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1 Abstract La prima parte dell'articolo discute criticamente il concetto ...

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<strong>Abstract</strong><br />

<strong>La</strong> <strong>prima</strong> <strong>parte</strong> dell’articolo <strong>discute</strong> <strong>criticamente</strong> <strong>il</strong> <strong>concetto</strong> di funzione intellettiva<br />

unitaria che sottende la misurazione psicometrica del QI. Considerando evidenze che<br />

provengono da studi di psicologia cognitiva, neuropsicologia e biologia si argomenta<br />

che una generalizzata compromissione dell’apprendimento è alla base di un deficitario<br />

QI. Questa compromissione può essere generata da: i) deficit dell’attenzione, delle<br />

funzioni esecutive e della memoria di lavoro; ii) atipico sv<strong>il</strong>uppo di alcune strutture<br />

neurobiologiche (in particolare, i dendriti) implicate nell’apprendimento.<br />

Funzioni e strutture neurobiologiche centrali per l’apprendimento possono tuttavia<br />

essere modificate, come suggeriscono sia alcuni studi sui trattamenti sia gli effetti<br />

dell’arricchimento ambientale osservati nei modelli animali del ritardo mentale.<br />

1


<strong>La</strong> seconda <strong>parte</strong> dell’articolo esplora quest’ipotesi riportando gli effetti di un<br />

potenziamento dell’attenzione, delle funzioni esecutive e della memoria di lavoro nel<br />

caso di D., un ragazzo di 14 anni con una diagnosi di disab<strong>il</strong>ità intellettiva lieve.<br />

Introduzione<br />

Propongo in questo studio alcune riflessioni critiche sulle pratiche diagnostiche che<br />

ut<strong>il</strong>izzano <strong>il</strong> <strong>concetto</strong> di disab<strong>il</strong>ità intellettiva ispirandosi al DSM; seguirà la descrizione<br />

di una valutazione e di un intervento motivati da queste riflessioni.<br />

Com’è noto, <strong>il</strong> DSM IV classifica <strong>il</strong> ritardo mentale nell’Asse II, insieme ai disturbi di<br />

personalità; <strong>il</strong> DSM V, che sarà pubblicato nel 2013, non ut<strong>il</strong>izza più <strong>il</strong> termine ritardo<br />

mentale ma usa <strong>il</strong> sinonimo di disab<strong>il</strong>ità intellettiva includendolo tra i Disturbi<br />

Neuroevolutivi. Nel DSM V la diagnosi di disab<strong>il</strong>ità intellettiva evolutiva<br />

(Intellectual Developmental Disorder) richiede tre condizioni: un deficit intellettivo, un<br />

deficit nel funzionamento adattivo e un inizio del disturbo nel periodo evolutivo. Il<br />

deficit intellettivo è attestato da 2 o più deviazioni standard sotto la media nel QI<br />

(dunque un punteggio di 70 o più basso) ed è valutato in maniera “psicometricamente<br />

affidab<strong>il</strong>e”. Anche <strong>il</strong> deficit nel funzionamento adattivo deve essere valutato con<br />

strumenti statisticamente affidab<strong>il</strong>i.<br />

Per la disab<strong>il</strong>ità intellettiva evolutiva, così come per altri tipi di disturbi, <strong>il</strong> DSM<br />

consegna l’affidab<strong>il</strong>ità e intersoggettività delle categorie diagnostiche agli strumenti<br />

psicometrici. Fonda quindi la sua validità scientifica sulla valutazione psicometrica dei<br />

“sintomi” piuttosto che su una teoria neurologica o psicologica. <strong>La</strong> questione<br />

epistemologica non di poco r<strong>il</strong>evo è però se gli strumenti psicometrici siano sufficienti<br />

per definire un disturbo una “realtà naturale”, piuttosto che un costrutto derivato da<br />

qualche teoria.<br />

Come affermano Rodrigues e Banzato (2009), sarebbe consolante se a una categoria<br />

diagnostica stab<strong>il</strong>ita sulla base di una descrizione psicometrica dei sintomi<br />

corrispondessero caratteristiche neurobiologiche e prognostiche uniche che<br />

permettono di distinguere un determinato disturbo da altri possib<strong>il</strong>i disturbi. Tuttavia<br />

sappiamo che non è così, molti disturbi psichiatrici sono spesso diffic<strong>il</strong>i da distinguere<br />

uno dall’altro e la loro natura è di “gradazione” lungo un continuum, piuttosto che di<br />

discontinuità qualitativa.<br />

2


E’ sufficiente valutare <strong>il</strong> QI per individuare <strong>il</strong> nucleo essenziale del deficit in un disturbo<br />

neuroevolutivo Esiste un disturbo che possa caratterizzarsi in maniera distintiva<br />

attraverso la congiunzione di due apparentemente semplici condizioni: la valutazione<br />

del QI e quella del deficit nel funzionamento adattivo<br />

Intelligenza e QI<br />

L’idea che <strong>il</strong> nucleo essenziale di un deficit possa cogliersi attraverso <strong>il</strong> QI (tanto da<br />

basare su questo indicatore una delle tre condizioni della diagnosi) ha origine dalla<br />

convinzione che <strong>il</strong> QI possa essere un buon indicatore dell’intelligenza. Questa<br />

convinzione si basa su una tradizione di studi psicometrici che è partita<br />

dall’osservazione statistica di un’alta intercorrelazione tra i punteggi nei diversi<br />

subtest che compongono la valutazione del QI. Nonostante ogni compito di una<br />

batteria che valuta <strong>il</strong> QI presenti la sua specificità, e dunque sia probab<strong>il</strong>e che un<br />

individuo possa far molto bene in un compito e meno bene in un altro, i compiti che<br />

valutano <strong>il</strong> QI tendono ad avere prestazioni correlate tra loro. Chi ha una prestazione<br />

più alta della media in un compito, tende ad avere una prestazione di livello sim<strong>il</strong>e in<br />

altri compiti che concorrono alla valutazione del QI. Applicando l’analisi fattoriale a<br />

questi patterns di correlazioni si è trovato che c’è una porzione di varianza comune tra<br />

i vari subtest, denominata fattore “g”. Ci sono state molte controversie su che cosa sia<br />

effettivamente <strong>il</strong> fattore “g” in termini psicologici o neurofisiologici. Tra le ipotesi<br />

formulate in anni passati dobbiamo includere: una sorta di energia mentale<br />

(Spearman, 1927) corrispondente alle capacità attentive, un’ab<strong>il</strong>ità di ragionamento<br />

astratto (Gustafsson, 1984); una velocità di processamento neurale (Reed & Jensen,<br />

