />

e quella siderurgica del nord Italia, che videro moltiplicarsi i rispettivi<br />

livelli di produzione.<br />

L’affermazione e la crescita della grande impresa con i suoi stabilimenti di<br />

notevoli dimensioni e con le sue diramazioni produttive esterne fu fra le cause<br />

più importanti di grandi migrazioni e fenomeni di inurbamento (nel 1961, ad<br />

esempio, 240 mila lavoratori meridionali si trasferirono al Nord; nel decennio<br />

precedente Milano era passata da 1.270.000 a 1.580.000 abitanti e Torino da<br />

719.000 a 1.025.000).<br />

In ogni caso, non solo le grandi aziende dovettero affrontare il rapido boom<br />

della domanda; anche le imprese di nicchia e le piccole imprese furono avvantaggiate<br />

dal ciclo economico espansivo, infatti la maggiore produzione delle<br />

grandi imprese si rifletteva in un corrispondente aumento della produzione<br />

16


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 17<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

dei piccoli fornitori di semilavorati e materie prime. Le unità di produzione<br />

si allontanavano sempre più dalla figura della bottega artigiana per indirizzarsi<br />

verso una fisionomia di imprese “di fase”, da cui uscivano semilavorati in<br />

piccola serie che altre imprese, a loro volta, rifinivano, assemblavano, commercializzavano.<br />

Accanto all’espansione dei grandi gruppi si assiste così ad<br />

una moltiplicazione delle imprese di minori dimensioni, che pongono talora<br />

le premesse per la nascita di sistemi locali specializzati (distretti). Ne sono un<br />

esempio il calzaturiero, dove le numerose botteghe lasciano il posto a laboratori<br />

e piccole fabbriche, che vede in soli dieci anni raddoppiata la propria<br />

capacità produttiva; similmente il comparto mobiliero, quello della meccanica<br />

legata alla produzione di cicli e motocicli, quello alimentare e quello degli<br />

elettrodomestici, vero e proprio simbolo del miracolo economico. È importante<br />

notare che negli anni del boom non si assiste solo ad una crescita del<br />

numero delle piccole imprese ma anche all’ampliamento di alcune di esse che<br />

raggiungono livelli dimensionali medi e rilevanza a livello nazionale; i protagonisti<br />

della crescita di queste piccole imprese sono imprenditori innovatori<br />

determinati e geniali, che quasi sempre provengono dal mondo dell’artigianato.<br />

Determinante in questi percorsi di rapida ascesa imprenditoriale è l’aver<br />

imboccato con decisione la via della crescita, dell’elevata capacità produttiva<br />

e delle forti economie di scala investendo in impianti, ingrandendo gli stabilimenti<br />

esistenti oppure costruendone di nuovi. In breve tempo aziende di<br />

modeste dimensioni, magari poco più che laboratori artigiani, si trasformano<br />

in gruppi industriali di rilievo nazionale e, talvolta, internazionale con<br />

migliaia di dipendenti (vedi tabelle 1 e 2).<br />

Tabella 1<br />

Classe addetti 1951 1961 1971<br />

1-9 32,3 28,0 20,2<br />

10-49 14,1 18,9 21,8<br />

50-199 19,9 22,5 21,2<br />

>200 33,7 30,6 36,8<br />

Totale 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: S.Brusco – S.Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra<br />

agli anni Novanta, in F.Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano. Dal Dopoguerra ad<br />

oggi, Roma, Donzelli, 1997.<br />

17


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 18<br />

Cap. Primo<br />

Tabella 2 Raffronto internazionale addetti industria manifatturiera per classe<br />

dimensionale delle imprese (percentuali)<br />

1-9 10-99 100-999 Oltre Totale<br />

Italia 1961 27 26 25 22 100<br />

Germania 1962 11 21 37 31 100<br />

Regno Unito 1963 2 17 45 36 100<br />

USA 1963 3 23 43 31 100<br />

Italia 1971 19 33 31 17 100<br />

Germania 1967 10 22 37 31 100<br />

Regno Unito 1969 2 17 46 35 100<br />

USA 1969 2 20 45 33 100<br />

Fonte: M.Bellandi, Terza Italia e distretti industriali dopo la seconda guerra mondiale, in<br />

F.Amatori, D.Bigazzi, R.Giannetti, L.Segreto (a cura di), Storia d’Italia, Annali, n.15,<br />

L’Industria, Torino, Einaudi, 1999.<br />

Gli anni ’50, tuttavia, vedono anche degli appuntamenti mancati dall’industria<br />

italiana: se infatti le sfide poste dal settore automobilistico, siderurgico,<br />

degli elettrodomestici, dei mobili, alimentare erano raccolte con successo,<br />

diversamente accadeva per altre opportunità che avrebbero portato in caso di<br />

successo il nostro sistema economico al pari, se non al di sopra, di quello dei<br />

maggiori Paesi continentali: l’energia (ENI), l’elettronica (OLIVETTI), la chimica<br />

avanzata (MONTECATINI-EDISON). In questi settori il Paese non è stato<br />

in grado di emergere, vuoi per errate scelte politico-economiche vuoi per la<br />

mancanza di una managerialità sufficientemente esperta; l’insuccesso di questi<br />

tre compartimenti, fondamentali per un paese industrializzato con obiettivi<br />

di rilancio e di primato, ha contribuito fortemente a modellare la fisionomia<br />

dell’industria nazionale attorno alle industrie oggi dominanti del made in<br />

Italy, mentre il salto in una dimensione produttiva e tecnologica più avanzata<br />

e all’avanguardia, mancato allora, non era destinato ad essere riproposto<br />

anche in seguito.<br />

1.1.3 Gli anni Sessanta e Settanta: la fine dell’espansione<br />

Il decennio successivo al boom economico fu caratterizzato dalle crescenti<br />

politiche di incentivo agli investimenti nelle regioni meridionali e dal lento<br />

18


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 19<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

ma inesorabile calo della domanda. Al termine degli anni sessanta, il sistema<br />

economico italiano raggiunse un grado di pubblicizzazione che nessun paese<br />

europeo conobbe, né avrebbe mai conosciuto, con il mercato ridotto a realtà<br />

residuale. La fase di maggior espansione del sistema delle partecipazioni statali<br />

coincise tuttavia con l’inizio del declino del sistema stesso.<br />

L’avvio della politica di intervento diretto nel Mezzogiorno provocò la creazione<br />

di impianti in aree del tutto prive delle necessarie infrastrutture, con<br />

conseguenti elevate diseconomie; così se da un lato aumentavano notevolmente<br />

la capacità produttiva e il numero di occupati, dall’altro si impennavano<br />

i costi e la domanda cominciava ad essere inferiore all’offerta.<br />

Tra la fine degli anni Sessanta e l’avvio del decennio successivo vennero meno<br />

le condizioni grazie alle quali l’economia italiana aveva attraversato una fase<br />

di crescita difficilmente eguagliabile.<br />

Sopraggiunsero così molteplici problemi: le tensioni sociali in aumento si<br />

riflessero in un costo del lavoro più alto, la conflittualità sindacale crebbe, la<br />

domanda diminuì, la stabilità monetaria internazionale crollò, l’inflazione<br />

esplose. Il primo shock petrolifero (1973) colpì un sistema già in grave difficoltà:<br />

le imprese pubbliche furono così costrette a ricorrere sempre più ai<br />

fondi erogati dal Parlamento, con una conseguente perdita d’indipendenza<br />

nei confronti del potere politico; le imprese private, ancora strettamente legate<br />

a una proprietà e a una gestione familiare, presentavano un bassissimo<br />

grado di managerialità e di diversificazione produttiva e una scarsa capacità<br />

di evoluzione strategico-organizzativa (continuavano ad essere assenti strutture<br />

organizzative di tipo divisionale e le dimensioni medie delle imprese<br />

erano ridotte). Ancora una volta nella situazione di difficoltà le imprese meno<br />

danneggiate furono quelle di piccole dimensioni, che in breve tempo riuscirono<br />

a diminuire la capacità produttiva e ad adattarsi al nuovo ciclo economico.<br />

Le imprese, che trovavano sempre più difficoltà nell’adeguare i prezzi agli<br />

aumenti delle componenti fisse e variabili dei costi di produzione, affrontarono<br />

un periodo con redditività in diminuzione e quindi con sempre minore<br />

capacità di autofinanziamento e cercarono di porvi rimedio attraverso un crescente<br />

impiego della leva finanziaria e dell’indebitamento bancario. Il concludersi<br />

della favorevole congiuntura del boom economico mise in luce più<br />

problemi del sistema economico italiano: su tutti il legame tra banca e impresa<br />

che si faceva sempre più stretto e la mancanza di imprenditorialità e managerialità<br />

che pervadeva tutto il grande capitalismo privato nazionale.<br />

controllare testo<br />

19


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 20<br />

Cap. Primo<br />

1.1.4 Gli anni Ottanta: la potenza economica americana<br />

Gli anni ottanta sono gli anni che celebrano il trionfo del mercato libero, il<br />

prevalere delle politiche economiche del liberalismo “selvaggio”, che ha i suoi<br />

massimi esponenti nei governi di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di<br />

Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Gli USA conoscono una crescita<br />

impressionante, che li porta ad essere l’economia trainante del mondo. Nel<br />

1989 crolla il mondo comunista; l’evento simbolico più forte è la caduta del<br />

Muro di Berlino, ma cade anche tutta la “cortina di ferro”, e gli ex paesi<br />

comunisti iniziano un difficile percorso verso la democrazia.<br />

In Italia, sul piano economico, la scena è dominata dall’inflazione, ormai arrivata<br />

sopra il 20%, da una pesante recessione internazionale e dal conseguente<br />

dilagare della disoccupazione. Le aziende ristrutturano e si rinnovano a<br />

ritmo accelerato, crescono le eccedenze di manodopera, la cassa integrazione<br />

diventa una costante del sistema delle grandi imprese. Nel frattempo cominciano<br />

a venire ad affiorare i problemi legati al debito pubblico crescente ed<br />

alla corruzione degli ambienti politici.<br />

1.1.5 Gli anni Novanta: uno scenario complesso<br />

L’ultimo decennio del XX secolo si apre, a livello internazionale, su scenari di<br />

guerra. Si comincia con la guerra del Golfo, si prosegue con l’intervento dell’ONU<br />

in Somalia e con le guerre civili nella ex Jugoslavia, ultima quella in<br />

Kosovo nel 1999 con l’intervento della NATO. Il decennio si conclude con il<br />

dramma mediorientale: tra Israele e i palestinesi è ormai guerra aperta, il faticoso<br />

processo di pace pare definitivamente compromesso.<br />

Nell’Europa occidentale avanza il processo di integrazione. Il 7 febbraio 1992<br />

viene firmato il trattato di Maastricht: la vecchia Comunità europea (CEE)<br />

diventa Unione europea (UE), nella quale circolano liberamente merci, lavoro,<br />

risorse finanziarie. Il trattato fissa ai paesi membri le condizioni per l’ingresso<br />

nell’area della moneta comune, l’Euro, che entrerà in funzione il 1°<br />

gennaio 1999.<br />

Nell’economia mondiale regna la “globalizzazione”: l’interdipendenza tra le<br />

economie è sempre più stretta, lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione<br />

gonfia il ruolo degli scambi finanziari, minacciando la sovranità degli<br />

stati e approfondendo le disuguaglianze nel pianeta, sollevando ampi movimenti<br />

di protesta. L’Europa, e ancor più l’Italia, stentano a reggere il passo<br />

20


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 21<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

con l’economia degli Stati Uniti che, sotto la presidenza Clinton, attraversano<br />

un forte periodo di crescita. In Europa la prima parte degli anni novanta<br />

è all’insegna della stasi, solo nella seconda metà la locomotiva ricomincia a<br />

muoversi, anche se l’Italia partecipa alla crescita in misura più rallentata. Ma<br />

la disoccupazione rimane sempre alta.<br />

In Italia, sul piano economico e sociale, dominano i problemi dei conti pubblici<br />

– che pagano lo scotto di scelte politico-economiche errate e di un legame<br />

politica-industria sempre più penalizzante – della crescita, dell’occupazione<br />

e dello stato sociale. A prezzo di manovre economiche impopolari, i<br />

governi susseguitisi riescono ad avviare un lento risanamento e a rientrare nei<br />

parametri di Maastricht, cosicché il nostro Paese è tra i primi a far parte dell’area<br />

Euro. Verso la fine del decennio vi sono segnali di ripresa economica,<br />

ma la disoccupazione rimane alta anche se c’è una modesta crescita dei posti<br />

di lavoro. Sul piano industriale è un’epoca di rimescolamenti, soprattutto grazie<br />

ai processi di privatizzazione, sulla scia di una simile tendenza internazionale.<br />

I grandi monopoli pubblici passano in mani private e si cerca di sostituire<br />

alla logica dello Stato imprenditore quella della libera concorrenza e<br />

della gestione manageriale delle grandi imprese. L’ideologia predominante<br />

diventa quella del libero mercato.<br />

Il decennio si conclude drasticamente con lo scoppio della bolla internet nel<br />

2000: i mercati azionari crollano verticalmente e comincia una fase di stallo<br />

dell’economia mondiale ed europea, ulteriormente penalizzata dagli attentati<br />

terroristici di matrice islamica dell’11 settembre 2001. L’instabilità geopolitica<br />

prende il sopravvento a livello mondiale. Solo nel 2003 comincia ad esserci<br />

una leggera ripresa, trainata per l’ennesima volta dagli Stati Uniti e dai<br />

paesi emergenti; l’Europa è ancora costretta ad inseguire e, all’interno di essa,<br />

l’Italia si trova in posizione di rincalzo.<br />

21


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 22<br />

Cap. Primo<br />

1.2 LA SITUAZIONE ECONOMICA ODIERNA DEL PAESE:<br />

IL RAPPORTO ANNUA<strong>LE</strong> ISTAT 2003 1<br />

1.2.1 La congiuntura economica nel 2003<br />

• La ripresa dell’economia mondiale<br />

Nel 2003 si è conclusa la fase di sviluppo moderato dell’economia internazionale<br />

che aveva caratterizzato il biennio 2001-2002 e l’attività ha ripreso a<br />

crescere a ritmo piuttosto sostenuto. Secondo le prime stime del Fondo<br />

monetario internazionale, il Pil mondiale è aumentato, in termini reali, del<br />

2,7 per cento, con un significativo progresso rispetto all’incremento dell’1,8<br />

per cento registrato nel 2002. Anche la dinamica del commercio internazionale,<br />

già in recupero nel 2002, ha manifestato una ulteriore accentuazione.<br />

L’accelerazione della crescita aggregata ha beneficiato del progressivo rafforzamento<br />

della ripresa negli Stati Uniti e dell’emergere di un netto recupero<br />

dell’economia giapponese. Un rallentamento si è manifestato per le economie<br />

dinamiche dell’Asia, colpite dagli effetti dell’emergenza sanitaria della Sars,<br />

mentre si è accentuata l’espansione delle economie in via di sviluppo, in particolare<br />

