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Pagine di storia brindisina

Non è questo un testo di storia, ma è solo una raccolta di alcunii episodi della storia di Brindisi, non tra di essi necessariamente collegati e qui rieditadi e riordinati in sequenza cronologica. Si tratta, infatti, di vari articoli già in precedenza da me pubblicati online, alcuni sulla pagina Brindisiweb.it e altri sul blog “Via da Brindisi” del quotidiano online Senza Colonne News, altri ancora su "il7 Magazine". Il distintivo, scelto per la copertina di questa raccolta, vuole essere un omaggio alla figura e alla memoria di un grande brindisino doc, Don Pasquale Camassa, generoso amante, nonché prolifico divulgatore, della storia della sua città.

Non è questo un testo di storia, ma è solo una raccolta di alcunii episodi della storia di Brindisi, non tra di essi necessariamente collegati e qui rieditadi e riordinati in sequenza cronologica. Si tratta, infatti, di vari articoli già in precedenza da me pubblicati online, alcuni sulla pagina Brindisiweb.it e altri sul blog “Via da Brindisi” del quotidiano online Senza Colonne News, altri ancora su "il7 Magazine".
Il distintivo, scelto per la copertina di questa raccolta, vuole essere un omaggio alla figura e alla memoria di un grande brindisino doc, Don Pasquale Camassa, generoso amante, nonché prolifico divulgatore, della storia della sua città.

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PAGINE DI STORIA BRINDISINA<br />

Gianfranco Perri<br />

2019


PAGINE DI STORIA BRINDISINA<br />

Gianfranco Perri<br />

2019


PREFAZIONE<br />

Scrivere una prefazione allo splen<strong>di</strong>do libro <strong>Pagine</strong> <strong>di</strong> <strong>storia</strong> brin<strong>di</strong>sina<br />

<strong>di</strong> Gianfranco Perri non è un’impresa facile, perché i criteri seguiti - come<br />

precisa l’autore stesso - sono molteplici: a quello cronologico della trama<br />

principale, incentrata sulla <strong>storia</strong> della città, si alterna quello tematico dei<br />

numerosi approfon<strong>di</strong>menti (ampiamente e variamente documentati) sul<br />

contesto storico e culturale.<br />

Questo libro, oltre a essere un’accurata ricostruzione delle vicende<br />

brin<strong>di</strong>sine, utile a tutti coloro che vorranno accostarsi alla <strong>storia</strong> della<br />

città per stu<strong>di</strong>o o <strong>di</strong>letto, rappresenta l’ennesimo atto <strong>di</strong> amore <strong>di</strong><br />

Gianfranco Perri per la sua Brin<strong>di</strong>si (numerose le sue precedenti<br />

pubblicazioni sull’argomento), che ha dovuto lasciare da giovane<br />

dapprima per ragioni <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o e poi per svolgere importanti attività<br />

professionali all’estero.<br />

E tale immenso amore trapela dalle pagine <strong>di</strong> accuratissime<br />

descrizioni <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> e luoghi, arricchite sovente da riproduzioni<br />

pittoriche e fotografiche.<br />

Con questo libro Gianfranco Perri, anche se per <strong>di</strong>letto - ma non c’è<br />

nulla che si faccia meglio quando nel farlo si prova <strong>di</strong>letto - dà un<br />

importante contributo alla ricostruzione ed alla <strong>di</strong>vulgazione della <strong>storia</strong><br />

della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

La formazione <strong>di</strong> una <strong>storia</strong>, nota e con<strong>di</strong>visa, è uno dei principali<br />

elementi che fanno sì che un insieme <strong>di</strong> persone possa qualificarsi ed<br />

essere una comunità, e che consente ad una comunità <strong>di</strong> adottare<br />

consapevolmente, conoscendo il proprio passato, le scelte migliori per il<br />

proprio futuro.<br />

Nessuna scelta può essere adottata per il futuro se non si ha<br />

conoscenza e consapevolezza del proprio passato e della propria <strong>storia</strong>.<br />

L’autore riesce a mettere sapientemente in luce i punti <strong>di</strong> forza della<br />

nostra città, il suo bellissimo mare e la terra feconda che la circonda,<br />

l’essere Brin<strong>di</strong>si luogo <strong>di</strong> incontro tra Oriente e Occidente, il porto sicuro<br />

per ogni veliero fin dall’antichità, l’esserci oggi anche un aeroporto <strong>di</strong><br />

rilevante importanza.<br />

Le <strong>Pagine</strong> <strong>di</strong> <strong>storia</strong> brin<strong>di</strong>sina ci mostrano dunque tutte le forti<br />

potenzialità della città, esortandoci, tra le righe, a ridare a Brin<strong>di</strong>si il<br />

ruolo <strong>di</strong> primo piano a livello nazionale e internazionale che essa merita.<br />

Grazie, quin<strong>di</strong>, Gianfranco Perri.<br />

Roberto Fusco


PAGINE DI STORIA BRINDISINA<br />

Non è questo un testo <strong>di</strong> <strong>storia</strong>, ma è solo la raccolta <strong>di</strong> alcuni episo<strong>di</strong> della <strong>storia</strong> <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, non tra <strong>di</strong> essi necessariamente collegati, qui rie<strong>di</strong>tati e rior<strong>di</strong>nati seguendo<br />

in principio la sequenza cronologica dei fatti illustrati. Si tratta, infatti, <strong>di</strong> vari articoli<br />

già pubblicati nel trascorso <strong>di</strong> anni recenti, alcuni sul settimanale il7 Magazine, altri<br />

online, sul blog “Via da Brin<strong>di</strong>si” del quoti<strong>di</strong>ano Senza Colonne News o sulle pagine<br />

Brin<strong>di</strong>siweb.it, Fondazioneterradotranto.it, eccetera.<br />

Il <strong>di</strong>stintivo, scelto per la copertina <strong>di</strong> questa raccolta, vuole essere un omaggio alla<br />

figura e alla memoria <strong>di</strong> un illustre brin<strong>di</strong>sino, Don Pasquale Camassa, generoso<br />

amante, nonché prolifico <strong>di</strong>vulgatore, della <strong>storia</strong> della sua città.<br />

Fu Pasquale Camassa, presbitero, bibliotecario e storico. Nacque a Brin<strong>di</strong>si il 24<br />

<strong>di</strong>cembre del 1858 e fu tra i principali artefici della <strong>di</strong>vulgazione della cultura e<br />

dell'istruzione storica alla popolazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Creò, presso la propria abitazione <strong>di</strong> via Lauro 37, la "Biblioteca circolante gratuita",<br />

con una importante raccolta <strong>di</strong> circa 3.000 volumi aperta a chiunque nei giorni feriali.<br />

Fu rettore del Cimitero Comunale e fu <strong>di</strong>rettore del Museo Civico, la cui sede era allora<br />

nell’antico Tempio <strong>di</strong> San Giovanni al Sepolcro.<br />

Amato dalla popolazione, “Papa Pascalinu”, come era conosciuto dai brin<strong>di</strong>sini, fu<br />

promotore <strong>di</strong> innumerevoli altre iniziative culturali e nel 1921 fondò la famosa<br />

“Brigata amatori <strong>storia</strong> ed arte”, un’associazione culturale che organizzava,<br />

regolarmente i giovedì sera, presso il tempietto <strong>di</strong> San Giovanni al sepolcro, riunioni in<br />

cui Camassa era solito invitare letterati, scienziati ed artisti.<br />

Fu l’artefice della salvaguar<strong>di</strong>a <strong>di</strong> alcuni monumenti citta<strong>di</strong>ni, come la Fontana De<br />

Torres in piazza della Vittoria e soprattutto la Porta Mesagne, quando non solo si<br />

oppose alla demolizione ma occupò fisicamente l’antica porta, facendo dapprima<br />

interrompere i lavori e inducendo poi gli organi competenti a sospendere<br />

indefinitamente l’or<strong>di</strong>nanza <strong>di</strong> abbattimento.<br />

Tra i suoi scritti: Cenno storico <strong>di</strong> San Oronzo, protomartire salentino, Brin<strong>di</strong>si 1894 -<br />

Guida <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Brin<strong>di</strong>si 1897 e 1910 - Brin<strong>di</strong>sini illustri, Brin<strong>di</strong>si 1909 - Breve<br />

cenno storico dei santi fratelli minori Cosimo e Damiano con suppliche ed inno,<br />

Brin<strong>di</strong>si 1914 - Cenno storico <strong>di</strong> San Pasquale Baylon con preghiere al medesimo,<br />

Taranto 1923 - La romanità <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si attraverso la sua <strong>storia</strong> e i suoi avanzi<br />

monumentali, Brin<strong>di</strong>si 1934.<br />

Papa Pascalinu morì in ospedale a Mesagne, a 83 anni, ferito nel crollo della sua casa<br />

in Brin<strong>di</strong>si, con il bombardamento aereo della notte tra il 7 e l’8 novembre del 1941.<br />

Gianfranco Perri


PAGINE DI STORIA BRINDISINA<br />

• Le mappe <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: rassegna storica e curiosità<br />

• Tra Messapi e Coloni Romani i primi abitanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si documentati dalla <strong>storia</strong><br />

• Brin<strong>di</strong>si durante il fugace ma significativo regno italiano dei Goti<br />

• Brin<strong>di</strong>si nella guerra greco‐gotica<br />

• Brin<strong>di</strong>si bizantina e longobarda nei cinquecento anni più bui della sua <strong>storia</strong><br />

• Brin<strong>di</strong>si: da Messapica a Salentina e da Calabrese a Pugliese<br />

• Brin<strong>di</strong>si tra IX e X secolo in balia del 'tutti contro tutti'<br />

• Brin<strong>di</strong>si nel regno normanno <strong>di</strong> Sicilia del XII secolo<br />

• A Brin<strong>di</strong>si il principale traguardo terrestre della me<strong>di</strong>evale “via Francigena”<br />

• “La più antica e più illustre tra<strong>di</strong>zione brin<strong>di</strong>sina… unica in tutto il mondo…”<br />

• Il Duca <strong>di</strong> Atene: un personaggio trecentesco temuto e o<strong>di</strong>ato dai brin<strong>di</strong>sini<br />

• Brin<strong>di</strong>si al tempo dello scisma d'occidente sotto i re durazzeschi<br />

• Brin<strong>di</strong>si al tempo dei re aragonesi sul trono <strong>di</strong> Napoli<br />

• Brin<strong>di</strong>si durante il regno dell’imperatore Carlo V<br />

• Brin<strong>di</strong>si vs Oria: tra le chiese brin<strong>di</strong>sina e oritana 500 anni <strong>di</strong> aspri contrasti<br />

• Brin<strong>di</strong>si e Venezia: dall’XI al XVI secolo tra accor<strong>di</strong> solenni e severe <strong>di</strong>spute<br />

• 1595 ‐ 1600: pagine <strong>di</strong> cronaca brin<strong>di</strong>sina <strong>di</strong> fine Secolo XVI<br />

• Compie 400 anni ‘quasi’ al suo posto la fontana Pedro Aloysio De Torres<br />

• Mamma li turchi! Cronache brin<strong>di</strong>sine <strong>di</strong> scorrerie, rapimenti, schiavi e…<br />

• Al centro <strong>di</strong> un conflitto: Brin<strong>di</strong>si tra il 1799 e il 1801<br />

• Francesco Gerar<strong>di</strong>: eclettico sindaco brin<strong>di</strong>sino <strong>di</strong> fine ‘700<br />

• Il generale Alexandre Dumas prigioniero a Brin<strong>di</strong>si<br />

• 200 anni fa quando Mesagne era più importante <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

• Il canale d’ingresso al porto interno <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: Pigonati “NO” ‐ Monticelli “SI”<br />

• Lo storico e glorioso Idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

• 2015: 100 anni dalla trage<strong>di</strong>a della Benedetto Brin<br />

• 2016: 100 anni fa arrivarono a Brin<strong>di</strong>si i MAS<br />

• Lo sra<strong>di</strong>camento delle Sciabiche 1900‐1959<br />

• La motobarca del Casale: tra attualità e <strong>storia</strong><br />

• Quanti Brin<strong>di</strong>sini sono esistiti nel corso della <strong>storia</strong>? 2.536.733


Le mappe <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: rassegna storica e curiosità<br />

Pubblicato su.Brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

Un’antica immagine topografica <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si è stampata nel libro con cui si pubblicò la<br />

versione in lingua volgare del famoso libro <strong>di</strong> Giulio Cesare “I Commentari <strong>di</strong> C. Givlio<br />

Cesare ...con le figvre in rame de gli alloggiamenti, dé fatti d'arme, delle<br />

circonuallationi delle città & <strong>di</strong> molte altre cose notabili descritte in essi, fatte da<br />

Andrea Palla<strong>di</strong>o per facilitare la cognition dell'hi<strong>storia</strong> a chi legge”. Gli autori: Julius<br />

Caesar; Francesco Baldelli; Andrea Palla<strong>di</strong>o; Leonida Palla<strong>di</strong>o; Orazio Palla<strong>di</strong>o.<br />

L’e<strong>di</strong>tore: Appresso Pietro De' Franceschi, Venezia M.D.LXXV [1575].<br />

I fratelli Leonida e Orazio morirono prematuramente durante la preparazione delle<br />

stampe del libro e le immagini per la stampa furono quin<strong>di</strong> completate dal padre<br />

Andrea. Quella stampa del Palla<strong>di</strong>o che illustra l’asse<strong>di</strong>o che Cesare impose a Pompeo<br />

in Brin<strong>di</strong>si nel 49 A.C. ai tempi del De Bello Civili, inserita nel libro e<strong>di</strong>to nel 1575, può<br />

essere storicamente considerata la più antica mappa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Mappa del 1575 <strong>di</strong> Andrea Palla<strong>di</strong>o (180 x 136 mm)<br />

Seguirono numerose altre versioni illustrate <strong>di</strong> quel famoso testo <strong>di</strong> Cesare, una <strong>di</strong><br />

esse è quella in inglese curata da Martin Bladen e pubblicata a Londra da Richard<br />

Smith nel 1705: l’asse<strong>di</strong>o a Pompeo è ancora illustrato da un’incisione in rame<br />

intitolata “The haven of Brin<strong>di</strong>si”. In questa stampa inglese corredata da leggenda, a<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quella del Palla<strong>di</strong>o, la città entro le mura è chiaramente assimilata da una<br />

testa animale, forse <strong>di</strong> un cervo.<br />

1


The haven of Brin<strong>di</strong>si ‐ Londra 1705 (190 x 142 mm)<br />

Prima <strong>di</strong> quella inglese, vi erano state anche altre e<strong>di</strong>zioni illustrate del libro <strong>di</strong> Cesare,<br />

e tra queste, quella del Lezzi pubblicata <strong>di</strong> nuovo a Venezia dall’e<strong>di</strong>tore Misserini nel<br />

1635 in cui la città, a <strong>di</strong>fferenza delle altre versioni, è rappresentata squadrata come<br />

un “castrum” racchiusa nelle sue mura, con le sue porte e le sue torri. E poi ci furono<br />

altre versioni ancora, anche successive a quella inglese, nelle quali si evidenziano i due<br />

bacini del porto “maior & minor" riducendo i due seni ad un fossato che circonda la<br />

città, tipo mappa <strong>di</strong> Blaeu.<br />

A rigor <strong>di</strong> cronaca, e prima <strong>di</strong><br />

proseguire, è però doveroso<br />

citare una apparentemente<br />

ancor più antica mappa <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si con il suo porto:<br />

quella che, datata intorno<br />

all’anno 1525, è attribuita al<br />

cartografo, nonché grande<br />

ammiraglio ottomano, Piri<br />

Reis, vissuto tra il 1465 ed il<br />

1554. Una mappa questa, che<br />

presenta la città vista dal<br />

mare, e quin<strong>di</strong> con il Nord<br />

rivolto in basso.<br />

Mappa <strong>di</strong> Piris Reis – 1525<br />

2


L’ironia della sorte vuole che quella che probabilmente può essere considerata la più<br />

antica mappa ¨moderna¨ della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, tralasciando appunto quella del<br />

Palla<strong>di</strong>o e i cinquecenteschi <strong>di</strong>segni sapientemente elaborati dal condottiero<br />

navigatore ottomano, sia venuta alla luce con un errore nientemeno che nel titolo:<br />

TARENTO.<br />

Mappa del 1663 <strong>di</strong> Joan Blaeu (515 x 412 mm)<br />

La mappa, orientata con il Nord verso l’alto, fu elaborata dal cartografo olandese Joan<br />

Blaeu, <strong>di</strong>venuto in seguito anche cartografo ufficiale della Compagnia Olandese delle<br />

In<strong>di</strong>e Orientali. In alto a sinistra è rappresentato lo stemma della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e a<br />

destra lo stemma della famiglia Orsini. Nel cartiglio in basso ben 57 richiami,<br />

purtroppo non leggibili a occhio nudo.<br />

Sono però chiaramente identificabili tutta una serie <strong>di</strong> importanti elementi: il castello<br />

<strong>di</strong> mare e le isole Pedagne sul porto esterno, con la catena sul canale d’entrata al porto<br />

interno. La chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale con la strada che la congiunge alla<br />

principale porta d’entrata alla cittá dalla strada da Mesagne. Poi l’altra porta <strong>di</strong><br />

accesso dalla strada da Lecce attraverso un ponte che sorpassa il seno <strong>di</strong> levante.<br />

Quin<strong>di</strong> le mura <strong>di</strong> cinta complete dei vari torrioni <strong>di</strong>stribuiti partendo dal castello <strong>di</strong><br />

terra. Dentro le mura primeggiano le due colonne romane, <strong>di</strong> cui una già crollata, e la<br />

rete stradale è dominata dalla strada che attraversando tutta l’urbe collega Porta<br />

Mesagne con Porta Reale sulla riva del seno <strong>di</strong> levante: la Rua Magistris.<br />

3


La mappa, con incisione in rame e colorazione coeva, fu portata alla stampa nel 1663<br />

con il “Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum”, un<br />

atlante in cui Joan Blaeu cambia impostazione nel concepire quello che doveva essere<br />

un atlante <strong>di</strong> città. Mentre quelli che aveva precedentemente prodotto per l’Olanda,<br />

sono una semplice serie <strong>di</strong> mappe e piante, questo per l’Italia è un atlante molto più<br />

topografico che combina mappe geografiche con bellissimi panorami prospettici<br />

mostranti città e paesaggi agresti come pure <strong>di</strong>segni architettonici e monumenti.<br />

L’attività tipografica <strong>di</strong> Blaeu cessò drammaticamente nel 1672, quando un incen<strong>di</strong>o<br />

<strong>di</strong>strusse il suo stabilimento. Solo le mappe collocate in alcuni rami appartati della<br />

tipografia e alcune precedenti e<strong>di</strong>zioni immagazzinate altrove, si salvarono dal fuoco e<br />

furono vendute all’asta. Pierre Mortier, libraio belga che operava in Amsterdam,<br />

comprò le matrici delle città italiane.<br />

Nel 1705 il Mortier stampó il “Nouveau Thèatre d'Italie ou description exacte de ses<br />

Villes, Portes de Mer, Palais, Eglises, Principaux E<strong>di</strong>fices & c. et avec cartes<br />

chorographiques sue les desseins de feu monsier Jean Blaeu”, aggiungendo un quarto<br />

volume relativo al Nord Italia e Toscana. Nel Volume III, la tavola 25 riproduce la<br />

mappa <strong>di</strong> Blaeu.<br />

Mappa <strong>di</strong> Joan Blaeu ristampata nel 1705 da Pierre Mortier (496 x 410 mm)<br />

4


Rispetto alla carta originalmente stampata dal Bleau, vi son solo dei piccoli<br />

cambiamenti: nel cartiglio centrale oltre il titolo errato Tarento, dopo 41 anni non<br />

ancora corretto, è aggiunto il sottotitolo “Ville du Royoume de Naples situèe dans la<br />

Terre d'Otrante”; nel cartiglio in alto a destra è scomparso lo stemma della famiglia<br />

Orsini; la legenda ha sempre 57 richiami ma in basso a destra è aggiunto: “A<br />

Amsterdam par Pierre Mortier ‐avec privil‐”.<br />

L’errore nell’intitolazione é stato attribuito a quell’incen<strong>di</strong>o, immaginando che il<br />

materiale salvato alle fiamme avesse subito un grande <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne (“Brin<strong>di</strong>si ignorata”<br />

<strong>di</strong> N. Vacca - 1954), ma evidentemente ciò non risponde alla realtà, visto che la prima<br />

pubblicazione già contenente l’errore fu precedente all’incen<strong>di</strong>o.<br />

Sulla pagina web della biblioteca del Senato della Repubblica, cercando l’opera<br />

postuma in tre volumi dell’Abbate Giovanni Battista Pacichelli “Il Regno <strong>di</strong> Napoli in<br />

prospettiva <strong>di</strong>viso in dodeci province” stampata nel 1703 a Napoli, appare una scheda<br />

bibliografica che contiene la riproduzione delle 183 stampe che corredano l’opera, e la<br />

stampa N°113 del Volume 2, si intitola BRINDESI, e riproduce un´acquaforte <strong>di</strong> autore<br />

ignoto.<br />

É interessante la <strong>di</strong>dascalia del cartiglio al piede della mappa, che identifica e localizza<br />

14 elementi: 1 Duomo. 2 S. Maria delle gratie. 3 Carmine. 4 Castello <strong>di</strong> terra. 5 Fortezza<br />

<strong>di</strong> mare. 6 Porto che si serra con catena. 7 Porta reale. 8 Porta <strong>di</strong> Mesagne. 9 L’Assunta.<br />

10 Cappuccini. 11 S. Fran. co <strong>di</strong> Paola. 12 S. M. degli Angioli. 13 La Maddalena. 14 Le<br />

Colonne.<br />

Stampa del 1703 <strong>di</strong> autore ignoto (168 x 122 mm)<br />

5


Da osservare che con il N°14 sono in<strong>di</strong>cate le due colonne romane antistanti al porto,<br />

rappresentate in pie<strong>di</strong> nonostante una delle due fosse crollata nel 1528, si <strong>di</strong>ce senza<br />

causa apparente: 175 anni prima della stampa. Da notare inoltre, che molte delle<br />

chiese sono rappresentate nelle loro strutture me<strong>di</strong>oevali. Potrebbe pertanto dedursi<br />

che questa stampa, orientata con il Nord verso destra, sia stata verosimilmente<br />

ricavata rielaborando una qualche opera precedente, possibilmente realizzata tra gli<br />

ultimi anni del ´400 e i primi del ´500.<br />

Prescindendo da queste considerazioni, si deve comunque osservare che trattasi <strong>di</strong><br />

una mappa decisamente meno avanzata <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Blaeu del 1663, precedente <strong>di</strong> ben<br />

quaranta anni, che il Pacichelli evidentemente non aveva nemmeno visto giacché in<br />

essa tra l’altro, vi é invece correttamente rappresentata una sola colonna in pie<strong>di</strong>.<br />

E si giunge così al 1739, anno al quale si fa risalire la più antica mappa topografica <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, nel senso tecnicamente effettivo del termine. Si tratta della famosa “Mappa<br />

Spagnola”, al cui piede la leggenda include la data A.D. 1739, che però sembra essere<br />

scritta con caratteri <strong>di</strong>versi dagli altri, il ché farebbe pensare ad una aggiunta, magari<br />

legata alla data dell’episo<strong>di</strong>o riportato nella Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si:<br />

«...al dì 12 detto (marzo 1739) arrivò il maresciallo d. Andrea de los Coves spagnuolo, con<br />

tre ingegneri, e due commissarij d’artiglieria, e due volontari, cioè un colonnello, e un<br />

tenente colonnello, e detto maresciallo era il primo ingegnere del re, e questi pigliorono la<br />

pianta del Forte, del castello <strong>di</strong> terra, e <strong>di</strong> tutta la città, con misurate tutte le strade della<br />

città, e mura...»<br />

La mappa spagnola completa é <strong>di</strong> metri 1,25 x 2,05 e s´intitola “Plano y Mapa En que se<br />

comprende la Ciudad de Brindesi sus Castillos de mar y tierra, Puerto piccolo y Grande<br />

con porción de los contornos de su Campaña en la Provincia de Otranto “.<br />

Porzione centrale della Mappa Spagnola <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si – 1739 (dopo il restauro)<br />

6


Fu tracciata con una penna d’inchiostro acquarello su carta in parte filigranata, tra la<br />

fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, quin<strong>di</strong> tra il periodo che precedette la fine del<br />

vice regno spagnolo e quello che vide l’inizio del regno dei Borbone a Napoli.<br />

La mappa fu recuperata in estremis a Palermo da Domenico Guadalupi, già segretario<br />

del car<strong>di</strong>nale Pignatelli poi arcivescovo <strong>di</strong> Salerno; fu da lui portata a Brin<strong>di</strong>si e<br />

gelosamente custo<strong>di</strong>ta, prima <strong>di</strong> essere consegnata al Museo Civico in San Giovanni al<br />

Sepolcro. Prima del suo restauro (Li<strong>di</strong>ana Miotto, 1986) la mappa era incollata nel suo<br />

insieme su una tela <strong>di</strong> lino che a sua volta aderiva su un supporto ligneo con una fascia<br />

centrale <strong>di</strong> congiunzione. I vari chio<strong>di</strong> usati, arrugginendosi, avevano compromesso il<br />

documento. Il tutto era variamente e pesantemente macchiato. Finalmente la mappa<br />

era stata alterata da lunghi strappi e fen<strong>di</strong>ture, da ossidazione, muffe e ammanchi.<br />

É poi del 1800, cioè <strong>di</strong> circa sessant’anni dopo, la mappa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che<br />

cronologicamente segue a quella spagnola. Si tratta <strong>di</strong> una mappa appartenente a un<br />

piano topografico, <strong>di</strong>segnato a colori e identificato con il nome <strong>di</strong> Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

N°38, conservato nella biblioteca dell’Istituto Geografico Militare, con la descrizione<br />

seguente: Documento N°27 del XIX secolo. Un foglio <strong>di</strong> circa 0,42 x 0,42 metri. Rilievo<br />

a scala 1/10000 del Tenente Lepier.<br />

In effetti, si tratta del solo frammento destro <strong>di</strong> un piano geografico, orientato con il<br />

Nord verso sinistra, che riporta il rilievo topografico della costa <strong>di</strong> levante del porto<br />

(quella <strong>di</strong> ponente era nel frammento mancante del piano) e che nell’angolo inferiore<br />

destro presenta, a mo’ <strong>di</strong> dettaglio, la mappa a scala 1/5000 della città, con un in<strong>di</strong>ce<br />

<strong>di</strong> quattro punti (a. Castello <strong>di</strong> terra, b. La Sanità, c. La Dogana, d. Seminario -?-). Non è<br />

certo una mappa ricca <strong>di</strong> dettagli, un quadrilatero con circa 10 cm <strong>di</strong> lato, ma<br />

comunque permette <strong>di</strong> indovinare i limiti urbani e il contorno della città e<strong>di</strong>ficata,<br />

colorata <strong>di</strong> rosso e <strong>di</strong>fferenziata dai campi, colorati <strong>di</strong> verde.<br />

Mappa a Scala 1/5000 ‐ Dettaglio del Piano del Porto rilevato da Lepier ‐ 1800<br />

7


E la situazione appare comunque mutata <strong>di</strong> poco, nel “Piano Generale del Porto <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si” rilevato dopo pochi anni dall’incorporazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si al Regno d’Italia, nel<br />

1866 a scala 1/10000, e topograficamente orientato con il Nord verso l’alto: forse<br />

l’unica novità importante la costituisce la presenza della ferrovia, da Bari e dopo un<br />

giro <strong>di</strong> 90° a Lecce, con anche in<strong>di</strong>cata la stazione ferroviaria che era stata appena<br />

inaugurata, il 25 maggio 1865.<br />

Piano Generale del Porto ‐ 1866 (dettaglio)<br />

Da osservare le tracce ben rappresentate dei vari pezzi <strong>di</strong> muraglia ancora esistenti<br />

appartenuti alle fortificazioni cinquecentesche della città e le vaste estensioni ancora<br />

<strong>di</strong>sabitate, bianche nella mappa, presenti dentro il recinto <strong>di</strong> quelle fortificazioni:<br />

quella a<strong>di</strong>acente al castello <strong>di</strong> terra, che era stato a<strong>di</strong>bito a bagno penale della città da<br />

Gioacchino Murat nel 1814, e tutta quella a Sud <strong>di</strong> Porta Mesagne delimitata a est dalla<br />

<strong>di</strong>rettrice della strada <strong>di</strong> Porta Lecce e <strong>di</strong>visa in due dalla <strong>di</strong>rettrice della strada<br />

Vialata.<br />

Anche a sudest della strada Vialata dominano gli spazi <strong>di</strong>sabitati ed inoltre, un’ampia<br />

area bianca trapezoidale, Largo della Anima, è presente in prossimità dell’incrocio tra<br />

la strada Vialata e la strada <strong>di</strong> Porta Lecce.<br />

E si é così giunti ai nostri giorni: si fa per <strong>di</strong>re, visto che la prossima mappa comunale<br />

della città è quella, già tecnicamente avanzata, del piano stradale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del 1871,<br />

successiva <strong>di</strong> soli cinque anni a quella del Piano Generale del Porto del 1866.<br />

8


Anche se non ci sono gran<strong>di</strong>ssime novità da segnalare per quel che riguarda l’impianto<br />

urbanistico generale, però la scala i dettagli e la qualità grafica <strong>di</strong> questa mappa, un<br />

elio piano manoscritto che ho voluto forzosamente orientare con il Nord verso l’alto,<br />

consentono finalmente addentrarsi nella formulazione <strong>di</strong> alcune altre interessanti<br />

osservazioni a complemento <strong>di</strong> quelle già formulate in merito alla mappa<br />

precedentemente riportata.<br />

Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ Scala 1/2000 ‐ Carlo Fauch 1871<br />

Quella che nel 1797 era già <strong>di</strong>ventata la Strada Carolina e che poi nel 1882 <strong>di</strong>venterà il<br />

Corso Garibal<strong>di</strong>, è ancora identificata erroneamente come Strada Amena, che in realtà<br />

in origine era stata la Strada della mena, dall’insalubre canale <strong>di</strong> scolo che per<br />

tantissimi anni l’aveva solcata portando al mare le acque piovane, e quant’altro via via<br />

raccolto.<br />

La Strada Amena ha un estremo in prossimità della banchina portuale, sbucando tra<br />

quelli che saranno i giar<strong>di</strong>ni Vittorio Emanuele II° che nella mappa sono Largo San<br />

Francesco e la Stazione marittima che nella mappa è la Sanità marittima, e giunge fino<br />

alla Piazza Mercato, in<strong>di</strong>cata nella mappa dove poi ci sará Piazza Vittoria e ben<br />

separata dalla Piazza Se<strong>di</strong>le, che è sita un po’ più a Nord, dove è anche identificato<br />

l’e<strong>di</strong>ficio del Municipio.<br />

9


Superata Piazza Mercato, la Strada Amena svanisce in uno slargo molto ampio,<br />

in<strong>di</strong>cato nella mappa con Largo della Anima. La traversa Nord della Strada Amena<br />

prima dei Piazza Mercato, oggi via Rubini, si chiama Strada Orologio – e si sa molto<br />

bene perché – mentre la traversa <strong>di</strong> fronte, quella Sud, conduce al Pozzo Traiano.<br />

A Sud della mappa, è in<strong>di</strong>cata Porta Lecce con affianco l’imponente sagoma della<br />

Chiesa Cristo e quin<strong>di</strong> la Strada <strong>di</strong> Porta Lecce che raggiunge perpen<strong>di</strong>colarmente la<br />

Strada Lata la quale si sviluppa retta e lunga, in <strong>di</strong>rezione NE puntando al mare e in<br />

<strong>di</strong>rezione SO assumendo il nome <strong>di</strong> Strada Saponea e puntando verso una non ben<br />

identificata stazione. Tra la Strada Lata e la Strada Amena, è anche identificato il Largo<br />

San Dionisi, e quin<strong>di</strong> le due strade quasi parallele S. Dionisi e S. Lucia.<br />

A Ovest è in<strong>di</strong>cata Porta Mesagne e affianco la Strada pel Castello orientata a Nord. Da<br />

Porta Mesagne parte la Strada Carmine che dopo Largo Angioli assume il nome <strong>di</strong><br />

Strada Angioli, oggi via Ferrante Fornari, che raggiunge Piazza Se<strong>di</strong>le e prosegue sul<br />

lato opposto con la Strada Maestra fino al mare, dove vi giunge tra Largo San<br />

Francesco a destra e la Dogana a sinistra, non essendoci nella mappa traccia alcuna<br />

della Porta Reale, che proprio da lì aveva nei secoli precedenti costituito l’entrata in<br />

città dal mare, mentre la Porta Mesagne ne aveva costituito l’uscita verso l’entroterra.<br />

Questa fondamentale <strong>di</strong>rettrice stradale, in qualche modo separa il giá descritto<br />

settore Sud della città dal settore Nord.<br />

Sul settore Nord, l’imponente castello <strong>di</strong> terra, non rappresentato nella mappa, con<br />

l’a<strong>di</strong>acente Piazza Castello, delimita la città ad Ovest, nella zona in cui è identificata la<br />

Strada S. Benedetto ed è rappresentata l’omonima caserma. Seguendo una <strong>di</strong>rettrice<br />

parallela a quella della Strada Maestra, tutto il settore Nord della città è solcato, da<br />

Ovest verso Est, dalla Strada S. Barbara, ancora un errore della mappa giacché non si<br />

tratta della santa ma del cognome <strong>di</strong> Piertommaso Santabarbara, fino a Largo<br />

S°Prefettura, quin<strong>di</strong> la Strada delle Scuole Pie fino a Largo Cattedrale e finalmente la<br />

Strada Colonne. Su Largo Cattedrale, oltre alla chiesa sono identificati il Collegio,<br />

l’attuale Palazzo arcivescovile e l’Ospedale Civile. Da quel largo partono la Strada<br />

Santa Chiara e la Strada Montenegro verso Nord, e la Strada Del Duomo verso Sud.<br />

Più a Nord finalmente, partendo nuovamente dal castello <strong>di</strong> terra, c’è la Strada S. Aloy<br />

fino a Largo S. Paolo dové in<strong>di</strong>cata l’imponente impronta della chiesa tutt’una con<br />

quella dell’a<strong>di</strong>acente S°Prefettura e quin<strong>di</strong>, la Strada De Leo e il Largo S. Teresa con<br />

l’impronta della chiesa. Da S. Paolo, da De Leo e da S. Teresa, si poteva scendere alle<br />

Sciabiche e quin<strong>di</strong> al mare, transitando su uno dei tre pen<strong>di</strong>i dei quali il meno ripido e<br />

più esteso era quello centrale, il Pen<strong>di</strong>o Marinazzo tra la Strada De Leo e la via<br />

Sciabiche. L’altro era il Fontana Salsa. E il terzo?<br />

Il lungomare centrale tra la Sanità Marittima e le Sciabiche, si chiama Strada Marina, e<br />

su quel lungomare è già chiaramente posizionato l’Albergo delle In<strong>di</strong>e Orientali,<br />

costruito nel 1870 con l’inizio delle operazioni della Valigia delle In<strong>di</strong>e.<br />

Le Sciabiche, lo storico e antichissimo quartiere marinaro, inse<strong>di</strong>ato ai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> S.<br />

Teresa, così come nelle mappe dell´800, è rappresentato sulla mappa dai lati del<br />

grande blocco triangolo compreso tra S. Teresa la Strada Montenegro e la via Forno<br />

Sciabiche, e da altri sette blocchi minori allineati <strong>di</strong> fronte al mare lungo la banchina<br />

del Seno <strong>di</strong> Ponente, compresi tra il pen<strong>di</strong>o che scende da S. Paolo a ovest e la Strada S.<br />

10


Chiara a est. La via Forno Sciabiche sbuca a Nordest su Piazza Monticelli, e <strong>di</strong> fronte<br />

alla Strada Montenegro è in<strong>di</strong>cato Largo Montenegro.<br />

Tutto quel quartiere Sciabiche fu poi cancellato dalla mappa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si in varie ondate<br />

demolitrici, dapprima i due blocchi più a Nord, quelli <strong>di</strong> fronte alle strade S. Chiara e<br />

Montenegro, nei primi del ´900 e poi il resto: nel 1934 la metà Ovest e nel 1959 la Est.<br />

Attorno al 1880, “...il crescere dei movimenti e dei traffici, l’incremento della<br />

popolazione e lo svolgersi delle aspirazioni ad un a maggiore civiltà...” indussero<br />

l’amministrazione comunale ad affidare a tre professionisti brin<strong>di</strong>sini la redazione del<br />

piano regolatore della città, “...perseguendo necesarie nuove reti stradali e necessari<br />

nuovi assetti urbani, ampliando, addrizzando e rior<strong>di</strong>nando le vie antiche, nonché<br />

abbattendo dannosi ingombri e sviscerando le malsane contrade secondo un moderno<br />

sistema <strong>di</strong> costruzioni...”.<br />

Il piano regolatore della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si vide la luce nel 1883, plasmato in una serie <strong>di</strong><br />

quattro tavole manoscritte, il cui assemblaggio ho pre<strong>di</strong>sposto e rappresentato come<br />

si trattasse <strong>di</strong> una mappa orientata con il Nord in alto. I colori in<strong>di</strong>cano in verde le<br />

demolizioni e in rosso le nuove lottizzazioni da incorporare allo schema urbano. La<br />

rete stradale è mantenuta bianca.<br />

La Tav. I è quella del quadrilatero <strong>di</strong> sudovest: su un lato la strada Porta Lecce più la<br />

strada Conserva, sull’altro la strada Carmine, quin<strong>di</strong> la muraglia da Porta Mesagne al<br />

Bastione San Giacomo con a metà il Bastione Cappelli <strong>di</strong> fronte alla stazione<br />

ferroviaria, e sul quarto lato la muraglia dal Bastione San Giacomo a Porta Lecce. É<br />

tracciato il quadrato che sarà <strong>di</strong> piazza Cairoli e sono in<strong>di</strong>catele tracce del corso che<br />

sarà Umberto I° e del corso che sarà Garibal<strong>di</strong> e che poi in quel tratto sarà Roma, con<br />

al suo estremo la chiesa dell’Addolorata, poi della Pietà.<br />

La Tav. II è quella del quadrilatero <strong>di</strong> nordovest: su un lato la strada Carmine, sull’altro<br />

la strada Armengol piú il pen<strong>di</strong>o Fontana Salsa che scende da Largo S. Paolo fino alla<br />

spiaggia sul Seno <strong>di</strong> Ponente, quin<strong>di</strong> la riva fino al Castello <strong>di</strong> terra che funge da bagno<br />

penale, e sul quarto lato la muraglia tra il castello e Porta Mesagne. Domina l’enorme<br />

piazza Castello, a<strong>di</strong>acente al castello e ancora completamente vuota, e ci sono la chiesa<br />

<strong>di</strong> S. Benedetto e quella <strong>di</strong> S. Anna.<br />

La Tav. III è quella del quadrilatero <strong>di</strong> nordest: su un lato corso Garibal<strong>di</strong> piazza<br />

Commestibili e corso Umberto I°, sull’altro la strada Conserva più la strada Armengol<br />

più il pen<strong>di</strong>o Fontana Salsa, quin<strong>di</strong> il terzo e quarto lato lo costituiscono le banchine<br />

contigue del Seno <strong>di</strong> Ponente, da corso Garibal<strong>di</strong> a Montenegro una, e da lí al pen<strong>di</strong>o<br />

Fontana Salsa l’altra. Sono compresi in questo settore il Duomo con il Seminario, le<br />

chiese S. Teresa, S. Paolo, S. Chiara, S. Cosimo detta poi delle Scuole Pie, S. Giovanni al<br />

Sepolcro e la chiesa degli Angioli.<br />

La Tav. IV è quella del quadrilatero <strong>di</strong> sudest: su un lato i corsi Garibal<strong>di</strong> e Umberto I°,<br />

sull’altro la strada Conserva tra corso Umberto I° e Porta Lecce, quin<strong>di</strong> il terzo e il<br />

quarto lato lo costituiscono le banchine contigue del Seno <strong>di</strong> Levante, da Porta Lecce<br />

fino allo sbocco della strada Vialata una, e da lì alla Sanità e futura Stazione Marittima,<br />

l’altra. Sono ben visibili le chiese <strong>di</strong> Cristo, S. Lucia, S. Sebastiano o Le Anime, e poi le<br />

chiese dell’Annunziata e del Monte.<br />

11


Piano regolatore della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ 1883<br />

La mappa seguente, quella topografica <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del 1916, stampata con il Nord<br />

orientato verso l’alto, anche se non ricca <strong>di</strong> dettagli, aiuta a capire quanto del piano<br />

regolatore del 1883 fu realizzato, e quanto no.<br />

Si tratta <strong>di</strong> un piano, nuovamente appartenente alla biblioteca dell’Istituto Geografico<br />

Militare, identificato con il nome <strong>di</strong> Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e corredato dalla<br />

seguente descrizione: Rappresentazione orografica planimetrica. Stampa eliografica <strong>di</strong><br />

0,70 x 0,54 metri. Rilievo del 1916 a scala 1/4000 del Capitano A. Urbani.<br />

Le <strong>di</strong>rettrici stradali principali, con il corso Garibal<strong>di</strong> prolungato fino alla ferrovia e il<br />

corso Umberto I° con la piazza Cairoli, sono state realizzate completamente. Oltre alla<br />

Stazione Ferroviaria principale, anche quella Marittima è completa ed ambe sono<br />

intercollegate e pienamente funzionali.<br />

L’area <strong>di</strong> piazza Castello non è più vuota, vi sono stati costruiti l’e<strong>di</strong>ficio<br />

dell’Ammiragliato detto anche Presi<strong>di</strong>o e la caserma che sarà intitolata Ederle, in due<br />

lotti contigui separati dal prolungamento della via Ro<strong>di</strong> e delimitati a Sud dalla via<br />

12


Castello a Nord da quello che poi sarà viale dei Mille e ad Ovest da via In<strong>di</strong>pendenza,<br />

già completamente tracciata fino al suo altro estremo sulla fine <strong>di</strong> corso Garibal<strong>di</strong>, non<br />

ancora Roma. A est della caserma c’é via Cittadella, che però prosegue ancora con via<br />

S. Margherita fino al Calvario dove raggiunge via Carmine.<br />

Cioè non è stato attuato, né lo sarà mai più, il piano regolatore che prevedeva<br />

l’eliminazione della via S. Margherita e il prolungamento in linea retta <strong>di</strong> via Cittadella<br />

fino a via Carmine. Né furono mai rettificate via Madonna della Neve via Santabarbara<br />

e via Tarantini, che nel piano regolatore dovevano costituire, con via Castello, una sola<br />

via retta fino alla piazza del Duomo. E neanche via S. Benedetto fu mai rettificata nel<br />

suo pezzetto finale verso via Carmine.<br />

Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ Scala 1/4000 ‐ A. Urbani – 1916 (700 x 540 mm)<br />

La piazza Sottoprefettura non fu mai ampliata e non fu mai costruita la strada retta<br />

che sulla <strong>di</strong>rettrice <strong>di</strong> via Marco Pacuvio doveva giungere fino a corso Umberto I°<br />

all’altezza <strong>di</strong> via Paolo Sarpi, dopo aver incrociato via Angioli, la attuale Ferrante<br />

Fornari.<br />

In quanto alle Sciabiche, il piano regolatore del 1883 prevedeva abbattere il piccolo<br />

blocco antistante a via S. Chiara, che in effetti nella mappa del 1916 non c’è più, e<br />

anche quello a<strong>di</strong>acente molto più grande, che iniziando <strong>di</strong> fronte a via Montenegro si<br />

estendeva occultando al mare sia il largo Monticelli che via Pompeo Azzolino, questo<br />

blocco grande nella mappa del 1916 c’é ancora, comprendeva la palazzina Monticelli e<br />

fu demolito nel 1924. Come ulteriore novità per il settore Sciabiche, nella mappa del<br />

1916 sono in<strong>di</strong>cati i fabbricati a due piani costruiti negli ultimi anni dell ´800 a<br />

prolungamento delle Sciabiche verso il Castello <strong>di</strong> terra, siti su tre isolati contigui<br />

occupando una fascia compresa tra il lungomare e la strada Sdrigoli, poi via Lucio<br />

Scarano, che risalendo fino a Santa Aloy era stata aperta prolungando la famosa via<br />

Sciabiche, quella che iniziando in largo Monticelli attraversava tutto il quartiere.<br />

13


Meno <strong>di</strong> 10 anni più moderna che la precedente, è la bella mappa dell’importante<br />

e<strong>di</strong>tore Antonio Vallar<strong>di</strong>, nella quale è rappresentata la pianta <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si molto<br />

dettagliata, nonostante la piccola scala <strong>di</strong> 1/15000 e quin<strong>di</strong> le piccole <strong>di</strong>mensioni della<br />

stampa. Però è migliorata decisamente la qualità tipografica: si tratta <strong>di</strong> una incisione<br />

cromo-litografica su acciaio vivacemente colorata ed ottima nella risoluzione<br />

calligrafica.<br />

Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ Scala 1/15000 ‐ A. Vallar<strong>di</strong> ‐ 1924 (155 x 105 mm)<br />

Certamente si tratta <strong>di</strong> una cartina inserita in una delle opere dell’e<strong>di</strong>tore milanese<br />

intitolate “Viaggi e guide turistiche per l’Italia ...contenenti la descrizione storica<br />

artistica e contemporanea con varie carte e piantine topografiche delle principali città<br />

dell’Italia della Sicilia e della Sardegna”.<br />

Anche per questo motivo la cartina è complementata da varie note, le quali sono<br />

riferite sul piano con un totale <strong>di</strong> 11 numeri.<br />

A Brin<strong>di</strong>si ci sono ancora: un bacino galleggiante <strong>di</strong> fronte allo sbocco del canale <strong>di</strong><br />

Cillarese, la spiaggia <strong>di</strong> S. Apollinare nel porto interno, la via Sciabiche interne con la<br />

palazzina Monticelli, il teatro Ver<strong>di</strong>, le due piazze Vittoria e Se<strong>di</strong>le, il parco della<br />

Rimembranza senza il nome e con i Bastioni Carlo V, piazza d’Armi e le caserme<br />

d’artiglieria S. Benedetto e Montenegro, il corso Garibal<strong>di</strong> ancora tutto intero, ...<br />

Poi, con la fine della Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale e con l’avvento della repubblica, arriva<br />

anche a Brin<strong>di</strong>si l’Ente Provinciale per il Turismo e il turismo <strong>di</strong> massa; e con questo,<br />

le tante mappe o cartine turistiche, pubblicate su volanti piegabili o inserite nei libri <strong>di</strong><br />

guida per i visitanti e viaggiatori.<br />

14


E finalmente ecco l’era delle mappe elettroniche, del <strong>di</strong>gitale online, del GPS e <strong>di</strong><br />

Google Earth:<br />

Brin<strong>di</strong>si su Tutto Città<br />

Brin<strong>di</strong>si su Google Earth<br />

15


Tra Messapi e coloni Romani i primi abitanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che la <strong>storia</strong> ha documentato<br />

Pubblicato su il7 Magazine del 3 e del 10 agosto 2018<br />

Pur tralasciando qui ogni possibile approfon<strong>di</strong>mento relativo alla fondazione <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, è comunque oppotuno ricordare quanto meno le due classiche tra<strong>di</strong>zioni<br />

leggendarie che la fanno risalire, l’una agli Etoli al seguito dell’eroe greco <strong>di</strong> Argo,<br />

Diomede figlio <strong>di</strong> Tideo, attestata da Pompeo Trogo, l’altra, attestata da Strabone, ai<br />

Cretesi partiti dalla Sicilia sotto la guida dell’eroe Iapige, figlio <strong>di</strong> Licaone e fratello <strong>di</strong><br />

Dauno e Peucezio, o partiti da Cnosso con l’eroe ateniese Teseo, figlio <strong>di</strong> Etra ed Egeo.<br />

Due tra<strong>di</strong>zioni che, va notato, pur se tra <strong>di</strong> esse chiaramente incompatibili, sono<br />

entrambe <strong>di</strong> derivazione greca, anche se sull’origine degli Iapigi-Messapi va però<br />

segnalata la recentemente più accettata tra<strong>di</strong>zione che li sostiene originari dell’Illiria,<br />

sostenuta e ampiamente sopportata etnograficamente da F. RIBEZZO, 1907:<br />

«Una prova definitiva della pertinenza del messapico, genericamente al gruppo delle<br />

lingue balcaniche o slavo-baltiche e <strong>di</strong>rettamente all’illirico-albanese, sarebbe la<br />

concordanza nel trattamento caratteristico delle gutturali palatali, che è la nota più<br />

<strong>di</strong>fferenziativa e specifica delle lingue <strong>di</strong> quel gruppo».<br />

Lo stesso Ribezzo spiega anche il perché dell’indubbia presenza ellenistica nella<br />

civiltà messapica. Si tratterebbe, in effetti, non <strong>di</strong> ellenicità ma <strong>di</strong> ellenizzamento,<br />

conseguente a immigrazioni protostoriche in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> civiltà e <strong>di</strong> cultura non<br />

molto superiori a quelle dei primitivi che vi si trovavano già stanziati e da questi<br />

assorbito e profondamente assimilato in tanti secoli <strong>di</strong> convivenza pacifica.<br />

L’i<strong>di</strong>oma messapico del resto, al pari degli altri dell’Italia antica, non poté<br />

superare la concorrenza letteraria civile del greco e successivamente, e soprattutto,<br />

quella anche politica del latino che determinò, finalmente, la sua soppressione. Il<br />

caduceo bronzeo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, al pari <strong>di</strong> vari altri reperti epigrafici anteriori alla<br />

romanizzazione, attesta quell’introduzione del greco come lingua nobile, ufficiale o<br />

interfederale. Mentre il messapico, anche in iscrizioni <strong>di</strong> carattere funerario, non<br />

giunse oltre l’ultimo secolo della Repubblica, giacché anche in esse subentrò<br />

prepotentemente il latino.<br />

“Sallentum” F. Sammarco, 2017 ‐ “La penisola salentina nelle fonti narrative antiche” N. Valente, 2018<br />

16


Strabone, il già citato geografo-storico greco vissuto nell’era augustea, sempre a<br />

proposito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si scrisse che l’importante città messapica venne privata <strong>di</strong> gran<br />

parte del suo territorio ad opera degli Spartani che, guidati da Falanto, avevano<br />

fondato Taranto intorno all’VIII secolo a.C. e commentò come Brin<strong>di</strong>si - dal ferace<br />

territorio e dallo splen<strong>di</strong>do porto - sul piano storico fosse stata un’antica città <strong>di</strong><br />

nobilissime origini, nonché capitale regale del mondo messapico. Quin<strong>di</strong>, aggiunse, che<br />

“tutto il territorio messapico fu un tempo ricco e popoloso con 13 città, ma <strong>di</strong> quelle<br />

solo sopravvivevano Taranto e Brin<strong>di</strong>si, mentre le altre erano ridotte a cittaduzze,<br />

avendo tutte subito gran<strong>di</strong> devastazioni e sofferenze”, probabilmente - anche se lui<br />

non lo scrive - ad opera dei conquistatori Romani.<br />

In quanto al territorio messapico citato da Strabone, la tra<strong>di</strong>zione ormai<br />

consolidata lo ritiene facente parte della Iapigia - pressoché l’attuale Puglia - <strong>di</strong>visa<br />

appunto in - da Nordovest a Sudest - Daunia, Peucezia e Messapia, i cui confini a<br />

nordovest erano delimitati all’incirca dall’istmo che collega Taranto a Ostuni ed il cui<br />

nome era legato a quello <strong>di</strong> Messapo, il comandante dell’esercito conquistatore della<br />

Iapigia giunto sulla costa adriatica con Iapige - o con suo padre Licaone - ed i cui<br />

abitanti [N. Valente, 2018] appartenevano a due etnie: i Salentinoi stanziati intorno<br />

all’estremo promontorio peninsulare e, stanziati sul restante territorio e quin<strong>di</strong> su<br />

Brin<strong>di</strong>si, i Kalabroí, da cui il nome <strong>di</strong> origine epicoria ‘Calabria’ con cui i Romani<br />

sostituirono quello greco <strong>di</strong> ‘Messapia’.<br />

Quella rivalità - tra la lacedemone Taranto e la messapica Brin<strong>di</strong>si - segnalata da<br />

Strabone, non cessò certo con l’inse<strong>di</strong>amento spartano in Taranto, ma bensì perdurò<br />

endemicamente ed attivamente per i tanti secoli che intercorsero tra quella<br />

fondazione e la romanizzazione dell’intero territorio iapigio, e quin<strong>di</strong> messapico,<br />

avvenuta nella prima metà del III secolo a.C. Ma quella della secolare e spesso cruenta<br />

rivalità tra Taranto e Brin<strong>di</strong>si è tutta un’altra lunga <strong>storia</strong>, una <strong>storia</strong> che poi finì<br />

proprio con facilitare la conquista romana.<br />

«Nel 272 a.C. i Romani, dopo la conclusione della guerra contro Taranto e il suo<br />

all’alleato Pirro, devono affrontare il problema delle popolazioni che durante il conflitto<br />

si erano schierate con il principe epirota. D’altra parte, i Messapi, che avevano ormai<br />

manifestato chiaramente la loro ostilità verso i Romani, costituivano un pericolo<br />

costante per quelle navi romane che seguivano la rotta del canale d’Otranto tra la Grecia<br />

e il golfo <strong>di</strong> Taranto. In questo contesto cresceva inevitabilmente l’interesse <strong>di</strong> Roma<br />

verso Brin<strong>di</strong>si, il cui porto avrebbe invece reso più rapi<strong>di</strong> e sicuri i collegamenti e i<br />

traffici commerciali con la Grecia.<br />

Nel 267 a.C. pertanto, i Romani intraprendono una prima campagna militare contro i<br />

Salentini col pretesto che essi avevano aiutato Pirro, aggiu<strong>di</strong>candosi facilmente il trionfo<br />

de Sallentineis al comando dei consoli Attilio Regolo e Giulio Libone e poi, nel 266, con<br />

una seconda e definitiva campagna, i consoli Fabio Pittore e Giunio Pera trionfarono de<br />

Sallentineis Messapieisque.<br />

Successivamente, dopo pochi anni, i Romani trasformano l’ager brinisinus in ager<br />

publicus e poi, il 5 <strong>di</strong> agosto del 244 a.C., sotto il consolato <strong>di</strong> Manlio Torquato e<br />

Sempronio Bleso, vi deducono la colonia <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto latino <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, con 6000 coloni.»<br />

[G. LAUDIZI, 1996].<br />

I Romani [U. Laffi, 2015] <strong>di</strong>stinguevano due tipi <strong>di</strong> colonie: <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto romano e <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ritto latino. Le prime, marittime e con funzione essenzialmente <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa militare,<br />

17


erano piccole comunità fondate sull’ager romanus con 300 coloni i quali conservavano<br />

la citta<strong>di</strong>nanza romana, con tutti i <strong>di</strong>ritti-doveri che ne derivavano. Le colonie <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>ritto latino come la brin<strong>di</strong>sina, invece, costituivano una specie <strong>di</strong> stati sovrani per<br />

quanto riguardava i rapporti interni: avevano una citta<strong>di</strong>nanza propria, leggi proprie,<br />

magistrati, statuto, moneta, censo e milizia. Ciò che non le rendeva stati veri e propri<br />

era il fatto che le relazioni estere erano delegate a Roma, alla quale erano inoltre<br />

obbligati a fornire truppe. I coloni latini - ne venivano dedotti tra 2000 e 6000 - erano<br />

alleati privilegiati <strong>di</strong> Roma e possedevano particolari <strong>di</strong>ritti, tra cui quelli al connubio e<br />

al commercio con i Romani.<br />

Quei nostri concitta<strong>di</strong>ni ancestrali, i coloni, si sommarono quin<strong>di</strong> a quelli<br />

autoctoni - messapi - sul finire della prima metà del III secolo a.C., quando la città fu<br />

romanizzata e <strong>di</strong>vennero citta<strong>di</strong>ni brin<strong>di</strong>sini <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto latino. Brin<strong>di</strong>si poté così<br />

conservare a lungo la sua pregevole autonomia, fino alla promulgazione - nel 90 a.C. -<br />

della legge Iulia de civitate latinis et sociis danda, con cui Roma concesse la<br />

citta<strong>di</strong>nanza romana agli abitanti <strong>di</strong> tutte le colonie latine e a tutti gli alleati italici.<br />

Quali dunque i nomi e le specificità <strong>di</strong> quegli abitanti ancestrali <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che,<br />

circa 2250 anni fa, la <strong>storia</strong> cominciò finalmente a registrare? In realtà le fonti<br />

pervenute al riguardo, specialmente in relazione agli inizi <strong>di</strong> quel periodo storico, non<br />

sono numerosissime ed anche per questo spesso non risulta facile neanche il poter<br />

attribuire quei primi nomi a citta<strong>di</strong>ni messapi o a citta<strong>di</strong>ni latini. Tutto infatti fa<br />

supporre che la mescolanza e l’integrazione iniziò presto e fu presto destinata ad<br />

essere gradualmente ma inesorabilmente dominata dalla componente latina, sia sul<br />

piano culturale che su quello economico e, naturalmente, politico. D’altra parte:<br />

“… mentre si sottolinea un ruolo in<strong>di</strong>geno attivo nelle situazioni coloniali successive<br />

all’avvento romano, l’urbanizzazione preromana dell’area brin<strong>di</strong>sina si caratterizzò<br />

come un complesso processo dalle forti ra<strong>di</strong>ci in<strong>di</strong>gene, con gran<strong>di</strong> cambiamenti<br />

avvenuti anche nel corso dello stesso III secolo a.C. nel ri<strong>di</strong>segno complessivo della<br />

mappa territoriale e del popolamento,” [G. CARITO, 2018].<br />

Emblematica della segnalata integrazione è la figura del grande intellettuale<br />

Quinto Ennio da Rhu<strong>di</strong>e (239-169 a.C.), zio materno del nostro celeberrimo<br />

concitta<strong>di</strong>no Marco Pacuvio (220-130 a.C.). Ennio, al pari <strong>di</strong> altri personaggi brin<strong>di</strong>sini<br />

dell’epoca, si <strong>di</strong>chiara essere greco tra i greci, romano tra i romani e messapico fra i<br />

suoi conterranei: <strong>di</strong> nascita apparteneva all’élite messapica, poi era greco per<br />

educazione, ma era romano per adozione e per scelta propria.<br />

M. Silvestrini nel gennaio 1996 ha presentato al IV Convegno <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> sulla Puglia<br />

romana, un lavoro intitolato “Le gentes <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si romana” con allegato l’elenco delle<br />

“gentes documentate a Brun<strong>di</strong>sium”. Si tratta <strong>di</strong> 218 nomi familiari ‘nomina’<br />

provenienti dall’intero patrimonio epigrafico e documentale brin<strong>di</strong>sino <strong>di</strong>sponibile<br />

alla data.<br />

Nell’elenco, i nomi, che vanno dall’epoca coloniale a quella imperiale, sono<br />

or<strong>di</strong>nati alfabeticamente e sono opportunamente identificati quelli appartenenti a<br />

famiglie <strong>di</strong> rango senatorio, <strong>di</strong> rango equestre e <strong>di</strong> rango decurionale – 30 in totale –<br />

mentre i nomi da riferire alla colonia latina compaiono in corsivo e sono solamente 5:<br />

Hortensii, Pacuvii, Polfenii, Ramnii e Statorii. Di questi 5 personaggi tratterà la<br />

seconda parte <strong>di</strong> questo articolo!<br />

18


Ara sepolcrale messapica <strong>di</strong> una fanciulla <strong>di</strong> nome Teodoridda con de<strong>di</strong>ca a Afro<strong>di</strong>te<br />

(ritrovata a Ceglie M.)<br />

La viabilità preromana della Messapia – G. Uggeri, 1975<br />

19


Ecco quali sono i primi nomi e cognomi brin<strong>di</strong>sini che la ‘<strong>storia</strong>’ ha documentato<br />

Le fonti ‘storiche’ più antiche rinvenute sugli abitanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fanno<br />

essenzialmente riferimento alla popolazione messapica, alla quale – a partire dalla<br />

metà del III secolo a.C. – si sommò quella romana. I Messapi, secondo le più recenti e<br />

accre<strong>di</strong>tate ipotesi, erano <strong>di</strong> origine illirica e le più remote tracce della loro presenza<br />

sull’attuale territorio salentino, e quin<strong>di</strong> su quello brin<strong>di</strong>sino, risalgono a ben prima<br />

della fondazione spartana <strong>di</strong> Taranto, avvenuta sul finire dell’VIII secolo a.C.<br />

“In una cornice geografica come quella salentina, probabile teatro <strong>di</strong> continui<br />

spostamenti e sovrapposizioni, è comunque improbabile che si possa supporre una<br />

purezza etnica per la stirpe messapica, mentre più logico è invece ipotizzare la presenza<br />

<strong>di</strong> immissioni e infiltrazioni etniche allogene, elleniche o persino celtiche” (M. LEONE,<br />

1969).<br />

“L’urbanizzazione preromana dell’area brin<strong>di</strong>sina si caratterizzò come un complesso<br />

processo dalle forti ra<strong>di</strong>ci in<strong>di</strong>gene, con gran<strong>di</strong> cambiamenti avvenuti anche nel corso<br />

dello stesso III secolo a.C. nel ri<strong>di</strong>segno complessivo della mappa territoriale e del<br />

popolamento… Le indagini sul campo in<strong>di</strong>cherebbero che durante quel periodo la<br />

società regionale nell’area brin<strong>di</strong>sina sarebbe stata caratterizzata da processi <strong>di</strong><br />

urbanizzazione e centralizzazione, prima che – a partire dalla metà del III secolo a.C. – si<br />

verificasse la graduale inevitabile integrazione nell’orbita romana” [G. CARITO, 2018].<br />

Nel 244 a.C. infatti, i Romani dedussero a Brun<strong>di</strong>sium una colonia <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto latino<br />

composta da seimila coloni. E nel 90 a.C., dopo la guerra sociale, con la promulgazione<br />

della legge Iulia de civitate latinis et sociis danda, Roma assegnò la citta<strong>di</strong>nanza<br />

romana agli abitanti <strong>di</strong> tutte le colonie latine e a tutti gli alleati italici. E anche Brin<strong>di</strong>si,<br />

quin<strong>di</strong>, in quell’ultimo secolo a.C. fu Municipium romano – i citta<strong>di</strong>ni furono iscritti<br />

alla tribù Maecia – e con tale status entrò poi nel lungo periodo imperiale, durante il<br />

quale, già quasi del tutto romanizzata, doveva raggiungere l’apice del suo splendore.<br />

Il canonico Pasquale Camassa (1934) ci racconta che la maggior parte <strong>di</strong> quei<br />

seimila coloni romani dedotti a Brin<strong>di</strong>si provenivano dalla tribù Palatina, una delle<br />

quattro tribù urbane <strong>di</strong> Roma. Mentre A. Ferraro (2009) ci spiega che la maggior parte<br />

degli iscritti a quella tribù erano liberti e soprattutto ingenui figli <strong>di</strong> liberti, anche se<br />

numericamente consistente era il gruppo degli apparitores – funzionari ai quali era<br />

affidata l’esecuzione coattiva delle sentenze dei magistrati – con, inoltre, una buona<br />

rappresentanza <strong>di</strong> persone <strong>di</strong> rango elevato, magari <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> un liberto, giacché,<br />

cosa che comunque poteva accadere anche tra senatori e personaggi <strong>di</strong> nobiltà<br />

recente, <strong>di</strong>versi membri dell’or<strong>di</strong>ne equestre avevano un’umile origine.<br />

Non è dato <strong>di</strong> sapere quanti fossero gli abitanti messapici <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, né la loro<br />

composizione sociale, quando giunsero i seimila coloni romani, ma è presumibile che<br />

il processo <strong>di</strong> integrazione sociale tra le due etnie non abbia tardato molto a<br />

svilupparsi. Ed è per questo che, in un contesto sociale come quello che si venne a<br />

stabilire a Brin<strong>di</strong>si in quei primi anni della colonia, risulta spesso <strong>di</strong>fficile per i<br />

personaggi più antichi <strong>di</strong> cui si è trovata una qualche traccia storica, poter<br />

<strong>di</strong>fferenziare con precisione quelli appartenenti alla etnia messapica da quelli <strong>di</strong><br />

provenienza romana.<br />

M. Silvestrini (1996), su un totale <strong>di</strong> 218 nomina fino ad allora in<strong>di</strong>viduati nel<br />

patrimonio epigrafico e documentale brin<strong>di</strong>sino, ne segnala solamente cinque come<br />

sicuramente appartenenti al periodo coloniale, mentre tutti i restanti sono da<br />