1992) che influenzerebbe anche semplici compiti di tipo percettivo. Nessuna di<br />

quest’ipotesi è stata confermata (per un’ampia rassegna su questi risultati controversi<br />

si veda Neisser et al., 1996), e in effetti persino l’affermazione che un unico fattore<br />

spieghi in maniera ottimale le intercorrelazioni tra i subtest ha ricevuto critiche. Alcuni<br />

studiosi (Thurstone, 1938) hanno infatti individuato gruppi di fattori che spiegano le<br />

intercorrelazioni tra gruppi di test meglio di un fattore unico. Carroll (1993) ha<br />

elaborato un modello psicometrico che prevede 70 diverse specifiche ab<strong>il</strong>ità alla base<br />

dei subtest che valutano <strong>il</strong> QI. Riguardo alle basi psicometriche della fattorialità<br />

sottostante al QI possiamo concludere che non esistono evidenze univoche a conferma<br />

dell’affermazione che <strong>il</strong> QI sia un indicatore della capacità intellettiva. In altre parole,<br />

non può essere scartata l’ipotesi che un QI deficitario sia <strong>il</strong> risultato di deficit in un<br />

vasto insieme di ab<strong>il</strong>ità specifiche piuttosto che l’espressione di un deficitario sv<strong>il</strong>uppo<br />

3


di un unico fattore, quello (qualsiasi esso sia) che coincide con la capacità intellettiva<br />

di un individuo. Se esista un’unitaria capacità intellettiva (per un’aggiornata teoria che<br />

sostiene questo, vedere Cornoldi, 2007; 2011), se <strong>il</strong> funzionamento umano e<br />

l’adattamento degli individui all’ambiente possa essere meglio concettualizzato<br />

dall’idea di differenti tipi di “intelligenze” sono anch’esse questioni tutt’altro che risolte<br />

nella ricerca psicologica (Gardner, 1983; Sternberg, 1985).<br />

Cervello, Intelligenza e QI<br />

Alcuni recenti studi di neuroscienze sembrano aver fornito evidenze all’ipotesi che a<br />

variazioni nel QI corrispondano variazioni dell’intelligenza a cui a loro volta<br />

corrispondono variazioni di tipo neurobiologico. Jung e Haier (2007) hanno preso in<br />

rassegna circa 37 studi che ut<strong>il</strong>izzano la risonanza magnetica e una morfometria<br />

basata sui voxel per misurare <strong>il</strong> volume della materia grigia e della materia bianca in<br />

specifiche aree della corteccia. Sulla base delle correlazioni tra QI e volume di<br />

specifiche aree corticali, i due studiosi propongono un modello di integrazione “frontoparietale”<br />

caratterizzato dall’interazione tra aree che elaborano l’input sensoriale<br />

visivo e uditivo (aree di Brodman 18, 19, 21, 37), alcune aree della corteccia parietale<br />

(aree di Brodman 7, 39, 40), alcune aree frontali (aree di Brodman 6, 9, 10, 45–47)<br />

e <strong>il</strong> cingolato anteriore. Il volume della materia bianca nella comunicazione tra queste<br />

aree è un altro elemento del circuito “fronto-parietale” che correla con <strong>il</strong> QI.<br />

Apparentemente la correlazione tra QI e volume delle aree di una rete fronto-parietale<br />

sembra confermare l’idea che l’intelligenza sia proprio <strong>il</strong> fattore valutato attraverso <strong>il</strong><br />

QI, un fattore a cui corrispondono precise condizioni neurobiologiche. Tuttavia anche<br />

<strong>il</strong> modello fronto-parietale non è esente da difficoltà di interpretazione teorica. Quali<br />

processi cognitivi sono supportati dalla rete “fronto-parietale” Sono tutti processi che<br />

hanno a che fare con <strong>il</strong> pensiero astratto, <strong>il</strong> ragionamento, la metacognizione, dunque<br />

con l’essenza di ciò che si può definire “intelligenza” Naghavi e Nyberg (2007)<br />

sottolineano la difficoltà di stab<strong>il</strong>ire un rapporto di corrispondenza biunivoca tra area<br />

corticale e funzione cognitiva. Le aree corticali coinvolte nella rete “fronto-parietale”<br />

<strong>parte</strong>cipano in realtà a diverse funzioni cognitive; ad esempio, la corteccia parietale è<br />

coinvolta sia in funzioni esecutive sia in una vasta gamma di processi senso-motori<br />

(Collette & Van der Linden 2002; Culham & Kanwisher 2001); <strong>il</strong> cingolato anteriore<br />

contribuisce alla regolazione emotiva e al consolidamento a lungo termine delle<br />

memorie. L’interazione tra aree frontali, parietali, e di processing visivo e acustico<br />

4


potrebbe indicare quanto sia cruciale per un ottimale sv<strong>il</strong>uppo cognitivo che<br />

comportamenti intenzionali e finalizzati al raggiungimento di uno scopo (aree frontali)<br />

possano fac<strong>il</strong>mente attingere a informazioni di natura sensoriale e motoria per<br />

realizzare una convergenza tra rappresentazioni di tipo multimodale (aree della<br />

corteccia associativa visiva e uditiva e della corteccia parietale ), per selezionare o<br />

inibire specifiche rappresentazioni in funzione degli obiettivi (cingolato anteriore), e<br />

avvalersi della memoria di lavoro (aree frontali) per mantenere disponib<strong>il</strong>i le<br />

informazioni r<strong>il</strong>evanti ed elaborarle secondo le necessità del momento. Insomma, più<br />

che del ragionamento e del pensiero astratto, una rete “fronto-parietale” è <strong>il</strong> supporto<br />

di qualsiasi processo cognitivo complesso, in cui siano integrate intenzioni, obiettivi,<br />

informazioni di natura diversa mentre vengono controllate le elaborazioni e le risposte<br />

che ut<strong>il</strong>izzano queste informazioni. Dunque la correlazione tra QI e rete frontoparietale<br />

non vuol dire che esista una rete corticale che supporta un’unica e unitaria<br />

“funzione intellettiva”. Componenti bas<strong>il</strong>ari del sistema cognitivo, inclusi i processi di<br />

natura sensoriale e motoria, sono infatti coinvolte nel funzionamento “frontoparietale”.<br />

Di nuovo, queste considerazioni critiche fanno rimanere aperta la questione<br />

da cui siamo partiti: <strong>il</strong> QI è l’espressione di un’unitaria capacità intellettiva o<br />

“intelligenza di base”, come la definisce Cornoldi (2011) Oppure <strong>il</strong> QI è l’espressione<br />

di un complesso e variegato funzionamento a cui <strong>parte</strong>cipano processi cognitivi di<br />

natura diversa Se è espressione di questo, se è <strong>il</strong> risultato di un insieme di ab<strong>il</strong>ità in<br />

<strong>parte</strong> specifiche, dovremmo aspettarci che a un QI sotto la norma corrispondano<br />

diverse tipologie di deficit (e di ab<strong>il</strong>ità preservate) piuttosto che un unico “tipo<br />

naturale” a cui possa applicarsi una e una sola categoria diagnostica.<br />

Apprendimento e QI<br />

Alcuni autori distinguono un’ intelligenza fluida indicata dal fattore gf -un fattore che si<br />

basa sull’intercorrelazione tra test che richiedono un ragionamento astratto e una<br />

risoluzione di problemi- e un’intelligenza cristallizzata indicata da un fattore gc, che<br />

risulta dall’intercorrelazione tra test che valutano l’apprendimento di nozioni e concetti<br />