Cina (cresciuta di oltre il 9 per cento), India e Russia. Anche nel<br />

complesso dei nuovi paesi membri dell’Ue (Npm) la crescita ha segnato un<br />

rafforzamento, raggiungendo nel 2003 il 3,6 per cento. Il ciclo internazionale<br />

ha mantenuto uno sviluppo incerto ancora nella parte iniziale del 2003,<br />

risentendo tra l’altro delle tensioni geopolitiche conseguenti alla crisi irachena.<br />

La ripresa è poi divenuta più intensa nel corso dell’estate e si è consolidata<br />

negli ultimi mesi dell’anno, anche grazie alla forte accelerazione dell’economia<br />

statunitense, robusta fin dall’inizio del 2004.<br />

• La ridotta crescita dell’Uem<br />

In questo quadro la principale eccezione è costituita dall’Uem: il ritmo annuo<br />

di sviluppo, già modesto nel 2002 (0,9 per cento), si è ulteriormente attenuato<br />

nel 2003 (0,4 per cento), anche se nella seconda parte dell’anno ha segnato<br />

un lieve recupero. Il ristagno è derivato, in primo luogo, dalla debolezza<br />

1 Fonte ISTAT, Rapporto annuale 2003, Sintesi - Progettare nella prospettiva europea: nuove<br />

opportunità di sviluppo<br />

22


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 23<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

della domanda interna. I consumi delle famiglie sono cresciuti dell’1 per<br />

cento in media d’anno, ma hanno registrato un andamento stagnante a partire<br />

dal secondo trimestre, risentendo dell’elevato grado di incertezza delle<br />

aspettative dei consumatori. La dinamica degli investimenti è rimasta negativa<br />

(-1,2 per cento) anche se in misura meno marcata rispetto al 2002 (-2,8<br />

per cento); la discesa si è progressivamente attenuata nel corso dell’anno, con<br />

una prima inversione di tendenza nel quarto trimestre. La crescita del Pil è<br />

stata ulteriormente frenata dall’evoluzione sfavorevole degli scambi con l’estero:<br />

le esportazioni nette hanno sottratto alla crescita 0,5 punti percentuali.<br />

L’apprezzamento dell’euro ha favorito, per un verso, l’assorbimento di offerta<br />

estera, dando luogo a una significativa crescita delle importazioni e, per<br />

altro verso, ha penalizzato le esportazioni, rimaste stazionarie. Nonostante la<br />

crescita modesta del prodotto, l’occupazione è aumentata dello 0,1 per cento<br />

e il tasso di disoccupazione ha cessato di aumentare a partire dalla primavera.<br />

Gli indicatori relativi ai primi mesi del 2004 segnalano la prosecuzione di<br />

una fase di moderato recupero; anche l’indicatore del clima di fiducia dei consumatori<br />

– pur restando su livelli relativamente bassi – ha continuato a registrare<br />

un lento miglioramento.<br />

L’inflazione dell’Uem è stata alimentata da spinte di origine interna, solo in<br />

parte compensate dall’effetto moderatore dell’apprezzamento del cambio.<br />

• La stagnazione dell’economia italiana<br />

La fase di stagnazione dell’economia italiana, iniziata nella seconda parte del<br />

2001 e influenzata dalla sfavorevole congiuntura mondiale del 2002, è proseguita<br />

nel 2003: il tasso di crescita del Pil, pari allo 0,4 per cento nel 2002, è<br />

stato l’anno successivo dello 0,3 per cento. Tuttavia il rallentamento è stato<br />

minore che nel resto dell’Uem e quindi il differenziale negativo di sviluppo<br />

rispetto alla media dell’area si è quasi azzerato, scendendo da 0,5 punti percentuali<br />

nel 2002 a 0,1 nel 2003.<br />

• I fattori del rallentamento<br />

La modestissima crescita dell’attività economica nel 2003 è stata il risultato<br />

di un contributo positivo (pari a 1,2 punti percentuali) delle componenti<br />

interne della domanda (al lordo della variazione delle scorte) cui ha continuato<br />

a contrapporsi un apporto negativo delle esportazioni nette (0,9 punti<br />

percentuali). I consumi delle famiglie sono cresciuti in media dell’1,3 per<br />

23


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 24<br />

Cap. Primo<br />

cento, segnando tuttavia una perdita di dinamismo nel corso dell’anno.<br />

L’incremento è stato leggermente inferiore a quello del reddito disponibile<br />

che, in termini reali, è aumentato nel 2003 dell’1,5 per cento, con un rafforzamento<br />

della crescita rispetto all’anno precedente. I comportamenti di spesa<br />

delle famiglie sono stati ancora orientati alla cautela (la propensione media al<br />

consumo è scesa dall’87,5 per cento del 2002 all’87,3). I consumi collettivi<br />

hanno proseguito l’espansione a un ritmo superiore a quelli privati, registrando<br />

nell’anno un aumento del 2,2 per cento.<br />

• La diminuzione degli investimenti<br />

Un aspetto particolarmente sfavorevole dell’evoluzione dell’economia italiana<br />

nel 2003 è costituito dalla dinamica negativa del processo di accumulazione.<br />

Dopo aver segnato un incremento contenuto nel 2002, gli investimenti fissi<br />

lordi sono diminuiti lo scorso anno del 2,1 per cento in termini reali, il peggior<br />

risultato dal 1993. La flessione delle spese per beni di investimento è<br />

stata maggiore di quella registrata nella zona euro dove, tuttavia, la tendenza<br />

negativa si era manifestata già nel 2002 con intensità ancor più accentuata. La<br />

contrazione della spesa di investimento è stata particolarmente intensa per la<br />

componente dei mezzi di trasporto, ma è risultata significativa anche per<br />

quella delle macchine e attrezzature (-4 per cento). L’inversione del ciclo dell’accumulazione<br />

è da attribuire, verosimilmente, all’incertezza sull’andamento<br />

dell’economia e all’eccesso di capacità produttiva determinato dal protrarsi<br />

della stagnazione. Solo la componente delle costruzioni ha mantenuto nel<br />

2003 una tendenza espansiva (+1,8 per cento nel complesso dell’anno).<br />

• La riduzione degli scambi con l’estero<br />

Nel nostro Paese la riduzione del saldo in volume degli scambi con l’estero è<br />

stata maggiore di quella manifestatasi nella media dell’Uem. Le esportazioni<br />

di beni e servizi, già diminuite in misura marcata nel 2002, hanno subito lo<br />

scorso anno una contrazione del 3,9 per cento: la tendenza strutturale alla<br />

perdita di quote di mercato, dovuta anche alla ridotta competitività di prezzo,<br />

è stata accentuata dall’effetto penalizzante dell’apprezzamento dell’euro.<br />

Nello stesso tempo le importazioni totali, frenate dalla caduta degli investimenti,<br />

sono diminuite dello 0,6 per cento. Il calo delle esportazioni italiane<br />

di merci è stato più accentuato sui mercati dei paesi dell’Ue15, ma anche i<br />

flussi extra-Ue hanno subito una riduzione significativa. Il saldo attivo della<br />

24


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 25<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

bilancia commerciale ha segnato un’ulteriore e più consistente riduzione,<br />

risentendo sia di un ampliamento del disavanzo nei confronti dei paesi Ue15,<br />

sia di un ridimensionamento dell’attivo verso i paesi extra-Ue. Nei primi mesi<br />

del 2004 si è assistito comunque a una ripresa di entrambi i flussi dell’interscambio,<br />

più marcata per le esportazioni.<br />

• La flessione della produzione industriale<br />

Nel 2003 il rallentamento dell’attività ha riguardato tutti i principali settori, a<br />

eccezione dell’industria delle costruzioni. Sono risultate in flessione l’attività<br />

produttiva del comparto agricolo, in forte caduta per il quarto anno consecutivo,<br />

e, in misura più contenuta, quella dell’industria in senso stretto. Anche la<br />

crescita dei servizi, già in marcato rallentamento nel 2002, si è ulteriormente<br />

indebolita. L’indice della produzione industriale ha registrato, a parità di giorni<br />

lavorativi, una nuova flessione (-0,4 per cento rispetto al 2002). L’evoluzione<br />

più recente dell’indice segnala la prosecuzione della fase di stagnazione, con<br />

qualche evidenza di ripresa nella produzione dei beni di consumo e in alcuni<br />

specifici settori (industrie del legno, della carta e dei prodotti in metallo).<br />

• La crescita occupazionale<br />

Il persistere della tendenza al ristagno dell’attività produttiva ha determinato<br />

un progressivo indebolimento della crescita del volume di lavoro assorbito dal<br />

sistema economico: nelle valutazioni di contabilità nazionale, si è registrato<br />

nel 2003 un aumento dell’input di lavoro dello 0,4 per cento e in base all’indagine<br />

sulle forze di lavoro il numero delle persone occupate è aumentato<br />

dell’1,0 per cento. Ciò è in gran parte attribuibile all’aumento degli occupati<br />

nelle classi di età 50-59 anni. A tale risultato hanno concorso sia fattori<br />

demografici sia gli effetti del graduale innalzamento dei requisiti di età e di<br />

contribuzione per l’accesso alle pensioni di vecchiaia o di anzianità. Il 75 per<br />

cento dell’aumento dell’occupazione dipendente registrato nel 2003 ha<br />

riguardato posizioni a tempo indeterminato e orario pieno. La tendenza<br />

all’aumento del tasso di occupazione è proseguita, seppure con intensità inferiore<br />

che negli anni precedenti: nel 2003 il 56 per cento della popolazione tra<br />

15 e 64 anni è risultata occupata.<br />

Nel complesso la crescita degli occupati è stata superiore a quella dell’offerta,<br />

rendendo possibile un’ulteriore riduzione del numero delle persone in cerca di<br />

occupazione. Il tasso di disoccupazione, pari all’8,7 per cento nella media del<br />

25


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 26<br />

Cap. Primo<br />

2003, ha mantenuto una tendenza discendente anche nella seconda parte dell’anno,<br />

portandosi per la prima volta al di sotto della media dell’Uem (anche<br />

l’incidenza della componente di lunga durata della disoccupazione è scesa dal<br />

59 per cento del 2002 al 57 per cento).<br />

• La moderata accelerazione delle retribuzioni<br />

La dinamica salariale ha segnato nel 2003 una moderata accelerazione, quale<br />

risultante di andamenti molto differenziati fra i settori. A livello di intera economia,<br />

le retribuzioni medie lorde per unità di lavoro, misurate nell’ambito<br />

dei conti nazionali, sono aumentate del 3,2 per cento; in termini reali, l’incremento<br />

è stato dello 0,7 per cento.<br />

Le retribuzioni pro capite hanno segnato una marcata accelerazione nella<br />

sanità, nell’istruzione e nella pubblica amministrazione e un leggero rafforzamento<br />

della dinamica nell’industria in senso stretto. In alcuni settori (soprattutto<br />

nell’ambito dei servizi), si è registrata una diminuzione delle retribuzioni<br />

in termini reali.<br />

Nel corso del 2003 l’inflazione è rimasta relativamente elevata, segnando una<br />

tendenza al rallentamento solo negli ultimi mesi dell’anno. L’indice dei prezzi<br />

al consumo è aumentato, in media d’anno, del 2,7 per cento, di 0,2 punti<br />

superiore a quello del 2002. Il differenziale rispetto al tasso di inflazione<br />

medio del resto dei paesi dell’Uem si è allargato, salendo da 0,4 punti percentuali<br />

nel 2002 a 0,9 punti nella media dello scorso anno. Il divario è diminuito<br />

alla fine del 2003, ma è tornato ad ampliarsi nei primi tre mesi del<br />

2004, in conseguenza di una discesa dell’inflazione meno veloce in Italia che<br />

nella media degli altri paesi dell’area.<br />

• La dinamica dei prezzi<br />

L’evoluzione dei prezzi al consumo è stata caratterizzata da una forte inerzia<br />

e la decelerazione si è manifestata, con intensità molto limitata, soltanto nella<br />

seconda parte dell’anno. I prezzi dei servizi e quelli dei beni di largo consumo<br />

hanno mantenuto dinamiche relativamente elevate, con notevoli differenziazioni<br />

all’interno dei comparti e aumenti rilevanti per alcuni beni e servizi,<br />

incidendo in modo consistente sui bilanci di alcuni gruppi di famiglie.<br />

La fase di discesa dell’inflazione si è attestata nei primi mesi del 2004 a un<br />

tasso tendenziale del 2,3 per cento. La recente impennata del prezzo del<br />

petrolio può però mettere a rischio la prosecuzione di tale tendenza.<br />

26


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 27<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

• La stabilità dell’indebitamento pubblico<br />

Nel quadro del sensibile peggioramento degli indicatori di finanza pubblica<br />

manifestatosi a livello europeo, il nostro Paese ha presentato nel 2003 un<br />

valore dell’indebitamento netto in rapporto al Pil (deficit/Pil) pari al 2,4 per<br />

cento, superiore di un solo decimale al risultato del 2002. Sia le uscite che le<br />

entrate delle amministrazioni pubbliche hanno registrato un forte aumento<br />

(rispettivamente del 5,8 e del 5,5 per cento).<br />

• Il miglioramento del rapporto debito pubblico/Pil<br />

Con la notevole riduzione registrata dall’incidenza dello stock complessivo<br />

del debito pubblico sul Pil (106,2 per cento nel 2003 rispetto al 108,0 per<br />

cento del 2002), l’Italia ha compiuto un ulteriore passo avanti nel percorso<br />

fissato in sede di programma di stabilità. L’incidenza del debito pubblico sul<br />

Pil dell’Italia rimane comunque la più alta tra quelle dei paesi europei.<br />

La pressione fiscale è salita in Italia dal 41,9 per cento del Pil del 2002 al 42,8<br />

per cento nel 2003, esclusivamente per effetto dei citati provvedimenti di<br />

sanatoria fiscale; al netto delle sanatorie la pressione risulterebbe pari al 41,3<br />

per cento (41,8 nel 2002). La media Uem si è attestata al 42 per cento del Pil,<br />

in leggero aumento rispetto al 2002 (41,8 per cento).<br />

Condividiamo con l’Europa a 15 la stagnazione dell’economia (sia pure con<br />

qualche timido segnale di ripresa), la difficile situazione dei conti pubblici, e<br />

diversi vincoli strutturali. In questo quadro, l’elemento nuovo sono i problemi<br />

e le opportunità dell’allargamento a 25.<br />

1.2.2 L’allargamento dell’Unione europea<br />

• Ue25: la prima area del mondo per dimensione economica<br />

Dal 1° maggio 2004, l’Unione europea ha dieci nuovi paesi membri.<br />

Con l’allargamento, l’Unione europea a 25 paesi raggiunge i 455 milioni di<br />

abitanti (75 milioni in più) e diventa la prima area per dimensione economica<br />

del mondo, con una produzione pari al 21 per cento del Pil. Le disparità<br />

all’interno dell’area, tuttavia, aumentano. I nuovi paesi membri, che pure<br />

stanno attraversando una fase di intensa ristrutturazione produttiva, in termini<br />

sia di ammodernamento tecnologico sia di ricomposizione settoriale,<br />

27


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 28<br />

Cap. Primo<br />

presentano profonde differenze strutturali rispetto all’Ue15, in termini sia<br />

economici sia demografico-sociali. Essi hanno ancora nel 2001, in media, una<br />

struttura produttiva caratterizzata da una elevata quota di occupati in agricoltura<br />

