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novembre - Fraternità San Carlo

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Non tanto liberare fantasia quanto lo sforzo di penetrare realtà,rivelandola, è poesia. Giovanni Lindo FerrettiNOVEMBREfraternitàemissione5izioneriano ci aiuta a percepire noi stessi come parte di unpopolo orante. Si tratta di un canto che più di altri si avvicinaalla preghiera, la favorisce e la educa con particolareforza attraverso la calma e lieta certezza della fede.Per questo ogni altro tipo di canto deve attingere all’originalitàdel canto gregoriano, al suo equilibrio, alla suacompostezza ed essenzialità. È un giudizio che abbiamoimparato da don Giussani, il quale volle che anche ilcanto gregoriano trovasse spazio nella liturgia del movimento(basti pensare al Veni <strong>San</strong>cte Spiritus, agli inni ingregoriano cantati dai Memores Domini, all’uso del gregorianomoderno attraverso gli inni di Vitorchiano).Il canto popolareLa storia della Chiesa ci testimonia importanti incrocitra canto liturgico e canto popolare. Lungo i secoli sononati canti liturgici con accenti popolari (pensiamo almondo tedesco), ma anche canti propriamente assuntidalla liturgia (per esempio il canto latino americano o ilcanto gospel).Il canto popolare è come una finestra sull’esperienzaumana di un popolo. Per questo il desiderio missionariodi parlare alle persone alle quali siamo mandati deveprima o poi intercettare le corde della musica. Con ilsorgere di questa Fraternità, Dio ci ha consegnato l’opportunitàdi poter condividere la ricchezza di repertorioche incontriamo nei luoghi in cui siamo presenti,come anche il movimento ci ha sempre insegnato. Perdiscernere l’adeguatezza di un canto popolare alla liturgiaesiste un semplice criterio: valorizzare quei cantiche ci aiutano a pregare, anche se non raggiungononella forma l’armonia delle proporzioni del canto gregoriano.IL RETTO TONOUn fiume che crescedi Jonah LynchIl tono retto, con cui recitiamo quotidianamentele Ore, è come un fiume che inizianei piccoli ruscelli di montagna e via viaacquista forza e corpo attraverso l’apportodi ogni voce.Un salmo viene intonato dall’antifonario.Il salmista risponde. Da questo dialogotra due persone nasce la preghieracorale: dopo il salmista risponde il coro acui lui non appartiene. Poi l’altro cororisponde, e si continua così fino alla finedel salmo. Fra i due cori non c’è unostacco. Il flusso del canto prosegue ininterrottotra la fine del primo coro e l’iniziodel secondo. È come passare il testimonein una corsa: il testimone non si ferma, mai corridori devono periodicamente riposarsi.Esiste, sì, una pausa nel canto: il respiroche ogni coro prende a metà della riga cherecita, che è un potente strumento perimparare l’unità ecclesiale. Questa pausaesprime il silenzio fisico, il silenzio delcorpo, il riposo. Esprime la brevità dellatenuta dell’uomo, che può lanciarsi nellacorsa, ma solo per un tempo limitato.Esprime il bisogno, la dipendenza. Più profondamente,esprime l’unità corporea delcoro, che è composto di tante personesingole, ma che impara a respirare e avivere come un corpo solo. È interessantenotare che se durante le prove, il direttoreinsiste sulla lunghezza di questa pausa direspiro, tende a rovinarel’unità. Come il respiro diogni uomo avviene senzapensiero