(Carroll, 1993).<br />

In effetti, se consideriamo lo strumento più frequentemente adottato per avere una<br />

misura del QI (la nota batteria WISC di Wechsler, 1991) possiamo notare che soltanto<br />

due subtest possono misurare una capacità di ragionamento (subtest storie in<br />

sequenza) o di concettualizzazione astratta (subtest somiglianze) mentre molti altri<br />

5


subtest richiedono la conoscenza e <strong>il</strong> recupero di conoscenze sul mondo e di nozioni<br />

scolastiche (subtest informazioni), l’uso di apprendimenti linguistici (subtest<br />

vocabolario), aritmetici (subtest aritmetica), sociali (subtest comprensione) oppure<br />

richiedono ab<strong>il</strong>ità visuo-motorie e visuo-spaziali (subtest ricostruzione di oggetti;<br />

disegno con cubi) o rapidità di processamento visuo-motorio (subtest cifrario e ricerca<br />

di simboli). Non sarebbe sorprendente se un alto o basso QI risultasse in gran <strong>parte</strong><br />

determinato da una generale fac<strong>il</strong>ità ad acquisire-memorizzare conoscenze<br />

linguistiche, concetti sul mondo e su situazioni di vita sociale, procedure visuo-motorie<br />

e visuo-spaziali.<br />

Che <strong>il</strong> QI sia molto in rapporto con la “fac<strong>il</strong>ità ad apprendere” lo rivela uno dei dati più<br />

solidi della ricerca psicometrica: <strong>il</strong> QI è un buon predittore delle prestazioni<br />

scolastiche, mostra infatti una correlazione di circa .50 con i voti a scuola (Neisser et<br />

al., 1997). Ma la fac<strong>il</strong>ità ad apprendere, piuttosto che essere uno dei tanti sinonimi di<br />

“intelligenza” sembra a sua volta dipendere dall’efficienza di alcune specifiche funzioni<br />

cognitive che sostengono l’apprendimento in diversi tipi di “domini”. Dedicare<br />

attenzione consapevole a un compito, controllare informazioni o risposte che possono<br />

essere in conflitto tra loro, alternare l’attenzione tra tipi di informazioni diverse a cui<br />

applicare procedure o regole, mantenere in memoria una serie di informazioni visive o<br />

verbali <strong>il</strong> tempo necessario che permetta al sistema cognitivo un’elaborazione di<br />

queste stesse informazioni sono esempi di complesse funzioni cognitive a cui la<br />

psicologia e la neuropsicologia danno <strong>il</strong> nome di controllo esecutivo, inibizione,<br />

switching attentivo, memoria di lavoro. Che queste funzioni siano carenti nelle<br />

persone con QI sotto la norma ce lo indicano molti studi recenti ( Jarrold et al. 2000;<br />

<strong>La</strong>nfranchi et al. 2004, 2009; Vicari et al., 2006; Schneider et al., 2009; Schuchardt<br />

et al., 2010). Che queste funzioni siano essenziali per l’apprendimento ce lo mostrano<br />

studi che confrontano bambini con QI nella norma o con QI sotto la norma accomunati<br />

tuttavia da deficit della memoria di lavoro. In questi casi si trova che sono<br />

compromessi la maggior <strong>parte</strong> degli apprendimenti scolastici (Maheler & Schuchardt,<br />

2009), indipendentemente dal QI. Molti studi (discuto questo punto in Orsolini, 2011)<br />

trovano che deficit nelle funzioni esecutive o nella memoria di lavoro sono spesso alla<br />

base di deficit nell’apprendimento della lettura, scrittura, aritmetica, comprensione del<br />

testo in individui con QI nella norma.<br />

Il fatto che la severità della compromissione della memoria di lavoro, specialmente<br />

nella sua componente di “magazzino fonologico” (Schuchardt, Gebhardt & Maehler,<br />

6


2010) sia decisamente maggiore in gruppi con “disab<strong>il</strong>ità intellettiva” lieve (QI tra 50<br />

e 69) rispetto a gruppi con organizzazione cognitiva borderline (QI tra 70 e 84)<br />

suggerisce che un forte deficit di memoria di lavoro può essere una causa importante<br />

del basso QI nelle persone che ricevono la diagnosi di disab<strong>il</strong>ità intellettiva. In un<br />

gruppo di individui con sindrome di Down la memoria a breve termine verbale (lo span<br />

di cifre in avanti) spiega addirittura <strong>il</strong> 71% della varianza nel QI (Edgin, Pennington<br />

& Mervis, 2010).<br />

<strong>La</strong> relazione tra QI deficitario e disturbo dell’apprendimento è suggerita infine dalla<br />

ricerca neurobiologica quando mostra che la quantità di arborizzazioni dendritiche è<br />

carente in persone che hanno ricevuto una diagnosi di ritardo mentale (Kaufmann &<br />

Moser, 2000).<br />

Le spine dendritiche, piccole protuberanze lungo i rami dendritici, contengono sinapsi<br />

e sono quindi cruciali per la creazione di quei collegamenti tra un neurone e l’altro che<br />

costituiscono <strong>il</strong> substrato biologico di un nuovo apprendimento. In diverse sindromi<br />

genetiche in cui le persone hanno un QI sotto la norma sono state osservate anomalie<br />

dendritiche. In persone con sindrome dell’X Frag<strong>il</strong>e le spine dendritiche sono più<br />

lunghe, sott<strong>il</strong>i e abbondanti che in individui con sv<strong>il</strong>uppo tipico (Irwin et al., 2000).<br />

Nella sindrome di Down i dendriti sono invece più corti, le spine dendritiche più lunghe<br />

e meno abbondanti che in individui con sv<strong>il</strong>uppo tipico (Dierssen et al., 2003). In<br />

ambedue questi casi la formazione delle sinapsi lungo i dendriti non avviene in<br />

maniera tipica.<br />

“Disab<strong>il</strong>ità intellettiva” come deficit dei meccanismi cognitivi e neurobiologici che<br />

sostengono l’apprendimento<br />

Ricapitolo i punti della discussione: (1) <strong>La</strong> questione se l’intelligenza sia una capacità<br />

unitaria o un vasto insieme di ab<strong>il</strong>ità specifiche, rimane una questione aperta su cui<br />

non ci sono ancora certezze (o meglio falsificazioni) scientifiche; (2) Non siamo sicuri<br />

che ci sia un parametro neurobiologico o un tipo di rete tra aree corticali che possano<br />

essere messi in relazione con variazioni dell’intelligenza; (3) Molte evidenze<br />

scientifiche recenti mostrano che un QI sotto la norma ha alla base deficit in<br />

meccanismi cognitivi – come le funzioni esecutive e la memoria di lavoro- che<br />

sostengono sia <strong>il</strong> ragionamento sia l’apprendimento; (4) In diverse sindromi genetiche<br />

associate a un QI sotto la norma è stato osservato un deficit di alcune strutture che<br />

costituiscono <strong>il</strong> substrato neurobiologico dell’apprendere.<br />