(oltre il 13 per cento contro il 4 per cento dell’Ue15), a fronte di un<br />

peso relativamente basso nei servizi. Il Pil pro capite medio dei Npm è circa<br />

il 49 per cento della media Ue15. Restano ampi, finora, anche i divari in termini<br />

di produttività, che si associano a differenze ancora più marcate riguardo<br />

ai principali indicatori del mercato del lavoro.<br />

• Le disparità regionali nell’Ue25<br />

Uno dei problemi principali dell’Europa allargata, che interessa direttamente<br />

anche il nostro Paese, è pertanto l’inasprimento delle disparità tra paesi e<br />

regioni. Le sfide per l’integrazione e la convergenza di economie così diverse<br />

sono certamente più difficili e richiedono impegni “forti” di politiche economiche<br />

e sociali. Per quanto riguarda l’Italia, occorre in particolare rilevare che,<br />

mentre nel precedente assetto le regioni più povere dell’Unione si collocavano<br />

prevalentemente nelle aree periferiche dell’Europa meridionale (incluse<br />

gran parte delle regioni del Sud del nostro Paese), con l’allargamento l’asse si<br />

sposta verso l’Europa orientale. Ciò è all’ordine del giorno delle politiche<br />

regionali e comporterà la modifica quadro delle zone beneficiarie dei Fondi<br />

strutturali. Ci si attende l’uscita dalle aree dell’Obiettivo 1 di alcune nostre<br />

regioni, ma il problema è di rilievo e più delicato di quanto si pensi, in quanto<br />

dall’analisi dei principali indicatori socioeconomici emerge per le nostre<br />

regioni meridionali, che pure hanno conseguito miglioramenti, qualche<br />

segnale di debolezza anche nei confronti dei Npm.<br />

1.2.3 La competitività del sistema delle imprese<br />

• Gli aspetti critici del sistema produttivo italiano<br />

Spesso negli anni passati si è messo in luce come gli snodi critici della competitività<br />

dell’Italia riguardassero la polverizzazione dimensionale del sistema<br />

delle imprese, il modello italiano di specializzazione e il rallentamento della<br />

dinamica della produttività.<br />

I problemi di performance del nostro apparato produttivo sono senz’altro da<br />

porre in relazione alle sue caratteristiche strutturali. Nel 2002 le imprese ita-<br />

28


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 29<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

liane dell’industria e dei servizi erano oltre 4,3 milioni di unità (oltre 100 mila<br />

in più rispetto al 2000), con un’occupazione complessiva di oltre 16 milioni<br />

di addetti (600 mila in più rispetto al 2000). L’incremento di occupazione<br />

realizzato negli ultimi anni non ha modificato la struttura dimensionale dell’apparato<br />

produttivo. La dimensione media è sostanzialmente stabile nel<br />

corso degli anni e pari a 3,7 addetti per impresa per il totale dei settori, a 8,7<br />

per il settore manifatturiero, a 2,9 per le costruzioni e a 3,0 (leggermente in<br />

crescita) per il commercio e servizi: viene dunque sostanzialmente confermata<br />

la polverizzazione della struttura produttiva italiana. La caratterizzazione<br />

dimensionale è ulteriormente accentuata dall’elevato livello di terziarizzazione<br />

(il settore dei servizi vede aumentare il proprio peso, in termini di addetti,<br />

dal 57,8 al 59,2 per cento).<br />

• La relazione tra concentrazione e redditività delle imprese<br />

I dati sui conti delle imprese confermano l’importanza della dimensione<br />

d’impresa e della concentrazione settoriale nel determinare la performance<br />

complessiva del sistema produttivo. I differenziali di produttività del lavoro a<br />

sfavore delle microimprese e di quelle con 10-19 addetti sono consistenti,<br />

anche se vi sono segnali di convergenza nella redditività delle imprese. Per<br />

altro verso, il livello e la dinamica della redditività delle imprese sono connessi<br />

soprattutto al grado di concentrazione dei singoli comparti di attività economica.<br />

Dove la concentrazione era elevata, la redditività delle imprese leader è fortemente<br />

cresciuta tra il 1998 e il 2001 e ne ha beneficiato anche l’intero settore.<br />

Il ruolo di traino delle imprese leader non ha invece caratterizzato i comparti<br />

a media concentrazione: dove questa è diminuita, la redditività è calata<br />

sia per le imprese leader, sia nella media di settore; dove essa è aumentata, solo<br />

le imprese leader ne hanno beneficiato.<br />

• La bassa diversificazione geografica e merceologica dell’export<br />

Tra gli operatori all’esportazione si rilevano differenti comportamenti in termini<br />

di diversificazione per prodotti e mercati di sbocco. Il 40 per cento è<br />

presente in un numero limitato di mercati (meno di sei), mostrando così scarsa<br />

capacità di diversificazione geografica e forte dipendenza commerciale da<br />

pochi paesi. Combinando l’analisi per prodotti con quella per mercati, il 60<br />

per cento degli operatori realizza un modesto grado complessivo di diversifi-<br />

29


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 30<br />

Cap. Primo<br />

cazione, destinando le vendite di un numero limitato di prodotti a un esiguo<br />

numero di mercati (in entrambi i casi meno di dieci). Una quota di poco<br />

superiore al 10 per cento realizza un grado elevato di diversificazione, tanto<br />

per i prodotti quanto per i mercati. Il grado di diversificazione per mercati di<br />

sbocco favorisce la permanenza degli operatori sui mercati internazionali:<br />

quelli maggiormente diversificati raggiungono tassi di persistenza compresi<br />

tra l’80 e l’85 per cento.<br />

• Il nucleo forte delle imprese esportatrici<br />

L’analisi della performance delle imprese sempre esportatrici nel periodo<br />

1998- 2001, realizzata su un panel di quasi 30 mila società di capitale, mostra<br />

la loro capacità di realizzare processi di crescita “virtuosi” e di combinare positive<br />

performance a livello di impresa con una notevole capacità di stimolo<br />

dell’occupazione. Tra queste, 6.700 sono a elevata intensità di export (due<br />

terzi del fatturato) e rappresentano il 30 per cento degli addetti e il 57 del<br />

volume di esportazioni delle imprese del panel; altre 15 mila sono a media<br />

intensità di export (40 per cento del fatturato) e rappresentano il 50 per cento<br />

degli addetti e il 40 delle esportazioni.<br />

La maggior parte delle imprese del panel (16.700 su 30 mila) riescono a trarre<br />

profitto dalla presenza sui mercati esteri, anche grazie a un assetto economico<br />

e finanziario equilibrato e a una limitata esposizione commerciale verso<br />

le aree più a rischio di crisi internazionale; in questi raggruppamenti sono<br />

significativamente rappresentati alcuni settori “forti” del made in Italy: apparecchi<br />

meccanici, apparecchiature elettriche e ottiche, prodotti in metallo,<br />

abbigliamento e confezioni. Tuttavia, altri raggruppamenti – che comprendono<br />

oltre 13 mila imprese – presentano crescenti difficoltà a competere sui<br />

mercati internazionali, in termini sia di strategie commerciali sia di equilibri<br />

economico-finanziari interni; tra questi, invece, sono presenti molte imprese<br />

dei settori più tradizionali, quali alimentari, mobilio e calzature.<br />

• Il diverso contributo dei fattori produttivi alla crescita<br />

Quanto, infine, al rallentamento della dinamica della produttività e ai fattori<br />

che determinano la crescita dell’output, le analisi mettono in evidenza che si<br />

rafforzano ulteriormente i contributi alla crescita del fattore capitale e, limitatamente<br />

ai servizi, del fattore lavoro. Il contributo della produttività totale<br />

dei fattori continua invece a diminuire in tutti i principali settori di attività<br />

30


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 31<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

economica, segnalando la scarsa dinamicità del sistema produttivo italiano<br />

nel promuovere le proprie capacità di innovazione considerate in senso lato<br />

(processi, prodotti, mercati, forme organizzative).<br />

• Gli effetti della scarsa produttività totale dei fattori<br />

La produttività totale dei fattori riflette un insieme vasto di fenomeni non<br />

direttamente misurabili: innovazioni nel processo produttivo, miglioramenti<br />

nell’organizzazione del lavoro e nelle tecniche manageriali, miglioramenti<br />

nell’esperienza e livello di istruzione raggiunto dalla forza lavoro, mutamenti<br />

nella composizione dei beni capitali utilizzati, nonché miglioramenti nella<br />

loro qualità, economie di scala, esternalità, riallocazione dei fattori verso utilizzi<br />

più produttivi. La sua scarsa dinamicità appare il principale responsabile<br />

del rallentamento del tasso di crescita registrato dall’economia italiana a<br />

partire dalla seconda metà degli anni Novanta.<br />

• La posizione critica dell’Italia per spesa in R&S<br />

Il quadro della spesa per R&S in Italia si qualifica, nell’ambito di una generale<br />

debolezza del sistema europeo, per ulteriori elementi critici in termini sia<br />

di livelli e dinamicità dell’aggregato nel suo complesso, sia dei settori istituzionali<br />

che finanziano la spesa. A fronte di una incidenza media europea della<br />

spesa in R&S sul Pil pari al 2 per cento, i paesi che mostrano significativi differenziali<br />

negativi sono Grecia, Portogallo, Spagna e Italia (meno 0,9 punti<br />

percentuali rispetto alla media). La posizione dell’Italia è dunque particolarmente<br />

critica, anche perché l’intensità di R&S cresce meno che negli altri<br />

paesi: nel periodo 1997-2001 è cresciuta al tasso medio annuo del 15 per<br />

cento in Grecia, del 4 per cento in Portogallo e Spagna e soltanto dello 0,5<br />

per cento in Italia. Nel nostro Paese, inoltre, il deficit di spesa in R&S delle<br />

imprese è soltanto in parte compensato dai finanziamenti pubblici: le imprese<br />

attivano soltanto il 39 per cento della spesa, mentre il settore pubblico ne<br />

finanzia il 56 per cento. L’Italia è dunque particolarmente lontana dagli ambiziosi<br />

obiettivi di Lisbona, secondo i quali i paesi dell’Unione dovrebbero raggiungere<br />

entro il 2010 un’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo pari al<br />

3 per cento del Pil, con una quota attivata dalle imprese pari ai due terzi.<br />

La R&S non è l’unico modo di introdurre innovazione nei processi produttivi:<br />

anche gli investimenti in macchinari innovativi contribuiscono ad aggiornare<br />

i processi produttivi. L’evoluzione delle principali componenti della<br />

spesa per investimenti fissi lordi nel periodo 1993-2003 mostra, nonostante<br />

la significativa flessione registrata dalle macchine e attrezzature nell’ultimo<br />

31


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 32<br />

Cap. Primo<br />

anno, una crescita reale superiore alla media per i tipi di beni più strettamente<br />

connessi ai processi di accumulazione e potenziale adozione di nuove tecnologie<br />

incorporate nel capitale fisico. Le macchine e attrezzature registrano<br />

una crescita reale pari al 42,3 per cento; i beni immateriali addirittura al 77,5,<br />

anche se la loro quota resta molto bassa.<br />

• La debole spesa in innovazioni complesse di prodotto e di processo<br />

La propensione delle imprese italiane all’innovazione di prodotto e di processo<br />

risulta – ancora una volta – influenzata negativamente dalla specializzazione<br />

settoriale e dal prevalere delle piccole dimensioni. Complessivamente,<br />

nel triennio 2000-2002 fa innovazione di prodotto e/o di processo, tra le<br />

imprese con almeno 10 addetti, il 38 per cento di quelle dell’industria (quota<br />

stabile rispetto al triennio precedente) ma soltanto il 17 di quelle dei servizi<br />

(quattro punti in meno del triennio precedente).<br />

La diffusione delle attività di innovazione tra le imprese con almeno 10<br />

addetti tende a concentrarsi in specifici segmenti dimensionali e settoriali,<br />

senza segnali di recupero nel tempo. Nella manifattura una quota consistente<br />

delle imprese innovatrici (43,8 per cento) segue pattern di innovazione<br />

incrementale, con miglioramenti costanti ma limitati, ma con scarsa integrazione<br />

con attività di ricerca e bassa propensione alla cooperazione. Soltanto<br />

un terzo delle imprese innovatrici realizza forme di innovazione più complesse,<br />

che includono una significativa propensione a stringere accordi di collaborazione,<br />

a effettuare investimenti in R&S, ad affiancare alle innovazioni<br />

tecnologiche quelle manageriali, organizzative e di marketing. Nei servizi il<br />

gruppo con pattern di innovazione più consolidata e intensa copre il 31 per<br />

cento circa delle imprese innovatrici ed è formato prevalentemente da grandi<br />

e medie imprese che offrono servizi finanziari e assicurativi.<br />

Segnali più positivi emergono dai dati sull’uso delle tecnologie dell’informazione<br />

e comunicazione nelle imprese italiane. La loro diffusione tende a stabilizzarsi<br />

sui livelli già raggiunti dagli altri principali paesi dell’Ue15, anche<br />

se permangono alcuni ritardi nelle microimprese.<br />

• Il contributo delle imprese a controllo estero all’economia italiana<br />

Apporti significativi al miglioramento della produttività del sistema delle<br />

imprese non sembrano invece derivare dalla presenza di imprese a controllo<br />

estero (circa 11 mila) – per la prima volta esplorata nelle rilevazioni dell’Istat<br />

– che invece contribuisce significativamente ai principali aggregati economici:<br />

7 per cento degli addetti, 14 del fatturato e 12 del valore aggiunto. Il 32<br />

32


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 33<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

per cento delle multinazionali è attivo nella manifattura, il 29 nel commercio<br />

e ancora il 29 nelle attività immobiliari, informatiche, professionali e di ricerca.<br />

Le imprese a controllo estero sono prevalentemente di grandi dimensioni.<br />

L’elevato grado di frammentazione del sistema produttivo italiano è di<br />

ostacolo all’attrazione di investimenti diretti esteri nel nostro Paese: infatti le<br />

multinazionali hanno un ridotto grado di penetrazione nei settori caratterizzati<br />

da dimensioni medie più contenute. Inoltre, l’assenza di rilevanti differenziali<br />

di produttività tra imprese a controllo estero e valori medi di settore,<br />

specie nell’high-tech, fa ritenere che i processi di trasferimento internazionale<br />

di nuove competenze e conoscenze abbiamo portata ridotta.<br />

1.2.4 I cambiamenti del mercato del lavoro<br />

• Il lungo ciclo occupazionale dal 1995 al 2003<br />

Il rallentamento della produttività – oltre che un aspetto critico della performance<br />

e competitività del sistema produttivo – è anche una delle caratteristiche<br />

del lungo ciclo occupazionale italiano, iniziato a ottobre del 1995.<br />

D’altro canto, nel periodo 1995-2003 si sono conseguiti risultati straordinari<br />

in termini di crescita dell’occupazione residente (oltre due milioni di occupati<br />

aggiuntivi, il 10 per cento in più), con un aumento del tasso di occupazione<br />

di quasi 7 punti percentuali. Per le donne, la crescita dell’occupazione è<br />

stata superiore al 19 per cento (quasi 1,4 milioni di occupate in più), e la crescita<br />

del tasso di occupazione è stata di 7,3 punti percentuali.<br />

Come già rilevato nello scorso Rapporto annuale, in presenza di una crescita<br />

economica moderata, il ciclo occupazionale è stato caratterizzato da un consistente<br />

aumento della reattività del mercato del lavoro e dell’elasticità dell’occupazione<br />

rispetto al Pil, il che ha comportato prima un rallentamento<br />

della produttività del lavoro e poi, negli ultimi due anni, una contrazione.<br />