20


attribuire al periodo municipale, maggioritariamente imperiale. Questi, in or<strong>di</strong>ne<br />

alfabetico, quei cinque più antichi cognomi brin<strong>di</strong>sini, storicamente documentati:<br />

Hortensii, Pacuvii, Polfenii, Ramnii e Statorii, e tra loro, in or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> importanza e<br />

notorietà, sono invece indubbiamente primi i Pacuvii e i Ramnii, rappresentati dai<br />

famosi Marco Pacuvio e Lucio Ramnio. Poi, tra i già più numerosi nomi del periodo<br />

municipale preimperiale, vanno segnalati i due ben conosciuti Laenii, Lenio Flacco – il<br />

mecenate che accolse più volte Cicerone, nonché uomo d’affari, negotiator, anche in<br />

Bitinia – e Lenio Strabone – il ricco cavaliere, eques, inventore delle voliere che ospitò<br />

Varrone – Quin<strong>di</strong>, a seguire, i tanti Brin<strong>di</strong>sini, più o meno noti, vissuti durante i secoli<br />

del periodo imperiale, tra i quali, Silvestrini risalta la presenza estremamente cospicua<br />

degli Iulii, quin<strong>di</strong> dei Clau<strong>di</strong>i, eccetera.<br />

Sul nostro celeberrimo concitta<strong>di</strong>no Marco Pacuvio (220-130 a.C.) la bibliografia<br />

storica e letteraria è molto ricca, e allora basti qui solo ricordare che fu poeta e<br />

scrittore – nonché pittore – e fu indubbiamente uno dei principali trage<strong>di</strong>ografi latini.<br />

Ma in questo contesto va anche detto che, mentre suo padre era un nobile brin<strong>di</strong>sino,<br />

sua madre era sorella del famoso Quinto Ennio <strong>di</strong> Rhu<strong>di</strong>ae, uno dei padri della<br />

letteratura latina, il quale vantava orgogliosamente la sua nobile ascendenza <strong>di</strong>retta<br />

dal re Messapo e proclamava insistentemente <strong>di</strong> possedere tre cuori: uno messapico,<br />

uno greco e uno romano.<br />

Anche su Lucio Ramnio – pressoché contemporaneo <strong>di</strong> Pacuvio – ricco cavaliere<br />

brin<strong>di</strong>sino con probabile ascendenza messapica e raffinato anfitrione <strong>di</strong> personalità<br />

militari romane e altri <strong>di</strong>gnitari in transito a Brin<strong>di</strong>si, è <strong>di</strong>sponibile una buona<br />

bibliografia e, recentemente (2018), Giacomo Carito ha pubblicato un dettagliato<br />

lavoro su questo personaggio, per certi versi un po’ enigmatico, vissuto a Brin<strong>di</strong>si nel<br />

periodo coloniale ed elevato alla notorietà storica perché protagonista della<br />

rivelazione del supposto complotto che il re macedone Perseo or<strong>di</strong>va ai danni <strong>di</strong><br />

Roma, in quel 172 a.C. quando Ramnio lo scoprì mentre era ospite alla corte <strong>di</strong> Perseo,<br />

che lo avrebbe invitato a partecipare attivamente in quel complotto contro Roma,<br />

<strong>di</strong>etro promessa <strong>di</strong> lauti compensi.<br />

Grazie a quella rivelazione del ‘leale’ Ramnio, Roma intraprese la terza guerra<br />

macedonica, vincendola con la battaglia <strong>di</strong> Pidna al comando del console Lucio Emilio<br />

Paolo (168 a.C.) e abolendo così la monarchia macedone. Ma Carito ci rivela che<br />

probabilmente si trattò – come si <strong>di</strong>rebbe oggi – <strong>di</strong> una guerra preventiva, giacché non<br />

ci sono testimonianze realmente atten<strong>di</strong>bili che Perseo stesse preparando una guerra<br />

contro Roma, mentre la propagandata denuncia <strong>di</strong> Ramnio fu eventualmente parte <strong>di</strong><br />

un falso annalistico. E aggiunge – Carito – che la leale partecipazione dei maggiorenti<br />

brin<strong>di</strong>sini alla politica romana <strong>di</strong> espansione verso Oriente può aver lasciato una forte<br />

traccia nella memoria collettiva, esaltando l’episo<strong>di</strong>o – del Ramnio – reale o<br />

verosimile, in un gesto <strong>di</strong> patriottismo da tramandare nelle storie.<br />

E per concludere, cosa aggiungere a proposito dei tre meno noti antichi<br />

brin<strong>di</strong>sini: Statorio Hortensio e Polfenio?<br />

È <strong>di</strong> nuovo Carito che, nel suo riferito articolo, scrive che nel santuario <strong>di</strong> Delfi<br />

un’iscrizione racconta che Gaius Statorius, brin<strong>di</strong>sino figlio <strong>di</strong> Gaio, nel 191-190 a.C.<br />

era garantito da prossenia – protezione che un citta<strong>di</strong>no prominente, il prosseno,<br />

esercitava sugli appartenenti a un’altra città, tutelando gli interessi degli stranieri<br />

affidatigli, ricevendo e ospitando coloro che giungevano nella sua città con un incarico<br />

21


ufficiale – così come ne era garantito anche un altro brin<strong>di</strong>sino, Lucius Ortensius,<br />

ricordato in altra iscrizione del 168-167 a.C. Se Delfi considerava un italico degno <strong>di</strong><br />

prossenia, egli doveva essere ricco e influente, con buone reti <strong>di</strong> relazioni in Grecia e in<br />

Italia; un privilegio quello, che solo poche persone non greche ricevevano. Infatti,<br />

secondo le iscrizioni documentate, Delfi concesse la prossenia a pochissimi italici: un<br />

pugno <strong>di</strong> romani, un anconetano, un pugliese <strong>di</strong> Arpi e i due brin<strong>di</strong>sini. Il mercante<br />

Pulfennius da Brin<strong>di</strong>si, figlio <strong>di</strong> Dazoupos, invece, lo si ritrova garantito da prossenia<br />

nel santuario <strong>di</strong> Dodona e, con un decreto del 175-170 a.C., sono concessi a lui e ai suoi<br />

<strong>di</strong>scendenti vari altri <strong>di</strong>ritti, incluso quello <strong>di</strong> poter acquistare terra e casa in Epiro. E<br />

conclude Carito che, eccetto Ortensio le cui origini non possono essere tracciate, gli<br />

altri parrebbero avere tutti ascendenza messapica.<br />

I nostri concitta<strong>di</strong>ni atavici quin<strong>di</strong>, quanto meno quelli che le fonti storiche ci<br />

hanno permesso <strong>di</strong> identificare con il loro nome, furono – i più – risultato della<br />

naturale integrazione etnica e culturale, tra le autoctone popolazioni messapiche e le<br />

sopraggiunte genti romane, conseguente a quell’incontro epocale che proprio<br />

nell’ambito urbano <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si si originò intorno al suo porto, militarmente e<br />

commercialmente strategico, a partire dalla seconda metà del terzo secolo a.C., per poi<br />

via via estendersi, nel periodo municipale e soprattutto imperiale, anche<br />

all’entroterra, all’ager [C. Marangio, 1975].<br />

Marco Pacuvio: tra gli antichi brin<strong>di</strong>sini<br />

‘il nome più celebre’<br />

Lucio Emilio Paolo: vincitore a Pidna nel 168 a.C.<br />

(bronzo recuperato in mare a Punta del Serrone)<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

F. RIBEZZO La lingua degli antichi Messapi - Napoli, 1907<br />

G. LAUDIZI Brin<strong>di</strong>si dall’età messapica all’età romana… - 1996<br />

N. VALENTE Quando Brin<strong>di</strong>si era in Calabria - Brin<strong>di</strong>si, 2018<br />

M. LEONE Terra d'Otranto dalle origini alla colonizzazione romana - 1969<br />

G. CARITO Lucio Ramnio.Un brin<strong>di</strong>sino alla corte <strong>di</strong> Perseo <strong>di</strong> Macedonia - Brin<strong>di</strong>si, 2018<br />

P. CAMASSA La romanità <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si attraverso la sua <strong>storia</strong> e i suoi avanzi monumentali - 1934<br />

M. SILVESTRINI Le gentes <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si romana – 1996<br />

C. MARANGIO La romanizzazione dell’ager Brin<strong>di</strong>sinus - 1975<br />

22


Brin<strong>di</strong>si durante il fugace ma significativo regno italiano dei Goti<br />

Pubblicato su il7 Magazine del 23 agosto 2019<br />

All’incirca mezzo secolo durò il regno ostrogoto in Italia: quarant’anni,<br />

dall’inse<strong>di</strong>amento in Ravenna nel 493 d.C. del re Teodorico seguito alla deposizione <strong>di</strong><br />

Odoacre – che nel 476 d.C. aveva deposto Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore<br />

d’Occidente – fino allo scoppio della guerra greco-gotica nel 535; più altri vent’anni <strong>di</strong><br />

quella guerra, fino alla definitiva sconfitta dei Goti nel 553 con la conseguente effimera<br />

occupazione bizantina.<br />

Nonostante la breve durata <strong>di</strong> quel primo vero regno romano-barbarico d’Italia, la<br />

magna figura <strong>di</strong> Teodorico ebbe modo <strong>di</strong> incidere notevolmente sulla <strong>storia</strong> della<br />

penisola, governando durante più <strong>di</strong> trent’anni in maniera notoriamente saggia,<br />

rafforzando ed assicurando i confini del regno me<strong>di</strong>ante azioni militari e <strong>di</strong>plomatiche<br />

opportunamente intessute, promuovendo una serie <strong>di</strong> interventi tesi a risollevare i<br />

territori dal degrado conseguente alla crisi economica e sociale maturata durante la<br />

tarda età imperiale, e de<strong>di</strong>candosi <strong>di</strong>ligentemente a organizzare l’amministrazione<br />

della giustizia e a rinnovare le infrastrutture e le strutture amministrative locali.<br />

Sebbene secondo i calcoli più accre<strong>di</strong>tati si sia trattato complessivamente <strong>di</strong> solo<br />

poco più <strong>di</strong> centomila in<strong>di</strong>vidui, l’impatto dell’irruzione gotica e dello stanziamento<br />

nei territori italiani, sul piano dell’or<strong>di</strong>ne sociale ed economico, fu impressionante.<br />

L’inse<strong>di</strong>amento causò innumerevoli invasioni delle proprietà urbane e rurali – sia<br />

attraverso forme <strong>di</strong> occupazione violenta e sia attraverso contestazioni giu<strong>di</strong>ziarie –<br />

con <strong>di</strong>mensioni <strong>di</strong>verse per aree geografiche della penisola e causò numerosi conflitti,<br />

più accesi e ricorrenti tra appartenenti ai ceti sociali più elevati e possidenti e via via<br />

più fievoli al <strong>di</strong>scendere nella scala sociale.<br />

Teodorico – conoscitore della cultura greco-romana grazie ai <strong>di</strong>eci anni giovanili<br />

vissuti a Costantinopoli – ben consapevole che non avrebbe potuto sostituirsi<br />

all’imperatore d’Oriente e che il suo compito primario era quello <strong>di</strong> rappresentare<br />

l’istituzione imperiale sul piano politico gestionale, maturò comunque l’idea <strong>di</strong> poter<br />

realizzare nella penisola italiana il progetto <strong>di</strong> un soggetto politico romano-germanico,<br />

vincolato all’impero ma dotato <strong>di</strong> una propria autonomia governativa e legislativa,<br />

ricorrendo a una politica <strong>di</strong> concor<strong>di</strong>a e <strong>di</strong> rispetto nei confronti dell’elemento romano<br />

e della Chiesa <strong>di</strong> Roma. E così, pur conscio delle <strong>di</strong>fficoltà insite nella convivenza fra<br />

popolazioni ed etnie così lontane e <strong>di</strong>verse fra loro, volle perseguire, fino a quando gli<br />

fu consentito dalle circostanze, la strada della tolleranza e della concor<strong>di</strong>a ra<strong>di</strong>cata<br />

intorno alla pace con il popolo romano e all’amicizia con il senato, osservando al<br />

contempo rispetto verso la Chiesa e preservando l’intesa con l’impero d’Oriente.<br />

Pur mantenendo in funzione i capisal<strong>di</strong> amministrativi romani – corrector,<br />

procurator, praefectus – Teodorico delegò il loro controllo a <strong>di</strong>gnitari goti e, inoltre,<br />

introdusse la fondamentale figura del ‘comes Gothorum’ a cui affidò la <strong>di</strong>rezione e il<br />

controllo del regno in tutti i campi, in primis nella giustizia e finanche nell’economia<br />

con i comiti siliquatorium – agenti doganali – nei porti. I comites rispondevano alle due<br />

esigenze primarie del regno: l’una rafforzare il potere centrale e regolare la vita degli<br />

Ostrogoti; l’altra promuovere l’integrazione fra elemento germanico ed elemento<br />

romano, rappresentando il comes un punto <strong>di</strong> incontro e <strong>di</strong> riferimento per entrambi.<br />

23


E per definire esattamente il campo <strong>di</strong> competenze dei comites e degli altri funzionari<br />

del regno, Teodorico emanò una copiosa serie <strong>di</strong> e<strong>di</strong>tti – formulae – tra cui<br />

l’importante ‘Formula comitivae Gothorum per singulas civitates’. E così, amministrò la<br />

giustizia in modo ibrido, ma efficiente ed equilibrato, avvalendosi del cospicuo<br />

corredo <strong>di</strong> leggi romane in relazione al senato e al popolo <strong>di</strong> Roma e, al contempo,<br />

mantenendo in vigore per il popolo goto le proprie leggi, tra<strong>di</strong>zioni e consuetu<strong>di</strong>ni.<br />

Con tale spirito, le formulae <strong>di</strong>stinguevano Romani e Goti <strong>di</strong> fronte al <strong>di</strong>ritto, ma<br />

assicuravano a entrambi la garanzia <strong>di</strong> una giustizia equa.<br />

Teodorico inoltre, <strong>di</strong> fronte alla legge e <strong>di</strong> fronte allo stato, aggiunse ai Goti e ai<br />

Romani un terzo or<strong>di</strong>ne, quello dei fedeli, dei religiosi, <strong>di</strong> tutti coloro che in qualche<br />

modo gravitavano intorno alla sfera ecclesiastica e che riconoscevano nel pontefice<br />

romano l’unica e vera guida spirituale cui fare riferimento, non solo per la soluzione <strong>di</strong><br />

questioni legate alle materie <strong>di</strong> fede, bensì anche per <strong>di</strong>rimere controversie <strong>di</strong> altra<br />

natura. Intuì, infatti, l’inutilità <strong>di</strong> opporsi al progressivo accrescimento del potere dei<br />

vescovi, e preferì piuttosto avvalersi del loro aiuto per raggiungere più facilmente i<br />

suoi scopi, nel desiderio ultimo <strong>di</strong> mantenere, con il potere, anche la pace e la<br />

concor<strong>di</strong>a all’interno del regno. Conscio inoltre che, anche nei territori fisicamente più<br />

lontani dall’influenza <strong>di</strong>retta della Chiesa romana, il popolo, sfiduciato ormai dal<br />

senato, dalle istituzioni civili, dallo stesso impero, trovava nelle istituzioni<br />

ecclesiastiche un elemento rassicurante circa il proprio destino. I vescovi delle<br />

province italiane ottennero così alcuni compiti amministrativi precisi, sia nell’ambito<br />

della vita citta<strong>di</strong>na che sul piano giuris<strong>di</strong>zionale.<br />

Ma non tutto risultò facile per Teodorico e la situazione interna rimase ben lungi da<br />

una tranquillità che potesse considerarsi duratura. Il senato <strong>di</strong> Roma era troppo<br />

soggetto alle influenze delle potenti famiglie citta<strong>di</strong>ne dalle quali uscivano quasi tutti i<br />

suoi membri. E inoltre, era inevitabile il graduale delinearsi <strong>di</strong> una rivalità e <strong>di</strong> un<br />

contrasto <strong>di</strong> interessi fra l’antica aristocrazia senatoria romana e la nascente<br />

aristocrazia gota. I rapporti tra i Goti e i Romani andarono così a deteriorarsi,<br />

evidenziando sempre più la necessità da parte dei senatori <strong>di</strong> trovare appoggi in<br />

Oriente e, all’opposta parte, <strong>di</strong> riscontrare la volontà regia <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re qualsiasi<br />

intromissione dell’impero. Così, nonostante Teodorico avesse avuto la maturità e<br />

l’intelligenza <strong>di</strong> comprendere che quanto più solidale fosse stata la sua politica, tanto<br />

più la presenza gota avrebbe potuto continuare a operare, dovette fare i conti con una<br />

realtà che andava oltre i suoi inten<strong>di</strong>menti e le sue possibilità reali <strong>di</strong> intervento.<br />

A tutto ciò si aggiunse la <strong>di</strong>fficile e complessa situazione religiosa che, se al<br />

principio in qualche modo favorì Teodorico e i Goti italiani grazie al <strong>di</strong>stacco tra Roma<br />

e Bisanzio, <strong>di</strong> fronte alla pacificazione tra le due Chiese – quando nel 518 giunse al suo<br />

termine lo scisma acaciano che aveva per lungo tempo contribuito a mantenere<br />

lontane le due gran<strong>di</strong> capitali dell’impero – cominciò a configurarsi quale motivo <strong>di</strong><br />

crisi. Il contrasto si accentuò con l’e<strong>di</strong>tto dell’imperatore Giustino contro gli ariani.<br />

Teodorico, che era ariano, nel 525 or<strong>di</strong>nò al papa Giovanni I <strong>di</strong> recarsi a Costantinopoli<br />

per indurre Giustino a ritirare l’e<strong>di</strong>tto e poi, irritato per l’esito non del tutto positivo<br />

del viaggio del papa, lo fece imprigionare, in unione con alcuni altri prestigiosi d’Italia.<br />

A quel punto, l’Italia aveva ormai consolidato la sua mappa politica intorno a tre<br />

forze antitetiche: la corte gota, che mirava a conservare una propria autonomia<br />

rispetto al senato e alla forza imperiale, il senato, sempre più teso a riavvicinare<br />

24


all’Occidente l’impero, e ultima la Chiesa <strong>di</strong> Roma, che nella figura del suo vescovo<br />

assumeva un ruolo sempre più consistente e sempre più importante nella sua<br />

funzione <strong>di</strong> moderatrice e <strong>di</strong> me<strong>di</strong>atrice fra le due parti in lotta. E questa nuova realtà<br />

politica finì per porre Teodorico in una posizione <strong>di</strong> estrema incertezza, aggravatasi in<br />

seguito alla riapertura dei rapporti tra Bisanzio e Roma e alla nuova politica antieretica<br />

avviata da Giustino e perseguita dal successore Giustiniano.<br />

Teodorico pertanto si sentì minacciato vedendo svanire i suoi progetti <strong>di</strong> una<br />

politica, se non antimperiale, tutta italo-germanica e, pur consapevole dello stato <strong>di</strong><br />

subor<strong>di</strong>nazione in cui si trovava nei confronti dell’autorità dell’imperatore bizantino,<br />

finì per vedere quest’ultimo come un avversario, contro cui però volle sempre evitare<br />

una guerra, sapendo che avrebbe condotto alla fine del suo governo. Le sue volontà e<br />

le sue speranze però, si infransero contro le vicissitu<strong>di</strong>ni e la politica dei suoi<br />

successori – Amalasunta, sua figlia reggente del figlio Atalarico e Teodato, cugino<br />

marito e omicida <strong>di</strong> lei, e gli altri tre, Vitige, Totila e Teja – i quali condussero non solo<br />

alla vanificazione del progetto teodoriciano, ma anche al totale <strong>di</strong>ssolvimento della<br />

presenza ostrogota nella penisola, seguito alla ventennale guerra greco-gotica.<br />

La <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Teodorico e dell’età gotica italiana è quin<strong>di</strong> un intreccio tra la<br />

costruzione <strong>di</strong> un <strong>di</strong>segno politico e l’impossibilità <strong>di</strong> una sua traduzione in azione<br />

concreta e duratura. Forse i Goti non ebbero tempo sufficiente per portare avanti con<br />

successo e concretezza politica un programma per sé troppo ambizioso e,<br />

probabilmente, quanto meno nella figura del loro re Teodorico, si posizionarono un<br />

po' troppo in avanti per i loro tempi. In ogni modo, certo è che quei pochi – quaranta –<br />

anni <strong>di</strong> sostanzialmente buon regno gotico, dovevano <strong>di</strong> lì a poco essere, in buona<br />

parte dei territori italiani, amaramente rimpianti: nei vent’anni della sanguinosa<br />

guerra greco-gotica, negli anni dell’esosa amministrazione bizantina, in quelli della<br />

conquista longobarda, in quelli delle devastazioni saracene, eccetera.<br />

Infatti, ad esempio, nella regio romana <strong>di</strong> Apulia et Calabria – dove non risulta si<br />

fosse stanziato un numero apprezzabile <strong>di</strong> Goti – alla quale apparteneva l’allora<br />

calabra Brin<strong>di</strong>si, durante gli anni del regno gotico e fino allo scoppio della guerra<br />

greco-gotica, era perdurato lo stato <strong>di</strong> relativa prosperità economica, già avviato al<br />

principio del V secolo con il processo <strong>di</strong> trasformazione agraria che aveva visto anche<br />

l’impianto <strong>di</strong> estesi oliveti e il richiamo <strong>di</strong> ingenti masse lavoratrici.<br />

L’epistolario <strong>di</strong> Cassiodoro, prestigioso ministro romano <strong>di</strong> Teodorico e storico dei<br />

Goti, presenta la Puglia come grande produttrice <strong>di</strong> frumento e commenta che a quel<br />

tempo, i Calabri – cioè i Salentini – erano considerati ‘peculosi’. Mentre un altro storico<br />

dei Goti, Giordane, dà notizia <strong>di</strong> trasporti <strong>di</strong> grano salentino effettuati per via mare<br />

attraverso il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, non solo verso le altre regioni d’Italia ma anche verso<br />

lontani mercati esteri, a cui partecipavano anche commercianti veneziani.<br />

«In Brin<strong>di</strong>si, il commercio e l’agricoltura furono allora favoriti, perché le terre a<strong>di</strong>acenti alla<br />

città, ricche <strong>di</strong> humus e d’acqua anche quando vi era siccità, fornivano ottimi raccolti. La<br />

città era anche fornita <strong>di</strong> magazzini per il grano e per gli altri prodotti agricoli che i<br />

commercianti provvedevano a esportare con navi proprie dal porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Ricchi<br />

allevamenti intorno a Brin<strong>di</strong>si furono documentati da Procopio, il quale riferisce che in<br />

piena guerra i Goti tenevano al pascolo presso la città una mandria <strong>di</strong> cavalli.» [G. CARITO]<br />

Infine, anche altre evidenze – come le stesse <strong>di</strong>sposizioni particolari, contenute<br />

nella famosa Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii <strong>di</strong> Giustiniano seguita alla<br />

25


conquista bizantina, tendenti al recupero dei negotiatores Calabriae et Apuliae –<br />

in<strong>di</strong>cano la preesistenza <strong>di</strong> una classe fiorente numerosa e ben organizzata <strong>di</strong><br />

commercianti de<strong>di</strong>ti al traffico delle derrate alimentari <strong>di</strong> produzione locale.<br />

Ma dopo quella lunghissima guerra, anche per Brin<strong>di</strong>si ‘effettivo’ spartiacque tra<br />

tardoantico e me<strong>di</strong>oevo,<br />

«…a partire dalla seconda metà del VI secolo tutto il sistema economico salentino subì un<br />

forte processo involutivo: Bisanzio considerò il Salento come un mercato cui esportare i<br />

suoi prodotti e non si preoccupò <strong>di</strong> favorire l’attività produttiva locale. Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>venne<br />

così un semplice porto <strong>di</strong> frontiera, ormai quasi completamente fuori dagli itinerari<br />

commerciali che contavano. Lo spopolamento delle campagne, le inumane con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong><br />

vita dei conta<strong>di</strong>ni e il rapace fiscalismo bizantino, furono le cause della depressione che,<br />

iniziatasi in quel periodo, sarà costante per Brin<strong>di</strong>si durante secoli, fino alla fine del primo<br />

millennio.» [G. CARITO]<br />

Se l’imperatore Giustiniano non avesse deciso <strong>di</strong> portare caparbiamente in Italia<br />

quella rovinosa guerra dalla quale ottenne null’altro che una costosissima quanto<br />

pirrica vittoria, forse, l’utopico progetto teodoriciano avrebbe potuto avere tutt’altro<br />

esito e la <strong>storia</strong> d’Italia tutt’altro futuro.<br />

_________________________<br />

G. CARITO Lo stato politico economico <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli Inizi del IV Secolo all'anno 670<br />

in Brun<strong>di</strong>sii Res - 1976<br />

Teodorico ‐ nel 'Gesta Theodorici Regis', 1177 Mausoleo <strong>di</strong> Teodorico ‐ Pietra d’Istria, 520 – Ravenna<br />

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Brin<strong>di</strong>si nella Guerra Greco‐Gotica<br />

Pubblicato dalla Fondazione Terra d’Otranto il 16 e 17 giugno 2019<br />

La storiografia classica colloca convenzionalmente il passaggio dal Tardoantico al<br />

Me<strong>di</strong>oevo in coincidenza con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, a sua volta<br />

associata alla deposizione dell’ultimo imperatore, Romulo Augustulo, per mano del<br />

generale romano <strong>di</strong> origini unne Odoacre, nel 476 dC., estromesso dopo tre<strong>di</strong>ci anni<br />

dal goto Teodorico e da questi ucciso nel 493. Da qualche tempo però, gli storici hanno<br />

messo in <strong>di</strong>scussione tale convenzione, osservando che più significativo che<br />

l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> una data precisa in cui collocare il trapasso, sia l’in<strong>di</strong>viduare la fine<br />

della persistenza dell’antico, cosa che si traduce inevitabilmente in accettare una<br />

transizione più o meno lenta e solo eventualmente più o meno legata a un qualche<br />

specifico acca<strong>di</strong>mento, in sostituire quin<strong>di</strong> a una data un periodo e infine, in<br />

considerare un passaggio non unico ma <strong>di</strong>verso da luogo o regione a regione.<br />

In questo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> idee, per Brin<strong>di</strong>si e per la sua regione salentina, probabilmente<br />

lo spartiacque tra il Tardo Antico e l’Alto Me<strong>di</strong>o, potrebbe averlo costituito la<br />

ventennale guerra greco-gotica iniziata nel 535, una sessantina d’anni dopo la fine<br />

dell’Impero Romano d’Occidente. Infatti, anche se le fonti sul corso della guerra<br />

intorno a Brin<strong>di</strong>si non sono molto pro<strong>di</strong>ghe <strong>di</strong> notizie che sono comunque sufficienti a<br />

poter determinare la ‘non occorrenza’ <strong>di</strong> un evento dalla portata emblematica <strong>di</strong> un<br />

cataclisma epocale, è indubbio che l’avvento del dominio bizantino conseguente al<br />

risultato <strong>di</strong> quella lunga guerra – che vide finalmente sconfitti i Goti – costituì<br />

certamente un cambio profondo e una interruzione drastica per un sistema<br />

socioeconomico e politico che, se pur in graduale e oscillante evoluzione, con i Goti si<br />

era mantenuto in sostanziale continuità con il trascorso Basso Impero.<br />

Le Variae <strong>di</strong> Caissiodoro Flavius Magnus Aurelius (~486-560) costituiscono la fonte<br />

più <strong>di</strong>retta circa il cinquantennale periodo del dominio gotico in Italia, con il re<br />

Teodorico, Amalasunta sua figlia reggente <strong>di</strong> suo figlio Atalarico, e il re Teodato cugino<br />

marito e omicida <strong>di</strong> lei. Mentre numerosi ed interessanti dettagli sono riportati nello<br />

“Stato politico economico <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli Inizi del IV Secolo all'anno 670” <strong>di</strong> Giacomo<br />

Carito in Brun<strong>di</strong>sii Res, 1976 e “Sulle Con<strong>di</strong>zioni Economiche della Puglia dal IV al VII<br />

Secolo dC” <strong>di</strong> Francesco M. De Robertis, 1951 in Archivio Storico Pugliese.<br />

Fonte principale della guerra gotica è, invece, il De bello Gothico <strong>di</strong> Procopio <strong>di</strong><br />

Cesarea (~495-565), storico greco, segretario e consigliere al seguito del comandante<br />

bizantino Flavio Belisario, in parte – fino al 540 – testimone <strong>di</strong>retto e privilegiato degli<br />

eventi che si susseguirono in Italia fin dallo sbarco in Sicilia degli eserciti bizantini<br />

inviati dall’imperatore Giustiniano – l’ultimo imperatore con origini romane –<br />

completato dagli scritti <strong>di</strong> Agazia <strong>di</strong> Mirina (~536-582), un altro storico bizantino<br />

considerato il continuatore <strong>di</strong> Procopio, che iniziò la sua narrazione della guerra dal<br />

punto – circa il 550 – in cui l’interruppe Procopio, descrivendone <strong>di</strong> fatto le fasi finali<br />

con le campagne <strong>di</strong> Narsete, il generale bizantino eunuco e grande stratega, che rilevò<br />

Belisario dal comando fino a culminare vittoriosamente la guerra.<br />

********<br />

La lunga guerra si sviluppò in due fasi ben separate tra <strong>di</strong> esse. La prima vide una<br />

relativamente rapida vittoria dei Bizantini <strong>di</strong> Belisario che, sbarcato nel luglio del 535<br />

in Sicilia e conquistatala, nel 536, varcò lo stretto e lungo la Calabria si <strong>di</strong>resse a Napoli<br />

27


che, asse<strong>di</strong>ata e conquistata in soli venti giorni, fu sacchegiata in<strong>di</strong>scriminatamente. In<br />

seguito, lo sconfitto re goto Teodato venne sacrificato dai suoi ed al suo posto fu eletto<br />

Vitige, il quale dalla capitale del regno, Ravenna, si <strong>di</strong>spose a organizzare la reazione<br />

gotica, mentre Roma senza resistere si arrendeva a Belisario il 10 <strong>di</strong>cembre del 536.<br />

Quin<strong>di</strong>, Vitige tentò la riconquista <strong>di</strong> Roma asse<strong>di</strong>andola con un numeroso esercito, ma<br />

vanamente e dopo un anno ripiegò nuovamente su Ravenna. Poi, trascorso qualche<br />

altro anno <strong>di</strong> alterne vicende belliche – che nel 537 videro lo sbarco a Otranto <strong>di</strong> un<br />

contingente fresco <strong>di</strong> mille soldati e ottocento cavalieri comandati dal generale<br />

bizantino Giovanni – fu Belisario a porre l’asse<strong>di</strong>o a Ravenna, che resistette a lungo<br />

finchè un vorace icen<strong>di</strong>o, probabilmente doloso, <strong>di</strong>strusse tutte le scorte <strong>di</strong> grano.<br />

Vitige allora, nella primavera del 540, decise <strong>di</strong> capitolare e, al seguito <strong>di</strong> Belisario, fu<br />

portato come trofeo a Costantinopoli, dove poi rimase in esilio dorato.<br />

La prima fase della guerra, conclusasi a favore dei Greci, aveva avuto come teatro<br />

delle operazioni essenzialmente Roma e le regioni del centro e del nord’Italia e i Goti,<br />

in seguito alla capitolazione <strong>di</strong> Vitige, nel settembre-ottobre del 541 elessero re<br />

Baduila, detto Totila che vuol <strong>di</strong>re “immortale”, dopo il breve regno <strong>di</strong> Il<strong>di</strong>bald, uno zio<br />

<strong>di</strong> Baduila che presto era rimasto ucciso e dopo Erarico, eletto re ma poi contrastato<br />

ed ucciso dopo soli cinque mesi <strong>di</strong> regno.<br />

«Il ritorno <strong>di</strong> Belisario a Costantinpoli aveva lasciato l’Italia in mano ai comandanti<br />

militari [capeggiati da un debole Costanziano], inesperti <strong>di</strong> amministrazione, e agli<br />

esattori delle tasse, espertissimi ed inesorabili nello spremere denaro anche là dove<br />

l’in<strong>di</strong>genza e la miseria rendevano precaria la stessa vita quoti<strong>di</strong>ana. Le popolazioni<br />

esasperate cominciavano già a rimpiangere il governo del Goti.» [O. GIORDANO 1 ]<br />

Totila – che da subito applicò una politica intelligente, seguendo l’esempio del suo<br />

antecessore Teodorico e facendo il contrario dei Bizantini, gravando i gran<strong>di</strong><br />

proprietari e favorendo conta<strong>di</strong>ni e coloni – organizzata la riscossa, con anche il favore<br />

delle popolazioni, procedette a riconquistare gradualmente i territori controllati dai<br />

Bizantini e a rioccupare le regioni più meri<strong>di</strong>onali del regno, che non avendo subito le<br />

devastazioni della guerra costituivano territori ottimi per i rifornimenti <strong>di</strong> vettovaglie.<br />

«E poiché niun nemico veniagli contro, sempre mandando attorno piccoli drappelli <strong>di</strong><br />

truppe, [Totila] operò fatti <strong>di</strong> gran rilievo. Sottomise l’Abbruzzo e la Lucania e s’impossessò<br />

delle Puglie e della Calabria, e i pubblici tributi egli riscosse, e i frutti degli averi si<br />

appropriò in luogo dei possessori dei terreni, e <strong>di</strong> ogni altra cosa <strong>di</strong>spose come signore<br />

d’Italia.» [PROCOPIO 2 ]<br />

Era così iniziata la seconda fase della guerra, fase questa che coinvolse da vicino<br />

anche la Puglia, il Salento – cioè l’antica Calabria – e quin<strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Presa Napoli,<br />

nell’aprile del 543, Totila si <strong>di</strong>resse ad asse<strong>di</strong>are Roma e al contempo inviò una parte<br />

dell’esercito verso Sud, su Otranto, sapendo che quella città con Brin<strong>di</strong>si e Taranto<br />

costituiva un triangolo chiaramente strategico per la logistica bizantina, che da quei<br />

tre porti <strong>di</strong>pendeva primor<strong>di</strong>almente per mantenere attivi e agili gli in<strong>di</strong>spensabili<br />

collegamenti militari e mercantili con la capitale e con il resto dell’impero.<br />

A quel punto, Giustiniano, preoccupato per il precipitare degli eventi, nell’estate del<br />

544 riaffidò il comando in Italia a Belisario, che nel 545 inviò Valentino a Otranto<br />

evitandone in tempo la resa, e i Goti abbandonarono l’asse<strong>di</strong>o. Però vi ritornarono, e<br />

nel 547 fu lo stesso Belisario che <strong>di</strong>rottato con la sua flotta su Otranto, li mise in fuga.<br />

28


«Saputo dell’arrivo <strong>di</strong> Belisario, i Goti che stavano ad asse<strong>di</strong>are quel castello, tolto subito<br />

l’asse<strong>di</strong>o, recaronsi a Brin<strong>di</strong>si che <strong>di</strong>sta da Otranto due giorni <strong>di</strong> cammino, ed è situata sulla<br />

riva del golfo e sprovvista <strong>di</strong> mura.» [PROCOPIO 2 ]<br />

«Procopio afferma che la città era priva <strong>di</strong> mura, ma non specifica se le stesse erano state<br />

demolite o abbattute per sguarnirla della sua fortificazione o per conquistarla in fase <strong>di</strong><br />

guerra. Nella circostanza appare probabile che le mura fossero ormai vecchie e cadenti,<br />

dato che l’esame della superstite muraglia romana, o meglio terrapieno, che è sul seno <strong>di</strong><br />

Ponente del porto, nei pressi <strong>di</strong> corte Capozziello, <strong>di</strong> fronte a quello che doveva essere<br />

l’approdo del porto, <strong>di</strong>mostra che i Romani si limitarono ad accomodare le preesistenti<br />

mura messapiche non costruendone <strong>di</strong> nuove, almeno da quel lato. Inoltre, non risultano<br />

esserci stati asse<strong>di</strong> o scontri armati dal tempo <strong>di</strong> Antonio e Ottaviano fino alla guerra<br />

gotica. È probabile quin<strong>di</strong>, che nei cinque secoli intercorsi tra i due eventi, le mura siano<br />

state superate dallo sviluppo urbanistico, o che fossero in rovina durante la guerra per<br />

essere ormai vecchie.» [G. CARITO 3 ]<br />

Salpando da Otranto, Belisario si <strong>di</strong>resse con un ridotto esercito alla volta <strong>di</strong> Roma<br />

asse<strong>di</strong>ata dai Goti, mentre Giovanni, l’altro generale bizantino, preferendo spostarsi<br />

verso Roma per via terrestre, si attardò con i suoi soldati in Calabria e riuscì a<br />

sorprendere i Goti che custo<strong>di</strong>vano Brin<strong>di</strong>si, attaccandoli <strong>di</strong> sorpresa grazie alla<br />

cattura e al tra<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> uno <strong>di</strong> loro e obbligandoli a fuggire dalla città.<br />

«A Giovanni, che l’interrogava in che modo lasciandolo vivo potrebbe giovare ai Romani ed<br />

a lui, questi rispose che lo avrebbe fatto piombar sui Goti mentre men se l’aspettavano.<br />

Giovanni <strong>di</strong>sse che quanto chiedeva non gli sarebbe negato, ma che prima ei doveva<br />

mostrargli i pascoli dei cavalli [dei Goti che custo<strong>di</strong>vano Brin<strong>di</strong>si]; ed avendo anche in ciò<br />

acconsentito il barbaro, andò egli con lui, e dapprima trovati i cavalli de' nemici che<br />

pascolavano, saltaron su <strong>di</strong> essi tutti quelli <strong>di</strong> loro che trovavansi a pie<strong>di</strong>, ed erano molti e<br />

valorosi, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> galoppo corsero contro il campo nemico. I barbari, trovandosi senz’armi,<br />

del tutto impreparati e stupefatti pel subitaneo attacco, senza dar niuna prova <strong>di</strong> coraggio,<br />

furono in gran parte uccisi e alcuni pochi scampati recaronsi presso Totila. Giovanni con<br />

esortazioni e blan<strong>di</strong>zie cercò <strong>di</strong> rendere tutti i Calabri bene affetti all'imperatore,<br />

promettendo loro gran<strong>di</strong> beni per parte dell’imperatore stesso e dell’esercito romano.<br />

Sollecitamente poi partitosi da Brin<strong>di</strong>si occupò la città chiamata Canosa, che trovasi nel<br />

centro delle Puglie e <strong>di</strong>sta da Brin<strong>di</strong>si cinque giorni <strong>di</strong> cammino per chi vada verso l’occaso<br />

e verso Roma.» [PROCOPIO 2 ]<br />

Belisario non riuscì a liberare Roma dall’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Totila e questi il 17 <strong>di</strong>cembre<br />

del 546 – corrotte le sentinelle della Porta Asinaria – penetrò in città mentre i Greci<br />

già stremati dall’asse<strong>di</strong>o, imprendevano una <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nata fuga. Quin<strong>di</strong>, lasciato in Roma<br />

un limitato contingente <strong>di</strong> forze, Totila si <strong>di</strong>resse verso Sud per affrontare le forze del<br />

generale Giovanni. Questi, saputolo, pensò bene <strong>di</strong> non affrontarlo e, rinunciando <strong>di</strong><br />

fatto a raggiungere Roma per dare manforte a Belisario, preferì tornare a rifugiarsi a<br />

Otranto. E così tutto il paese al <strong>di</strong> qua del golfo, ad eccezione <strong>di</strong> Otranto, tornò<br />

nuovamente sotto i Goti <strong>di</strong> Totila.<br />

Nella primavera del 547, sorpresivamente Belisario riprese Roma, che era rimasta<br />

sguarnita <strong>di</strong> truppe gotiche e, per poter proseguire la guerra, richiese insistentemente<br />

nuovi rinforzi a Costantinopoli, da cui finalmente partirono alcuni contingenti alla<br />

volta dell’Italia, seguendo la rotta più breve che portava <strong>di</strong>rettamente a Otranto. Un<br />

primo rinforzo, che giunse costituito da trecento Eruli comandati da Vero, appena<br />

sbarcato si <strong>di</strong>resse su Brin<strong>di</strong>si, accampandosi nelle vicinanze della città.<br />

29


«Vero doveva essere un poco <strong>di</strong> buono; Procopio <strong>di</strong>ce che oltre a non essere una persona<br />

seria, era anche un formidabile beone: il vino lo rendeva temerario fino all’inverosimile e<br />

quando Totila lo attaccò, massacrò molti dei suoi soldati e lui si salvò in estremis solo<br />

grazie all’arrivo <strong>di</strong> una flotta imperiale, forte <strong>di</strong> ottocento uomini comandati dall’armeno<br />

Varazze, <strong>di</strong>retta a Taranto [per unirsi alle forze <strong>di</strong> Giovanni].» [O. GIORDANO 1 ]<br />

Il Salento, per la sua strategica posizione, in quel frangente della guerra si trovò <strong>di</strong><br />

fatto al centro del conflitto e Totila impegnò le sue forze a prendere Taranto – che nel<br />

mentre era stata fortificata da Giovanni – per poter meglio ostruire la via ai rinforzi<br />

imperiali richiesti da Belisario che li aspettava asserragliato dentro Roma. Dopo aver<br />

conquistato Taranto, infatti, Totila tentò <strong>di</strong> riprendersi Roma, ma non ebbe successo<br />

giacchè Belisario riuscì a respingere i suoi tre attacchi. Seguirono due anni in<br />

sostanziale situazione <strong>di</strong> stasi, finchè, nell'autunno del 549 Totila pose nuovamente<br />

l’asse<strong>di</strong>o a Roma. Si trattò anche questa volta <strong>di</strong> un lungo asse<strong>di</strong>o, nel mezzo del quale<br />

Belisario vanamente tentò <strong>di</strong> farsi mandare rinforzi dall’imperatore Giustiniano,<br />

inviando persino la propria moglie a Costantinopoli a perorare le sue richieste, ma<br />

questa solo ottenne che il marito potesse ritornare a casa. Poi, nuovamente, gli Isaurici<br />

tra<strong>di</strong>rono aprendo la Porta <strong>di</strong> San Paolo al nemico e Totila entrò <strong>di</strong> nuovo a Roma,<br />

dove, con il senato già trasferito quasi al completo a Costantinopoli, restavano ormai<br />

solo pochi sopravvissuti dei duecentomila citta<strong>di</strong>ni che vi abitavano prima della<br />

guerra. E con Roma, i Goti <strong>di</strong> Totila consolidarono il loro dominio su gran parte dei<br />

territori italiani, con la sola eccezione <strong>di</strong> alcune poche città, tra cui Otranto.<br />

Nel 552, Giustiniano – spinto anche dal papa Vigilio dai senatori e dagli altri esuli<br />

italiani con lui rifugiatisi a Costantinopoli – decise <strong>di</strong> ravvivare la guerra e ne affidò il<br />

comando a Narsete, comes sacri erari, ministro del tesoro e prepositus sacri cubiculi,<br />

gran ciambellano <strong>di</strong> corte, eunuco armeno, ultrasettantenne, grande organizzatore e<br />

grande politico, il quale si rivelò essere anche uno straor<strong>di</strong>nario e vincente stratega<br />

militare. Narsete, con un nutrito ed eterogeneo esercito entrò in Italia dal Veneto,<br />

spostando così nuovamente il teatro delle operazioni della guerra nelle regioni centrosettentrionali<br />

e, muovendosi verso Sud lungo la costa, raggiunse rapidamente<br />

Ravenna, evitando le forze del giovane comandante goto Teia, che si erano appostate a<br />

Verona per inteccertarlo. Totila quin<strong>di</strong> abbandonò Roma, ma raggiunto, fu sconfitto<br />

nella ‘battaglia dei giganti’ a Tagina, tra Gubbio e Gualdo Ta<strong>di</strong>no, dove cadde ucciso<br />

alla fine <strong>di</strong> giugno 552, dopo aver regnato per un<strong>di</strong>ci anni. Nel 553 Narsete con i suoi<br />

soldati entrò a Roma accolto come un eroe. Poi, anche Teia, il giovane successore <strong>di</strong><br />

Totila, proclamato a Pavia ultimo re dei Goti, che si era <strong>di</strong>retto a Sud, fu intercettato<br />

asse<strong>di</strong>ato e sconfitto, e dopo aver combattuto strenuamente fu ucciso tra i monti<br />

Lattari, presso il Vesuvio nel marzo del 553, mentre il resto dei caposal<strong>di</strong> gotici rimasti<br />

nel Meri<strong>di</strong>one, si arresero in rapida successione alle truppe imperiali.<br />

La guerra greco-gotica era, in principio, finita e gli imperiali bizantini <strong>di</strong> Giustiniano<br />

avevano sconfitto i Goti, il cui regno d’Italia era stato definitivamente cancellato.<br />

Restavano comunque alcune sacche <strong>di</strong> resistenza e <strong>di</strong> riven<strong>di</strong>cazione gotica, una delle<br />

quali, presso i confini nor<strong>di</strong>ci dei territori veneti, faceva in qualche modo riferimento<br />

al regno <strong>di</strong> Teodebaldo, re dei Franchi d’Austrasia, presso il quale chiesero aiuto i Goti<br />

d’oltre Po, mostrandosi <strong>di</strong>sposti a compensarlo lautamente. Teobaldo, in posizione <strong>di</strong><br />

formale neutralità rifiutò, ma favorì l’entrata in campo <strong>di</strong> due Alemanni Suavi, fratelli e<br />

condottieri inescrupolosi, Leutari e Boccellino, <strong>di</strong>sposti a fornire “a titolo personale”<br />

30


l’aiuto militare richiesto. I due Alemanni pre<strong>di</strong>sposero con la massima celerità una<br />

spe<strong>di</strong>zione militare, che nella primavera del 553 attraversò le Alpi, entrò in Italia e si<br />

<strong>di</strong>resse rapidamente verso il fiume Po.<br />

«All’ingresso dei due duchi in Italia, l’assetto della penisola era parecchio instabile: alcune<br />

città o fortezze erano tenute da Goti passati all’ossequio dell’Impero, altre da Goti<br />

in<strong>di</strong>pendentisti, certe altre erano ancora sotto attacco o asse<strong>di</strong>o romaico. Alle prime<br />

favorevoli manovre dell’esercito franco-alamanno, qualche roccaforte ostrogota della<br />

Tuscia che si era già arresa insorse col proposito <strong>di</strong> riunirsi ai connazionali transpadani e<br />

alle forze d’invasione.» [G. ARNOSTI 4 ]<br />

«L’attacco franco-alemanno si rivelò da subito potenzialmente assai insi<strong>di</strong>oso, anche<br />

perché molti Goti sbandati della Liguria e dell’Emilia vi si unirono: da Parma la spe<strong>di</strong>zione<br />

toccò l’Etruria e nella primavera del 554 si spinse verso Roma, oltrepassata la quale e<br />

giunti nel Sannio, gli invasori si <strong>di</strong>visero in due colonne d’attacco, ciascuna capitanata da<br />

uno dei fratelli: Buccelino guidò una lunga scorreria lungo la Campania, la Lucania e il<br />

Bruzzio, fino allo stretto <strong>di</strong> Messina.» [M. GUSSO 5 ]<br />

«Leutari, con l'altra schiera infestava l'Apulia e le terre Calabre; e dopo che [essendo <strong>di</strong><br />

certo passato anche da Brin<strong>di</strong>si] giunse a Otranto, che è proprio al confine del mare <strong>di</strong><br />

Adria e dello Ionio, tutti quelli che c’erano della stirpe dei Franchi, con grande religiosità e<br />

riverenza risparmiavano gli e<strong>di</strong>fici sacri per ubbi<strong>di</strong>re alle giuste e rette volontà <strong>di</strong>vine;<br />

anche perché, come <strong>di</strong>ssi altrove - scrive Agazia - essi avevano sulla fede le stesse<br />

convinzioni religiose dei Romani.» [G. ARNOSTI 4 ]<br />

«La colonna <strong>di</strong> Leutari, che aveva intrapreso l’itinerario costiero adriatico, [sulla via del<br />

ritorno in piena estate del 554] si scontrò duramente con la piccola ma ben guidata<br />

guarnigione bizantina <strong>di</strong> Pesaro, perdendo in quella circostanza buona parte <strong>di</strong> quel<br />

bottino che cercava <strong>di</strong> mettere in salvo in territorio sotto controllo Franco e, attraversato in<br />

qualche modo il Po, si <strong>di</strong>resse in cerca <strong>di</strong> rifugio nella Venetia, accampando nel castrum <strong>di</strong><br />

Ceneda, dove fu colta da una mortale epidemia in seguito alla quale morì lo stesso Leutari...<br />

Narsete, intercettato e inseguito Buccelino, [in autunno] ne aveva rovinosamente sconfitte<br />

le schiere nei pressi del Volturno, dove cadde ucciso in combattimento lo stesso<br />

Buccellino.» [M. GUSSO 5 ]<br />

********<br />

Anche se la lunga ed articolata guerra greco-gotica coinvolse tutta l’Italia, dal<br />

Veneto alla Sicilia, e danneggiò seriamente la maggior parte della penisola, lo fece<br />

comunque con intensità e modalità <strong>di</strong>verse a seconda delle aree che interessò nei<br />

<strong>di</strong>fferenti momenti del suo percorso, non dovendosi pertanto necessariamente<br />

accettare del tutto la pur stereotipata lettura <strong>di</strong> un’Italia uscita completamente<br />

<strong>di</strong>strutta dal conflitto, con le campagne devastate e le città rase al suolo, la<br />

popolazione immiserita e deportata, quando non uccisa o decimata dalle epidemie.<br />

Brin<strong>di</strong>si, nel lungo De bello Ghotico <strong>di</strong> Procopio <strong>di</strong> Cesarea completato da Agazia <strong>di</strong><br />

Mirina, è citata pochissime volte, meno che le <strong>di</strong>ta <strong>di</strong> una sola mano e ciò, in tale<br />

circostanza, potrebbe forse assumere un significato positivo, nella misura in cui “a<br />

meno fatti <strong>di</strong> guerra da raccontare, meno morti e meno <strong>di</strong>struzioni da contabilizzare”.<br />

«Durante il ventennale conflitto greco-gotico, Brin<strong>di</strong>si fu occupata in varie occasioni dai<br />

contendenti, ma i fatti si svolsero senza colpo ferire… Sembra che durante il conflitto fra<br />

Goti e Bizantini, i Brin<strong>di</strong>sini, per proteggere i loro interessi economici, abbiano seguito una<br />

politica ambigua parteggiando, <strong>di</strong> volta in volta, per l’occupante <strong>di</strong> turno, consentendo alla<br />

città <strong>di</strong> uscire dalla guerra col minimo dei danni... Si sa che i danni più considerevoli la<br />

guerra li arrecò con la devastazione delle campagne, battute dagli opposti eserciti. Tale<br />

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devastazione dovette provocare, <strong>di</strong> riflesso, squilibrio nell’economia brin<strong>di</strong>sina che contava<br />

molto, allora, sull’esportazione dei prodotti agricoli.» [G. CARITO 3 ]<br />

In effetti, dall’analisi delle fonti pervenute, sembrerebbe che le azioni <strong>di</strong> guerra<br />

abbiano interessato più <strong>di</strong>rettamente da vicino il territorio del brin<strong>di</strong>sino e meno la<br />

propria città e, comunque, <strong>di</strong> fatto solo durante la seconda fase della guerra, quella<br />

corrispondente al regno goto <strong>di</strong> Totila e del suo effimero successore Teia, a partire dal<br />

ritorno in Italia <strong>di</strong> Belisario nell’estate del 544, e quin<strong>di</strong> per circa un decennio.<br />

«Possiamo chiederci quale fosse l’atteggiamento delle popolazioni meri<strong>di</strong>onali: sappiamo<br />

che durante la campagna <strong>di</strong> Belisario – prima fase della gerra – Bruzi e Calabri in<br />

particolare, non avendo truppe gotiche nel loro paese, volentieri patteggiavano per il<br />

generale bizantino. Ma – nella seconda fase della guerra – con la situazione militare<br />

cambiata, forse, è legittimo pensare che anche l’atteggiamento <strong>di</strong> quelle popolazioni<br />

cambiasse e si volgesse a favore dei Goti… In conclusione, gli atteggiamenti delle<br />

popolazioni furono determinati <strong>di</strong> volta in volta dal variare delle circostanze e a seconda<br />

dell’opportuntà del momento.» [O. GIORDANO 1 ]<br />

Se dunque la causa dell’indubbio profondo e prolungato deca<strong>di</strong>mento che soffrì<br />

Brin<strong>di</strong>si nei secoli che seguirono a quell’evento bellico [G. PERRI 6 ] non fu tutta semplice<br />

e <strong>di</strong>retta conseguenza della guerra, e se inoltre – come è ben documentato anche da<br />

Cassiodoro – quel deca<strong>di</strong>mento non si era manifestato prima dell’evento e forse –<br />

como farebbe presumerlo la Pragmatica Sanctio emanata da Giustiniano alla fine della<br />

guerra – neanche imme<strong>di</strong>atamente dopo, allora cosa realmente lo determinò? Quale<br />

ne fu la reale causa? Molto probabilmente, la spiegazione è da ricercare <strong>di</strong>rettamente<br />

nel cambiamento indotto dal risultato della guerra, determinato cioè dalla sconfitta<br />

dei Goti e dalla vittoria dei Greci, in definitiva, dalla nuova conduzione politica e<br />

amministrativa: quella bizantina dei vincitori, i Greci, nuovi dominatori della regione.<br />

«Vi contribuirono l’errata politica economica dei successori <strong>di</strong> Giustiniano, il precario stato<br />

<strong>di</strong> sicurezza delle vie <strong>di</strong> comunicazione terrestri ed infine una serie <strong>di</strong> catastrofi naturali…<br />

Lo spopolanento delle campagne, le inumane con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita dei conta<strong>di</strong>ni ed il<br />

fiscalismo eccessivo furono le cause della depressione che, iniziatasi in questo periodo,<br />

sarà costante per Brin<strong>di</strong>si fino alla fine del primo millennio… Con il declassamento del<br />

porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e la rivalutazione <strong>di</strong> quello otrantino, Brin<strong>di</strong>si perse il ruolo che aveva<br />

esercitato nella regione sin dall’età messapica… E sotto Costante II, la pressione fiscale<br />

esercitata dai Bizantini <strong>di</strong>venne insostenibile...» [G. CARITO 3 ]<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

1 O. GIORDANO La Guerra Greco‐Gotica nel Salento in Brun<strong>di</strong>sii Res - 1974<br />

2 PROCOPIO DI CESAREA La guerra Gotica. Testo greco emendato sui manscritti con<br />

traduzione italiana a cura <strong>di</strong> DOMENICO COMPARETTI - 1895<br />

3 G. CARITO Lo stato politico economico <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli Inizi del IV Secolo all'anno 670<br />

in Brun<strong>di</strong>sii Res - 1976<br />

4 G. ARNOSTI Goti e Franchi Merovingi Nella Venetia aa. 450‐565 - 2015<br />

5 M. GUSSO Franchi Austrasiani nella Venetia del VI Secolo dC - 2002<br />

6 G. PERRI Brin<strong>di</strong>si bizantina nei cinquecento anni più bui della sua <strong>storia</strong> - brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

http://www.brin<strong>di</strong>siweb.it/<strong>storia</strong>/brin<strong>di</strong>si_bizantina.asp<br />

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Brin<strong>di</strong>si bizantina e longobarda nei 500 anni più bui della sua <strong>storia</strong><br />

con un’appen<strong>di</strong>ce sul monachesimo orientale in Puglia e in Brin<strong>di</strong>si<br />

Pubblicato su.Brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

Per Brin<strong>di</strong>si, quel mezzo<br />

millennio <strong>di</strong> <strong>storia</strong> coincidente<br />

grosso modo con la seconda metà<br />

del primo millennio – compreso, o<br />

ancor meglio detto schiacciato, tra<br />

l'ingombrante quanto meritata<br />

fama dell’urbe e la celebrità del<br />

suo porto negli anni della<br />

classicità <strong>di</strong> Roma repubblicana e<br />

imperiale da una parte, e la<br />

leggendaria e romantica epopea<br />

me<strong>di</strong>evale delle crociate dei re<br />

normanni svevi e angioini<br />

dall’altra – è poco raccontato dai<br />

libri e dalle riviste <strong>di</strong> <strong>storia</strong> ed è, <strong>di</strong><br />

conseguenza, generalmente poco conosciuto e per nulla celebrato dalla tra<strong>di</strong>zione<br />

popolare e dalla stessa cultura storica formale della città, rimanendo relegato nei<br />

confini e nei limiti degli addetti ai lavori e dei circoli degli stu<strong>di</strong>osi ed appassionati<br />

della <strong>storia</strong> citta<strong>di</strong>na.<br />

Eppure, si tratta <strong>di</strong> un periodo molto esteso, più <strong>di</strong> cinquecento anni,<br />

praticamente un quinto della plurimillenaria <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Un lungo periodo<br />

storico che per la maggior parte del tempo fu segnato dal dominio – anche se spesso<br />

solo nominale – bizantino, dei Romanoi dell'impero romano d'Oriente, che con la sua<br />

capitale Costantinopoli sopravvisse mille anni all'impero romano d'Occidente, dal<br />

quale aveva preso origine con la <strong>di</strong>visione che nel 395 d.C. ne fece l’imperatore<br />

Teodosio tra i suoi due figli: il maggiore Arca<strong>di</strong>o, primo imperatore romano d’Oriente<br />

e il minore Onorio, primo imperatore romano del solo Occidente.<br />

Si tratta dei cinque secoli <strong>di</strong> <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che, dopo la caduta nel 476 d.C.<br />

dell'impero romano d’Occidente, vanno dalla cruenta conquista della penisola italiana<br />

ottenuta dall’imperatore d’Oriente Giustiniano con la ventennale guerra greco gotica<br />

conclusa nel 553, fino al crollo del dominio greco bizantino nel meri<strong>di</strong>one d'Italia,<br />

conseguente alla conquista normanna – quella della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel 1071 – e alla<br />

fondazione del Regno <strong>di</strong> Sicilia, ufficialmente nato a Palermo nel 1131.<br />

Si tratta <strong>di</strong> più <strong>di</strong> cinquecento anni <strong>di</strong> <strong>storia</strong> che, anche se per Brin<strong>di</strong>si furono<br />

decisamente tenebrosi perché caratterizzati da una profonda decadenza e da un buio<br />

quasi assoluto, hanno comunque marcato fortemente il carattere della città e dei suoi<br />

abitanti ed hanno inciso in maniera determinante sulla loro successiva evoluzione fino<br />

a inevitabilmente riflettersi anche nella cultura e i<strong>di</strong>osincrasia <strong>di</strong> noi brin<strong>di</strong>sini del<br />

terzo millennio.<br />

Ed è per ciò che considero possa essere utile ed importante, e spero anche<br />

apprezzato, questo contributo alla <strong>di</strong>vulgazione <strong>di</strong> un capitolo della <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

poco celebrato, ma comunque fondamentale ed estremamente interessante.<br />

33


Brin<strong>di</strong>si bizantina nei cinquecento anni più bui della sua <strong>storia</strong><br />

Dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, dalla <strong>storia</strong> formalmente ascritta<br />

all’anno 476 d.C. con la cacciata dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo ad opera del<br />

generale Odoacre, la successiva dominazione gotica sull’Italia, iniziata nel 493 con il re<br />

Teodorico sotto gli auspici dell’imperatore d’oriente Zenone, culminò con il<br />

ventennale conflitto greco-gotico che nel 553 vide vincitori i Bizantini dell’imperatore<br />

Giustiniano il quale, aspirando a integrare l’Italia all’impero romano d’oriente, istaurò<br />

con quella lunga guerra il dominio bizantino su tutta la penisola. Ma la <strong>storia</strong> italiana,<br />

quasi d’imme<strong>di</strong>ato, ebbe a registrare un nuovo incisivo scossone.<br />

Dopo solo pochi -15- anni infatti, nel 568, provenienti dal nordest ed entrati<br />

in Italia attraverso il Friuli, in poco tempo i Longobar<strong>di</strong> strapparono ai Bizantini una<br />

gran parte del territorio continentale italiano a sud delle Alpi.<br />

Posero la loro capitale a Pavia e<br />

raggrupparono le terre sottomesse in<br />

due gran<strong>di</strong> aree: la Langobar<strong>di</strong>a<br />

Maior, dalle Alpi all'o<strong>di</strong>erna Toscana<br />

e la Langobar<strong>di</strong>a Minor, costituita dai<br />

territori imme<strong>di</strong>atamente a est e a<br />

sud dei posse<strong>di</strong>menti centro nor<strong>di</strong>ci<br />

rimasti bizantini i quali, attraverso<br />

parte delle attuali Umbria e Marche,<br />

si stendevano da Roma a Ravenna.<br />

Mentre la Langobar<strong>di</strong>a Maior fu<br />

spezzettata in numerosi ducati e tanti<br />

gastaldati, la Minor si articolò in solo<br />

due potenti ducati, quello <strong>di</strong> Spoleto a<br />

nordest <strong>di</strong> Roma e quello<br />

<strong>di</strong> Benevento che al sudest <strong>di</strong> Roma<br />

comprese i territori della Lucania e<br />

buona parte <strong>di</strong> quelli della Campania<br />

del Bruzio e della romana Apulia dai<br />

quali, instancabilmente, i Longobar<strong>di</strong><br />

scorribandarono per vari secoli e<br />

<strong>di</strong>lagarono sui territori limitrofi,<br />

creandovi spesso anche loro unità<br />

territoriali stabili: i gastaldati.<br />

I Bizantini allora, incentrarono il loro potere residuo nell’Esarcato <strong>di</strong> Ravenna, già<br />

capitale del regno italiano dei Goti e dove concentrarono il loro controllo nominale su<br />

tuti i territori italiani inizialmente risparmiati dall’invasione: la Venezia e l'Istria;<br />

la Liguria; la Pentapoli; il Ducato romano; il Ducato <strong>di</strong> Napoli e il Ducato <strong>di</strong> Calabria;<br />

con inoltre la Sicilia, la Sardegna e la Corsica.<br />

34


Quel posse<strong>di</strong>mento meri<strong>di</strong>onale denominato<br />

ducato <strong>di</strong> Calabria, fu fondato dai Bizantini nei<br />

territori situati imme<strong>di</strong>atamente ad est e a sud<br />

del caposaldo longobardo <strong>di</strong> Benevento,<br />

integrando in un’unica entità amministrativa i<br />

territori della penisola del Bruzio, l’o<strong>di</strong>erna<br />

regione calabrese, con quelli della penisola<br />

costituita dalla parte meri<strong>di</strong>onale della romana<br />

Apulia e da tutta la romana Calabria, o o<strong>di</strong>erno<br />

Salento come preferir si voglia: due penisole<br />

certo ben separate, ma inizialmente collegate da<br />

un’ampia fascia costiera che si estendeva lungo<br />

la riva nord-occidentale del golfo <strong>di</strong> Taranto.<br />

In tutti i primi anni del dominio bizantino che nel meri<strong>di</strong>one italiano seguirono alla<br />

fine della guerra greco-gotica, il malgoverno, l’esosità dei funzionari greci, la<br />

corruzione imperante, il precario stato <strong>di</strong> sicurezza delle vie <strong>di</strong> comunicazione terresti<br />

infestate dal brigantaggio e, soprattutto, la miseria generalizzata e lo spopolamento,<br />

furono tali che a Brin<strong>di</strong>si, che pur fu sede <strong>di</strong> una delle prime comunità cristiane<br />

costituitesi in Italia, alla fine del secolo non si riuscì neanche ad eleggere un vescovo<br />

proprio, tanto che nel 595 il papa Gregorio Magno scrisse a Pietro, vescovo <strong>di</strong> Otranto,<br />

perché provvedesse alla chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si priva <strong>di</strong> una guida dopo la morte del suo<br />

presule e ve ne facesse pertanto eleggere uno, vigilando perché non fosse elevato un<br />

laico alla <strong>di</strong>gnità vescovile.<br />

Nel corso del VI secolo, dopo la guerra greco-gotica, infatti, fu Otranto a subentrare nel<br />

ruolo che già era stato <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e il collasso dei traffici commerciali segnò il declino<br />

della città, sede vacante per un considerevole lasso <strong>di</strong> tempo fra VI e VII secolo. Tutto<br />

il contrario <strong>di</strong> quanto caratterizzò il precedente V secolo, quando Brin<strong>di</strong>si con il suo<br />

porto ancora molto attivo durante tutto il regno dei Goti, fu caposcalo per l’oriente,<br />

centro principale dell’antica Calabria, e centro d’irra<strong>di</strong>amento del cristianesimo nel<br />