cosciente, ediventa affannoso eaddirittura patologico seuno ci pensa, il respirodel coro deve avvenirecome una funzione profondamenteorganica.Deve essere una necessitàdella vita del coro e del canto. Non èpossibile cronometrare questo tempo. Sesi prova ad indicare la sua durata conesattezza, ogni cantante la interpreta inmodo diverso. Per questo la durata dellapausa “avviene”: si sviluppa nel tempo,con la pratica e con un intrinseco rapportoallo spazio acustico in cui si canta. Il corodiventa veramente un corpo che respira evive.Anche la tradizione è come un corpovivo. È simile a un fiume che attraversa isecoli, ma forse è più simile ancora ai vecchiulivi che mandano nuove gemme datronchi parzialmente distrutti dall’età. C’èun principio vitale che rimane potente, anchese nascosto. Le radici sono forti; laAscoltare è comelanciare una cordaall’amicoin montagna,per camminareinsieme a luiin sicurezzaloro espressione nel tempo può mutare,ma non si allontana mai di troppo da ciòche è sempre stato. L’albero buono producefrutti buoni. Innestarsi in una tradizionevuol dire rivivere ciò che è stato validonel passato. Ma rivivere non vuol diremeramente ripetere. Vuol dire riattualizzare,rendere nuovamente presente, esprimereciò che è perenne con la sensibilitàdel presente. Nel canto questo vuol direnon avere paura dell’enorme varietà deiluoghi, sensibilità, personalità, e accentipresenti in una comunità che prega.A volte, nella recita privata dei salmi, laricchezza delle immagini e delle parolenecessitano di un lungo silenzio dopo ogniriga. Sono parole così dense che sembranoscivolare via come acqua se non cisi ferma adeguatamente. È una bellissimaesperienza, sprofondarsi nelle parole deisalmi.Ma questa libertà nel prendersi il temponon è possibile nella preghiera corale. Lapreghiera corale perciò si presenta comela forma ordinaria della preghiera, custodedell’essenziale, al di là degli alti e bassidell’attenzione e della commozione dicolui che prega. Certamente c’è uno spazionella meditazione privata per lunghisilenzi e per profonde meditazioni. Ma lacontinuità umile e essenziale della preghieracorale garantisce la base da cui ilsingolo può spiccare il volo.Insistere sull’unità vuol dire impararead ascoltare gli altri, non solo i più vicini,ma forse ancora di più i lontani. Per cantarecome una sola voce, ogni cantante inun coro deve ascoltare se stesso, le vocipiù vicine e anche qualchevoce all’altra estremitàdel coro. Ascoltareattentamente anche chista all’altro lato del corotesse una rete invisibiledi relazioni, come fili diluce che tengono unitotutto il coro. Ascoltare ècome lanciare una cordaall’amico in montagna,per camminare insieme a lui in sicurezza.Lasciata all’ispirazione del singolo, lapreghiera presto decade in tante riduzioni.Ha bisogno della costanza di un gestosemplice, possibile con ogni statod’animo, a ogni età, a ogni profondità diintuizione. E proprio così, negli anni, unoscopre che senza averci posto tantaattenzione consapevole, queste parolesono diventate tuttavia parte di sé. Uno sisorprende a ragionare, a parlare e a sentirecon le categorie dei salmi. Diventanaturale subordinare la propria genialità eintuizione teologica all’unità del corpo acui si appartiene. Diventa naturale respirarein unità, correggere il fratello comeuno che è già una sola cosa con sé.


Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastitàdel mondo, il cielo e la terra. Benedetto XVI6 fraternitàemissioneNOVEMBRENotizie Flasha cura di Fabrizio CavaliereNUOVE DESTINAZIONIOlanda, Italia, Cile, UsaInizia una nuova presenza dellaFraternità in Olanda, a ‘s-Hertogenbosch(in italiano: Boscoducale),con Michiel Peeters.In Italia, Ubaldo Orlandelli va aVigevano (Pv) dove collaboreràcon la Fondazione «MaddalenaGrassi», come cappellano.Giampiero Caruso lavorerà aRoma.Silvano Lo Presti ha iniziato lasua nuova missione a <strong>San</strong>tiagodel Cile, come viceparroco dellachiesa «Beato Pedro Bonilli».Paolo Cumin è destinato allacasa di Boston (Usa).Freschi di ordinazioneLa casa di formazione di <strong>San</strong>tiagoospiterà il neodiaconoRuben Roncolato. Per quanto riguardagli altri diaconi: EmanueleAngiola ha raggiunto la casadi Taipei, Diego Garcia quella diBroomfield (Denver, Usa); SimoneGulmini è destinato allacasa di Fuenlabrada (Madrid,Spagna). Tommaso Pedroli eLuca Speziale proseguono illoro lavoro a Roma.Patricio Hacin, novello sacerdote,si trasferisce da Città delMessico a Washington DC(Usa), come viceparroco di«Christ the King». ChristophMatyssek, anch’egli ordinato agiugno, prosegue la sua missionein Terra <strong>San</strong>ta come viceparrocoe cappellano degli studentiuniversitari a Bir Zeit.NUOVI INCARICHI<strong>San</strong>ta SedeMassimiliano Boiardi è statonominato cerimoniere pontificio.INIZIO ANNO SOCIALENuovi ingressi in seminarioCon la messa in Casa di formazioneil 5 settembre, si è inauguratoil nuovo anno di studi.I nuovi seminaristi sono dieci.José Medina, sacerdote della <strong>San</strong> <strong>Carlo</strong>, è preside dellaCristo Rey High School, scuola diocesana di Boston. Lascuola è nata sei anni fa e Medina vi lavora dal 2007.José, a chi si rivolge la vostra scuola?Abbiamo quasi 300 ragazzi provenienti soprattutto daBoston e dalle zone limitrofe, e tutti di famiglia povera.Le famiglie con un reddito superiore ad una certa cifranon possono mandare i figli nel nostro istituto. La maggioranzadelle famiglie dei nostri studenti è costituitada immigrati, soprattutto dall’America Latina (quasi il40%), da Haiti (il 20%), dalle isole portoghesi. C’è poiuna minoranza di afroamericani. Il profilo etnico è moltosimile a quello che caratterizza la città di Boston: tra 4-5anni la maggioranza sarà rappresentata da latinoamericani,non irlandesi o italiani.La Cristo Rey è una scuola diocesana, e fa parte di unarete di ventiquattro istituti. Il fondatore, un gesuita, avevaun obiettivo preciso: offrire una possibilità di educazionealle famiglie povere negli Stati Uniti. Qui le rettescolastiche sono molto costose, tante famiglie non possonopagarle e i sostegni pubblici sono scarsi. Allora siè trovata questa formula: i ragazzi lavorano una volta allasettimana nelle aziende e queste sostengono i lorostudi, ottenendo in cambio vantaggi fiscali dallo Stato.La scuola da un lato funziona come una scuola normale,dall’altro assolve anche le funzioni di una agenzia dilavoro temporaneo.Quali sono le difficoltà più grandi, in questo contesto dipovertà?Nonostante la scuola sia una high school, ovvero offragli ultimi quattro anni di formazione (dai 14 ai 18 anni),solitamente i nostri studenti non hanno ricevuto una buonaeducazione. Non hanno le basi del leggere, dello scrivere,della matematica. Questa è la difficoltà maggiore.Un secondo ostacolo è la povertà stessa: molti ragazzivivono in famiglie in cui il padre non c’è, la madre falavori molto umili. Viene a galla un mondo di violenza edi indigenza, poco visibile ma durissimo. Alcuni servizipubblici, come la sanità, non sono assolutamente coperti.Inoltre, andare in università in America è fondamentaleper avere una vita normale, e i genitori dei nostri studentinon sono mai andati in università; non sanno checosa significhi. Queste le sfide che potremmo definire"tecniche".E quali sono invece gli aspetti più interessanti?Sono principalmente due. Il primo è la sfida dellavoro. Come spiegavo prima, ogni mese gli studentihanno cinque giorni di lavoro e quindicigiorni di lezione; se un ragazzo arriva danoi a quattordici anni, alla fine degli studiavrà lavorato l’equivalente