• Il contributo del part-time alla riduzione della produttività del lavoro<br />

Una parte consistente della perdita di produttività, se misurata in termini di<br />

prodotto per occupato, va attribuita alla forte crescita dell’occupazione a<br />

tempo parziale. Tuttavia, anche se misurata in termini di prodotto per ora<br />

lavorata, nel settore privato essa subisce tra 1998 e 2001 un lieve decremento.<br />

Il risultato è fortemente condizionato da effetti di composizione settoriali<br />

e territoriali: l’occupazione è infatti cresciuta soprattutto nei settori dei servizi<br />

a produttività bassa o stagnante (servizi alle imprese, alberghi, ristoranti<br />

33


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 34<br />

Cap. Primo<br />

e pubblici esercizi, sanità, altri servizi sociali e personali) e nelle imprese del<br />

Mezzogiorno. Una volta corretta per questi effetti di composizione, legati al<br />

processo di terziarizzazione dell’economia, la crescita della produttività oraria<br />

risulta positiva, anche se comunque molto ridotta. La perdita complessiva<br />

di produttività non dipende dunque dalla generale minore performance delle<br />

singole imprese, quanto dall’effetto del concentrarsi della creazione di nuova<br />

occupazione in segmenti settoriali, dimensionali e territoriali caratterizzati da<br />

bassi livelli “intrinseci” di produttività.<br />

• Il notevole aumento degli imprenditori individuali italiani…<br />

Oltre ai lavoratori atipici, in forte crescita sono anche gli imprenditori individuali,<br />

una figura che svolge un ruolo centrale nei nuovi rapporti di lavoro.<br />

Il segnale non è però univocamente positivo: gli imprenditori individuali,<br />

infatti, possono essere considerati come una manifestazione di nuove e diffuse<br />

energie imprenditoriali; tuttavia, tra loro vanno annoverati anche alcuni<br />

segmenti deboli del mercato del lavoro, solo formalmente indipendenti ma<br />

privi delle tutele accordate al lavoro dipendente. Tra il 1996 e il 2001 la significativa<br />

crescita di queste figure si è concentrata soprattutto nel segmento<br />

femminile e nelle età più giovani. Nell’industria in senso stretto, l’imprenditoria<br />

femminile è rilevante nei settori tradizionali (alimentare, tessile e abbigliamento);<br />

nei servizi alle imprese, risulta particolarmente significativa e in<br />

crescita nel settore ricerca e sviluppo.<br />

• …e di quelli nati all’estero<br />

Una novità di particolare rilevanza è la presenza di imprenditori nati all’estero.<br />

Nel periodo considerato (1996-2001) il numero di costoro è più che triplicato,<br />

fino a raggiungere il 4 per cento degli imprenditori individuali. La crescita<br />

è stata estremamente rilevante per quelli nati in Asia; incrementi notevoli<br />

si presentano anche per quelli provenienti dall’Africa. Questi imprenditori<br />

svolgono la loro attività prevalentemente nel macrosettore del commercio,<br />

alberghi e pubblici esercizi, mentre è scarsa la presenza nell’industria, a eccezione<br />

di quelli provenienti da paesi asiatici, attivi nell’abbigliamento e nell’industria<br />

conciaria. L’attività degli imprenditori provenienti dai paesi esterni<br />

all’Europa a 15 e, parzialmente, dal Nord Africa è invece concentrata nel<br />

settore delle costruzioni.<br />

34


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 35<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

1.3 L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA PRODUTTIVO ITALIANO 2<br />

1.3.1 Imprese e loro dimensione media in Italia<br />

Rispetto al Censimento del 1991 spicca una diminuzione dell’11 per cento,<br />

per il totale dell’economia, del numero medio di addetti per impresa, confermando<br />

la tendenza alla frammentazione produttiva in atto dagli anni settanta.<br />

La riduzione della dimensione media delle imprese è attribuibile al peso<br />

più elevato di quelle con un solo addetto. Se si esclude la classe con un solo<br />

addetto, la dimensione media delle imprese italiane è di 7,9 dipendenti, lievemente<br />

in crescita rispetto al Censimento del 1991 (7,6 dipendenti).<br />

Le imprese con un numero di addetti compreso tra 20 e 249 hanno registrato<br />

un lieve aumento, rispetto al 1991, della dimensione media (da 46,2 a 48,0<br />

addetti); al contrario, nella grande impresa (oltre 500 addetti) il numero<br />

medio di addetti è diminuito di circa il 13 per cento, a 1.875,3 unità; il numero<br />

di imprese in questa classe dimensionale è cresciuto sensibilmente (il<br />

numero di grandi imprese è salito a 1.338 (1.184 nel 1991): circa la metà è<br />

localizzata nel Nord Ovest e meno di un quinto nel Nord Est).<br />

Negli anni novanta, anche in seguito all’introduzione delle nuove tecnologie<br />

digitali, è proseguito il decentramento produttivo nell’industria che si è riflesso,<br />

come in altri paesi avanzati, in un aumento del peso delle piccole imprese<br />

e in una diminuzione di quello delle grandi. Tra il 1992 e il 1997, ultimo anno<br />

per il quale sono disponibili dati comparati, la quota di occupazione nelle piccole<br />

imprese, al netto del lavoro autonomo, è cresciuta in Italia, Francia,<br />

Germania e Regno Unito (vedi tab.3). Il sistema produttivo italiano si discosta<br />

da quello degli altri grandi paesi europei per la netta prevalenza delle<br />

imprese di minore dimensione e per il ridotto peso delle grandi imprese.<br />

L’elemento comune ai quattro grandi paesi europei è costituito dal peso delle<br />

medie imprese (50-249 dipendenti), pari a circa un quinto del totale degli<br />

occupati. La peculiarità dell’industria italiana sembra essersi accentuata nel<br />

2001: il 60 per cento dei dipendenti dell’industria (esclusi i lavoratori autonomi)<br />

è impiegato nelle piccole imprese (da 1 a 49 dipendenti) e il 21 per<br />

cento in quelle con oltre 250 dipendenti.<br />

2 Fonte Banca d’Italia, Relazione Annuale 2003, in particolare Relazione economica,<br />

pagg. 128-203<br />

35


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 36<br />

Cap. Primo<br />

Tabella 3<br />

Paesi<br />

STRUTTURA DIMENSIONA<strong>LE</strong> DELL’INDUSTRIA<br />

NEI GRANDI PAESI EUROPEI<br />

(quota di occupazione per classe dimensionale)<br />

Piccole imprese (1)<br />

(da 1 a 49 dipendenti)<br />

Medie imprese<br />

(da 50 a 249 dipendenti)<br />

Grandi imprese<br />

(250 dipendenti e oltre)<br />

1992 1997 (2) 1992 1997 (2) 1992 1997 (2)<br />

Italia 52,5 53,2 18,9 19,6 28,5 27,2<br />

Francia 25,8 31,3 21,2 20,4 52,9 48,4<br />

Germania 21,7 23,8 15,8 (3) 15,9 62,6 (4) 60,3<br />

Regno Unito 22,8 24,0 21,7 21,5 55,5 54,6<br />

Fonte: Eurostat, Enterprises in Europe, IV, V, VI Report.<br />

(1) Sono escluse le imprese individuali e i liberi professionisti (o dipendenti). - (2) I dati per<br />

l’italia e per la Francia si riferiscono al 1996. - (3) Questo dato per la Germania si riferisce<br />

alla classe da 50 a 199 dipendenti. - (4) Questo dato per la Germania si riferisce alla classe<br />

con 200 dipendenti e oltre.<br />

Il segmento delle imprese medie sembra costituire un punto di forza dell’industria<br />

italiana. Da una recente indagine di Mediobanca e dell’Unioncamere 3<br />

sull’universo delle medie imprese industriali italiane (società di capitali con<br />

un numero di addetti compreso tra 50 e 499, un fatturato tra 13 e 260 milioni<br />

di euro e una compagine societaria autonoma) emergono circa 3.700 aziende<br />

medie che nel 1999 occupavano 482.000 addetti pari al 10 per cento dell’occupazione<br />

manifatturiera italiana e i cui risultati di gestione, nel periodo<br />

1996-2000, sono stati positivi. Circa nove decimi di queste imprese appartengono<br />

alla classe dimensionale da 50 a 249 addetti. Si tratta prevalentemente<br />

di imprese esportatrici specializzate nelle lavorazioni tipiche del made<br />

in Italy, con una situazione finanziaria relativamente solida. Nel periodo<br />

1998-2000 l’indagine mostra una tendenza alla crescita dimensionale di queste<br />

medie imprese efficienti. In particolare, nel campione vi sarebbero stati<br />

flussi cospicui di piccole imprese entrate a far parte della classe media e<br />

imprese medie diventate grandi. Sarebbero stati poco frequenti invece i casi<br />

di piccole imprese che hanno raggiunto direttamente la classe dimensionale<br />

3 Fonte Centro Studi di Unioncamere e Ufficio Studi di Mediobanca, Le medie imprese industriali<br />

italiane, 2003<br />

36


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 37<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

maggiore. Le imprese medie sembrano avere trovato senza troppe difficoltà<br />

le risorse finanziarie necessarie e mantenuto una quota di liquidità pari a<br />

quella dei grandi gruppi. I mezzi finanziari esterni sarebbero provenuti in<br />

larga misura dal settore bancario e il costo medio del debito, che si caratterizza<br />

per una prevalenza di passività a breve termine, sarebbe stato equivalente<br />

a quello delle grandi società.<br />

1.3.2 Gli assetti proprietari delle imprese italiane<br />

Alcune indicazioni relative alle caratteristiche del governo societario delle<br />

imprese italiane provengono dall’Indagine della Banca d’Italia sulle imprese<br />

industriali, che nel 2003 ha riguardato un campione di oltre 1.800 imprese<br />

italiane con più di 50 addetti (quasi interamente costituito da società non<br />

quotate in borsa). I risultati evidenziano, rispetto a dieci anni prima (allorché<br />

venne condotta dalla Banca d’Italia per la prima volta un’indagine sulla proprietà<br />

delle imprese italiane), una sostanziale permanenza delle caratteristiche<br />

degli assetti di controllo. Nelle imprese del campione l’azionista<br />

principale nel 2003 detiene in media il 66,2 per cento del capitale, in linea<br />

con i valori del 1993. L’impresa mediana ha nel 2003 circa 3 soci. La concentrazione<br />

resta elevata, anche se non dissimile – per le società non quotate<br />

– da quanto si registra ad esempio in Francia, uno dei pochi paesi per cui sono<br />

disponibili dati confrontabili.<br />

La percentuale di imprese nelle quali l’azionista principale detiene la maggioranza<br />

assoluta dei voti aumenta al crescere della dimensione dell’impresa<br />

stessa (dal 59 per cento in media per le imprese fino a 200 addetti all’87 per<br />

cento per quelle con oltre 1.000 addetti). Tale evidenza è da ricondursi alla<br />

maggiore diffusione, tra le grandi imprese, dei gruppi in cui il controllo viene<br />

esercitato con quote elevate di proprietà.<br />

1.3.3 Considerazioni finali sull’economia italiana<br />

L’economia italiana, con uno sviluppo pari in media all’1,4 per cento all’anno,<br />

nell’ultimo quinquennio, si situa, come la Germania, nettamente al di<br />

sotto della media europea.<br />

La crescita dei consumi è risultata debole, ma non fuori linea rispetto agli altri<br />

paesi dell’area dell’euro. Dal 1999 gli investimenti in costruzioni, in partico-<br />

37


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 38<br />

Cap. Primo<br />

lare nel settore residenziale, hanno ripreso a espandersi in relazione al basso<br />

livello dei tassi di interesse. L’ammontare dei prestiti bancari per l’acquisto di<br />

abitazioni nell’ultimo quinquennio è più che raddoppiato; l’aumento dei<br />

prezzi degli immobili, pur considerevole, grazie anche alla risposta dell’offerta<br />

è inferiore a quello rilevato in altri sistemi economici, in Europa e<br />

nell’America del Nord.<br />

La perdita di competitività nei confronti dei paesi sviluppati e ancor più delle<br />

economie emergenti si conferma l’elemento di maggiore debolezza del nostro<br />

sistema economico. In cinque anni la produzione industriale è aumentata soltanto<br />

dello 0,9 per cento.<br />

Gli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto hanno rallentato<br />

dal 2001; nell’ultimo biennio sono diminuiti di oltre il 5 per cento.<br />

Le esportazioni di beni e servizi si sono ridotte in quantità del 3,4 per cento<br />

nel 2002 e ancora del 3,9 nel 2003; in cinque anni sono aumentate soltanto<br />

del 3,6 per cento. La quota dei prodotti italiani sul commercio mondiale, a<br />

prezzi costanti, dal 4,5 per cento nel 1995 è discesa al 3,9 nel 1998 e al 3,0<br />

nel 2003.<br />

La riduzione della quota a prezzi correnti è minore; le imprese, in relazione<br />

anche al rafforzamento del cambio, hanno mantenuto costanti i prezzi di vendita,<br />

ma a scapito delle quantità vendute all’estero.<br />

Le esportazioni italiane sono concentrate in settori tradizionali e di lusso; si<br />

affermano per la qualità della lavorazione e per lo stile. Le vendite nel comparto<br />

del cuoio e calzature e in quello del mobile risultano pari a circa il 14<br />

per cento del totale mondiale. Per i minerali non metalliferi la quota è intorno<br />

al 12 per cento; per il settore tessile e dell’abbigliamento è del 7 per cento.<br />

Si tratta di settori maturi che nel complesso rappresentano poco più di un<br />

decimo degli scambi mondiali.<br />

È scarsa la produzione di beni tecnologicamente avanzati, per i quali la<br />

domanda internazionale si espande più rapidamente della media.<br />

Rimane stabile, intorno al 10 per cento, la presenza nelle vendite di macchinari<br />

e apparecchi meccanici. Per i mezzi di trasporto la nostra quota di esportazioni<br />

è scesa dal 3,7 nel 1998 al 3,3 per cento nel 2003.<br />

38


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 39<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

1.4 <strong>LE</strong> <strong>PMI</strong> NELLO SCENARIO ITALIANO<br />

1.4.1 Il modello di capitalismo italiano<br />

In genere, nella letteratura si ritiene che gli attuali sistemi economici delle<br />

nazioni più sviluppate si possano ricondurre a due modelli fondamentali: il<br />

capitalismo neoamericano, tipico del Nord America e della Gran Bretagna, e<br />

il capitalismo renano, tipico dell’Europa centro-settentrionale e del<br />

Giappone.<br />

Il capitalismo neoamericano è la manifestazione del liberismo e delle strutture<br />

del mercato finanziario, dove la Borsa è l’elemento centrale del sistema<br />

economico. Gli azionisti non sono coinvolti direttamente nella gestione delle<br />

imprese e si concentrano invece sulla ricerca di un profitto nel breve periodo<br />