Salento.<br />

Nel 601 invece, non c’era ancora stata l’elezione del vescovo, quando lo stesso papa<br />

Gregorio dovette nuovamente rivolgersi al vescovo <strong>di</strong> Otranto, chiedendogli <strong>di</strong> recarsi<br />

a Brin<strong>di</strong>si per far pervenire reliquie <strong>di</strong> San Leucio, il cui corpo si venerava in Brun<strong>di</strong>sii<br />

Ecclesia, all’abate del monastero <strong>di</strong> San Leucio in Roma, Opportuno, che ne aveva fatto<br />

richiesta perché il suo monastero ne era stato privato con un furto.<br />

E Brin<strong>di</strong>si non costituiva <strong>di</strong> certo l’eccezione nella Calabria bizantina: anche Lecce e<br />

Gallipoli, in quel finire <strong>di</strong> VI secolo, non avevano potuto eleggere il proprio vescovo.<br />

Situazioni tutte, conseguenza dell’abbandono in cui erano evidentemente versati per<br />

anni il clero e tutto il popolo in quelle città e in quell’intera regione, che avevano a<br />

lungo subito, e che continuarono a subire per altri secoli ancora, le continue angherie<br />

e le prepotenze <strong>di</strong> un’amministrazione affidata al governo <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> patrizi greci,<br />

che da Otranto esercitarono il potere assoluto in nome dell’esarca <strong>di</strong> Ravenna.<br />

A partire dalla seconda metà del VI secolo, in effetti, tutto il sistema economico<br />

salentino subì un forte processo involutivo, quando Bisanzio non si occupò <strong>di</strong><br />

favorirne l’attività produttiva. Brin<strong>di</strong>si in particolare, a tutto vantaggio <strong>di</strong> Otranto,<br />

35


<strong>di</strong>venne un semplice porto <strong>di</strong> frontiera, ormai quasi completamente fuori dagli<br />

itinerari commerciali importanti. Tutto ciò, assieme allo spopolamento delle<br />

campagne per le inumane con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita dei conta<strong>di</strong>ni, accelererò una depressione<br />

che, iniziatasi in quel periodo, perdurò per quasi cinquecento anni: fino all’inizio del<br />

secondo millennio.<br />

Nel 605, dopo aver allargato i confini del proprio territorio e dopo aver tentato<br />

infruttuosamente <strong>di</strong> conseguire uno sbocco stabile sul basso Adriatico a scapito dei<br />

Bizantini, Arechi I, duca <strong>di</strong> Benevento, stipulò con quelli un’instabile tregua, che durò<br />

solo fino a quando l’imperatore bizantino Costante II sbarcò a Taranto nel 663,<br />

liberando temporalmente quasi tutto il meri<strong>di</strong>one dalla presenza longobarda, senza<br />

però poter espugnare Benevento, energicamente <strong>di</strong>fesa dal duca Romualdo e da dove,<br />

ad ogni nuova occasione, i Longobar<strong>di</strong> sarebbero ripetutamente ritornati all’attacco.<br />

Della Brin<strong>di</strong>si del VII secolo, durante gli anni che precedettero la conquista della città<br />

da parte dei Longobar<strong>di</strong> – circa nel 680 – non si hanno molte notizie specifiche, tranne<br />

quelle, comunque approssimate nonchè incerte, riguardanti la sua <strong>storia</strong> arcivescovile,<br />

interrotta dal trasferimento della <strong>di</strong>ocesi a Oria, conseguente, eventualmente, alla<br />

venuta dei Longobar<strong>di</strong>:<br />

«Proculus, che precedette Pelino come vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e che fu venerato come<br />

beato, secondo l’Ughelli fu “romano <strong>di</strong> nazione”. Diversamente, Guerrieri lo ritenne<br />

brin<strong>di</strong>sino, “ma <strong>di</strong> famiglia romana qui stabilitasi, e il suo nome Aulo Proculo”.<br />

Pelino, monaco basiliano (*) formatosi in Durazzo, in quanto non aderente al Tipo,<br />

ossia all'e<strong>di</strong>tto dogmatico voluto dall'imperatore bizantino Costante II nel 648, e in<br />

quanto <strong>di</strong>fensore dell’ortodossia, pensando <strong>di</strong> trovare un asilo sicuro coi siri Gorgonio<br />

e Sebastio e col suo <strong>di</strong>scepolo Ciprio, si trasferì a Brin<strong>di</strong>si i cui vescovi venivano<br />

confermati da Roma. (*) In appen<strong>di</strong>ce una nota sul monachesimo basiliano a Brin<strong>di</strong>si.<br />

Seguita la morte <strong>di</strong> Proculus, il non ancora quarantenne Pelino assunse la <strong>di</strong>gnità<br />

episcopale. Si mostrò in questa veste, fermo e intransigente innanzi ai funzionari<br />

imperiali che, infine, lo allontanarono dalla cattedra brin<strong>di</strong>sina. Deportato a Corfinio,<br />

in Abruzzo, venne lì condannato a morte e ucciso, probabilmente nel 662 in uno con<br />

Sebastio e Gorgonio, bibliotecari, ossia archivisti della sede episcopale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Ciprio, originario <strong>di</strong> Durazzo, figlio del retore Ella<strong>di</strong>o e <strong>di</strong>scepolo <strong>di</strong> Pelino, si sarebbe<br />

trasferito a Brin<strong>di</strong>si col suo maestro. Sfuggito alla morte in occasione del martirio del<br />

maestro, in virtù della sua giovanissima età, sarebbe tornato a Brin<strong>di</strong>si e sarebbe<br />

succeduto a Pelino sulla cattedra episcopale. Poco lontano da una delle porte della<br />

città, nei pressi della chiesa <strong>di</strong> Santa Maria, avrebbe eretto una basilica in onore <strong>di</strong><br />

Pelino, un tempio che fu demolito nel tardo XVI secolo.» -Giacomo Carito, 2007‐<br />

Dopo l’omici<strong>di</strong>o dell’imperatore Costante II, avvenuto a Siracusa nel 668, i Longobar<strong>di</strong><br />

del duca Romualdo I recuperarono molti dei territori e delle città del meri<strong>di</strong>one<br />

d’Italia, occupando anche gran parte dello strategico ducato <strong>di</strong> Calabria, in particolare<br />

Taranto e, intorno al 680, anche Brin<strong>di</strong>si, che per la prima volta in centoventicinque<br />

anni fu formalmente sottratta al governo dei Greci. Il dominio bizantino nelle due<br />

penisole meri<strong>di</strong>onali d’Italia si ridusse alle sole punte: le città <strong>di</strong> Otranto e Gallipoli con<br />

tutto il loro entroterra nel Salento e la parte sud del Bruzio, territori tutti che, integrati<br />

amministrativamente, continuarono comunque a denominarsi ducato <strong>di</strong> Calabria,<br />

nonostante fossero fisicamente separati <strong>di</strong> fatto in due pezzi completamente <strong>di</strong>stinti.<br />

36


Brin<strong>di</strong>si longobarda …<br />

I Longobar<strong>di</strong> trovarono in Brin<strong>di</strong>si una<br />

città in profonda crisi, con le antiche mura<br />

romane <strong>di</strong>rute, così come la maggior<br />

parte degli e<strong>di</strong>fici monumentali dell’età<br />

classica. Quin<strong>di</strong>, la abbandonarono,<br />

essendo un porto per essi inutile e<br />

<strong>di</strong>fficile da <strong>di</strong>fendere contro gli abili<br />

navigatori bizantini, e fecero <strong>di</strong> Oria il<br />

loro più forte caposaldo in Terra <strong>di</strong><br />

Otranto, un caposaldo facile da <strong>di</strong>fendere<br />

trovandosi in una posizione baricentrica e<br />

sopraelevata.<br />

In quegli anni era vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

Prezioso, l’ultimo residente in città prima<br />

del trasferimento della sede episcopale a<br />

Oria, indotto o comunque reso inevitabile<br />

proprio dal temuto atteggiamento <strong>di</strong>struttivo dei Longobar<strong>di</strong> nei confronti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Prezioso morì un venerdì 18 agosto – forse del 685 o del 674 – poco dopo o poco<br />

prima dell’arrivo dei Longobar<strong>di</strong> e venne seppellito in un sarcofago con una scritta<br />

quasi graffita ad in<strong>di</strong>care la sepoltura affrettata fatta da una citta<strong>di</strong>nanza sbandata e,<br />

possibilmente, già in fuga.<br />

Brin<strong>di</strong>si, in effetti, con l’arrivo dei Longobar<strong>di</strong> fu abbandonata e restò quasi priva<br />

d’abitanti, con solo qualche sparuto gruppo <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni che si stabilì intorno al vecchio<br />

martyrium <strong>di</strong> San Leucio e pochi gruppi <strong>di</strong> Ebrei che restarono per mantenervi un<br />

piccolo scalo marittimo per la loro colonia oritana. In una città comunque ormai<br />

ridotta a un parvissimum oppidum fortificato, molto contratto rispetto all’antica urbe<br />

romana.<br />

Un abbandono documentato anche dall’Anonimo tranese, che descrisse la città quando<br />

i suoi concitta<strong>di</strong>ni trafugarono nottetempo le spoglie del protovescovo Leucio<br />

portandole a Trani, perché poi, depredate dai Saraceni fossero da questi vendute al<br />

presule <strong>di</strong> Benevento. Abbandono anche inevitabilmente associato alla già consumata<br />

per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> centralità del porto e confermato, ulteriormente, dalla quasi totale<br />

mancanza <strong>di</strong> riferimenti a Brin<strong>di</strong>si nelle fonti <strong>di</strong> quell’epoca.<br />

Nel 750 i Longobar<strong>di</strong> del re Astolfo invasero da nord l’esarcato bizantino e riuscirono<br />

a conquistare la stessa Ravenna, capitale e simbolo del potere bizantino in Italia. Poi,<br />

nel 753, l'ambizioso re longobardo invase il ducato romano e asse<strong>di</strong>ò Roma. Il papa<br />

Stefano II, sollecitò allora l'aiuto del re <strong>di</strong> Francia, Pipino il breve, il quale <strong>di</strong>scese in<br />

Italia, sconfisse i Longobar<strong>di</strong> e costrinse Astolfo a cedere l’Esarcato con la Pentapoli,<br />

però al papa invece che all’impero, promuovendo con ciò la nascita formale <strong>di</strong><br />

uno Stato della Chiesa in<strong>di</strong>pendente da Bisanzio.<br />

I Longobar<strong>di</strong> dominarono il centro-nord d’Italia per ancora vent’anni, fino al 774,<br />

quando i Franchi del re Carlo, richiamati dal papa Adriano, li sconfissero <strong>di</strong> nuovo a<br />

più riprese e consegnarono alla Chiesa <strong>di</strong> Roma buona parte del territorio centrale<br />

37


della penisola, dando così inizio al potere temporale dei papi e separando del tutto,<br />

anche fisicamente, la parte settentrionale dalla meri<strong>di</strong>onale dello stivale.<br />

Mentre tutto il settentrione d’Italia passò sotto l’influenza del sacro romano impero,<br />

sorto con l’incoronazione papale <strong>di</strong> Carlo Magno in San Pietro nel Natale dell’800, i<br />

territori a sud <strong>di</strong> Roma ritornarono sotto il “nominale” controllo bizantino, tranne<br />

Benevento che con tutto il suo vasto territorio rimase autonomamente longobarda,<br />

assurgendo a principato e conservando in parte il suo dominio, o comunque una sua<br />

certa influenza, sulle aree contigue, la nominalmente bizantina Brin<strong>di</strong>si inclusa.<br />

E tranne la Sicilia, che nell'827 fu occupata dagli Arabi <strong>di</strong>venendo provincia<br />

musulmana, mentre, come conseguenza <strong>di</strong> tale avvenimento, tutti i “nominali” domini<br />

bizantini nell'Italia meri<strong>di</strong>onale entrarono in situazione <strong>di</strong> maggiore incertezza ed<br />

insicurezza, permanendo costantemente alla mercé delle insi<strong>di</strong>e degli irriducibili<br />

Longobar<strong>di</strong> beneventani e delle razzie dei nuovi arrivati, gli imprevisibili e violenti<br />

Saraceni.<br />

Nell’838, infatti, Brin<strong>di</strong>si venne assalita, saccheggiata, bruciata e poi spontaneamente<br />

abbandonata dalle bande berbere, nonostante il sopraggiunto soccorso delle truppe<br />

del principe beneventano Sicardo che, nella lotta intrapresa per liberare la città,<br />

rischiò <strong>di</strong> perdere la propria vita, comunque già destinata a una fine imminente. Il suo<br />

regici<strong>di</strong>o dell’anno seguente provocò la scissione del principato, con la proclamazione<br />

<strong>di</strong> suo fratello Siconolfo a principe <strong>di</strong> Salerno e del regicida Radelchi a principe <strong>di</strong><br />

Benevento.<br />

E i Saraceni, resi più baldanzosi da quelle lotte intestine longobarde, nel giro <strong>di</strong> pochi<br />

anni <strong>di</strong>lagarono: vicinissimo alla “pluri-<strong>di</strong>strutta” città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, occuparono<br />

stabilmente Guaceto ove costruirono un campo trincerato; s’impadronirono quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

Taranto e, soprattutto, fondarono l’emirato <strong>di</strong> Bari.<br />

Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e principalmente da Bari, partirono per<br />

anni le incursioni arabe, sempre più vaste e più incisive, <strong>di</strong>rette sulle città e su tutti i<br />

territori dei residui domini bizantini del meri<strong>di</strong>one italiano.<br />

Nell’850 fu eletto sacro romano imperatore Ludovico II e scese nel sud d’Italia nel<br />

tentativo <strong>di</strong> liberare le città pugliesi, Bari innanzi tutto, ma fallì nell’intento contro i<br />

Saraceni, resi ancor più audaci dai contrasti inevitabilmente sorti tra l’imperatore e i<br />

principi longobar<strong>di</strong>, primor<strong>di</strong>almente interessati a <strong>di</strong>fendere e conservare la propria<br />

autonomia da ambedue gli imperi.<br />

Il successo sui Saraceni, ottenuto nell’864 da Orso, doge <strong>di</strong> Venezia, permise per<br />

qualche anno la restaurazione del dominio bizantino su Taranto, ma comunque non<br />

impedì ai Saraceni <strong>di</strong> resistere <strong>di</strong> nuovo al sacro romano imperatore Ludovico II che,<br />

ri<strong>di</strong>sceso in Puglia nell’866, in Terra d’Otranto solo riuscì a liberare dall’occupazione<br />

araba Oria e Matera, mentre l’enorme flotta <strong>di</strong> ben quattrocento navi inviatagli<br />

nell’869 da Costantinopoli per liberare Bari, abbandonò l’Adriatico, si <strong>di</strong>resse a<br />

Corinto e lo lasciò solo ed impotente.<br />

Ludovico, infatti, si era inspiegabilmente ritirato a Venosa rifiutando <strong>di</strong> acconsentire al<br />

già in precedenza accordato matrimonio <strong>di</strong> sua figlia, Ermengarda, con Costantino,<br />

figlio dell’imperatore d’oriente Basilio I.<br />

38


Nel trascorso <strong>di</strong> quella campagna, con lo strategico obiettivo <strong>di</strong> colpire i Saraceni<br />

dell’emirato barese, intorno all’867 Ludovico II asse<strong>di</strong>ò e quin<strong>di</strong> assaltò anche<br />

Brin<strong>di</strong>si, che nell’864 era stata rioccupata dai Saraceni.<br />

Dopo qualche anno, tra i due imperi si ristabilì una certa collaborazione e Ludovico II<br />

poté puntare su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871, liberandola dal<br />

trentennale dominio arabo, e facendo prigioniero l’emiro Sawdan, che fu portato dal<br />

principe Adelchi a Benevento, dove rimase incarcerato per anni.<br />

Quin<strong>di</strong>, venne anche la volta della liberazione <strong>di</strong> Taranto, che era stata rioccupata<br />

nell’868 dai Saraceni. E in quella occasione, tra l’878 e l’880, l’azione spettò ai<br />

Bizantini dell’imperatore Basilio I, che inoltre, strapparono Bari all’influenza del<br />

principe beneventano Adelchi.<br />

Poi, lo stratega Niceforo Foca estese la controffensiva bizantina globale su tutto il<br />

meri<strong>di</strong>one italiano, riconquistando le ultime città rimaste in mano araba e riuscendo a<br />

recuperare anche il resto dei territori occupati dai principi longobar<strong>di</strong>, compresi quelli<br />

che avevano separato in due il ducato <strong>di</strong> Calabria, cioè l’antico Bruttium dalle antiche<br />

Apulia et Calabria. In quella vittoriosa campagna, il generale bizantino solamente non<br />

poté liberare la Sicilia dall’occupazione araba.<br />

… e <strong>di</strong> nuovo bizantina<br />

E fu nel contesto <strong>di</strong> quella lunga campagna, che nell’886 anche Brin<strong>di</strong>si tornò sotto il<br />

formale controllo del Bizantini, i quali, naturalmente, dopo duecento anni la<br />

incontrarono praticamente tutta in macerie: “macerie longobarde del 674, macerie<br />

saracene dell’838 e macerie imperiali dell’867”.<br />

Nell’886 morì l’imperatore Basilio I e gli succedette sul trono d’oriente il figlio Leone<br />

VI, il quale richiamò il vittorioso generale Niceforo Foca nominandolo comandante<br />

supremo dell’esercito imperiale e questi s’imbarcò da Brin<strong>di</strong>si alla volta <strong>di</strong><br />

Costantinopoli con gran parte del suo esercito e lasciando alla città numerosi<br />

prigionieri utili alla ricostruzione.<br />

Il ritorno dei Bizantini a Brin<strong>di</strong>si fu<br />

accompagnato da timi<strong>di</strong> e presto<br />

interrotti segnali <strong>di</strong> rinascita quando,<br />

alla fine <strong>di</strong> quel secolo IX, si iniziò la<br />

ricostruzione della chiesa <strong>di</strong> San Leucio,<br />

impulsata da vescovo oritano Teodosio<br />

in occasione del ritorno in città <strong>di</strong> una<br />

parte delle reliquie sottratte dai<br />

Tranesi. E negli anni a seguire, la<br />

popolazione, <strong>di</strong> sua iniziativa,<br />

intraprese anche la costruzione <strong>di</strong><br />

un’altra chiesa, che fu localizzata nei<br />

pressi dell’imboccatura del porto, in<br />

omaggio e ringraziamento allo stratega<br />

Niceforo Foca. Ma poi, quasi null’altro:<br />

presto, infatti, ritornarono i pirati.<br />

39


Il 18 ottobre 891, dopo un asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> due mesi, anche la stessa Benevento capitolò e<br />

nell’892 i Bizantini fondarono il Thema <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a con capitale Bari, che affiancò<br />

quello <strong>di</strong> Calabria con capitale Reggio e che con quella riorganizzazione non comprese<br />

più l’antica Calabria, ossia l'o<strong>di</strong>erno Salento, che invece fu parte del nuovo Thema <strong>di</strong><br />

Langobar<strong>di</strong>a.<br />

La denominazione <strong>di</strong> Calabria, infatti, dopo essere stata estesa al Bruzio, a quell’epoca<br />

aveva già finito con l’abbandonare del tutto il suo originale territorio salentino e il<br />

Thema <strong>di</strong> Calabria comprese, oltre al Bruzio e il Sannio, anche i territori <strong>di</strong> nuova<br />

acquisizione e per qualche anno la capitale fu Benevento, che poi, nell'895 con l'aiuto<br />

del ducato <strong>di</strong> Spoleto, si liberò dei Bizantini scacciandoli dalla città, facendo trasferire<br />

a Bari la capitale del Thema <strong>di</strong> Calabria.<br />

Poi, per tutto il successivo secolo, il X, le coste adriatiche ritornarono ad essere<br />

ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono anche quelli slavi, che<br />

nel 922 assaltarono per la prima volta Brin<strong>di</strong>si, dove ritornarono ancora nel 926 e<br />

dove giunsero anche, nel 929, gli Schiavoni.<br />

Nel 975 il Thema <strong>di</strong> Calabria e quello <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a furono integrati per formare<br />

il Catapanato d'Italia, mentre in quello stesso anno e per i decenni successivi, gli Arabi<br />

dalla Sicilia saccheggiarono Reggio ed altri territori calabresi, da dove, continuando<br />

l'avanzata verso nord, superarono Cosenza e, <strong>di</strong> nuovo, entrarono in Lucania e in<br />

Puglia, dove nell’agosto del 977 <strong>di</strong>strussero Taranto, che trovarono abbandonata dai<br />

suoi abitanti e quin<strong>di</strong>, saccheggiarono nuovamente anche Oria.<br />

Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, la situazione generale delle coste<br />

e dell’entroterra nel meri<strong>di</strong>one italiano non poté essere più <strong>di</strong>sperata:<br />

«Assente l’impero bizantino nella lotta intrapresa dalle città pugliesi contro la<br />

pressione araba; impotenti ad intervenire i Longobar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Benevento e Capua,<br />

coinvolti in guerre intestine e quelli <strong>di</strong> Salerno timorosi della crescente potenza<br />

amalfitana; ormai in fase <strong>di</strong> decadenza Gaeta, Napoli e Sorrento; inefficace la rapida<br />

apparizione del sacro imperatore Ottone III; le uniche forze in grado <strong>di</strong> opporsi ai<br />

Saraceni furono le repubbliche marinare, le quali si andavano affermando sul Tirreno<br />

con Pisa e, soprattutto, con Venezia sull’Adriatico.» -Tommaso Pe<strong>di</strong>o‐<br />

«Finalmente, dopo che Durazzo nel 1005 tornò a far parte dei domini dell’impero<br />

d’Oriente, l’assetto politico del settore meri<strong>di</strong>onale della costa adriatica italiana e,<br />

naturalmente, anche del suo entroterra, costituirono territori <strong>di</strong> vitale importanza<br />

strategica, giacché la capitale dell’impero poteva essere facilmente raggiunta via terra<br />

dopo la breve traversata da Brin<strong>di</strong>si a Durazzo.<br />

Il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>ventò, come lo era stato per tutta l’antichità, il più importante<br />

terminale d’Italia della via Egnazia. La città fu così chiamata a svolgere <strong>di</strong> nuovo, dopo<br />

secoli <strong>di</strong> anonimato, un ruolo <strong>di</strong> primo piano in un più vasto panorama politico.<br />

La portata dell’investimento bizantino a Brin<strong>di</strong>si dopo quell’avvenimento è valutabile<br />

grazie alla testimonianza <strong>di</strong> un’epigrafe, in parte ancora leggibile, scolpita sul<br />

basamento <strong>di</strong> una delle due colonne che dal promontorio <strong>di</strong> ponente guardavano<br />

proprio l’imboccatura del porto interno.<br />

40


La sua datazione, riferita alla prima metà del secolo XI, rende ancor più evidente la<br />

consequenzialità del nesso tra l’impresa del funzionario e la restaurazione del<br />

dominio imperiale sulle coste dalmate.» -Rosanna Alaggio-<br />

Qualche anno dopo però, con l'arrivo dei Normanni giunse, finalmente, per i Bizantini<br />

del meri<strong>di</strong>one italiano, la resa dei conti. Nel 1041, Normanni e Longobar<strong>di</strong> alleati<br />

batterono i Bizantini impossessandosi <strong>di</strong> gran parte del territorio del Catapanato<br />

d'Italia e, nel settembre del 1042, Guglielmo I d'Altavilla fondò, a Melfi, la Contea <strong>di</strong><br />

Puglia: un territorio non omogeneo e sud<strong>di</strong>viso in baronie, <strong>di</strong>stribuite tra Capitanata,<br />

Gargano, Apulia e Campania, fino al Vulture dove Melfi ne fu la capitale. In Apulia, la<br />

contea raggiunse due località sul mare: Trani e Monopoli.<br />

Nel 1047, il sacro romano imperatore Enrico III legittimò i posse<strong>di</strong>menti dei<br />

Normanni e conferì a Drogone d'Altavilla, succeduto a Guglielmo I, l'investitura <strong>di</strong><br />

conte <strong>di</strong> Apulia e Calabria. E nel 1051, il papa Leone IX <strong>di</strong>chiarò decaduta la stirpe<br />

longobarda in Benevento, riconoscendo l’investitura <strong>di</strong> Drogone a conte <strong>di</strong> Puglia e<br />

con<strong>di</strong>zionandola alla sottomissione al papato. Nel 1059 la contea fu elevata a ducato<br />

dal Pontefice Niccolò II nel Concilio <strong>di</strong> Melfi e Roberto il Guiscardo fu nominato duca <strong>di</strong><br />

Puglia e Calabria.<br />

Finalmente, quin<strong>di</strong>, anche per i due principati longobar<strong>di</strong>, <strong>di</strong> Benevento prima e <strong>di</strong><br />

Salerno dopo, l'arrivo dei Normanni venne a sancire la fine. Nel 1053, Roberto il<br />

Guiscardo conquistò Benevento, già da anni in franca decadenza, e ne <strong>di</strong>chiarò la<br />

sud<strong>di</strong>tanza al papato. Poi, nel 1076, fu la volta <strong>di</strong> Salerno, che aveva esteso i suoi<br />

confini fino ad Amalfi, Sorrento, Gaeta e parte <strong>di</strong> Puglia e Calabria: lo stesso Roberto la<br />

espugnò e così, nel 1078, ampliato e consolidato dai Normanni il nuovo ducato <strong>di</strong><br />

Puglia e Calabria, anche l'ultimo principe longobardo in Italia, prese la via dell'esilio.<br />

Il dominio bizantino nel meri<strong>di</strong>one italiano invece, dopo la conquista normanna e la<br />

fondazione della contea <strong>di</strong> Lecce, <strong>di</strong> fatto cessò nel 1071, con la presa <strong>di</strong> Taranto e <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si da parte dello stesso Roberto il Guiscardo e la successiva fondazione, nel<br />

1088, del potente principato <strong>di</strong> Taranto, al quale anche Brin<strong>di</strong>si fu ascritta.<br />

Nel luglio del 1127 Guglielmo, duca <strong>di</strong><br />

Puglia e Calabria, morì senza figli e<br />

Ruggero II, nipote del Guiscardo e conte<br />

<strong>di</strong> Sicilia, reclamò in ere<strong>di</strong>tà tutti i<br />

posse<strong>di</strong>menti degli Altavilla e la signoria<br />

<strong>di</strong> Capua. Nell'agosto 1128 Ruggero II fu<br />

proclamato nella città <strong>di</strong> Benevento duca<br />

<strong>di</strong> Puglia, regione che fu allora germe<br />

della prima grande monarchia siciliana.<br />

Finalmente, nel 1131, riuniti tutti i<br />

posse<strong>di</strong>menti nel neonato regno, la notte<br />

<strong>di</strong> Natale <strong>di</strong> quello stesso anno, Roberto<br />

fu solennemente incoronato re,<br />

assumendo in quella storica ccasione<br />

l'intitolazione ufficiale <strong>di</strong> “rex Sicilie,<br />

ducatus Apulie et principatus Capue”.<br />

41


APPENDICE<br />

(*) IL MONACHESIMO ORIENTALE IN PUGLIA E IN BRINDISI<br />

La <strong>storia</strong> del monachesimo nell’Italia meri<strong>di</strong>onale, ed in Puglia in particolare, per i primi anni<br />

del periodo me<strong>di</strong>evale costituisce la principale <strong>storia</strong> culturale ricostruibile <strong>di</strong> quella regione,<br />

nella misura in cui il monachesimo fu per secoli un fattore culturale fondamentale della vita<br />

religiosa e in buona parte anche <strong>di</strong> quella sociale delle genti.<br />

Il monachesimo cristiano nacque nel basso Egitto alla fine del III secolo, per poi <strong>di</strong>ffondersi in<br />

Siria, Palestina, Mesopotamia e in Asia Minore, giungendo nel cuore dell’impero <strong>di</strong><br />

Costantinopoli dopo l’emanazione, nel 313, del famoso E<strong>di</strong>tto <strong>di</strong> Costantino, quello che sancì la<br />

libertà <strong>di</strong> culto per i cristiani.<br />

Grazie a quella svolta ra<strong>di</strong>cale, già nel corso del IV secolo, gruppi <strong>di</strong> monaci, eremiti e<br />

anacoreti, iniziarono a ritirarsi in solitu<strong>di</strong>ne “per raggiungere la pace interiore e un armonico<br />

rapporto con Dio”. Successivamente, i monaci accolsero con loro anche dei <strong>di</strong>scepoli e ben<br />

presto formarono le prime organizzazioni <strong>di</strong> vita in comune, uscendo dall’isolamento e<br />

aprendosi a un più <strong>di</strong>retto contatto con i fedeli.<br />

Il primo momento fu dunque quello dell’eremitismo, in cui i monaci si ritirarono in luoghi<br />

solitari, inospitali e <strong>di</strong>fficili da raggiungere, praticando l’ascesi più dura e rigida. Oltre alla<br />

rinuncia a ogni forma <strong>di</strong> contatto umano, in quella fase i monaci abbandonarono anche la cura<br />

della propria persona: spogliandosi degli abiti terreni e vestendosi con una semplice tunica,<br />

cibandosi solo <strong>di</strong> legumi e cibi non cotti, bevendo solo il necessario per sopravvivere; e<br />

facendosi crescere la barba, un <strong>di</strong>stintivo poi rimasto per i monaci orientali.<br />

Dalla prima fase eremitica, transitando per una fase interme<strong>di</strong>a detta lauritica, si giunse<br />

finalmente alla fase cenobitica, in cui i monaci passarono a aggregarsi, a vivere insieme in<br />

un’unica struttura, a riconoscere l’autorità <strong>di</strong> un superiore, a mangiare tutti insieme e<br />

incominciarono, quin<strong>di</strong>, a vivere in gruppo, in comunità. Quei gruppi monacali crearono<br />

momenti <strong>di</strong> preghiera in comune, oltre che <strong>di</strong> vita, de<strong>di</strong>candosi a semplici pratiche agricole per<br />

provvedere al sostentamento dell’intera comunità. In quella fase, inoltre, nacque un rapporto<br />

più stretto tra monaci e fedeli, un rapporto che andò anche a mutare le realtà<br />

socioeconomiche limitrofe ai monasteri.<br />

Anche la culla del primo monachesimo organizzato fu l’Egitto, dove l’opera <strong>di</strong> San Pacomio,<br />

vissuto tra il 290 e il 346 circa, <strong>di</strong>ede una forte impronta cenobitica al movimento. Egli fondò il<br />

primo cenobio sulle rive del Nilo, imponendo ai monaci <strong>di</strong> seguire una regola comune e<br />

prescrivendo, oltre alla vita contemplativa e alla preghiera, l’uso del lavoro manuale come<br />

forma <strong>di</strong> autosostentamento.<br />

Dall’Egitto gli ideali monastici si <strong>di</strong>ffusero per tutto l’Oriente, fino a giungere in Asia Minore.<br />

Proprio lì, e più precisamente in Cappadocia, il monaco Basilio accolse e innovò la primor<strong>di</strong>ale<br />

forma <strong>di</strong> organizzazione monastica, riprendendo e rielaborando gli insegnamenti pacomiani.<br />

Basilio nacque a Cesarea, verso il 330, in una facoltosa famiglia cristiana. Andò a stu<strong>di</strong>are a<br />

Costantinopoli e poi ad Atene e ritornato a Cesarea nel 356, fu insegnante <strong>di</strong> retorica. Dopo<br />

aver ricevuto il battesimo nel 358, decise ritirarsi a vita ascetica sulle rive dell’Iris dove, con<br />

un gruppo <strong>di</strong> suoi compagni, fondò una comunità religiosa.<br />

Fu da subito assertore dell’ortodossia cristiana e dopo la morte del vescovo <strong>di</strong> Cesarea, nel<br />

370, fu eletto vescovo <strong>di</strong> quella sua città e dovette abbandonare la vita ascetica, senza però<br />

rinunciare al <strong>di</strong>alogo e alla frequentazione con le comunità degli asceti. Si de<strong>di</strong>cò anche a<br />

scrivere e a perfezionare le “regole e pene” per quelle comunità e lasciò alla sua morte,<br />

sopraggiunta nel 379, un’opera letteraria molto vasta, che incluse anche scritture <strong>di</strong> carattere<br />

apologetico, trattati <strong>di</strong> esegesi, ed un voluminoso epistolario.<br />

42


Il monachesimo seguace gli insegnamenti <strong>di</strong> San Basilio, nel corso dei secoli intraprese un<br />

lungo viaggio da Oriente verso Occidente e nel VI secolo si registrò nel sud della penisola<br />

italiana la prima presenza certa dei monaci bizantini che, con la funzione <strong>di</strong> cappellani militari,<br />

seguirono le truppe <strong>di</strong> Narsete durante la guerra greco-gotica.<br />

Nel meri<strong>di</strong>one d’Italia, a quella guerra seguirono anni <strong>di</strong> profondo impoverimento e<br />

<strong>di</strong>sorganizzazione, uno stato <strong>di</strong> cose che provocò un preoccupante vuoto <strong>di</strong> potere, a cui la<br />

Chiesa romana tentò <strong>di</strong> sopperire. Così, i vescovi furono chiamati alla gestione e alla<br />

salvaguar<strong>di</strong>a dell’or<strong>di</strong>ne politico e morale, <strong>di</strong>venendo anche depositari della funzione <strong>di</strong><br />

controllo <strong>di</strong> larghi settori dell’attività amministrativa delle città.<br />

Paradossalmente, in quel periodo, le funzioni civili della Chiesa <strong>di</strong> Roma crebbero<br />

sensibilmente, mentre proprio quelle propriamente religiose vennero costantemente<br />

contratte dall’espansione della Chiesa orientale, che contribuì <strong>di</strong>rettamente anche allo<br />

sviluppo e alla <strong>di</strong>ffusione del monachesimo occidentale, che inevitabilmente fu molto sensibile<br />

alla circolazione delle pratiche monastiche provenienti dall’Oriente.<br />

Uno dei tratti caratteristici del monachesimo bizantino che in principio maggiormente si<br />

innestarono nella realtà religiosa del meri<strong>di</strong>one italiano a partire dalla conclusione della<br />

conquista giustinianea, fu sicuramente la tendenza eremitica. Pratica che poi, con l’arrivo dei<br />

monaci orientali in fuga dalla Sicilia a causa della conquista islamica, fu superata dalla<br />

<strong>di</strong>ffusione <strong>di</strong> un maggior contatto tra i monaci e le popolazioni dei fedeli.<br />

Anche se già verso la fine del VI secolo molti nuclei monastici giunsero sulle coste adriatiche<br />

meri<strong>di</strong>onali dalla penisola balcanica, senza dubbio il più massiccio afflusso si produsse<br />

durante il VII secolo, causato dall’imperversare in Oriente dell’invasione araba, quando<br />

monaci profughi dalla Siria e dall’Egitto raggiunsero molte delle province meri<strong>di</strong>onali italiane<br />

ancora appartenenti all’impero <strong>di</strong> Bisanzio e, quin<strong>di</strong>, con un ben ra<strong>di</strong>cato processo <strong>di</strong><br />

bizantinizzazione.<br />

L’arrivo, già nella prima metà <strong>di</strong> quel VII secolo, <strong>di</strong> tutti quei numerosi immigrati greci, finì con<br />

rafforzare notevolmente l’elemento culturale bizantino già presente in quei territori e così,<br />

anche nei monasteri la realtà religiosa fu profondamente influenzata dalle pratiche orientali.<br />

Alcuni monaci giunsero sulle coste del basso Adriatico provenienti dalle regioni balcaniche<br />

anche nella seconda metà del secolo, spinti dalle persecuzioni che si produssero contro i<br />

sostenitori dell’ortodossia dopo l’emanazione del Tipo, l’e<strong>di</strong>tto dogmatico dall'imperatore<br />

bizantino Costante II, nel 648.<br />

Tutto ciò accadde specialmente nelle porzioni più estreme delle due penisole meri<strong>di</strong>onali<br />

dello stivale e anche in Sicilia, dove gran parte dei monaci presenti nei monasteri era <strong>di</strong> lingua<br />

greca, e da dove molti <strong>di</strong> loro passarono sul continente.<br />

Un nuovo momento delle migrazioni monastiche <strong>di</strong>rette verso l’Occidente iniziò nella prima<br />

metà dell’VIII secolo, più precisamente nel 726, anno in cui l’imperatore bizantino Leone III<br />

Isaurico sancì l’inizio della persecuzione iconoclasta, ossia della lotta contro le immagini sacre.<br />

La nuova dottrina fu respinta nella parte occidentale dell’impero, e la persecuzione proseguì<br />

anche sotto il nuovo imperatore, Costantino Copronimo, anzi, proprio nel suo regno <strong>di</strong>venne<br />

più dura e violenta. La politica <strong>di</strong> aggressione imperiale contro gli iconoduli fu rinnovata da<br />

Leone V e continuò fino alla morte <strong>di</strong> Teofilo, avvenuta nell’842. Finalmente, il sinodo<br />

costantinopolitano del marzo 843, decretò la fine dell’iconoclastia e l’imperatore Michele III<br />

riaffermò la liceità del culto delle immagini.<br />

All’inizio <strong>di</strong> quei più <strong>di</strong> cent’anni in cui l’iconoclastia perdurò a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, i<br />

monaci basiliani giunti sulle coste italiane evitarono la Calabria meri<strong>di</strong>onale e la Terra<br />

d’Otranto, in quanto territori soggetti al controllo <strong>di</strong> Bisanzio con in vigore le leggi contro le<br />

immagini sacre, preferendo <strong>di</strong>rigersi nelle regioni sotto il dominio longobardo, Campania,<br />

43


Basilicata e i settori più settentrionali <strong>di</strong> Puglia e Calabria. Tuttavia, poterono presto stabilirsi<br />

anche nei territori occupati dai Bizantini, quando si constatò che in essi la forza dei decreti<br />

iconoclasti non ebbe la stessa violenza e intransigenza che in Oriente.<br />

La <strong>di</strong>ffusione del monachesimo orientale nel meri<strong>di</strong>one d’Italia proseguì anche tra il X e l’XI<br />

secolo: le chiese bizantine si moltiplicarono in tutto il Mezzogiorno e inoltre, negli anni<br />

intorno al Mille, le comunità monacali ricevettero numerosi lasciti e donazioni a conseguenza<br />

del clima <strong>di</strong> attesa messianica che caratterizzò tutta l’Europa occidentale e così, si arricchirono<br />

notevolmente i patrimoni immobiliari dei vari monasteri.<br />

La situazione, finalmente, s’invertì sul finire dell’XI secolo con l’arrivo dei Normanni, con la<br />

conseguente decaduta del dominio bizantino in tutto il meri<strong>di</strong>one italiano e con la fondazione<br />

nel 1131, del nuovo Regno <strong>di</strong> Sicilia. Gradualmente, ma irreversibilmente, la Chiesa <strong>di</strong> Roma<br />

prese il sopravvento e il monachesimo orientale basiliano cedette il passo a quello occidentale<br />

marcatamente rappresentato dal monachesimo benedettino il quale, comunque già presente<br />

nelle regioni del meri<strong>di</strong>one italiano, si estese poi anche in quelle città e in quei territori in<br />

precedenza occupati da popolazioni con una cultura religiosa prevalentemente greca.<br />

In tutta la Puglia e anche nell’agro brin<strong>di</strong>sino in particolare, si sono conservate e sono state<br />

rinvenute numerose grotte che furono abitate da monaci basiliani e da comunità religiose<br />

rurali, con cripte originalmente basiliane o chiesette sotterranee.<br />

Tra le più importanti, la cripta nel complesso rupestre <strong>di</strong> San Biagio a San Vito dei Normanni e<br />

quella del santuario della Madonna del Belvedere a Carovigno. Inoltre, la grotta della<br />

Madonna della Grotta e la grotta <strong>di</strong> San Michele, entrambe nel territorio <strong>di</strong> Ceglie. E Poi, altre<br />

decine <strong>di</strong> chiesette rupestri <strong>di</strong>sseminate negli stessi territori <strong>di</strong> San Vito dei Normanni,<br />

Carovigno, Ceglie e Fasano, e ancora vari inse<strong>di</strong>amenti rupestri civili contenenti cripte a<strong>di</strong>bite<br />

a luogo <strong>di</strong> culto.<br />

In quanto ai calogerati o cenobi e monasteri che vi ebbero i Basiliani in Puglia, i principali<br />

sono riportati nella tabella della figura e, comunque, ne furono istituiti anche molti altri, creati<br />

sia in prossimità <strong>di</strong> centri urbani oppure sparsi nel territorio.<br />

Tra i tanti in<strong>di</strong>cati, il più ragguardevole e famoso monastero basiliano in Puglia fu certamente<br />

quello <strong>di</strong> San Nicola <strong>di</strong> Casole presso Otranto. Eretto nella seconda metà del secolo XI, fu<br />

saccheggiato fino ad essere quasi completamente <strong>di</strong>strutto dai Turchi nella presa <strong>di</strong> Otranto<br />

del 1480. Ad esso appartennero numerose ricche grancie e parecchi calogerati, <strong>di</strong> Terra<br />

d’Otranto e anche <strong>di</strong> fuori.<br />

La religiosità orientale in tutta la Puglia, nonostante l’avvento e l’affermazione del<br />

monachesimo occidentale, lasciò tuttavia a lungo un profondo e prezioso retaggio culturale<br />

che accompagnò gli stessi monaci Benedettini nel loro nuovo importante ruolo, sia in campo<br />

religioso e sia in quello economico-sociale.<br />

In alcune aree <strong>di</strong> Terra d’Otranto è documentata, fin dalla fine del secolo XI, la coesistenza <strong>di</strong><br />

monaci greci e latini. Tanto che non è né semplice, né facile <strong>di</strong>ssociare o <strong>di</strong>stinguere<br />

pienamente le due culture religiose che caratterizzarono non solo il superstrato linguistico<br />

con i <strong>di</strong>aletti locali e la religiosità, ma anche la cultura più in generale, fino ai moduli pittorici e<br />

architettonici, e molto altro.<br />

Le ragioni <strong>di</strong> questo fenomeno vanno probabilmente ricercate nel fatto che la conquista<br />

normanna non produsse nessuna frattura profonda nel tessuto etnico-culturale delle<br />

popolazioni e anzi, contribuì con le nuove presenze, quali i Benedettini, ad arricchirlo. Non ci<br />

fu, infatti, un reale esodo dei monaci <strong>di</strong> rito greco, ma una semplice riduzione del loro numero,<br />

probabilmente solo naturalmente conseguente agli eventi bellici che segnarono il passaggio<br />

dal dominio bizantino allo stato normanno.<br />

44


Dentro la propria città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, la presenza e l’influenza - e il retaggio - della religiosità<br />

monacale e più in generale orientale, sono ampiamente documentate soprattutto dalle<br />

numerose ed importanti chiese che furono e<strong>di</strong>ficate, o <strong>di</strong>rettamente per volontà dei Basiliani,<br />

o comunque in stretta connessione con la cultura religiosa greca.<br />

La chiesa <strong>di</strong> San Pelino fu eretta nel VII secolo, per volontà <strong>di</strong> Ciprio, successore sulla cattedra<br />

episcopale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del de<strong>di</strong>catario, entrambi monaci basiliani giunti a Brin<strong>di</strong>si provenienti<br />

dall’Oriente nella seconda metà del VII secolo. In essa furono collocate le reliquie <strong>di</strong> Sebastio e<br />

Gorgonio, anch’essi monaci basiliani greci, bibliotecari archivisti della sede episcopale <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, condannati a morte ed uccisi in uno con Pelino nel 662 a Corfinio, negli Abruzzi, a<br />

causa della loro ferma <strong>di</strong>fesa dell'ortodossia e del conseguente rifiuto <strong>di</strong> adesione al Tipo,<br />

l’e<strong>di</strong>tto dogmatico dall'imperatore bizantino Costante II, emanato nel 648.<br />

La chiesa, situata vicino alla Cattedrale, alle spalle del palazzo Granafei, fu anche utilizzata<br />

quale cappella dall'università, ossia dall'amministrazione citta<strong>di</strong>na, fino al 1565, mentre per il<br />

1606 fu descritta come <strong>di</strong>ruta e profanata. Probabilmente fu utilizzata quale cava per i lavori<br />

occorsi nella basilica Cattedrale per la costruzione del vano per il coro dei canonici.<br />

Intorno all’880, la basilica <strong>di</strong> San Leucio, monaco egiziano evangelizzatore e primo vescovo <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si agli inizi del V secolo, fu voluta dal vescovo <strong>di</strong> Oria Teodosio per riporvi la parte del<br />

corpo del santo ritornata da Benevento. Si iniziò a costruire verso la fine del IX secolo e fu<br />

consacrata, nei primissimi anni del X secolo, da Giovanni vescovo <strong>di</strong> Canosa e Brin<strong>di</strong>si. Il resto<br />

del corpo <strong>di</strong> San Leucio rimase a Benevento, dal cui vescovo fu comprato ai Saraceni che lo<br />

avevano saccheggiato a Trani, la città in cui fu deposto dopo che i suoi citta<strong>di</strong>ni lo ebbero<br />

trafugato nottetempo dalla sua tomba, il martirium, in Brin<strong>di</strong>si, sul finire del VII secolo.<br />

La chiesa, ubicata nel rione Cappuccini, fu descritta come <strong>di</strong>ruta alla fine del secolo XVII e fu<br />

finalmente <strong>di</strong>strutta nel 1720 per utilizzarne il materiale nella costruzione del palazzo del<br />

Seminario.<br />

La chiesa <strong>di</strong> San Giacomo fu, sino al 1173, <strong>di</strong> rito greco. Divenne poi chiesa <strong>di</strong> San Francesco <strong>di</strong><br />

Paola e proprietà della municipalità e fu anche cappella regia. Fu demolita e ricostruita<br />

interamente tra il 1747 e il 1748.<br />

Ubicata in prossimità dello scalo marittimo, sull’angolo interno che dà sui Giar<strong>di</strong>netti, fu<br />

finalmente sconsacrata ed a<strong>di</strong>bita ad usi civili quando, nel 1808, il governo napoleonico<br />

soppresse l’or<strong>di</strong>ne dei frati Minimi, ai quali a quel tempo apparteneva.<br />

Nei primi anni del XIV secolo, i cavalieri del Santo Sepolcro vollero sorgesse in Brin<strong>di</strong>si un<br />

albergo sotto il nome della loro religione e a<strong>di</strong>acente ad esso, si costruì la chiesa <strong>di</strong> San<br />

Giovanni dei Greci, che sino al XVII secolo fu servita da sacerdoti <strong>di</strong> rito greco.<br />

La chiesa, e<strong>di</strong>ficata su via Regina Margherita angolo via Santa Chiara su cui dava la facciata, fu<br />

danneggiata dal terremoto del 20 febbraio 1743, fu restaurata ad iniziativa della comunità<br />

greca brin<strong>di</strong>sina e finalmente fu demolita nel 1877.<br />

I legami con il rito greco rimasero dunque per lunghissimo tempo ben ra<strong>di</strong>cati in Brin<strong>di</strong>si, sia<br />

formalmente e sia, dopo la definitiva partita dei governanti bizantini, informalmente nelle<br />

consuetu<strong>di</strong>ni religiose e nella cultura popolare.<br />

Seguendo una tra<strong>di</strong>zione molto antica della Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, a tutt’oggi la Domenica delle<br />

Palme si leggono in greco, ora nella Cattedrale, l'Epistola e il Vangelo. Una tra<strong>di</strong>zione questa,<br />

che continua quella della celebrazione liturgica che seguiva la processione delle Palme che si<br />

snodava dal Capitolo fino all'Osanna, una piramide tronca su cui si saliva dai gra<strong>di</strong>ni <strong>di</strong>sposti<br />

sui tutti i suoi quattro lati e sulla cui sommità vi era una colonna <strong>di</strong> marmo innalzata a<br />

sostegno <strong>di</strong> una gran croce, dove per secoli l'arcivescovo e il clero, proponendo Vangelo ed<br />

Epistola in greco, ricordarono gli stretti legami fra la chiesa locale e il mondo orientale.<br />

45


Quella processione verso l'Osanna, infatti, in qualche modo configurò la memoria dei luoghi in<br />

cui la citta<strong>di</strong>nanza saldò senza soluzione <strong>di</strong> continuità, la Brin<strong>di</strong>si della pre<strong>di</strong>cazione Leuciana<br />

a quella delle crociate. E la tra<strong>di</strong>zione si protrasse nonostante i vari tentativi <strong>di</strong> sopprimere<br />

ogni traccia del rito greco, come accadde nel 1649 su iniziativa dell'arcivescovo Dionisio<br />

O'Driscoll, quando però, la Congregazione dei Riti rilevò l'insussistenza <strong>di</strong> motivi tali da<br />

giustificarne la soppressione.<br />

Negli anni '30 del secolo scorso, il complesso dell’Osanna fu demolito senza che, tuttavia,<br />

s'interrompesse la tra<strong>di</strong>zione, da allora ricollocata nello spazio della Cattedrale. Mentre la<br />

colonna in marmo pario con croce che sormontava l'Osanna, si conservò in Santa Maria del<br />

Casale. Quella croce, scolpita sopra la colonna reca un piccolo globo alla base e fu datata tra IX<br />

e X secolo, facendo ciò supporre che l’Osanna fosse stata e<strong>di</strong>ficata in periodo altome<strong>di</strong>evale e<br />

che, forse, fosse proprio contemporanea della vicina basilica <strong>di</strong> San Leucio.<br />

L’attuale chiesa greco-ortodossa <strong>di</strong> San Nicola, si costruì nel 1910 sul suolo acquistato il 12<br />

aprile 1891 dalla comunità greca <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, per volontaria sottoscrizione e grazie ad una<br />

contribuzione dello zar Alessandro III. Ne fu primo archimandrita Nicandro e dal 5 novembre<br />

1991 è parte della metropolia d'Italia ed esarcato dell'Europa del sud con sede in Venezia. La<br />

parrocchia brin<strong>di</strong>sina è a tutt’oggi il punto <strong>di</strong> riferimento più importante per tutti i grecoortodossi<br />

<strong>di</strong> Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.<br />

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Tortorelli R. Il monachesimo italo greco e gli inse<strong>di</strong>amenti nell'area Apulo Lucana-2007<br />

Vacca N. Brin<strong>di</strong>si ignorata-1954<br />

46


BRINDISI: DA MESSAPICA A SALENTINA E DA CALABRESE A PUGLIESE<br />

Gianfranco Perri<br />

Pubblicato su Academia.edu – 2018<br />

<br />

<br />

Ma noi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si da quand’è che siamo Salentini? E perché?<br />

Pubblicato su Senza Colonne News del 2 novembre 2013 (*)<br />

Quando come e perché noi Brin<strong>di</strong>sini da Calabresi <strong>di</strong>ventammo Pugliesi?<br />

Pubblicato su Senza Colonne News del 8 settembre 2016 (*)<br />

____________<br />

(*) Versione rivista e corretta<br />

47


Ma noi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si da quand’è che siamo Salentini? E perché?<br />

Tutti sappiamo bene, o perlomeno lo dovremmo ben sapere, che Brin<strong>di</strong>si fu elevata al<br />

rango <strong>di</strong> provincia abbastanza <strong>di</strong> recente, nel 1927 per la precisione, sotto il governo e<br />

per volere <strong>di</strong> Benito Mussolini, mentre fino a quell’anno la città era<br />

amministrativamente un comune appartenente alla provincia <strong>di</strong> Lecce. Però è anche<br />

interessante ricordare cosa fosse successo un po’ più in<strong>di</strong>etro nel tempo, anzi meglio<br />

detto, un po’ più in<strong>di</strong>etro nella <strong>storia</strong>.<br />

Tra l’XI e il XII secolo, con i Normanni nasceva il primo Regno <strong>di</strong> Sicilia, che univa i<br />

territori della contea <strong>di</strong> Sicilia, dei ducati <strong>di</strong> Puglia e Calabria, del ducato <strong>di</strong> Napoli, del<br />

principato <strong>di</strong> Capua e dell’Abruzzo. E con la fondazione del regno si originò una<br />

sud<strong>di</strong>visione amministrativa dei territori continentali che li vide organizzati in tre<br />

gran<strong>di</strong> unità: la Calabria, la Apulia e la Terra <strong>di</strong> Lavoro. I confini <strong>di</strong> queste tre unità<br />

amministrative erano invero piuttosto labili e la loro stessa struttura amministrativa<br />

non era ben definita. Nell’Apulia furono fondati intorno al 1055, la contea <strong>di</strong> Lecce, la<br />

contea <strong>di</strong> Nardò, la contea <strong>di</strong> Soleto e nel 1088 il principato <strong>di</strong> Taranto, al quale fu<br />

ascritta anche Brin<strong>di</strong>si.<br />

Nel XIII secolo, con il regno dello svevo Federico II, subentrò l’istituzione dei<br />

“giustizierati”, ovvero <strong>di</strong>stretti <strong>di</strong> giustizia governati da funzionari, i giustizieri,<br />

nominati dal sovrano e che rappresentavano l’autorità regia a livello territoriale.<br />

L’imperatore organizzò il territorio del suo regno italiano in un<strong>di</strong>ci giustizierati: due<br />

insulari e nove peninsulari. Sul continente i nove giustizierati erano: Abruzzo,<br />

Basilicata, Calabria, Capitanata, Principato e Terra Beneventana, Terra <strong>di</strong> Bari, Terra <strong>di</strong><br />

Lavoro e Contado <strong>di</strong> Molise, Valle <strong>di</strong> Crati e Terra Giordana, e Terra d’Otranto che<br />

grossomodo comprese le attuali provincie <strong>di</strong> Lecce Taranto e Brin<strong>di</strong>si.<br />

In epoca aragonese, durante il XV secolo, la figura del giustiziere venne sostituita con<br />

quella del funzionario regio, mentre i territori amministrativi del Regno <strong>di</strong> Napoli<br />

vennero denominati “province” configurando un assetto <strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci province tra le quali<br />

Terra d’Otranto – la Provincia Hydruntina – che, seppur con alcune variazioni<br />

territoriali, manterranno con gli spagnoli invariati il numero e la denominazione fino<br />

alla riforma napoleonica del 1806.<br />

Con la legge 132 dell’8 agosto 1806, il re Giuseppe Bonaparte riformò la ripartizione<br />

territoriale del Regno <strong>di</strong> Napoli sulla base del modello francese e soppresse<br />

definitivamente ciò che restava del sistema dei giustizierati. Tra le tante innovazioni<br />

introdotte dai francesi vi fu anche la sistematica sud<strong>di</strong>visione delle province, ognuna<br />

delle quali con a capo un “intendente”, in successivi livelli amministrativi<br />

gerarchicamente <strong>di</strong>pendenti dal precedente.<br />

Al livello imme<strong>di</strong>atamente successivo alla provincia appartenevano i <strong>di</strong>stretti, con un<br />

capoluogo e con a capo un “sottintendente”, che a loro volta erano sud<strong>di</strong>visi in<br />

circondari. Questi erano costituiti dai comuni che, con ognuno a capo un sindaco,<br />

costituivano l’unità <strong>di</strong> base della struttura politico amministrativa dello stato, grazie<br />

all’introduzione del concetto <strong>di</strong> ente comunale che si sostituiva a quello plurisecolare<br />

<strong>di</strong> “universitas” <strong>di</strong> origine longobarda.<br />

I sindaci venivano nominati dal re o dall’intendente a seconda della taglia demografica<br />

del comune, ed erano affiancati da un “consiglio decurionale” composto da un numero<br />

48


<strong>di</strong> membri variabile in funzione della popolazione del municipio e che erano eletti<br />

all’interno <strong>di</strong> liste <strong>di</strong> ‘elegibili’ confezionate sulla base della ren<strong>di</strong>ta annua e delle<br />

professioni liberali.<br />

Il territorio del Regno delle Due Sicilie risultò così sud<strong>di</strong>viso in 7 province insulari e<br />

15 province continentali. Queste ultime erano: Provincia <strong>di</strong> Napoli, Terra <strong>di</strong> Lavoro,<br />

Principato Citra, Principato Ultra, Basilicata, Capitanata, Terra <strong>di</strong> Bari, Terra d’Otranto,<br />

Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore Prima, Calabria Ulteriore Seconda, Contado <strong>di</strong><br />

Molise, Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore Primo, Abruzzo Ulteriore Secondo.<br />

La provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto comprendeva i seguenti quattro <strong>di</strong>stretti: Lecce – che<br />

fungeva anche da capoluogo della provincia – Brin<strong>di</strong>si, Gallipoli e Taranto. Ogni<br />

<strong>di</strong>stretto era sud<strong>di</strong>viso in circondari, <strong>di</strong> fatto i comuni con ognuno i rispettivi a<strong>di</strong>acenti<br />

villaggi rurali, per un totale <strong>di</strong> 44. E questo sistema amministrativo napoleonico, <strong>di</strong><br />

fatto resto invariato anche dopo la parentesi decennale che, conclusa nel 1816,<br />

precedette la restaurazione ed il ritorno dei Borbone sul trono del regno. In quell’anno<br />

1816 Brin<strong>di</strong>si, capoluogo dell’omonimo <strong>di</strong>stretto composto da 15 comuni, contava<br />

6114 abitanti.<br />

Dopo l’unità d’Italia, nel 1861, la provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto cambiò il nome in<br />

Provincia <strong>di</strong> Lecce. I quattro <strong>di</strong>stretti in cui era <strong>di</strong>viso il suo territorio restarono però<br />

inalterati, <strong>di</strong>venendo circondari del Regno d’Italia. Nel 1923 fu costituita la provincia<br />

<strong>di</strong> Taranto scorporandone il territorio da quella <strong>di</strong> Lecce e finalmente, nel 1927, fu<br />

costituita la provincia <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, scorporandone allo stesso modo il territorio da<br />

quella <strong>di</strong> Lecce e aggregandovi i comuni <strong>di</strong> Fasano e Cisternino, scorporati a loro volta<br />

dalla provincia <strong>di</strong> Bari.<br />

49


Ma cosa era avvenuto intorno a Brin<strong>di</strong>si prima ancora dei Normanni? Ebbene dopo la<br />

formale caduta dell’impero romano d’occidente registrata nell´anno 476 dC, e a<br />

conclusione del ventennale conflitto greco-gotico, nel 553 dC i vincitori Bizantini<br />

tentarono <strong>di</strong> reintegrare l’Italia all’impero romano d’oriente, e nella parte più a sud<br />

della penisola italiana fondarono il Ducato <strong>di</strong> Calabria con Otranto capitale,<br />

aggregando i territori del Brutium, l’o<strong>di</strong>erna regione calabrese, ai territori dell’attuale<br />

meri<strong>di</strong>one pugliese, quelli che avevano costituito la Calabria dei romani e che<br />

estendevano i confini settentrionali lungo una sorta <strong>di</strong> muraglia <strong>di</strong>fensiva costruita tra<br />

Bari e Brin<strong>di</strong>si a salvaguar<strong>di</strong>a del territorio dalla minaccia dei nuovi arrivati dal nord, i<br />

Longobar<strong>di</strong>.<br />

Quando però questi invasori nor<strong>di</strong>ci cominciarono a occupare parte <strong>di</strong> quei territori, e<br />

in particolare Taranto e Brin<strong>di</strong>si, il nome Calabria cominciò a essere utilizzato più per<br />

designare il solo Bruzio, mentre per quella che era stata la romana Calabria cominciò a<br />

essere utilizzato il nome <strong>di</strong> Terra d’Otranto. I Longobar<strong>di</strong> non furono certo campioni<br />

<strong>di</strong> organizzazione amministrativa e perciò si dovette attendere fino all’arrivo dei<br />

Normanni per finalmente poter ricominciare a parlare <strong>di</strong> uno stato vero e proprio per<br />

il tutto il meri<strong>di</strong>one italiano.<br />

E finalmente, prima dei Romani, che a Brin<strong>di</strong>si giunsero nel 267 aC, cosa era avvenuto<br />

nel territorio brin<strong>di</strong>sino? Ebbene ormai quasi tutti gli storici concordano pienamente<br />

sulle origini messapiche <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Brunda appunto, prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>venire la Brun<strong>di</strong>sium<br />

romana in quel 267 aC, quando Brunda fu probabilmente l’ultima città importante a<br />

essere incorporata ai domini italici <strong>di</strong> Roma, dopo la vittoria degli eserciti<br />

repubblicani romani nelle guerre sannitiche e la loro successiva conquista <strong>di</strong> Taranto<br />

nel 272 aC e quella <strong>di</strong> Reggio nel 271 aC.<br />

Però i consensi degli storici si vanno via via <strong>di</strong>radando quando si tratta <strong>di</strong> definire chi<br />

fossero i Messapi, da dove e quando fossero giunti e quale fosse l’estensione del loro<br />

territorio, la Messapia. I Romani infatti, quando conquistarono la Messapia, oltre a<br />

riscattare il nome Calabria, seppellirono con le loro memorie storiche molto <strong>di</strong> ciò che<br />

poterono vedere <strong>di</strong> quel popolo e <strong>di</strong> quei territori e che poterono eventualmente<br />

conoscere dei loro antecedenti. E la loro nuova augusta Regio II romana, si denominò<br />

“Apulia et Calabria”.<br />

È inoltre storicamente abbastanza accre<strong>di</strong>tata anche la tesi secondo cui quella Apulia<br />

et Calabria, l’attuale Puglia, coincidesse già molto prima del 1000 aC, con la<br />

denominata Japigia, e che a un certo momento questa si era sud<strong>di</strong>visa in Daunia al<br />

nord, Peucezia al centro e al sud Messapia, la quale fu abitata dai due <strong>di</strong>versi popoli<br />

messapici: i Calabri a nordest – Brin<strong>di</strong>sini inclusi – e i Salentini a sudovest, ai quali,<br />

con la fondazione della lacedemone Taranto, si aggiunsero quei nuovi greci che si<br />

stanziarono a nordovest, sulla costa ionica.<br />

E allora...? I Brin<strong>di</strong>sini fummo Messapi e poi Calabri, ancora poi Otrantini e quin<strong>di</strong>,<br />

Leccesi... Ma da quando Salentini? E perché Salentini?<br />

Stando alla ricostruzione <strong>di</strong> cui sopra, sembrerebbe che “Salentini” fossero chiamati<br />

quegli abitanti della Messapia che erano stanziati sulla costa ionica a sud <strong>di</strong> Taranto,<br />

<strong>di</strong>versi sia dai più numerosi Calabri e sia soprattutto <strong>di</strong>versi dai Lacedemoni <strong>di</strong><br />

Taranto, con i quali Calabri e Salentini coesisterono, non certo amichevolmente, per<br />

50


qualche centinaio <strong>di</strong> anni, fino a quando tutti quanti furono alla fine conquistati e<br />

latinizzati dai Romani.<br />

Quella denominazione etnica “Salentini”, che alle volte fu erroneamente utilizzata per<br />

tutti gli abitanti dell’intera Calabria e non solo per quelli della parte occidentale della<br />

penisola a sud <strong>di</strong> Taranto, potrebbe derivare dal termine latino “salum” inteso come<br />

“terra in mezzo al mare” risalente a un patto d’amicizia stipulato “in salo”, ovvero in<br />

mare, fra Cretesi, Illirici e Locresi.<br />

La <strong>storia</strong>, invece, quella documentata e accertata, non certifica un altrettanto uso per il<br />

toponimo “Salento”, né tanto meno riporta una data o un periodo nel quale il territorio<br />

più estremo della Puglia si sia formalmente o amministrativamente denominato<br />

Salento, mentre insegna che in successione cronologica quel territorio ha, durante gli<br />

ultimi 3000 anni, via via costituito la Messapia, la Calabria, la Terra d’Otranto, la<br />

Provincia <strong>di</strong> Lecce e, finalmente, l’assieme delle tre province <strong>di</strong> Lecce Taranto e<br />

Brin<strong>di</strong>si.<br />

E quin<strong>di</strong>, sembrerebbe che il toponimo Salento sia d’introduzione relativamente<br />

recente, e sia pertanto più giusto suppe<strong>di</strong>tarlo al termine “Salentini” che invece, come<br />

già commentato, può riven<strong>di</strong>care un uso certamente molto più preciso e molto più<br />

antico, quando identificava gli abitanti <strong>di</strong> una porzione specifica e abbastanza ben<br />

delimitata della penisola messapica o calabra che <strong>di</strong>r si voglia: quella sulla costa<br />

principalmente ionica a sudest <strong>di</strong> Taranto.<br />

E allora, in conclusione, quello che è chiaro è che Brin<strong>di</strong>si appartiene al Salento da non<br />

tantissimo tempo e che neanche sappiamo bene perché i Brin<strong>di</strong>sini siamo <strong>di</strong>ventati<br />