di un anno atempo pieno. Molto spesso, quando iragazzi arrivano al quarto anno, durantel’estate o nel fine settimana guadagnanopiù dei loro genitori. In America è facilecadere nel tranello per cui “fai i soldi e perciòsei a posto”: emerge allora la questionedel significato e delle ragioni del lavoro.L’altra sfida su cui poniamo molta attenzioneè la tradizione. I nostri studenti provengono dafamiglie prive di cultura, o in cui si parla male l’inglese,ma spesso animate da una religiosità profonda. Quandoi ragazzi entrano nel mondo del lavoro, da un quartierepovero e malandato si trasferiscono in grandiosi grattacieli,in un mondo completamente ateo e anti-religioso,in cui tutto è competitività. È facile che essi colganoquesto gap e che, nel passaggio, si dimentichino osi vergognino della famiglia e del rapporto con Dio.Spesso chiedo:«per cosapreghi?». È unaeducazione: èrenderli coscientidi come è grandeil mondoUsa La scuola è qSui banchi di Boston, dove José Medina insegna a studeLatina. La sfida del lavoro, il rapporto con la tradizione, la paa cura di Gianluca AttanasioAllora bisogna aiutarli a capire che c’è un’unità in tuttequeste cose. La povertà o la difficoltà non coincidonocon la famiglia. La religiosità non è solo per i poveri odisperati, ma c’entra con tutto.Ciò significa educare a una diversa concezione dellapersona.È così. I genitori sono in grosse difficoltà. È perciòimportante far capire ai ragazzi che le circostanze nondefiniscono la persona, come del resto non garantisconola felicità. Uno può lavorare duramente, ma ladefinizione della propria persona non è il risultato delproprio lavoro. La definizione della propria persona èla coscienza di essere amati da Dio, e questo essereamati si riflette nelle circostanze che succedono. L’esserecapaci di riconoscerle è importante. I ragazzi nonvedono più l’amore che ricevono da Dio, perché nonsono abituati a guardare. Certamente rientrano in questosguardo le tradizioni dei propri paesi,ma se non vengono iscritte nella propriavita, con il tempo le tradizioni muoiono.Come aiutate i ragazzi a tener viva la lorofede e a non vergognarsi delle loro radici?Ho imparato negli anni che bisognainnanzitutto stare molto attenti a quello chesuccede e che loro ritengono importante.Per esempio, quando c’è stato il terremotoad Haiti, all’inizio c’era molta confusione:circa cinquanta ragazzi avevano familiariad Haiti. Abbiamo cominciato a lavorare con loro. Anzituttoabbiamo pregato. Poi li abbiamo aiutati a mettersiinsieme. Loro hanno tentato di raggranellare deldenaro: hanno cucinato per altri, hanno venduto deglioggetti. Hanno anche promosso una giornata dedicataalla loro cultura: i canti, le poesie. Alla fine dell’annoabbiamo intrapreso una discussione su quale fosse ilcompito del loro essere insieme. È stato commovente.Uno ha detto: «Il nostro compito è aiutare il mondo, non


BUONAVISIONE>>Together with YouUn film di Chen KaigeCina, Corea del sud 2002durata 116 minIl tredicenne Xiao Chun suona il violino da quando è bambino, forse per compensare la mortedella madre che non ha mai conosciuto. Il padre sogna per lui un grande futuro da musicista: cosìi due si trasferiscono a Pechino, dove il ragazzo incontra maestri duri ed esigenti e anche ilprimo, bruciante amore... Un film intenso sul talento e sulla paternità, con un finale a sorpresa.NOVEMBREfraternitàemissione7Un sacrificio che vale HarvardUna “materia” di cui non si parla mai ascuola, ma che se viene esclusa rende impossibilestudiare e crescere. È il sacrificio.«L’anno scorso ho cominciato a parlare moltofrequentemente del sacrificio», dice JoséMedina. «Il sacrificio è dentro l’amore. Tu lofai perché ami, altrimenti non ti muovi. Faparte dell’educazione della vita. Se tutto diventauna questione di piacere immediato,non c’è possibilità di amare».Puoi fare degli esempi? «Tre anni fa ungruppo di ragazzi e di professori mi hannocomunicato che volevano istituire un corso dimatematica di livello avanzato. Abbiamo tenutoil corso durante l'estate: i ragazzi andavanoa lavorare, e poi, dalle sei alle otto, avevanoil corso e poi gli esami. Sulla base diquell’esperienza, a metà di quest'anno hoproposto ai ragazzi di tentare di viverel’estate