(sotto forma di dividendi e di capital gain). La proprietà è estremamente<br />

variabile e non coincide quasi mai con il controllo, affidato generalmente a<br />

manager esterni. L’importanza della piccola e media impresa, come numero<br />

di addetti impiegati e come ricchezza prodotta, è piuttosto bassa se confrontata<br />

con modelli di capitalismo alternativi, come quello renano o ancor di più<br />

quello italiano.<br />

Il capitalismo renano può essere descritto come un modello di economia<br />

sociale di mercato: in esso l’impresa si manifesta non solo come insieme di<br />

mezzi ordinati al conseguimento di un obiettivo reddituale, ma anche come<br />

comunità di persone, tutte portatrici di interessi differenti. La Borsa ha scarsa<br />

rilevanza, il capitale di rischio è stabile ed è gestito in larga misura dalle<br />

banche e da investitori istituzionali, che sono presenti direttamente nel governo<br />

delle imprese. Inoltre, il personale ha notevole importanza nella gestione<br />

aziendale. Piccole e medie imprese rivestono un ruolo rilevante sia per numero<br />

di occupati che per ricchezza generata.<br />

Il capitalismo italiano presenta alcuni elementi di somiglianza con il modello<br />

renano, come ad esempio la stabilità della proprietà, l’intervento delle istituzioni<br />

finanziarie, la sostanziale ininfluenza del mercato borsistico. Tuttavia,<br />

il sistema delle imprese italiane presenta aspetti per certi versi unici che ne<br />

impediscono l’assimilazione ad altre realtà:<br />

– peso estremamente elevato delle piccole e medie imprese sul prodotto<br />

interno lordo e sul numero di imprese, soprattutto nelle attività industriali;<br />

– larga diffusione, tra le Pmi, di un modello di gestione familiare (fig.1),<br />

39


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 40<br />

Cap. Primo<br />

basato sull’azione diretta dell’imprenditore, affiancato da dirigenti solo in<br />

caso di dimensioni di un certo rilievo (coincidenza tra proprietà e controllo);<br />

Figura 1<br />

Società e quasi<br />

società non<br />

finanziarie<br />

24,0%<br />

Distribuzione della proprietà nelle imprese italiane*<br />

Estero<br />

6,2%<br />

Famiglie<br />

53,4%<br />

Assicurazioni<br />

2,3%<br />

Istituzioni di<br />

credito<br />

Amministraz.<br />

pubbliche<br />

* Note: Famiglie include le imprese individuali; Amministrazioni pubbliche include amministrazioni<br />

centrai, amministrazioni locali, enti di previdenza; Istituzioni di credito include la<br />

Banca Centrale; Società e quasi società non finanziarie include le società non finanziarie a prevalente<br />

partecipazione statale. FONTE:BARCA ET AL. (1994)<br />

– per quanto riguarda le grandi imprese, concentrazione della proprietà in<br />

poche mani, con prevalenza di controllo familiare, e presenza di incroci<br />

azionari tra dieci/quindici grandi famiglie industriali; controllo stabile;<br />

– forte presenza storica dello Stato (il cosiddetto Stato imprenditore) e degli<br />

enti locali, proprietari fino ad anni recenti di una quota non irrilevante<br />

delle grandi imprese.<br />

La quotazione sul mercato azionario è limitata a poche centinaia di società,<br />

così che restano al di fuori della Borsa molte aziende di dimensioni ragguardevoli.<br />

Le cause principali dello scarso uso del mercato azionario sono riconducibili<br />

agli elevati costi per la quotazione nonché alla complessità burocratica<br />

e documentale da rispettare. Si nota la mancanza di public company di tipo<br />

anglosassone. Il sistema bancario non partecipa direttamente al controllo<br />

delle imprese, ma le influenza in vari modi in quanto principale fornitore di<br />

capitali a breve e medio termine. Comunque, le banche italiane, a differenza<br />

40


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 41<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

del caso tedesco, non esercitano ingerenze nella gestione se non in situazione<br />

di crisi. Altra peculiarità, la modesta presenza negli assetti proprietari delle<br />

società quotate di istituzioni finanziarie specializzate nella funzione di intermediazione<br />

proprietaria, ossia società che raccolgono capitali di famiglie e lo<br />

investono nelle imprese con finalità esclusivamente patrimoniali; ciò priva la<br />

nostra economia di uno strumento fondamentale per una raccolta significativa<br />

di capitali di rischio.<br />

Sul piano storico, il processo di industrializzazione è incominciato solo sul<br />

finire del XIX secolo e ha seguito un modello di sviluppo incentrato sui settori<br />

dell’industria pesante, sostenuti dalle commesse pubbliche e al riparo dei<br />

dazi. Alle origini, pertanto, il nostro modello economico fu quello del capitalismo<br />

di Stato. Lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra non tocca in<br />

maniera significativa le caratteristiche di fondo del nostro capitalismo, in cui<br />

si osservano ancora il blocco del mercato della riallocazione proprietaria delle<br />

grandi imprese a causa della presenza di grandi gruppi familiari, un persistente<br />

ruolo fondamentale dello Stato per mezzo delle grandi imprese pubbliche<br />

e una forte regolamentazione del mercato in vari settori, almeno fino<br />

al momento delle privatizzazioni della seconda metà degli anni novanta.<br />

Si tratta, nel complesso, di un modello atipico, non riconducibile né al sistema<br />

neoamericano, incentrato sulla Borsa e sulle public company, né al sistema<br />

renano, dove le banche svolgono un’attività di controllo, selezione e correzione<br />

della gestione delle imprese. L’atipicità italiana si concretizza nel<br />

mancato sviluppo della Borsa e nella sottocapitalizzazione delle imprese. Le<br />

banche si orientano a una mera funzione di intermediazione evitando, almeno<br />

fino ad oggi, coinvolgimenti diretti nella vita delle imprese. Solo recentemente,<br />

con la realizzazione di alcune privatizzazioni e come effetto del processo<br />

di globalizzazione e della formazione di un’Europa allargata – oltre che<br />

in seguito all’approvazione di nuove normative, su tutte Basilea II – il modello<br />

italiano sembra iniziare a perdere alcune di queste caratteristiche, anche se<br />

la prevalenza delle piccole e medie imprese, della gestione familiare e del<br />

finanziamento attraverso il debito (nelle Pmi per oltre il 60% a breve termine<br />

4 ) sono caratteristiche destinate a durare ancora a lungo.<br />

4 Vedi capitolo 2.<br />

41


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 42<br />

Cap. Primo<br />

1.4.2 Il sistema imprenditoriale italiano: punti di forza e di<br />

debolezza<br />

Il capitalismo italiano sta attraversando una difficile fase di passaggio da un<br />

sistema chiuso e poco abituato alla concorrenza ad un sistema sempre più globale<br />

e competitivo, nel quale gli standard qualitativi tipici del made in Italy<br />

non bastano più a reggere l’avanzata dei competitors.<br />

Sono molteplici i punti di forza su cui il sistema può fare affidamento.<br />

Innanzitutto il patrimonio imprenditoriale, un vero e proprio giacimento di<br />

persone con capacità di iniziativa e spirito di sacrificio, che rappresenta una<br />

parte importante della ricchezza nazionale. Basti ricordare che l’Italia è uno<br />

tra i paesi che ogni anno crea il maggior numero di nuove imprese, imprese<br />

che hanno tra i più alti tassi di sopravvivenza.<br />

Poi quella combinazione di fattori che hanno costituito, almeno fino ad oggi,<br />

il successo del made in Italy nel mondo: la passione per il prodotto, la sensibilità<br />

al design, la qualità costruttiva, la competenza tecnica, l’attenzione al<br />

cliente.<br />

Altro elemento importante il modello di capitalismo famigliare, insieme fattore<br />

di successo ma anche fonte di rilevanti squilibri per il sistema produttivo<br />

italiano; indipendentemente dalla forma di controllo e gestione dell’azienda,<br />

ciò che conta particolarmente è il modo di fare impresa, e cioè la capacità di<br />

confrontarsi sui mercati, la volontà di affrontare la sfida della crescita, la trasparenza,<br />

il rigore nel rispettare le regole dell’etica, la voglia di “fare impresa”.<br />

Definiti i punti di forza, è fondamentale riconoscere e approfondire i temi<br />

riguardanti le debolezze del modello di sviluppo dell’impresa italiana.<br />

Lo scenario italiano è caratterizzato da una miriade di micro e Pmi che<br />

influenzano in maniera preponderante la performance dell’economia italiana<br />

e da una consistente diminuzione del peso delle grandi aziende oltre che da<br />

una difficile ed ancora troppo rara crescita dimensionale dalla categoria delle<br />

piccole a quella delle medie aziende e da questa a quella delle grandi dimensioni<br />

(fig. 2). Il successo e la cultura delle Pmi sono ancora strettamente legati<br />

alla persona dell’imprenditore ed associati alla sua esperienza e, solo in alcuni<br />

casi, anche a quella dei suoi più stretti collaboratori: questo crea una certa<br />

resistenza al cambiamento ed alla crescita. Permane quindi l’intrinseca difficoltà<br />

a superare una visione strettamente famigliare dell’impresa; spesso non<br />

viene nemmeno presa in considerazione la possibilità di arricchire le doti<br />

imprenditoriali del fondatore con le competenze professionali di un management<br />

che possa garantire, oltre al successo, la crescita.<br />

42


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 43<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

Figura 2 Principali indicatori imprese italiane<br />

100%<br />

5,2%<br />

0,1%<br />

0,3%<br />

17,8%<br />

27,5%<br />

80%<br />

12,5%<br />

60%<br />

40%<br />

94,4%<br />

21,9%<br />

16,6%<br />

23,4%<br />

Grande (>250 dip.)<br />

Media (50-249 dip.)<br />

Piccola (10-49 dip.)<br />

Micro (1-9 dip.)<br />

47,8%<br />

20%<br />

32,5%<br />

0%<br />

Numero imprese Numero dipendenti Valore aggiunto<br />

Fonte: Eurostat, settembre 2002<br />

In generale, le imprese italiane sembrano avere poche ambizioni e scarsa propensione<br />

all’innovazione; infatti sono alquanto marginali nel settore della<br />

media tecnologia, con eccezione di qualche nicchia particolare, e sono quasi<br />

scomparse nell’high tech; inoltre, la maggior parte delle altre imprese opera<br />

nei settori maturi ad alta intensità di lavoro non qualificato, facilmente terziarizzabile<br />

anche nei paesi in via di sviluppo (es. calzaturiero, abbigliamento,<br />

tessile, mobili, ecc.). Se analizziamo le esportazioni, abbiamo la conferma<br />

che il modello è caratterizzato da forte presenza nei settori tradizionali – ad<br />

alta intensità di lavoro non qualificato – , da estrema debolezza nei settori ad<br />

alta intensità di lavoro qualificato e ad alto contenuto tecnologico, oltre che<br />

da rigidità come testimonia l’assenza di ogni significativa evoluzione nel<br />

tempo verso i settori più specializzati. Ciò spiega perché la maggior parte<br />

delle imprese italiane sono sottoposte sempre più alla crescente concorrenza<br />

dei paesi emergenti.<br />

Nel passato il successo italiano nei settori tradizionali è consistito nello sfuggire<br />

a questa concorrenza tramite strategie di miglioramento dei prodotti e<br />

dei processi produttivi. Oggi che anche altri paesi usano questa strategia, le<br />

imprese italiane reagiscono spostando la produzione nei paesi emergenti o<br />

abbandonando il settore manufacturing. Purtroppo questo non basta. Per<br />

43


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 44<br />

Cap. Primo<br />

mantenere l’Italia tra i paesi più avanzati saranno necessarie strategie più<br />

creative ed aggressive, orientate all’innovazione e, soprattutto, la volontà di<br />

rischiare ed investire, anche in ricerca e sviluppo oltre che in nuovi processi di<br />

business. E proprio la capacità di fare ricerca di base e innovazione break<br />

throught , quella cioè che genera vantaggi sostenibili nel lungo periodo, sono<br />

fortemente carenti in Italia.<br />

Altro punto critico il sistema finanziario italiano, per troppi anni viziato dall’insostenibile<br />

peso del debito pubblico, e ancora oggi incapace di valutare<br />

progetti imprenditoriali validi e di accompagnare la crescita delle imprese nei<br />

mercati internazionali.<br />

Se rileggiamo la storia del nostro capitalismo, possiamo scorgervi che da un<br />

lato sono state erogate assistenza e protezione e dall’altro si è creata la cultura<br />

del piccole è bello. Questi nodi sono venuti al pettine agli inizi degli anni<br />

Novanta, “nel momento in cui la globalizzazione è diventata una realtà non<br />

più eludibile, l’apertura degli spazi europei una decisione politica inesorabile,<br />

l’ammontare del debito pubblico sempre più insostenibile e comunque non<br />

più incrementabile. Insomma, quando non è stato più possibile compensare<br />

la mancanza di riforme con palliativi di varia natura. Il peso di questi ritardi,<br />

accumulato nei decenni precedenti, ha finito per scaricarsi tutto in una volta<br />

sulla competitività del Paese e del suo tessuto industriale. Così molte grandi<br />

imprese hanno cominciato a perdere colpi. Ed è allora che tante piccole<br />

imprese, troppo piccole di fronte alla nuova dimensione dei mercati, non<br />

hanno saputo, e non sono più riuscite, a crescere. Il prezzo l’abbiamo pagato<br />

perdendo quote nel commercio mondiale, dove siamo passati dal 5% del 1990<br />

al 3,9% del 2002 5 ”.<br />

Oggi l’Europa, e come suo membro l’Italia, si trovano nella non facile situazione<br />

di affrontare una serie di sfide da cui dipenderà sicuramente il loro futuro:<br />

la competizione lanciata da Stati Uniti (innovazione) e paesi emergenti<br />

(costi), i vincoli posti dagli accordi di Maastricht, un’economia stagnante.<br />

Solo con una decisa spinta verso l’innovazione e il cambiamento queste sfide<br />

potranno essere vinte e il Paese potrà finalmente occupare la posizione di prestigio<br />

che gli compete.<br />

5 Antonio D’Amato, presidente Confindustria, Il modello italiano. Convegno biennale.<br />

Milano, 2-3 aprile 2004<br />

44


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 45<br />

1.4.3 Il contesto italiano: l’importanza delle Pmi<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

Il panorama economico nazionale è caratterizzato in gran parte da micro,<br />

piccole e medie imprese che rappresentano il 99,6% delle unità produttive,<br />

offrono lavoro al 82,2% degli occupati nazionali, oltre a fornire il 72,5% del<br />

valore aggiunto 6 .<br />

Inoltre offrono un contributo rilevante per la bilancia commerciale, come<br />

dimostra la forte apertura alle esportazioni delle Pmi delle regioni centronordorientali<br />

del nostro paese.<br />

Un’analisi più approfondita ci rivela che la struttura dimensionale delle<br />

imprese si presenta molto differenziata al proprio interno.<br />

Infatti notiamo che:<br />

• Il 94,4% è rappresentato da micro-imprese (0-9 addetti), con il 47,8% di<br />

occupati;<br />

• Il 5,2% da imprese di piccole dimensioni (10-49 addetti), con il 21,9% di<br />

occupati;<br />

• Lo 0,3% da imprese di medie dimensioni (50-249 addetti), con il 12,5% di<br />

occupati.<br />

La definizione di Pmi non è uniforme tra i vari paesi [OECD 2002, 7].<br />

Nell’Unione Europea (UE) sono state sempre considerate tali le imprese con<br />

non più di 250 addetti. Per gli USA le Pmi vanno fino a 500 addetti, mentre<br />

per gli altri paesi il limite è di 200 addetti.<br />

In base alla raccomandazione 2003/361 della Commissione Europea pubblicata<br />

sulla G.U.C.E. del 20 maggio 2003, che sostituisce la precedente raccomandazione<br />