Salentini; e soprattutto, non è chiaro perché non sia la storica Messapia, e non Salento,<br />

la denominazione <strong>di</strong> questa nostra storica regione che si estende tra due mari a sud<br />

della <strong>di</strong>rettrice Taranto-Ostuni, “la soglia messapica”, appunto!<br />

gianfrancoperri@gmail.com 2 Novembre 2013<br />

51


Quando come e perché noi Brin<strong>di</strong>sini da Calabresi <strong>di</strong>ventammo Pugliesi?<br />

Quando un qualche tema appassiona, inevitabilmente si finisce sempre con rigirargli<br />

attorno. Qualche anno fa, il 2 novembre del 2013, sulle pagine <strong>di</strong> questo mio blog<br />

scrissi un articolo intitolato «Ma noi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si da quand’è che siamo Salentini? E<br />

perché?» Un articolo in cui cercai <strong>di</strong> ricostruire sinteticamente la <strong>storia</strong> dell’evoluzione<br />

che, dalle origini fino ad oggi, ha subito la denominazione che ha contrad<strong>di</strong>stinto la<br />

regione geografica in cui è da “sempre” esistita Brin<strong>di</strong>si, con il suo territorio ed i suoi<br />

abitanti.<br />

In quell’occasione, mi volli specialmente occupare del toponimo Salento e conclusi<br />

scrivendo: «…I Brin<strong>di</strong>sini fummo Messapi e poi Calabri, ancora poi Otrantini e quin<strong>di</strong>,<br />

Leccesi. Ma da quando Salentini? …A Brin<strong>di</strong>si siamo Salentini da non tantissimo tempo<br />

e neanche sappiamo bene perché lo siamo; e soprattutto, non è chiaro perché non sia<br />

la storica Messapia, e non Salento, la denominazione <strong>di</strong> questa nostra regione che si<br />

estende tra due mari a sud della <strong>di</strong>rettrice Taranto-Ostuni: “la soglia messapica”,<br />

appunto!»<br />

Ebbene adesso, invece, voglio riprendere l’argomento proprio dalla denominazione<br />

“Calabria” per tentare <strong>di</strong> capire “il quando il come ed il perché” la si abbandonò per<br />

poi confluire nella attuale “Puglia”; e quando come e perché quella denominazione<br />

originaria migrò sull’altra e più meri<strong>di</strong>onale appen<strong>di</strong>ce peninsulare dello stivale<br />

italico. Ma proce<strong>di</strong>amo con or<strong>di</strong>ne!<br />

L’imperatore Augusto, tra il 9 e il 14 dC, intraprese un rior<strong>di</strong>no amministrativo<br />

profondo <strong>di</strong> tutta la penisola italica, sud<strong>di</strong>videndola in un<strong>di</strong>ci regioni e creando così la<br />

Regio II con la denominazione “Apulia et Calabria”, un po’ più estesa dell’attuale<br />

Puglia, e la Regio III con la denominazione “Lucania et Bruttium”, estesa a sud su tutto<br />

il resto del territorio peninsulare.<br />

52


La subregione “Apulia” occupò il territorio a nordovest dell’istmo Taranto-Ostuni,<br />

abitato da Dauni e Peucetii; la subregione “Calabria” occupò il restante territorio a<br />

sudest dell’istmo, abitato dai Messapi: i Calabri a nordest e i Salentini a sudovest.<br />

Brin<strong>di</strong>si dunque, “ai tempi <strong>di</strong> Roma” appartenne alla Calabria, l’antica Messapia o<br />

l’o<strong>di</strong>erno Salento, come preferir si voglia.<br />

Ebbene, in quanto al “quando” della migrazione <strong>di</strong> quella denominazione “Calabria”, si<br />

può anticipare che anche se il passaggio fu molto probabilmente lento e graduale,<br />

certamente si sviluppò nell’alto me<strong>di</strong>o evo, poiché è indubbio che alla fine del secolo<br />

VIII, il toponimo Calabria avesse già definitivamente identificato il nuovo territorio,<br />

tanto nel linguaggio ufficiale quanto nell'uso comune. Ma continuiamo con or<strong>di</strong>ne!<br />

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’occidente, dalla <strong>storia</strong> formalmente ascritta<br />

all’anno 476 dC, la successiva dominazione gotica sull’Italia culminò con il ventennale<br />

conflitto greco-gotico che, nel 553, vide vincitori i Bizantini i quali, aspirando a<br />

integrare l’Italia all’Impero Romano d’oriente, instaurarono l’Esarcato <strong>di</strong> Ravenna<br />

nella città già capitale del regno italiano dei Goti e misero sotto il suo controllo<br />

nominale il resto dei territori italiani conquistati.<br />

Però dopo solo pochi anni, a partire dal 568, i nor<strong>di</strong>ci Longobar<strong>di</strong> scesero in Italia e,<br />

giunti nel meri<strong>di</strong>one, crearono a Benevento un potente ducato a loro caposaldo <strong>di</strong><br />

tutto il sud della penisola, incorporandovi da subito quasi tutti i territori della Lucania<br />

e parte <strong>di</strong> quelli della Campania del Bruzio e dell’Apulia, dai quali, instancabilmente e<br />

sempre più incisivamente, continuarono per secoli a scorribandare sui territori<br />

limitrofi, occupandoli temporalmente o creandovi anche loro unità territoriali stabili, i<br />

gastaldati.<br />

A fianco, nei territori situati ad est e a sud <strong>di</strong> Benevento, i Bizantini fondarono<br />

il Ducato <strong>di</strong> Calabria, integrando in tale entità amministrativa i territori della romana<br />

Calabria, l’o<strong>di</strong>erno meri<strong>di</strong>one pugliese, con quelli del romano Bruttium, l’o<strong>di</strong>erna<br />

regione calabrese, inizialmente ben collegati da un’ampia fascia costiera, lungo la riva<br />

nordoccidentale del golfo <strong>di</strong> Taranto.<br />

Nel 663, l’imperatore Costante II sbarcò a Taranto e liberò temporalmente quasi tutto<br />

il meri<strong>di</strong>one dalla presenza longobarda, senza però poter espugnare Benevento <strong>di</strong>fesa<br />

dal duca Romualdo e da dove, ad ogni occasione, i Longobar<strong>di</strong> ritornarono<br />

ripetutamente all’attacco.<br />

Dopo l’omici<strong>di</strong>o dello stesso Costante II, avvenuto a Siracusa nel 668, infatti, i<br />

Longobar<strong>di</strong> recuperarono molti dei territori e delle città del meri<strong>di</strong>one d’Italia,<br />

occupando anche gran parte dello strategico Ducato <strong>di</strong> Calabria, e in particolare<br />

Taranto e, nel 674, anche Brin<strong>di</strong>si.<br />

Fu probabilmente a partire da allora, se non già da qualche anno prima, che il nome<br />

“Calabria” cominciò a essere utilizzato per designare in<strong>di</strong>stintamente tutto il territorio<br />

storicamente appartenuto sia alla Calabria che al Bruzio, cominciando così a mandare<br />

quest’ultimo nome al <strong>di</strong>menticatoio.<br />

53


603 674<br />

Nel 680, infatti, a Costantinopoli si tenne un Concilio e i vescovi che vi parteciparono,<br />

nel sottoscriversi, al nome proprio e a quello della <strong>di</strong>ocesi aggiunsero anche quello<br />

della provincia o regione comprendente la <strong>di</strong>ocesi. I vescovi <strong>di</strong> Tauriana, <strong>di</strong> Tropea, <strong>di</strong><br />

Turii, <strong>di</strong> Locri, <strong>di</strong> Vibona, nonché quelli <strong>di</strong> Otranto e <strong>di</strong> Taranto, si <strong>di</strong>chiararono della<br />

“Calabria”. I vescovi <strong>di</strong> Cosenza, <strong>di</strong> Crotone, <strong>di</strong> Squillate e <strong>di</strong> Tempsa si <strong>di</strong>ssero<br />

appartenenti al “Bruzio”. Evidenza che in quell'anno 680 dC si esitava ancora fra i due<br />

nomi e che, in conseguenza, il momento della sostituzione, o perlomeno<br />

dell’estensione della denominazione “Calabria” al “Bruzio”, va storicamente situato in<br />

una data seguente, anche se comunque prossima, a quell'anno.<br />

Altra evidenzia, è il fatto che il pontefice Gregorio Magno, nel 601 mandò a trarre<br />

legname per l'impalcatura della basilica <strong>di</strong> San Paolo, dai boschi «del Bruzio», mentre<br />

al termine del secolo, quando il pontefice Sergio I ebbe ancora bisogno <strong>di</strong> quel<br />

legname da costruzione per i lavori della stessa basilica, lo fece estrarre «dalla<br />

Calabria». I due nomi <strong>di</strong>versi, quin<strong>di</strong>, rappresentavano evidentemente lo stesso luogo<br />

e anche il Bruzio, pertanto, al termine <strong>di</strong> quel VII secolo, si chiamava Calabria.<br />

Senza prove certe, tuttavia, che per quel momento l'antica Calabria avesse anch'essa<br />

già cambiato ufficialmente il proprio nome a quello <strong>di</strong> Terra d’Otranto, né tanto meno,<br />

che fosse stata incorporata con una qualche formalità, all’Apulia. E allora, quando fu<br />

che ciò avvenne? Proseguiamo con or<strong>di</strong>ne!<br />

I Longobar<strong>di</strong> dominarono l’Italia per ancora cent’anni, fino al 774, quando i Franchi,<br />

chiamati in Italia dal papa Adriano, li sconfissero a più riprese e consegnarono al<br />

papato gran parte del territorio centrale della penisola, dando così formale inizio al<br />

potere temporale dei papi e separando, anche fisicamente, la parte settentrionale dalla<br />

meri<strong>di</strong>onale dello stivale.<br />

54


Mentre il settentrione d’Italia passò sotto l’influenza del sacro romano impero, sorto<br />

con l’incoronazione <strong>di</strong> Carlo Magno in San Pietro nel Natale dell’800, il meri<strong>di</strong>one<br />

ritornò sotto il controllo – anche se solo nominale – bizantino, tranne Benevento che<br />

rimase autonomamente longobarda assurgendo a principato, e tranne la Sicilia che<br />

nell'827 fu occupata dagli Arabi rendendo ancor più insicuri ed incerti tutti i domini<br />

bizantini nell'Italia meri<strong>di</strong>onale.<br />

Solo sul finire del secolo, nell'880, i Bizantini riconquistarono effettivamente varie<br />

città, tra cui Taranto e Brin<strong>di</strong>si, riuscendo inoltre a sottomettere i territori longobar<strong>di</strong><br />

che avevano separato in due il Ducato <strong>di</strong> Calabria, separato cioè l’antico Bruttium<br />

dall’antica Calabria.<br />

Finanche, il 18 ottobre 891 dopo un asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> due mesi, la stessa Benevento capitolò<br />

al generale bizantino Niceforo Foca. Quin<strong>di</strong>, si fondò il Thema <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a con<br />

capitale Bari, che affiancò il Thema <strong>di</strong> Calabria con capitale Reggio.<br />

Il Thema <strong>di</strong> Calabria però, non comprese l’antica Calabria romana, ossia l'o<strong>di</strong>erno<br />

Salento, che invece fu parte del nuovo Thema <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a. A quell’epoca quin<strong>di</strong>, la<br />

denominazione “Calabria”, già in precedenza estesa al Bruzio, aveva ormai finito con<br />

l’abbandonare del tutto il suo originale territorio salentino: la migrazione si era<br />

definitivamente consumata.<br />

Nel corso del ‘900, il Thema <strong>di</strong> Calabria e quello <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a furono integrati per<br />

formare il Catapanato d'Italia e durante tutto quel secolo X non cessarono le lotte per<br />

il dominio del territorio tra i Longobar<strong>di</strong> beneventani e i Bizantini, alle quali si furono<br />

alternamente sommando gli eserciti imperiali del nord -quelli del sacro romano<br />

impero- e le tante bande arabe e slave, in un perenne clima <strong>di</strong> “tutti contro tutti” sotto<br />

la costante la regia, più o meno occulta, del papato.<br />

Con il nuovo millennio, finalmente, l’intricata e caotica situazione economica politica e<br />

militare del meri<strong>di</strong>one italiano, prolungatasi per secoli, incontrò una ra<strong>di</strong>cale via<br />

d’uscita con l’arrivo dei Normanni, una stirpe <strong>di</strong> scaltri guerrieri provenienti dal Nord,<br />

dalla Norman<strong>di</strong>a.<br />

Nel 1041, Normanni e Longobar<strong>di</strong> alleati, batterono i Bizantini impossessandosi <strong>di</strong><br />

gran parte del territorio del Catapanato d'Italia e, nel settembre del 1042, il normanno<br />

Guglielmo I d'Altavilla fondò la Contea <strong>di</strong> Puglia con capitale Melfi: un territorio non<br />

omogeneo sud<strong>di</strong>viso in baronie <strong>di</strong>stribuite tra Capitanata, Gargano, Apulia e<br />

Campania, fino al Vulture.<br />

Nel 1047, il sacro romano imperatore Enrico III, legittimò i possessi dei Normanni e<br />

conferì a Drogone d'Altavilla, succeduto a Guglielmo I, l'investitura <strong>di</strong> conte <strong>di</strong> Puglia.<br />

Poi, nel Concilio <strong>di</strong> Melfi del 1059, la contea fu elevata a ducato dal pontefice Niccolò II<br />

e Roberto il Guiscardo fu nominato duca <strong>di</strong> Puglia e <strong>di</strong> Calabria.<br />

Finalmente, nel 1071, il dominio bizantino formale nel meri<strong>di</strong>one italiano cessò del<br />

tutto e per sempre, con la conquista <strong>di</strong> Lecce e la fondazione della contea <strong>di</strong> Lecce, e<br />

con la con la conquista <strong>di</strong> Taranto e Brin<strong>di</strong>si e la fondazione del poderoso principato <strong>di</strong><br />

Taranto, al quale restò ascritta anche Brin<strong>di</strong>si.<br />

55


Contemporaneamente, anche per i due rimanenti principati longobar<strong>di</strong>, <strong>di</strong> Benevento<br />

e <strong>di</strong> Salerno, l’arrivo dei Normanni venne a sancirne la fine: nel 1053, il solito Roberto<br />

il Guiscardo conquistò Benevento e nel 1076 Salerno, <strong>di</strong>venendo infina, nel 1078, duca<br />

<strong>di</strong> Puglia e Calabria.<br />

Nel luglio del 1127 Guglielmo II, duca <strong>di</strong> Puglia e <strong>di</strong> Calabria, morì senza figli e gli<br />

succedette il fratello Ruggero, già conte <strong>di</strong> Sicilia, il quale in pochi anni finì col riunire<br />

sotto <strong>di</strong> sé anche i restanti posse<strong>di</strong>menti del meri<strong>di</strong>one italiano e, nella notte <strong>di</strong> Natale<br />

del 1131, fu incoronato re del novello Regno <strong>di</strong> Sicilia.<br />

Quel regno, nato unendo i territori della contea <strong>di</strong> Sicilia, dei ducati <strong>di</strong> Puglia e<br />

Calabria, del ducato <strong>di</strong> Napoli, del principato <strong>di</strong> Capua e dell’Abruzzo, fu<br />

amministrativamente sud<strong>di</strong>viso in quattro unità: Sicilia, Calabria, Apulia e Terra <strong>di</strong><br />

Lavoro.<br />

I confini delle tre unità continentali furono invero piuttosto labili e, anche se la loro<br />

struttura amministrativa non fu ben definita, nell’Apulia furono chiaramente<br />

compresi, la contea <strong>di</strong> Lecce, la contea <strong>di</strong> Nardò, la contea <strong>di</strong> Soleto e il principato <strong>di</strong><br />

Taranto, al quale era ascritta Brin<strong>di</strong>si, che da allora -quin<strong>di</strong>- appartiene “formalmente”<br />

alla Puglia, già Apulia.<br />

Poi sotto gli Svevi, nel 1230, Federico II riformò tutta l’amministrazione del regno,<br />

sopprimendo le contee e istituendo nuove unità amministrative, ognuna affidata a un<br />

giustiziere. La Puglia fu allora sud<strong>di</strong>visa in quattro giustizierati: Basilicata, Capitanata,<br />

Terra <strong>di</strong> Bari e Terra d'Otranto in cui fu inclusa Brin<strong>di</strong>si.<br />

Il giustizierato della Terra d'Otranto, la cui creazione certificò quin<strong>di</strong> “ufficialmente”<br />

per il suo territorio tale denominazione, invero già da tempo entrata nel gergo<br />

comune, comprese inizialmente tutta la penisola salentina e una parte della regione<br />

delle Murge, estendendosi a nordovest fino al Bradano e includendo quin<strong>di</strong> anche il<br />

territorio materano.<br />

Presso a poco con tali limiti, tutta questa circoscrizione amministrativa fu conservata<br />

anche sotto gli Angioini e gli Aragonesi. Verso la fine del vice regno spagnolo invece,<br />

nel 1663 sotto Filippo IV <strong>di</strong> Spagna, il giustizierato <strong>di</strong> Basilicata con il suo territorio <strong>di</strong><br />

Matera fu sottratto alla Puglia e da quel momento in avanti passò ad integrarsi con il<br />

territorio <strong>di</strong> Potenza e <strong>di</strong> Melfi.<br />

Quell’assetto amministrativo del regno <strong>di</strong> Napoli perdurò, più o meno invariato, fino<br />

alla promulgazione della legge napoleonica del 1806 con cui il re Giuseppe<br />

Bonaparte riformò la ripartizione del territorio sulla base del modello francese,<br />

sopprimendo i giustizierati e introducendo le province.<br />

Le province furono sud<strong>di</strong>vise in successivi livelli amministrativi gerarchicamente<br />

<strong>di</strong>pendenti dal precedente: imme<strong>di</strong>atamente sotto la provincia si crearono i <strong>di</strong>stretti e<br />

questi, a loro volta, furono sud<strong>di</strong>visi in circondari. I circondari furono costituiti<br />

dai comuni, l’unità <strong>di</strong> base della struttura politico amministrativa dello stato moderno,<br />

ai quali fecero capo i villaggi, piccoli centri a carattere prevalentemente rurale.<br />

56


Le province del regno furono ventidue, <strong>di</strong> cui sette in Sicilia, con in totale settantasei<br />

<strong>di</strong>stretti, <strong>di</strong> cui ventitré in Sicilia.<br />

La provincia <strong>di</strong> Terra d'Otranto comprese i quattro <strong>di</strong>stretti <strong>di</strong> Lecce, Taranto, Gallipoli<br />

e Mesagne, sostituito nel 1814 con quello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Il numero totale dei circondari,<br />

cioè dei principali comuni della provincia, fu <strong>di</strong> quaranta quattro.<br />

Dal 1º gennaio 1817, l'organizzazione amministrativa postnapoleonica del regno delle<br />

Due Sicilie mantenne sostanzialmente lo stesso assetto napoleonico e dopo l'unità<br />

d'Italia del 1861, la provincia <strong>di</strong> Terra d'Otranto fu denominata provincia <strong>di</strong> Lecce,<br />

mentre il suo territorio permase <strong>di</strong>viso negli stessi quattro <strong>di</strong>stretti <strong>di</strong> Lecce, Brin<strong>di</strong>si,<br />

Taranto e Gallipoli.<br />

Durante il ventennio fascista, si soppressero i <strong>di</strong>stretti e nell’or<strong>di</strong>namento<br />

amministrativo dello stato si conservarono solamente le province e i comuni. In<br />

Puglia, la provincia <strong>di</strong> Lecce fu sud<strong>di</strong>visa in tre con la creazione, nel 1923,<br />

della provincia <strong>di</strong> Taranto e, nel 1927, <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, alla quale furono aggregati<br />

i comuni <strong>di</strong> Fasano e Cisternino, prima appartenuti alla provincia <strong>di</strong> Bari, portando con<br />

essi il numero totale <strong>di</strong> comuni a venti.<br />

Ebbene, giunti a questo punto, si è data risposta al “quando” e anche al “come”<br />

l’originale denominazione Calabria sia migrata da una all’altra delle due penisole<br />

dell’estremo sud italiano, cominciando con l’essere assegnata anche alla seconda in<br />

sostituzione della propria denominazione originale e finendo con abbandonare la<br />

prima per la quale venne finalmente adottata una nuova denominazione e si<br />

procedette a incorporarla a una regione terza. Ed ha avuto anche risposta il “quando”<br />

Brin<strong>di</strong>si fu formalmente inclusa nella Puglia e “quando” il territorio in cui era Brin<strong>di</strong>si<br />

fu ufficialmente denominato Terra d’Otranto.<br />

Manca solo, quin<strong>di</strong>, rispondere al “perché” <strong>di</strong> tutto questo insolito processo. Insolito<br />

non per il cambio <strong>di</strong> un toponimo - cosa in effetti storicamente abbastanza comune e<br />

<strong>di</strong> fatto naturale - ma insolito per la migrazione <strong>di</strong> un toponimo da un luogo ad un<br />

altro. Perché mai spostare la denominazione “Calabria” dal suo storico territorio ad un<br />

altro territorio, che del resto un nome storico proprio già lo aveva?<br />

Ebbene, purtroppo, finora non ci è ancora stato dato <strong>di</strong> giungere a un’unica<br />

spiegazione certa: lo storico Michele Schipa, che si occupò a lungo dell’argomento, nel<br />

1895 scartò un’ipotesi ai sui tempi abbastanza accre<strong>di</strong>tata e ne avanzò una seconda,<br />

sua. Raccontiamole brevemente!<br />

«Quando i Longobar<strong>di</strong> occuparono Taranto e Brin<strong>di</strong>si, intorno al 670, del territorio<br />

della vecchia romana Calabria, che pur aveva dato il proprio nome all’intero ducato<br />

bizantino comprendente anche il Bruzio, restò ben poco, praticamente la sola punta<br />

peninsulare, con a mala pena Otranto come città importante.<br />

E fu a quel punto che ai Bizantini non venne migliore idea che, per occultare quella<br />

grave per<strong>di</strong>ta e salvare l’onore o l’apparenza, inventarsi traslare il nome del territorio<br />

perduto “Calabria” al territorio in buona parte conservato “Il Bruzio” per poter così<br />

ufficialmente affermare che la “Calabria” continuava ad essere saldamente bizantina».<br />

57


Che ve ne sembra? Potrebbe reggere una così bizzarra e stravagante spiegazione?<br />

Ebbene, per Schipa, assolutamente no! E lui <strong>di</strong> ragioni per negarla ne apporta e ne<br />

dettaglia abbastanza.<br />

Poi, negata quella volontà squisitamente politica, Schipa avanza la possibilità che,<br />

invece, forse e più semplicemente e, per lui più verosimilmente:<br />

«Una volta ridotto a un lembo il territorio bizantino resistente sulla punta estrema<br />

della romana Calabria e benché fisicamente separato dal meri<strong>di</strong>onale Bruzio, pur si<br />

potè - per inerzia e consuetu<strong>di</strong>ne - continuare a mantenere il nome “Calabria” per<br />

tutta quell’unità amministrativa ancora bizantina, nonostante fosse costituita “magari,<br />

solo momentaneamente” da un territorio che nella quasi sua totalità era del Bruzio.<br />

E così fu che, per anni e anni, il territorio del Bruzio continuò a denominarsi<br />

ufficialmente ducato <strong>di</strong> Calabria e quin<strong>di</strong>… Calabria. Del resto, l’accettazione non dové<br />

incontrare molti ostacoli, giacché si trattava <strong>di</strong> un “bel nome dalla dolce fisionomia<br />

greca, per cui molti l’han ritenuto greco in carne ed ossa”».<br />

L’antica romana Calabria, nel mentre, non tornò più ad essere stabilmente bizantina<br />

ed anzi, tutta fu, a momenti, perduta, incluso la stessa Otranto, città che comunque più<br />

a lungo resistette la pressione longobarda col suo pur piccolo territorio. E fu così che<br />

dell’antica romana Calabria, dopo lunghissimi bui anni senza ormai un territorio<br />

proprio, si perse anche l’identità del nome.<br />

gianfrancoperri@gmail.com 8 Settembre 2016<br />

58


Brin<strong>di</strong>si tra IX e X secolo in balia del 'tutti contro tutti'<br />

Dopo un primo arrivo dei Saraceni a Brin<strong>di</strong>si ‐ nell’838 ‐ per due secoli<br />

intorno alla città non ci fu null’altro che un desolante 'tutti contro tutti'<br />

Pubblicato dalla Fondazione Terra d’Otranto il 4 e 5 giugno 2019<br />

Le fonti relative alla <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si tra il VI e il X secolo inclusi, sono molto avare,<br />

particolarmente avare, costituendo tale carenza quasi assoluta un forte in<strong>di</strong>zio della<br />

effettiva mancanza <strong>di</strong> eventi, circostanze e personaggi da riferire in relazione alla città,<br />

un in<strong>di</strong>zio quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> marcata decadenza, associata, anche e certamente, ad un<br />

progressivo accentuato processo <strong>di</strong> depopolamento ed alla conseguente per<strong>di</strong>ta della<br />

stessa fisionomia urbana della città.<br />

Esula dal proposito <strong>di</strong> questo scritto il trattare delle possibili cause <strong>di</strong> tale<br />

situazione e basti solo accennare che, eventualmente, la prolungata guerra grecogotica<br />

prima, l’esosa occupazione bizantina dopo, una serie <strong>di</strong> catastrofi naturali e<br />

finalmente, l’approssimarsi dei Longobar<strong>di</strong> ed il susseguirsi delle prime devastanti<br />

incursioni saracene, furono tutti eventi che più o meno in successione, per secoli<br />

affossarono completamente la città, la sua economia e la sua popolazione. Fino a<br />

quando, dopo che nel 1005 Durazzo ritornò sotto il controllo <strong>di</strong> Costantinopoli,<br />

Brin<strong>di</strong>si fu chiamata a rinascere per svolgere <strong>di</strong> nuovo una funzione <strong>di</strong> primo piano nel<br />

contesto <strong>di</strong> un rinnovato e più vasto orizzonte politico <strong>di</strong> Bisanzio. Una rinascita<br />

rimasta incipiente, che però, poco dopo, fu impulsata con decisione dai nuovi arrivati:<br />

i Normanni.<br />

Dopo la rovinosa ventennale guerra greco-gotica conclusa nel 553 e dopo la<br />

<strong>di</strong>struttiva conquista longobarda – che per Brin<strong>di</strong>si si materializzò ai danni dei<br />

Bizantini intorno al 680 ad opera <strong>di</strong> Romualdo I duca Benevento – la città rimase<br />

semi<strong>di</strong>strutta, stremata e ridotta a poco più che un’espressione geografica quasi<br />

spopolata, anche se non del tutto abbandonata.<br />

«La documentazione epigrafica in<strong>di</strong>ca che ai margini della città rimasero, sia alcuni<br />

gruppi <strong>di</strong> Ebrei – parte stabiliti presso il seno <strong>di</strong> levante del porto interno e parte presso<br />

l’attuale via Tor Pisana, dove vi fu anche un loro sepolcro – e sia qualche altro sparuto<br />

gruppo <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni stabiliti intorno al vecchio martyrium <strong>di</strong> San Leucio [a<strong>di</strong>acente<br />

all’insenatura <strong>di</strong> ponente] … Fino al X secolo, sono quasi nulle le notizie <strong>di</strong> transiti o<br />

appro<strong>di</strong> nella rada <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, eccezion fatta per quando – nel 908 – vi giunsero le<br />

reliquie <strong>di</strong> Santa Margherita d’Antiochia, che il monaco benedettino Agostino pavese<br />

trasferì da Costantinopoli in Italia». [G. CARITO 1,2 ]<br />

Dunque, alla fine del VII secolo, Brin<strong>di</strong>si, sottratta al controllo bizantino, <strong>di</strong>venne<br />

longobarda e poi per circa un secolo e mezzo <strong>di</strong> essa non se ne parla più, né se ne sa<br />

praticamente nulla, con eccezione – forse la sola – della citazione che ne fa l’anonimo<br />

tranese, descrivendola “eversa vero atque <strong>di</strong>ruta” nel suo racconto del trafugamento<br />

delle spoglie del protovescovo brin<strong>di</strong>sino San Leucio, effettuato nottetempo da un<br />

gruppo <strong>di</strong> Tranesi ad ulteriore riprova dell’estrema debolezza sociale, oltreché politica<br />

ed economica, in cui versava la città con i suoi superstiti abitanti.<br />

Città quin<strong>di</strong> formalmente longobarda, Brin<strong>di</strong>si restò tale anche dopo l’arrivo dei<br />

Franchi <strong>di</strong> Carlo Magno che, sceso in Italia nel 771 chiamato dal papa Stefano III e<br />

sconfitti i Longobar<strong>di</strong> nel 774, rinunciò ad estendere il proprio controllo sulle<br />

longobarde terre beneventane. Quando poi, nel 787, Carlo decise <strong>di</strong> compiere una<br />

59


sortita all’interno <strong>di</strong> quei confini, ottenuta una formale sottomissione del duca<br />

beneventano Arechi II alla propria autorità, lo elevò a principe. Probabilmente, il re<br />

Carlo preferì mantenere in vita quello stato longobardo in un certo qual modo a lui<br />

sottomesso, piuttosto che intraprendere impegnative campagne militari che<br />

avrebbero potuto attivare pericolose frizioni con il confinante – in quel sud italiano –<br />

impero bizantino, nonché stimolare imbarazzanti richieste <strong>di</strong> ampliamento<br />

territoriale verso Sud da parte pontificia.<br />

Se ne riparla – <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si – solo nell’838 e se ne riparla perché sullo scenario del<br />

Meri<strong>di</strong>one continentale d’Italia è apparso un terzo litigante ad affiancare i due<br />

precedenti e già secolari contendenti longobar<strong>di</strong> e bizantini. Si tratta degli Arabi<br />

originari del nord Africa, poi più comunemente detti Saraceni, provenienti dalla loro<br />

nuova vicina base, la Sicilia, che da poco più <strong>di</strong> una decina d’anni – dall’827 – avevano<br />

gradualmente cominciato ad occupare (Palermo sarebbe caduta nell’831 e, ultima,<br />

Siracusa nell’878) sottraendola ai Bizantini. E perché mai e come mai, i Saraceni<br />

provenienti dalla Sicilia giunsero fino a Brin<strong>di</strong>si?<br />

Accadde semplicemente che, una volta sbarcati e ben inse<strong>di</strong>ati nella Sicilia, fu<br />

naturale che gli Arabi guardassero all’Italia peninsulare come ad una meta <strong>di</strong><br />

conquiste e, soprattutto, <strong>di</strong> scorrerie. Le incursioni e le loro azioni <strong>di</strong> offesa verificatesi<br />

nel Meri<strong>di</strong>one d’Italia, infatti, per lo più contrastarono con la stabilità propria<br />

dell’inse<strong>di</strong>amento musulmano insulare della Sicilia, dove da subito si manifestò il<br />

desiderio <strong>di</strong> una durevole conquista con la volontà <strong>di</strong> includerla nel dominio islamico.<br />

Nel territorio peninsulare, invece, i pochi isolati episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> conquista, come quelli <strong>di</strong><br />

Bari e Taranto o sul Garigliano a sud <strong>di</strong> Gaeta, si estinsero nel giro <strong>di</strong> due o tre decenni<br />

al massimo; mentre per ben due secoli, il IX e il X, quasi l’intero Mezzogiorno visse la<br />

presenza musulmana come un endemico flagello <strong>di</strong> guerra e <strong>di</strong> rapina, continuamente<br />

combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longobar<strong>di</strong>, Pontifici, Franchi – e mai debellato.<br />

E tutto ciò durò così a lungo anche perché gli Arabi furono abili a inserirsi nelle<br />

vicende della tribolata <strong>storia</strong> altome<strong>di</strong>evale del Meri<strong>di</strong>one italiano, proprio come<br />

avvenne in quella loro prima incursione dell’836 e 837, quando fu lo stesso duca <strong>di</strong><br />

Napoli, il console Andrea, che li chiamò in suo soccorso contro Sicardo, il principe<br />

longobardo <strong>di</strong> Benevento, che lo aveva asse<strong>di</strong>ato.<br />

Da lì in avanti il prosieguo fu inevitabile e, solo un anno dopo, gli Arabi <strong>di</strong> Sicilia<br />

comparvero nelle acque dell’Adriatico e s’impadronirono in<strong>di</strong>sturbati <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

«Per idem tempus Agarenorum gens, cum iam Siculorum provinciam aliquos tenuerunt<br />

per annos pervasam, iam fretum conabantur transire Italiam occupandam. Dum vero cum<br />

multitu<strong>di</strong>ne navium fretunque ille transmeassent, sine mora Brin<strong>di</strong>sim civitatem<br />

pugnando ceperunt (Chronicon Salernitanum)»<br />

Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a<br />

cavallo per respingerli, ma la sua corsa si bloccò per un banale tranello: gli assalitori,<br />

scavata una lunga e profonda trincera in prossimità dell’ingresso alla città, la<br />

ricoprirono con rami e con zolle <strong>di</strong> terra; quin<strong>di</strong> vi attirarono l’ingenuo nemico che<br />

cadde nella trappola subendo gravissime per<strong>di</strong>te, anche se Sicardo riuscì<br />

fortunosamente a salvarsi.<br />

Quegli Arabi giunti fino a Brin<strong>di</strong>si, probabilmente in pochi, avuta notizia che dopo<br />

lo scacco il duca-principe Sicardo stava facendo gran<strong>di</strong> preparativi per la rivincita, non<br />

esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla depredata del poco<br />

60


ancora depredabile. Eventualmente, fu anche opera loro la <strong>di</strong>struzione del monastero<br />

bizantino <strong>di</strong> Santa Maria Veterana [a meno che tale monastero non sia invece stato<br />

e<strong>di</strong>ficato a fine secolo, in concomitanza con il primo avvio – poi presto interrotto –<br />

della ricostruzione bizantina della citta seguita alla riconquista <strong>di</strong> Niceforo Foca, e sia<br />

stato quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>strutto in una delle successive incursioni saraceno-slave].<br />

Poi, abbandonata momentaneamente Brin<strong>di</strong>si, alcuni Saraceni si stabilirono una<br />

quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong> chilometri più a nord, nella strategica e protetta baia <strong>di</strong> Guaceto, ove<br />

costruirono un campo trincerato – denominato "ribat" del quale fino a tutto il XVI<br />

secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui de<strong>di</strong>carsi, a<br />

lungo e in<strong>di</strong>sturbati, a organizzare scorrerie per mare e per terra.<br />

I Saraceni, che con l’intervento a favore <strong>di</strong> Napoli prima e con la presa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

poi, avevano sperimentato la debolezza del ducato beneventano, nell’840 risalirono le<br />

coste della Calabria ed occuparono Taranto e subito dopo, nell’841, riattaccarono la<br />

costa adriatica con un primo assalto fallito alla città <strong>di</strong> Bari, che finalmente fu<br />

stabilmente occupata l’anno dopo. Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e<br />

soprattutto da Bari – città che <strong>di</strong>vennero se<strong>di</strong> <strong>di</strong> emirati – partirono per anni le<br />

incursioni arabe, sempre più penetranti e più incisive, <strong>di</strong>rette sulle città e sui territori<br />

a<strong>di</strong>acenti appartenenti ai domini bizantini residui in Italia, nonché a quelli longobar<strong>di</strong>.<br />

La situazione <strong>di</strong> instabilità causata dalla presenza araba nell’Italia meri<strong>di</strong>onale<br />

cominciò finalmente a preoccupare seriamente anche il papa e quegli stessi principi<br />

che avevano in qualche modo flirtato con gli Arabi <strong>di</strong> Sicilia, i quali pensarono bene <strong>di</strong><br />

richiedere l’aiuto dell’impero, quello dei Franchi – il quarto contendente nello<br />

scacchiere dei “tutti contro tutti” – e così, eletto sacro romano imperatore nell’850,<br />

Ludovico II nipote <strong>di</strong> Carlo Magno, nell’852 fu sollecitato a scendere nel sud d’Italia,<br />

nel tentativo <strong>di</strong> liberare le città pugliesi – Bari in primis – dal giogo arabo, ma fallì<br />

nell’intento a causa dei contrasti ben presto sorti con i principi longobar<strong>di</strong>,<br />

primor<strong>di</strong>almente interessati a conservare la propria autonomia.<br />

Fu Venezia poi, con il suo Doge Orso, che nell’864 inviò una flotta <strong>di</strong> quaranta navi e<br />

finalmente batté i Saraceni e permise per qualche anno la restaurazione del dominio<br />

bizantino su Taranto. Ciò però, non impedì ai Saraceni <strong>di</strong> resistere <strong>di</strong> nuovo allo stesso<br />

sacro romano imperatore, il franco Ludovico II, il quale, ri<strong>di</strong>sceso a sud nell’866, in<br />

Puglia nell’868 solo riuscì a liberare dall’occupazione araba Matera Canosa e Oria,<br />

giacché l’enorme flotta <strong>di</strong> ben quattrocento navi – comandata dal patrizio Niceta Orifa<br />

inviatagli dall’imperatore bizantino nell’869 per supportare l’attacco terrestre a Bari –<br />

si ritirò a Corinto e lo lasciò impotente. Ludovico II, infatti, nel mezzo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sputa<br />

ideologica con l’imperatore d’Oriente Basilio I, si era rifiutato <strong>di</strong> acconsentire al già<br />

accordato matrimonio <strong>di</strong> sua figlia, Ermengarda, con Costantino, figlio <strong>di</strong> Basilio I.<br />

Nel trascorso <strong>di</strong> quella campagna, con lo strategico obiettivo <strong>di</strong> colpire i Saraceni<br />

del vicino emirato barese, i Franchi <strong>di</strong> Ludovico II asse<strong>di</strong>arono e quin<strong>di</strong> assaltarono e<br />

presero – 867? – anche Brin<strong>di</strong>si, che nel frattempo era stata rioccupata dagli Arabi.<br />

«Due reperti archeologici testimoniano l’influenza franca sul territorio brin<strong>di</strong>sino tra<br />

fine VIII secolo e inizi del IX. Si tratta <strong>di</strong> una vera <strong>di</strong> pozzo e <strong>di</strong> uno stampo con il nome <strong>di</strong><br />

santa Petronilla, patrona dei Franchi, che potrebbero essere appartenuti al monastero<br />

<strong>di</strong> Santa Maria Veterana, dai Normanni ricostruito nell’XI secolo per ospitare le suore<br />

benedettine – unico e<strong>di</strong>ficio religioso documentato in Brin<strong>di</strong>si per il secolo VIII,<br />

nell’ambito della vecchia città». [G. CARITO 1 ]<br />

61


Dopo qualche anno, tra i due imperatori si ristabilì una certa collaborazione e così<br />

Ludovico II poté puntare su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871,<br />

liberandola dal trentennale dominio arabo e facendo prigioniero l’emiro Sawdan, che<br />

fu portato dal principe Adelchi a Benevento, dove rimase incarcerato per anni.<br />

Quin<strong>di</strong>, già morto – nell’875 – l’ormai vecchio imperatore Ludovico II, i Bizantini<br />

dell’imperatore Basilio I nell’876 sottrassero Bari all’influenza del longobardo Adelchi<br />

e, finalmente – nell’880 – riuscirono anche a liberare Taranto dai Saraceni nel corso<br />

della campagna <strong>di</strong> riconquista condotta dallo stratega Niceforo Foca.<br />

Partendo dalla punta dello stivale, Niceforo Foca estese la controffensiva bizantina<br />

su quasi tutto il Meri<strong>di</strong>one continentale, riconquistando sia le città rimaste in mano<br />

araba e sia la maggior parte dei territori occupati dai principi longobar<strong>di</strong>. I limiti<br />

territoriali della conquista non sono definiti con esattezza nelle fonti, ma è verosimile<br />

che i Bizantini abbiano rioccupato tutta la regione che si estende dalla valle del Crati a<br />

Taranto e la Lucania orientale con le vallate del Sinni e del Bradano, nonché la costa<br />

salentina, mentre è più arduo definire dove essi siano arrivati a nordovest <strong>di</strong> Bari.<br />

E quin<strong>di</strong>, fu nel contesto <strong>di</strong> quella lunga campagna condotta contro Longobar<strong>di</strong> e<br />

Arabi che, dopo Taranto, anche Brin<strong>di</strong>si intorno all’885 tornò sotto il formale controllo<br />

dei Bizantini, i quali, naturalmente, la incontrarono praticamente tutta in macerie:<br />

“macerie longobarde del 674, macerie saracene dell’838 e macerie imperiali dell’867”.<br />

Nell’886 morì l’imperatore Basilio I e gli succedette il figlio Leone VI, il quale<br />

richiamò il vittorioso generale Niceforo Foca nominandolo comandante supremo<br />

dell’esercito imperiale e questi s’imbarcò da Brin<strong>di</strong>si alla volta <strong>di</strong> Costantinopoli con<br />

gran parte del suo esercito e lasciando alla città tutti i prigionieri longobar<strong>di</strong>,<br />

sottraendoli magnanimamente alla schiavitù e rendendoli così potenzialmente utili<br />

alla eventuale ricostruzione citta<strong>di</strong>na.<br />

Il ritorno dei Bizantini a Brin<strong>di</strong>si, infatti, fu seguito da timi<strong>di</strong> e presto interrotti<br />

segnali <strong>di</strong> rinascita quando, alla fine <strong>di</strong> quel secolo IX, si iniziò la ricostruzione della<br />

chiesa <strong>di</strong> San Leucio, impulsata dal vescovo oritano Teodosio in occasione del ritorno<br />

in città <strong>di</strong> una parte delle reliquie sottratte dai Tranesi. E negli anni a seguire, la<br />

popolazione <strong>di</strong> sua iniziativa, intraprese anche la costruzione <strong>di</strong> un’altra chiesa, che fu<br />

e<strong>di</strong>ficata <strong>di</strong> fronte all’imboccatura del porto interno, sulla cresta della collina <strong>di</strong><br />

ponente e con annessa un’alta torre – una specie <strong>di</strong> faro per i naviganti – in omaggio e<br />

gratitu<strong>di</strong>ne allo stratega greco Niceforo Foca.<br />

«L’e<strong>di</strong>ficio può essere presumibilmente identificato nella chiesa <strong>di</strong> San Basilio, che<br />

fungeva anche da faro grazie ad un’alta torre che la sovrastava. Essa, eretta secondo<br />

tra<strong>di</strong>zione locale al ritorno bizantino, era ancora visibile nel XVII secolo, come<br />

testimonia G. B. Casimiro, e in seguito andò <strong>di</strong>strutta per lasciare il posto ad abitazioni<br />

civili». [G. CARITO-S. BARONE 3 ]<br />

Il 18 ottobre 891 i Bizantini fondarono il Thema <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a con capitale Bari,<br />

che affiancò quello <strong>di</strong> Calabria con capitale Reggio e che con quella riorganizzazione<br />

non comprese più l’antica Calabria, ossia l’o<strong>di</strong>erno Salento, che invece fu parte del<br />

nuovo Thema <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a. La denominazione <strong>di</strong> Calabria, infatti, dopo essere stata<br />

estesa al Bruzio, a quell’epoca aveva già finito con l’abbandonare del tutto il suo<br />

originale territorio salentino.<br />

Con l’avvento del secolo seguente, il X, le coste adriatiche ritornarono ad essere<br />

ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono con frequenza quelli<br />

62


slavi, che nel 922 assaltarono per la prima volta Brin<strong>di</strong>si e vi ritornarono nel 926,<br />

dopo aver occupato Siponto; e poi, nel 929, giunsero anche gli Schiavoni <strong>di</strong> Sabir, che<br />

dopo aver – il 7 agosto 928 – preso Otranto, risalirono la costa fino a Termoli.<br />

«I Saraceni impiegarono ampiamente schiavi e mercenari slavi sulle loro navi e molti<br />

assursero anche a posizioni <strong>di</strong> comando e prestigio. Tra il 922 e il 924, lo slavo Mas‘ūd, a<br />

capo <strong>di</strong> venti navi saccheggiò la rocca <strong>di</strong> Sant’Agata. Poi, il 10 luglio 926 “compren<strong>di</strong>t,<br />

Michael rex Sclavorum, civitatem Sipontum”: un’irruzione slava il dì <strong>di</strong> santa Felicita,<br />

ch’ebbe a condottiere Iataches, che assaltò e prese la città <strong>di</strong> Siponto, estendendo le<br />

scorrerie anche più a sud. Tra il 927 e il 930, Ṣābir lo schiavone, si apprestò con una<br />

grande flotta alle coste dell’Italia meri<strong>di</strong>onale, dove con tre incursioni, ripetute a poca<br />

<strong>di</strong>stanza l’una dall’altra, saccheggiò varie città [da Otranto a Termoli] e catturò molti<br />

prigionieri». [M. Loffredo4]<br />

«Non cessa, però, la minaccia saracena e le incursioni ed i saccheggi continuano sulle<br />

coste calabresi e su quelle pugliesi. E ai Mussulmani si aggiungono ancora una volta gli<br />

Slavi: dopo aver perduto Siponto nel 936, tornano nel 939 e con loro Ungari e Schiavoni<br />

minacciando le coste e spingendosi all’interno della Capitanata e nell’entroterra<br />

tarantino e, ancora nel 947, asse<strong>di</strong>ando Conversano e Otranto». [T. PEDIO 5 ]<br />

Nel 970 il Thema <strong>di</strong> Calabria e quello <strong>di</strong> Langobar<strong>di</strong>a furono integrati per formare il<br />

Catapanato d’Italia e nel 976, successo a Giovanni Zimisce, l’imperatore bizantino<br />

Basilio II si trovò a dover gestire più urgentemente i fronti dell’Asia Minore e non ebbe<br />

<strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> truppe per stanziare contingenti <strong>di</strong> rinforzo a guar<strong>di</strong>a dell’Italia<br />

meri<strong>di</strong>onale e così, gli Arabi <strong>di</strong> Sicilia dell’emiro Abu Al-Kasim, ripresero a vessare le<br />

popolazioni della Calabria e della Puglia, che non riuscivano a garantirsi una buona<br />

<strong>di</strong>fesa militare con le sole guarnigioni citta<strong>di</strong>ne, insufficienti a proteggere le roccaforti.<br />

In quell’anno 976, gli Arabi risalirono la Calabria, giunsero alla Valle del Crati e<br />

asse<strong>di</strong>arono Cosenza, che fu costretta al pagamento <strong>di</strong> un tributo. Poi, nell’agosto del<br />

977, con gli eserciti <strong>di</strong> Al Kasim, giunsero a Taranto perseguendo lo stesso obiettivo,<br />

ma trovarono la città abbandonata dai suoi abitanti e la <strong>di</strong>strussero. Quin<strong>di</strong><br />

saccheggiarono nuovamente la vicina Oria bizantina e altri paesi del Capo. Poi, anche<br />

negli anni successivi, fino al 981, gli stessi Arabi misero ripetutamente a ferro e fuoco<br />

sia la Calabria che la Puglia, arrivando spesso a ridosso dei territori longobar<strong>di</strong>.<br />

In reazione, nel 982, il sacro romano imperatore Ottone II decise una spe<strong>di</strong>zione<br />

punitiva contro i Saraceni <strong>di</strong> Sicilia e, sceso nel Mezzogiorno, provò prima a ridurre la<br />

potenza bizantina nella regione costringendo all’obbe<strong>di</strong>enza i piccoli stati della<br />

Campania della Lucania e della Puglia, fino a Oria, Taranto e Bari, dove però il 13 luglio<br />

fu battuto dai Bizantini. Quin<strong>di</strong> l’imperatore si <strong>di</strong>resse verso la Calabria e la Sicilia,<br />

giungendo in quell’occasione ad un passo dalla vittoria contro gli Arabi, ma nella<br />

battaglia <strong>di</strong> Capo delle Colonne subì una completa <strong>di</strong>sfatta con almeno quattromila<br />

morti. Ottone II morì l’anno seguente e per qualche decennio sullo scenario del<br />

Meri<strong>di</strong>one italiano, anche l’azione militare antiaraba dell’impero <strong>di</strong> Occidente – allo<br />

stesso modo che quella dell’impero d’Oriente – praticamente scomparve.<br />

Nel 986 gli Arabi <strong>di</strong> Abu Said ripresero le ostilità contro la Calabria ritornando a<br />

Cosenza, <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>strussero le mura per poi <strong>di</strong>lagare fino in Puglia: a Bari nel 988, dove<br />

i sobborghi furono saccheggiati con gran traffico <strong>di</strong> prigionieri verso la Sicilia.<br />

Con il nuovo secolo e il nuovo millennio, le incursioni piratesche non <strong>di</strong>minuirono e<br />

interessarono sia la Puglia, per lo più Bari, e sia in Calabria la Valle del Crati e Cosenza.<br />

63


Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, insomma, la situazione<br />

generale delle coste e dell’entroterra nel tribolato Meri<strong>di</strong>one italiano, <strong>di</strong> nuovo, non<br />

poté essere più <strong>di</strong>sperata:<br />

«Assente l’impero bizantino nella lotta intrapresa dalle città pugliesi contro la pressione<br />

araba; impotenti ad intervenire i Longobar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Benevento e Capua, coinvolti in guerre<br />

intestine e quelli <strong>di</strong> Salerno timorosi della crescente potenza amalfitana; ormai in fase <strong>di</strong><br />

decadenza Gaeta, Napoli e Sorrento; inefficace la rapida apparizione del sacro<br />

imperatore Ottone III; le uniche forze in grado <strong>di</strong> opporsi ai Saraceni furono le<br />

repubbliche marinare, le quali si andavano affermando sul Tirreno con Pisa e,<br />

soprattutto, con Venezia sull’Adriatico». [T. PEDIO 5 ]<br />

Nella prima metà dell’XI secolo, dopo che nel 1005 l’esercito bizantino riconquistò<br />

le coste dalmate, Brin<strong>di</strong>si riacquistò imme<strong>di</strong>atamente l’antica strategicità – con il suo<br />

porto <strong>di</strong>rimpettaio a quello <strong>di</strong> Durazzo da cui partiva la via Egnazia che lo collegava<br />

alla capitale dell’impero – e i Bizantini ne intrapresero presto la ricostruzione.<br />

«La portata dell’investimento bizantino è valutabile grazie al testo dell’epigrafe datata<br />

alla prima metà dell’XI secolo, scolpita sul basamento <strong>di</strong> una [quella superstite] delle<br />

due colonne che dal promontorio <strong>di</strong> ponente guardavano proprio l’imboccatura del<br />

porto interno: Illustris pius actibus atque refulgens Protospatha Lupus urbem hanc struxit<br />

ab imo. Una formula che attribuisce al programma imperiale il valore <strong>di</strong> una vera e<br />

propria fondazione…». [R. ALAGGIO 6 ]<br />

Al contempo, il secolare arricchimento accumulato nell’isola aveva finito con<br />

indurre gli Arabi <strong>di</strong> Sicilia a non occuparsi più tanto <strong>di</strong> guerreggiare né <strong>di</strong> consolidarsi<br />

sul continente, quanto a godere dei tanti notevoli agi acquisiti. Un atteggiamento<br />

questo, che nei primi decenni dell’XI secolo permise alle forze bizantine <strong>di</strong> riprendere i<br />

territori dell’Italia peninsulare e <strong>di</strong> de<strong>di</strong>carsi a controllare le rivolte filoimperiali<br />

interne che in essi via via andavano scoppiando.<br />

Così, nel 1038 – quin<strong>di</strong> duecento anni dopo quella prima incursione saracena a<br />

Brin<strong>di</strong>si – le forze bizantine sbarcarono a Messina e si <strong>di</strong>ressero verso Siracusa,<br />

ponendo l’asse<strong>di</strong>o alla città. I Musulmani <strong>di</strong> Sicilia non riuscirono a rispondere per<br />

molto tempo alle forze greche e così, in quella prima metà dell’XI secolo, ebbe inizio la<br />

fine della <strong>storia</strong> islamica nell’isola e <strong>di</strong> conseguenza anche <strong>di</strong> quella nella penisola,<br />

lasciando lo scenario sgombro all’arrivo dei nuovi conquistatori: i Normanni.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

1 G. CARITO Lo stato politico economico della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli inizi del IV secolo all'anno 670 in<br />

"Brun<strong>di</strong>sii Res" - 1976<br />

2 G. CARITO Brin<strong>di</strong>si nell’XI secolo: da espressione geografica a civitas restituita - 2013<br />

3 G. CARITO-S. BARONE Brin<strong>di</strong>si cristiana dalle origini ai Normanni Brin<strong>di</strong>si - 1981<br />

4 M. LOFFREDO Presenze slave in Italia meri<strong>di</strong>onale (Secoli VI‐XI) in “Annali della Schola<br />

Salernitana” - 2015<br />

5 T. PEDIO La Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dai Longobar<strong>di</strong> ai Normanni in “Archivio Storico Pugliese” - 1976<br />

6 R. ALAGGIO Il me<strong>di</strong>oevo delle città italiane: Brin<strong>di</strong>si - 2015<br />

64


Brin<strong>di</strong>si nel regno normanno <strong>di</strong> Sicilia del XII secolo<br />

con un’appen<strong>di</strong>ce sulle istituzioni religiose a Brin<strong>di</strong>si nel XII Secolo<br />

Pubblicato su brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

La breve parabola del regno normanno <strong>di</strong> Sicilia<br />

Fu nel maggio del 1060 che nella bizantina Brin<strong>di</strong>si, per la prima volta, entrarono i<br />

Normanni <strong>di</strong> Roberto Altavilla, il Guiscardo. Ci rimasero però pochi mesi, fino a<br />

quando, in ottobre, il miriarca riconquistò la città. Poi nel 1062 il Guiscardo ne riprese<br />

il controllo per conservarlo fino al 1067, quando una flotta imperiale bizantina, al<br />

comando del katepano Michael Maurikas, riprese il controllo della rada <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Erano trascorsi quattro secoli da quando, nel 674, i Longobar<strong>di</strong> avevano conquistato e,<br />

<strong>di</strong> fatto, completamente <strong>di</strong>strutto Brin<strong>di</strong>si. Una <strong>di</strong>struzione che implicò la quasi totale<br />

cancellazione della città dalla mappa geografica, condannandola a secoli <strong>di</strong> miseria<br />

spopolamento e abbandono e riducendola a poco più che un’espressione geografica.<br />

Per quei lunghi secoli bui, infatti, non vi è quasi traccia <strong>di</strong> riferimenti alla vita<br />

economica o politica citta<strong>di</strong>na e, dopo qualche isolato timido tentativo, fu solo con l’XI<br />

secolo già inoltrato, che Brin<strong>di</strong>si provò a riacquistare parte della sua antica<br />

importanza, quando la <strong>di</strong>rimpettaia Durazzo e la via Egnazia ritornarono sotto il<br />

controllo <strong>di</strong> Costantinopoli, cioè dell’impero romano d’Oriente, stimolando quella<br />

circostanza, sia il rinnovato interesse dell’impero bizantino che finalmente decise <strong>di</strong><br />

intraprendere risolutamente la ricostruzione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e sia l’appetito conquistatore<br />

dei nuovi arrivati sulla scena del Mezzogiorno italiano, i nor<strong>di</strong>ci e intrepi<strong>di</strong> Normanni<br />

che, tra l’altro, neanche celavano troppo le loro mire già poste proprio su quell’impero.<br />

E così nel 1069, al katepano Michael Maurikas toccò <strong>di</strong>fendere - con successo - Brin<strong>di</strong>si<br />

da un nuovo attacco normanno condotto da Roberto il Guiscardo, sia per parte <strong>di</strong> terra<br />

che per parte <strong>di</strong> mare. L’anno seguente i Normanni tornarono ad asse<strong>di</strong>are la città e il<br />

comandante bizantino della piazza, lo strategos Nikephoros, tese un vile tranello agli<br />

asse<strong>di</strong>anti che, mentre con scale valicavano le mura, furono uccisi, un centinaio in<br />

tutto, e le loro teste tagliate furono inviate all’imperatore Romano IV. Ma<br />

quell’inganno servì solo a stimolare la reazione degli ingannati e a ritardare <strong>di</strong> poco la<br />

conquista normanna.<br />

Il Guiscardo - quarto duca <strong>di</strong> Puglia dal 1057, succeduto alla morte in sequenza dei<br />

suoi tre fratelli, Guglielmo Drogone e Umfredo, che lo avevano preceduto con quel<br />

titolo - nel sinodo <strong>di</strong> Melfi del 1059 si era <strong>di</strong>chiarato vassallo <strong>di</strong> papa Niccolò II in<br />

cambio dell’intitolazione del ducato <strong>di</strong> Puglia e Calabria, allora solo parzialmente sotto<br />

influenza bizantina, e della Sicilia, ancora in mano islamica. Così, una città dopo l’altra<br />

e una provincia dopo l’altra andarono perdute in favore dei Normanni, che nel 1071<br />

espugnarono Bari, l’ultima importante città bizantina e sede del Catepanato d’Italia e,<br />

infine, Brin<strong>di</strong>si, il cui governo, Roberto lo concesse al conte Goffredo, un suo nipote.<br />

Parallelamente, il 25 <strong>di</strong>cembre 1071, fu espugnata anche Palermo e fu fondata la<br />

contea <strong>di</strong> Sicilia il cui governo fu assunto da Ruggero I, fratello minore del Guiscardo,<br />

mentre questi - all’epoca lider <strong>di</strong> tutti i Normanni arrivati nel Mezzogiorno italiano - si<br />

de<strong>di</strong>cò alla conquista <strong>di</strong> Costantinopoli, non riuscendovi per poco: morì sull’isola greca<br />

<strong>di</strong> Cefalonia il 17 luglio 1085, durante una pausa della campagna <strong>di</strong> conquista.<br />

65


In seguito alla morte del Guiscardo, il ducato <strong>di</strong> Puglia e Calabria fu ere<strong>di</strong>tato dal<br />

secondogenito, Ruggero Borsa, nato dal secondo matrimonio con Sichelgaita, mentre<br />

al primogenito Boemondo, nato dal primo matrimonio con Alberada, dopo prolungate<br />

<strong>di</strong>spute e forti tensioni, e con la me<strong>di</strong>azione dello zio Ruggero I <strong>di</strong> Sicilia, fu assegnato<br />

il principato <strong>di</strong> Taranto che - fondato nel 1086-88 - comprese anche Brin<strong>di</strong>si.<br />

In Sicilia, qualche anno dopo, alla morte <strong>di</strong> Ruggero I avvenuta nel 1101, la contea<br />

passò in ere<strong>di</strong>tà al primogenito Simone, che però morì bambino nel 1105 e così, a<br />

succedere fu il secondogenito Ruggero II, sotto la reggenza della madre Adelasia fino<br />

al 1112.<br />

Quando nel 1127 morì senza ere<strong>di</strong> <strong>di</strong>retti il duca <strong>di</strong> Puglia e Calabria, Guglielmo, che<br />

era succeduto al padre Ruggero Borsa morto nel 1111, Ruggero II conte <strong>di</strong> Sicilia<br />

riven<strong>di</strong>cò il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> succedere al cugino e alla fine, facendo ricorso anche alla forza,<br />

più o meno tutti gli riconobbero la sovranità sui territori che erano stati dello zio, il<br />

Guiscardo.<br />

Finalmente, nel Natale dell’anno 1130, Ruggero II venne incoronato «re <strong>di</strong> Sicilia e<br />

Italia» dall’antipapa Anacleto II. Nel mezzogiorno d’Italia - unendo i territori della<br />

contea <strong>di</strong> Sicilia, del ducato <strong>di</strong> Puglia e Calabria, del ducato <strong>di</strong> Napoli, del principato <strong>di</strong><br />

Capua e dell’Abruzzo - era nato per la prima volta nella <strong>storia</strong> un regno unitario, il<br />

“Regno <strong>di</strong> Sicilia” con capitale Palermo, città cosmopolita, inaugurandosi un’epoca <strong>di</strong><br />

splendore e <strong>di</strong> guerre, interne ed esterne, per quel meri<strong>di</strong>onale nuovo regno.<br />

Nel 1154 Ruggero II morì e gli succedette il figlio Guglielmo I, detto il malo, che restò<br />

al potere fino al 1166. A succedergli fu il figlio Guglielmo II, che acconsentì al<br />

matrimonio <strong>di</strong> sua sorella Costanza con Enrico VI Hohenstaufen, figlio del Barbarossa.<br />

Alla morte <strong>di</strong> Guglielmo II senza ere<strong>di</strong> nel 1189, il regno normanno sopravvisse<br />

qualche anno ancora con Tancre<strong>di</strong>, conte <strong>di</strong> Lecce, nominato re. Tancre<strong>di</strong>, infatti, morì<br />

presto, nel 1194. Enrico VI riven<strong>di</strong>cò il regno <strong>di</strong> Sicilia e - dopo soli 64 anni dalla<br />

fondazione del regno - venne incoronato re a Palermo. Sua moglie Costanza, ultima<br />

<strong>di</strong>scendente degli Altavilla, non partecipò all’incoronazione perché dovette fermarsi a<br />

Jesi per dare alla luce Federico II, lo stupor mun<strong>di</strong>, destinato a ere<strong>di</strong>tare le due corone<br />

<strong>di</strong> Germania e <strong>di</strong> Sicilia.<br />

66


Per Brin<strong>di</strong>si una transizione tormentata<br />

In quel finire del 1130 e iniziare del 1131, al momento cioè della fondazione del regno,<br />

Brin<strong>di</strong>si orbitava nel principato <strong>di</strong> Taranto, che dalla sua costituzione nel 1086-88 era<br />

stato retto da Boemondo - primogenito del Guiscardo - morto nel 1111, e poi dal figlio<br />

Boemondo II morto proprio nel 1130 combattendo in Siria, il quale fin dal 1127 aveva<br />

però ceduto i suoi <strong>di</strong>ritti sul principato al potente cugino paterno, Ruggero II, conte <strong>di</strong><br />

Sicilia, duca <strong>di</strong> Puglia e Calabria e poi re <strong>di</strong> Sicilia. Boemondo II, infatti, aveva preferito<br />

trasferirsi in Oriente per occuparsi del principato <strong>di</strong> Antiochia, fondato nel 1098 in<br />

Siria sul sultanato <strong>di</strong> Damasco, dal padre Boemondo, nel corso della prima crociata.<br />

Signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e vassallo, prima del Guiscardo e poi del principe Boemondo, era<br />

stato il conte <strong>di</strong> Conversano, Goffredo figlio <strong>di</strong> Emma sorella del Guiscardo, morto nel<br />

1104 circa e succeduto dal figlio Tancre<strong>di</strong>, con la reggenza della scaltra madre<br />

Sichelgaita fino alla <strong>di</strong> lei morte, avvenuta intorno al 1110. Tancre<strong>di</strong>, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong>venne a<br />

tutti gli effetti comes Brundusii come vassallo <strong>di</strong> Boemondo II e poi <strong>di</strong> Ruggero II,<br />

entrambi suoi cugini, fino al 1132, quando la città <strong>di</strong>venne demaniale in seguito al<br />

fallimento della sua reiterata ribellione contro il novello re Ruggero II.<br />

Contro le pretese <strong>di</strong> Ruggero II <strong>di</strong> Sicilia, infatti, inizialmente sostenuti e aizzati dal<br />

papa Onorio II, si erano imme<strong>di</strong>atamente sollevati conti e baroni normanni, gelosi tutti<br />

dei loro privilegi, <strong>di</strong> fatto quasi sempre ere<strong>di</strong>tari, messi a repentaglio dal nuovo audace<br />

pretendente. Tra <strong>di</strong> loro Goffredo d’Andria, Girolamo <strong>di</strong> Bari, Roberto <strong>di</strong> Capua,<br />

Ruggero <strong>di</strong> Ariano, Rainulfo d’Alife e anche Tancre<strong>di</strong>, il conte <strong>di</strong> Conversano signore <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si. Ruggero II finì con l’aver ragione sulla coalizione ribelle e costrinse il papa<br />

Onorio II a riconoscere, con il negoziato del 22 agosto 1128, le sue pretese.<br />

Quin<strong>di</strong> Ruggero II ridusse uno ad uno tutti i baroni insorti e sottomise le loro città,<br />

Brin<strong>di</strong>si inclusa, che alla fine capitolò per fame dopo un prolungato e rigido asse<strong>di</strong>o.<br />

Tancre<strong>di</strong> in quell’occasione, fu in certa misura perdonato da dal cugino Ruggero II e fu<br />

quin<strong>di</strong> lasciato nominalmente a governare Brin<strong>di</strong>si.<br />

Ben presto però - con la venuta in Italia dell’imperatore Lotario II - Tancre<strong>di</strong> reincise<br />

nella ribellione contro il re <strong>di</strong> Sicilia e nel 1132 fu definitivamente scacciato da<br />

Ruggero II, che riprese la città e nel 1133 catturò Tancre<strong>di</strong> - asserragliatosi con altri<br />

ribelli in Montepeloso - perdonandogli la vita ma inviandolo prigioniero in Sicilia. Da lì<br />