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Queste premesse rendono plausib<strong>il</strong>e l’ipotesi che individui con QI sotto la norma<br />

abbiano storie di sv<strong>il</strong>uppo neurobiologico in cui ci sono stati e continuano ad esserci<br />

importanti ostacoli agli apprendimenti, in maniera variab<strong>il</strong>e da individuo a individuo a<br />

seconda sia della eventuale sindrome genetica sia di fattori ambientali e<br />

temperamentali.<br />

Ma che cosa cambia se ipotizziamo che un basso QI sia espressione di un deficit<br />

intellettivo oppure di un disturbo generalizzato dell’apprendimento<br />

Ipotizzare deficit nell’intelligenza fa ancorare <strong>il</strong> nostro sguardo verso un’immaginaria<br />

dotazione genetica: nelle sue variazioni da un individuo all’altro, questa base ha <strong>il</strong> polo<br />

più basso nelle persone che “diventeranno” ritardati mentali o disab<strong>il</strong>i intellettivi.<br />

Ipotizzare invece un deficit nei meccanismi cognitivi (memoria di lavoro e funzioni<br />

esecutive) e nelle condizioni neurobiologiche che sostengono l’apprendimento fa<br />

spostare la nostra attenzione verso altre domande: quali tra le specifiche funzioni<br />

cognitive che sostengono apprendimenti scolastici e apprendimenti dall’esperienza di<br />

vita quotidiana sono particolarmente carenti in un singolo individuo Queste funzioni<br />

possono essere potenziate Insomma, l’ostacolo ad apprendere è stab<strong>il</strong>e e immutab<strong>il</strong>e<br />

oppure può essere modificato<br />

In questa seconda ipotesi non si nega che ci siano fattori neurobiologici (anche di<br />

natura genetica) che hanno determinato condizioni non tipiche di sv<strong>il</strong>uppo del cervello.<br />

<strong>La</strong> differenza importante tra la seconda e la <strong>prima</strong> ipotesi è che l’apprendimento può<br />

essere “rimesso in moto”, mentre la dotazione “intellettiva” può essere migliorata nel<br />

suo uso ma non nella sua struttura.<br />

Modificab<strong>il</strong>ità cognitiva e apprendimento<br />

Come si può potenziare l’apprendimento se le strutture neurobiologiche che lo<br />

sostengono sono carenti In effetti proprio le evidenze neurobiologiche suggeriscono<br />

che a partire da una ridotta possib<strong>il</strong>ità di apprendimento e di memoria l’ambiente può<br />

avere un ruolo cruciale nello stimolare uno sv<strong>il</strong>uppo delle formazioni dendritiche e<br />

delle connessioni neuronali.<br />

Gli studi sui modelli animali del ritardo mentale mostrano che in un organismo<br />

animale con alterazioni genetiche corrispondenti alla sindrome di Down o alla<br />

sindrome dell’X frag<strong>il</strong>e, ci sono anomalie a livello delle arborizzazioni e delle spine<br />

dendritiche, così come è stato osservato nel cervello umano con queste sindromi.<br />

Questi studi mostrano anche che se l’animale con ritardo mentale cresce in un<br />

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ambiente arricchito, caratterizzato da socialità, da materiali di gioco e novità, <strong>il</strong><br />

cervello sv<strong>il</strong>uppa arborizzazioni dendritiche in un modo che non si osserva quando<br />

l’animale cresce in un ambiento povero di stimoli. L’ambiente arricchito motiva<br />

nell’animale attività ed esercizi che a loro volta modificano lo sv<strong>il</strong>uppo del cervello<br />

inducendo sinaptogenesi e formazioni di dendriti (Dierssen et al., 2003; Restivo et<br />

al., 2005).<br />

Queste evidenze individuano dunque la necessità di ripensare alle difficoltà<br />

generalizzate dell’apprendere considerandole, anche a livello neurobiologico, non già<br />

come una proprietà immodificab<strong>il</strong>e dell’individuo ma come una dimensione soggetta a<br />

cambiamento e all’influenza dell’ambiente. Socialità, esplorazione, novità sono le tre<br />

parole chiave che nel caso dei topi permettono di sperimentare una ricca stimolazione,<br />

un coinvolgimento costante in esercizi motori e visuo-spaziali, una diminuzione della<br />

paura, tutte condizioni che stimolano <strong>il</strong> cervello alla formazione di dendriti e di sinapsi.<br />

Quando passiamo dai topi agli esseri umani non è però così semplice creare un<br />

ambiente arricchito. Iniziando dalla socialità, questo è un tratto molto variab<strong>il</strong>e a<br />

seconda della sindrome genetica o della storia individuale. Molti bambini che fin dai<br />

primi mesi di vita hanno avuto un’ipotonia, una difficoltà a controllare lo sguardo e i<br />

movimenti, hanno spesso figure di attaccamento che hanno sofferto di costante<br />

preoccupazione e ansia per le difficoltà che vedevano nel figlio. Sia quest’esperienza<br />

affettiva (<strong>il</strong> contatto con <strong>il</strong> sentimento depressivo del caregiver) sia le prime reazioni di<br />

rifiuto dei pari contribuiscono in molti casi ad una scarsa propensione ai rapporti<br />

sociali, a una paura nello stab<strong>il</strong>ire contatti con persone non fam<strong>il</strong>iari.<br />

Quanto alle altre due parole chiave di un ambiente arricchito –esplorazione e novitàsappiamo<br />

che negli esseri umani l’esplorazione ha a che fare con la curiosità e con la<br />

capacità di mitigare la paura di fronte all’ignoto. Ma un essere umano che ha appreso<br />

a considerarsi non intelligente ha paura di fronte a situazioni nuove. Ha paura di<br />

venire in contatto con un’immagine di sé interpretata come inab<strong>il</strong>e e incompetente; ha<br />

paura di sperimentare un’um<strong>il</strong>iante vergogna che provoca una condanna interna, un<br />

senso di confusione e insicurezza. Dati questi sentimenti, la tendenza di molti ragazzi<br />

con “disab<strong>il</strong>ità intellettiva” e dei loro genitori è di proteggersi dalle novità e dalle<br />

situazioni complesse, di rifugiarsi in consolanti routines sia nella vita sociale sia nelle<br />

situazioni d’apprendimento. Di questa tendenza si fanno interpreti spesso sia<br />

insegnanti sia riab<strong>il</strong>itatori quando si preoccupano di proporre a questi ragazzi compiti<br />

“fac<strong>il</strong>i”. L’idea che i ritardi nello sv<strong>il</strong>uppo e nell’apprendimento siano legati a scarsa<br />

9


intelligenza contribuisce a far scegliere attività semplici e ripetitive, a ut<strong>il</strong>izzare poco<br />

situazioni di problem-solving che sono invece quelle che stimolano di più<br />

l’esplorazione. Ancora meno frequente è l’idea di supportare con l’intervento le<br />

funzioni esecutive e memoria di lavoro, anche se la ricerca comincia a mostrare che<br />

trattando queste funzioni si hanno miglioramenti significativi negli apprendimenti (Van<br />

der Molen et al., 2010).<br />

Uno studio sull’efficacia di un intervento<br />

Il caso di D.<br />

Se partiamo dall’ipotesi che non esiste una disab<strong>il</strong>ità intellettiva ma che esistono<br />

complessi itinerari di sv<strong>il</strong>uppo cognitivo e socio- affettivo, in cui variab<strong>il</strong>i condizioni<br />

genetiche, neurobiologiche e socioculturali producono deficit in una vasta ma variab<strong>il</strong>e<br />

gamma di funzioni cognitive, capiamo che l’impresa diagnostica è più complessa di<br />

quella che si basa sulla determinazione del QI e del livello di funzionamento adattivo<br />