96/280/CE, a partire dal 2005 si applicherà alla UE una nuova<br />

definizione riassunta nella tabella di seguito presentata:<br />

6 Fonte Eurostat, settembre 2002<br />

45


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 46<br />

Cap. Primo<br />

Tabella 4<br />

PARAMETRI DI IDENTIFICAZIONE DEL<strong>LE</strong> <strong>PMI</strong><br />

Piccole Imprese<br />

Medie Imprese<br />

DEFINIZIONE COM<strong>UN</strong>ITARIA<br />

In vigore Nuova In vigore Nuova<br />

DIPENDENTI OCCUPATI<br />

(numero)<br />

10 – 49 10 – 49 50 – 249 50 – 249<br />

FATTURATO ANNUO<br />

non superiore a (ml. di EURO)<br />

7 10 40 50<br />

TOTA<strong>LE</strong> ATTIVO<br />

PATRIMONIA<strong>LE</strong><br />

non superiore a (ml. di EURO)<br />

5 10 27 43<br />

Fonte: Elaborazione propria ai sensi delle Raccomandazioni della Commissione 96/280/CE<br />

e 2003/361/CE.<br />

La modifica della definizione attuale, in vigore fino al 31 dicembre 2004, è resa<br />

necessaria dall’inflazione e dalla crescita della produttività registrate dal 1996.<br />

Essa mantiene le varie classi di effettivi che consentono di definire le categorie<br />

delle microimprese, delle piccole e delle medie imprese, prevedendo però<br />

un aumento sostanziale dei tetti finanziari (volume d’affari e totale di bilancio),<br />

risultante dall’inflazione e dalla crescita della produttività osservate dal<br />

1996, data della prima definizione comunitaria delle Pmi. Varie disposizioni<br />

consentono di riservare solo alle imprese aventi le caratteristiche di vere Pmi<br />

(e quindi senza il potere economico dei grandi gruppi) il beneficio di accedere<br />

ai meccanismi nazionali e ai programmi europei di sostegno. L’aggiornamento<br />

della definizione di Pmi agevolerà la crescita, l’attività imprenditoriale,<br />

gli investimenti e l’innovazione. L’Italia occupa una posizione di primato<br />

nel contributo delle Pmi al valore aggiunto e all’occupazione: a confronto<br />

con l’area OCSE, guardando al solo valore aggiunto manifatturiero, le imprese<br />

con meno di 250 addetti contribuiscono con percentuali che vanno da un<br />

minimo del 29% in Germania ad un massimo del 57% in Italia.<br />

Il nostro paese detiene inoltre il primato nella quota di imprese nella classe 10-<br />

49 addetti, che occupano più del 30,9% degli addetti manifatturieri, quota superiore<br />

a quella registrata perfino in Spagna, Portogallo e Grecia 7 (vedi tab. 5).<br />

7 Fonte: ISTAT, Rapporto Annuale, Roma, 1998.<br />

46


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 47<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

Tabella 5<br />

DISTRIBUZIONE PERCENTUA<strong>LE</strong> DELL’OCCUPAZIONE<br />

NELL’INDUSTRIA MANIFATTURIERA PER CLASSI DI ADDETTI<br />

MICRO<br />

1-9<br />

CLASSI DI ADDETTI<br />

PICCO<strong>LE</strong><br />

10-49<br />

MEDIE<br />

50-249<br />

GRANDI<br />

250+<br />

TOTA<strong>LE</strong><br />

BELGIO 16,6 18,6 17,6 47,3 100<br />

DANIMARCA 11,9 20,2 25,9 41,9 100<br />

GERMANIA 9,5 14,9 15,8 59,8 100<br />

GRECIA 16,0 29,5 28,3 26,2 100<br />

SPAGNA 22,7 28,4 21,2 27,7 100<br />

FRANCIA 14,2 18,7 19,8 47,2 100<br />

IRLANDA 3,7 - - - 100<br />

ITALIA 23,9 30,9 19,0 26,3 100<br />

LUSSEMBURGO 6,5 12,4 21,5 59,6 100<br />

OLANDA 11,6 17,4 21,4 49,6 100<br />

AUSTRIA 10,6 18,2 - - 100<br />

PORTOGALLO 17,5 28,7 29,1 24,7 100<br />

FINLANDIA 10,2 14,5 20,3 55,0 100<br />

SVEZIA 10,9 15,0 21,0 53,1 100<br />

REGNO <strong>UN</strong>ITO 13,4 14,3 20,4 51,9 100<br />

UE – 15 14,6 19,9 19,4 46,1 100<br />

ISLANDA 20,8 32,5 14,0 30,8 100<br />

NORVEGIA 9,1 21,1 28,3 41,6 100<br />

SVIZZERA 15,4 21,3 29,2 34,1 100<br />

REPUBBLICA CECA 5,3 16,1 26,8 51,8 100<br />

ROMANIA - 14,9 20,9 - 35,8<br />

ESTONIA 21,5 28,6 - - 50,1<br />

TURCHIA 34,0 10,5 19,8 35,8 100<br />

GIAPPONE 11,1 28,3 29,8 30,7 100<br />

AUSTRALIA 14,1 20,5 17,8 47,7 100<br />

NUOVA ZELANDA 18,3 24,2 22,9 34,7 100<br />

COREA 10,5 29,9 26,4 33,3 100<br />

MESSICO 18,9 12,0 21,5 47,6 100<br />

Fonti: Eurostat-European Communities, Enterprises in Europe (1987-1997),2001; OECD,<br />

Small and Medium Enterprises Outlook,2002; Eurostat-European Communities, SMES in the<br />

Candidate Countries, Statistics in Focus theme 4-5/2004, 2004.<br />

47


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 48<br />

Cap. Primo<br />

La distribuzione percentuale degli occupati per settore vede l’Italia caratterizzata<br />

da un peso relativo industria/servizi superiore rispetto alla media UE,<br />

come ci si attende per un’economia che sta lentamente raggiungendo l’elevato<br />

grado di terziarizzazione tipico delle economie più avanzate del centronord<br />

Europa.<br />

La dimensione media delle imprese, che si è ridotta nei paesi industrializzati<br />

dal massimo toccato negli anni ’60, riflette vari fenomeni concomitanti come<br />

la crescente rilevanza dei servizi, la ristrutturazione delle imprese manifatturiere<br />

e la diffusione delle tecnologie informatiche. Ma resta il fatto che in<br />

Italia la dimensione media d’impresa, già contenuta rispetto agli altri paesi<br />

principali, si è ridotta in misura maggiore 8 .<br />

Con l’aiuto di dati statistici 9 è possibile svolgere analisi sulle dinamiche territoriali<br />

delle piccole e medie imprese che evidenziano una particolare tendenza<br />

di aggregazione delle imprese.<br />

Ne NNN Nel 20kosdkosa<br />

8 Vedi: “Banca d’Italia 2002, 19”.<br />

9 Vedi: “Rapporto annuale: competitività del sistema produttivo italiano tra persistenze e trasformazioni”,ISTAT<br />

(2003).<br />

48


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 49<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

In merito a ciò, si può affermare che le Pmi italiane possono essere divise in<br />

due gruppi, in base alla localizzazione o meno nelle aree caratterizzate da una<br />

elevata concentrazione di piccole e medie imprese manifatturiere (sistemi<br />

“distrettuali”).<br />

Nel 2000 le Pmi “distrettuali” occupavano circa un terzo degli addetti delle<br />

piccole e medie imprese italiane.<br />

Secondo uno studio dell’ISTAT, in Italia sono presenti 199 distretti, ossia<br />

“sistemi locali di lavoro” che rispondono a due particolari caratteristiche: in<br />

primo luogo, una specializzazione produttiva determinata dalla prevalenza<br />

di unità locali di quel particolare settore o comparto nel territorio (ad esempio<br />

tessile pratese, maglieria di Carpi, mobiliero brianzolo, ceramiche-piastrelle<br />

del Sassuolo e così via); in secondo luogo, un’affinità di parametri<br />

socio-residenziali come categoria professionale, tipologia di abitazione ecc.<br />

tali da verificare un’aderenza tra identità produttiva e identità sociale<br />

[Sforzi 1987].<br />

E’ interessante notare che i 199 distretti sono localizzati in prevalenza nel<br />

nord-est (125); altri 59 si trovano nel nord-ovest 15 nel Mezzogiorno.<br />

Nelle aree distrettuali emerge un differenziale positivo di crescita rispetto alle<br />

altre aree del paese, soprattutto nel segmento delle microimprese con 1-2<br />

addetti, che aumentano l’occupazione del 15,8% nelle aree distrettuali e<br />

dell’8,5% nelle altre aree, e nel segmento dimensionale immediatamente<br />

superiore 10 .<br />

Al fine di completare questo quadro introduttivo sulle Pmi italiane si osservino<br />

i dati raccolti nella tabella 6; se nell’industria emergono nitide regolarità<br />

per quanto riguarda i differenziali di produttività e redditività tra le diverse<br />

classi dimensionali, con andamenti fortemente crescenti degli indicatori al<br />

crescere della dimensione media delle imprese, nel terziario le imprese minori<br />

mostrano livelli di redditività spesso superiori a quelli delle imprese di maggiore<br />

dimensioni, a testimonianza della competitività della piccola dimensione<br />

in molti comparti dei servizi.<br />

10 Per approfondimenti sui distretti vedi F.Onida, Se il piccolo non cresce, Il Mulino, 2004.<br />

49


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 50<br />

Cap. Primo<br />

Tabella 6<br />

Classi<br />

di addetti<br />

Imprese Addetti Dipendenti Fatturato<br />

Valore<br />

aggiunto<br />

Investimenti<br />

per addetto<br />

Quota dei<br />

profitti sul<br />

valore<br />

aggiunto<br />

Industria Manifatturiera<br />

1-9 83,5 25,1 14,1 11 13,8 4,5 19,3<br />

10-19 9,6 15,1 15,8 9,9 12,1 5 36,1<br />

20-99 5,9 25,8 29,5 23,7 26,2 7,4 38,9<br />

100-249 0,6 11 13,1 13,7 13,8 10 37,9<br />

250 e oltre 0,3 23 27,5 41,6 34 13,7 39,5<br />

Totale 100 100 100 100 100 8 35,9<br />

Servizi<br />

1-9 97,4 60 29,8 43,8 45,7 3,7 17,4<br />

10-19 1,7 7,9 12,5 11,3 9,2 4,9 37,8<br />

20-99 0,8 10,9 19 17 13,9 5,3 36,6<br />

100-249 0,1 4,8 8,6 7,4 6,2 7,3 33,4<br />

250 e oltre 0 16,5 30 20,5 25 10,8 35,4<br />

Totale 100 100 100 100 100 5,3 27,4<br />

Fonte: Istat, Indagine sui risultati economici delle piccole e medie imprese; Indagine sui<br />

sistemi dei conti delle imprese.<br />

Inoltre, osserviamo che l’analisi della redditività lorda delle imprese italiane<br />

(indicatore che può rappresentare una sintesi della performance economica<br />

dell’impresa, scaturendo dalla considerazione congiunta sia della produttività<br />

sia del costo del lavoro) mostra che nell’industria manifatturiera la quota di<br />

valore aggiunto assorbita dal margine operativo lordo è più elevata nelle grandi<br />

imprese che in tutte le altre classi dimensionali; d’altra parte, nei servizi la<br />

migliore redditività si rileva nel segmento delle imprese con 10-19 addetti.<br />

L’analisi del contesto italiano è necessaria nello svolgimento di questo lavoro<br />

visto che si pongono le premesse per la comprensione della realtà in cui operano<br />

le Pmi della Lombardia; inoltre è necessario compiere anche una descrizione<br />

del contesto europeo, al fine di comparare la situazione lombarda a<br />

quella presente negli altri tre “motori d’Europa” oggetto di questa ricerca 11<br />

11 Gli altri tre motori sono il Baden-Württemberg, il Rhone-Alpes e la Catalogna.<br />

50


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 51<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

1.4.4 Le Pmi in Europa: un confronto<br />

E’ ora importante analizzare la situazione europea della piccola e media<br />

impresa, per effettuare un confronto maggiormente rilevante e utile per i<br />

prossimi capitoli. In media, micro, piccole e medie costituiscono il 99,8% del<br />

totale di 20,5 milioni di imprese presenti nell’Area Economica Europea<br />

(EEA) 12 e danno lavoro a 122 milioni di occupati.<br />

Circa il 93% di queste sono microimprese che occupano meno di 10 occupati,<br />

il 6% sono piccole imprese (10-49 addetti), meno dell’1% sono medie<br />

imprese (50-249 addetti) e soltanto lo 0,2% sono grandi imprese (occupano<br />

più di 250 persone). Di tutte queste imprese circa 20 milioni sono collocate<br />

all’interno dell’Unione Europea.<br />

Le Pmi europee, incluse le microimprese, la cui dimensione media si aggira sui<br />

6 addetti (contro 10 in Giappone e 19 negli USA), contribuiscono al 65,5%<br />

dell’occupazione totale (contro il 33% in Giappone e il 46% negli USA).<br />

Considerando tutte le Pmi, l’occupazione totale è suddivisa all’incirca in<br />

maniera uguale tre le microimprese, le piccole e le medie.<br />

La distribuzione delle classi secondo la dimensione e l’occupazione si differenzia,<br />

tuttavia, tra i paesi europei.<br />

Figura 3<br />

100<br />

80<br />

60<br />

40<br />

20<br />

Numerosità, Occupazione,Valore Aggiunto delle<br />

microimprese in alcuni paesi Europei (valori %)<br />

Imprese Addetti Valore Aggiunto<br />

0<br />

Italia Francia Spagna Regno unito UE<br />

Fonte: Eurostat, Structural business statistics, 2003<br />

51


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 52<br />

Cap. Primo<br />

Osservando la figura 3, la quota di microimprese nell’occupazione totale è del<br />

48% 13 in Italia, e non meno del 57% in Grecia, inoltre il confronto del peso<br />

relativo delle microimprese italiane con quello registrato nella media UE ed<br />

in alcuni principali paesi europei ci conferma una rilevante specificità italiana:<br />

l’elevata incidenza di questo segmento di imprese in termini di valore<br />

aggiunto e, soprattutto, di addetti.<br />

E negli anni ’90, mentre le grandi imprese hanno ridotto la propria forza<br />

lavoro, le Pmi, e in particolare le microimprese, hanno contribuito ad una<br />

creazione netta di posti.<br />

Mediamente, un’impresa europea, anche includendo tutti i giganti europei<br />

come Siemens, Royal Shell, PSA Peugeot Citroen e Nokia, offre occupazione<br />

a 6 persone, mentre la media considerando solamente micro e Pmi è di<br />

sole 4 persone. Tuttavia, questo numero varia tra 2 persone nelle microimprese<br />

e oltre 1000 persone per le grandi imprese.<br />

Vi è inoltre una grande differenza tra i paesi europei: mediamente, un’impresa<br />

occupa 2 persone in Grecia e 3 in Italia e nel Liechtenstein, rispetto ai 10<br />

in Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo.<br />

Allargando il nostro sguardo oltre i confini europei 14 per una breve digressione,<br />

osserviamo che l’impatto economico delle Pmi in termini di attività<br />

economica è sicuramente più rilevante in UE che negli USA. Infatti, utilizzando<br />

una misura proxy per comparare il PIL (o GDP, Gross Domestic<br />

Product) tra le due aree economiche, quale il turnover generato dalle Pmi, si<br />