Tancre<strong>di</strong>, se pur non tornò più ad essere signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, riuscì finalmente a<br />

ritornare a Conversano dove, nel 1148, finì i suoi giorni.<br />

Le ribellioni contro la corona <strong>di</strong> Sicilia però non cessarono, aizzate dal nuovo papa<br />

Innocenzo II e sostenute dall’imperatore tedesco Lotario II, il quale, ri<strong>di</strong>sceso in Puglia<br />

nel 1136 e con l’appoggio dei baroni capeggiati questa volta da Rainulfo d’Afile<br />

nominato duca dal papa, nel 1137 incalzò Ruggero II e lo costrinse a rifugiarsi in<br />

Sicilia.<br />

Poi, con il rientro in Germania e la successiva morte dell’imperatore, il re Ruggero II<br />

tornò alla riscossa e nel 1139 ebbe la meglio sul papa e tutti i suoi alleati ribelli. Li<br />

sconfisse, fece prigioniero il papa e lo costrinse al riconoscimento, con gli accor<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

Mignano del 25 luglio 1139, dei titoli dei suoi figli e del suo stesso sul regno dell’intero<br />

Meri<strong>di</strong>one. E fu in questo contesto che la città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si passò definitivamente al<br />

demanio dell’ormai consolidato regno normanno <strong>di</strong> Sicilia.<br />

67


Brin<strong>di</strong>si nel regno normanno <strong>di</strong> Sicilia<br />

I primi <strong>di</strong>eci anni trascorsi dalla fondazione del regno e quin<strong>di</strong> dall’appartenenza <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si allo stesso, per la città furono anni complicati, anni <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>menti complotti e<br />

quin<strong>di</strong> ribellioni contro il re Ruggero II, or<strong>di</strong>te prima dal recalcitrante reincidente<br />

Tancre<strong>di</strong>, conte <strong>di</strong> Conversano e signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, poi capeggiate da Rainulfo d’Afile.<br />

E, come è naturale che succeda in certi frangenti, in quegli anni furono quasi nulli per<br />

la città i progressi civili ed economici, producendosi <strong>di</strong> fatto la paralisi e il regresso del<br />

grande fenomeno espansivo - demografico e fisico - che era iniziato con la conquista<br />

normanna del 1071, impulsato da Goffredo conte <strong>di</strong> Conversano dominator <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

e da sua moglie Sichelgaita, i quali durante quarant’anni avevano, <strong>di</strong> fatto, “ricostruito”<br />

Brin<strong>di</strong>si dopo i precedenti lunghi e tristi quattro secoli <strong>di</strong> <strong>di</strong>struzione e abbandono.<br />

Del resto, con l’entrata della città nel regno, anche la <strong>di</strong>retta <strong>di</strong>pendenza dal sovrano e<br />

la lontananza dal potere contribuirono alla riduzione del processo espansivo, che poté<br />

riprendere lentamente il suo percorso solo grazie al rinnovato progre<strong>di</strong>re <strong>di</strong> quei<br />

movimenti <strong>di</strong> crocesegnati che già nei primi anni della ricostruzione avevano<br />

stimolato la creazione <strong>di</strong> strutture religiose e <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici assistenziali e ricettivi dei<br />

gran<strong>di</strong> flussi <strong>di</strong> soldati e pellegrini <strong>di</strong>retti in Oriente, gestite dagli or<strong>di</strong>ni monasticocavallereschi<br />

(*).<br />

Emblematico della ripresa, fu il completamento della costruzione della cattedrale<br />

iniziata nel 1089 dal conte Goffredo con la bene<strong>di</strong>zione in loco del papa Urbano II,<br />

giunto a Brin<strong>di</strong>si appositamente per quell’occasione. Un completamento realizzato tra<br />

gli anni 1139 e 1143, supportato <strong>di</strong>rettamente da Ruggero II e affiancato dal sorgere,<br />

lungo la strada magistri e nelle sue vicinanze, <strong>di</strong> numerosi altri importanti e<strong>di</strong>fici,<br />

legati alla rinnovata vocazione marinaresca e commerciale della città, o legati alla<br />

presenza <strong>di</strong> potenti armatori amalfitani veneziani genovesi e pisani, o <strong>di</strong>rettamente<br />

legati alle fortune personali <strong>di</strong> personaggi celebri, come la sfarzosa domus del grande<br />

ammiraglio Margarito, e<strong>di</strong>ficata nelle a<strong>di</strong>acenze della “rocca”.<br />

Ma presto risoffiarono su Brin<strong>di</strong>si i venti <strong>di</strong> guerra, portando inevitabilmente tempi<br />

ben più tristi <strong>di</strong> quelli precedenti, non ancora troppo lontani, già patiti dalla città. Il 26<br />

febbraio del 1154 morì a Palermo Ruggero II e, a novembre del seguente anno,<br />

l’imperatore bizantino Manuele I Comneno decise una nuova sortita sulla Puglia<br />

normanna. Inviò quin<strong>di</strong>, un poderoso esercito e una numerosa flotta sotto la guida del<br />

cugino Giovanni Dukas e <strong>di</strong> Michele Paleologo, contando nell’appoggio dei baroni<br />

pugliesi, <strong>di</strong> nuovo pronti a insorgere al seguito del conte Roberto III <strong>di</strong> Loretello<br />

contro il nuovo re normanno, Guglielmo I, che era succeduto al padre Ruggero II <strong>di</strong><br />

Sicilia.<br />

Senza aiuto dell’imperatore tedesco, Federico I il Barbarossa indeciso sul da farsi, ma<br />

con il papa Adriano IV non certo <strong>di</strong>spiaciuto, sostenuti da baroni normanni ribelli e da<br />

alcune città pugliesi, Brin<strong>di</strong>si inclusa, esercito e flotta <strong>di</strong> Manuele I Comneno poterono<br />

occupare le città della costa da Ancona a Brin<strong>di</strong>si e giungere fino a Taranto.<br />

Brin<strong>di</strong>si assunse un ruolo centrale nella vicenda ed è a Brin<strong>di</strong>si che, infatti, avvenne lo<br />

scontro finale. Guglielmo I, riorganizzato il suo esercito, ai primi del 1156 attraversò lo<br />

stretto con le sue forze terrestri mentre la sua marina puntò su Brin<strong>di</strong>si, tenacemente<br />

asse<strong>di</strong>ata dai soldati bizantini i quali, comandati da Giovanni Dukas e contando con la<br />

complicità dei loro numerosi partigiani locali, penetrarono le mura citta<strong>di</strong>ne.<br />

68


Entrati in città, i Bizantini posero l’asse<strong>di</strong>o alla “rocca” in cui si erano asserragliati i<br />

soldati normanni rimasti fedeli al re, cercando invano per quaranta giorni <strong>di</strong><br />

espugnarla dal mare guidati da Alessio Comneno, nipote dell’imperatore, da questi<br />

inviato con nuove navi cariche <strong>di</strong> soldati a rilevo <strong>di</strong> Michele Paleologo, morto a Bari.<br />

Guglielmo I giunse a Brin<strong>di</strong>si per mare e per terra. Debellati i Bizantini, conquistò con<br />

epica battaglia la città il 28 <strong>di</strong> maggio 1156, facendo prigionieri Giovanni Dukas,<br />

Alessio Conmeno e molti altri, che portò a Palermo, rilasciandoli solo dopo aver<br />

obbligato il papa e l’imperatore d’Oriente alla firma <strong>di</strong> una pace accon<strong>di</strong>scendente al<br />

suo dominio.<br />

Vinta la battaglia, Guglielmo I riservò miglior sorte ai prigionieri bizantini che ai suoi<br />

sud<strong>di</strong>ti ribelli. Brin<strong>di</strong>si fu risparmiata dalla <strong>di</strong>struzione totale solo grazie alla sua<br />

tenace resistenza all’asse<strong>di</strong>o, ma fu comunque saccheggiata, spopolata e ridotta in<br />

estrema miseria per castigare i suoi tra<strong>di</strong>tori ribelli, e tutti i mercenari catturati<br />

furono uccisi.<br />

L’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Lupo, che assisté alla devastazione della città operata dai<br />

vincitori, qualche mese dopo ottenne la grazia da Guglielmo I, recandosi in persona a<br />

Palermo e ricevendo finalmente la conferma dei privilegi propri della chiesa <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si precedentemente revocati in castigo per la supposta complicità con i ribelli.<br />

Bari fu rasa al suolo compresa la cattedrale. Fu risparmiata solo la basilica <strong>di</strong> San<br />

Nicola e gli abitanti ebbero due giorni per mettersi in salvo coi propri averi. Anche le<br />

altre città ribelli della Puglia furono punite duramente dal sovrano tra<strong>di</strong>to e<br />

finalmente vincitore.<br />

Quell’epica battaglia vinta dai Normanni nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il 28 maggio 1156,<br />

consegnò definitivamente la Puglia all’Occidente e sancì il fallimento dell’ultimo<br />

tentativo bizantino <strong>di</strong> riconquistare militarmente l’Italia.<br />

Guglielmo I il malo morì <strong>di</strong>eci anni dopo, nel 1166, e gli succedette il figlio Guglielmo<br />

II, detto il buono, mentre Brin<strong>di</strong>si “a stento risparmiata dal fuoco” si era molto<br />

lentamente e solo parzialmente recuperata dalla profonda depressione in cui l’aveva<br />

lasciata immersa la combattutissima feroce battaglia della primavera del 1156.<br />

Grande ammiraglio, leale militare e ministro consigliere <strong>di</strong> questo nuovo e “buon” re<br />

fu Margarito da Brin<strong>di</strong>si, detto Margaritone. Un brin<strong>di</strong>sino dunque, anche se più<br />

probabilmente greco, originario <strong>di</strong> Zante o Megara, che sposò Marina, figlia illegittima<br />

<strong>di</strong> Guglielmo I. Margarito compì numerose gesta sul mare per conto <strong>di</strong> Guglielmo II.<br />

Nella primavera del 1186, in un’offensiva contro l’impero bizantino, occupò le isole<br />

Ionie, in un’azione che rappresentò una cesura nella <strong>storia</strong> dell’arcipelago fino a quel<br />

momento strettamente associata a quella della Grecia continentale e le tre isole <strong>di</strong><br />

Zante Cefalonia e Strifali <strong>di</strong>vennero posse<strong>di</strong>mento personale <strong>di</strong> Margarito.<br />

In seguito, compì la sua prima grande impresa militare che costò a Bisanzio la per<strong>di</strong>ta<br />

pressoché totale della flotta, in uno scontro avvenuto nell’estate 1186 sulle coste <strong>di</strong><br />

Cipro. Margarito si impadronì rocambolescamente <strong>di</strong> 70 triremi costantinopolitane,<br />

facendone poi prigionieri gli equipaggi.<br />

L’anno seguente, al comando della flotta <strong>di</strong> Sicilia riuscì a porre a salvo sulle sue navi e<br />

a trasportare in Sicilia, i cristiani fuggiti da Gerusalemme, che era stata occupata da<br />

Sala<strong>di</strong>no il 2 ottobre 1187. Ai Crociati rimase allora, solo il controllo <strong>di</strong> Tiro, Tripoli e<br />

69


Antiochia e buona parte del merito nella persistenza <strong>di</strong> questi presi<strong>di</strong> cristiani in<br />

Oriente, fu accre<strong>di</strong>tata a Margarito, il quale nel 1188 portò efficacemente soccorso alla<br />

città <strong>di</strong> Tiro, in cui Corrado marchese <strong>di</strong> Monferrato era asse<strong>di</strong>ato dai Saraceni.<br />

Nel 1189, quando morì il re Guglielmo II, Margarito fu tra i sostenitori della nomina a<br />

re <strong>di</strong> Tancre<strong>di</strong>, già conte <strong>di</strong> Lecce, il quale finalmente assunse la corona il 18 gennaio<br />

1190. Margarito, infatti, fu fra i protagonisti della resistenza opposta nel 1191<br />

all’armata imperiale <strong>di</strong> Enrico VI <strong>di</strong> Svevia, assicurando i rifornimenti a Napoli<br />

asse<strong>di</strong>ata dalle truppe imperiali e mettendo in fuga le navi pisane e genovesi che<br />

sostenevano l’armata e, ad<strong>di</strong>rittura, catturando l’imperatrice Costanza e trasferendola<br />

a Palermo.<br />

Famosa fu la sontuosa <strong>di</strong>mora che il grande ammiraglio Margarito - nominato conte <strong>di</strong><br />

Malta dal re Tancre<strong>di</strong> - si fece costruire a Brin<strong>di</strong>si in prossimità della ‘’rocca’’, il<br />

palazzo nominato Domus Margariti, una casa per quei tempi certamente splen<strong>di</strong>da,<br />

con bagni, giar<strong>di</strong>ni, e quant’altro.<br />

In quella casa, nel febbraio 1191, mentre il re Riccardo d’Inghilterra sostava a Messina<br />

con Filippo Augusto <strong>di</strong> Francia prima <strong>di</strong> intraprendere la nuova spe<strong>di</strong>zione crociata,<br />

furono ospitate sua madre, Eleonora <strong>di</strong> Aquitania, e la sua promessa sposa, Berengaria<br />

<strong>di</strong> Navarra. Berengaria poi, con Giovanna, sorella <strong>di</strong> Riccardo, s’imbarcò per la Siria,<br />

celebrandosi infine il suo matrimonio con il re inglese, a Cipro, il seguente 12 maggio.<br />

Pochi anni dopo la sua incoronazione, il re Tancre<strong>di</strong> decise <strong>di</strong> far investire<br />

ufficialmente a re <strong>di</strong> Sicilia il suo primogenito Ruggero, e la cerimonia dell’investitura<br />

si celebrò sul finire dell’estate del 1192 nella cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, in attesa della<br />

cerimonia d’incoronazione che si sarebbe dovuta svolgere a Palermo. E così Ruggero<br />

III prese in mano il regno al fianco del padre Tancre<strong>di</strong>.<br />

Tancre<strong>di</strong> poi, a complemento del suo progetto strategico <strong>di</strong> pacificazione con l’impero<br />

d’Oriente, ideò e concordò il matrimonio del figlio Ruggero III con Irene Angelo, figlia<br />

dell’imperatore bizantino Isacco II Angelo, che si celebrò nel giugno 1193 nella<br />

cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. E per l’occasione si ricostruì la romana “fontana grande”, che da<br />

allora in poi fu chiamata “fontana Tancre<strong>di</strong>”.<br />

Quel matrimonio, determinando uno stretto rapporto <strong>di</strong> parentela, nelle intenzioni <strong>di</strong><br />

Tancre<strong>di</strong> avrebbe comportato una nuova fase nei rapporti fra Greci e Normanni,<br />

rinunciandosi a politiche d’espansione territoriale degli uni ai danni degli altri. Ma il<br />

24 <strong>di</strong>cembre 1193, con soli <strong>di</strong>ciannove anni d’età, Ruggero III morì improvvisamente.<br />

Al suo posto Tancre<strong>di</strong> designò re <strong>di</strong> Sicilia l’altro figlio, Guglielmo III, <strong>di</strong> solo nove anni,<br />

affidando la reggenza alla moglie Sibilla. Lo stesso Tancre<strong>di</strong> poi, morì l’anno dopo, il 20<br />

febbraio 1194, all’età <strong>di</strong> 55 anni.<br />

E in quell’anno 1194, lo stesso della fine del regno normanno, Margarito completò in<br />

Brin<strong>di</strong>si l’abazia, fuori porta Lecce, che fu poi detta <strong>di</strong> Santa Maria del Ponte, presso la<br />

quale era inse<strong>di</strong>ato un gruppo <strong>di</strong> canonici premostratensi provenienti dal San Samuele<br />

<strong>di</strong> Barletta.<br />

Poi però, anche la fortuna <strong>di</strong> Margarito decadde e il grande ammiraglio morì in<br />

<strong>di</strong>sgrazia, qualche anno dopo essere stato accecato e condotto prigioniero in Germania<br />

dagli Svevi, nuovi sovrani del regno <strong>di</strong> Sicilia… quando una nuova <strong>storia</strong> era già<br />

iniziata.<br />

70


APPENDICE<br />

(*) LE ISTITUZIONI RELIGIOSE A BRINDISI NEL XII SECOLO<br />

Estratto da: Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel XII secolo, in “Parola e <strong>storia</strong>”, IV (2010), n.1 ‐ <strong>di</strong> G. Carito<br />

Ospizi o ospedali per i crocesignati o i pellegrini <strong>di</strong>retti in Terra Santa erano lungo il<br />

grande itinerario che aveva uno snodo essenziale nei porti pugliesi e fra questi, in particolare,<br />

Brin<strong>di</strong>si. Qui, a vantaggio dei viaggiatori, erano se<strong>di</strong> dei teutonici, dei templari, dei lazzariti,<br />

dei giovanniti, degli ospitalieri del Santo Spirito e dei canonici regolari del Santo Sepolcro,<br />

oltre a istituzioni locali quali gli ospedali <strong>di</strong> San Tommaso, Tutti i Santi, Sant’Egi<strong>di</strong>o e San<br />

Martino; è da credere che gli ospizi per i pellegrini, almeno in origine, fossero fondati<br />

fuori delle mura e poi compresi nella nuova cerchia muraria voluta in età sveva.<br />

Il sovrano militare ospedaliero or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Malta fu in origine un ospizio per pellegrini in<br />

Gerusalemme con a<strong>di</strong>acente chiesa sotto il titolo <strong>di</strong> San Giovanni Battista. Nel 1113 il<br />

pontefice Pasquale II ne approvò l'istituzione ponendolo sotto la protezione della Santa Sede;<br />

circa il 1136 si militarizzò per assicurare protezione armata ad ammalati e pellegrini.<br />

L'or<strong>di</strong>ne, in Brin<strong>di</strong>si dal 1156, nel tempo ebbe qui due case.<br />

Il 1169 è accertata per la prima volta a Brin<strong>di</strong>si la presenza <strong>di</strong> una casa templare con<br />

posse<strong>di</strong>menti nel leccese. L’or<strong>di</strong>ne ebbe nel regno <strong>di</strong> Sicilia ampia <strong>di</strong>ffusione in epoca<br />

normanna, successivamente al 1139, anno in cui fu raggiunta la pace tra Ruggero II<br />

d'Altavilla, re <strong>di</strong> Sicilia (1130-1154), fedele alla causa dell’antipapa Anacleto II (1131-<br />

1138), e il pontefice Innocenzo II (1130-1143). Le domus gerosolimitane rosso-crociate,<br />

comprese nella provincia d’Apulia, poi, in età sveva, d’Apulia e Sicilia, furono presto<br />

presenti nelle più importanti città portuali: in Trani, Molfetta, già nel 1148, Barletta almeno<br />

dal 1169, Matera dal 1170, B ari, Andria, Foggia, sul finire dell’XI secolo, Troia, anteriore al<br />

1190 e Salpi, documentata nel 1196. Tra le se<strong>di</strong> più importanti va menzionata quella <strong>di</strong><br />

Barletta, casa provinciale sino al processo che determinò la soppressione dell’or<strong>di</strong>ne. Accanto<br />

a Venezia, Genova e Pisa, dove i Templari hanno se<strong>di</strong> legate ai traffici delle repubbliche<br />

marinare con l'oriente, sono i p orti <strong>di</strong> Barletta, Bari, Brin<strong>di</strong>si e Messina a venire considerati<br />

veri e propri centri <strong>di</strong> smistamento per cavalieri, cavalli e ogni genere necessario per la dura<br />

permanenza in Terra Santa. La loro presenza si articola su e<strong>di</strong>fici civili, spesso esito <strong>di</strong><br />

donazioni, chiese e depositi generalmente ben amministrati. I Templari dovevano<br />

autogestirsi e produrre eccedenze per i confratelli lontani impegnati in battaglia: il red<strong>di</strong>to<br />

prima <strong>di</strong> tutto. I compiti dei monaci vengono in<strong>di</strong>rizzati alla bonifica <strong>di</strong> terreni paludosi, alla<br />

costruzione <strong>di</strong> ponti e alla manutenzione <strong>di</strong> strade, <strong>di</strong>ventate ormai sempre più crocevia per lo<br />

scambio <strong>di</strong> idee e cultura con il mondo orientale. Probabilmente originario <strong>di</strong> Nocera è anche<br />

quel Guglielmo "de Nozeta", precettore della domus templare "de Bran<strong>di</strong>si en Polha", cioè<br />

Brin<strong>di</strong>si in Puglia che si sa il 1196 «guidata e amministrata da Ambrogio».<br />

La comunità ospedaliera Sacra Domus hospitalis Sanctae Mariae Theutonicorum in<br />

Jherusalem, sorta nel 1190, casa madre dell'or<strong>di</strong>ne teutonico, già nel 1191 ebbe una casa in<br />

Brin<strong>di</strong>si. Nel giugno <strong>di</strong> quell'anno «frater Guinandus magister hospitalis Alamannorum quod in<br />

Brundusino noviter est constructum» promise soggezione e dovuta reverenza all'arcivescovo<br />

<strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e alla sua Chiesa. Il metropolita aveva concesso la possibilità <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficare la chiesa<br />

<strong>di</strong> Santa Maria degli Alemanni con annessa area cimiteriale, che fosse lecito a quei chierici<br />

offrire il «corpus Domini cum confessione omnibus peregrinis intra vel extra civitatem<br />

jacentibus», portare la «Crucem tam intus per civitatem quam extra et circa ecclesiam et<br />

ejusdem cimiterium [...] fontem bene<strong>di</strong>cere et juxta morem et consuetu<strong>di</strong>nem sancte matris<br />

Brundusine ecclesie baptizare». Quanti in futuro avessero da servire la Chiesa, avrebbero<br />

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potuto farlo solo con permesso dell'or<strong>di</strong>nario <strong>di</strong>ocesano, o in sede vacante, del capitolo. Ai<br />

religiosi incombeva ancora l'obbligo <strong>di</strong> dar notizia delle donazioni ricevute, <strong>di</strong> partecipare<br />

ai sino<strong>di</strong> <strong>di</strong>ocesani, <strong>di</strong> conferire la quarte parte «eorum omnium que ad nos sive ecclesiam vel<br />

domum pervenerint quoquo titulo derelicti», <strong>di</strong> prender parte alle processioni delle Palme e<br />

dell'Ascensione, <strong>di</strong> ricevere gli oli santi esclusivamente «a Brundusina ecclesia», <strong>di</strong> non<br />

suonar le campane «nisi prius pulsentur campane sancte Brundusine ecclesie», <strong>di</strong> versare,<br />

per annuo censo, nel giorno <strong>di</strong> san Leucio, venti «aureos tarenos de Sicilia». L’accordo è<br />

sottoscritto da Guinandus e dai confratelli Artimonus, Elbertus, Membertus e Ugo.<br />

L'Ordo sancti Lazari Hierosolimitani, era in origine un os pedale che in Gerusalemme si<br />

de<strong>di</strong>cava alla cura dei lebbrosi con l'ausilio <strong>di</strong> una confraternita e nel 1120 si organizzò in<br />

comunità assumendo la regola <strong>di</strong> sant'Agostino. Si trattava <strong>di</strong> lebbrosi che conducevano vita<br />

conventuale; tra loro, pur se l'accesso era aperto a sani, era scelto il maestro. Il re <strong>di</strong><br />

Gerusalemme Baldovino IV (1174-1185) ne promosse la militarizzazione; caduta la città<br />

santa, la casa madre dell'or<strong>di</strong>ne si spostò a San Giovanni d'Acri. Si erano, nel frattempo, aperte<br />

molte case in Europa; fra queste, quella <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> cui è notizia in un documento del 22 g<br />

ennaio 1245 per il quale Flamenga «filia Franci de Tipoldo Rubeo civis Brundusii» <strong>di</strong>spone<br />

che, in sua morte, si <strong>di</strong>ano «pro induen<strong>di</strong>s infirmis Sancti Lazari» «uncias auri tres» e «pro<br />

indumentis fratrum Sancti Lazari tarenos septem et <strong>di</strong>mi<strong>di</strong>um». Imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong>pendente<br />

dalla Santa Sede, cui era obbligata per «unum Marabutinum» annuo, pare essere stata la<br />

«ecclesia Sancti Thomae, cum hospitale a Logotheto ae<strong>di</strong>ficato» <strong>di</strong> cui è memoria in un<br />

documento del 1192. Dové tuttavia rientrare sotto la giuris<strong>di</strong>zione dell'or<strong>di</strong>nario perché, da<br />

un documento del 1260, San Tommaso risulta dovere annualmente 15 tarì d'oro alla sede<br />

metropolitana. Il complesso è stato ubicato, pur con approssimazione e dubitativamente,<br />

presso l'attuale piazza Vittoria; doveva avere notevole importanza prendendo da esso nome<br />

il pittachio in cui è inserito.<br />

Gli ospitalieri <strong>di</strong> Santo Spirito presero avvio a iniziativa <strong>di</strong> Guido <strong>di</strong> Montpellier, circa il 1175,<br />

in Francia. Celebre fu il loro ospedale <strong>di</strong> Santa Maria in Sassia a Roma voluto dal pontefice<br />

Innocenzo III con la primaria finalità d'offrire ospitalità ai pellegrini. La loro ipotizzata<br />

presenza in Brin<strong>di</strong>si non può essere collegata tuttavia con la chiesa <strong>di</strong> Santo Spirito; nel 1180<br />

«rex Guglielmo II de<strong>di</strong>t enim S. Spiritus in Portu Brundusii» alla chiesa <strong>di</strong> Monreale. Nel giugno<br />

1185 l'arcivescovo brin<strong>di</strong>sino Pietro da Bisignano «jura omnia, quae in eadem ecclesia<br />

habebat, de consensu sui capituli, Archiepicopo Guillelmo ejusque Monachis concessit»<br />

associandosi così “ai numerosi vescovi che concorsero alla dotazione <strong>di</strong> Monreale”. In<br />

quell'anno, nel giugno, furono a Brin<strong>di</strong>si, in uno col sovrano, Gualtiero, arcivescovo <strong>di</strong><br />

Palermo, Guglielmo, arcivescovo <strong>di</strong> Monreale, Bartolomeo, vescovo <strong>di</strong> Agrigento e Matteo<br />

«regni vicecancellarii»; nell'occasione, verosimilmente, può esser stata definita in ogni aspetto<br />

la donazione. Nel 1187 un documento, concernente la soluzione del contenzioso in atto tra il<br />

Santo Spirito e le benedettine <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, è sottoscritto da «Robertus de Gallipoli et prior<br />

ecclesie Sancti Spiritus de Brundusio»; in quell'anno Roberto o Ruggero «monacus Sancte Marie<br />

Montis Regalis et prior ecclesie» <strong>di</strong> Santo Spirito <strong>di</strong>chiara che Pietro, allora «electus Sancte<br />

Trinitatis de Venusio», suo predecessore, aveva ottenuto «terras regias ad laborandum»,<br />

ubicabili fra Mesagne e Sandonaci. Su «una petia terre que est in loco Calviniano» era sorta<br />

tuttavia controversia con le benedettine <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che si erano rivolte a Tancre<strong>di</strong> «comitem<br />

Licii Magnum Comestabulum et Magnum Iusticiarium Apulie et Terre Laboris» per ottenere<br />

giustizia. Ruggero, consapevole che «dominum et patrem meum Guillelmum venerabilem<br />

Montis Regalis Archiepiscopum [...] posse multa juste et rationabiliter acquirere et possidere et<br />

nihil iniuste et cum anime periculo velle querere vel quesitum retinere» rinunzia a ogni <strong>di</strong>ritto<br />

sui terreni in contestazione. Il Santo Spirito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si è, con evidenza, in un arco <strong>di</strong> relazioni<br />

che, comprendendo la Trinità <strong>di</strong> Venosa e il monastero <strong>di</strong> Monreale, rimanda ad ambito<br />

benedettino. È noto, del resto, come alla <strong>di</strong>gnità arcivescovile monrealese fosse connessa<br />

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quella abbaziale; Rogerius, facendo riferimento al proprio abate-metropolita, consente <strong>di</strong><br />

delineare il rapporto <strong>di</strong> subor<strong>di</strong>nazione del Santo Spirito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a Monreale. Il 21 aprile<br />

1198 il pontefice Innocenzo III, or<strong>di</strong>nò al capitolo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> provvedere circa la<br />

controversia insorta «inter monachos Montis Regalis et Maximianum Notarium, qui terras de<br />

jureEcclesiae S. Spiritus occupaverat».<br />

L'or<strong>di</strong>ne canonicale del Santo Sepolcro <strong>di</strong> Nostro Signore Gesù Cristo, a Gerusalemme, vide<br />

riconosciuta la propria istituzione dal pontefice Callisto II nel 1122. Non fu mai un or<strong>di</strong>ne<br />

militare e espresse la propria spiritualità anche nell'architettura delle proprie chiese ispirata<br />

alla basilica del Santo Sepolcro <strong>di</strong> Gerusalemme per l'Anastasi, con riferimento alla<br />

Resurrezione, e l'E<strong>di</strong>cola, con riferimento alla tomba e quin<strong>di</strong> alla morte. Sono elementi<br />

presenti nella chiesa del Santo Sepolcro <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si riproduzione fedele della rotondamausoleo<br />

gerosolimitana [...] la liturgia è da immaginare ispirata al rituale e alla gestualità<br />

simbolica della celebrazione gerosolimitana della Settimana Santa. Il rito è probabile si<br />

svolgesse intorno a un'e<strong>di</strong>cola lignea, non avendo lasciato tracce <strong>di</strong> sé, collocata al centro della<br />

chiesa, come appunto l'e<strong>di</strong>cola nell'Anastasis. Si è ritenuto possibile che il complesso<br />

brin<strong>di</strong>sino fosse, inizialmente, pertinenza della casa d'Altavilla per l'ipotesi che lo vuole<br />

costruito a iniziativa <strong>di</strong> Boemondo. Nei documenti del XII-XIII secolo non mancano riferimenti<br />

al complesso; nel 1126-1129, Arnono priore del Santo Sepolcro <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si è fra i giu<strong>di</strong>ci<br />

chiamati a <strong>di</strong>rimere la controversia fra le benedettine <strong>di</strong> Santa Maria Veterana e l'arcivescovo<br />

Bailardo. Nell’aprile del 1187 ne è priore “Rogerius monacus Sancte Marie Montis Regali et<br />

prior ecclesie Sancti Sepulcri de Brundusio”, successore nell’incarico a Pietro traslato alla<br />

“Sancte Trinitatis de Venusio”.Nel 1128 la chiesa risulta pertinenza dei canonici regolari del<br />

Santo Sepolcro; in quell'anno il pontefice Onorio II (1124-1130) elencandone beni e<br />

<strong>di</strong>pendenze, fa esplicito riferimento “in civitate Brundusina, ecclesiam Sancti Sepulcri et<br />

ecclesiam Sancti Laurentii cum omnibus pertinentiis earum”; analoghe attestazioni si avranno<br />

da parte dei pontefici Innocenzo II (1130-1143) il 26 luglio 1138 e 27 aprile 1139, Celestino II<br />

(1143-1144) il 10 gennaio 1144, Eugenio III (1145-1153) il 13 luglio 1146, Alessandro III<br />

(1159-1181) il 9 settembre 1170, Lucio III (1181-1185) il 30 giugno 1182.<br />

Il Can<strong>di</strong>dus et Canonicus Ordo Praemostratensis, sorto il Natale del 1121, a iniziativa <strong>di</strong> san<br />

Norberto, allorché i 40 chierici che erano a Prémontré emisero i voti, fu nel 1126 riconosciuto<br />

da papa Onorio II con la denominazione “Canonici Regolari <strong>di</strong> Sant'Agostino secondo la forma<br />

<strong>di</strong> vita della chiesa <strong>di</strong> Prémontré”. L'or<strong>di</strong>ne, il cui ideale era la formazione <strong>di</strong> chierici, riuniti in<br />

monastero, tali da esercitare un forte influsso spirituale, ebbe a Brin<strong>di</strong>si una delle sue poche<br />

case italiane. Era l'abbazia <strong>di</strong> Santa Maria del Ponte, ubicabile presso la foce del Palmarini-<br />

Patri; qui, circa il 1180, vi si inse<strong>di</strong>arono premostratensi provenienti dal San Samuele <strong>di</strong><br />

Barletta. La sua costruzione, avviata «ex populi devotione», si completò grazie alla munificenza<br />

<strong>di</strong> Margarito da Brin<strong>di</strong>si; nel 1194 Celestino III (1191-1198) assicurò al grande ammiraglio<br />

che il complesso sarebbe stato esente da qualunque giuris<strong>di</strong>zione e imme<strong>di</strong>atamente soggetto<br />

alla Santa Sede cui doveva annualmente un'oncia «auri tarenorum Sicilie». A esso avrebbero<br />

dovuto far riferimento le chiese brin<strong>di</strong>sine <strong>di</strong> Santa Margherita, <strong>di</strong> cui è memoria<br />

dell'ubicazione nell'omonima via, e San Demetrio, forse sull'attuale vico Seminario.<br />

L'ospedale <strong>di</strong> Tutti i Santi era attivo già nel 1122. In quell'anno il suo priore Adelardo fu tra i<br />

prelati chiamati a <strong>di</strong>rimere la controversia insorta fra le benedettine <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e<br />

l'arcivescovo Bailardo (1122-1143) che intendeva riportarle sotto la propria giuris<strong>di</strong>zione.<br />

Del complesso, sul sito o nei pressi dell'attuale chiesa <strong>di</strong> San Sebastiano e con annessa area<br />

cimiteriale, è memoria in un documento del 1292; può dunque ritenersi attivo ben oltre l'età<br />

federiciana. Potrebbe pensarsi benedettino e <strong>di</strong>pendente dall'abbazia <strong>di</strong> Sant'Andrea<br />

dell'Isola che ebbe il possesso del giar<strong>di</strong>no <strong>di</strong> terra vacua <strong>di</strong> tomola due et mezzo in circa [...]<br />

con più puzzi d'acqua surgente, che stanno affogati, et uno con acqua, con una casa in mezo<br />

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con lamia, et coverta d'imbrici; che sotto <strong>di</strong> quella vi è una cascata, che prima era ingegna<br />

d'acqua per detto giar<strong>di</strong>no [...] sito dentro la città <strong>di</strong> Brindesi in loco detto lo Puzzolillo<br />

<strong>di</strong>etro la piazza pub(bli)ca in loco principale della città circondato da habitationi à torno, et da<br />

due parti vie publiche l'una detta della Mena, che viene alla piazza et l'altra si và et viene per<br />

avanti la cappella <strong>di</strong> San Sebastiano, quale sta congionta con detto giar<strong>di</strong>no.<br />

Nel 1059, Eustachio, arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si residente in Oria, donò l'isola <strong>di</strong> Sant'Andrea ai<br />

baresi Melo e Teudelmanno perché vi e<strong>di</strong>ficassero un monastero. In effetti, il monastero - cui<br />

furono concesse le ren<strong>di</strong>te rinvenienti dalla chiesa <strong>di</strong> San Nicola in Brin<strong>di</strong>si e dalla metà dei<br />

canali Delta e Luciana, Fiume Grande e Fiume Piccolo, ove si praticava la coltivazione del lino -<br />

fu e<strong>di</strong>ficato e vi risiedettero, sino al 1348, monaci dell’or<strong>di</strong>ne benedettino. Primo abate del<br />

monastero fu il barese Melo; gli successe Lucio mentre, nel 1092, riveste questo incarico<br />

Antonio. Vastissimi erano i possessi dell'abbazia <strong>di</strong> Sant’Andrea in insula comprendendo il<br />

casale <strong>di</strong> Maleniano, sul sito dell'attuale Latiano, il feudo <strong>di</strong> Campo Longobardo o Campie<br />

<strong>di</strong>strutto, fra San Vito e Mesagne esteso sui terreni che sarebbero poi stati delle masserie<br />

Signoranna, Zambardo, Para<strong>di</strong>so, Belloluogo, Campi e Campistrutto, il feudo <strong>di</strong> San Giovanni<br />

Monicantonio, presso Villa Baldassarri, le masserie Boessa, Formica, Pozzo <strong>di</strong> Vito, Jannuzzo e<br />

La Monaca in agro <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, i feu<strong>di</strong> Vasco Grande, Vasco Piccolo, Vasco Nuovo e<br />

Intappiati estendentisi dalla foce del Cillarese, lungo il p orto interno e il porto me<strong>di</strong>o, s<br />

ino al litorale oggi della Sciaia, i te rreni nelle contrade Maurizio e Li Cornuli fra Latiano,<br />

Mesagne e San Pancrazio. Fra le chiese <strong>di</strong>pendenti da Sant'Andrea, ubicate al Vasco e agli<br />

Intappiati, cara ai naviganti era quella <strong>di</strong> Mater Domini, piú tar<strong>di</strong> <strong>di</strong> San Leonardo,<br />

nell'area che sarebbe stata occupata dalla Stazione Quarantenaria, “con pittura a oglio<br />

<strong>di</strong> detta Santissima Madre <strong>di</strong> Dio <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>ssima <strong>di</strong>votione, con celebratione <strong>di</strong> messa da'<br />

suoi devoti”. I normanni avevano peraltro reso al monastero il controllo <strong>di</strong> non pochi<br />

inse<strong>di</strong>amenti in grotta già interessati dalla presenza <strong>di</strong> religiosi provenienti dall'area siropalestinese<br />

o comunque <strong>di</strong> cultura e sentire bizantino. Tali erano San Biagio a Jannuzzo e San<br />

Giovanni a Cafaro, entrambi sul corso del canale Reale; l'inse<strong>di</strong>amento <strong>di</strong> Jannuzzo si sviluppa<br />

intorno a un'altura. Grotte <strong>di</strong> varia ampiezza, in cui sono giacigli scavati nella roccia, piccole<br />

nicchie e portalampade, sono tutte intorno alla grotta-chiesa, rettangolare, con ingresso a<br />

nord. Parte della volta e delle pareti laterali sono con affreschi realizzati, secondo la data<br />

fornita da un testo epigrafico in sito, fra il 1196 e il 1197, su commissione dell'egumeno<br />

Benedetto e grazie all'aiuto finanziario <strong>di</strong> Matteo, dal pittore Daniele e dal suo aiuto Martino.<br />

L'iniziativa, che sottende il ritiro <strong>di</strong> gruppi <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni in eremi oltre la linea delle terre<br />

coltivate, è comprensibile nel contesto degli avvenimenti che portano alla presa <strong>di</strong> potere da<br />

parte <strong>di</strong> Enrico VI nel 1194 e , dopo la sua morte nel 1197, al <strong>di</strong>lagare dell'anarchia nel regno;<br />

greci e normanni <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si legati al grande ammiraglio Margaritone, imprigionato e accecato<br />

dallo svevo, furono costretti a ritirarsi nelle campagne riprendendo, seguita la morte<br />

dell'imperatore, il controllo della città nel 1198-99. La grotta-chiesa <strong>di</strong> San Giovanni in<br />

contrada Cafaro è parte <strong>di</strong> un complesso costituito da altre quattro grotte, semicircolari e<br />

intercomunicanti, con giacigli e nicchie incavate nella roccia; gli affreschi, accompagnati da<br />

iscrizioni latine, sono attribuibili al XII secolo. In città, il patrimonio immobiliare del<br />

monastero è concentrato nell'area compresa fra le Colonne del Porto e la vecchia rocca<br />

normanna comprendendo i pianori fra le attuali vie Montenegro e Fontana Salsa e gran parte<br />

della fascia compresa fra via Colonne e la Marina, incluso il vicinato <strong>di</strong> San Giovanni dei Greci.<br />

La chiesa <strong>di</strong> San Benedetto esisteva già nel 1089 ed era intitolata a Santa Maria Veterana. Tra<br />

XI e XII secolo fu restaurata e trasformata in una chiesa a sala con applicazione <strong>di</strong> una crociera<br />

cupoliforme costolonata <strong>di</strong> tipo arcaico. Nel corso del XII secolo le benedettine - le monache<br />

nere del monastero- <strong>di</strong>fenderanno con successo la propria autonomia contro ogni tentativo<br />

d'ingerenza dell'or<strong>di</strong>nario <strong>di</strong>ocesano. Vasto fu il l oro patrimonio; s'era inizialmente esso<br />

formato per le concessioni <strong>di</strong> Goffredo, conte <strong>di</strong> Conversano, che nel 1097 donò il<br />

casale <strong>di</strong> Tuturano «cum ecclesiis duabus que ibi sunt videlicet Sanctorum Cosme et<br />

Damiani et Sancti Eustasii» e <strong>di</strong> Sichelgaita, vedova <strong>di</strong> Goffredo, che nel 1107 confermò la<br />

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donazione <strong>di</strong> Tuturano aggiungendovi quella <strong>di</strong> Valerano, sul sito dell'attuale masseria<br />

Maramonte, <strong>di</strong> terreni nei pressi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e nell'area <strong>di</strong> Guaceto, degli affidati che erano<br />

in Brin<strong>di</strong>si e nel casale <strong>di</strong> San Pietro «de Hispanis cum casalibus omnibus et cum vineis et<br />

terris ad pastinandum [...] et cum omnibus earum terrarum», delle saline alla foce del Cillarese<br />

e presso il ponte <strong>di</strong> San Gennaro. Seguirono altri atti <strong>di</strong> liberalità da parte <strong>di</strong> Boemondo,<br />

principe d'Antiochia, della moglie Costanza, figlia <strong>di</strong> Filippo re <strong>di</strong> Francia, e <strong>di</strong> Ruggero, re <strong>di</strong><br />

Sicilia, che concesse al monastero in terra nostra Misanii villanos octuaginta demanios<br />

nostros, qui reddant singulis annis in duabus datis centum quadraginta michelatos, et centum<br />

miliarenses, et quartam musti vinearum suarum, et herbaticum cum terris suis et pomarium<br />

leporis et quartam partem de fructu olivarum suarum; sugli stessi uomini e loro<br />

<strong>di</strong>scendenti le benedettine avrebbero avuto «legem et plaziam sicut a suis hominibus et<br />

villanis». A tal fine il re concedeva al monastero il <strong>di</strong>ritto ad avere Iu<strong>di</strong>cem Baiulum in<br />

Mesagne e Brin<strong>di</strong>si «pro definien<strong>di</strong>s questionibus civilibus personalibus et realibus de bonis<br />

eorum». Seguirono atti <strong>di</strong> liberalità da parte <strong>di</strong> Guglielmo III.<br />

La fondazione del monastero agostiniano <strong>di</strong> Santa Maria delle Grazie fu ritenuta dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione storica locale databile al 1193 i n cui «Brundusii fundantur Coenobia Fratrum<br />

heremitarum S. Augustini, sub titulo S. Maria de Gratia, et Fratrum Carmelitanae Familiae»<br />

e dunque “sul principio istesso della reformatione <strong>di</strong> quell'or<strong>di</strong>ne heremitano” che si dové<br />

ai successivi interventi dei pontefici Innocenzo IV (1253-1254) e Alessandro IV (1254-1261).<br />

Già sul finire del do<strong>di</strong>cesimo secolo, secondo Andrea Della Monaca, i Carmelitani si sarebbero<br />

stabiliti in Brin<strong>di</strong>si: Sotto la riva istessa a canto al mare fu fondato in questi tempi il<br />

Monasterio de' Padri Carmelitani sotto il titolo della loro Santissima Madre <strong>di</strong> Santa Maria del<br />

Carmine, condotti da quei pietosi guerrieri nell'Italia, che militavano in Terra Santa, spinti<br />

dalla devotione dell'habito, e dalla riverenza che portavano alla vita esemplare[...] in<br />

quest’anno 1194 della nostra salute, passando continuamente i Padri Carmelitani, che<br />

venivano dal Monte Carmelo, e dalla Palestina per Brin<strong>di</strong>si, per andare in Roma, e ritornando<br />

ancora per il medesimo camino, stimarono esser quella città luogo commo<strong>di</strong>ssimo per i loro<br />

continui viaggi in Terra Santa, e <strong>di</strong> Roma, però volentieri si fermaro, e con l'aggiuto de' devoti<br />

in breve tempo, vi fondaro un commodo monasterio à canto il mare nella riva interna del<br />

destro corno del Porto.<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

Travaglini E. Sulla zecca normanna e sui fatti trascorsi dal 1042 al 1194 a Brin<strong>di</strong>si - 1973<br />

Coniglio G. Goffredo normanno conte <strong>di</strong> Conversano e signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - 1976<br />

Palumbo P. F. Tancre<strong>di</strong> conte <strong>di</strong> Lecce e re <strong>di</strong> Sicilia - 1989<br />

Carito G. Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel XII Secolo - 2010<br />

Russo L. L'espansione normanna contro Bisanzio - 2011<br />

Carito G. Tra Normanni e Svevi nel regno <strong>di</strong> Sicilia: Margarito da Brin<strong>di</strong>si - 2013<br />

Russo G. Il mito della crociata nel Mezzogiorno normanno tra i secoli XI-XII - 2013<br />

Carito G. Brin<strong>di</strong>si nell'XI secolo: da espressione geografica a civitas restituita - 2013<br />

Marella G. Modelli urbanistici e manifesti ideologici in età normanna a Brin<strong>di</strong>si - 2015<br />

Carito G. Brin<strong>di</strong>si fra Costantinopoli e Palermo - 2015<br />

Cima G. Il regno normanno <strong>di</strong> Ruggero II - 2016<br />

Perri G. Brin<strong>di</strong>si nel contesto della <strong>storia</strong> - 2016<br />

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A Brin<strong>di</strong>si il principale traguardo terrestre della me<strong>di</strong>evale “via Francigena”<br />

Pubblicato su Senza Colonne News del 7 agosto 2016<br />

Nella <strong>storia</strong> della civiltà europea, hanno rivestito un ruolo importantissimo le “vie <strong>di</strong><br />

fede” lungo le quali per secoli si sono svolti pellegrinaggi <strong>di</strong> natura religiosa, orientati<br />

a raggiungere i principali luoghi emblematici del culto cristiano: Santiago <strong>di</strong><br />

Compostela, poi -e in primis- Roma e quin<strong>di</strong>, come meta finale, Gerusalemme.<br />

Questi cammini, sorti e sviluppatisi nel corso dell’epoca me<strong>di</strong>evale, rappresentano<br />

tuttora un importantissimo riferimento per la <strong>storia</strong> religiosa e culturale dell’intero<br />

continente europeo, anche in considerazione del grande rilievo che in anni recenti<br />

stanno assumendo la cosiddetta mobilità lenta e il turismo spirituale verso i luoghi più<br />

sacri del Cristianesimo.<br />

Quelle vie, secondo vari documenti conservatisi, nei secoli del me<strong>di</strong>oevo costituirono<br />

dei veri e propri percorsi <strong>di</strong> pellegrinaggio e <strong>di</strong> fede. Tra le varie attestazioni <strong>di</strong> quel<br />

vasto fenomeno culturale, la più importante è probabilmente quella del vescovo<br />

Sigerico, che nel X secolo descrisse il suo percorso spirituale tra Canterbury e Roma,<br />

lungo la “vie Francigene”: la via Francigena, nome dal chiaro riferimento all’origine<br />

transalpina dei percorsi e detta anche via Romea, che fu, tra quelle vie <strong>di</strong> fede, non una<br />

strada specifica, ma la somma <strong>di</strong> tanti percorsi terrestri che giungevano a Roma per<br />

poi <strong>di</strong>rigersi verso il più conveniente porto d’imbarco alla volta <strong>di</strong> Gerusalemme,<br />

percorrendo la via che si denominò “la via Francigena del Sud”.<br />

76


E quale fu per secoli -praticamente da sempre- il miglior porto d’imbarco per chi, da<br />

Roma voleva raggiungere l’Oriente? Naturalmente e quasi inevitabilmente Brin<strong>di</strong>si. E<br />

Brin<strong>di</strong>si fu, infatti, anche il principale traguardo terrestre per l’imbarco verso<br />

Gerusalemme, fatta la dovuta eccezione degli anni compresi tra i secoli VII e IX in cui, a<br />

partire dall’avvento dei Longobar<strong>di</strong>, Brin<strong>di</strong>si e il suo porto decaddero, mentre i<br />

Bizantini riuscirono a conservare il porto <strong>di</strong> Otranto e così, la via da Brin<strong>di</strong>si a Otranto<br />

<strong>di</strong>venne in maniera circostanziale anche un’arteria viaria per i flussi con l’Oriente.<br />

«…Finalmente, dopo che Durazzo nel 1005 tornò a far parte dei domini dell’impero<br />

d’Oriente, l’assetto politico del settore meri<strong>di</strong>onale della costa adriatica italiana e anche<br />

il suo entroterra, costituirono territori <strong>di</strong> vitale importanza strategica, ora che la<br />

capitale dell’impero poteva essere facilmente raggiunta via terra dopo la breve<br />

traversata da Brin<strong>di</strong>si a Durazzo. Il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>ventò, come lo era stato per tutta<br />

l’antichità, il più importante terminale d’Italia della via Egnazia, che collegava Durazzo<br />

con Costantinopoli nonché con l’intero Oriente. La città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fu così chiamata a<br />

svolgere <strong>di</strong> nuovo, dopo secoli <strong>di</strong> anonimato, un ruolo <strong>di</strong> primo piano in un più vasto<br />

panorama politico…» -R. ALAGGIO: Brin<strong>di</strong>si nel Me<strong>di</strong>oevo, 2015-<br />

Ruolo predominante, quello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e del suo porto, destinato a crescere oltremodo<br />

nei secoli me<strong>di</strong>evali a venire, con l’avvento dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini, e<br />

così via.<br />

In quel periodo che fu <strong>di</strong> grande decadenza e <strong>di</strong> quasi abbandono <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

comunque, l’insicurezza regnante in taluni tratti delle vie a sud <strong>di</strong> Roma conseguente<br />

al complesso quadro politico <strong>di</strong> tutto il Mezzogiorno, l’insufficienza delle strutture<br />

ricettive e assistenziali, la faticosità del viaggio a motivo della carente manutenzione<br />

delle strade, consigliarono spesso ai pellegrini <strong>di</strong> optare per la via marittima,<br />

seguendo una navigazione costiera <strong>di</strong> cabotaggio, alternata a brevi segmenti <strong>di</strong><br />

tracciato terrestre. Cosicché, il porto <strong>di</strong> Otranto fu in effetti solo <strong>di</strong> rado utilizzato per<br />

l’imbarco verso Gerusalemme.<br />

«…Nel loro pellegrinaggio a Gerusalemme scelsero, oltre Roma, un itinerario per gran<br />

parte marittimo, sia il vescovo Arculfo nel 670 circa, sia San Willibaldo tra 723 e 726. Il<br />

primo, raggiunta Terracina, usando presumibilmente la via Appia, s’imbarcò in quel<br />

porto, cabotando le coste tirreniche sino a raggiungere Messina, da dove salpò per<br />

Costantinopoli. Il secondo invece, iniziò la navigazione da Terracina e seguì una rotta<br />

costiera che lo fece approdare, nell’or<strong>di</strong>ne, a Napoli, Reggio, Catania e Siracusa, punto<br />

marittimo <strong>di</strong> partenza, quest’ultimo, per la Terrasanta…<br />

…Fu però agli inizi del secondo millennio, con l’avvento dei Normanni e col <strong>di</strong>ffuso<br />

rifiorire della spiritualità, che il movimento dei pellegrinaggi ai luoghi santi della<br />

Cristianità conobbe un pro<strong>di</strong>gioso sviluppo, con un sempre più frequente uso<br />

dell’itinerario terrestre da parte dei pellegrini <strong>di</strong>retti in Terrasanta… Poi, tra la fine<br />

dell’XI secolo e l’inizio del XII, con le prime crociate, tutto il sud d’Italia venne investito<br />

da una intensa corrente <strong>di</strong> transiti e il sistema viario imperniato sulla ormai ovunque<br />

chiamata “via Francesca” o “via Francigena” si consolidò ulteriormente… Nel 1101, ad<br />

esempio, fu il principe Guglielmo che si mosse dalla Francia con il suo esercito crociato,<br />

percorse longitu<strong>di</strong>nalmente tutta la penisola italiana e giunse a Brin<strong>di</strong>si, dove s’imbarcò<br />

per Valona…<br />

…Nel XII secolo le fonti documentarie si fanno più ricche <strong>di</strong> dati riguardo agli itinerari,<br />

consentendo <strong>di</strong> ricostruire con maggiore atten<strong>di</strong>bilità il percorso terrestre a sud <strong>di</strong><br />

77


Roma e <strong>di</strong> rilevare puntualmente l’uso della viabilità me<strong>di</strong>evale sovrappostasi al<br />

tracciato della Traiana: L’abate Nikulas, nel 1154, percorse l’itinerario completo della<br />

via Francigena, dalle Alpi alla Puglia. Oltre Roma usò il tracciato della via Casilina fino a<br />

Capua, poi fu la volta <strong>di</strong> Benevento e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> Siponto. Quin<strong>di</strong> il suo percorso si snodò<br />

lungo il litorale, riallacciandosi così al tracciato della Traiana, via Barletta, Trani,<br />

Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Bari, Monopoli e, finalmente, “Brandeis -Brin<strong>di</strong>si.<br />

…Anche per tutto il Duecento la viabilità terrestre nel Mezzogiorno d’Italia continuò ad<br />

avere nell’itinerario della via Francigena da Benevento alla Puglia il suo principale asse<br />

<strong>di</strong> scorrimento e, seguendolo, nel 1227 migliaia <strong>di</strong> crocesegnati convergerono da tutta<br />

l’Europa su Brin<strong>di</strong>si convocati dall’imperatore Federico II alla sesta crociata. Per quanto<br />

però attiene al pellegrinaggio in Terrasanta, anche a motivo del miglioramento della<br />

navigazione marittima, sempre più i porti pugliesi subirono la concorrenza delle rotte<br />

tirreniche transitanti per lo stretto <strong>di</strong> Messina e facenti scalo ai porti della Sicilia<br />

orientale. Tornò così ad essere preferito, per la sua como<strong>di</strong>tà e celerità, il viaggio<br />

interamente via mare e in particolare acquisì grande importanza il porto <strong>di</strong> Messina,<br />

magnificato già nel XII secolo dai geografi arabi…<br />

…Nel corso del XIV secolo, il percorso della via Francigena nell’Italia meri<strong>di</strong>onale cessò<br />

<strong>di</strong> essere uno dei principali gangli del sistema <strong>di</strong> circolazione legato al pellegrinaggio in<br />

Terrasanta. L’ulteriore affinamento delle tecniche legate alla navigazione marittima e<br />

l’incontrastato predominio <strong>di</strong> Venezia nelle rotte <strong>di</strong>rette in Levante, fecero preferire la<br />

Serenissima come punto d’imbarco per coloro che intendevano recarsi in Terrasanta.<br />

Ad<strong>di</strong>rittura, quei pellegrini che univano il pellegrinaggio romano con quello <strong>di</strong><br />

Gerusalemme, dopo essere stati a Roma sceglievano <strong>di</strong> risalire la penisola onde<br />

imbarcarsi a Venezia…<br />

…Si potrebbe quin<strong>di</strong> affermare che tra i fattori che determinarono la crisi politica,<br />

economica e demografica del Mezzogiorno, iniziata nel Trecento, ci sia anche da<br />

annoverare il mutamento intervenuto nelle correnti <strong>di</strong> transito del pellegrinaggio in<br />

Terrasanta. Accentuata dalle ricorrenti calamità -carestie ed epidemie- che segnarono<br />

quel secolo, la crisi si riflesse a sua volta, sulle comunicazioni, portando ad una<br />

contrazione dell’entità dei traffici portuali e dei transiti lungo gli itinerari terrestri, come<br />

quello costituito dal segmento meri<strong>di</strong>onale della via Francigena, spesso evitati questi<br />

ultimi anche a motivo dell’aumentata loro pericolosità.<br />

…In una situazione generale dominata da un <strong>di</strong>ffuso malessere sociale e da una<br />

serpeggiante inquietu<strong>di</strong>ne religiosa, è così comprensibile come il Mezzogiorno angioino<br />

nel basso me<strong>di</strong>oevo fu invece interessato da un vero e proprio proliferare <strong>di</strong> santuari<br />

locali, per lo più nelle mani del clero secolare, sui quali si riversarono non a caso le<br />

indulgenze papali, che ne favorirono la crescita…» -R. STOPPANI: La via Appia Traiana nel<br />

Me<strong>di</strong>oevo, 2015-<br />

Della via Francigena si finì così col non parlarne quasi più per qualche secolo: <strong>di</strong> quel<br />

percorso francigeno che, lasciata Roma, tappa fondamentale era Benevento che<br />

conservava le reliquie <strong>di</strong> San Bartolomeo, <strong>di</strong> San Mercurio, <strong>di</strong> Sant’Eliano e <strong>di</strong><br />

numerosi altri martiri e confessori venerati nella chiesa <strong>di</strong> Santa Sofia. Poi,<br />

attraversato Benevento, ci si <strong>di</strong>rigeva verso il litorale Adriatico seguendo le<br />

preesistenti strade consolari romane, o almeno quel che ne rimaneva, come la via<br />

Appia, la via Latina e la via Traiana, o Appia Traiana come altri <strong>di</strong>cono, che fu la più<br />

gran<strong>di</strong>osa opera <strong>di</strong> ingegneria stradale realizzata dai Romani.<br />

78


«…Il 27 ottobre dell’anno 113 d.C. l’imperatore Traiano intraprese la sua ultima grande<br />

impresa militare <strong>di</strong>retta verso l’Asia Minore: inizialmente verso l’Armenia dove la<br />

situazione politica nei riguar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma stava precipitando e proseguendo quin<strong>di</strong><br />

sull’Assiria e la Mesopotamia. Giunse con la sua legione a Brin<strong>di</strong>si, per così imbarcarsi<br />

nella missione che era destinata a far raggiungere la massima estensione all’impero, ed<br />

in quell’occasione <strong>di</strong>spose il completamento dei gran<strong>di</strong> lavori <strong>di</strong> ricon<strong>di</strong>zionamento<br />

della vecchia via Minucia -la futura via Traiana- fino a quel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che lui ben<br />

riconosceva, essere ancora strategicamente molto importante per Roma e per<br />

l’impero...» -G. PERRI: Brin<strong>di</strong>si nel contesto della <strong>storia</strong>, 2016-<br />

In Puglia, importanti tappe della via Francigena furono il santuario <strong>di</strong> San Michele<br />

Arcangelo sul Gargano e quello <strong>di</strong> San Nicola a Bari, con i tanti centri minori <strong>di</strong><br />

pellegrinaggio, come quello <strong>di</strong> Canosa per le reliquie <strong>di</strong> San Sabino, quello <strong>di</strong> Lucera<br />

per San Bardo e quello <strong>di</strong> Lesina per i Santi Primiano e Firmiano. Scendendo poi verso<br />

Brin<strong>di</strong>si, si attraversavano <strong>di</strong>versi luoghi <strong>di</strong> riferimento storico e religioso, come la<br />

chiesa <strong>di</strong> Sant’Apollinare in agro <strong>di</strong> Rutigliano, San Michele in Frangesto in agro <strong>di</strong><br />

Monopoli, il porto <strong>di</strong> Egnazia, il sito <strong>di</strong> Seppannibale tra Monopoli ed Egnazia, San<br />

Leonardo <strong>di</strong> Siponto, eccetera.<br />

A Brin<strong>di</strong>si, finalmente, vi era il santuario <strong>di</strong> San Leucio e nel pavimento a mosaico -<br />

purtroppo andato perduto- della Cattedrale, vi era una importantissima testimonianza<br />

figurativa del XII secolo che attestava la <strong>di</strong>ffusione della leggenda <strong>di</strong> Roncisvalle in<br />

Italia, legata alla ricorrente presenza dei Crociati nella città, nonché a quella<br />

permanente dei Templari e <strong>di</strong> tutti gli altri principali or<strong>di</strong>ni monastici e cavallereschi<br />

europei.<br />

Ebbene, memore <strong>di</strong> tutto ciò, il 1º luglio 2013 la Regione Puglia deliberò<br />

l’approvazione del tracciato pugliese della Via Francigena, requisito per<br />

l’approvazione del Consiglio d’Europa dell’inserimento ufficiale dello stesso, nel<br />

tracciato della Via Francigena europea, che va da Canterbury a Gerusalemme. Il<br />

tracciato pugliese, così ufficialmente certificato, si snoda attraverso le seguenti<br />

<strong>di</strong>ciotto località:<br />

Celle San Vito – Troia – Lucera – San Severo – San Marco in Lamis – San Giovanni<br />

Rotondo – Monte Sant’Angelo – Manfredonia – Barletta – Bisceglie – Molfetta –<br />

Giovinazzo – Bari – Mola – Monopoli – Torre Canne – Torre Santa Sabina e “Brin<strong>di</strong>si”.<br />

Contemporaneamente, il 27 <strong>di</strong> giugno, il Touring Club Italiano presentò una bella e<br />

suggestiva pubblicazione intitolata “La Via Francigena nel Sud. Un percorso <strong>di</strong> 700 km<br />

da Roma a Brin<strong>di</strong>si”. Trentadue tappe raccontate in una guida: un itinerario<br />

trasversale, tra panorami e <strong>storia</strong>, tra templi e santuari cristiani.<br />

L’Assemblea generale delle Associazioni Europee della Vie Francigene tenuta a Roma il<br />

19 marzo 2015 si espresse a favore <strong>di</strong> definire un’unica Via Francigena, da Canterbury<br />

fino all’imbarco pugliese per Gerusalemme, con <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>rettrici e sempre nel<br />

rispetto della <strong>storia</strong> e della cultura dei territori attraversati e delle popolazioni locali<br />

coinvolte. Quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> seguito, il Governing Board del Consiglio d’Europa riunito a<br />

Lussemburgo il 28 e 29 <strong>di</strong> aprile 2015, certificò l’estensione del tratto Sud della Vie<br />

Francigene: da Roma a Brin<strong>di</strong>si.<br />

79


Finalmente, l’Istituto Europeo degli Itinerari Culturali, lo scorso 14 aprile 2016, ha<br />

decretato ufficialmente l’estensione della via Francigena da Canterbury fino a Brin<strong>di</strong>si:<br />

una realtà, che con i suoi 2300 chilometri, è <strong>di</strong>ventata l’itinerario culturale più lungo<br />

nel programma degli itinerari del Consiglio d’Europa.<br />

Ebbene, nonostante quelle tante e chiare certificazioni che ho qui sinteticamente<br />

in<strong>di</strong>cato, si sono susseguiti negli anni anche paralleli tentativi <strong>di</strong> riaggiustamenti a<br />

favore <strong>di</strong> vari interessi dettati, più che dall’amore per la riscoperta della <strong>storia</strong>,<br />

dall’amore per i potenziali risvolti economici vantaggiosi che il fenomeno delle vie <strong>di</strong><br />

fede può arrecare alle città da esso coinvolte. Si è persino giunti a pretendere <strong>di</strong> poter<br />

sostenere l’idea, ed è proprio il caso <strong>di</strong> <strong>di</strong>rlo “un po’ pellegrina”, che la me<strong>di</strong>evale rotta<br />

terrestre europea da Roma a Gerusalemme giungesse fino a Santa Maria <strong>di</strong> Leuca,<br />

come se quei viaggiatori e quei pellegrini non conoscessero la geografia e, soprattutto,<br />

la <strong>storia</strong> e decidessero pertanto <strong>di</strong> prolungare il loro percorso in più <strong>di</strong> un centinaio <strong>di</strong><br />

chilometri, per poi imbarcarsi… ma da che porto?<br />

In tale contesto c’è però da chiedersi, e con urgenza: che ha fatto in tutti questi anni<br />

Brin<strong>di</strong>si? Cosa hanno fatto gli amministratori locali e cosa i citta<strong>di</strong>ni? Temo che<br />

purtroppo, e spero sbagliarmi, non abbiano fatto molto in concreto e credo che,<br />

invece, molto si potrebbe e si dovrebbe fare per una grande risorsa culturale che<br />

bisognerebbe ben riconsiderare e che, ne sono convinto, gioverebbe tanto alla città<br />

quanto ai suoi abitanti, sia alla loro spiritualità e sia, <strong>di</strong> riflesso, alla loro economia.<br />

Spero quin<strong>di</strong> ci sia chi, <strong>di</strong> dovere o <strong>di</strong> piacere, ci stia già pensando e ci stia già<br />

lavorando o, quanto meno, sia d’accordo nel raccogliere presto questo mio invito.<br />

gianfrancoperri@gmail.com 7 Agosto 2016<br />

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La più antica e più illustre tra<strong>di</strong>zione brin<strong>di</strong>sina… unica in tutto il mondo e più preziosa<br />