(su questo punto vedere anche Di Nuovo e Buono, 2010; Ruggerini et al., 2008;<br />

Vianello, 2004). L’impresa dovrebbe partire dal ricostruire <strong>il</strong> più possib<strong>il</strong>e la storia<br />

evolutiva dell’individuo, proseguire con un’attenta valutazione delle funzioni cognitive<br />

centrali per l’apprendere (attenzione, integrazione visuo-motoria, linguaggio, funzioni<br />

esecutive, memoria di lavoro, memoria verbale e visuo-spaziale a lungo termine), e<br />

con l’esaminare le potenzialità di apprendimento e la modificab<strong>il</strong>ità emotivo-cognitiva.<br />

Quest’impresa dovrebbe anche permettere di individuare alcune priorità per<br />

l’intervento e determinare <strong>il</strong> grado di sostegno di cui l’individuo e la famiglia hanno<br />

bisogno.<br />

Quando D. viene valutato nel Servizio di consulenza per la prevenzione e l’intervento<br />

sui disturbi dell’apprendimento (attivato presso <strong>il</strong> Dipartimento di Psicologia dei<br />

Processi di Sv<strong>il</strong>uppo e Socializzazione della Sapienza, Università di Roma) frequenta la<br />

III media e ha 14 anni.<br />

I genitori ci consegnano una voluminosa cartella in cui hanno raccolto le diagnosi che<br />

diversi centri (da strutture di neuropsichiatria infant<strong>il</strong>e di Aziende sanitarie a centri<br />

specialistici ospedalieri universitari) hanno formulato su D. L’infanzia del ragazzo è<br />

stata caratterizzata da difficoltà motorie, scarso controllo dello sguardo, ritardo nella<br />

comunicazione e severo ritardo nel linguaggio. Nella <strong>prima</strong> valutazione a tre anni<br />

queste difficoltà si uniscono a un’inibizione della socialità e a un ritardo cognitivo. Lo<br />

sv<strong>il</strong>uppo atipico di D. non è riconducib<strong>il</strong>e ad alcuna sindrome genetica nota (esito<br />

negativo di tutte le analisi finora effettuate) né ad alcun tipo di lesione neurologica<br />

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accertata. Una sindrome dello spettro autistico è esclusa sulla base della buona calda<br />

relazione e comunicazione tra D. e i genitori.<br />

D. ha avuto interventi di logopedia nei primi anni di scuola dell’infanzia e di scuola<br />

elementare; successivamente ha frequentato centri di riab<strong>il</strong>itazione dove ha ricevuto<br />

un sostegno agli apprendimenti scolastici. Nell’arco di 11 anni, pur avendo ricevuto<br />

numerose valutazioni, le funzioni cognitive di D. sono state esaminate soltanto con<br />

batterie per <strong>il</strong> QI (che risulta compreso tra 60 e 70 in diverse occasioni durante tutto<br />

l’arco scuola elementare-scuola media). Se ci atteniamo al DSM, non ci servono<br />

approfondimenti. Siamo di fronte a un QI uguale o superiore a 2 deviazioni standard<br />

sotto la media, a una grave limitazione del funzionamento adattivo, a difficoltà<br />

iniziate nell’infanzia; dunque un caso di “disab<strong>il</strong>ità intellettiva”.<br />

(Inserire Tabella 1 qui)<br />

<strong>La</strong> valutazione di D.<br />

Nel nostro servizio osserviamo D. con un esame neuropsicologico approfondito, che<br />

ut<strong>il</strong>izza in <strong>parte</strong> la nuova batteria Nepsy-II (Korkman, Kirk & Kemp, 2011) in <strong>parte</strong><br />

altri test disponib<strong>il</strong>i nel contesto italiano (i test ut<strong>il</strong>izzati dal nostro servizio sono<br />

elencati in Orsolini, 2011). I punti di difficoltà di D. sono sintetizzati nella tabella 1: i<br />

meccanismi cognitivi che nella precedente discussione abbiamo considerato centrali<br />

per qualsiasi apprendimento (attenzione, funzioni esecutive, memoria di lavoro) sono<br />

tutti molto carenti. Il test di memoria di lavoro verbale di Palladino (2005) non può<br />

essere pienamente affrontato perché al momento della valutazione iniziale D. non è in<br />

grado di compiere un doppio compito (memorizzare l’ultima parola di una frase e<br />

giudicare se la frase ascoltata è vera o falsa), fornisce soltanto giudizi di verità-falsità<br />

sulle frasi compiendo tuttavia molti errori. Le enormi difficoltà di inibizione e controllo<br />

esecutivo di D. sono mostrate da un test della Nepsy II in cui deve dire “cerchio” se<br />

vede un quadrato e “quadrato” se vede un cerchio; in questo test <strong>il</strong> ragazzo ha una<br />

prestazione sotto al 2° percent<strong>il</strong>e per gli errori. <strong>La</strong> disprassia verbale è ancora molto<br />

evidente nel linguaggio di D, nonostante gli intensi trattamenti logopedici.<br />

In che misura D. può modificare <strong>il</strong> suo sistema cognitivo in seguito ad un<br />

apprendimento Per rispondere a questa domanda che è ispirata ovviamente da un<br />

approccio vygotskiano, sono state introdotte nella valutazione brevi sessioni in cui<br />

abbiamo tentato di: a) insegnare strategie per copiare figure geometriche complesse;<br />

11


2) insegnato parole nuove; 3) insegnato strategie per indovinare <strong>il</strong> nome di<br />

un’immagine coperta, a partire da caratteristiche semantiche che possono essere<br />

ricavate attraverso domande (es., E’ un animale Ha le ali). In quest’ultima<br />

situazione, la <strong>prima</strong> volta D. tende a fare domande con cui cerca solo di tirare a<br />

indovinare (es., “E’ una macchina”) e non tenta di conoscere le caratteristiche<br />

dell'immagine coperta. In alcuni casi dice cose apparentemente <strong>il</strong>logiche (ad esempio,<br />

abbiamo detto che si tratta di un animale feroce che vive nei fiumi e lui chiede se si<br />

tratta di uno squalo). Già nella seconda sessione notiamo però miglioramenti<br />

sostanziali: anticipa caratteristiche semantiche (es. è un animale feroce o<br />

domestico) e ha un maggiore controllo sulle sue risposte (es., abbiamo detto che è<br />

un oggetto con 4 ruote, D. ipotizza che si tratti di una moto e poi dice subito<br />