è rilevato 15 che le piccole e medie imprese in Europa hanno contribuito per<br />

circa il 55% delle vendite a fronte del 47% d’oltre oceano.<br />

1.4.5 Situazione finanziaria delle Pmi in Europa<br />

Per completare il quadro generale sulla situazione europea viene svolta una<br />

breve analisi del canale finanziario per le Pmi, arrivando ad identificare carat-<br />

12 L’Area Economica Europea (EEA) include nel computo anche la Svizzera.<br />

13 Observatory of European SMEs, “SMEs and Access to Finance”, n°2 (2003).<br />

14 Per un completo confronto tra <strong>PMI</strong> europee e statunitensi vedi “An overview of SMEs in<br />

Europe and the USA”, Solomon M., Bryon J., Routledge Studies.<br />

15 Rilevazione Eurostat, SBA (1997).<br />

52


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 53<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

teristiche generali che si possono riferire in larga parte alla situazione italiana<br />

e soprattutto lombarda, oggetto di questa ricerca.<br />

Molte Pmi europee considerano l’accesso alle fonti finanziarie un forte problema<br />

e ciò riguarda sia l’acquisizione di capitale di rischio che di capitale di<br />

debito.<br />

Il clima economico influenza sia la disponibilità che il costo del capitale,<br />

soprattutto in una congiuntura economica debole; nel 2002 l’economia dell’area<br />

Euro è cresciuta solo dello 0,9%, di circa lo 0,6% nel 2003 ed è attesa<br />

una crescita intorno al 2% nel 2004 16 .<br />

Facendo riferimento, in primo luogo, alla disponibilità di capitale, a causa del<br />

ciclo economico poco favorevole, il tasso di prestito bancario è crollato riflettendo<br />

la minor domanda e la maggiore selettività dei prestiti stessi; in proposito<br />

basti osservare che nell’area Euro il tasso sui prestiti bancari è crollato dal<br />

9% all’inizio del 2001 fino a circa il 4% alla fine del 2002 17 .<br />

Un potenziale “razionamento del credito” per le Pmi è un problema non<br />

recente ed è diretta conseguenza di una politica del credito bancario che deve<br />

far fronte a una maggiore richiesta di profittabilità 18 : in generale, i maggiori<br />

ritorni sul capitale dagli azionisti inducono le banche a sviluppare una cultura<br />

di shareholder value che tiene ovviamente in forte considerazione gli interessi<br />

degli azionisti.<br />

Inoltre, avere una buona profittabilità a fronte di rischi contenuti è importante<br />

per le banche perché consente di ottenere buoni giudizi di rating desiderabili<br />

per diminuire i costi di rifinanziamento. Quindi elevata è l’attenzione<br />

che le banche prestano alla bontà del proprio portafoglio; si vedrà in seguito<br />

come l’applicazione di Basilea 2 influirà sul tema, giustificando il comportamento<br />

delle banche che tendono a richiedere maggiori informazioni sulle<br />

imprese – specialmente quelle con piccole e medie attività di non elevata performance<br />

– che devono adattare la loro situazione debitoria con la situazione<br />

economica attuale, incrementando, ad esempio, le proprie garanzie o riducendo<br />

il debito in essere.<br />

In secondo luogo, valutando il costo del capitale per le Pmi, va ricordata la<br />

16 Commissione Europea, “Economic Forecast Autumn 2004”.<br />

17 Aernoudt R., “Financing SMEs, the European Approach”, atti della Conferenza Europea,<br />

Lussemburgo (25/10/2001).<br />

18 Banca Centrale Europea, “Analisi strutturale del settore Bancario in UE-2001”,<br />

Francoforte (2002).<br />

53


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 54<br />

Cap. Primo<br />

convergenza dei tassi di interesse di riferimento dell’area Euro verso quelli<br />

statunitensi dagli anni novanta fino ad oggi.<br />

Nonostante ciò, dal punto di vista delle Pmi il costo dei prestiti è ancora un<br />

argomento di cruciale importanza.<br />

In un’analisi dell’Osservatorio Europeo sulle Pmi 19 vengono riassunti i principali<br />

ostacoli incontrati dall’imprenditore medio-piccolo. Gli imprenditori considerati<br />

da questa analisi hanno segnalato come principali limiti alla loro attività<br />

(vedi Figura 4): la mancanza di lavoratori qualificati (20%), il difficile accesso al<br />

canale finanziario (13%), l’elevata burocrazia nell’amministrazione pubblica in<br />

aggiunta alla regolamentazione ambientale, sanitaria, assicurativa (12%).<br />

Figura 4<br />

Fonte: Weighted Data, ENSR, Surveys on SMEs (2002)<br />

2002<br />

2001<br />

2000<br />

Principali limiti all'attività imprenditoriale<br />

Altro<br />

(valori %)<br />

Regole amministrative<br />

Accesso al sistema finanziario<br />

Mancanza Lavoro Qualificato<br />

0 5 10 15 20 25 30<br />

Il primo ostacolo rappresenta, in assoluto, il problema più sentito dalle Pmi<br />

europee per ogni classe dimensionale. Gli altri limiti sono percepiti in modo<br />

diverso per ogni categoria dimensionale: le aziende con un numero di dipendenti<br />

tra 10 e 49 evidenziano come principale ostacolo nell’attività imprenditoriale<br />

quello della eccessiva burocrazia amministrativa ed elevata regolamen-<br />

19 Observatory of European SMEs, n°8 (2002), Enterprise publications.<br />

54


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 55<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

tazione ambientale, sanitaria ed assicurativa; per le imprese più piccole, invece,<br />

con un numero decisamente minore di dipendenti, il maggiore limite<br />

riscontrato nell’attività è l’accesso difficoltoso al mercato finanziario.Il dato<br />

più interessante da analizzare in questa sede è quello relativo all’accesso al<br />

canale finanziario. L’analisi dell’Osservatorio Europeo, in merito a ciò, va ad<br />

investigare la relazione tra Pmi e banche, rilevando innanzitutto la soddisfazione<br />

di gran parte delle imprese (65%) per i servizi ricevuti dalle banche e<br />

constatando che soltanto il 12% di esse negli ultimi 3 anni ha cambiato<br />

banca 20 .<br />

Le imprese inoltre (vedi Figura 5), hanno differenti tipi di linee di credito con<br />

le loro banche: credito in conto corrente, prestiti a lungo termini, leasing, factoring,<br />

prestiti subordinati.<br />

Figura 5<br />

Fonte: Weighted Data, ENSR, Surveys on SMEs (2002)<br />

Pmi e linee credito presso Istituti bancari<br />

(n° dipendenti)<br />

50-249<br />

10_49<br />

0-9<br />

0% 20% 40% 60% 80% 100%<br />

Nessuna linea credito Solo 1 banca 2 o 3 banche 4 banche o più n.d.<br />

Il tema del rapporto tra banca e impresa sarà approfondito più avanti, analizzando<br />

la situazione italiana e nella fattispecie quella lombarda, che non sono<br />

totalmente assimilabili a quella europea.<br />

Concludendo, questo sguardo generale sulla situazione delle Pmi sia nella<br />

20 In questo caso la causa è stata la ricerca di condizioni maggiormente favorevoli e/o servizi<br />

finanziari migliori con le nuove banche.<br />

55


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 56<br />

Cap. Primo<br />

congiuntura attuale italiana sia nel contesto europeo si è reso necessario per<br />

introdurre le parti relative alla loro struttura finanziaria e all’accesso da parte<br />

di queste ultimi al capitale di rischio ed al capitale di debito in risposta ai propri<br />

fabbisogni finanziari.<br />

I paragrafi seguenti sono indispensabili per la comprensione dei risultati ottenuti<br />

dalla ricerca sulle Pmi della Lombardia e dettagliatamente presentata nel<br />

secondo capitolo.<br />

1.5 LA STRUTTURA FINANZIARIA DEL<strong>LE</strong> <strong>PMI</strong><br />

1.5.1 Un quadro introduttivo<br />

Il fabbisogno di risorse produttive genera un fabbisogno di risorse finanziarie,<br />

alle quali sarà deputato in futuro di rendere disponibili le prime. Infatti,<br />

poiché le risorse finanziarie risultano da un processo di scambio su un determinato<br />

mercato finanziario, è necessario creare una forza attrattiva capace di<br />

renderle disponibili 21 .<br />

La struttura finanziaria è quindi l’insieme delle risorse monetarie che consentono<br />

l’acquisizione dei fattori produttivi necessari per lo svolgimento dell’attività<br />

d’impresa; essa, ovviamente, sarà influenzata sia dal tipo di attività<br />

che dovrà rendere disponibili sia dalle scelte riguardo alle fonti cui accedere.<br />

Importante non sarà solamente il fatto che le risorse finanziarie siano predisposte<br />

in modo funzionale all’attività d’impresa, ma che si compongano in<br />

una struttura capace di minimizzarne il costo.<br />

Analizzando la catena del valore di una azienda, la struttura finanziaria concorre<br />

sul piano dell’efficienza, minimizzando il costo, e sul piano dell’efficacia,<br />

permettendo un costante apporto di risorse.<br />

Da rilevare, ancora, che le scelte di politica finanziaria delle imprese dipendono<br />

significativamente dalla fase di sviluppo in cui si collocano, soprattutto<br />

nelle Pmi dove vi sono spesso vincoli stringenti nell’accesso ai capitali. Dato<br />

il fabbisogno di risorse esterne e stante l’obiettivo di creazione del valore nel-<br />

21 “Per operare, un’impresa ha bisogno di una pressoché infinita varietà di attività<br />

reali….Sfortunatamente tutte devono essere pagate”, Brealey R.A., Myers S.C., “Principles<br />

of Corporate finance”, McGraw-Hill (1996).<br />

56


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 57<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

l’orientare le politiche finanziarie, si può dedurre l’importanza nel finanziamento<br />

allo sviluppo aziendale della struttura del passivo 22 .<br />

Quando l’autofinanziamento non basta da solo a garantire la copertura del<br />

fabbisogno finanziario aziendale, è necessario prendere in esame la possibilità<br />

di ricorrere a fonti esterne. La scelta fondamentale è tra capitale proprio e<br />

di debito: la prima ipotesi si basa sul reperimento di nuovi soci; la seconda, si<br />

fonda sul ricorso, non esclusivo, al sistema bancario.<br />

Il capitale di rischio è contrassegnato da una stabilità molto forte (cioè, tendenzialmente<br />

resta in azienda per molto tempo), dall’inesistenza di un obbligo<br />

di rimborso e da una remunerazione non obbligatoria e, pertanto, adattabile<br />

alla congiuntura aziendale.<br />

Il debito presenta connotati opposti, visto che questo va rimborsato in modi<br />

e tempi prestabiliti, a seconda degli strumenti utilizzati e, soprattutto, remunerato<br />

in misura prefissata. Le scelte tra credito e indebitamento, sono determinate<br />

da considerazioni di convenienza economica, di origine fiscale, da esigenze<br />

di controllo 23 , di compatibilità ed equilibrio finanziario.<br />

E’ indubbiamente annoso il problema del finanziamento a protratta scadenza<br />

delle Pmi, basti far riferimento al cosiddetto “MacMillan gap 24 ”, laddove<br />

già nel 1931 si affermava che le imprese di minori dimensioni incontrano<br />

oggettive difficoltà nel reperimento di capitale proprio e di capitale di debito<br />

a medio-lungo termine.<br />

Dal MacMillan Committee Report si è avuta l’evidenza, nei maggiori mercati<br />

finanziari, di un equity gap, cioè una dimensione minima necessaria per rendere<br />

economicamente sostenibile una operazione di raccolta di capitale a<br />

medio-lungo termine. Ora, andando a riproporre alcune teorie di struttura<br />

finanziaria, si vuol vedere come queste possono spiegare i modelli di finanziamento<br />

delle piccole e medie imprese.<br />

Prendendo in esame la teoria di Modigliani-Miller “corretta” 25 per tener conto<br />

dei benefici fiscali, dell’indebitamento e delle successive evoluzioni nella cosiddetta<br />

“teoria del trade-off”, è stato ampiamente dimostrato come questa non sia<br />

22 Si veda in merito “Finanza Aziendale, Valutazione”, Massari M., McGraw-Hill (2004).<br />

23 Ciò è particolarmente vero per le Pmi, in proposito confronta: Guatri L., Vicari S.,<br />

“Sistemi d’impresa e capitalismi a confronto”, Egea (1994).<br />

24 MacMillan Committee, “Report of the Committee in finance and industry”, Her<br />

Majesty’s Stationery Office, Londra (1931).<br />

25 Modigliani F., Miller M.H., “Corporate income tax and cost of capital: a correction”,<br />

American Economic Review, n°48 (1963)<br />

57


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 58<br />

Cap. Primo<br />

in grado di cogliere il comportamento reale delle imprese in presenza di imperfezioni<br />

dei mercati. Lo stesso vale per le Pmi; infatti, le scelte finanziarie di queste<br />

ultime ricalcano maggiormente altre teorie di struttura finanziaria.<br />

Soffermandoci sull’ammontare effettivo del benefici fiscali del debito, è stato<br />

ipotizzato 26 che il vantaggio fiscale per le Pmi risulta inferiore a quello delle<br />

imprese di grandi dimensioni a ragione del fatto che, nella maggior parte<br />

delle Pmi, i soci interni rivestono anche cariche di amministratori oppure di<br />

funzionari dell’impresa: attribuendosi stipendi piuttosto esosi, riescono ad<br />

eludere in parte la tassazione del reddito prodotto e non hanno l’obbligo di<br />

giustificare i loro utili ad un’assembla di soci esterni.<br />

In aggiunta, si consideri l’esistenza di una correlazione positiva (Graham,<br />

1996) tra dimensione aziendale e imposizione fiscale: imprese di minori<br />

dimensioni godono di minore pressione fiscale.<br />

In realtà, i dati sul prelievo fiscale tra grande impresa e Pmi non sembrano<br />

supportare recentemente questa ipotesi. I dati del Rapporto UnionCamere-<br />

Mediobanca relativo alle medie imprese industriali italiane, periodo 1996-<br />

2000, fanno risultare, a fronte di un prelievo fiscale medio di circa il 30% sulle<br />

maggiori imprese, un prelievo del 45% circa su quelle di medie dimensioni.<br />

In relazione alla teoria dei costi di agenzia legati al debito e al capitale proprio,<br />

le Pmi si caratterizzano per la prevalenza di assetti di controllo di tipo<br />

familiare e per la centralizzazione del processo decisionale nelle mani dell’imprenditore,<br />

spesso nella veste sia di principal che di agent.<br />

Altro elemento da rilevare nella struttura finanziaria delle Pmi è la natura del<br />

debito: quasi esclusivamente debito bancario e quasi esclusivamente debito a<br />

breve termine 27 . Nonostante il debito bancario a breve termine consenta un<br />

vantaggio informativo derivante dalla natura “privata” del rapporto di finanziamento<br />

e dalla possibilità del finanziatore di revocare o rinegoziare il debito,<br />

bisogna annotare che le Pmi soffrono rispetto alla grande impresa di un<br />

gap in termini di trasmissione e credibilità dell’informazione.<br />

Si è quindi sottolineato 28 come la scarsa qualità dell’informazione relativa alle<br />