Pubblicato su il7.Magazine del 24 agosto 2018<br />

Giovanni Battista Casimiro, regio notaio brin<strong>di</strong>sino ed insigne letterato e storico, nella<br />

sua famosa ‘Epistola Apologetica a Quinto Mario Corrado <strong>di</strong> Oria’ del 1567, a proposito<br />

dell’antichissima - antiquor et clarior - tra<strong>di</strong>zione del ‘cavallo parato’ in Brin<strong>di</strong>si, così<br />

scriveva: «Questo in nessun altro luogo della terra si è mai usato fare; tanto dunque più<br />

antica e più illustre è questa nostra tra<strong>di</strong>zione, che né in Roma… né in alcun altro luogo<br />

della terra… ed è unica in tutto il mondo… e più preziosa…»<br />

Quella tra<strong>di</strong>zione del cavallo parato, del resto, era già stata tramandata dall’ancor più<br />

antico storico brin<strong>di</strong>sino della prima età angioina, Carlo Verano, nella sua ‘Hi<strong>storia</strong><br />

Brundusina’ scritta verosimilmente tra i secoli XIV e XV, andata <strong>di</strong>spersa e comunque<br />

certamente ripresa dal me<strong>di</strong>co e storico brin<strong>di</strong>sino Giovanni Maria Moricino (1560-<br />

1628) nel suo manoscritto ‘Antiquità e vicissitu<strong>di</strong>ni della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dalla <strong>di</strong> lei<br />

origine sino all'anno 1604’, poi palesemente plagiato dal padre carmelitano Andrea<br />

Della Monica e pubblicato nel 1674 con il titolo ‘Memoria historica dell´antichissima e<br />

fedelissima città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si’.<br />

Lì, vi si può leggere: «… Nella solennità che ogni anno si celebra del Santissimo<br />

Sacramento, l’arcivescovo, vestito pontificalmente, monta innanzi alla porta maggiore<br />

del Duomo sopra un bianco cavallo… portando nelle mani la custo<strong>di</strong>a dove è racchiusa<br />

la venerabile Eucharistia… sotto il cielo <strong>di</strong> un ricchissimo baldacchino…»<br />

Una singolarissima processione che annualmente commemora quanto accaduto,<br />

intorno all’anno 1250, in seguito al naufragio della nave su cui viaggiava il re <strong>di</strong><br />

Francia Luigi IX portando con sé l’ostia consacrata. La nave si arrenò presso uno<br />

scoglio costiero a circa tre miglia dalla città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, dove l’arcivescovo Pietro III si<br />

recò accompagnato da un gran numero <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni servendosi <strong>di</strong> un cavallo per<br />

coprire quel relativamente lungo tragitto. Lì, prese in consegna il calice contenente<br />

l’ostia consacrata e lo portò fino alla Cattedrale, in processione con il popolo che a<br />

pie<strong>di</strong> seguiva il cavallo con il suo carico sacro.<br />

E quando fu che a Brin<strong>di</strong>si iniziò quella tra<strong>di</strong>zione commemorativa? Non ci è dato <strong>di</strong><br />

conoscere con certezza storica la data esatta - forse fu il 4 giugno del 1265, se non<br />

ancor prima - ma si sa che il papa Urbano IV, con la bolla ‘Transiturus’ dell’8 settembre<br />

1264, istituì la festa del Corpus Domini, estendendo a tutta la Chiesa Universale la<br />

festa che si era originata nel 1247 nella città francese <strong>di</strong> Liegi e permettendo che<br />

nell’occasione si potesse anche ‘processionare’ la SS. Eucaristia.<br />

E si sa che il papa Giovanni XXII, eletto nell’agosto del 1316, per quella festa del<br />

Corpus Domini rese solennissima e obbligatoria in ogni villaggio della terra la<br />

processione del SS. Sacramento, fissandone lo spazio <strong>di</strong> ‘miglia tre’: proprio la <strong>di</strong>stanza<br />

che separa lo scoglio brin<strong>di</strong>sino detto del Cavallo dalla Cattedrale e quin<strong>di</strong>, il percorso<br />

<strong>di</strong> quella prima processione eucaristica esterna della <strong>storia</strong>, che nel 1250 ebbe luogo a<br />

Brin<strong>di</strong>si al seguito del SS. portato a cavallo dall’anziano arcivescovo Pietro III.<br />

81


Durante i 714 anni compresi tra il 1250 e il 1964 - anno in cui la processione fu<br />

sospesa per poi essere ripristinata nel 1970 - furono ben 62 gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

che, come assevera lo storico Giuseppe Roma nel suo documentatissimo libro e<strong>di</strong>to nel<br />

1969 ‘Nella millenaria tra<strong>di</strong>zione del Cavallo Parato’: «Tutti, anche <strong>di</strong> età grave o <strong>di</strong><br />

malferma salute, giu<strong>di</strong>carono <strong>di</strong> non potersi sottrarre alla non lieve incombenza <strong>di</strong><br />

portare il SS. in ostensorio, cavalcando anche faticosamente per le vie della città.<br />

Non si trattava <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione protrattasi nei secoli per mera tolleranza, bensì <strong>di</strong><br />

una tra<strong>di</strong>zione che comportava il ripetersi <strong>di</strong> un consenso <strong>di</strong> convinta partecipazione<br />

attiva e personale dell’arcivescovo. Segno dunque che il carattere storico-religiosoliturgico<br />

era tale da non consentire a nessun vescovo <strong>di</strong> metterlo in <strong>di</strong>scussione. E<br />

peraltro, sulla Cattedra brin<strong>di</strong>sina non mancarono, nel corso dei secoli, prelati <strong>di</strong><br />

straor<strong>di</strong>naria dottrina e <strong>di</strong> ricchissimo pensiero, tra i quali, per evocarne solamente<br />

tre <strong>di</strong> tre epoche <strong>di</strong>verse: Girolamo Aleandro, Francesco De Ciocchis e Annibale De<br />

Leo…»<br />

E, per la <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e della sua Chiesa, sono da aggiungere alla lista anche gli<br />

altri 4 arcivescovi che fino ad oggi, per altri quasi 50 anni dopo quella breve<br />

sospensione, hanno processionato la SS. Eucaristia sul cavallo parato: Nicola<br />

Margiotta, Settimio To<strong>di</strong>sco, Rocco Talucci e Domenico Caliandro.<br />

I Brin<strong>di</strong>sini siamo orgogliosi della nostra <strong>storia</strong> e delle nostre tra<strong>di</strong>zioni e quella del<br />

‘cavallo parato’ è certamente la nostra più amata ed originale delle tra<strong>di</strong>zioni: in<br />

assoluto unica al mondo e, anche per questo, da preservare sempre e per sempre,<br />

come è stata - in effetti - preservata, nonostante nel trascorso dei secoli non siano<br />

mancati vari tentativi <strong>di</strong> annullamento, tutti - puntualmente e per fortuna - falliti.<br />

82


Il Sacro Concilio Tridentino, che durò 18 anni dal 1545 al 1563, pur avendo stabilito<br />

principi <strong>di</strong> rigore in fatto <strong>di</strong> riti e <strong>di</strong> cerimonie, ratificò l’autorizzazione alla<br />

processione del ‘cavallo parato’ <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Durante quel famoso Concilio, fu papa<br />

Paolo IV che era stato arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1524 al 1542. Preparatore ne fu il<br />

celebre car<strong>di</strong>nale Girolamo Aleandro, già arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e vi partecipò anche<br />

l’arcivescovo brin<strong>di</strong>sino Giovanni Carlo Bovio.<br />

Però, nel 1605 giunse a Brin<strong>di</strong>si dalla Spagna il nuovo arcivescovo Giovanni Falces <strong>di</strong><br />

S. Stefano, il quale appellò la processione del ‘cavallo parato’ alla Sacra Congregazione<br />

dei Riti. E questa respinse il ricorso sentenziando, nel 1611, che le lodevoli e<br />

immemorabili tra<strong>di</strong>zioni della Chiesa brin<strong>di</strong>sina non potevano essere derogate dal<br />

cerimoniale dei vescovi.<br />

Poi, il papa Paolo V nominò una commissione <strong>di</strong> car<strong>di</strong>nali della Sacra Congregazione<br />

dei Riti, col compito <strong>di</strong> procedere alla revisione <strong>di</strong> tutti i riti particolari e i risultati<br />

furono pubblicati con bolla papale del 17 giugno 1614, senza che in essi vi fosse<br />

revisione alcuna relativa al rito particolare del ‘cavallo parato’ <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Centocinquanta anni dopo, il papa Benedetto XIV or<strong>di</strong>nò un’ulteriore revisione dei riti<br />

e delle cerimonie della Chiesa Universale, dandone incarico al padre Giuseppe Catalani<br />

e promulgando poi, con bolla del 26 marzo 1752, il nuovo Rituale Romano in cui si<br />

regolava anche il cerimoniale della processione eucaristica del Corpus Domini.<br />

Dopo pochi giorni da quella promulgazione <strong>di</strong>venne arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il<br />

dottissimo teologo Giovanni Angelo De Ciocchis e il 1º giugno <strong>di</strong> quello stesso 1752,<br />

giorno del Corpus Domini, «… calò in Chiesa con veste viatoria, stivaletti, cappello e<br />

bastone, salì sul trono, si pose il càmiso, cappa magna e mitria, e in tal forma si pose a<br />

cavallo, al solito, e con tutta la mitria portò nostro Signore».<br />

Il proprio padre Catalani, infatti, ebbe a scrivere: «… Altro <strong>di</strong>verso modo <strong>di</strong> portare in<br />

processione il SS. Sacramento è nella maniera che è descritta nella ‘Storia Brundusina’<br />

<strong>di</strong> Giovanni Carlo Verano. Il SS. è condotto per la città su un bianco cavallo, reso<br />

mansueto e riccamente bardato. Per il che, in tal giorno l’arcivescovo vestito degli abiti<br />

sacerdotali con piviale, cavalcando tal cavallo, suole portare il SS. che da due accoliti<br />

viene continuamente incensato, sotto un baldacchino recato da sei canonici<br />

solennemente salmo<strong>di</strong>anti, mentre i due Primati della città, cioè il governatore e il<br />

sindaco, ve lo conducono reggendo per mano il freno del cavallo…»<br />

E per concludere, niente <strong>di</strong> più appropriato che la seguente sacrosanta affermazione:<br />

“Le tra<strong>di</strong>zioni popolari, specie quando immemorabili, sono un aspetto dell’anima<br />

stessa del popolo che le esprime; e pertanto vanno riguardate con più attento cuore,<br />

piuttosto che con più attenta ragione” - Giuseppe Roma, 1969 -<br />

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Il Duca <strong>di</strong> Atene: un personaggio trecentesco temuto e o<strong>di</strong>ato dai brin<strong>di</strong>sini<br />

Pubblicato sul il7 Magazine dell’8 settembre 2017<br />

Nella “Storia e cultura dei monumenti brin<strong>di</strong>sini” <strong>di</strong> Rosario Jurlaro - 1976, si legge: «Nel<br />

periodo angioino in Brin<strong>di</strong>si fu costruito il palazzo del Duca <strong>di</strong> Atene, del quale alcune camere<br />

del piano terra con volte a crociera costolonate si possono ancora vedere all’angolo tra via San<br />

Francesco e via Filomeno Consiglio».<br />

Nella “Brin<strong>di</strong>si ignorata” <strong>di</strong> Nicola Vacca - 1954, si legge: «E<strong>di</strong>fici pubblici notevoli, i principali<br />

della città, affacciavano o erano a<strong>di</strong>acenti alla ruga Magistra. Dalla parte del mare si elevava il<br />

gran<strong>di</strong>oso palazzo del Duca d'Atene ch’era stato, al <strong>di</strong>r del Camassa, il sito dove, ai tempi della<br />

dominazione <strong>di</strong> Roma, sorgeva la casa <strong>di</strong> Pompeo».<br />

Nella “Antiquità e vicissitu<strong>di</strong>ni della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dalla <strong>di</strong> lei origine sino all'anno 1604” <strong>di</strong><br />

Giovanni Moricino, si legge: «Opera veramente magnifica e reale, con tutto ciò che oggi solo la<br />

minor parte <strong>di</strong> essa stia in pie<strong>di</strong>, si scorgono tuttavia nelle rovine degli altri membri del<br />

palagio i bagni, che secondo l’usanza antica l’adoperavano in quella casa; la fabbrica è tutta<br />

variata <strong>di</strong> pietre mischie, l’una rossa e l’altra bianca, chiamate dai paesani l’una carparo e<br />

l’altra serra d’aspro, <strong>di</strong>stinte tutte in linee alternate tra loro, ch’una è tutta <strong>di</strong> pietre rosse e<br />

l’altra tutta <strong>di</strong> bianche, sono però tutte le pietre quadrate. Si vede fino ad oggi su la porta<br />

principale <strong>di</strong> questo palazzo l’effigie del detto Duca d’Atene suo autore, scolpita nel sasso a<br />

cavallo. Nei tempi che seguirono il palazzo ha servito per tribunale e stanza dei regi<br />

governatori e giu<strong>di</strong>ci della città: le dette Case della Corte».<br />

Nella “Brin<strong>di</strong>si nuova guida” <strong>di</strong> Giacomo Carito - 1994, si legge: «Di quel palazzo, nel 1777<br />

Henry Swinburne ne descrive ancora la struttura <strong>di</strong>ruta che nel maggio del 1778, designata<br />

quale ‘cava per il fabbrico delle casse del gran canale’, viene per la gran parte demolita dal<br />

Pigonati. E le attuali persistenze paiono databili al secolo quin<strong>di</strong>cesimo».<br />

E quali sono queste attuali persistenze? E chi era quel famigerato Duca <strong>di</strong> Atene? Ebbene, le<br />

attuali persistenze sono i locali <strong>di</strong> quella che negli anni ‘60 fu una frequentatissima cantina ‘cu<br />

la frasca ti la murtedda’ sulla porta d’ingresso e negli ‘80 del ristorante “Acropolis” nonché <strong>di</strong><br />

quello che è l’attuale ristorante “Penny”. Invece, in quanto al temuto e o<strong>di</strong>ato Duca <strong>di</strong> Atene,<br />

bisogna andare a spulciare qualche vecchia pagina <strong>di</strong> <strong>storia</strong> brin<strong>di</strong>sina.<br />

Il Ducato <strong>di</strong> Atene fu costituito in Grecia da Ottone La Roche con la quarta crociata del 1205 e<br />

nel 1308 passò a Gualtieri V <strong>di</strong> Brienne, figlio <strong>di</strong> Ugo, conte <strong>di</strong> Brienne Conversano e Lecce e <strong>di</strong><br />

Isabella La Roche, figlia Guido I La Roche, Duca <strong>di</strong> Atene. Nel 1311 il ducato fu occupato dagli<br />

Aragonesi che, in battaglia, uccisero Gualtieri V. Dal 1395 al 1402 i Veneziani controllarono il<br />

ducato e nel 1444 Atene <strong>di</strong>venne tributaria del trono bizantino. Nel 1456, dopo la caduta <strong>di</strong><br />

Costantinopoli, la conquista ottomana si estese al ducato, che nel 1460 cessò <strong>di</strong> esistere.<br />

A Gualtieri V succedete il figlio Gualtieri VI <strong>di</strong> Brienne conservando il titolo, ormai solo<br />

nominale, <strong>di</strong> Duca <strong>di</strong> Atene e fu lui che curò la realizzazione del suntuoso palazzo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

dove risiedeva con l'incarico <strong>di</strong> regio riven<strong>di</strong>tore delle gabelle e dove, nella cattedrale, sposò<br />

nel 1325 Beatrice, figlia <strong>di</strong> Filippo I principe <strong>di</strong> Taranto.<br />

Gualtieri VI, avventuriero e ambizioso, nel 1343 s’insignorì subdolamente <strong>di</strong> Firenze, da dove<br />

però fu presto e clamorosamente scacciato ‘perché avaro, tra<strong>di</strong>tore, crudele, lussurioso,<br />

ingiusto e spergiuro’ e tornò in Terra d’Otranto, visitando spesso il suo palazzo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, a<br />

quel tempo città demaniale, dove peraltro era temuto e o<strong>di</strong>ato per la sua malcelata ambizione<br />

d’insignorirsi della città.<br />

In quello stesso 1343 morì il re <strong>di</strong> Napoli, Roberto D’Angiò, e gli succedette la sua giovane<br />

figlia Giovanna I, la quale nel 1346 nominò Enrico Cavalerio Gran maestro degli Arsenali <strong>di</strong><br />

Puglia e Protontino delle Galere <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, per succedere a Filippo Ripa.<br />

84


Ebbene, Enrico e Filippo appartenevano alle due famiglie più potenti, e al contempo acerrime<br />

rivali, <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Proprio quella nomina scatenò i sanguinosi eventi che nel 1346 coinvolsero<br />

e sconvolsero l’intera città, allorché Filippo, capo del potente e nobile casato dei Ripa, prese in<br />

potere la città seminando persecuzione e morte tra i suoi avversari, in primis i membri<br />

dell’altrettanto potente e nobile casato dei Cavalerio, <strong>di</strong> cui Enrico era al tempo il massimo<br />

rappresentate.<br />

Intorno ai Ripa si raccolse la massa dei conta<strong>di</strong>ni e intorno ai Cavalerio quella dei marinai,<br />

sicché la città, anche per il fatto che tutte le altre famiglie importanti si schierarono dall’una o<br />

dall’altra parte, risultò <strong>di</strong>visa in due fazioni contrapposte. Il Ripa arringò contro i Cavalerio i<br />

conta<strong>di</strong>ni, a quell’epoca affamati dalla carestia susseguita a una grave peste, convincendoli che<br />

il grano era finito nei depositi dell’avversario e, in una sanguinosa notte, non meno <strong>di</strong> una<br />

ventina furono le vittime della violenza, fra cui lo stesso Enrico Cavalerio.<br />

Quei gravi fatti instaurarono una specie <strong>di</strong> dominio del terrore del Ripa e, finalmente,<br />

indussero il governo angioino <strong>di</strong> Napoli, il cui rappresentante provinciale Goffredo Gattola<br />

nulla aveva potuto fare per contrastare quella situazione, a intervenire per ristabilire l’or<strong>di</strong>ne<br />

e punire i responsabili dei tanti gravi crimini perpetrati.<br />

E fu in quel confuso ed instabile contesto che, nel 1353, per regio mandato ai danni <strong>di</strong> Filippo<br />

Ripa, viceammiraglio del regno e protagonista nella guerra civile che aveva desolato la città e<br />

visto la sconfitta dei Cavalerio, Gualtieri VI marciò su Brin<strong>di</strong>si con 400 cavalli e 1500 fanti. Per<br />

cui il Ripa, minacciato d’arresto, trovò scampo nella fuga dalla città alla volta della Grecia.<br />

I Brin<strong>di</strong>sini però, ben conoscendo il carattere e le intenzioni <strong>di</strong> quel Duca <strong>di</strong> Atene, temendo<br />

che l’o<strong>di</strong>ato Gualtieri VI volesse insignorirsi della città ormai allo sbando, manifestarono alla<br />

regina Giovanna I il desiderio che la città potesse rinunciare allo status demaniale e fosse<br />

incorporata al potente principato <strong>di</strong> Taranto dell’allora principe Roberto, cognato dello stesso<br />

Gualtieri VI. E così fu. E il Duca <strong>di</strong> Atene si ritirò in Francia, dove nel 1356 morì nella battaglia<br />

<strong>di</strong> Poitiers. E a Brin<strong>di</strong>si restò il suo suntuoso palazzo, che passò a sua sorella Isabella <strong>di</strong><br />

Brienne e poi alla nipote <strong>di</strong> quest’ultima, Maria d’Enghien, la celebre contessa <strong>di</strong> Lecce.<br />

Il Duca <strong>di</strong> Atene Gualtieri VI <strong>di</strong> Brienne<br />

(Reggia <strong>di</strong> Versailles, Galleria delle battaglie)<br />

Stemma del Duca <strong>di</strong> Atene<br />

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Brin<strong>di</strong>si al tempo dello scisma d’occidente sotto i re durazzeschi:<br />

60 anni <strong>di</strong>fficili lugubri e incerti a cavallo tra il secolo XIV e il XV<br />

Pubblicato su.Brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

Nel contesto del regno <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong> quegli anni<br />

Il re Carlo II d'Angiò detto lo zoppo, padre <strong>di</strong> Roberto e succeduto nel 1285 sul trono<br />

del regno <strong>di</strong> Napoli a suo padre, Carlo I d’Angiò che nel 1268 lo aveva strappato<br />

definitivamente agli Svevi della casata degli Hohenstaufen, nominò duca <strong>di</strong> Durazzo il<br />

suo settimo figlio, Giovanni, ed un nipote <strong>di</strong> questi, Carlo, terzo duca <strong>di</strong> Durazzo figlio<br />

<strong>di</strong> Luigi, nel 1369 sposò Margherita, sua cugina e figlia <strong>di</strong> Maria nipote <strong>di</strong> Roberto e<br />

sorella <strong>di</strong> Giovanna I regina <strong>di</strong> Napoli succeduta nel 1343 al nonno Roberto,<br />

acquistando con quel matrimonio i <strong>di</strong>ritti per la successione al regno <strong>di</strong> Napoli, come<br />

Carlo III <strong>di</strong> Durazzo.<br />

In effetti, la regina Giovanna I, che non aveva avuto figli da nessuno dei suoi quattro<br />

mariti, nominò Carlo <strong>di</strong> Durazzo suo erede, ma poi, a causa della grave crisi religiosa<br />

scoppiata nel 1378 con lo scisma d’occidente -mentre la regina Giovanna I si schierò<br />

con l'antipapa Clemente VII, Carlo <strong>di</strong> Durazzo si schierò con il legittimo pontefice<br />

Urbano VI- trasferì la designazione al trono <strong>di</strong> Napoli a Luigi I d'Angiò, suo cugino in<br />

secondo grado e fratello <strong>di</strong> Carlo V re <strong>di</strong> Francia.<br />

Lo scisma maturò quando il papa Gregorio XI, che nel 1377 aveva riportato a Roma la<br />

sede papale dopo più <strong>di</strong> settant’anni <strong>di</strong> residenza ad Avignone in Francia sotto la<br />

protezione <strong>di</strong> quel regno, spirò il 27 marzo 1378 e il conclave elesse papa<br />

l'arcivescovo <strong>di</strong> Bari, il napoletano Bartolomeo Prignano, che assunse il nome <strong>di</strong><br />

Urbano VI.<br />

Urbano VI, iracondo per natura, <strong>di</strong> carattere altero e poco <strong>di</strong>sposto alla moderazione,<br />

si rifiutò <strong>di</strong> ritornare ad Avignone e incominciò presto ad alienarsi gran parte del<br />

Sacro Collegio, e tutti i numerosi car<strong>di</strong>nali ultramontani, riuniti il 9 agosto 1378 nella<br />

città <strong>di</strong> Anagni, <strong>di</strong>chiararono la sua elezione invalida, in quanto forzata dalle pressioni<br />

popolari.<br />

Poi, il 20 settembre si riunirono a Fon<strong>di</strong>, in territorio napoletano sotto la protezione<br />

della regina Giovanna I d’Angiò, ed elessero in conclave un nuovo papa, Roberto <strong>di</strong><br />

Ginevra, cugino del sovrano francese, che prese il nome <strong>di</strong> Clemente VII e che, dopo un<br />

vano tentativo armato <strong>di</strong> prendere possesso <strong>di</strong> Roma, nel 1379 si ritirò ad Avignone,<br />

ed ivi instaurò una nuova Curia.<br />

Con due pontefici in carica, la Chiesa occidentale per quarant’anni fu spezzata in due<br />

corpi autocefali e la stessa comunità dei fedeli risultò <strong>di</strong>visa fra "obbe<strong>di</strong>enza romana"<br />

e "obbe<strong>di</strong>enza avignonese". Inoltre, da questione puramente ecclesiastica, il conflitto<br />

si trasformò ben presto in una crisi politica <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni continentali, tale da<br />

orientare alleanze e scelte <strong>di</strong>plomatiche in virtù del riconoscimento che i sovrani<br />

europei tributarono all'uno o all'altro dei due pontefici.<br />

Il papa Urbano VI scomunicò Giovanna I e incoronò re <strong>di</strong> Napoli Carlo III <strong>di</strong> Durazzo, il<br />

quale nel 1381 invase il regno e usurpò il trono <strong>di</strong> Giovanna I, mentre il designato da<br />

Giovanna I al trono, Luigi I d’Angiò, fu incoronato re <strong>di</strong> Napoli dall’antipapa Clemente<br />

VII e nel 1382 scese in armi in Italia appoggiato dal re <strong>di</strong> Francia, iniziando così una<br />

contesa che, ripresa poi da suo figlio Luigi II d’Angiò, si protrasse per decenni, contro<br />

tutti e tre i re durazzeschi: Carlo III e i suoi due figli, La<strong>di</strong>slao e Giovanna II.<br />

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Nello stesso anno, 1382, Carlo III fece assassinare la deposta e incarcerata regina<br />

Giovanna I e dopo qualche anno, nel 1384, Luigi I d'Angiò morì in Italia, a Bari, in<br />

seguito alle ferite riportate nell’attacco a Bisceglie, sanzionando la sua morte il<br />

fallimento della spe<strong>di</strong>zione.<br />

Nel 1386 però, anche Carlos III <strong>di</strong> Durazzo, consolidato re <strong>di</strong> Napoli, morì avvelenato<br />

in Ungheria e sul trono <strong>di</strong> Napoli gli succedette il suo giovanissimo figlio La<strong>di</strong>slao, nato<br />

nel 1375, sotto la reggenza della madre Margherita <strong>di</strong> Durazzo.<br />

Nel 1389, alla morte del papa Urbano VI, i car<strong>di</strong>nali romani elevarono al soglio<br />

pontificio Pietro Tomacelli, che assunse il nome <strong>di</strong> Bonifacio IX, mentre ad Avignone,<br />

scomparso Clemente VI nel 1394, fu eletto Pedro Martinez de Luna, con il nome <strong>di</strong><br />

Benedetto XIII.<br />

Nel 1390, Luigi II d'Angiò riuscì nell’intento fallito a suo padre e poté occupare Napoli,<br />

scacciando il re La<strong>di</strong>slao e la madre Margherita. La<strong>di</strong>slao però, poté riconquistare la<br />

città nel 1399 e morì sul trono <strong>di</strong> Napoli, improvvisamente e senza prole, nel 1414. Gli<br />

succedette la sorella Giovanna II che, benché maritata due volte, non ebbe figli e fu<br />

pertanto destinata a essere l'ultima rappresentante della casata reale durazzesca.<br />

Nel campo religioso, dopo vari tentativi falliti per l'opposizione dei <strong>di</strong>retti contendenti,<br />

i papi e gli antipapi <strong>di</strong> turno, la soluzione conciliare alla crisi della Chiesa fu impulsata<br />

quando la maggior parte dei car<strong>di</strong>nali <strong>di</strong> entrambe le parti volle tentare la via del<br />

compromesso e in un concilio riunito nel 1409 a Pisa, si stabilì la deposizione <strong>di</strong><br />

Benedetto XIII e <strong>di</strong> Gregorio XII che era succeduto a Bonifacio IX, e si elesse un nuovo<br />

pontefice, che salì al trono papale col nome <strong>di</strong> Alessandro V. Però, Benedetto e<br />

Gregorio, sostenuti da larghi strati del mondo ecclesiastico, <strong>di</strong>chiararono illegittimo il<br />

concilio e si rifiutarono <strong>di</strong> deporre la carica, cosicché da due, i papi contendenti<br />

<strong>di</strong>vennero tre.<br />

Qualche anno dopo, nel 1414, grazie all'iniziativa <strong>di</strong> Sigismondo <strong>di</strong> Lussemburgo e del<br />

nuovo pontefice Giovanni XXIII, succeduto nel frattempo ad Alessandro V, fu<br />

convocato un concilio a Costanza, e i padri conciliari <strong>di</strong>chiararono antipapi sia<br />

Benedetto XIII che Giovanni XXIII, e poi il papa Gregorio XII, per il bene della Chiesa,<br />

preferì <strong>di</strong>mettersi.<br />

Il concilio si prolungò fino al 1417 e dopo due anni <strong>di</strong> sede vacante, nel corso <strong>di</strong> un<br />

breve conclave, l’11 novembre, si elesse pontefice il car<strong>di</strong>nale Oddone Colonna, che<br />

assunse il nome <strong>di</strong> Martino V, sancendo la definitiva ricomposizione dello scisma, la<br />

fine delle lotte tra papi e il ripristino <strong>di</strong> Roma quale sede naturale della cattedra<br />

apostolica.<br />

Il regno <strong>di</strong> Napoli invece, su cui in quegli anni aveva cominciato a regnare Giovanna II<br />

<strong>di</strong> Durazzo, continuò ad essere funestato dalla guerra civile, questa volta tra gli antichi<br />

protagonisti angioini e i nuovi contendenti aragonesi, in quanto la regina durazzesca,<br />

estintasi la <strong>di</strong>nastia per mancanza <strong>di</strong> <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong>retti, dapprima -nel 1421-<br />

proclamò suo erede e successore Alfonso V d'Aragona, poi -nel 1423- scelse Luigi III<br />

d'Angiò e, quin<strong>di</strong> -nel 1434- dopo la morte <strong>di</strong> quest'ultimo, il fratello Renato d’Angiò.<br />

Poi, quando con la morte nel 1435 <strong>di</strong> Giovanna II ebbe termine la dominazione<br />

durazzesca sul regno <strong>di</strong> Napoli e nel 1442, dopo molteplici e alterne battaglie, Alfonso<br />

V d’Aragona già re <strong>di</strong> Sicilia, riuscì a prevalere sull’altro pretendete al trono, Renato<br />

d’Angiò, iniziò la dominazione aragonese del nuovamente unito regno delle Due<br />

Sicilie.<br />

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Il contesto in cui si trovò inserito Brin<strong>di</strong>si in quegli anni<br />

E cosa nel mentre accadeva nel contesto più vicino a Brin<strong>di</strong>si in quei sei decenni<br />

compresi tra il 1380, quando, scoppiato lo scisma d’occidente, Carlo III <strong>di</strong> Durazzo salì<br />

sul trono del regno <strong>di</strong> Napoli e il 1440, quando, chiuso lo scisma d’occidente e morta<br />

Giovanna II ultima dei durazzeschi sul trono del regno <strong>di</strong> Napoli, gli Aragonesi<br />

conquistarono il regno unendolo nuovamente a quello <strong>di</strong> Sicilia?<br />

Brin<strong>di</strong>si, anche se con importanti e frequenti <strong>di</strong>scontinuità, era storicamente gravitato<br />

nell’orbita del principato <strong>di</strong> Taranto che, fondato nel 1088 dal normanno Roberto il<br />

guiscardo a favore <strong>di</strong> suo figlio Boemondo, nel corso degli anni fu più volte<br />

smembrato, sia perché i suoi principi donavano parte dei loro domini per<br />

ricompensare servigi ricevuti e sia perché i sovrani napoletani ne sottraevano territori<br />

che donavano in vassallaggio quando avvertivano timore per la circostanziale potenza<br />

raggiunta dal principato.<br />

Quest’ultimo era stato il caso quando nel 1376 la regina <strong>di</strong> Napoli Giovanna I d’Angiò,<br />

sottraendolo al suo legittimo titolare Giacomo Del Balzo, lo aveva concesso al suo<br />

quarto marito Ottone <strong>di</strong> Brunsvick notevolmente ri<strong>di</strong>mensionato dal punto <strong>di</strong> vista<br />

territoriale per contrastare le aspirazioni autonomiste e centrifughe che si erano<br />

manifestate con l’ultimo dei precedenti principi, Filippo II quartogenito figlio <strong>di</strong> Carlo<br />

II d’Angiò, morto nel 1374 e succeduto, appunto, dal nipote Giacomo Del Balzo, figlio<br />

<strong>di</strong> sua sorella Margherita.<br />

Lo scoppio dello scisma d’occidente ebbe imme<strong>di</strong>ata ripercussione in tutte le<br />

numerose arci<strong>di</strong>ocesi pugliesi, comprese quelle <strong>di</strong> Capitanata, quelle <strong>di</strong> Terra <strong>di</strong> Bari e<br />

quelle <strong>di</strong> Terra d’Otranto dove, a partire dalla primaziale Otranto, il suo presule<br />

Giacomo da Itri, arcivescovo fin dal 1363, aderì da subito alla protesta e quin<strong>di</strong> da<br />

subiti appoggiò l’antipapa Clemente VII.<br />

Giacomo da Itri fu il primo dei nuovi car<strong>di</strong>nali promossi da Clemente VII e fu,<br />

naturalmente, scomunicato dal papa Urbano VI, che quin<strong>di</strong> nominò per Otranto un<br />

nuovo arcivescovo che però restò tale solo nominalmente e mai fu a Otranto, visto che<br />

praticamente l’intera curia otrantina aderì allo scisma.<br />

E a Brin<strong>di</strong>si, Lecce, Taranto e la maggior parte delle altre <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Terra d’Otranto, gli<br />

eventi imme<strong>di</strong>ati seguirono lo stesso canovaccio.<br />

«… In Capitanata, su 12 se<strong>di</strong> vescovili, andarono esenti dalle conseguenze dello scisma<br />

solamente 2: Ascoli Satriano e Dragonara. In Terra <strong>di</strong> Bari, rimasero fuori dall’orbita<br />

scismatica soltanto Minervino e Ruvo. In Terra d’Otranto, su 12 vescovati non furono<br />

contagiati Mottola e Castellaneta.<br />

Dunque, su 40 <strong>di</strong>ocesi pugliesi, unicamente 6 non provarono gli effetti <strong>di</strong> quel luttuoso<br />

<strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne e ben 34 ebbero a subire scompigli con intrusione <strong>di</strong> vescovi da parte degli<br />

antipapi, con scandalosa duplicazione <strong>di</strong> presuli contemporanei e fra loro battaglianti,<br />

con un clero dubbioso a chi obbe<strong>di</strong>re, con ripercussioni sui fedeli e con il pullulare <strong>di</strong><br />

fazioni, in quanto ecclesiastici e laici formarono nella casa <strong>di</strong> Dio covi <strong>di</strong> antitesi,<br />

parteggianti chi per i papi legittimi, chi per gli antipapi, chi per il vescovo nominato<br />

dal papa, chi per quello dell’antipapa.<br />

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Se in 34 delle se<strong>di</strong> vescovili pugliesi, tra la fine del Secolo XIV e il principio del Secolo<br />

XV, papi e antipapi crearono, gli uni legittimamente i vari successori dei presuli<br />

altrove trasferiti, o cacciati dagli scismatici, o defunti, gli altri le loro creature con<br />

deliberata delittuosa illegittimità, anche nelle altre rimanenti 6 <strong>di</strong>ocesi pugliesi esenti<br />

dallo scisma, andò creandosi un malessere e queste ne risentirono <strong>di</strong> riflesso, e non<br />

lievemente.<br />

E va anche ricordata Oria, la quale ne soffrì <strong>di</strong>rettamente: anche se per allora già non<br />

era sede vescovile, era stata tale ben prima e conservava ancora tutta la sua grande<br />

importanza ecclesiastica d’un tempo…» ‐Francesco Badudri‐<br />

Al sorgere della lotta per il trono napoletano tra Angioini e Durazzeschi seguita allo<br />

scoppio dello scisma d’occidente, con la conseguente defenestrazione <strong>di</strong> Giovanna I e<br />

la salita sul trono <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong> Carlo III <strong>di</strong> Durazzo, il principato <strong>di</strong> Taranto fu<br />

recuperato per un breve periodo <strong>di</strong> tempo da Giacomo Del Balzo.<br />

Poco dopo, infatti, i suoi contrasti con il sovrano furono sfruttati da Raimondo Orsini<br />

Del Balzo, per quel tempo un capitano <strong>di</strong> ventura, il quale investito della custo<strong>di</strong>a del<br />

castello come luogotenente dallo stesso Giacomo, assunse -anch’egli però, solo<br />

temporalmente- in proprio il possesso del castello tarantino come titolare <strong>di</strong> supposti<br />

<strong>di</strong>ritti ere<strong>di</strong>tari, in quanto figlio <strong>di</strong> Nicola Orsini conte <strong>di</strong> Nola e <strong>di</strong> Maria Del Balzo<br />

<strong>di</strong>scendente <strong>di</strong> una sorella del Giacomo.<br />

Infatti, quando Luigi I d’Angiò invase il regno <strong>di</strong> Napoli nel tentativo <strong>di</strong> liberare la<br />

regina Giovanna I e rimetterla sul trono che gli aveva usurpato Carlo III <strong>di</strong> Durazzo, si<br />

<strong>di</strong>resse sulla Puglia e nel 1383 acquisì il principato <strong>di</strong> Taranto che, pertanto, tornò ad<br />

essere nominalmente intitolato a Ottone <strong>di</strong> Brunsvick, ormai vedovo <strong>di</strong> Giovanna I.<br />

E questi lo continuò a conservare anche dopo la morte, nel 1384, <strong>di</strong> Luigi I d’Angiò,<br />

giacché pensò bene <strong>di</strong> trasmigrare rapidamente al bando durazzesco, mantenendo poi<br />

il principato, nominalmente fino alla propria morte, avvenuta nel 1398.<br />

Nel 1385, Raimondo Orsini Del Balzo sposò Maria d’Enghien, figlia del conte Giovanni<br />

<strong>di</strong> Lecce e <strong>di</strong> Sancia Del Balzo che gli portò in dote il dominio sulla contea <strong>di</strong> Lecce<br />

nonché le baronie <strong>di</strong> Mesagne e <strong>di</strong> Carovigno, con un matrimonio dovuto al sostegno<br />

della corte <strong>di</strong> Luigi II D’Angiò, che contava Raimondo tra i suoi più fedeli servitori, e a<br />

quello del papa Urbano VI, che Raimondo aveva liberato nel luglio 1385 dall’asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong><br />

Nocera perpetrato da Carlo III <strong>di</strong> Durazzo.<br />

Poi, tra il 1386 e il 1398, in seguito alla morte <strong>di</strong> Carlo III <strong>di</strong> Durazzo e alla salita sul<br />

trono <strong>di</strong> Napoli del suo giovanissimo figlio La<strong>di</strong>slao sotto la reggenza della madre<br />

Margherita, nonché grazie al temporale inse<strong>di</strong>amento sul trono <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong> Luigi II<br />

d’Angiò nel 1390, Raimondo poté estendere il suo potere anche su Brin<strong>di</strong>si, Molfetta,<br />

Monopoli, Gallipoli e Martinafranca con il sostegno <strong>di</strong> alcune delle <strong>di</strong>verse parti in<br />

lotta nel regno e poi, con il sostegno <strong>di</strong> Luigi II d’Angiò, poté anche espropriare al<br />

padre e al fratello la contea <strong>di</strong> Soleto.<br />

Inoltre, in Campania, prese in pegno e quin<strong>di</strong> comprò da Ottone <strong>di</strong> Brunsvick, la contea<br />

<strong>di</strong> Acerra e <strong>di</strong>versi casali, Marcianise, San Vitaliano e Trentola, mentre in Irpinia<br />

detenne le baronie <strong>di</strong> Flumeri Trevico e Guar<strong>di</strong>a Lombarda.<br />

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Sul finire del 1398, rendendosi conto della imminente capitolazione <strong>di</strong> Luigi II<br />

D’Angiò, il Raimondo Orsini Del Balzo compì un clamoroso voltafaccia, facendo atto <strong>di</strong><br />

sottomissione a La<strong>di</strong>slao <strong>di</strong> Durazzo, una mossa che gli valse la promessa della futura<br />

concessione reale del sempre ambito principato <strong>di</strong> Taranto, che si concretizzò nel<br />

1399, poco dopo la morte del principe titolare Ottone <strong>di</strong> Braunschweig, anche se con<br />

una consistenza territoriale nuovamente e sensibilmente <strong>di</strong>minuita.<br />

Matera, Castellaneta, Laterza, Massafra e Gioia del Colle furono <strong>di</strong>staccate dal grande<br />

feudo e infeudate come contea <strong>di</strong> Matera a Stefano Sanseverino, mentre Polignano a<br />

Mare fu concessa a Lorenzo Acciaioli e in seguito inglobata nel demanio regio.<br />

Al contempo inoltre, Raimondo fu obbligato a rinunciare alla signoria su Brin<strong>di</strong>si,<br />

Barletta e Monopoli, che La<strong>di</strong>slao infeudò a sua madre Margherita <strong>di</strong> Durazzo, alla<br />

quale concesse pure Gravina, Bitonto e Venosa.<br />

Comunque, con il principato, per quell’epoca <strong>di</strong> fatto ancora il feudo più esteso <strong>di</strong> tutto<br />

il regno <strong>di</strong> Napoli, nella Terra d’Otranto Raimondo Orsini Del Balzo sommò per sé<br />

vasti posse<strong>di</strong>menti, anche se sparsi, e tra quelli, Francavilla Fontana, Gallipoli, Ginosa,<br />

Martinafranca, Mottola, Nardò, Oria, Ostuni, Ugento, Tricase e Taranto, sui quali<br />

governò comportandosi come un principe prerinascimentale, in completa autonomia e<br />

dando grande rilievo all’arte e alla cultura.<br />

Del resto, il suo potere su tutti quei territori, vista la lontananza e la debolezza della<br />

corona durazzesca, a quell’epoca fu pressoché illimitato.<br />

Con il ritorno del regno sotto il controllo durazzesco, nel 1399, l’arci<strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Otranto<br />

poté essere rioccupata da un arcivescovo <strong>di</strong> obbe<strong>di</strong>enza romana, Filippo, nominato dal<br />

papa Bonifacio IX succeduto a Urbano VI, e con il suo arrivo nella chiesa otrantina, una<br />

volta allontanato l’arcivescovo Riccardo per or<strong>di</strong>ne del principe Raimondo Orsini Del<br />

Balzo, lo scisma in tutta la Terra d’Otranto ebbe praticamente termine.<br />

Del resto, la caduta <strong>di</strong> Luigi II d’Angiò, la scomparsa <strong>di</strong> scena dell’antipapa Clemente<br />

VII, l’abilità politica del nuovo papa romano Bonifacio IX e l’energica pressione del<br />

principe <strong>di</strong> Taranto Raimondo Orsini Del Balzo, tolsero ogni possibilità agli<br />

ecclesiastici aderenti allo scisma <strong>di</strong> poter rimanere in carica nelle loro se<strong>di</strong>,<br />

anticipando, <strong>di</strong> fatto, la definitiva e totale conclusione dello scisma.<br />

I rapporti fra il potente principe <strong>di</strong> Taranto Raimondo Orsini Del Balzo e il re La<strong>di</strong>slao<br />

si guastarono in pochi anni e, sul finire del 1405 indotto dal papa Innocenzo VII,<br />

Raimondo ricambiò bando e si ribellò a La<strong>di</strong>slao: concesse in tutti i suoi territori un<br />

indulto ai seguaci <strong>di</strong> Luigi II d’Angiò e si mise a capo <strong>di</strong> un’alleanza militare antidurazzesca.<br />

Ma poco dopo, il 17 gennaio 1406, morì <strong>di</strong> colpo.<br />

A quel punto, la moglie <strong>di</strong> Raimondo, Maria d’Enghien, con i due figli minorenni<br />

Giovanni Antonio e Gabriele, si trasferì da Lecce a Taranto, che più facilmente poteva<br />

essere <strong>di</strong>fesa dall’imminente attacco <strong>di</strong> La<strong>di</strong>slao e poteva ricevere rinforzi dall’alleato<br />

Luigi II d’Angiò, sempre risoluto a riprendersi il regno <strong>di</strong> Napoli.<br />

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Maria d’Enghien e Luigi II d’Angiò strinsero anche un preciso accordo che, tra altro,<br />

prevedeva per il figlio primogenito <strong>di</strong> Maria, Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, il<br />

principato <strong>di</strong> Taranto nella sua articolazione feudale integrale del tempo del principe<br />

Filippo II (composto da Taranto, Massafra, Palagiano, Mottola, Castellaneta, Laterza,<br />

Ginosa, Gioia del Colle, Martinafranca, Polignano, Ostuni, Oria, Nardò, Gallipoli,<br />

Otranto e Ugento), le tre contee <strong>di</strong> Soleto, <strong>di</strong> Lecce e <strong>di</strong> Castro, le baronie <strong>di</strong> Mesagne e<br />

<strong>di</strong> Carovigno, nonché i due importanti porti <strong>di</strong> Barletta e Brin<strong>di</strong>si.<br />

Però, il fato giocò un brutto scherzo ai due cospiratori e la flotta approntata da Luigi II<br />

d’Angiò con l’esercito e il tesoro monetario, naufragò appena salpata da Marsiglia il 26<br />

<strong>di</strong>cembre del 1406.<br />

E così, quando a metà <strong>di</strong> aprile 1407 il re La<strong>di</strong>slao giunse con il suo esercito sotto le<br />

mura <strong>di</strong> Taranto, incalzata da una situazione ormai chiaramente senza una possibile<br />

via d’uscita e su consiglio del suo stesso comandante delle truppe, Maria d’Enghien<br />

iniziò subito le trattative per la resa che si conclusero molto rapidamente, il 23 aprile,<br />

con il suo matrimonio con il re.<br />

Morto La<strong>di</strong>slao senza ere<strong>di</strong> <strong>di</strong>retti nell’agosto 1414, gli succedette la sorella Giovanna<br />

II <strong>di</strong> Durazzo, la quale inizialmente fece imprigionare Maria d’Enghien e i suoi figli,<br />

Giovanni e Gabriele, rendendogli dopo pochi anni la libertà e restituendogli poi la<br />

contea <strong>di</strong> Soleto e la baronia <strong>di</strong> Flumeri, nonché Altamura e Minervino Murge. E<br />

finalmente, il 4 maggio 1420, il quasi ventenne Giovanni Antonio Orsini Del Balzo,<br />

nato a Lecce il 9 settembre 1401, fu infeudato con il principato <strong>di</strong> Taranto.<br />

Scoppiato nel 1423 il conflitto tra Aragonesi e Angioini per la successione al trono <strong>di</strong><br />

Giovanna II, il principe Orsini Del Balzo inizialmente non prese posizione. In seguito,<br />

però, quando Giovanna II insignì il suo avversario Giacomo Caldora del titolo <strong>di</strong> duca<br />

<strong>di</strong> Bari, si schierò dalla parte <strong>di</strong> Alfonso V d’Aragona.<br />

La regina allora lo considerò un ribelle e nell’estate del 1434 fece occupare da Caldora<br />

quasi tutti i suoi posse<strong>di</strong>menti in Terra d’Otranto, che però Orsini Del Balzo riuscì a<br />

riconquistare in breve tempo.<br />

Dopo la morte della regina Giovanna II, avvenuta il 2 febbraio 1435, nel conflitto tra<br />

Alfonso V d’Aragona e il nuovo erede designato al trono, Renato d’Angiò, fratello<br />

minore <strong>di</strong> Luigi III d’Angiò anteriore erede designato da Giovanna II, il principe<br />

Giovanni Orsini Del Balzo prese <strong>di</strong> nuovo le parti dell’aragonese e così, dopo la vittoria<br />

definitiva <strong>di</strong> questi contro i d’Angiò, nel 1442, si trovò a essere il più potente<br />

feudatario del nuovo regno delle Due Sicilie:<br />

“signore <strong>di</strong> più <strong>di</strong> 400 castelli, il cui dominio si estendeva da Marigliano a Leuca e a cui,<br />

dopo la morte della madre Maria, si aggiunsero le contee <strong>di</strong> Lecce e <strong>di</strong> Soleto”.<br />

Estinta la <strong>di</strong>nastia durazzesca e debellate per sempre le pretese angioine sul regno <strong>di</strong><br />

Napoli, l’intera Terra d’Otranto e la parte meri<strong>di</strong>onale della Terra <strong>di</strong> Bari finirono sotto<br />

il dominio del potente principe <strong>di</strong> Taranto.<br />

91


Urbano VI<br />

Clemente VII<br />

Giovanna I Carlo III La<strong>di</strong>slao Giovanna II<br />

Margherita <strong>di</strong> Durazzo Maria d’Enghien Giovanni Orsini Del Balzo<br />

Luigi I Luigi II Luigi III Renato<br />

92


A Brin<strong>di</strong>si…<br />

lo scisma d’occidente del 1378 incontrò la città in preda a una situazione <strong>di</strong> forte crisi,<br />

giacché non si era ancora del tutto ripresa dai gravissimi fatti che una trentina d’anni<br />

prima l’avevano sconvolta, generati dalla violenta lotta civile tra le due più potenti<br />

famiglie della città -i Ripa e i Cavalerio- che, in seguito a una grave carestia esplosa<br />

pochi anni dopo l’inse<strong>di</strong>amento sul trono <strong>di</strong> Napoli della regina Giovanna I d’Angiò, era<br />

sfociata nel 1346, in una serie <strong>di</strong> delitti d’ogni genere: saccheggi, incen<strong>di</strong>, <strong>di</strong>struzioni<br />

ed assassinii.<br />

L’impotente governatore provinciale, il napoletano Goffredo Gattola, fu espulso da<br />

Filippo Ripa entrato in città con mille armati e la situazione poté finalmente essere<br />

controllata solo grazie all’intervento del principe <strong>di</strong> Taranto Roberto che, nella totale<br />

assenza <strong>di</strong> una autoritaria azione del troppo lontano governo centrale del regno,<br />

decise <strong>di</strong> porre or<strong>di</strong>ne tra tanta violenza e tanta anarchia e <strong>di</strong> scongiurare anche il<br />

tentativo del suo “crudele, avaro, tra<strong>di</strong>tore, lussurioso, ingiusto e spergiuro” fratello, il<br />

duca <strong>di</strong> Atene Gualtieri VI <strong>di</strong> Brienne, <strong>di</strong> impadronirsi della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, ormai allo<br />

sbando.<br />

Roberto inviò i suoi uomini armati in città, da dove cacciò i Ripa che si erano macchiati<br />

<strong>di</strong> gravissimi delitti e <strong>di</strong> assassinii con cui avevano quasi annientato i Cavalerio e<br />

quin<strong>di</strong>, ristabilì l’or<strong>di</strong>ne e la legge riuscendo finalmente a pacificare l’intera città. E i<br />

citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, in riconoscimento e in cerca <strong>di</strong> protezione, manifestarono il<br />

desiderio che la città fosse incorporata al principato <strong>di</strong> Taranto dal quale in quegli<br />

anni si trovava esclusa, un’appartenenza che poi si formalizzò nel 1353.<br />

Del resto, già negli anni prossimi al concludersi il regno <strong>di</strong> Roberto d'Angiò, figlio <strong>di</strong><br />

Carlo II e nonno <strong>di</strong> Giovanna I, che regnò a lungo fino al 1343, le con<strong>di</strong>zioni<br />

economiche <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si erano talmente depresse che un incaricato del Giustiziere <strong>di</strong><br />

Terra <strong>di</strong> Bari, che aveva avuto l'or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> vendere una certa quantità <strong>di</strong> zucchero,<br />

comunicò che la città, pur essendo centro marittimo e mercantile importante, era<br />

quasi deserta e spopolata e che non aveva trovato chi potesse comprare lo zucchero<br />

della Curia.<br />

Poi, alla carestia del 1345 e alla desolazione delle violente e sanguinose lotte citta<strong>di</strong>ne<br />

del 1346, si aggiunse anche la tristemente celebre peste del 1348 e così l’intera città <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si sprofondò per anni in totale miseria, tanto da indurre il governo centrale <strong>di</strong><br />

Napoli ad esonerarla temporalmente da ogni gravame e a concederle vari altri<br />

privilegi e franchigie.<br />

Ma ormai, con gli Angioini inse<strong>di</strong>ati al governo <strong>di</strong> Napoli, nel regno si era formata e poi<br />

fortemente ra<strong>di</strong>cata una élite internazionale, in particolare fiorentina, che in Terra<br />

d’Otranto aveva stabilito la sua sede a Lecce, che a partire da quel tempo assunse un<br />

ruolo decisamente competitivo e poi economicamente e culturalmente prevalente<br />

rispetto alle antiche vicine città <strong>di</strong> mare, Brin<strong>di</strong>si in primis, che per secoli non ebbe più<br />

molte opportunità <strong>di</strong> ritornare all’antico splendore.<br />

Appena eletto antipapa, nel 1378, Clemente VII considerò Brin<strong>di</strong>si, sapendolo centro<br />

storico cristiano <strong>di</strong> fama pietrina, come sede <strong>di</strong> sua giuris<strong>di</strong>zione ed ebbe molto a<br />

cuore accaparrarsi la piena adesione della sua chiesa arcivescovile dove, proprio nel<br />

1378 morì l’arcivescovo domenicano Pietro Giso, detto Pino, presule <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fin dal<br />

93


1352. Clemente VII quin<strong>di</strong>, il 7 febbraio 1379, elesse arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Gorello,<br />

che fu detto anche Guglielmo, già poderoso tesoriere della basilica <strong>di</strong> San Nicola <strong>di</strong><br />

Bari e scismatico convinto.<br />

Il papa Urbano VI oppose a tale nomina illegittima quella, <strong>di</strong> fatto solo teorica, <strong>di</strong><br />

Marino del Giu<strong>di</strong>ce, trasferendolo dalla <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Cassano, da dove era già stato<br />

cacciato da Clemente VII e sostituito con Andrea Cumano. Ma Marino mai si poté<br />

inse<strong>di</strong>are a Brin<strong>di</strong>si, e neanche a Taranto dove fu poi nominato da Urbano VI e dove<br />

invece si inse<strong>di</strong>ò Martino, già vescovo <strong>di</strong> Tricarico, nominato dall’antipapa Clemente<br />

VII e poi sostituito da Matteo Spina, già arcivescovo <strong>di</strong> Trani, che gli successe dopo la<br />

morte.<br />

E per l’arci<strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, l’11 giugno 1382 il papa Urbano Vl elevò a arcivescovo<br />

Riccardo Ruggieri, un uomo prudente poi molto stimato anche dal re La<strong>di</strong>slao <strong>di</strong><br />

Durazzo, che esercitò l’incarico, più o meno da titolare, fino al 1409.<br />

In effetti a Brin<strong>di</strong>si, come del resto a Otranto e in tutta la Puglia, Clemente VII aveva le<br />

spalle coperte dal favore della regina <strong>di</strong> Napoli Giovanna I d’Angiò e, inoltre, aveva<br />

rapidamente <strong>di</strong>stribuito favori, <strong>di</strong>gnità, onori e aggiu<strong>di</strong>cazioni <strong>di</strong> beni e prebende a<br />

canonici, abati, presbiteri e chierici, onde la maggioranza del clero appoggiò lo scisma<br />

contro l’iracondo papa Urbano VI, che non poté far null’altro che inviare come legato<br />

pontificio il car<strong>di</strong>nale Gentile de Sangro che <strong>di</strong>chiarò nominalmente illegittimi tutti gli<br />

appartenenti al clero aderenti allo scisma.<br />

Seguita, nel 1381, la deposizione e imprigionamento della scomunicata regina<br />

Giovanna I d’Angiò a opera <strong>di</strong> Carlo III <strong>di</strong> Durazzo incoronato re dal papa Urbano VI<br />

appena esploso lo scisma d’occidente nel 1378, Luigi I d’Angiò varcò le Alpi il 13<br />

giugno del 1382 e scese in armi in Italia per riven<strong>di</strong>care il trono <strong>di</strong> Napoli assegnatogli<br />

in ere<strong>di</strong>tà da Giovanna I e conferitogli dall’antipapa Clemente VII con una formale<br />

incoronazione.<br />

In risposta a quell’azione angioina, Carlo III <strong>di</strong> Durazzo ordì l’assassinio della regina<br />

Giovanna I d’Angiò che fu freddamente eseguito il 17 luglio del 1382 e che implicò<br />

anche l’uccisione <strong>di</strong> vari cortigiani e tra <strong>di</strong> loro la dama <strong>di</strong> corte Angela Buccella da<br />

Brin<strong>di</strong>si.<br />

Dopo un periplo lungo la penisola italiana, Luigi I d’Angiò giunse in Puglia, dove<br />

ricevette l’aiuto <strong>di</strong> molti nobili pugliesi e acquisì il principato <strong>di</strong> Taranto, città in cui il<br />

30 agosto s’intitolò re <strong>di</strong> Sicilia e in cui rimase a lungo in attesa <strong>di</strong> rinforzi.<br />

Poi guerreggiò contro le varie città rimaste filo durazzesche, tra le quali anche Brin<strong>di</strong>si<br />

dove, a quel tempo ancora favorita dalle concessioni <strong>di</strong>sposte fin dal 1381 da Carlo III<br />

per la sua recuperazione economica e sociale, era sindaco Angelo de Pondo, era<br />

governatore Aloysio Pagano ed era capitano del castello Cosmo de Tarmera. Quando<br />

nel 1383 Luigi I d’Angiò si presentò con il suo esercito alle porte della città, Brin<strong>di</strong>si<br />

tentò <strong>di</strong> resistergli, ma fu asse<strong>di</strong>ata presa e saccheggiata barbaramente.<br />

Poi, a fine luglio 1384, Luigi I d’Angiò ottenne pacificamente Bari, dove nominò<br />

capitani, giustizieri e viceré. Quin<strong>di</strong>, asse<strong>di</strong>ò e prese Bisceglie e, dopo essersi accordato<br />

con parte dei citta<strong>di</strong>ni contrari ai Durazzeschi, evitò che i suoi soldati la<br />

saccheggiassero.<br />

94


Però, nel corso della battaglia contro il capitano durazzesco Alberigo da Barbiano,<br />

combattuta intorno a quella città il 13 settembre, fu vinto rimanendo anche ferito e<br />

dopo pochi giorni, il 20 settembre del 1384, morì a Bari, forse proprio in seguito alle<br />

ferite riportate.<br />

Quando il re Carlo III <strong>di</strong> Durazzo, finalmente consolidato sul trono <strong>di</strong> Napoli fu, nel<br />

1386, assassinato in Ungheria, il regno restò sotto il potere <strong>di</strong> sua moglie, l’energica<br />

Margherita <strong>di</strong> Durazzo, madre reggente <strong>di</strong> La<strong>di</strong>slao e Brin<strong>di</strong>si, già scorporata dal<br />

principato <strong>di</strong> Taranto, fu presa da Raimondo Orsini Del Balzo, anche se durante gli<br />

anni che durò la reggenza <strong>di</strong>pese nominalmente dal governo <strong>di</strong> Margherita.<br />

La reggenza <strong>di</strong> Margherita <strong>di</strong> Durazzo fu però abbastanza convulsa ed instabile a causa<br />

dei contrasti sorti con il papa Urbano VI e per colpa delle costanti minacce d’invasione<br />

del regno da parte dei pretendenti angioini al trono, che finalmente si<br />

materializzarono nel 1390 quando le armi angioine riuscirono nel tentativo <strong>di</strong><br />

strappare Napoli ai Durazzeschi, inse<strong>di</strong>andovi, e per quasi <strong>di</strong>eci anni, Luigi II d’Angiò,<br />

il quale nel 1394, sulle orme del padre, saccheggiò Brin<strong>di</strong>si, rea <strong>di</strong> essere rimasta<br />

fedele ai Durazzesci.<br />

Il principato <strong>di</strong> Taranto fu infeudato al filoangioino Raimondo Orsini Del Balzo che,<br />

oltre alla contea <strong>di</strong> Lecce portatagli in dote dalla moglie Maria d’Enghien, si era già<br />

preso anche Brin<strong>di</strong>si, e molti dei suoi domini sopravvissero allo stesso Luigi II d’Angiò<br />

che glieli aveva concessi.<br />

Infatti, quando nel 1399 l’angioino fu detronizzato da La<strong>di</strong>slao <strong>di</strong> Durazzo che si<br />

rimpossessò del trono, il principe Raimondo non esitò a cambiare <strong>di</strong> bando alleandosi<br />

con il restaurato re.<br />

In questo modo, non solo conservò per sé il principato, la contea <strong>di</strong> Lecce e altri<br />

posse<strong>di</strong>menti già acquisiti, ma ottenne anche le città <strong>di</strong> Otranto, Nardò, Ugento,<br />

Gallipoli, Oria, Mottola, Martinafranca e tutte le altre terre della Terra d’Otranto già<br />

possedute dai precedenti principi.<br />

Solo Brin<strong>di</strong>si, Barletta e Monopoli, furono dal re La<strong>di</strong>slao infeudate a sua madre<br />

Margherita <strong>di</strong> Durazzo, che dopo sette anni, nell’ottobre del 1406, cedette la signoria<br />

su Brin<strong>di</strong>si a cambio <strong>di</strong> Palazzo San Gervasio con il relativo castello e la terra <strong>di</strong><br />

Stigliano.<br />

Tutto il potentato <strong>di</strong> Raimondo, alla sua morte avvenuta nel 1407, fu ere<strong>di</strong>tato dal suo<br />

giovanissimo primogenito Giovanni Antonio Orsini Del Balzo e fu mantenuto in<br />

reggenza dalla madre Maria d’Enghien che, una volta vedova, aveva pensato bene <strong>di</strong><br />

sposarsi con il pure vedovo, ed ex nemico, re La<strong>di</strong>slao.<br />

Il 15 settembre del 1409, il papa Gregorio XII nominò arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Vittore,<br />

arci<strong>di</strong>acono <strong>di</strong> Castellaneta, in successione a Riccardo Ruggeri, morto. Vittore morì<br />

molto presto e, il 1° marzo del 1411, il papa nominò Paolo Romano.<br />

A causa della malattia <strong>di</strong> Vittore prima, e a causa dell’assenza in sede <strong>di</strong> Paolo dopo,<br />

nell’arci<strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si in quegli anni esercitò il vicariato generale Andrea,<br />

episcopo della chiesa crisopolitana.<br />

95


In seguito, nel 1412, le acque per l’arci<strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si s’intorpi<strong>di</strong>rono nuovamente<br />

e la posizione dell’arcivescovo Paolo Romano <strong>di</strong>venne precaria e la chiesa brin<strong>di</strong>sina<br />

ricadde nell’anarchia con l’antipapa Giovanni XXIII.<br />

Questi il 28 novembre depose Paolo Romano, nominando arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

Pandullo, abate benedettino <strong>di</strong> Santa Maria <strong>di</strong> Montevergine in Avellino. Pandullo morì<br />

nel <strong>di</strong>cembre del 1414 e Giovanni XXIII, il 9 febbraio 1415, nominò suo successore<br />

Aragonio Malaspina, arciprete <strong>di</strong> Albenga.<br />

Finalmente, il concilio <strong>di</strong> Costanza depose l’antipapa Giovanni XXIII, poi il papa<br />

Gregorio XII rinunciò volontariamente e quin<strong>di</strong>, il Sacro Collegio elesse al pontificato<br />

<strong>di</strong> Roma Otto Colonna, con il nome <strong>di</strong> Martino V, sancendo quell’elezione, la fine dello<br />

scisma.<br />

Il 23 febbraio 1418, il nuovo papa trasferì Aragonio Malaspina all’arcivescovato <strong>di</strong><br />

Taranto e ristabilì alla <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si l’arcivescovo Paolo Romano, rientrando così<br />

la chiesa brin<strong>di</strong>sina, dopo quarant’anni, nella normalità.<br />

In quei torbi<strong>di</strong> quarant’anni ch’era durato lo scisma, e già nei vari decenni precedenti:<br />

«... i costumi del clero latino e greco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dovettero essere alquanto corrotti, se<br />

la regina Giovanna I comandò al Giustiziere <strong>di</strong> Terra d’Otranto <strong>di</strong> <strong>di</strong>chiarare decaduti<br />

dai privilegi e dalle immunità ecclesiastiche tanto i chierici greci quanto quelli latini,<br />

se ammoniti per tre volte dall’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, non tornassero a vivere vita più<br />

costumata, essi che erano <strong>di</strong> con<strong>di</strong>zione vile, <strong>di</strong> fama pessima, mai occupati negli uffici<br />

<strong>di</strong>vini e sempre immersi in negozi profani...» ‐Nicola Vacca‐<br />

Morto nel 1414 il re La<strong>di</strong>slao <strong>di</strong> Durazzo, salì sul trono <strong>di</strong> Napoli la sorella <strong>di</strong> questi,<br />

Giovanna II <strong>di</strong> Durazzo, una donna volubile che imprigionò per un breve periodo gli<br />

Orsini Del Balzo, cioè Maria d’Enghien <strong>di</strong>venuta vedova <strong>di</strong> La<strong>di</strong>slao e i suoi ancor<br />

giovani figli, salvo poi restituire loro la contea <strong>di</strong> Lecce, altri posse<strong>di</strong>menti e, infine, nel<br />

1420, anche il principato <strong>di</strong> Taranto, quando Giovanni Orsini Del Balzo <strong>di</strong>venne<br />

maggiorenne.<br />

In quello stesso anno, 1420, Brin<strong>di</strong>si fu assaltata dall'esercito <strong>di</strong> Luigi III d'Angiò,<br />

pretendente al regno <strong>di</strong> Napoli e non ancora favorito dalle grazie della regina<br />