“oggigiorno ci sono anche moto che hanno 4 ruote”).<br />

<strong>La</strong> stessa buona possib<strong>il</strong>ità di apprendere l'ha mostrata nel ricordare <strong>il</strong> significato di<br />

una parola nuova (“ti ricordi che vuol dire “autoritario” D.: “una persona troppo<br />

severa”) e nel copiare una figura geometrica complessa.<br />

Queste osservazioni della valutazione, anche se non formalizzate in termini di<br />

punteggi, suggeriscono che D. ha una buona modificab<strong>il</strong>ità cognitiva. Vedremo in<br />

seguito se si tratta solo della fac<strong>il</strong>ità ad acquisire apprendimenti circoscritti, limitati<br />

all’ab<strong>il</strong>ità che è stata potenziata, oppure se <strong>il</strong> trattamento permetterà a D. di acquisire<br />

nuove strategie.<br />

Un’altra domanda importante a cui la valutazione può cercare di rispondere è la<br />

seguente: in che misura <strong>il</strong> futuro intervento potrà contare sul coinvolgimento emotivo<br />

della persona in difficoltà, sulla sua fiducia in un adulto che proporrà compiti complessi<br />

e in <strong>parte</strong> faticosi A queste domande si può cominciare a rispondere osservando <strong>il</strong><br />

grado di consapevolezza delle proprie difficoltà, la fiducia nell’adulto che propone un<br />

lavoro impegnativo, l’apertura emotiva nei confronti di attività nuove. Già nel secondo<br />

incontro, <strong>il</strong> clima intimo e scherzoso con cui cerchiamo di strutturare le nostre<br />

interazioni tra un test e l’altro, sembra aiutare D. a rivelarci di sé aspetti importanti,<br />

che ci mostrano le sue competenze di riflessione emotiva. Leggendo <strong>il</strong> dialogo<br />

riportato nella tabella 2 (dove <strong>il</strong> linguaggio del ragazzo ha subito una<br />

“normalizzazione” fonetica) si può notare che per D. è diffic<strong>il</strong>e capire come mai si<br />

possano avere problemi gravi di comportamento (un suo compagno si comporta da<br />

bambino piccolo) e tuttavia “parlare bene”. Per D. “capire poco” e avere serie difficoltà<br />

di linguaggio sono un tutt’uno. Dopo aver parlato di un compagno con problemi D.<br />

12


dice “Adesso parliamo di me” e racconta di due situazioni in cui, durante la stessa<br />

uscita scout, lui si è trovato a disagio per aver sbagliato. Nella <strong>prima</strong> si è seduto in<br />

una direzione diversa da quella degli altri, e dice di averci messo tanto tempo per<br />

capirlo; nella seconda dice di essere andato nella squadriglia sbagliata; conclude: “Per<br />

me è stata una cosa un po' normale, però mi è dispiaciuto di non aver capito, perché<br />

ci ho sempre paura di essere preso in giro”.<br />

Capiamo da queste interazioni che D. è consapevole delle sue difficoltà, ed è fiducioso<br />

che l’adulto possa comprenderlo, visto che già dal secondo incontro gli affida un<br />

racconto di frag<strong>il</strong>ità, distrazioni, sbagli. Questo ci fa capire che con D. sarà possib<strong>il</strong>e<br />

iniziare un lavoro impegnativo.<br />

<strong>La</strong> valutazione termina con un colloquio di restituzione che non nasconde ai genitori le<br />

molte difficoltà di D.; a queste difficoltà si dà però un nome (attenzione, memoria di<br />

lavoro, impulsività, lessico ecc.) diverso dall’etichetta generica di “scarsa intelligenza”.<br />

(Inserire Tabella 2 qui)<br />

L’ intervento con D.<br />

<strong>La</strong>voriamo con D. per 18 mesi, per 6 ore a settimana articolate in (a) un intervento<br />

domic<strong>il</strong>iare (pagato dalla famiglia) incentrato inizialmente su attività visuo-spaziali con<br />

materiale Feuerstein e successivamente su alcuni apprendimenti scolastici; (b) un<br />

intervento nel nostro laboratorio (gratuito perché inserito in una ricerca) che lavora su<br />

due fronti: <strong>il</strong> supporto emotivo, <strong>il</strong> rafforzamento della stima di sé e delle ab<strong>il</strong>ità sociali;<br />

<strong>il</strong> potenziamento dell’attenzione, delle funzioni esecutive e della memoria di lavoro<br />

attraverso attività specifiche messe a punto dal nostro servizio.<br />

Abbiamo monitorato in diverse fasi i cambiamenti di D., ma riportiamo qui in maniera<br />

sintetica alcuni risultati della più recente valutazione effettuata nell’ottobre 2011.<br />

Risultano in norma per l’età di D. tutte le componenti attentive valutate dal CD<br />

“Attenzione e concentrazione” (Di Nuovo, 2000); per le funzioni esecutive valutate<br />

attraverso la Nepsy-II risultano in norma inibizione e switching nella componente<br />

correttezza (ma ancora tempi di reazione sotto la norma); sono in lieve difficoltà la<br />

fluenza categoriale (dalla BVN 12-18) e fonemica (punti zeta -1,10 e -1,90<br />

rispettivamente); la pianificazione, valutata attraverso la Torre di Londra (Sannio, Vio<br />

& Cianchetti, 2000) mostra un deficit non severo (punti zeta=-2,14 per le risposte<br />

13


corrette nel confronto con ragazzi di 13 anni, la fascia più alta di età del test). <strong>La</strong><br />

memoria di lavoro verbale risulta in norma considerando la fascia di età della scuola<br />

media (non ci sono dati normativi per l’età di D.). Risulta ancora molto carente<br />

l’ampiezza del lessico, sia nella produzione sia nella comprensione. <strong>La</strong> comprensione<br />

del testo risulta “richiesta d’attenzione” per <strong>il</strong> livello di quinta elementare.<br />

I cambiamenti cognitivi più importanti si sono avuti nell’attenzione, nelle funzioni<br />

esecutive di inibizione e switching, nella memoria di lavoro verbale: proprio su queste<br />

funzioni si è infatti incentrato l’intervento sperimentale nel nostro laboratorio. Ma in<br />

che misura <strong>il</strong> riuscito potenziamento del controllo esecutivo e della memoria di lavoro<br />

verbale hanno permesso a D. di avere un approccio più strategico ad attività cognitive<br />

complesse che implicano ragionamento<br />

Troviamo alcuni segnali da prendere in considerazione per rispondere a questa<br />

domanda. Il primo segnale viene dal sub test della WISC-III “storie figurate”; si<br />

ricorderà che in questo test si richiede di riordinare un insieme di immagini in modo<br />

che la sequenza formi una storia sensata. E’ uno dei subtest della WISC in cui<br />

emergono più chiaramente ab<strong>il</strong>ità di ragionamento: per riordinare correttamente le<br />

immagini è infatti necessario considerare i legami temporali e di causalità tra gli eventi<br />

raffigurati dalle immagini, e verificare la coerenza della sequenza creata. In questo<br />

compito D. risulterebbe ora in norma se non si considerassero i limiti di tempo previsti<br />

dal test. Riesce infatti a riordinare correttamente i cartoncini della maggior <strong>parte</strong> delle<br />

storie (anche delle storie 11 e 12, ad esempio) ma a partire dalla storia 7 impiega un<br />

tempo superiore ai limiti previsti dal test. Possiamo affermare che ora D. è in grado di<br />

affrontare un compito di ragionamento non verbale con una prestazione lenta ma<br />

piuttosto corretta. Questa conclusione è suggerita anche dalla prestazione alle Matrici<br />