Pmi tende a far crescere i costi di monitoraggio e determina una struttura<br />

26 Si veda in merito: Ang J., “On the theory of finance for privately held firms”, Journal of<br />

small Business Finance, n°1, (1992); Pencarelli T., Dini L., “Teoria della struttura finanziaria<br />

e piccola impresa”, Piccola impresa/Small Business, n°3 (1995).<br />

27 Si veda in proposito il secondo capitolo, dove la ricerca empirica sulla Lombardia ha<br />

mostrato questa caratteristica, tipica delle <strong>PMI</strong>.<br />

28 Lopez-Gracia J., Aybar Arias C., “An empirical approach to the financial behaviour of<br />

small and medium sized companies”, Small Business Economics, n°14 (2000).<br />

58


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 59<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

finanziaria dipendente da costi di agenzia reali e percepiti. La conseguenza è<br />

un livello d’indebitamento che varia da impresa a impresa in dipendenza dei<br />

costi di agenzia legati al rischio di dissesto, al valore di liquidazione, al livello<br />

dei profitti, alle opportunità di crescita e forma organizzativa 29 .<br />

Per quanto riguarda i costi di agenzia del capitale proprio delle Pmi, essi sono<br />

ancora maggiori in quanto i finanziatori incontrano maggiori difficoltà ad<br />

attivare meccanismi di controllo per evitare comportamenti opportunistici.<br />

Passando alla teoria dell’ordine delle scelte (Pecking Order Theory) 30 , possiamo<br />

affermare che è un’elaborazione teorica che sembra adattarsi molto<br />

bene a spiegare i comportamenti di struttura finanziaria delle Pmi. Questa<br />

teoria individua una precisa preferenza dell’imprenditore per le diverse fonti<br />

di finanziamento, espressa secondo il seguente ordine: innanzitutto l’autofinanziamento,<br />

poi il capitale di debito, ed infine il ricorso al mercato dei capitali<br />

di rischio. La preferenza per il capitale di debito piuttosto che per il capitale<br />

di rischio di provenienza esterna è frutto, soprattutto, di una concezione<br />

secondo la quale il ricorso all’indebitamento sarebbe il segnale di una situazione<br />

di solidità aziendale, mentre il ricorso a capitali di rischio esterni sarebbe<br />

piuttosto indicativo di una situazione di debolezza o, comunque, di scarsa<br />

fiducia verso l’impresa da parte del soggetto economico in essere.<br />

Va fatto però notare che nel caso delle Pmi italiane, quelle che dalla teoria<br />

vengono definite “preferenze dell’imprenditore”, in realtà sono scelte largamente<br />

condizionate da variabili esogene: l’assenza di un mercato dei capitali<br />

di rischio sviluppato per tali imprese, pochi strumenti finanziari specifici per<br />

le esigenze delle Pmi, convenienze fiscali. Si arriva così a ridurre quella che è<br />

una teorica preferenza di struttura finanziaria ad una vera e propria scelta<br />

obbligata.<br />

Questa logica caratterizzata dalla contrarietà ad una gestione trasparente e<br />

dall’avversione ad allargare la base societaria a soggetti esterni, fa preferire<br />

fondi generati internamente che non comportano costi di transazione e agenzia.<br />

Quindi la piccola impresa preferisce finanziarsi attraverso l’autofinanzia-<br />

29 Brewer E-Genay H-Jackson W.E.-Worthington P.E., “How are small firms financed?<br />

Evidence from small business investment companies”, Economic Perspective FED publication<br />

(1996).<br />

30 Si faccia riferimento a: S.C. Myers, N.S. Majluf, “Corporate financing and investment<br />

decision when firms have information that investors do not have”, Journal of Financial<br />

Economics”, n°13 (1984). Si veda inoltre: M.Onado, “Economia dei sistemi finanziari”, Il<br />

Mulino (1992).<br />

59


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 60<br />

Cap. Primo<br />

mento soprattutto per il timore del management di perdere il controllo della<br />

società, ma è anche vero che ciò si scontra con livelli esigui e variabilità elevata<br />

dei flussi autogenerati, caratteriste tipiche delle imprese minori.<br />

Concludendo, la spiegazione della Pecking order theory (POT) sembra essere<br />

la volontà di controllare l’impresa con il minimo sforzo finanziario e la carenza<br />

di offerta di capitale di rischio.<br />

Tutto ciò è riscontrabile nella realtà italiana, in cui l’ordine di priorità della<br />

POT è stato portato alle estreme conseguenze, creando una struttura industrializzata<br />

caratterizzata da Pmi sottocapitalizzate e scarsamente innovative.<br />

L’aumento dell’indebitamento è, però, una strada improponibile alle piccole<br />

imprese che spesso fanno della loro forza l’innovazione e la ricerca continua<br />

in posizioni di nicchia del mercato, anche perché ciò porterebbe ad una riduzione<br />

della flessibilità e dell’autonomia gestionale.<br />

1.5.2 Analisi dell’equilibrio finanziario delle Pmi<br />

Le analisi e le valutazioni per individuare la struttura finanziaria più conveniente<br />

nelle imprese minori, vale a dire società che sono costituite generalmente<br />

da società per azioni a ristretta base azionaria o da società a responsabilità<br />

limitata, presentano problemi sensibilmente differenti rispetto a quelli<br />

delle imprese di grandi dimensioni.<br />

Mentre nelle società quotate è indispensabile perseguire una politica che assicuri<br />

una congrua remunerazione del capitale proprio, in modo da non arrecare<br />

pregiudizi al credito acquisito dalla società (e, di conseguenza, di veder<br />

diminuire il valore del titolo in borsa), nelle società di minori dimensioni su<br />

ristretta base azionaria, e maggiormente nelle imprese individuali, tali preoccupazioni<br />

non hanno ragione di esistere in quanto i proprietari o i detentori<br />

del pacchetto azionario tendono a valutare la convenienza dell’investimento<br />

sulla base di parametri diversi da quelli propri dell’azionista investitore.<br />

Non si guarda tanto alla remunerazione del capitale, quanto all’opportunità<br />

di assicurare uno sviluppo dell’azienda che interessa al titolare o ai soci.<br />

Per questo, quando l’impresa si trova in difficoltà nel reperire i finanziamenti<br />

necessari in forma di capitale di terzi oppure questi siano ottenibili in modo<br />

eccessivamente oneroso, gli azionisti o il proprietario sono generalmente<br />

disposti a contenere la distribuzione degli utili o i prelievi per esigenze personali<br />

o familiari al fine di assicurare livelli più elevati di autofinanziamento.<br />

Pertanto, nelle Pmi sottocapitalizzate è essenziale che l’imprenditore o l’am-<br />

60


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 61<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

ministratore adottino decisioni di investimento compatibili con la primaria<br />

necessità di garantirsi, con la gestione, un flusso continuo di ricavi e di correlate<br />

entrate finanziarie.<br />

Il ricorso a finanziamenti deve essere attentamente ponderato, tenendo presente<br />

che i fabbisogni di natura durevole debbono essere, comunque, coperti<br />

da capitale fortemente vincolato all’azienda. E’ interessante notare che esiste<br />

una relazione inversa tra dimensione aziendale e “grado di leverage”: le imprese<br />

di dimensioni minori presentano un livello di indebitamento per ogni euro<br />

di capitale proprio più sostanzioso rispetto alle grandi imprese.<br />

Ciò evidenzia, in maniera marcata, il rapporto peculiare delle Pmi con il sistema<br />

bancario rispetto alle altre imprese di diversa classe dimensionale.<br />

D’altra parte le società di minori dimensioni, soffrendo molto spesso di<br />

carenze connesse alla scarsa possibilità di disporre di mezzi finanziari permanentemente<br />

investiti in azienda, cercano di sopperire a tali difficoltà di accesso<br />

al capitale proprio mediante il ricorso al debito, molto spesso nelle forme<br />

di debito a breve, specie nella forma di scoperto in conto corrente 31 .<br />

Le difficoltà di dare corso ad aumenti di capitale permanentemente investito<br />

nelle Pmi porta queste ultime a fare affidamento sugli utili che derivano dalla<br />

gestione dell’impresa stessa, generando autofinanziamento per ritenzione di<br />

utili. Una quota consistente del fabbisogno finanziario delle Pmi viene coperta<br />

con il ricorso al debito a breve, e soprattutto, come già detto precedentemente,<br />

nella forma di scoperto in conto corrente.<br />

Una parte considerevole dell’attivo viene finanziata con il “credito di fornitura”,<br />

ossia ottenendo un adeguato respiro dai propri fornitori; anche tale forma<br />

di credito va iscritta tra i crediti “a breve” che, come tali, presentano maggiori<br />

rischi. I fornitori, nell’intento di ridurre la durata del proprio ciclo finanziario,<br />

possono essere indotti a diminuire la durata delle dilazioni di pagamento<br />

accordate oppure, in base a informazioni acquisite su possibili eventi<br />

negativi, possono richiedere immediato pagamento al ritiro della merce. Tale<br />

circostanza può aggravare la situazione finanziaria dell’impresa finanziata<br />

fino alla procedura fallimentare.<br />

31 Riguardo alla concessione di crediti nella forma di scoperto in conto corrente, si veda<br />

Cesarini F. in “Studi di economia”, Quaderni n°1 (1996): “L’eccessiva polverizzazione dei crediti<br />

bancari alle imprese costituisce una degenerazione del principio basilare di gestione rappresentato<br />

dal frazionamento del portafoglio crediti e, assieme all’apertura di credito in conto<br />

corrente, una vera e propria miscela esplosiva sotto il profilo della qualità del credito”.<br />

61


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 62<br />

Cap. Primo<br />

E’ proprio il rischio aggiuntivo insito nell’attività di una Pmi che caratterizza<br />

e, in un certo modo, definisce la scelta di struttura finanziaria.<br />

Le Pmi hanno una elevata vulnerabilità strategica e finanziaria dovuta a<br />

carenze di risorse umane professionalmente qualificate e ai costi ed imperfezioni<br />

dei mercati finanziari. Particolarmente penalizzanti sono le inefficienze<br />

informative dei mercati dei capitali, dal momento che le imprese di minori<br />

dimensioni subiscono oneri di accesso al credito più elevati delle imprese<br />

maggiori o consolidate a causa dei maggiori costi di informazione che impongono<br />

gli intermediari finanziari.<br />

Un aspetto che può attenuare il rischio finanziario delle Pmi è dato dall’elevata<br />

flessibilità delle modalità e dei tempi di remunerazione del capitale proprio<br />

e del lavoro imprenditoriale, che è dipendente dalla commistione tra<br />

sfera familiare e sfera aziendale, che permette di non avere rigide politiche<br />

retributive e di dividendo. Questo aspetto, però, sotto un altro punto di vista<br />

può essere considerato un ulteriore fattore di rischio, poiché offre la possibilità<br />

che vengano poste in essere condotte opportunistiche da parte dei proprietari<br />

nei confronti degli altri stakeholders.<br />

La copertura del fabbisogno finanziario, dunque, deve realizzarsi attingendo<br />

ad un insieme di fonti di finanziamento che deve assicurare adeguata<br />

proporzione tra mezzi propri e mezzi di terzi, evitando eccessivi squilibri.<br />

E’ evidente che le aziende hanno bisogno di capitali propri e di credito che<br />

vanno combinati secondo esigenze di struttura gestionale interna e di mercato:<br />

il capitale proprio dovrebbe fronteggiare, almeno in termini di valore,<br />

il valore operativo minimo oltre il quale sarebbe compromessa l’integrità del<br />

sistema.<br />

Inoltre, è importante rapportare la misura del capitale proprio, con l’attivo<br />

immobilizzato, così che l’indice “Margine di struttura”, espresso dalla differenza<br />

tra capitale netto e immobilizzazioni nette, dovrebbe dare segno positivo<br />

(vedi Figura 6). Un margine di struttura negativo sta ad indicare un livello di<br />

capitalizzazione insoddisfacente, situazione ricorrente per le imprese minori<br />

italiane, osservando i dati dell’ultimo decennio. D’altra parte si tende a privilegiare<br />

il ricorso al capitale di debito sino a quando la redditività del capitale investito<br />

supera il costo dell’indebitamento netto d’imposta 32 .<br />

Infine osserviamo come nelle aziende medio-piccole anche la componente<br />

organizzativa incide sulla struttura finanziaria, dato che sia la ristretta compagine<br />

sociale sia l’elevato “verticismo” decisionale assumono un valore determinante<br />

nelle scelte finanziarie.<br />

Le decisioni risentono fortemente di valutazioni di tipo non economico e<br />

personale, e molto spesso non sono accompagnate da attente analisi strategiche.<br />

Sarebbe necessario, in proposito, sviluppare processi decisionali capaci di<br />

62


cap 01 libro finanza 22-04-2005 11:22 Pagina 63<br />

Le <strong>PMI</strong> Italiane: un quadro introduttivo<br />

controllare tutte le variabili ambientali in grado di incidere sul rapporto<br />

impresa/mercato.<br />

Figura 6<br />

Margine Struttura Società Medie Dimensioni<br />

300000<br />

200000<br />

100000<br />

0<br />

-100000<br />

-200000<br />

-300000<br />

1994<br />

1993<br />

1996<br />

1995<br />

1998<br />

1997<br />

2000<br />

1999<br />

2002<br />

2001<br />

Fonte: Elaborazione propria su Dati Cumulativi di 1941 Società Italiane, MedioBanca<br />

(2003)<br />

In questo contesto, l’apporto di capitale di rischio, è condizionato fortemente<br />

da valutazioni di convenienza soggettiva da parte dei singoli soci e, ovviamente,<br />

anche dalle loro disponibilità finanziarie, visto che spesso si esclude a<br />

priori l’allargamento della base azionaria nell’intento di limitare possibili<br />

ingerenze di terzi.<br />

32 Si fa riferimento al concetto di leva finanziaria che permette, laddove sia positiva, di accrescere<br />

il rendimento dei mezzi propri:<br />

ROE<br />

<br />

<br />

OF DF <br />

SaldoGS<br />

= ROI +<br />

<br />

ROI −<br />

<br />

<br />

<br />

DF <br />

* *<br />

1<br />

MP <br />

MP<br />

dove:<br />

DF : indebitamento oneroso<br />

OF : oneri della gestione finanziaria<br />

t : aliquota fiscale su utile<br />

Saldo GS : saldo della gestione straordinaria<br />

MP : mezzi propri<br />

( 1 − t ) +<br />

* ( − t )<br />

63

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!