pensando a ciò che vogliono fare:studiare, lavorare o fare qualcosa di utile, pernon vivere un tempo morto. La mia propostaha dato l'avvio a frequenti dialoghi su ciòche è giusto fare. Poiché l'Università di Harvardtiene dei corsi estivi in una scuola vicinaa noi, abbiamo mandato lì quasi ottanta ragazzi».E come è andata? «I docenti di Harvardsono colpiti dal loro impegno. Quei ragazzisono là accettando il sacrificio, perchélo vogliono. Hanno voglia di stare là».uestione di vitati di famiglie povere, in prevalenza immigrati dell’Americassione educativa. E la scoperta dell’unità della vita.solo Haiti». Il desiderio di amare le persone non è misuratodalle proprie capacità. Alla fine, i ragazzi non hannoraccolto tanti soldi, ma credo che sia stato un esempio diuna educazione e una apertura alla vita veramente preziose.Una attività molto semplice è il pregare assieme. Abbiamoun momento durante la giornata dedicato alla preghiera.Spesso chiedo: «per che cosa preghi?». È una educazione:è renderli coscienti di come è grande il mondo.Come si svolge questo momento di preghiera?Leggiamo una preghiera, che inseriamo nel bollettinoquotidiano. Poi, liberamente, si dicono le intenzioni cheuno ha nel cuore e poi si recita il Padre nostro, la preghieradi san Francesco... In questi anni ho visto gli studenticambiare. All’inizio si pregava con vergogna, lagente non voleva dire certe cose. Nel tempo, però, lapreghiera è diventata il momento in cui emergono ledifficoltà legate alla famiglia, al rapporto con gli amici,agli esami. C’è un momento della vita, tutti i giorni, incui, semplicemente, si capisce che tutto è importantenel rapporto con Dio.E con i professori che rapporto c’è?Vivo il lavoro con i professori guardandoli, cercandodi capire quali sono le loro passioni. In un certo sensonon ho molto in comune con loro, la fede non è un terrenocondiviso a cui potersi attaccare. Parto allora daldesiderio che vedo in loro, che può essere desiderio dicapire una materia meglio o di aiutare i ragazzi a imparare.Li aiuto in un dialogo e poi a trovare altre personecon cui parlare di queste cose. I cambiamenti più grandiin questi anni sono stati sempre guidati dalle passioniche ho trovato nelle persone.Un altro aspetto riguarda il rapporto degli adulti coni ragazzi. Nei primi tempi, gli adulti sentivano il ragazzocome nemico, come uno che non ha voglia di lavorare.Questo sta cambiando, anche nel modo in cui noi parliamodegli studenti. Ho insistito molto su cosa davveroÈ bello lavorarecon questi ragazzi:la vita è cosìdrammatica cheinvita a qualcosadi più grandeJosé Medina, 42 anni, prete dal2001, con i suoi studenti il giornodella consegna del diploma. Paginaa fianco, skyline di Boston.significhi stare con i ragazzi, parlare con loro e di loro:un’educazione a rispettare la loro alterità. È facileessere contenti di chi ti segue e arrabbiarsi con quelliche non ti ascoltano. Ma questo significa perdere ladimensione misteriosa della persona, e sciupare il rapportocon chi ti sta davanti.Che cosa cambia nella scuola la presenza di un preteche vive la sua fede e la sua vocazione con verità?Il solo essere preti nella scuola è di per sé una cosache non si vede da nessuna parte. Ci sono veramentepochi religiosi negli istituti, ormai. Per i ragazzi, il fattoche ci sia un prete che insegna, e che non insegna religione,ma storia, fisica e matematica, apre una domanda,rompe la divisione che esiste tra la fede e la vita, perchévedono nel sacerdote-professore un chiaro punto diunione. Tutto sta nell’essere là, immersi nella vita deglistudenti, non come un direttore spirituale che ti dicecome dovresti comportarti, ma una persona che fa il suolavoro e testimonia che c’è un modo più bello di vivere.Per me è decisivo pormi di fronte ai ragazzi non per risolverela loro vita, ma per aiutarli a vivere il dramma dellavita. Lasciando le domande aperte, c’è la possibilità cheloro trovino Cristo, attraverso delle conversazioni, attraversodei libri. Il bello del lavorare con questi ragazzi èche la vita è così drammatica che invita a qualcosa di piùgrande. Ai professori dico sempre: non siamo qui per risolverela loro vita. Siamo qui per vivere con loro l’avventuradella vita, sia quel che sia.