Giovanna II, la quale concesse alla città vari ed ampi privilegi in riconoscimento e<br />

ringraziamento della fedeltà in quell’occasione, manifesta verso <strong>di</strong> lei.<br />

Nonostante quelle tante turbolenze, in quegli anni Brin<strong>di</strong>si cercò <strong>di</strong> sopravvivere<br />

mantenendo una sua, pur limitata e precaria, economia e in qualche modo rimase al<br />

margine delle feroci contese <strong>di</strong> palazzo che afflissero il sempre lontano trono <strong>di</strong> Napoli<br />

«... il popolo conservò la tra<strong>di</strong>zione che nella magna ruga scutariorum, la strada delle<br />

ferrarie oggi via Cesare Battisti, perché spaziosa più delle altre, vi esercitavano il loro<br />

mestiere fon<strong>di</strong>tori <strong>di</strong> bronzo, fabbri e armaioli. Credo non sia inutile ricordare che in<br />

Brin<strong>di</strong>si, ancora nel 1417, vi era una meravigliosa armeria <strong>di</strong> tutte sorti d’armi e in<br />

tanto numero che potevano in un momento armare un grand’esercito...» ‐Nicola<br />

Vacca‐<br />

Il 22 febbraio 1423 morì l’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Paolo Romano e il papa Martino V<br />

nominò a suo successore il napoletano Pietro Gattula, vescovo <strong>di</strong> Sant’Agata, che<br />

rimase presule <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si per quin<strong>di</strong>ci anni, fino alla sua morte, nel 1437.<br />

96


Giovanna II <strong>di</strong> Durazzo, de<strong>di</strong>ta al libertinaggio, si sposò più volte e più volte cambiò <strong>di</strong><br />

favoriti e <strong>di</strong> amanti, alternandoli tra i vari aspiranti feudatari e possibili pretendenti al<br />

trono, durazzeschi, angioini e, novità, anche aragonesi. E tra <strong>di</strong> loro, Luigi III d’Angiò e<br />

Alfonso V d’Aragona, i quali si cimentarono in una lunga ed estenuante lotta armata<br />

per la successione all’ambito trono.<br />

Il potente principe Orsini Del Balzo, cercò <strong>di</strong> mantenersi fuori da quella contesa, ma<br />

poi un suo vecchio nemico, Giacomo Caldora nominato duca <strong>di</strong> Bari, si alleò con Luigi<br />

III d’Angiò a quel tempo pretendente a ere<strong>di</strong>tare il trono <strong>di</strong> Napoli, ed assieme<br />

riuscirono a impossessarsi del ricco e strategico principato, Oria e Brin<strong>di</strong>si incluse,<br />

mentre Giovanni Orsini Del Balzo poté comunque mantenere le città <strong>di</strong> Taranto, Lecce,<br />

Rocca, Gallipoli, Ugento, Minervino, Castro, Venosa e Bari.<br />

Quin<strong>di</strong>, spinto da quegli eventi a parzializzarsi a favore del contendente aragonese, il<br />

principe spodestato riuscì a non far capitolare il castello <strong>di</strong> Oria e quello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, in<br />

cui si asserragliò e dove lo raggiunse la notizia dell’improvvisa malattia e morte <strong>di</strong><br />

Luigi III d’Angiò, avvenuta per malaria il 12 novembre del 1434. Decise quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

passare imme<strong>di</strong>atamente all’offensiva e si riprese con le armi la città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si tenuta<br />

dai due generali Minucci Camponesco e Onorato Gaetano <strong>di</strong> Giacomo Caldora.<br />

La regina Giovanna II, ormai anziana, <strong>di</strong>spose nel proprio testamento che alla sua<br />

morte la corona passasse a Renato I d'Angiò, fratello del deceduto Luigi III d’Angiò.<br />

Quin<strong>di</strong>, il 2 febbraio 1435 morì.<br />

I partigiani <strong>di</strong> Alfonso, e primo tra loro Giovanni Orsini Del Balzo, incoraggiati da<br />

quelle due morti scesero apertamente in campo combattendo contro il nuovo<br />

aspirante angioino, Renato d’Angiò. La lotta armata tra i due ban<strong>di</strong> cruenta e alterna,<br />

durò per ancora altri sette anni, nel corso dei quali si susseguirono e si moltiplicarono<br />

devastazioni e saccheggi finché, il 2 giugno del 1442, Alfonso d’Aragona entrò<br />

vittorioso in Napoli, mentre Renato d’Angiò ritornò in Francia, sancendo la fine del<br />

dominio angioino sul regno <strong>di</strong> Napoli.<br />

In quegli ultimi lunghi sette anni, la città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si per sua fortuna non soffrì altri<br />

<strong>di</strong>sagi particolari, mantenendosi sempre sotto il dominio feudale del rafforzato<br />

principe <strong>di</strong> Taranto e solo dovette contribuire alle lotte fornendo a quel principe i<br />

soldati <strong>di</strong> volta in volta a lui richiesti.<br />

Tuttavia, il secondogenito casato angioino sul regno <strong>di</strong> Napoli -quello dei Durazzeschi<br />

che era seguito a più <strong>di</strong> cent’anni anni <strong>di</strong> esoso e poi sempre più deteriorato corrotto e<br />

caotico governo angioino- conclusosi dopo ben sessant’anni anni <strong>di</strong> un “non governo”<br />

a Napoli, lasciò Brin<strong>di</strong>si in uno stato veramente pietoso, conseguente al prolungato<br />

periodo calamitoso iniziato con lo scoppio dello scisma d’occidente: sessant’anni nel<br />

corso dei quali, a lotte, saccheggi, incen<strong>di</strong>, carestie e quant’altro, propri delle guerriglie<br />

urbane e delle guerre civili, si erano susseguiti anche l’alluvione la peste e il<br />

terremoto.<br />

Eppure, nonostante il nuovo status politicamente più stabile e militarmente più<br />

tranquillo che il controllo aragonese avrebbe garantito per il regno e per la città <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, altri cataclismi funesti si profilavano sull’imme<strong>di</strong>ato orizzonte della città:<br />

97


Il principe <strong>di</strong> Taranto Giovanni Orsini Del Balzo signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, forse preoccupato<br />

dalla potenza in franca ascesa dei Veneziani e dall’idea che quelli potessero dal mare<br />

impadronirsi con facilità <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, o forse timoroso <strong>di</strong> una possibile invasione via<br />

mare del re Alfonso d’Aragona con il quale aveva deteriorato i rapporti e che da<br />

Brin<strong>di</strong>si avrebbe potuto prendere il suo principato, maturò e attuò nel 1449 uno<br />

stratagemma strano quanto malaugurato, che alla fine doveva rivelarsi funesto in<br />

estremo per Brin<strong>di</strong>si:<br />

«... Là dove l’imboccatura del canale era attraversata da una catena assicurata<br />

lateralmente alle torrette site sulle due sponde, fa affondare un bastimento carico <strong>di</strong><br />

pietre, ed ottura siffattamente il canale da permetterne il passaggio solo alle piccole<br />

barche. Non l’avesse mai fatto! Di qui l’interramento del porto, causa grave della<br />

malaria e della mortalità negli abitanti. Meglio forse, e senza forse, sarebbe stato se<br />

alcuno dei temuti occupatori si fosse impadronito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, prima che il principe<br />

avesse potuto mandare ad effetto il malaugurato <strong>di</strong>segno.<br />

Fu facile e poco costoso sommergere un bastimento carico <strong>di</strong> pietre e i posteri solo<br />

conobbero la fatica e il denaro che abbisognò per estrarlo e render libero nuovamente<br />

il canale. Più dannosa ai citta<strong>di</strong>ni fu questa precauzione del principe, che temeva <strong>di</strong><br />

perdere un brano del suo stato, che non tutte le antecedenti e seguenti devastazioni.<br />

L’opera inconsulta del principe fu naturalmente malveduta dalla città, la quale<br />

prevedeva le tristi conseguenze. Ma il fatto era compiuto...» ‐Ferrando Ascoli‐<br />

Poi, sullo scorcio <strong>di</strong> <strong>di</strong>cembre del 1456, un terribile terremoto interessò una buona<br />

parte del regno, e Brin<strong>di</strong>si fu tra le città più colpite «...e la rovina coperse e seppellì<br />

quasi tutti i suoi concitta<strong>di</strong>ni… e restò totalmente <strong>di</strong>sabitata... e al terremoto seguì la<br />

peste, la quale invase la città e troncò la vita a quel piccolo numero <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni<br />

ch’erano sopravvissuti al primo flagello...» ‐Andrea Della Monica‐<br />

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Babudri F. Lo scisma d'Occidente e i suoi riflessi sulla Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si-1955<br />

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Carito G. Brin<strong>di</strong>si Nuova guida-1994<br />

Della Monaca A. Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si-1674<br />

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Tafuri G.B. Riflessi del grande scisma d'Occidente in Terra d'Otranto-1967<br />

Vacca N. Brin<strong>di</strong>si ignorata-1954<br />

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Brin<strong>di</strong>si al tempo dei re aragonesi sul trono <strong>di</strong> Napoli:<br />

50 anni densi <strong>di</strong> <strong>storia</strong> citta<strong>di</strong>na nella seconda metà del XV secolo<br />

Pubblicato su.Brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

Gli antecedenti della conquista aragonese<br />

Nel 1282, contro il re <strong>di</strong> Napoli Carlo I d’Angiò, scoppiò a Palermo la rivolta dei Vespri,<br />

della quale il re Pietro III d’Aragona fu considerato l’architetto, perché pretendente al<br />

possesso dell’isola in quanto marito <strong>di</strong> Costanza figlia del re Manfre<strong>di</strong>, <strong>di</strong>scendente ed<br />

erede <strong>di</strong>retto del grande Federico II <strong>di</strong> Svevia.<br />

Certo è, che l’intervento aragonese a favore dei ribelli contro gli angioini, fu imme<strong>di</strong>ato<br />

e determinante. Seguì una lunga guerra nel corso della quale il figlio <strong>di</strong> Pietro III,<br />

Giacomo II, sposò una figlia <strong>di</strong> Carlo II d’Angiò lo zoppo e riconobbe agli Angiò la<br />

Sicilia, <strong>di</strong>etro il loro riconoscimento dei suoi <strong>di</strong>ritti sulla Sardegna e sulla Corsica. I<br />

Siciliani però, non accettarono quell’accordo e proclamarono loro re, nel 1296, il<br />

fratello <strong>di</strong> Giacomo II, Federico II d’Aragona, che amava <strong>di</strong>rsi III in quanto erede del<br />

grande re Federico II <strong>di</strong> Svevia, suo nonno materno.<br />

La questione fu momentaneamente chiusa nel 1302 dalla pace <strong>di</strong> Caltabellotta, con cui<br />

la Sicilia fu riconosciuta agli Angiò, ma venne assegnata vita natural-durante a<br />

Federico II che sposò Eleonora, l’altra figlia <strong>di</strong> Carlo II d’Angiò, dando origine, <strong>di</strong> fatto,<br />

a una vera <strong>di</strong>nastia aragonese autonoma in Sicilia.<br />

Federico II regnò a lungo, fino al 1337, e i suoi successori – Pietro dal 1337 al 1342,<br />

Ludovico dal 1342 al 1355 e Federico III (o IV) dal 1355 al 1377 – contrastarono gli<br />

sforzi angioini <strong>di</strong> ricondurre la Sicilia sotto il loro regno <strong>di</strong> Napoli, finché si giunse alla<br />

pace <strong>di</strong> Catania del 1372, che sancì una Sicilia in<strong>di</strong>pendente sotto la <strong>di</strong>nastia<br />

aragonese.<br />

Maria, figlia ed erede <strong>di</strong> Federico III (o IV), andò sposa a Martino I il giovane – figlio<br />

del secondogenito <strong>di</strong> Pietro IV d’Aragona – al quale, morto da re <strong>di</strong> Sicilia senza avere<br />

ere<strong>di</strong>, succedette il padre Martino II il vecchio, che intanto era asceso nel 1409 al trono<br />

d’Aragona e che quin<strong>di</strong>, tenne insieme sia la corona siciliana che quella aragonese.<br />

Nel 1410, alla morte del re Martino II senza ere<strong>di</strong> <strong>di</strong>retti, la corona passò a Fer<strong>di</strong>nando<br />

<strong>di</strong> Castiglia, <strong>di</strong> cui Martino II era zio materno, il quale salito sul trono <strong>di</strong> Aragona inviò<br />

nell’isola, come viceré, il figlio Giovanni, iniziando per la Sicilia un’epoca vicereale. Nel<br />

1416, sul trono <strong>di</strong> Aragona successe il figlio <strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando, Alfonso V, il quale si<br />

affrettò a richiamare dalla Sicilia il fratello Giovanni - che gli isolani aspiravano<br />

nominare loro autonomo re - sostituendolo nell’esercizio del viceregno con un nuovo<br />

viceré.<br />

Alfonso V, abile sovrano e <strong>di</strong>plomatico scaltro, riuscì a costruire un suo <strong>di</strong>ritto al trono<br />

<strong>di</strong> Napoli facendosi riconoscere come figlio adottivo dalla regina Giovanna II d’Angiò<br />

Durazzo. Poi, la stessa regina tornò sulle sue decisioni e, poco prima <strong>di</strong> morire, trasferì<br />

l’adozione al francese Renato d’Angiò: ne scaturì inevitabilmente una lunga e crudele<br />

guerra, che nel 1442 vide finalmente vittorioso l’aragonese: il nuovo re Alfonso I <strong>di</strong><br />

Napoli, riunificatore del regno fondato dai Normanni e passato a Svevi e Angioini.<br />

99


I re aragonesi sul trono <strong>di</strong> Napoli<br />

Alfonso V d’Aragona, dal 1442 Alfonso I <strong>di</strong> Napoli, scelse <strong>di</strong> risiedere a Napoli fino a<br />

quando vi morì nel 1458, e da Napoli governò l’impero catalano-aragonese, che nel<br />

bacino me<strong>di</strong>terraneo occidentale occupò uno spazio primeggiante, mantenendo da<br />

esso sostanzialmente <strong>di</strong>stinta e autonoma l’amministrazione del regno <strong>di</strong> Napoli, che<br />

fu da lui affidata quasi per intero a italiani. Alfonso, infatti, non rientrò più a<br />

Barcellona nonostante le richieste della moglie Maria, che durante tutti quegli anni<br />

continuò a governare, come reggente, i posse<strong>di</strong>menti spagnoli con Giovanni, il fratello<br />

<strong>di</strong> Alfonso.<br />

Alfonso I modernizzò il regno <strong>di</strong> Napoli e governò cercando <strong>di</strong> rinnovare i rapporti<br />

<strong>di</strong>plomatici ed economici con gli altri regni, <strong>di</strong> svecchiare le forme istituzionali<br />

esistenti e <strong>di</strong> apportare riforme sostanziali all’amministrazione territoriale.<br />

La politica del sovrano ebbe un significato sociale essenzialmente conservatore,<br />

favorendo il baronaggio che aveva in mano il governo delle città, con ripercussioni<br />

evidenti nell’accentuazione dei contrasti sociali. Ma ciò non impedì che nel complesso<br />

si potesse tendere ad avviare efficacemente la ripresa della vita economica e sociale<br />

del regno, dopo la lunga epoca meno favorevole attraversata dalla metà del secolo XIV.<br />

Nacque, con Alfonso I, il Sacro Regio Consiglio che, posto al vertice delle magistrature<br />

del regno, conseguì un’autorità dottrinaria e giuris<strong>di</strong>zionale che fu apprezzata anche<br />

all’estero. L’apparato giu<strong>di</strong>ziario napoletano, con la Corte della Vicaria al suo vertice,<br />

previde un ampio esercizio delle funzioni giuris<strong>di</strong>zionali anche da parte dei signori<br />

feudali e ai baroni concesse, peraltro, il merum et mixtum imperium, allargandone così<br />

ulteriormente la sfera giuris<strong>di</strong>zionale. Mentre il re <strong>di</strong>spose per sé, <strong>di</strong> una rete <strong>di</strong> organi<br />

amministrativi centrali e periferici e <strong>di</strong> una classe <strong>di</strong> funzionari e officiali regi molto<br />

efficaci: un forte strumento <strong>di</strong> governo a <strong>di</strong>sposizione del potere regio.<br />

Alfonso I proseguì e allargò la pratica delle intese con banchieri e finanzieri stranieri<br />

che aveva tra<strong>di</strong>zioni che risalivano fino all’epoca sveva ed erano in rapporto con la<br />

gestione del sistema fiscale, nonché con la gestione delle terre e dei red<strong>di</strong>ti del<br />

demanio regio e delle proprietà <strong>di</strong>rette del sovrano.<br />

Definì pure il sistema fiscale, fissandolo intorno all’imposta fondamentale sulle<br />

persone fisiche considerate per nuclei familiari, i fuochi, accompagnata da una tassa<br />

per la fornitura del sale, considerato monopolio pubblico. Per il resto, il sistema si<br />

fondò, secondo l’uso comune, sugli appalti dei cespiti fiscali a mercanti e finanzieri,<br />

che erano per lo più forestieri. Diede pure una sistemazione duratura alla dogana delle<br />

pecore, ossia all’amministrazione dei pascoli invernali del Tavoliere delle Puglie, in cui<br />

svernavano le gran<strong>di</strong> greggi del montuoso Abruzzo e <strong>di</strong> altre terre contigue.<br />

Nel 1458, alla morte <strong>di</strong> Alfonso I <strong>di</strong> Napoli detto il magnanimo, il regno <strong>di</strong> Napoli passò<br />

in ere<strong>di</strong>tà al suo pre<strong>di</strong>letto figlio naturale Fer<strong>di</strong>nando I, detto Ferrante, mentre quello<br />

d’Aragona, con la Sicilia e la Sardegna, passò in ere<strong>di</strong>tà al fratello Giovanni II, padre <strong>di</strong><br />

quel Fer<strong>di</strong>nando II il cattolico che, sposando Isabella <strong>di</strong> Castiglia nel 1469, unificherà<br />

la Spagna e farà poi decadere definitivamente la <strong>di</strong>nastia aragonese del regno <strong>di</strong><br />

Napoli. La <strong>di</strong>nastia inaugurata a Napoli da Alfonso I, proseguì quin<strong>di</strong> con Fer<strong>di</strong>nando I,<br />

Ferrante, la cui azione <strong>di</strong> governo continuò quella paterna e, in certo qual modo, la<br />

ra<strong>di</strong>calizzò.<br />

100


Il re Ferrante si de<strong>di</strong>cò all’or<strong>di</strong>namento amministrativo, attuando una politica fiscale<br />

relativamente più blanda, promuovendo l'incremento dell’economia e stimolando le<br />

arti e la cultura. Fu più duro con la nobiltà feudale, <strong>di</strong> cui cercò sempre <strong>di</strong> limitare<br />

privilegi e potere, senza poter però evitare che dopo venticinque anni <strong>di</strong> regno gli si<br />

or<strong>di</strong>sse contro una congiura <strong>di</strong> baroni che, anche se poté piegare, testimoniò quella<br />

mancanza <strong>di</strong> un ra<strong>di</strong>camento del tutto sicuro della famiglia sul trono napoletano, che a<br />

<strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> pochi anni avrebbe portato alla fine della <strong>di</strong>nastia aragonese <strong>di</strong> Napoli.<br />

L’ostile papa Innocenzo VIII, infatti, appoggiato dai baroni ancor più ostili alla <strong>di</strong>nastia<br />

aragonese, istigò l’ambizioso re <strong>di</strong> Francia Carlo VIII a far valere i suoi <strong>di</strong>ritti sul regno<br />

<strong>di</strong> Napoli e cosi, Ferrante stesso agli estremi del suo regno e i suoi successori – il figlio<br />

Alfonso II, il nipote Fer<strong>di</strong>nando II e l’altro figlio Federico – furono sottoposti alla prova<br />

severissima del confronto con quella che all’epoca era la maggiore potenza europea.<br />

Ferrante morì nel 1494 e gli succedette il malvisto primogenito Alfonso II <strong>di</strong> Napoli il<br />

quale, prima che Carlo VIII realizzasse – tra il febbraio e il luglio del 1495 – l’effimera<br />

conquista del regno, ab<strong>di</strong>cò a favore del figlio Fer<strong>di</strong>nando II <strong>di</strong> Napoli, detto<br />

Ferran<strong>di</strong>no.<br />

Il re <strong>di</strong> Francia dové, tuttavia, abbandonare in tutta fretta il regno appena conquistato,<br />

per la lega militare che contro <strong>di</strong> lui formarono gli stati italiani e per gli atteggiamenti<br />

ostili assunti dalle altre potenze europee <strong>di</strong>nanzi alla felice e facile riuscita della sua<br />

impresa, e così Ferran<strong>di</strong>no poté tornare quasi imme<strong>di</strong>atamente sul trono.<br />

Tra le potenze europee che presero posizione contro la conquista francese ci furono<br />

Castiglia e Aragona, su cui regnavano i re cattolici, Isabella <strong>di</strong> Castiglia e Fer<strong>di</strong>nando II<br />

d’Aragona. Anch’essi avevano trattato e concluso accor<strong>di</strong> con Carlo VIII, quando<br />

questi, alla vigilia dell’impresa italiana, aveva cercato <strong>di</strong> procurarsi la neutralità delle<br />

altre potenze europee che <strong>di</strong> quella impresa avrebbero potuto risentirsi. A questo<br />

scopo Carlo VIII non aveva lesinato in concessioni politiche, economiche e territoriali,<br />

e sia Castiglia che, ancor più, Aragona ne avevano indubbiamente beneficiato.<br />

Alla morte <strong>di</strong> Ferran<strong>di</strong>no, avvenuta prematuramente il 7 settembre 1496 senza ere<strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>retti, il trono del regno <strong>di</strong> Napoli passò a suo zio Federico, secondogenito <strong>di</strong> Ferrante<br />

– fratello <strong>di</strong> Alfonso II <strong>di</strong> Napoli anch’egli morto – che salì sul trono come Federico I.<br />

Egli dovette <strong>di</strong>fendersi, sia dai francesi del re Luigi XII succeduto a Carlo VIII e sia<br />

dagli spagnoli <strong>di</strong> suo cugino il re Fer<strong>di</strong>nando II il cattolico, che tra <strong>di</strong> loro accordarono<br />

spartirsi il regno <strong>di</strong> Napoli. E quando, nel 1501, questo fu invaso dai due eserciti<br />

stranieri, Federico I <strong>di</strong> Napoli decise <strong>di</strong> cedere al re <strong>di</strong> Francia Luigi XII i propri <strong>di</strong>ritti<br />

sul regno, ricevendo in cambio la contea francese del Maine per sé ed i suoi ere<strong>di</strong>.<br />

La <strong>di</strong>nastia aragonese del regno <strong>di</strong> Napoli finì quin<strong>di</strong> in quel 1501, tra<strong>di</strong>ta da uno<br />

stesso aragonese, e si estinse definitivamente nel 1550 con la morte senza <strong>di</strong>scendenti<br />

del figlio <strong>di</strong> Federico I <strong>di</strong> Napoli, Fer<strong>di</strong>nando d’Aragona, il duca <strong>di</strong> Calabria mai<br />

<strong>di</strong>venuto re.<br />

L’accordo del 1501 si rivelò però imme<strong>di</strong>atamente caduco e, per le ambigue<br />

con<strong>di</strong>zioni alle quali era stato stipulato, scoppiò inevitabile la guerra franco-spagnola<br />

e Napoli cadde in mano agli Spagnoli nel 1503. Poi, alla fine dello stesso anno, i<br />

Francesi furono pienamente sconfitti e col trattato <strong>di</strong> Blois del 1505 dovettero<br />

riconoscere la sovranità spagnola su tutto il regno, e Consalvo <strong>di</strong> Cordova fu il primo<br />

viceré spagnolo <strong>di</strong> Napoli.<br />

101


La fine del principato <strong>di</strong> Taranto<br />

Nel conflitto, sorto dopo la morte della regina Giovanna II d’Angiò Durazzo tra Alfonso<br />

V d’Aragona e Renato d’Angiò per la successione sul trono del regno <strong>di</strong> Napoli, il<br />

giovane principe <strong>di</strong> Taranto Giovanni Antonio Orsini Del Balzo prese le parti<br />

dell’aragonese e così, dopo la vittoria definitiva <strong>di</strong> questi contro i d’Angiò, nel 1442, si<br />

trovò a essere il più potente feudatario del nuovo regno aragonese <strong>di</strong> Napoli.<br />

Un principe signore <strong>di</strong> più <strong>di</strong> 400 castelli il cui dominio, che comprendeva sette<br />

arcivescova<strong>di</strong> e trenta vescova<strong>di</strong>, si estendeva da Marigliano in Terra <strong>di</strong> Lavoro a<br />

Leuca e a cui, dopo la morte della madre Maria nel 1446, si aggiunsero le contee <strong>di</strong><br />

Lecce e <strong>di</strong> Soleto. Così, l’intera Terra d’Otranto e la parte meri<strong>di</strong>onale della Terra <strong>di</strong><br />

Bari, città <strong>di</strong> cui Orsini Del Balzo fu nominato duca dopo la morte <strong>di</strong> Jacopo Caldora,<br />

finirono sotto il dominio <strong>di</strong> quel potente principe e la signoria <strong>di</strong> Puglia, circoscrizione<br />

costituita da più aggregati feudali, raggiunse l’apogeo della sua grandezza: quasi uno<br />

stato nello stato.<br />

Quel principe fu quasi sovrano e come tale si comportò: <strong>di</strong>sponeva funzionari e<br />

ufficiali corrispondenti a quelli <strong>di</strong> nomina regia, si circondava <strong>di</strong> una propria curia,<br />

stipulava trattati ed accor<strong>di</strong> con stati stranieri, legiferava su dazi, dogane, pedaggi,<br />

fiere e mercati, con un esercito composto da 4.000 cavalli, 2.000 fanti e 500 balestrieri.<br />

Presto però, dopo l’i<strong>di</strong>llio, tra il re Alfonso I e il principe cominciò a soffiare vento <strong>di</strong><br />

burrasca, quando Giovanni Antonio realizzò che la politica dell’aragonese mirava ad<br />

un drastico ri<strong>di</strong>mensionamento <strong>di</strong> tutti i poteri baronali perseguendo, finanche, la<br />

totale scomparsa dei gran<strong>di</strong> stati interni al regno, e in primis il principato <strong>di</strong> Taranto.<br />

Sicché, con la morte del re Alfonso I nel 1458, iniziò apertamente la contesa tra il<br />

successore al trono – Ferrante – e il principe Orsini Del Balzo, il quale si mise a capo <strong>di</strong><br />

una grande ribellione <strong>di</strong> baroni, contro il re e a sostegno <strong>di</strong> Giovanni d’Angiò aspirante<br />

al trono del regno, primeggiando <strong>di</strong> persona nella battaglia <strong>di</strong> Sarno del 7 luglio 1460.<br />

Dopo alterne vicende e capovolgimenti militari che finalmente arrisero al re Ferrante,<br />

il principe <strong>di</strong> Taranto si ravvide e, spinto dalla insistente ed attiva me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong><br />

Isabella – regina moglie <strong>di</strong> Ferrante e figlia <strong>di</strong> sua sorella Caterina Orsini Del Balzo e <strong>di</strong><br />

Tristano <strong>di</strong> Chiaromonte – si riconciliò con il re anche se le controversie si protrassero<br />

fino alla sua morte: fu assassinato tra il 14 e il 15 novembre del 1463, nel castello <strong>di</strong><br />

Altamura in circostanze misteriose, strangolato da tale Paolo Tricarico,<br />

verosimilmente sicario del re Ferrante o, forse, dei due consiglieri dello stesso<br />

principe, Antonio Guidano e Antonio Agello, sospettosi che questi avesse deciso <strong>di</strong><br />

eliminarli.<br />

Non avendo Giovanni Antonio Orsini Del Balzo figli legittimi, l’erede formale del<br />

principato fu la nipote Isabella, regina e moglie del re Ferrante, il quale d’imme<strong>di</strong>ato<br />

incamerò al regno il principato con tutti i vastissimi posse<strong>di</strong>menti che lo costituivano,<br />

che furono in parte assegnati in piccoli feu<strong>di</strong> a famiglie <strong>di</strong> provata fede aragonese e in<br />

parte, come le città <strong>di</strong> Taranto e Brin<strong>di</strong>si, ritornarono ad essere entità demaniali.<br />

Un passaggio rapido che, sembra, fu facilitato dalla volontà e dal sostegno delle città<br />

pugliesi, che acconsentirono alla scomparsa definitiva dalla geografia giuris<strong>di</strong>zionale e<br />

politica della signoria <strong>di</strong> Taranto, il potente e plurisecolare principato, esauste<br />

com’erano delle controversie e degli eccessi del principe che fu, forse, anche tiranno.<br />

102


Brin<strong>di</strong>si nel regno dei re aragonesi<br />

Signoreggiata – nei quin<strong>di</strong>ci anni del regno <strong>di</strong> Alfonso I <strong>di</strong> Napoli e nei primi cinque del<br />

successore Ferrante – dal principe <strong>di</strong> Taranto Giovanni Antonio Orsini Del Balzo fino<br />

alla sua morte, alla fine del 1463 Brin<strong>di</strong>si passò al demanio regio sotto il re Ferrante e<br />

i suoi successori, Alfonso II e Ferran<strong>di</strong>no, fino a quando – il 30 marzo del 1496 – fu<br />

formalmente consegnata a Venezia, assieme alle altre due città portuali pugliesi <strong>di</strong><br />

Otranto e Trani, in pegno e in riconoscimento dell’aiuto ricevuto nella <strong>di</strong>fesa e<br />

riconquista del regno, seguita all’effimera invasione del re <strong>di</strong> Francia Carlo VIII,<br />

nonché in cambio <strong>di</strong> anche un prestito <strong>di</strong> duecentomila ducati.<br />

In quei – pur brevi – cinquant’anni della seconda metà del XV secolo, trascorsi con i re<br />

aragonesi sul trono <strong>di</strong> Napoli, Brin<strong>di</strong>si fu spettatrice e spesso <strong>di</strong>retta protagonista <strong>di</strong><br />

numerosi ed importanti eventi, che segnarono profondamente la <strong>storia</strong>, e la sua <strong>storia</strong>:<br />

… La criminale ostruzione del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>sposta dal principe <strong>di</strong> Taranto e la<br />

già commentata fine del principato. La caduta <strong>di</strong> Costantinopoli nelle mani <strong>di</strong><br />

Maometto II e la fine dell’Impero Romano d’oriente. Il terremoto del 1456. L’assalto a<br />

Otranto e la conseguente occupazione dei turchi. Il tentativo dei veneziani <strong>di</strong> occupare<br />

Brin<strong>di</strong>si sventato da Pompeo Azzolino e il loro assalto a Gallipoli. La costruzione del<br />

castello alfonsino sull’isola <strong>di</strong> san Andrea all’ingresso del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. La pirrica<br />

ed effimera invasione del regno <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong> Carlo VIII re <strong>di</strong> Francia. La cessione a<br />

Venezia <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si assieme a Otranto e Trani. I viaggi <strong>di</strong> Cristoforo Colombo alla<br />

scoperta dell’America…<br />

La criminale ostruzione del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>sposta dal principe <strong>di</strong> Taranto<br />

Nel 1449, Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, principe <strong>di</strong> Taranto e signore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

forse preoccupato dalla potenza in franca ascesa dei veneziani e dall’idea che quelli<br />

potessero dal mare impadronirsi con facilità <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, o forse timoroso <strong>di</strong> una<br />

possibile invasione via mare del re <strong>di</strong> Napoli Alfonso d’Aragona, con il quale aveva<br />

deteriorato i rapporti e che da Brin<strong>di</strong>si avrebbe potuto intraprendere la sottomissione<br />

del suo principato, maturò e freddamente attuò uno stratagemma strano quanto<br />

malaugurato, destinato a rivelarsi funesto in estremo per Brin<strong>di</strong>si:<br />

«... Là dove l'imboccatura del canale era attraversata da una catena assicurata<br />

lateralmente alle torrette site sulle due sponde, fa affondare un bastimento carico <strong>di</strong><br />

pietre, ed ottura siffattamente il canale da permetterne il passaggio solo alle piccole<br />

barche. Non l'avesse mai fatto!<br />

Di qui l'interramento del porto, causa grave della malaria e della mortalità negli abitanti.<br />

Meglio forse, e senza forse, sarebbe stato se alcuno dei temuti occupatori si fosse<br />

impadronito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, prima che il principe avesse potuto mandare ad effetto il<br />

malaugurato <strong>di</strong>segno.<br />

Fu facile e poco costoso sommergere un bastimento carico <strong>di</strong> pietre e i posteri solo<br />

conobbero la fatica e il denaro che abbisognò per estrarlo e render libero nuovamente il<br />

canale. Più dannosa ai citta<strong>di</strong>ni fu questa precauzione del principe, che temeva <strong>di</strong><br />

perdere un brano del suo stato, che non tutte le antecedenti e seguenti devastazioni.<br />

L’opera inconsulta del principe fu naturalmente malveduta dalla città, la quale<br />

prevedeva le tristi conseguenze. Ma il fatto era compiuto...» ‐F. ASCOLI‐<br />

103


Caduta <strong>di</strong> Costantinopoli nelle mani <strong>di</strong> Maometto II e fine dell’Impero d’Oriente<br />

L’avvenimento più importante del secolo XV – forse facendo astrazione del viaggio <strong>di</strong><br />

Cristoforo Colombo che avrebbe portato alla scoperta dell’America – fu probabilmente<br />

la caduta dell’impero bizantino, l’Impero Romano d’oriente sopravvissuto mille anni<br />

alla parte occidentale dell’Impero Romano fondato da Augusto.<br />

Le fonti commerciali dell’impero vennero lentamente sottratte dai genovesi e dai<br />

veneziani che, avendo inse<strong>di</strong>ato parecchi avamposti bizantini, costruirono una<br />

fittissima rete commerciale con le popolazioni orientali e infersero un ulteriore colpo<br />

gravissimo con l'acclimatazione del baco da seta in Italia, che tolse l'antico monopolio<br />

<strong>di</strong> quel prodotto a Costantinopoli, una città che già intorno all’anno 1400, apparve<br />

spopolata e immiserita, con gli e<strong>di</strong>fici in rovina e una moneta <strong>di</strong> pessima qualità.<br />

Approfittarono <strong>di</strong> quelle circostanze, i turchi, sotto la guida <strong>di</strong> Murad II, rie<strong>di</strong>ficarono<br />

la loro potenza e decisero <strong>di</strong> intraprendere l'espansione verso l'Europa. Il timore si<br />

<strong>di</strong>ffuse alla corte bizantina e l'imperatore Giovanni VIII Paleologo cercò <strong>di</strong> correre ai<br />

ripari, recandosi in Italia in cerca dell’aiuto militare dei cristiani d’occidente, offrendo<br />

in cambio la sempre rifiutata sottomissione della chiesa <strong>di</strong> Costantinopoli al papa <strong>di</strong><br />

Roma. Malgrado le reticenze, la sottomissione fu poi proclamata a Firenze nel 1439 e<br />

fu celebrata festosamente in tutta Italia, ma non servì a salvare Costantinopoli.<br />

Dopo un lungo asse<strong>di</strong>o, infatti, le mura <strong>di</strong> Costantinopoli caddero e nella mattina del<br />

29 maggio 1453 la città fu espugnata. Costantino XI, l’ultimo imperatore dell’Impero<br />

Romano d’oriente, perì in battaglia con gran parte del suo popolo. Gli abitanti furono<br />

massacrati. La chiesa <strong>di</strong> santa Sofia fu trasformata in moschea. Costantinopoli fu<br />

chiamata Istanbul e <strong>di</strong>venne la base sulla quale gli ottomani costruirono la loro<br />

potenza.<br />

La caduta <strong>di</strong> Costantinopoli - Olio del Tintoretto (dettaglio)‐ Palazzo Ducale, Venezia<br />

104


Il terremoto del 1456<br />

Nel 1456, alle tre del mattino <strong>di</strong> domenica 5 <strong>di</strong> <strong>di</strong>cembre, un terribile terremoto<br />

interessò una buona parte del regno <strong>di</strong> Napoli, che era governato dal re aragonese<br />

Alfonso I, e Brin<strong>di</strong>si fu menzionata essere tra le città rimaste più colpite:<br />

«... e la rovina coperse e seppellì quasi tutti i suoi concitta<strong>di</strong>ni… e restò totalmente<br />

<strong>di</strong>sabitata... e al terremoto seguì la peste, la quale invase la città e troncò la vita a quel<br />

piccolo numero <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni ch’erano sopravvissuti al primo flagello...» ‐A. DELLA MONICA‐<br />

Il terremoto, che ebbe una magnitudo poi stimata in 7,1 Richter e XI sulla scala<br />

Mercalli, fu preceduto dall’apparizione della cometa Halley e fu uno dei terremoti più<br />

forti mai registrati in Italia. L’epicentro del sisma – che fu avvertito dalla Toscana alla<br />

Sicilia – si localizzò nel Beneventano. Quella città e quasi tutti i paesi dell’entroterra<br />

campano furono rasi al suolo e a Napoli furono registrati ingenti danni, tra cui il crollo<br />

del campanile della basilica <strong>di</strong> Santa Chiara e il ce<strong>di</strong>mento della chiesa <strong>di</strong> San<br />

Domenico Maggiore, che dovette essere ricostruita.<br />

Il papa Pio II, in una lettera inviata all’imperatore Federico III d’Asburgo, raccontò che<br />

nel napoletano crollarono trentamila palazzi e tutte le chiese furono danneggiate.<br />

Si verificò anche un maremoto che colpì le coste ioniche tra Gallipoli e Taranto e lo<br />

sciame sismico durò <strong>di</strong>versi anni. Il bilancio delle vittime, condotto in base alle<br />

cronache dell’epoca, ne stimò circa trentamila.<br />

Angelo Costanzo, nella sua Storia del reame <strong>di</strong> Napoli scrisse: "Caddero molte citta<strong>di</strong>, e<br />

fra l'altre Brin<strong>di</strong>si, ch'era popolarissima, che con la rovina coperse e seppellì tutti i<br />

suoi citta<strong>di</strong>ni, e restò totalmente <strong>di</strong>sabitata".<br />

E nella sua Storia <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si scritta da un marino Ferrando Ascoli scrisse: "La soli<strong>di</strong>tà<br />

dei muri, la robustezza delle colonne, la resistenza delle volte, a nulla valsero.<br />

Dovunque ammassi <strong>di</strong> pietre miste a travi, a canne, a masserizie, a mobilia.<br />

Desolazione presente, e miseria futura" riferendosi probabilmente con ciò alla peste<br />

che successivamente si <strong>di</strong>ffuse in città, completando lo sterminio delle vite scampate alla<br />

prima calamità.<br />

Nonostante i tanti riferimenti bibliografici, stu<strong>di</strong> e ipotesi più recenti hanno avanzato<br />

alcuni seri dubbi sulla veri<strong>di</strong>cità della reale gravità delle conseguenze fisiche <strong>di</strong> quel<br />

sisma sulla città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: i provve<strong>di</strong>menti regi che pur con gli aragonesi interessano<br />

la città, non menzionano il terremoto come causa dello spopolamento e della rovina<br />

della stessa; e varie strutture <strong>di</strong>fensive, palazzi, monasteri, chiese, eccetera, esistenti<br />

all’epoca del sisma, così come le due famose colonne romane, rimasero in pie<strong>di</strong>.<br />

L’assalto a Otranto e la conseguente occupazione dei turchi<br />

«… Con la caduta <strong>di</strong> Costantinopoli, Maometto II riven<strong>di</strong>cò apertamente i suoi <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong><br />

possesso su Brin<strong>di</strong>si, Otranto e Gallipoli, come antiche parti dell’impero bizantino da lui<br />

conquistato. E già nel 1454 veniva relazionato al re Alfonso I <strong>di</strong> Napoli, che il sultano<br />

“fondandosi su antiche pre<strong>di</strong>zioni e interpretazioni, aveva intenzione <strong>di</strong> erigersi a<br />

signore d’Italia e della città <strong>di</strong> Roma, ritenendo che, come si era impossessato della<br />

figlia, cioè <strong>di</strong> Bisanzio, così avrebbe potuto conquistare anche la madre, cioè Roma”. A<br />

tale fine, Maometto II si era già assicurato della facile realizzazione del passaggio da<br />

Durazzo a Brin<strong>di</strong>si, dove peraltro, l’impressione dell’ineluttabilità <strong>di</strong> uno sbarco turco<br />

105


era fortissima, anche in relazione ai frequenti arrivi <strong>di</strong> profughi dalle terre conquistate<br />

dai maomettani…» ‐V. ZACCHINO‐<br />

Il momento era del resto propizio a Maometto II. Non era da temere un serio contrasto<br />

al passaggio <strong>di</strong> una flotta invasora, giacché le armate aragonesi e pontificie erano<br />

impegnate dal 1478 contro Firenze e la pace, che nel 1479 aveva chiuso la lunga<br />

guerra turco-veneta, manteneva Venezia ufficialmente neutrale e serviva da copertura<br />

alla sua intrinseca ostilità verso il re <strong>di</strong> Napoli, al quale voleva togliere le città pugliesi.<br />

Anche se fu abbastanza accre<strong>di</strong>tata l’idea che l’ammiraglio ottomano Ge<strong>di</strong>k Ahmet<br />

Pascià avesse puntato su Brin<strong>di</strong>si prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>rottare su Otranto per ragioni<br />

circostanziali, in effetti, la scelta <strong>di</strong> Otranto probabilmente non dovette essere solo un<br />

ripiego occasionale: Otranto, infatti, era palesemente in<strong>di</strong>fesa, mentre Brin<strong>di</strong>si aveva<br />

ricevuto rinforzi aragonesi e, in più, era infestata da una temibile peste.<br />

All’alba del 28 luglio del 1480, alcune decine <strong>di</strong> migliaia uomini a bordo <strong>di</strong><br />

un’imponente flotta composta da un paio <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> navi, giunsero da Valona sulle<br />

coste salentine e sbarcarono poco a nord <strong>di</strong> Otranto, presso i laghi Alimini, nella baia<br />

poi detta dei turchi, e da lì si <strong>di</strong>ressero verso la città.<br />

Fatta razzia del borgo fuori le mura, Ge<strong>di</strong>k Ahmet Pascià propose ai citta<strong>di</strong>ni una resa<br />

umiliante e <strong>di</strong> fatto inaccettabile, obbligando gli abitanti <strong>di</strong> Otranto a <strong>di</strong>fendersi<br />

dall’inevitabile asse<strong>di</strong>o.<br />

Il contingente aragonese <strong>di</strong> stanza a Brin<strong>di</strong>si fu tra i primi ad accorrere in soccorso,<br />

guidato dal Filomarino, ma restò bloccato a Scorrano dall’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Ferrante <strong>di</strong><br />

attendere l’arrivo del figlio Alfonso, permanendo inoperoso finché, caduta Otranto, se<br />

ne tornò a presi<strong>di</strong>are la piazza <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Due settimane durò la tenace resistenza finché, l’11 agosto, l’armata turca riuscì ad<br />

aprire un varco tra le mura della città, e da lì si riversò nel centro, avanzando con<br />

crudeltà in<strong>di</strong>cibili: le vie furono inondate da sangue e coperte da corpi martoriati.<br />

Dal varco delle mura, i turchi giunsero fino alla cattedrale dove un gruppo <strong>di</strong> fedeli vi<br />

si era barricato. I turchi recisero il capo all’arcivescovo Stefano Pen<strong>di</strong>nelli e la strage<br />

continuò sino a che l’ultimo degli otrantini rifugiato fu ucciso.<br />

Pascià radunò i suoi uomini e gli abitanti superstiti e or<strong>di</strong>nò che tutti gli abitanti <strong>di</strong><br />

Otranto, <strong>di</strong> sesso maschile e <strong>di</strong> età superiore a quin<strong>di</strong>ci anni, abbracciassero la<br />

religione islamica. Gli ottocento uomini presenti si rifiutarono e furono tutti decapitati.<br />

I turchi, occupata Otranto, la utilizzarono come base per scorrazzare in<strong>di</strong>sturbati in<br />

tutto il Salento, seminando terrore e morte fino al Gargano, mentre la reazione<br />

aragonese indugiò a manifestarsi, anche perché Venezia persisteva nella sua neutralità<br />

e gli altri stati italiani erano interessati più alle guerre in terraferma che sul mare,<br />

mentre i turchi ricavarono il tempo per fortificare Otranto.<br />

«… Pascià spedì a Brin<strong>di</strong>si un proprio messo con una lettera per l’arcivescovo Francesco<br />

de Arenis, nella quale ingiungeva la pronta consegna della terra che considerava<br />

retaggio dell’antico impero bizantino, minacciando, altrimenti, che “si non me date la<br />

terra, io con tutto lo mio sforzo vengerò da vui, et farò più crudelitate che non è facto ad<br />

Otranto”. Fortunatamente le minacce rimasero sempre tali per quanto, più d’una volta,<br />

in seguito, corsero <strong>di</strong>cerie e si paventò anche negli ambienti della corte l’eventualità <strong>di</strong><br />

un attacco turco a Brin<strong>di</strong>si…» ‐V. ZACCHINO‐<br />

106


Saldo sulle sue posizioni, nell'ottobre del 1480, Ge<strong>di</strong>k Ahmet Pascià ripassò il canale <strong>di</strong><br />

Otranto con gran parte delle sue truppe dopo aver ripetutamente devastato con<br />

continue scorrerie i territori <strong>di</strong> Lecce, Taranto e Brin<strong>di</strong>si, lasciando a Otranto solo una<br />

guarnigione <strong>di</strong> 800 fanti e 500 cavalieri.<br />

Mentre gli aiuti promessi dalla cristianità italiana ed europea tardavano ad arrivare,<br />

tra le incomprensioni, gli interessi e le evidenti <strong>di</strong>sparità tra le possibili forze da<br />

mettere in campo, l’inverno del 1481 trascorse senza un’effettiva reazione, mentre gli<br />

ottomani ricevevano gli aiuti via mare, senza gran<strong>di</strong> contrasti.<br />

Il 25 febbraio del 1481, salpò da Brin<strong>di</strong>si un’armata cristiana per contrastare il ritorno<br />

<strong>di</strong> Pascià da Valona, conseguendo nelle acque <strong>di</strong> Saseno una prestigiosa vittoria che<br />

risollevò il morale della depressa cristianità e assicurò il controllo dell’Adriatico.<br />

Con l'arrivo della buona stagione, il re aragonese <strong>di</strong> Napoli Ferrante poté<br />

intraprendere con suo figlio Alfonso le operazioni <strong>di</strong> asse<strong>di</strong>o a Otranto, grazie agli aiuti<br />

ottenuti dagli stati italiani che finalmente si resero conto del pericolo per la loro<br />

sopravvivenza rappresentato dall'occupazione turca. La città fu stretta d'asse<strong>di</strong>o, sia<br />

per terra sia per mare, e a risolvere finalmente la situazione fu la morte del<br />

cinquantaduenne sultano Maometto II, sopraggiunta improvvisamente nella notte tra<br />

il 3 e il 4 maggio 1481.<br />

Mentre la successione del sultano ottomano aveva suscitato le ostilità tra i suoi figli,<br />

Bayezid e Cem, aprendo una nuova grave crisi per l'impero turco, gli ottomani a<br />

Otranto, privi <strong>di</strong> rinforzi e pressati dalle milizie cristiane, furono costretti a cedere, e<br />

così Ahmet Pascià accettò la resa incon<strong>di</strong>zionata il 10 settembre 1481, riconsegnando<br />

la città al duca <strong>di</strong> Calabria, Alfonso, e tornandosene tranquillamente a Valona.<br />

Ossario dei martiri <strong>di</strong> Otrano ‐ Cattedrale <strong>di</strong> Otranto<br />

107


Il tentativo dei veneziani <strong>di</strong> occupare Brin<strong>di</strong>si sventato da Pompeo Azzolino<br />

Sventato il pericolo turco, il re Ferrante progettò punire Venezia per essere stata, a<br />

suo avviso, partigiana degli ottomani quanto meno per omissione, e pretese dal papa<br />

Sisto IV un sostegno attivo alla realizzazione <strong>di</strong> quel suo obiettivo. Poi, <strong>di</strong> fronte alla<br />

negativa del papa, attaccò lo stato pontificio e i veneziani approfittarono quella<br />

favorevole congiuntura militare, per assillare i sempre ambiti porti pugliesi del regno<br />

napoletano.<br />

Fu così che sul finire del 1483, i veneziani tentarono la conquista <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si allestendo<br />

una flotta forte <strong>di</strong> 56 vele salpata da Corfù al comando <strong>di</strong> Giacomo Marcello, il quale<br />

pensò non attaccare la città dal mare e sbarcò poco a nord, sulla spiaggia <strong>di</strong> Guaceto,<br />

da dove iniziò la marcia su Brin<strong>di</strong>si.<br />

Le truppe invasore occuparono e saccheggiarono Carovigno e San Vito degli Schiavoni<br />

– oggi dei Normanni – e quin<strong>di</strong> si <strong>di</strong>ressero, tonfi e baldanzosi, alla volta <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

con il proposito <strong>di</strong> occuparla.<br />

In città però, Pompeo Azzolino, un nobile brin<strong>di</strong>sino che già si era <strong>di</strong>stinto nelle azioni<br />

militari per la liberazione <strong>di</strong> Otranto, appena informato degli eventi, organizzò in armi<br />

un nutrito gruppo <strong>di</strong> giovani citta<strong>di</strong>ni e uscì all’incontro <strong>di</strong> Marcello, affrontandolo e<br />

sconfiggendone le truppe sulla strada per Brin<strong>di</strong>si.<br />

Lo fece retrocedere, costringendo i veneziani a intraprendere una precipitosa fuga - in<br />

cui lo stesso Marcello rischiò <strong>di</strong> essere ucciso - incalzati fino al porto <strong>di</strong> Guaceto nelle<br />

cui acque era alla fonda l’armata veneta che, dopo aver cannoneggiato gli inseguitori<br />

brin<strong>di</strong>sini e aver accolto i malconci fuggitivi, sciolse le ancore e prese il largo.<br />

Rientrato in città, Azzolino fu ricevuto con gran<strong>di</strong> onori dai suoi concitta<strong>di</strong>ni, che lo<br />

salutarono come salvatore della patria e, per volontà del re aragonese, fu ricordato<br />

per quel suo atto eroico con una epigrafe apposta sul muro della sua casa, nel<br />

quartiere marinaro delle Sciabiche. Questa la sua trascrizione tradotta dall’originale<br />

in latino:<br />

CESARE MISE IN FUGA POMPEO E DA QUESTO STESSO LUOGO IL NOSTRO POMPEO, FORTE<br />

QUANT’ALTRI MAI, AFFRONTÒ INNUMEREVOLI NEMICI. SALGA DUNQUE ALLE STELLE LA FELICE<br />

CASA DEGLI AZZOLINO CHE GENERA TALI PETTI DA OPPORRE ALLE ARMI DEGLI UOMINI<br />

Quin<strong>di</strong>, al generale Giacomo Marcello, la Serenissima or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> <strong>di</strong>rigersi su Gallipoli,<br />

con la per nulla velata intenzione <strong>di</strong> colpire Genova, che nella città ionica aveva<br />

costituito una fiorente ed assai prospera colonia commerciale rivale.<br />

«… Marcello, al comando della sua flotta, sbarcò sulla costa <strong>di</strong> Gallipoli nel maggio del<br />

1484 ed attaccò la città poco guarnita. I combattimenti però, si protrassero violentissimi<br />

dal 16 al 19 maggio e la città <strong>di</strong> Gallipoli oppose una caparbia e strenua resistenza che<br />

lasciò sul campo durissime per<strong>di</strong>te veneziane, più <strong>di</strong> cinquecento uomini tra cui lo<br />

stesso generale Giacomo Marcello la cui morte fu mantenuta segreta tra le truppe per<br />

evitare che cadessero in panico e che finalmente, comandate dal secondo generale,<br />

Domenico Malipiero, al terzo giorno riuscirono a impadronirsi della città,<br />

abbandonandosi a un saccheggio incontrollato ed estremamente crudele, che solamente<br />

risparmiò la violenza sulle donne. Poi, finalmente, giunto settembre, i veneziani<br />

abbandonarono la città...» ‐L. DE TOMMASI‐<br />

108


La costruzione del castello alfonsino sull’isola <strong>di</strong> san Andrea<br />

«…Il pericolo turco fu, esplicitamente, alla base della decisione reale <strong>di</strong> fortificare<br />

adeguatamente Brin<strong>di</strong>si. È, mentre i turchi sono ancora asserragliati in Otranto che, nel<br />

febbraio 1481, il re Fer<strong>di</strong>nando I d’Aragona, <strong>di</strong>spone l’avvio dei lavori per la costruzione<br />

<strong>di</strong> una fortezza a guar<strong>di</strong>a del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: il torrione <strong>di</strong> Ferrante…» ‐G. CARITO‐<br />

Nel 1485 Alfonso, figlio del re Ferrante e allora duca <strong>di</strong> Calabria in quanto erede al<br />

trono <strong>di</strong> Napoli, trasformò il torrione <strong>di</strong> Ferrante, una fortezza a forma <strong>di</strong> torre<br />

quadrata sita sulla punta più occidentale dell’isola <strong>di</strong> san Andrea all’ingresso del porto,<br />

conducendolo a vera forma <strong>di</strong> castello con la costruzione <strong>di</strong> un grande antemurale con<br />

due bastioni: uno <strong>di</strong> forma triangolare all’angolo nordest, <strong>di</strong> tipo casamattato, detto<br />

magazzino delle polveri, e l’altro <strong>di</strong> forma circolare ad ovest, a terrapieno, detto <strong>di</strong> San<br />

Filippo, collegati tra loro da un cammino <strong>di</strong> guar<strong>di</strong>a che racchiudeva al proprio interno<br />

la piazza d’armi.<br />

Era sorto il castello Alfonsino, detto anche aragonese, che i turchi denominarono<br />

castello rosso dal colore che a certe ore sembrava assumere la pietra <strong>di</strong> carpano con<br />

cui era stato fabbricato.<br />

Poi, col successivo intervento, <strong>di</strong>retto dal senese Francesco <strong>di</strong> Giorgio nel 1492, il<br />

castello fu compiutamente definito con la e<strong>di</strong>ficazione del grande salone del primo<br />

piano e le gallerie coperte con volta a botte al livello inferiore, e quin<strong>di</strong>, con<br />

l'isolamento della rocca me<strong>di</strong>ante il taglio dello scoglio e l’apertura <strong>di</strong> un canale.<br />

La costruzione della fortezza sull’isola <strong>di</strong> san Andrea voluta dal re Ferrante a Brin<strong>di</strong>si,<br />

si inserì in un più vasto piano <strong>di</strong> fortificazione della strategica città, già in precedenza<br />

avviato con una serie <strong>di</strong> opere <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa inquadrate nel nuovo clima politico<br />

determinatosi con la caduta <strong>di</strong> Costantinopoli nel 1453 in mano al sultano turco<br />

Maometto II, il quale riven<strong>di</strong>cava i suoi <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> possesso su Brin<strong>di</strong>si, Otranto e<br />

Gallipoli, quali antiche città dell’impero bizantino da lui conquistato.<br />

Il re Ferrante, infatti, già nel 1464 aveva or<strong>di</strong>nato cingere con muraglia tutta la parte<br />

marittima della città, includendo la collina <strong>di</strong> levante dentro il perimetro <strong>di</strong>fensivo. Si<br />

avviarono i lavori per le cortine murarie e si aprirono due nuove porte, quella per<br />

Lecce incassata in un taglio della collina, e la porta Reale dal lato del porto.<br />

109


Quin<strong>di</strong>, si rinforzò anche il castello <strong>di</strong> terra, erigendo sulla sponda esterna del fosso un<br />

nuovo muro <strong>di</strong> cinta con agli angoli quattro baluar<strong>di</strong> roton<strong>di</strong>, coprendo il fosso con<br />

una solida volta così da ricavare una strada interna protetta e sormontata da rifugi<br />

interrati e spianando, all’interno della fortezza, una piazza vuota <strong>di</strong> sotto, per poterla<br />

minare.<br />

La pirrica ed effimera invasione del regno <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong> Carlo VIII re <strong>di</strong> Francia<br />

Papa Innocenzo VIII, in conflitto con l’aragonese Fer<strong>di</strong>nando I <strong>di</strong> Napoli, il re Ferrante,<br />

lo aveva scomunicato con una bolla dell’11 settembre 1489, minacciando <strong>di</strong> offrire il<br />

regno napoletano al sovrano francese Carlo VIII, che vantava attraverso la nonna<br />

paterna, Maria d'Angiò, un lontano <strong>di</strong>ritto ere<strong>di</strong>tario su quella corona del regno.<br />

Poi, incoraggiato da Ludovico Sforza, detto il moro, duca reggente <strong>di</strong> Milano, e<br />

sollecitato dai suoi consiglieri, Guillaume Briçonnet e De Vers, Carlo VIII scese in Italia<br />

nel 1494.<br />

Entrò in Italia il 3 settembre con un poderoso esercito <strong>di</strong> circa 30.000 effettivi dotato<br />

<strong>di</strong> un’artiglieria moderna e ad Asti venne accolto festosamente dai duchi <strong>di</strong> Savoia.<br />

Quin<strong>di</strong> raggiunse rapidamente Milano, dove fu decisamente appoggiato dallo Sforza<br />

Ludovico il moro, interessato alla eliminazione dei regnanti aragonesi <strong>di</strong> Napoli, in<br />

110


quanto si era impossessato con la violenza del ducato <strong>di</strong> Milano che spettava a Gian<br />

Galeazzo Visconti, la cui moglie era imparentata proprio con i re aragonesi <strong>di</strong> Napoli,<br />

era figlia <strong>di</strong> Ferrante.<br />

Anche a Firenze, dove giunse il 17 <strong>di</strong> novembre, il re Carlo VIII entrò in maniera<br />

relativamente facile, in quanto l’inetto Piero dei Me<strong>di</strong>ci non fu in grado <strong>di</strong> opporre<br />

alcuna resistenza e si piegò a tutte le richieste del sovrano francese, tanto che se ne<br />

risentirono gli stessi fiorentini e i Me<strong>di</strong>ci che furono ad<strong>di</strong>rittura cacciati dai<br />

repubblicani guidati da quel frate Gerolamo Savonarola, la cui politica teocratica<br />

apparve poi troppo democratica al papa Alessandro VI Borgia, che lo fece eliminare<br />

con l’accusa <strong>di</strong> eresia.<br />

Carlo VIII passò quin<strong>di</strong> da Roma senza destare troppo entusiasmo – anzi tutt’altro –<br />

nel papato e, finalmente, all’inizio del 1495, senza aver praticamente battagliato, il 22<br />

<strong>di</strong> febbraio entrò a Napoli, con l’appoggio dei patrizi napoletani e dei baroni feudali, da<br />

tempo ostili ai re aragonesi che erano succeduti a Alfonso I, fondatore della <strong>di</strong>nastia<br />

aragonese <strong>di</strong> Napoli: Ferrante, Alfonso II e Ferran<strong>di</strong>no, mentre quest’ultimo, re in<br />

carica, era già fuggito in Sicilia con tutta la corte.<br />

Il sovrano francese, incoronato re <strong>di</strong> Napoli, scese quin<strong>di</strong> verso sud ad imporre le<br />

ragioni delle sue armi, incontrando in generale poca resistenza e, entrato dalla<br />

Campania in Puglia, tutte le principali città gli si arresero, a eccezione <strong>di</strong> Gallipoli e<br />

Brin<strong>di</strong>si, che invece resistettero l’asse<strong>di</strong>o mantenendosi fedeli alla corona aragonese<br />

fino al ritiro degli asse<strong>di</strong>anti francesi.<br />

Del resto, Carlo VII ebbe comunque molto poco tempo per svolgere una qualche vera e<br />

propria azione <strong>di</strong> controllo del regno e <strong>di</strong> effettivo esercizio <strong>di</strong> governo, giacché nello<br />

stesso anno 1495 fu creata a Venezia una potente alleanza antifrancese, promossa<br />

dallo stato pontificio del papa Alessandro VI e formata da Venezia, Massimiliano<br />

d’Asburgo e lo stesso Ludovico il moro, che s'era presto pentito d’aver appoggiato<br />

l’invasione francese.<br />

Era infatti successo che la velocità con cui i francesi avanzarono, assieme alla brutalità<br />

dei loro attacchi sulle città, spaventarono gli altri stati italiani. Ludovico, capendo che<br />

Carlo VIII aveva pretese anche sul ducato <strong>di</strong> Milano, si rivolse al papa Alessandro VI<br />

che organizzò rapidamente un’alleanza composta dai <strong>di</strong>versi oppositori dell’egemonia<br />

francese in Italia: il Papato, il Regno <strong>di</strong> Sicilia, il Sacro romano impero <strong>di</strong> Massimiliano,<br />

gli Sforza <strong>di</strong> Milano, Il Regno d'Inghilterra e la Repubblica <strong>di</strong> Venezia.<br />

La lega ingaggiò Francesco II Gonzaga, marchese <strong>di</strong> Mantova, per raccogliere un<br />

esercito ed espellere i francesi dalla penisola, e questi incominciò a minacciare i vari<br />

presi<strong>di</strong> che Carlo VIII aveva lasciato lungo il suo tragitto per assicurarsi i collegamenti<br />

con la Francia, fino ad attaccare frontalmente l’esercito del re francese a Fornovo,<br />

presso Parma, il 6 luglio 1495.<br />

Dopo quello scontro, Carlo VIII, seppure non militarmente sconfitto, se ne dovette<br />

ritornare in Francia, permettendo al re aragonese Fernando II, Ferran<strong>di</strong>no, <strong>di</strong><br />

ritornare dalla Sicilia, dove si era rifugiato, e <strong>di</strong> rioccupare il suo trono sul regno <strong>di</strong><br />

Napoli.<br />

111


La cessione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a Venezia<br />

Nella breve ma crudele guerra tra l’invasore francese Carlo VIII e il re aragonese <strong>di</strong><br />

Napoli, Ferran<strong>di</strong>no, Brin<strong>di</strong>si si schierò sempre al fianco degli Aragonesi, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong><br />

quasi tutte le altre città salentine, tra le quali Lecce e Taranto, che furono invece<br />

partigiane francesi.<br />

«… L’obbe<strong>di</strong>enza <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si al sovrano volere, fu altamente commendata da Ferran<strong>di</strong>no,<br />

il quale, in ricompensa dei tanti servigi resigli da questa città, che forse più <strong>di</strong> ogni altra<br />

del regno erasi cooperata per farglielo recuperare, fece battere monete in argento e<br />

rame, che avevano da una parte, l’effige <strong>di</strong> san Teodoro brin<strong>di</strong>sino, militarmente vestito<br />

e portante uno scudo entro cui erano le due colonne e, dall’altra, erano incise le parole<br />

Fidelitas Brundusina. Le quali monete furono battute non pure nella zecca <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

che durò per tutto il tempo degli Aragonesi, ma anche in altre città ed a Napoli stessa.<br />

Molte <strong>di</strong> esse erano ancora in corso circa il 1700…» ‐F. ASCOLI‐<br />

Finalmente gli Aragonesi conservarono il regno <strong>di</strong> Napoli, ma <strong>di</strong>vennero ‘debitori’ <strong>di</strong><br />

Venezia alla quale avevano dato in pegno e a garanzia per l’aiuto ricevuto, il possesso<br />

delle città <strong>di</strong> Trani Otranto e Brin<strong>di</strong>si, che passarono infatti ai veneziani.<br />

Il 30 <strong>di</strong> marzo 1496, nella cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si si formalizzò la consegna <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a<br />

Venezia, con una solenne cerimonia tra Priamo Contarini, rappresentante del doge <strong>di</strong><br />

Venezia Agostino Barbarigo, e il notaio Geronimo De Ingrignet, inviato del re <strong>di</strong> Napoli,<br />

Fer<strong>di</strong>nando II d’Aragona. E questi, il giovane Ferran<strong>di</strong>no, con una lettera alla città,<br />

volle in quell’occasione scusarsi e spiegare ai brin<strong>di</strong>sini le ragioni e la supposta<br />

temporalità <strong>di</strong> quella cessione.<br />

Nonostante la <strong>di</strong>ffidenza e anzi l’aperto malcontento che caratterizzò l’animo dei<br />

brin<strong>di</strong>sini a fronte della cessione della propria città ai veneziani, la nuova situazione<br />

doveva rivelarsi alquanto positiva: il doge Agostino Barbarigo non solo confermò tutti<br />

i privilegi concessi a Brin<strong>di</strong>si dai governanti aragonesi, ma ad<strong>di</strong>rittura ne aggiunse<br />

altri importanti, fra cui quello che le galere veneziane, dovendo passare nei paraggi <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, dovessero entrare in porto e rimanervi per tre giorni.<br />

