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<strong>Straub</strong>/<strong>Huillet</strong> ● <strong>Cineasti</strong> <strong>italiani</strong><br />
da Bach a Schoenberg, da Hölderlin a Vittorini, a contare nei film<br />
di <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> è tutto quello che non si consuma in un facile<br />
riconoscimento. Si parte da un testo, sempre, per arrivare<br />
comunque a un altro testo, che è quello del cinema, fatto di<br />
inquadrature e découpage, dove a contare non sono più solo la<br />
musica di Bach o la pittura di Cézanne o i versi di Hölderlin e<br />
Corneille, bensì quella musica, quella pittura, quei versi, con in<br />
più la riscoperta di una luce, di un suono, del giusto peso dato a<br />
una parola (mai detta con la tecnica insegnata dalle scuole di<br />
recitazione, e invece sempre “citata”, fatta propria dall’attore) o<br />
di una pausa improvvisa che spezza il discorso, o, più<br />
semplicemente, della forza evocativa della memoria. Movimenti<br />
di macchina limitati al massimo, comunque sempre essenziali, o,<br />
anche lunghe, insistite, sconcertate panoramiche, profondità di<br />
campo misurata dagli attori e dalle cose inquadrate, un controllo<br />
assoluto del set. Una recitazione classica ma non perfetta,<br />
scolpita, priva di emozioni che non siano quelle dell’attore che<br />
agisce senza rete, impegnato in lunghi monologhi, detti restando<br />
immobile e spesso guardando obliquamente rispetto<br />
all’obiettivo, verso un fuori campo che, così, elegge o rifiuta,<br />
dialetticamente, lo sguardo dello spettatore come privilegiato<br />
interlocutore. È “il fuori” dell’inquadratura che non viene mai del<br />
tutto escluso, che esiste e si annuncia (il fruscio del vento<br />
sull’erba, l’ombra delle nuvole, il rumore della città o della<br />
campagna), che arricchisce e smargina “il dentro”.<br />
Con <strong>Straub</strong>-<strong>Huillet</strong> il cinema mette in atto ogni volta la prova più<br />
ardita: coniugare la densità e il valore del testo con la misura<br />
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