Colorate di Raven (2008) dove D., nel confronto normativo con i recenti dati italiani<br />

(Belacchi, Scalisi, Cannoni & Cornoldi, 2008), si colloca al 42° percent<strong>il</strong>e della fascia di<br />

età più alta (11 anni). In questo test D. opera spiegando ad alta voce <strong>il</strong> motivo di ogni<br />

scelta.<br />

Infine <strong>il</strong> dato a mio avviso più interessante è la prestazione in due test di flessib<strong>il</strong>ità<br />

cognitiva in cui si chiede al soggetto di ut<strong>il</strong>izzare diversi possib<strong>il</strong>i criteri per<br />

categorizzare lo stesso set di immagini (raggruppamento animali, tratto dalla Nepsy II<br />

e Wisconsin Card Sorting test). D. ha un punteggio solo lievemente al di sotto della<br />

norma nel primo test (punteggio ponderato 8 nel confronto con <strong>il</strong> campione normativo<br />

della sua età; nella valutazione iniziale <strong>il</strong> punteggio ponderato era 2). Nel Wisconsin<br />

14


Card Sorting Test, D. ha avuto una buona prestazione completando tutte le sei<br />

categorie previste dal test in 86 prove (su 128 possib<strong>il</strong>i), dando 67 risposte corrette e<br />

compiuto solo 19 errori. Ha fallito solo una volta nel mantenere la serie e non è stato<br />

perseverativo nella classificazione delle carte. E’ stato molto riflessivo e concentrato<br />

nello svolgere <strong>il</strong> compito, ma ha avuto bisogno in alcune occasioni di una ripetizione<br />

delle consegne da <strong>parte</strong> dell’adulto e di esplicitare verbalmente le azioni da compiere<br />

per realizzare corrette classificazioni.<br />

Insomma, ci sono evidenze di un notevole potenziamento del ragionamento non<br />

verbale e della flessib<strong>il</strong>ità cognitiva. Questi miglioramenti sono evidenti quando si<br />

permette a D. di controllare ad alta voce i suoi processi cognitivi.<br />

Riporto un dialogo che fa comprendere come <strong>il</strong> lavoro di supporto emotivo e di<br />

consapevolezza cognitiva sia una <strong>parte</strong> decisamente importante del trattamento<br />

riab<strong>il</strong>itativo. L’ estratto verte su una decisione che D. e la sua famiglia dovevano<br />

prendere a proposito del trasferimento da un istituto professionale per <strong>il</strong> turismo ad un<br />

istituto artistico. Ricominciare dal primo anno o trasferirsi in una classe di secondo<br />

anno<br />

ADULTO: Beh, se ricominci dal primo anno avresti due anni di più dei tuoi compagni<br />

((D. è andato a scuola un anno più tardi))<br />

D.: tanto non importa, tanto anche se c’ho due anni in più, gli altri sono sempre più<br />

intelligenti.<br />

ADULTO: che cosa Che hai detto ((scherzando, marcando esageratamente le<br />

espressioni del viso))<br />

D.: che anche se c’ho due anni in più, gli altri sono sempre più intelligenti.<br />

ADULTO: tu pensi questo Pensi questo<br />

D.: ((sorride))<br />

ADULTO: sono più intelligenti in tutto<br />

D.: sì ((sorride))<br />

ADULTO: ((abbassa la testa e fa un lungo sospiro)) ma io vorrei sapere perché… noi<br />

lavoriamo e tu però pensi sempre queste cose negative, D.<br />

15


D.: non lo so ((sorride))<br />

ADULTO: ma tu spiegami una cosa, non c’è una cosa in cui ti senti intelligente<br />

D.: quando faccio le cose da solo mi sento intelligente.<br />

ADULTO: ah…e come mai allora<br />

D.: quando non so le cose non mi sento.<br />

ADULTO: ah, quando non sai le cose pensi “non sono intelligente”. Invece non è che<br />

pensi “non so le cose perché le devo ancora imparare”. Non è che pensi che puoi<br />

imparare, non lo pensi mai questo, che puoi imparare<br />

D.: non l’ho mai pensato ((sorride))<br />

ADULTO: non l’hai mai pensato E allora qui come mai vieni<br />

D.: forse xxxx<br />

ADULTO: dimmi un po’ una cosa, tu qui perché ci vieni<br />

D.: per imparare.<br />

E’ molto faticoso convincere D. delle sue capacità di apprendimento. Abbiamo spiegato<br />

che non si può recuperare in breve tempo tutte le conoscenze che i suoi compagni<br />

hanno acquisito più fac<strong>il</strong>mente perché non hanno avuto quei problemi di attenzione, di<br />

memoria, di linguaggio, e quell’isolamento sociale che lui ha avuto. E abbiamo<br />

proposto l’idea che l’intelligenza è una qualità dell’essere umano presente in tutti noi,<br />

un tesoro che per manifestarsi ha bisogno dell’aiuto di tante altre ab<strong>il</strong>ità. Ab<strong>il</strong>ità che<br />

non c’entrano con l’intelligenza, ma che le permettono di operare bene. Soltanto da<br />

poco tempo D. comincia a dare nuovi nomi ai suoi sbagli. Ad esempio, raccontando di<br />

aver preso la metro nella direzione sbagliata non dice più “perché sono stupido” come<br />

diceva spesso all’inizio del nostro intervento ma “ero nervoso perché ero in ritardo e<br />

mi sono distratto”.<br />

Conclusioni<br />

L’intervento con D. suggerisce che attraverso un trattamento si può modificare<br />

sostanzialmente la capacità di ragionamento di un individuo che ha ricevuto una<br />

diagnosi di “disab<strong>il</strong>ità intellettiva” lieve. Questo risultato suggerisce che <strong>il</strong> QI – rimasto<br />

in D. della fascia tipica della disab<strong>il</strong>ità intellettiva lieve anche nella valutazione più<br />

16


ecente - ha più a che fare con gli apprendimenti che con <strong>il</strong> ragionamento. Le capacità<br />

di ragionamento possono modificarsi con un trattamento, mentre <strong>il</strong> QI, quando viene<br />

valutato con test che implicano apprendimenti (visuo-spaziali, aritmetici, linguisticoconcettuali,<br />

sociali, ecc.) può non modificarsi, o almeno non migliorare con i tempi<br />

relativamente rapidi con cui possono invece modificarsi funzioni esecutive e memoria<br />

di lavoro.<br />

<strong>La</strong> questione centrale di una diagnosi –determinare <strong>il</strong> nucleo essenziale di un deficit,<br />

cogliere le relazioni esistenti tra diversi tipi di “sintomi”- può solo essere sfiorata<br />

quando ci limitiamo a valutare <strong>il</strong> QI e <strong>il</strong> funzionamento adattivo. Nel caso di D. <strong>il</strong><br />

“nucleo essenziale” è stato suggerito da una valutazione neuropsicologica che<br />

mostrava un deficit nell’attenzione, nelle funzioni esecutive e nella memoria di lavoro<br />

unito a un disturbo severo dell’integrazione visuo-motoria, della memoria narrativa<br />