Il meraviglioso è la mia atmosfera naturale, nel seno della quale mi sento bene…ma un Meraviglioso che sia vero! Olivier Messiaen8 fraternitàemissioneNOVEMBREINTERVISTA A MOGOLLa vita eternadi una bella canzone«Ho cercato sempre di descrivere quello che vedevo, diraccontare il bello del Creato. Non so se sono riuscito araggiungere questo traguardo di libertà totale. È un giudizioche lascio al pubblico, a chi ha ascoltato in questianni le mie canzoni». Giulio Rapetti, in arte e per tuttiMogol, racconta a Fraternità e Missione il suo rapportocon la musica. In settembre l’autore storico di Lucio Battisti(e di molti altri) ha festeggiato cinquant'anni di unacarriera che ha lasciato un tratto indelebile nella storiamusicale italiana. E nella vita di migliaia di persone.Don Massimo Camisasca scrive che la musica è unmistero. Lei cosa ne pensa?Sì, è un mistero, perché la musica è un atto innanzituttoricettivo e non creativo. Come accade in tutte learti: l’essenziale è recepire le cose importanti che la vitaci mette sotto gli occhi. Per tradurle in musica, poi, civuole la volontà, la disponibilità e un lavoro da partedell'uomo.Come nasce una canzone? Qual è il segreto di una bellacanzone?Il compositore nel suo lavoro è libero. Il tema gli vienesuggerito dalla musica: è lei che guida la mia produzione.Non mi preparo, lascio tutto alla mia creatività.Quando mi accorgo di aver fatto una bella canzone? Sesopravvive e non muore nel tempo.Quando una canzone diventa poesia?Non ci sono particolari limiti. Non è il mezzo ma il contenuto,quello che si vuole esprimere, che porta la canzonea diventare poesia.L'autore di “Emozioni”racconta il suo rapportocon la musicaa cura di Francesco MontiniMogol durante un incontro con ipreti della Fraternità san <strong>Carlo</strong>.La sede del Cet, in un suggestivoborgo umbro, ha ospitatoin febbraio la XI Assemblea generaledella Fraternità.Che rapporto c'è tra il testo e la musica?Il testo deve avere il senso della musica. La sintoniatra parole e note porta a una sinergia assoluta: Se il testovale dieci e la musica dieci il risultato che si ha non èventi, bensì cento. Parole e musica devono essere un tutt’uno,fondersi l’una nell'altra.La musica è dell’artista o del popolo?Assolutamente del popolo: è lui il giudice ultimo. Puòinfatti decidere e stabilire se una canzone è positiva onegativa, se può vivere nel tempo o soffocarla. In questoha, forse senza accorgersene, una grandissima responsabilità.Classica, lirica, leggera: esigono ascolti diversi?Possiamo dire che in tutte c’è un comune denominatore:esiste il bello come il brutto. Questo però indica lapresenza di un’educazione da parte di chi ascolta,un’oggettività nel giudicare. Noto che questo oggicapita sempre meno, visto che le logiche del bello sonodettate più da interessi utilitaristici, di marketing e diprofitto immediato.È per questo che fondato il Cet, la sua scuola di formazione?Non ho voluto fondare un ente di formazione, ma unascuola di cultura popolare. Ho notato che anche lamusica stava vivendo un periodo di recessione. La miarisposta è stata aprire questa scuola che da la possibilitàa molti giovani di imparare a comporre, a conoscereed amare la musica. Ho cercato di offrire loro una formazionemusicale che sembra non esserci più.

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