(una componente della memoria episodica) e del lessico.<br />

In conclusione, etichette diagnostiche come disab<strong>il</strong>ità intellettiva o ritardo mentale non<br />

rendono conto della modificab<strong>il</strong>ità dell’intelligenza “fluida” in persone che attraverso<br />

un trattamento possono potenziare i principali supporti cognitivi delle ab<strong>il</strong>ità di<br />

ragionamento: funzioni esecutive e memoria di lavoro. Etichette diagnostiche che<br />

implicitamente assumono l’equivalenza QI deficitario=scarsa intelligenza sollevano<br />

anche questioni etiche non di poco r<strong>il</strong>ievo perché trasmettono alla persona valutata e<br />

alla sua famiglia la convinzione che ogni difficoltà, ogni errore, ogni incomprensione<br />

della persona dipendano da una componente poco modificab<strong>il</strong>e del sistema cognitivo.<br />

<strong>La</strong> convinzione di essere poco intelligenti finisce per togliere qualsiasi sostegno<br />

emotivo all’apprendimento e provoca nel tempo quella generalizzata stasi dei processi<br />

cognitivi che gli psicoanalisti definivano anni fa “inibizione del pensiero”. Del prodursi<br />

di questa inibizione non siamo in <strong>parte</strong> responsab<strong>il</strong>i noi psicologi e operatori della<br />

valutazione psicodiagnostica quando continuiamo a interpretare tutte le serie difficoltà<br />

cognitive di una persona come originate da scarsa intelligenza<br />

17


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Tabella 1 – Sintesi della valutazione neuropsicologica di D.<br />

Integrazione visuomotoria<br />

Una difficoltà di integrazione visuo-motoria contribuisce<br />

a ostacolare <strong>il</strong> disegno e rende la grafia un compito che<br />

assorbe molte energie attentive. D. dimostra però nel<br />

corso della valutazione che può apprendere nuove<br />

strategie di costruzione per disegni geometrici di una<br />

certa complessità.<br />

Linguaggio<br />

Conosce le proprietà semantiche gli oggetti (ad esempio<br />

la funzione) ma in alcuni casi ha difficoltà a ritrovare <strong>il</strong><br />

nome. Il numero di parole che è in grado di comprendere<br />

è inferiore a quello tipico di ragazzi della sua età. Anche <strong>il</strong><br />

lessico in produzione è deficitario e la comprensione<br />

grammaticale presenta ancora incertezze con le frasi<br />

negative e passive.<br />

D. dimostra di poter ricordare nuovi significati che gli<br />

sono stati spiegati (specialmente se questi significati si<br />

ancorano a ricche rappresentazioni emotive e narrative).<br />

Attenzione e funzioni<br />

esecutive<br />

È presente una lentezza di attivazione nel selezionare<br />

stimoli target, una lentezza di scansione visiva, una<br />

difficoltà a inibire una risposta appresa per produrre una<br />

nuova risposta, una difficoltà ad alternare regole diverse,<br />

una forte sensib<strong>il</strong>ità all’interferenza.<br />

20


Si osserva inoltre una scarsa capacità di pianificazione,<br />

una difficoltà nel controllare risposte impulsive e una<br />

certa difficoltà a individuare diversi possib<strong>il</strong>i punti di vista<br />

da cui considerare un materiale o una situazione (scarsa<br />

flessib<strong>il</strong>ità).<br />

Memoria di lavoro<br />

Una consistente difficoltà di memoria di lavoro verbale<br />

(memorizzare e contemporaneamente elaborare una<br />

serie di informazioni) influenza negativamente la<br />

comprensione di storie sia ascoltate sia lette. Questa<br />

difficoltà è alla base di una comprensione a volte<br />

frammentaria di istruzioni e discorsi.<br />

Deficit anche nella memoria di lavoro visuo-spaziale.<br />

Memoria verbale a<br />

lungo termine<br />

A una notevole carenza nella memoria a lungo termine di<br />

tipo “episodico” (quella che si avvale di una singola<br />

presentazione, di una singola esperienza) si aggiunge una<br />

difficoltà ad usare strategie per cercare e recuperare<br />

informazioni dalla memoria.<br />

Si osserva però che in presenza una ripetizione, o di una<br />

presentazione ripetuta più volte, le informazioni verbali<br />

vengono memorizzate e recuperate. Questo avviene più<br />

fac<strong>il</strong>mente se tali informazioni hanno legami semantici o<br />

sono inserite in azioni e interazioni di gioco.<br />

Teoria della mente e<br />

riconoscimento di<br />

emozioni<br />

D. ha una buona capacità di ragionare sugli stati mentali<br />

di altre persone e di riflettere sulla situazioni sociali e<br />

affettive che lo coinvolgono. Quest’ab<strong>il</strong>ità mostra che<br />

nell’ambito sociale si sono attivati ragionamenti anche<br />

complessi che possono essere molto ut<strong>il</strong>i sia per la<br />

comprensione delle narrazioni sia per acquisire nuove<br />

conoscenze sociali, sia per saper comprendere gli altri.<br />

Il riconoscimento visivo delle emozioni nel volto umano<br />

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non è invece ottimale ma questo punto dovrà essere<br />

approfondito.<br />

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Tabella 2 - Narrare di sé nella valutazione<br />

(D. parla di un ragazzo scout che ha creato molti problemi durante un’uscita)<br />

D.: “Siccome sta nella nostra squadriglia siamo quelli che lo dobbiamo sopportare più<br />

di tutti, però i miei compagni non lo sopportano, non lo riescono a sopportà, invece io<br />

si. Loro quando stavamo a dormire lo sgridavano, invece io non l'ho sgridato”<br />

Adulto: “Gli hai detto qualcosa”<br />

D.: “Si gli ho detto qualcosa, con calma, gli ho detto-siccome i capi quando fischiano<br />

dobbiamo andare a dormire (…) l'unica cosa che gli ho detto è -smett<strong>il</strong>a, perché i capi<br />

se no ci sgridano. Lui però anche se gli dici... o gli dici con le buone maniere o con le<br />

cattive fa così. Però già i compagni scout con me non si comportano tanto bene, con<br />

lui si comportano ancora peggio, perché ci ha più problemi. Io capivo meglio se<br />

questo non sapeva nemmeno parlare. Io non riesco a capire, questo riesce a parlare<br />

bene però si comporta da bambino piccolo. Non riesco a capire perché questo ci ha i<br />

problemi grossi.<br />

Adulto: Ognuno ci ha le sue difficoltà, non siamo tutti uguali, tu che pensi<br />

D.: riesco a capire che ci ha problemi ma non capisco perché ci ha problemi.<br />

Adulto: Eh, questo è diffic<strong>il</strong>e. Tu che vorresti, che i tuoi compagni..<br />

D.: Che lo trattassero meglio. Lui non si sa controllare ma non è che loro lo possono<br />

str<strong>il</strong>lare (…) Io so che lui si comporta male ma un po' è colpa anche... quello che<br />

penso io è che forse è colpa anche dei miei compagni, perché loro non gli stanno<br />

dietro.”<br />

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