I brin<strong>di</strong>sini esternarono presto la loro sod<strong>di</strong>sfazione e Venezia da parte sua seppe<br />

premiarli <strong>di</strong> conseguenza, e in breve tempo crebbe notevolmente il rispetto reciproco<br />

e la simpatia tra i brin<strong>di</strong>sini e i veneziani. E Brin<strong>di</strong>si conobbe anni <strong>di</strong> benessere e <strong>di</strong><br />

espansione dei propri commerci, traffici e industrie.<br />

Preso possesso del castello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, il governatore veneziano Priamo Contarini, il<br />

10 aprile 1496 inviò al doge un dettagliato rapporto sullo stato della città appena<br />

acquisita, un documento quello - riprodotto da G. Guerrieri nel suo Le relazioni tra<br />

Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530 - che per Brin<strong>di</strong>si si costituì poi in un<br />

importante ed affidabile riferimento storico: <strong>di</strong> fatto, una specie <strong>di</strong> fotografia della<br />

città <strong>di</strong> quegli anni. Qui <strong>di</strong> seguito, alcuni stralci:<br />

«… La consistenza demografica <strong>di</strong> essa ammonta a circa mille fuogi et anime circa<br />

quattro milia, de le qual son da facti circa 800. Nel numero dei fuochi sono pure<br />

compresi 50 de Iudei, i quali sono 240 in circa. La citta<strong>di</strong>nanza si compone, nell’or<strong>di</strong>ne,<br />

<strong>di</strong> Taliani, Albanexi, Schiavoni et Greci.<br />

112


… Tutti veramente viveno senza alcuna industria, ma solo de le loro intrate, zoè vini<br />

bestiame et olei. Le principali entrate riguardano il vino, 3.000 botti annue; olii, saponi,<br />

ferro e biave, con inteoiti computabili tra i 400 e i 500 ducati d’oro; i dazi sulla bechari,<br />

il pane e il pesce, con entrate <strong>di</strong> altri 400 o 500 ducati; proventi da contravvenzioni per<br />

100 ducati all’anno; affitto della bagliva per 20 o 25 ducati; e proventi del sale che copre<br />

il fabbisogno dell’intera Terra d’Otranto.<br />

… Olii alimentano la produzione <strong>di</strong> saponi, forniti da due saponerie genovesi e una<br />

albanese, dominano i mercati meri<strong>di</strong>onali <strong>di</strong> Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Scio et<br />

Ioci, insi<strong>di</strong>ando gli interessi commerciali veneziani.<br />

… L’agro brin<strong>di</strong>sino è mezzo terrestre e mezzo marittimo e il territorio confina da la<br />

parte de maistro miglia 8 da lontan cum una terra nominata Charivigna, terra de baroni.<br />

Da la parte de ponente miglia 5 a lontano, confina cum Misagnk, terra de la regina. Da la<br />

parte de syrocho miglia 12 in circa, confina cum el territorio de la cita de Leze. Sparsi su<br />

questo territorio vi sono alcune ville et castelli ruinati et tutto è inculto…» -G. GUERRIERI-<br />

Il controllo veneziano sulla città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si non era però destinato ad avere vita lunga:<br />

l’11 novembre del 1500 si stipulò in Granada un accordo segreto tra il re <strong>di</strong> Spagna,<br />

Fer<strong>di</strong>nando il cattolico marito <strong>di</strong> Isabella <strong>di</strong> Castiglia, e il re <strong>di</strong> Francia Luigi XII, per<br />

spartirsi il regno aragonese <strong>di</strong> Napoli del re Federico I, succeduto a Fer<strong>di</strong>nando II che<br />

era morto prematuramente nel 1496 e cugino dello stesso re Fernando il cattolico.<br />

L’accordo prevedeva la Campania e gli Abruzzi per il re <strong>di</strong> Francia, e la Calabria e la<br />

Puglia per il re <strong>di</strong> Spagna.<br />

Poi però, l’accordo, nel 1504, sfociò in guerra aperta tra Spagna e Francia proprio sulla<br />

<strong>di</strong>sputa per il Tavoliere delle Puglie, alla fine della quale, gli spagnoli ebbero la meglio<br />

e Fer<strong>di</strong>nando il cattolico <strong>di</strong>venne il nuovo sovrano del regno <strong>di</strong> Napoli, sottraendolo al<br />

cugino Federico I d’Aragona, incorporandolo alla corona spagnola e nominando un<br />

viceré, il tutto con l’investitura del papa Giulio II.<br />

E fu proprio nel pieno <strong>di</strong> questa guerra che ebbe luogo, il 13 febbraio del 1503, la<br />

celebre ‘’Disfida <strong>di</strong> Barletta’’ – accordata, sembra, proprio in una cantina <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si –<br />

tra 13 cavalieri italiani filospagnoli capitanati da Ettore Fieramosca e 13 cavalieri<br />

francesi capitanati da Charles de Torgues: un duello che fu vinto dai 13 italiani <strong>di</strong><br />

Fieramosca.<br />

Venezia, anche perché occupata a lottare contro i turchi, rimase neutrale in quella<br />

guerra e dei benefici <strong>di</strong> quella neutralità poté usufruire anche Brin<strong>di</strong>si. Poi però,<br />

Venezia fu attaccata da una lega <strong>di</strong> innumerevoli nemici coor<strong>di</strong>nati dal papa Giulio II e<br />

guidati dall’imperatore Massimiliano I d’Austria ed alla fine dovette soccombere, e per<br />

salvare il salvabile sacrificò una buona parte dei propri posse<strong>di</strong>menti, specificamente<br />

quelli che erano reclamati dal papa e dagli spagnoli, Brin<strong>di</strong>si inclusa.<br />

Nel 1509 Brin<strong>di</strong>si venne quin<strong>di</strong> consegnata agli spagnoli, dai veneziani che ne avevano<br />

tenuto il possesso durante soli tre<strong>di</strong>ci anni. Il marchese Della Palude prese in<br />

consegna la città e le sue due fortezze, cioè il castello <strong>di</strong> terra e quello <strong>di</strong> mare, in nome<br />

<strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando il cattolico, reggente <strong>di</strong> Spagna: era così formalmente iniziato, anche per<br />

Brin<strong>di</strong>si, il lungo viceregno spagnolo!<br />

113


Alfonso I Ferrante Alfonso II Ferran<strong>di</strong>no<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

Ascoli F. La <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si scritta da un marino-1886<br />

Carito G. Brin<strong>di</strong>si Nuova guida-1994<br />

Carito G. Le fortezze sull’isola <strong>di</strong> Sant’Andrea fra il 1480 e il 1604-2011<br />

De Tommasi L. Brin<strong>di</strong>si e Gallipoli sotto gli Aragonesi-1975<br />

D’Ippolito L. L’isola <strong>di</strong> San Andrea <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e le sue fortificazioni-2012<br />

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Moricino G. Antiquità e vicissitu<strong>di</strong>ni della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dalla <strong>di</strong> lei origine sino al 1604<br />

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Squitieri A. Un barone napoletano del 400 G.A. Orsini principe <strong>di</strong> Taranto-1939<br />

Vacca N. Brin<strong>di</strong>si ignorata-1954<br />

Zacchino V. Brin<strong>di</strong>si durante l’invasione turca <strong>di</strong> Otranto-1978<br />

114


Brin<strong>di</strong>si durante il regno dell'imperatore Carlo V:<br />

i 40 anni <strong>di</strong> Carlo IV re <strong>di</strong> Napoli dal 1516 al 1556<br />

Pubblicato.su.Brin<strong>di</strong>siweb.it<br />

Carlo IV sul trono <strong>di</strong> Napoli<br />

Carlo V l’imperatore, fu anche Carlo I <strong>di</strong> Spagna, Carlo II d’Ungheria e Carlo IV <strong>di</strong><br />

Napoli. Carlo, figlio dell’arciduca d’Austria Filippo il Bello – e quin<strong>di</strong> nipote<br />

dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo – e dell’infanta Giovanna la Pazza – e quin<strong>di</strong><br />

nipote del re Fer<strong>di</strong>nando il cattolico – con la morte del nonno materno nel 1516, a soli<br />

se<strong>di</strong>ci anni, per la morte del padre e per quella del fratello e della sorella della madre,<br />

<strong>di</strong>venne erede dei regni dei Paesi Bassi, <strong>di</strong> Aragona, <strong>di</strong> Castiglia e <strong>di</strong> Napoli. E dopo tre<br />

anni, nel 1519 alla morte del nonno paterno, ere<strong>di</strong>tò anche il titolo del sacro romano<br />

impero. Nel 1554 rinunciò al titolo imperiale a favore del fratello Fer<strong>di</strong>nando e nel<br />

1556 rinunciò alle corone dei Paesi Bassi della Spagna e <strong>di</strong> Napoli a favore del figlio<br />

Felipe II. Brin<strong>di</strong>si, che apparteneva al regno <strong>di</strong> Napoli, ebbe pertanto come sovrano<br />

l’imperatore Carlo V – il re Carlo IV <strong>di</strong> Napoli – durante tutti quei quarant’anni<br />

compresi tra il 1516 e il 1556.<br />

Il regno <strong>di</strong> Napoli era <strong>di</strong>ventato posse<strong>di</strong>mento spagnolo solo da qualche anno, da<br />

quando era stato sottratto agli aragonesi me<strong>di</strong>ante un accordo segreto tra il re <strong>di</strong><br />

Spagna Fer<strong>di</strong>nando e il re <strong>di</strong> Francia Luigi XII. L’accordo prevedeva la Campania e gli<br />

Abruzzi per la Francia e la Calabria e la Puglia per la Spagna. Poi però, nel 1504,<br />

l’accordo sfociò in guerra aperta tra Spagna e Francia proprio sulla <strong>di</strong>sputa per il<br />

Tavoliere delle Puglie e alla fine gli spagnoli ebbero la meglio. Fer<strong>di</strong>nando il cattolico<br />

re <strong>di</strong> Spagna <strong>di</strong>venne così il nuovo sovrano del regno <strong>di</strong> Napoli, defenestrando il<br />

proprio cugino Federico I succeduto a Fer<strong>di</strong>nando II e nominando un viceré.<br />

E anche Brin<strong>di</strong>si, che da qualche anno – dal 30 marzo 1496 – apparteneva alla<br />

repubblica <strong>di</strong> Venezia, alla quale era stata ceduta dal re Fer<strong>di</strong>nando II in compenso per<br />

l’aiuto ricevuto contro il tentativo d’invasione del regno <strong>di</strong> Napoli da parte del re <strong>di</strong><br />

Francia Carlo VIII, fu consegnata agli spagnoli nel 1509. Iniziava così per Brin<strong>di</strong>si il<br />

lungo periodo vicereale spagnolo che sarebbe durato duecento anni.<br />

La breve parentesi veneziana <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, tra il 1496 e il 1509, costituì <strong>di</strong> fatto la<br />

cerniera del passaggio della città dal dominio aragonese al dominio propriamente<br />

spagnolo, quello del regno <strong>di</strong> Spagna del reggente Fer<strong>di</strong>nando il cattolico e, dopo la<br />

sua morte nel 1516, del nipote Carlo I <strong>di</strong> Spagna, il futuro imperatore Carlo V. La<br />

corona <strong>di</strong> Spagna istituì nel regno <strong>di</strong> Napoli un vicereame che restò suo posse<strong>di</strong>mento<br />

<strong>di</strong>retto fino al 1713, mantenendo in Napoli il viceré e tutti gli organi amministrativi<br />

più importanti, avvicendando nelle varie province e città del regno, Brin<strong>di</strong>si inclusa,<br />

governatori e capitani <strong>di</strong> guarnigione che furono sempre spagnoli.<br />

Il rafforzamento delle strutture <strong>di</strong>fensive della città<br />

Il 22 <strong>di</strong>cembre 1516 Fer<strong>di</strong>nando – Hernando de – Alarcòn fu nominato castellano<br />

maggiore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, con anche l’incarico <strong>di</strong> supervisore delle fortificazioni in Terra<br />

d’Otranto. Presto si rese conto che le strutture <strong>di</strong>fensive della città non erano<br />

115


sufficienti a garantirne la protezione da terra – all’entrata del porto era già stato<br />

costruito il castello Alfonsino – per cui si <strong>di</strong>spose alla realizzazione <strong>di</strong> varie<br />

fortificazioni, restando come castellano ufficiale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante venticinque anni,<br />

fino alla sua morte sopravvenuta a Napoli il 27 gennaio 1540.<br />

Nel 1525 comandò l’avanguar<strong>di</strong>a della cavalleria nella battaglia <strong>di</strong> Pavia, occupandosi<br />

poi della custo<strong>di</strong>a del re Francesco I <strong>di</strong> Francia, catturato in battaglia, del suo<br />

trasferimento al Real Alcázar de Madrid e del successivo viaggio a Bayonne dopo il suo<br />

rilascio, servizi per i quali l’imperatore Carlo V gli conferì il titolo <strong>di</strong> marchese della<br />

Valle Siciliana. Prese parte anche al sacco <strong>di</strong> Roma del 1527, in cui papa Clemente VII<br />

fu catturato e messo in custo<strong>di</strong>a da Alarcòn nel Castel Sant’Angelo. Nel 1535 fece parte<br />

della spe<strong>di</strong>zione militare che asse<strong>di</strong>ò Tunisi, nelle forze imperiali <strong>di</strong> Carlo V che<br />

presero la città <strong>di</strong>fesa dai turchi <strong>di</strong> Barbarossa [D. DIAZ DE LA CARRERA, 1665].<br />

A Brin<strong>di</strong>si, Alarcòn iniziò la costruzione del bastione <strong>di</strong> San Giorgio e ristrutturò quello<br />

<strong>di</strong> San Giacomo, aprendo sui fianchi e sulle facce della fortezza bombar<strong>di</strong>ere su due<br />

or<strong>di</strong>ni idonee a respingere da ogni parte gli eventuali assalitori. Tra i due bastioni,<br />

nelle a<strong>di</strong>acenze <strong>di</strong> Porta Mesagne, costruita nel 1243 ai tempi dello svevo Federico II,<br />

iniziò a e<strong>di</strong>ficarne un terzo su cui vi è ancora inciso in pietra lo stemma reale <strong>di</strong> Carlo<br />

V, al quale il bastione restò intitolato. Inoltre, potenziò Porta Lecce, che era stata fatta<br />

costruire da Fer<strong>di</strong>nando d’Aragona nel 1467, completandola con cortine murarie, e<br />

anche su <strong>di</strong> essa collocò lo stemma <strong>di</strong> Carlo V, affiancandolo questa volta al suo e a<br />

quello della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Alarcòn ebbe anche in progetto <strong>di</strong> completare il circuito murario intorno alla città,<br />

come si evince dai <strong>di</strong>segni relativi allo stesso, custo<strong>di</strong>ti presso il Gabinetto delle<br />

stampe della galleria degli Uffizi <strong>di</strong> Firenze, ma evidentemente tali piani furono<br />

materializzati solo parzialmente, con la sola costruzione <strong>di</strong> alcune cortine murarie nei<br />

tratti compresi tra Porta Mesagne e Porta Lecce.<br />

Il Torrione Carlo V<br />

116


Porta Mesagne<br />

Porta Lecce<br />

117


Il Torrione San Giacomo<br />

La peste del 1526 a Brin<strong>di</strong>si<br />

E <strong>di</strong> nuovo giunse la peste a Brin<strong>di</strong>si «... e precisamente nel 1526 alli 24 del mese <strong>di</strong><br />

luglio incominciò la peste in questa città e durò un anno continuo; dove ne morirono<br />

ottocento persone» [P. CAGNES & N. SCALESE, 1529-1787] <strong>di</strong> certo introdotta e favorita<br />

dalle tante truppe che vi si avvicendavano <strong>di</strong> continuo, transitandovi e soggiornandovi<br />

in con<strong>di</strong>zioni igieniche del tutto deprecabili.<br />

Infatti, la peste del 1526, manifestatasi in numerosi focolai sparsi in tutta l’Italia, restò<br />

ben documentata anche nella capitale del regno <strong>di</strong> Napoli: «... Cosi contagioso morbo si<br />

intese la prima volta in Napoli, in una casa appresso la chiesa <strong>di</strong> S. Maria della Scala, nel<br />

mese <strong>di</strong> agosto dell’anno 1526, qual casa appestata fu subito, per or<strong>di</strong>ne degli Eletti della<br />

città, sbarrata, per levarsi il commercio che perciò questa strada, fino al presente, vien<br />

denominata de le Barre. La peste cominciò in Napoli il suo lavoro, e talmente continuò<br />

tutto l’anno 1527, che non fu casa che non ne sentisse travaglio. E quando del tutto parve<br />

estinta allora pigliò maggior forza perciocché l’anno 28 e 29 fé gran<strong>di</strong>ssimo danno, onde<br />

vi morirono <strong>di</strong>ntorno a 65000 persone» [G. A. SUMMONTE, 1749].<br />

Nel settembre 1526, gli Eletti <strong>di</strong> Napoli fecero racchiudere da una struttura muraria<br />

l’ospedale degli Incurabili e Castel Novo per isolare dalla città i malati che vi<br />

ricoverati. E a Brin<strong>di</strong>si «... L’unica reale misura decretata per contrastarla fu l’erezione<br />

<strong>di</strong> un tempio a San Rocco, sulla via d’entrata alla città da Porta Mesagne, poi<br />

ribattezzato con il titolo <strong>di</strong> Santa Maria del Carmine affiancato dal monastero dei<br />

Carmelitani e che <strong>di</strong>ede il nome a via Carmine» [F. ASCOLI, 1886].<br />

118


Il culto a San Rocco, santo francese originario <strong>di</strong> Montpellier, che gli agiografi in<strong>di</strong>cano<br />

vissuto tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo, affonda le sue ra<strong>di</strong>ci intorno<br />

alla metà del Quattrocento; quando, in coincidenza con le ripetute epidemie <strong>di</strong> peste<br />

che funestavano l’Europa, si unì e in qualche caso si sovrappose a quello tra<strong>di</strong>zionale<br />

per san Sebastiano, fin lì invocato contro la peste perché sopravvissuto al martirio<br />

delle frecce, utilizzate già in epoca classica – allorquando si credeva che fosse Apollo a<br />

scagliare i dar<strong>di</strong> delle malattie epidemiche – per simboleggiare le epidemie.<br />

Il male era caratterizzato da una infiammazione e da un rigonfiamento doloroso dei<br />

linfono<strong>di</strong> o bubboni generalmente a livello inguinale. La malattia improvvisamente<br />

insorgeva con brivi<strong>di</strong> e febbre, i bambini avevano le convulsioni, vi era vomito, sete<br />

intensa, dolori generali, cefalea, sopore mentale e delirio. Al terzo giorno, dall’inizio<br />

dei sintomi, comparivano macchie nere cutanee, da cui il nome <strong>di</strong> "peste o morte nera"<br />

e la morte giungeva quasi subito, anche se non mancavano casi in cui la malattia aveva<br />

un decorso benigno con sintomi lievi che si attenuavano dopo giorni fino a<br />

scomparire.<br />

Il crollo della colonna romana<br />

Il 20 novembre 1528, una delle due colonne romane che avevano sfidato per tanti<br />

secoli le intemperie dei tempi, cadde senza apparente ragione (però era in corso una<br />

guerra): «... Il pezzo supremo restò sopra l’infimo, mentre quelli compresi fra la base e il<br />

capitello, caddero a terra. Nessuna <strong>di</strong>sgrazia successe, i pezzi caduti furono poi portati a<br />

Lecce e il pezzo supremo vedesi ancora al giorno d’oggi con meraviglia rimanere<br />

attraversato sull’infimo» [A. DELLA MONACA, 1674].<br />

Il sacco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del 1529<br />

Dopo le <strong>di</strong>spute per la successione al trono dell’impero tra il vincitore Carlo d’Asburgo<br />

e il perdente Francesco <strong>di</strong> Francia, questi <strong>di</strong>ede vita alla Lega <strong>di</strong> Cognac, che fu<br />

costituita il 22 maggio1526 da Francia, Firenze, Venezia, Milano e Inghilterra, e ad<br />

essa aderì anche lo Stato Pontificio del papa Clemente VI. Quella mossa del pontefice<br />

causò la reazione dell’imperatore, che radunò un esercito <strong>di</strong> mercenari lanzichenecchi<br />

tedeschi per farli <strong>di</strong>scendere in Italia dove, assieme alle truppe spagnole e italiane<br />

sovrastarono le forze della Lega, <strong>di</strong> scarsa coesione e me<strong>di</strong>ocre efficienza militare, e<br />

dopo qualche mese giunsero alle porte <strong>di</strong> Roma.<br />

Entrarono nella capitale pontificia il 5 maggio 1527 mentre il papa si rifugiava in<br />

Castel Sant’Angelo. I lanzichenecchi, esasperati per le pessime con<strong>di</strong>zioni sopportate<br />

durante la campagna e per i mancati pagamenti pattuiti, si <strong>di</strong>edero per otto giorni al<br />

saccheggio della città e alla violenza sui suoi abitanti.<br />

In seguito agli eventi <strong>di</strong> Roma, nell’agosto del 1527, l’esercito francese <strong>di</strong>scese in Italia<br />

e si unì alle altre forze della Lega sotto la guida del maresciallo d’oltralpe Odet de Foix,<br />

conte <strong>di</strong> Lautrec. Alla fine dell’anno, con la notizia dell’imminente uscita delle truppe<br />

imperiali da Roma, i collegati <strong>di</strong> Cognac decisero <strong>di</strong> portare la guerra al sud, nello<br />

spagnolo regno <strong>di</strong> Napoli. Lautrec quin<strong>di</strong>, intraprese lo spostamento <strong>di</strong> tutte le forze<br />

allegate verso Napoli e ai primi <strong>di</strong> marzo del 1528 entrò nella strategica Puglia.<br />

Anche l’esercito imperiale si <strong>di</strong>resse in Puglia guidato da Filiberto principe d’Orange il<br />

quale, alla notizia che gli alleati avevano preso facilmente Melfi e Ascoli, intraprese la<br />

119


via della ritirata strategica a Napoli. Altre città si arresero o si allearono alla Lega:<br />

Barletta, Monopoli, Molfetta, Bisceglie, Giovinazzo, Cerignola, Trani, Andria,<br />

Minervino, Altamura, Matera, Polignano, Mola, Bari – dove però i castelli rimasero<br />

spagnoli – e Ostuni. Fece invece resistenza Manfredonia, mentre l’esercito alleato<br />

inseguiva gli imperiali e mentre, a sud, i veneziani pensavano a riprendersi i porti<br />

perduti nel 1509: Gallipoli, Otranto e soprattutto a Brin<strong>di</strong>si.<br />

«… Questa città, come le altre <strong>di</strong> Puglia, era sfornita <strong>di</strong> truppe imperiali che erano state<br />

mandate verso la Capitanata al principio della guerra. All’intimazione <strong>di</strong> arrendersi e<br />

non ostante la minaccia <strong>di</strong> dover pagare cinquantamila scu<strong>di</strong>, rispose dapprima<br />

negativamente per timore dei forti, ma poi, aperte trattative, il 29 aprile 1528 Brin<strong>di</strong>si<br />

alzò ban<strong>di</strong>era veneziana, mentre le persone atte alle armi si ritiravano nelle due fortezze<br />

a <strong>di</strong>fendervi la ban<strong>di</strong>era imperiale. I veneziani appena entrati in città, ove fu posto a<br />

governatore Andrea Gritti, commisero soprusi e angherie contro gli abitanti ai quali già<br />

avevano rovinato le campagne all’intorno, poi misero l’asse<strong>di</strong>o ai castelli stabilendo <strong>di</strong><br />

darvi in maggio un pieno assalto» [V. VITALE, 1907].<br />

A metà <strong>di</strong> maggio, l’ammiraglio veneziano Pietro Lando – senza essere riuscito a<br />

espugnare i due castelli, nonostante i tanti e ripetuti attacchi sferzati sia da mare che<br />

da terra – con le sue galere, che non potendo entrare nel porto avevano trovato<br />

approdo nella rada <strong>di</strong> Guaceto, fu inviato a Napoli per rafforzarne l’asse<strong>di</strong>o.<br />

Nel 1529, gli imperiali guidati in Puglia dal marchese Del Vasto, deliberarono la<br />

riconquista delle più importanti terre perdute, Barletta, Trani, Monopoli, senza<br />

peraltro riuscirvi. Mentre i collegati deliberarono tornare alla riscossa della strategica<br />

Terra d’Otranto e il 28 luglio riattaccarono Brin<strong>di</strong>si, puntando soprattutto alla presa<br />

dei due castelli: quello <strong>di</strong> terra, <strong>di</strong>feso dal vice castellano Giovanni Glianes e quello <strong>di</strong><br />

mare, <strong>di</strong>feso dal vice castellano Tristan Dos. Il castellano generale, Fer<strong>di</strong>nando –<br />

Hernando – Alarcon, era in quei giorni impegnato nella <strong>di</strong>fesa della asse<strong>di</strong>ata Napoli.<br />

Il provve<strong>di</strong>tore veneziano Pietro Pesaro, il 13 agosto prese terra a Porto Guaceto e con<br />

l’avanguar<strong>di</strong>a si avvicinò alla città, la quale si lasciò persuadere ad arrendersi, ma<br />

contro i patti, fu saccheggiata dalle truppe francesi, mal frenate dai veneziani. Il 18<br />

arrivò Camilo Orsini con mira a prendere i castelli, che anche questa volta erano<br />

rimasti nelle mani spagnole, cominciando con quello <strong>di</strong> terra.<br />

Esaurite però, dopo solo due giorni, le munizioni, si decise <strong>di</strong> chiamare a rinforzo il<br />

capitano Simone Tebal<strong>di</strong> Romano che presto giunse a Brin<strong>di</strong>si con i suoi 16.000<br />

soldati: “e qui, il 28 agosto, in una ricognizione intorno al castello <strong>di</strong> terra, egli trovò la<br />

morte per un colpo <strong>di</strong> artiglieria”.<br />

Poi, finalmente giunse la notizia che a Cambrai il 5 agosto era stata firmata la pace e,<br />

pur con la reticenza dei veneziani, l’asse<strong>di</strong>o alla città fu tolto. Ma per Brin<strong>di</strong>si era<br />

ormai troppo tar<strong>di</strong>: l’uccisione del Romano aveva già scatenato l’inferno.<br />

«Furono della morte <strong>di</strong> costui dalla soldatesca celebrati lagrimosi funerali nella misera<br />

città, contro la quale sfogò il suo sdegno senza timore alcuno della <strong>di</strong>vina giustizia, e<br />

senza pietà degl’innocenti; perciò che i soldati, essendo <strong>di</strong> varie nationi, e liberi dal freno<br />

del capitano, trascorsero nella solita loro indomabile natura, essendo natural con<strong>di</strong>tione<br />

<strong>di</strong> costoro, quando non han capo, che li gui<strong>di</strong>, <strong>di</strong> commettere ogni enormità imaginabile...<br />

120


Il Castello svevo – <strong>di</strong> Terra<br />

Il Castello Alfonsino – <strong>di</strong> Mare<br />

121


Quel furore dunque, che dovevan accenderli contro i loro proprij nemici, che stavano<br />

nella fortezza uccisori del loro duce, rivolsero contro gli amici della città, che<br />

spontaneamente gl’havean raccolti nelle loro case, e dando nome <strong>di</strong> vendetta alla loro<br />

avaritia, e <strong>di</strong> giustitia alla loro perfi<strong>di</strong>a, s’incrudelirono nell’innocente città, e nella robba<br />

de’ citta<strong>di</strong>ni.<br />

Comiciò a darsi sacco <strong>di</strong> notte, per celar forse col buio delle tenebre, la crudeltà<br />

ch’usavano.<br />

Non si possono senza orrore descrivere, né meritano esser u<strong>di</strong>te da orecchie umane le<br />

particolarità delle sceleratezze commesse da quella soldatesca <strong>di</strong>ss’humanata, e feroce,<br />

avida non men <strong>di</strong> sangue, che <strong>di</strong> ladronecci.<br />

Non perdonarono a cosa alcuna, humana o <strong>di</strong>vina, furono gl’infelici vecchi, e l’innocente<br />

vergini tratti per barba e per crine, acciò rivelassero le nascoste ricchezze, furono<br />

abbattuti i chiusi claustri, e fracassate le caste celle delle spose <strong>di</strong> Dio.<br />

I tempij con orren<strong>di</strong> sacrilegi profanati; furono fatte in minutie i tabernacoli, e buttando<br />

per terra le sacre hostie consacrate, si presero i piccoli vasi d’argento ove stavan riposte.<br />

Eccessi invero abominevoli, & esecran<strong>di</strong>, per li quali meritavano aprirsi le voragini della<br />

terra, & esser da quelle ingoiati; o esser fulminati dal cielo, o strangolati dalle furie; ma<br />

si <strong>di</strong>fferì dalla <strong>di</strong>vina giustitia il dovuto castigo ad altro tempo per esser più severo<br />

degl’accennati…<br />

Restò per qualche conforto alla depredata città il cadavero del general nemico, che fu<br />

seppellito nella chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale in un deposito, dal canto destro<br />

nell’entrar della porta principale della chiesa, dove fino a tempi nostri si lesse<br />

quest’iscrittione nel sasso: Hic iacet Simeon Thebaldus Romanus, imperator exercitus.»<br />

[A. DELLA MONACA, 1674].<br />

Quando il castellano Fer<strong>di</strong>nando Alarcon rientrò a Brin<strong>di</strong>si, incontrò la città<br />

semi<strong>di</strong>strutta e subito si sommò alla richiesta inviata dai citta<strong>di</strong>ni al re, avallata dal<br />

viceré principe d’Orange, affinché fosse annullata la condanna per ribellione che era<br />

stata inflitta alla città dal commissario Girolamo Morrone – essendo stata considerata<br />

fiancheggiatrice <strong>di</strong> francesi veneziani e papalini per la sua reiterata resa alle truppe<br />

della Lega e per l’atteggiamento citta<strong>di</strong>no valutato come ostile all’imperatore –<br />

segnalando, a sostegno della sua posizione, proprio l’epica resistenza che avevano<br />

mostrato entrambi i suoi castelli, lottando fedeli all’imperatore senza mai arrendersi<br />

agli allegati.<br />

Per buona ventura dei brin<strong>di</strong>sini, la richiesta della città fu finalmente accolta da Carlo<br />

V e così a Brin<strong>di</strong>si furono anche integralmente restituiti tutti i privilegi che nel passato<br />

erano già stati concessi dai re Fer<strong>di</strong>nando I d’Aragona e Fer<strong>di</strong>nando il Cattolico.<br />

La popolazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si al minimo storico<br />

Nello scorcio <strong>di</strong> quello storico e tristissmo anno 1529, dopo la terribile peste scoppiata<br />

nel 1526, dopo il crollo improvviso della colonna romana, dopo l’assalto e il<br />

saccheggio delle truppe papali francesi e veneziane, Brin<strong>di</strong>si era ormai giunta allo<br />

stremo e la sua popolazione si era ridotta a meno <strong>di</strong> 400 fuochi, circa 2.000 abitanti,<br />

un minimo da allora mai più toccato.<br />

122


Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

Carlo V dunque, vinse quell’ennesimo confronto con la Francia <strong>di</strong> Francesco I e la pace<br />

che ne derivò, con il trattato <strong>di</strong> Cambrai del 5 agosto 1529, riaffermò il dominio della<br />

Spagna su tutto il regno <strong>di</strong> Napoli. Fra le con<strong>di</strong>zioni della pace s’incluse che Carlo V<br />

avesse il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> nominare nel regno 18 vescovi e 7 arcivescovi, tra i quali quello <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si. E da quel momento la chiesa brin<strong>di</strong>sina, che fino ad allora era appartenuta ai<br />

pontefici, <strong>di</strong>venne regia, garantendo al regno, con la nomina <strong>di</strong> prelati spagnoli,<br />

l’affidabilità <strong>di</strong> una città strategicamente importante.<br />

Aleandro Girolamo, arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e Oria dal <strong>di</strong>cembre 1524, poi fatto<br />

car<strong>di</strong>nale dal papa Paolo III, nel 1541 rinunciò per recarsi a Roma a far parte della<br />

commissione per la riforma della curia romana, in preparazione del Concilio <strong>di</strong> Trento,<br />

ma vi morì dopo poco, il primo febbraio 1542.<br />

Gli succedette, nominato dall’imperatore Carlo V e ratificato dal papa Paolo III, il<br />

nipote Francesco Aleandro, del quale si <strong>di</strong>sse fosse più atto a maneggiare la spada che<br />

a reggere il pastorale e che ebbe seri problemi ad essere riconosciuto dagli oritani, i<br />

quali pretendevano che egli s’intitolasse “Archiepiscopus Uritanus et Brundusinus” in<br />

considerazione della supposta supremazia <strong>di</strong>ocesana <strong>di</strong> Oria su Brin<strong>di</strong>si, finché il papa<br />

Paolo III con bolla del 24 maggio 1545, <strong>di</strong>ede torto agli oritani e li obbligò a restare<br />

soggetti all’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Francesco Aleandro morì il 3 novembre 1560.<br />

I Coronei a Brin<strong>di</strong>si<br />

Nell’ottobre del 1534, al papa Clemente VII succedette il romano Alessandro Farnese<br />

con il nome <strong>di</strong> Paolo III, mentre l’Europa, che continuava a logorarsi nell’interminabile<br />

guerra tra Carlo V e Francesco I, era minacciata dalle brame <strong>di</strong> conquista <strong>di</strong> Solimano<br />

detto il magnifico, il potente imperatore ottomano che utilizzando la flotta barbaresca<br />

– basata in Tunisi – del famoso ammiraglio Ariadeno Barbarossa, Kair ed-<strong>di</strong>n, assaliva<br />

sistematicamente gli stati marittimi più esposti, nonostante l’altrettanto sistematica e<br />

determinata reazione delle flotte cristiane, le imperiali, le napoletane e le genovesi,<br />

guidate il gran ammiraglio Andrea Doria.<br />

In questo contesto bellico, sulla costa meri<strong>di</strong>onale del Peloponneso, nell’antica Morea,<br />

la strategica citta<strong>di</strong>na fortificata bizantina <strong>di</strong> Corone – già roccaforte veneziana dal<br />

1204 in cui fin dal secolo XI coesisteva una folta minoranza albanese ortodossa –<br />

caduta in possesso dei turchi nel 1500 e riconquistata da Andrea Doria nel 1532, fu<br />

riespugnata dai turchi <strong>di</strong> Barbarossa nel 1534. Quin<strong>di</strong>, grazie ad accor<strong>di</strong> <strong>di</strong>plomatici<br />

intercorsi tra gli imperatori Carlo V e Solimano, a molte famiglie ortodosse della città<br />

fu consentita la scelta dell’esilio nel regno <strong>di</strong> Napoli e così in quell’occasione – ne<br />

seguirono altre – circa 2.000 albanesi coronei, s’imbarcarono sulle navi dell’alleanza <strong>di</strong><br />

Carlo V e fecero rotta per le regioni del sud d’Italia, principalmente in Calabria ma<br />

anche in Sicilia e in Puglia.<br />

Nel 1536, infatti, giunse a Brin<strong>di</strong>si una colonia <strong>di</strong> Coronei che «... Ottennero poter<br />

costruire le loro abitazioni lungo la via che mena a Lecce con chiese per il loro rito<br />

greco» [F. A. PRIMALDO COCO, 1939] e per vari decenni fu un loro carismatico<br />

sacerdote, Antonio Pirgo, che nella chiesa Cattedrale celebrò con il rito greco vari<br />

battesimi <strong>di</strong> bambini coronei, e non solo:<br />

123


«L’11 luglio 1553 don Antonio Pirgo, sacerdote greco, battezza il figlio <strong>di</strong> un coroneo e<br />

altri battesimi, con rito greco, vengono celebrati nella cattedrale dallo stesso sacerdote,<br />

detto alcune volte Pirico, altre volte Piria, il 19 novembre 1553, il 7 giugno 1554, il 31<br />

marzo 1555. Il 17 febbraio 1572 don Antonio Pyrgo, battezza Caterina figlia <strong>di</strong><br />

Giannetto de Paulo de Pastrovichi e Milizia de Rado de Pastrovichi e l’ostetrica è Stana<br />

de Jacopo Pastrovichi. Nei giorni 9 gennaio, 12 maggio, 16 luglio, 18 ottobre, 23<br />

novembre 1573 e 28 gennaio, 28 febbraio, 14 marzo 1574, battezza bambini della<br />

colonia greca residente nella città» [P. CAGNES & N. SCALESE, 1529-1787].<br />

Del resto, furono tutti quelli, eventi abbastanza or<strong>di</strong>nari, giacché la liturgia greca si era<br />

sviluppata anche a Brin<strong>di</strong>si fin dallo scisma d’Oriente del 1054, e si mantenne in uso<br />

nella città fino al 1680, nonostante il Concilio <strong>di</strong> Trento del 1545 avesse ufficialmente<br />

sostituito il rito greco con quello cattolico officiato in latino.<br />

Le comunità greche albanesi poi, in tutta la Terra d’Otranto, finirono<br />

progressivamente con abbandonare la lingua madre, che si mantenne circoscritta a<br />

solamente un’isola linguistica <strong>di</strong> pochi comuni situati nella penisola salentina,<br />

specialmente nel tarantino, tra quelli San Marzano, attualmente il più grande comune<br />

Arbëreshë d’Italia.<br />

Gli Ebrei via da Brin<strong>di</strong>si<br />

Nel novembre del 1539 l’imperatore Carlo V decretò l’espulsione degli ebrei dal regno<br />

<strong>di</strong> Napoli e subito, anche a Brin<strong>di</strong>si giunse l’e<strong>di</strong>tto «... Che si <strong>di</strong>scacciano dalla città gli<br />

ebrei, parendo che colle loro usure <strong>di</strong>vorassero le sostanze de popoli e seminassero con<br />

l’esempio l’empietà loro. Pure alcuni <strong>di</strong> loro restarono in Brin<strong>di</strong>si nella cristiana e in<br />

buono et onorevol stato.» [A. DELLA MONACA, 1674].<br />

«... Quegli ebrei a Brin<strong>di</strong>si erano venuti ad abitare, in numero piuttosto considerevole, ai<br />

tempi degli aragonesi. A <strong>di</strong>re il vero, questi ebrei cole loro industrie, coi loro traffici, colle<br />

loro ricchezze avevano <strong>di</strong> molto contribuito al benessere della città. La quale,<br />

riconoscente, aveva fatte premurose istanze al viceré <strong>di</strong> Napoli, affinché si fosse loro<br />

permesso <strong>di</strong> restare lì. Ma i tentativi e gli sforzi tornarono vani. E questo esito era da<br />

aspettarsi dal fanatismo religioso <strong>di</strong> Carlo V e dal suo viceré Don Pedro de Toledo, i quali<br />

avevano – vanamente – tentato <strong>di</strong> stabilire l’inquisizione in Napoli.» [F. ASCOLI, 1886].<br />

In realtà, gli ebrei a Brin<strong>di</strong>si c’erano anche da molto prima che arrivassero gli<br />

aragonesi. Dopo la conquista e <strong>di</strong>struzione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ad opera dei Longobar<strong>di</strong>,<br />

intorno al 670 dC «… La documentazione epigrafica dà la certezza che rimasero, ai<br />

margini della città, solo alcuni gruppi <strong>di</strong> ebrei, parte stabiliti nella zona detta ‘Giudea’,<br />

presso il seno <strong>di</strong> Levante del porto interno, parte presso l’attuale via Tor Pisana.» [G.<br />

CARITO, 1976]. E poi «...Quando la città rinacque alla fine del IX secolo, anche gli ebrei vi<br />

ritornarono. Nella seconda metà del secolo XII il viaggiatore navarrino Beniamino da<br />

Tudela vi troverà una decina <strong>di</strong> famiglie de<strong>di</strong>te alla tintoria.» [A. FRASCADORE, 2002].<br />

Con l’e<strong>di</strong>tto <strong>di</strong> Carlo V, che tardò un paio d’anni ad essere concretamente attuato,<br />

alcuni degli ebrei brin<strong>di</strong>sini emigrarono a Corfù, Patrasso e Salonicco, dove vennero<br />

ben accettati e dove mantennero in uso la lingua, i costumi e i riti religiosi che si<br />

portarono da Brin<strong>di</strong>si; mentre quelli che rimasero attuarono il marranesimo, ossia<br />

l’osservanza della religione cattolica nelle apparenze e nella pratica domestica quella<br />

degli usi e rituali ebraici.<br />

124


Carlo V<br />

125


Mamma li turchi!<br />

Gran parte delle azioni <strong>di</strong> Carlo V e <strong>di</strong> tutti gli eventi che si susseguirono durante i<br />

quarant’anni che durò il suo trono sul regno <strong>di</strong> Napoli, furono fortemente con<strong>di</strong>zionati<br />

dalla sua permanente e interminabile guerra contro Francesco I, il re <strong>di</strong> Francia, il<br />

quale mai rinunciò alla lotta anti-Carlo V e giunse persino a sostenerla me<strong>di</strong>ante<br />

l’antinaturale e funesta alleanza con l’impero ottomano <strong>di</strong> Costantinopoli.<br />

Infatti, furono costanti durante tutti quegli anni gli episo<strong>di</strong> legati agli attacchi e alle<br />

scorrerie turco-barbaresche sulle coste e città dello spagnolo regno <strong>di</strong> Napoli, e tra le<br />

più esposte quelle pugliesi e, naturalmente, non fecero eccezione quelle brin<strong>di</strong>sine.<br />

Nel contesto delle guerre tra Francesco I e Carlo V e dell’alleanza franco-turca, tra gli<br />

assalti più prossimi a Brin<strong>di</strong>si ci fu quello del 27 luglio 1537, quando i turchi <strong>di</strong><br />

Barbarossa sbarcarono a Castro, ottenendo la resa dal comandante del castello <strong>di</strong>etro<br />

assicurazioni che sarebbero stati rispettati gli abitanti. Più che i patti, naturalmente<br />

non osservati, influirono sulla resa le ingenti forze – 7000 fanti e 500 cavalli – messe a<br />

terra dai turchi, giacché quell’azione rientrava nel piano franco-ottomano secondo cui<br />

i turchi avrebbero attaccato l’Italia dal sud e contemporaneamente, i francesi dal nord.<br />

L’imperatore Solimano, infatti, inviò un esercito <strong>di</strong> 300.000 uomini da Costantinopoli a<br />

Valona, con l’obiettivo <strong>di</strong> trasportarli in Italia con una flotta <strong>di</strong> 100 galee già pronta,<br />

nel mentre il suo ammiraglio Barbarossa devastava la costa tra Otranto e Brin<strong>di</strong>si, in<br />

attesa del momento propizio per prendere Brin<strong>di</strong>si – dove sembra che ai francesi<br />

fosse riuscito <strong>di</strong> corrompere il governatore locale che avrebbe dovuto favorire lo<br />

sbarco dell’esercito ottomano – da cui proseguire la conquista del regno napoletano.<br />

Francesco I però, non riuscì a concretizzare il suo piano nel nord d’Italia e, invece,<br />

andò ad attaccare i Paesi Bassi. Fallito così il piano prestabilito, nel mese <strong>di</strong> agosto<br />

1537 gli ottomani rinunciarono a prendere Brin<strong>di</strong>si, lasciarono il sud d’Italia e posero<br />

l’asse<strong>di</strong>o navale a Corfù, dove all’inizio <strong>di</strong> settembre 1537 vennero raggiunti da 12<br />

galee francesi dell’ammiraglio Baron de Saint-Blancard, il quale tentò vanamente <strong>di</strong><br />

convincerli ad attaccare nuovamente la Puglia, la Sicilia e Ancona, ma a metà<br />

settembre Solimano riportò la flotta a Costantinopoli, senza neanche aver preso Corfù.<br />

Qualche tempo dopo, senza che nel mentre fosse mai stata messa da parte la bellicosa<br />

rivalità tra Francesco I e Carlo V, in quegli stessi anni in cui il viceré spagnolo <strong>di</strong><br />

Napoli, Pedro de Toledo, tentava <strong>di</strong> convincere l’imperatore Carlo V ad instaurare<br />

l’inquisizione nel vice regno, era principe <strong>di</strong> Salerno Ferrante Sanseverino. La sua<br />

decisa opposizione a quell’iniziativa lo collocò in rotta <strong>di</strong> collisione con il viceré finché,<br />

aggravatosi lo scontro, nel 1552 fu <strong>di</strong>chiarato ribelle e condannato a morte dal<br />

Consiglio collaterale <strong>di</strong> Napoli. Costretto così a prendere la via dell’esilio, il principe si<br />

rifugiò in Francia sotto la protezione del re Enrico II, che nel 1547 era succeduto al<br />

padre Francesco I.<br />

Dall’esilio, Sanseverino, per anni si adoperò con impegno a ravvivare la coalizione,<br />

integrata dal regno <strong>di</strong> Francia la repubblica <strong>di</strong> Venezia e l’impero turco, per<br />

combattere Carlo V ed il suo regno napoletano. Anche se finalmente non raggiunse<br />

l’obiettivo della presa <strong>di</strong> Napoli, non mancarono sue iniziative concrete volte a<br />

quell’impresa, come quando – nel 1554 – al comando <strong>di</strong> una flotta francese <strong>di</strong> 18<br />

galere, si unì alla flotta turca ancorata a Prevesa, sulla costa nordoccidentale della<br />

Grecia, per sferrare l’offensiva.<br />

126


Francesco I e Solimano il Magnifico<br />

Andrea Doria<br />

Khayr al‐Din Barbarossa<br />

127


«Brin<strong>di</strong>si, ammaestrata dall’esperienza, vedendo addensarsi sì minacciosa burrasca ed<br />

in luogo così vicino, entrò con gran timore che i primi tentativi <strong>di</strong> sbarco e i primi assalti<br />

sarebbero <strong>di</strong>retti contro <strong>di</strong> essa. Il quale pericolo essendo stato conosciuto anche dal<br />

governo <strong>di</strong> Napoli, furono mandati <strong>di</strong> presi<strong>di</strong>o in questa città 400 soldati calabresi, sotto<br />

comando <strong>di</strong> Giovanni Battista de Abinante. Questo nerbo <strong>di</strong> forze era un’accozzaglia <strong>di</strong><br />

persone <strong>di</strong> mala vita e <strong>di</strong> pessimi costumi. Dissimile dai soldati non era il loro capo…<br />

In breve tempo, stando quei soldati in ozio, <strong>di</strong>vennero insolenti, tracotanti. I citta<strong>di</strong>ni<br />

erano pubblicamente insultati; le botteghe derubate; i pubblici negozii malmenati; la<br />

virtù vilipesa; la pu<strong>di</strong>cizia delle donne oltraggiata. I citta<strong>di</strong>ni perdettero alla fine la<br />

pazienza e levatisi a tumulto, giurarono <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>carsi dei torti fin’allora ricevuti e <strong>di</strong> non<br />

risparmiare alcuno <strong>di</strong> tai malcapitati. Percorrendo armati le strade della città<br />

uccidevano quanti <strong>di</strong> quei soldati incontravano, e…<br />

Avrebbero trucidati tutti quei soldati, se, avuto sentore del tumulto, non fossero accorse<br />

le autorità provinciali da Lecce. Le quali, unitesi ai più saggi e prudenti della città,<br />

riuscirono a stento a frenare l’impeto e a calmare l’ira della popolazione… E il viceré,<br />

car<strong>di</strong>nale Pedro Pacheco, tenuto conto della provocazione, assolse la città e castigò<br />

severamente il presi<strong>di</strong>o ch’era sopravvanzato alla strage» [F. ASCOLI, 1886].<br />

Dal re Carlo al re Felipe<br />

Ma per il re Carlo IV <strong>di</strong> Napoli – l’imperatore Carlo V, sul cui impero non tramontava<br />

mai il sole – era giunto il tempo della stanchezza e del ritiro. Nel gennaio 1556 ab<strong>di</strong>cò<br />

in favore del figlio Felipe II cedendogli le corone <strong>di</strong> Spagna, dei Paesi Bassi e <strong>di</strong> Napoli,<br />

con le Nuove In<strong>di</strong>e; e nel febbraio 1557 ab<strong>di</strong>cò in favore del fratello Fer<strong>di</strong>nando<br />

cedendogli lo scettro del sacro romano impero. Quin<strong>di</strong>, si ritirò nel monastero <strong>di</strong> San<br />

Yuste, in Estremadura <strong>di</strong> Spagna, dove morì il 21 settembre del 1558. Il regno <strong>di</strong><br />

Napoli – e con esso anche Brin<strong>di</strong>si – aveva un nuovo sovrano, Felipe II. Sarebbe<br />

rimasto sul trono anche lui, come il padre, a lungo: per altri quarant’anni.<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

Diaz de La Cabrera D. Comentarios de los hechos del señor Hernando de Alarcón, marques de la<br />

Valle Siciliana y de Renda, y de las guerras en que se halló por espacio de<br />

cincuenta y ocho años - 1665<br />

Della Monaca A. Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - 1674<br />

Summonte G.A. Hi<strong>storia</strong> della città e regno <strong>di</strong> Napoli - 1749<br />

Cagnes P. & Scalese N. Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1529‐1787<br />

Ascoli F. La <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si scritta da un marino - 1886<br />

Vitale V. L’impresa <strong>di</strong> Puglia degli anni 1528 e 1529 - 1907<br />

Primaldo Coco F.A. Gli Albanesi in Terra d'Otranto - 1939<br />

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Carito G. Le Mura <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Sintesi Storica - 1981<br />

Frascadore A. Gli ebrei a Brin<strong>di</strong>si nel '400 - 2002<br />

Perri G. Brin<strong>di</strong>si nel contesto della <strong>storia</strong> - 2016<br />

128


Brin<strong>di</strong>si versus Oria:<br />

tra la chiesa brin<strong>di</strong>sina e la chiesa oritana 500 anni <strong>di</strong> aspri contrasti<br />

..Pubblicato su Academia.edu – e, parzialmente, su il7 Magazine del 1 e 20 gennaio 2020<br />

Sul volgere della fine del VII secolo, Brin<strong>di</strong>si versava in con<strong>di</strong>zioni deplorevoli, dopo<br />

una graduale e costante decadenza, che iniziata con la ventennale guerra greco-gotica<br />

(535-553) si era via via accentuata durante i cento e più anni <strong>di</strong> dominio bizantino<br />

sotto l’amministrazione <strong>di</strong> quei Greci risultati vincitori, i quali da Otranto – assurta a<br />

capitale del Ducato <strong>di</strong> Calabria cui Brin<strong>di</strong>si apparteneva – esercitavano il malgoverno<br />

con esosi patrizi e inetti funzionari, stimolando il <strong>di</strong>ffondersi <strong>di</strong> una corruzione<br />

imperante, mantenendo un precario stato <strong>di</strong> sicurezza sulle vie <strong>di</strong> comunicazione<br />

terresti infestate dal brigantaggio e, soprattutto, provocando la miseria generalizzata e<br />

lo spopolamento della città e del suo entroterra [dati, notizie e dettagli in G.CARITO 1 ].<br />

Già alla fine del VI secolo, la situazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si era così tanto degenerata che la<br />

città, già sede <strong>di</strong> una delle prime comunità cristiane costituitesi in Italia, non era<br />

neanche riuscita ad eleggersi un vescovo proprio, come si evince dalla missiva del 595<br />

in cui il papa Gregorio Magno chiede a Pietro, vescovo <strong>di</strong> Otranto, <strong>di</strong> “provvedere alla<br />

chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si priva <strong>di</strong> una guida dopo la morte del suo ultimo presule, per farne<br />

eleggere uno e vigilando affinché non sia elevato un laico alla <strong>di</strong>gnità vescovile”.<br />

Una <strong>di</strong>ocesi quella <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che probabilmente già attiva fin dal III secolo, in<br />

quello successivo aveva inviato il suo rappresentante, il vescovo Marcus <strong>di</strong> Calabria,<br />

all’importante Concilio <strong>di</strong> Nicea del 325. E una città, Brin<strong>di</strong>si, da cui:<br />

«Nei primi decenni della pre<strong>di</strong>cazione cristiana, quasi certamente passò il nuovo<br />

messaggio per raggiungere Roma. Di conseguenza, la nostra città fu se non la prima<br />

meta, almeno la prima tappa occidentale degli evangelizzatori. La sede vescovile <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si può pertanto risalire a una data anteriore alla pace <strong>di</strong> Costantino ed è probabile<br />

che Brin<strong>di</strong>si sia la sede vescovile più antica dopo Roma.» [O. GIORDANO 2 ]<br />

A cavallo tra il IV e il V secolo, fu vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Leucio, nato in Alessandria<br />

d’Egitto e <strong>di</strong>venuto poi il grande evangelizzatore del Salento. In seguito, durante il<br />

corso del V secolo, nella sede episcopale brin<strong>di</strong>sina si succederono Leone, Sabino,<br />

Eusebio, Dionisio e, da ultimo, Giuliano vescovo dal 492 al 496, la cui elezione è<br />

certificata da una lettera decretale del pontefice Gelasio I, in cui il papa impartisce al<br />

vescovo Giuliano <strong>di</strong>sposizioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong>sciplinare ed ecclesiastico [G. CARITO 3 ].<br />

Durante tutto il VI secolo, invece, la sede episcopale brin<strong>di</strong>sina sembrerebbe essere<br />

rimasta vacante e, pertanto, potrebbe forse essere stato proprio Giuliano “quell’ultimo<br />

presule morto senza essere stato avvicendato” riferito dal papa Gregorio Magno, in<br />

quella sua missiva del 595 in cui segnalava la necessità <strong>di</strong> provvedere alla nomina <strong>di</strong><br />

un nuovo vescovo per Brin<strong>di</strong>si. O forse, <strong>di</strong> vescovi ce n’erano stati anche nei cento anni<br />

seguenti la morte <strong>di</strong> Giuliano, pur senza che <strong>di</strong> loro ci siano pervenuti nomi o azioni.<br />

Comunque, per la sede episcopale brin<strong>di</strong>sina, quella lamentata da Gregorio Magno<br />

deve essere stata una vacanza certamente prolungata, senza che neanche si possa<br />

pensare per quel periodo ad un trasferimento o ad un accorpamento ad altra sede,<br />

cosa alla quale la missiva del pontefice avrebbe certamente fatto riferimento. Più<br />

naturale è invece supporre che quella eventuale vacanza assoluta, altro non fu che<br />

129


un’ulteriore riprova del fatto che la guerra greco-gotica prima, l’occupazione bizantina<br />

dopo, una serie <strong>di</strong> catastrofi naturali e, infine, l’approssimarsi dei Longobar<strong>di</strong>, furono<br />

tutti eventi che in successione affossarono completamente la città, la sua economia, la<br />

sua popolazione.<br />

Una vacanza che, comunque, certamente perdurava ancora nel 601, quando lo<br />

stesso pontefice Gregorio Magno or<strong>di</strong>nò sempre allo stesso vescovo Pietro <strong>di</strong> Otranto<br />

– risultando evidentemente vacante la cattedra – <strong>di</strong> prendere in Brin<strong>di</strong>si reliquie dal<br />

corpo <strong>di</strong> San Leucio per mandarle ad Opportuno, abate del monastero <strong>di</strong> San Leucio<br />

che era a cinque miglia da Roma.<br />

Entrato il secolo VII, finalmente, Brin<strong>di</strong>si riebbe i suoi vescovi che, in successione,<br />

furono Proculo, Pelino, Ciprio [G. CARITO 3 ] e, da ultimo, Prezioso.<br />

«Alla fine del VII secolo era vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Prezioso, a noi noto solo dal 1876,<br />

quando fu scoperto, in contrada Para<strong>di</strong>so, il suo sarcofago con epigrafe. Egli è l’ultimo<br />

vescovo residente in Brin<strong>di</strong>si prima del trasferimento della sede episcopale in Oria.<br />

Questa è la <strong>di</strong>retta <strong>di</strong>mostrazione della volontà longobarda <strong>di</strong> <strong>di</strong>struggere Brin<strong>di</strong>si, città<br />

per essi <strong>di</strong>fficile da <strong>di</strong>fendere contro i Bizantini… Ad una fase <strong>di</strong> sbandamento della<br />

citta<strong>di</strong>nanza si può attribuire questo sepolcro, sia per il luogo del ritrovamento, in una<br />

contrada lontana dalla città e dalla necropoli romana, sia per le caratteristiche<br />

dell'epigrafe… La <strong>di</strong>struzione della città a opera dei Longobar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Benevento determina<br />

il trasferimento della cattedra episcopale in Oria… I Longobar<strong>di</strong>, <strong>di</strong>strutta Brin<strong>di</strong>si<br />

intorno al 674, fecero <strong>di</strong> Oria il loro caposaldo facile da <strong>di</strong>fendere grazie alla sua<br />

posizione sopraelevata. Allora fu anche sede dei vescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si come conferma<br />

l'epigrafe che riporta il nome del vescovo Magelpoto.» [G. CARITO 3 ]<br />

Prezioso, è scritto sul suo sarcofago, morì un venerdì 18 agosto – forse del 685 o,<br />

più probabilmente, del 674 – poco dopo quin<strong>di</strong>, o poco prima, della conquista<br />

longobarda della città, e fu comunque assente il 27 marzo del 680 al Concilio romano<br />

indetto da papa Agatone, in cui Brin<strong>di</strong>si non fu rappresentata.<br />

I Longobar<strong>di</strong>, in effetti, già da più <strong>di</strong> un centinaio d’anni – nel 568 – erano penetrati<br />

in Italia attraverso il Friuli e in poco tempo avevano strappato ai Bizantini gran parte<br />

del territorio peninsulare. Posero la loro capitale a Pavia e raggrupparono tutte le<br />

terre sottomesse in due gran<strong>di</strong> aree: la Langobar<strong>di</strong>a Maior, dalle Alpi all’o<strong>di</strong>erna<br />

Toscana e la Langobar<strong>di</strong>a Minor, costituita dai territori imme<strong>di</strong>atamente a est e a sud<br />

dei posse<strong>di</strong>menti centro nor<strong>di</strong>ci rimasti bizantini i quali, attraverso parte delle attuali<br />

Umbria e Marche, si estendevano da Roma a Ravenna. Mentre la Langobar<strong>di</strong>a Maior fu<br />

spezzettata in numerosi ducati e tanti gastaldati, la Minor si articolò in solo due<br />

potenti ducati, quello <strong>di</strong> Spoleto a nordest <strong>di</strong> Roma e quello <strong>di</strong> Benevento, che al sudest<br />

<strong>di</strong> Roma comprese i territori della Lucania e buona parte <strong>di</strong> quelli della Campania, del<br />

Bruzio e della romana Apulia.<br />

I Bizantini allora, incentrarono il loro potere residuo nell’Esarcato <strong>di</strong> Ravenna, dove<br />

concentrarono il loro controllo nominale su tutti i territori italiani inizialmente<br />

risparmiati dall’invasione longobarda: la Venezia e l'Istria; la Liguria; la Pentapoli; il<br />

Ducato romano; il Ducato <strong>di</strong> Napoli e il Ducato <strong>di</strong> Calabria; con inoltre la Sicilia, la<br />

Sardegna e la Corsica. Il Ducato <strong>di</strong> Calabria fu fondato nei territori situati ad est e a sud<br />

del caposaldo longobardo <strong>di</strong> Benevento, integrando in un’unica entità amministrativa i<br />

territori della penisola del Bruzio, l’o<strong>di</strong>erna regione calabrese, con quelli della<br />

penisola costituita dalla parte meri<strong>di</strong>onale della romana Apulia e da tutta la romana<br />

130


Calabria, l’o<strong>di</strong>erno Salento: due penisole ben separate, ma inizialmente collegate da<br />

un’ampia fascia costiera che si estendeva lungo la riva nord-occidentale del golfo <strong>di</strong><br />

Taranto.<br />

E, inevitabilmente, sul Ducato <strong>di</strong> Calabria si riversarono e si concretizzarono presto<br />

le mire e le pressioni espansioniste dei Longobar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Benevento. Nel 605, dopo aver<br />

già allargato i confini del proprio territorio a scapito dei Bizantini, Arechi I, duca <strong>di</strong><br />

Benevento, stipulò con quelli un’instabile tregua, che durò fino a quando l’imperatore<br />

bizantino Costante II sbarcò a Taranto nel 663, liberando temporalmente quasi tutto il<br />

meri<strong>di</strong>one dalla presenza longobarda, senza però poter espugnare Benevento,<br />

energicamente <strong>di</strong>fesa dal suo duca Romualdo I. Dopo l’omici<strong>di</strong>o dell’imperatore<br />

Costante II però, avvenuto a Siracusa nel 668, i Longobar<strong>di</strong> del duca Romualdo I<br />

recuperarono gran parte dei territori e delle città del meri<strong>di</strong>one d’Italia, occupando<br />

anche parte dello strategico Ducato <strong>di</strong> Calabria, in particolare Taranto, Oria e, intorno<br />

al 680, anche Brin<strong>di</strong>si, una città già in profonda crisi che «<strong>di</strong>strussero essendo un<br />

porto per essi inutile e comunque <strong>di</strong>fficile da <strong>di</strong>fendere contro gli abili navigatori<br />

bizantini» [A. DE LEO 4 ] i quali, in effetti, avrebbero potuto evidentemente utilizzarlo in<br />

qualsiasi momento per riaprire una testa <strong>di</strong> ponte sul territorio peninsulare.<br />

«Immiserita e deserta, abbandonata e in<strong>di</strong>fesa, facilmente esposta alle incursioni<br />

saracene [?], la vecchia Brun<strong>di</strong>sium non è più in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> assicurare alcuna<br />

sicurezza alla sua chiesa, né <strong>di</strong> garantirne la conservazione del patrimonio… E tra i<br />

luoghi soggetti alla sua giuris<strong>di</strong>zione, il vescovo sceglie l’antica Uria enter Brun<strong>di</strong>sium et<br />

Tarentum. Lontana dalla costa, arroccata su una altura facilmente <strong>di</strong>fen<strong>di</strong>bile, Oria è la<br />

città più ricca dell’entroterra brin<strong>di</strong>sino. A breve <strong>di</strong>stanza da Taranto e collegata anche<br />

con Otranto… Non abbiamo elementi per stabilire l’epoca in cui il vescovo brin<strong>di</strong>sino si è<br />

trasferito nella sua nuova sede ed ha aggiunto e poi sostituito al suo titolo originario<br />

quello <strong>di</strong> Oria.» [T. PEDIO 5 ]<br />

Eventualmente furono proprio gli stessi Longobar<strong>di</strong> che, <strong>di</strong>strutta Brin<strong>di</strong>si,<br />

conquistata Oria – già roccaforte bizantina ed elevata a loro caposaldo principale <strong>di</strong><br />

tutto il territorio a<strong>di</strong>acente – e convertitisi al contempo al cristianesimo romano,<br />

favorirono l’instaurarsi in quella città della cattedra episcopale, forse con il<br />

longobardo Megelpoto primo vescovo, eventualmente tra fine ‘600 e primi ‘700: nel<br />

concilio indetto dal papa Agatone nel 680, infatti, neanche Oria fu rappresentata.<br />

«Le prime notizie certe risalgono, infatti, all’VIII secolo, così come si evince da<br />

un’epigrafe rinvenuta nel 1932 nei pressi del castello federiciano. Essa contiene il nome<br />

longobardo <strong>di</strong> un presule, Megelpotus, che eresse una chiesa de<strong>di</strong>cata alla Vergine.<br />

Probabilmente egli fu il primo vescovo a risiedere in Oria, presumibilmente proveniente<br />

dalla vicina sede brin<strong>di</strong>sina.» [G. LEUCCI 6 ]<br />

La cronotassi dei vescovi <strong>di</strong> Oria pubblicata nella pagina web della Diocesi, riporta<br />

un vescovo anteriore a Megelpotus, tale Reparato. Non è corretto: probabilmente<br />

qualcuno lo ha confuso con Reparatus, vescovo <strong>di</strong> Firenze, che partecipò al concilio del<br />

680 ed accanto alla cui firma c’è scritto “exiguus episcopo santae ecclesiae florentinae”<br />

(e non horitanae). Poi, sui nomi e sui fatti degli eventuali imme<strong>di</strong>ati successori <strong>di</strong><br />

Megelpoto non ci sono notizie e bisogna attendere il finire del secolo IX per sapere <strong>di</strong><br />

un nuovo vescovo con sede in Oria. Si tratta dell’oritano Teodosio, il cui predecessore<br />

fu tale vescovo Paolo. Teodosio fu vescovo per trent’anni – dall’865 all’895 – nel<br />

131


mezzo dei quali, muovendo da Otranto e Gallipoli, i Greci riacquisirono il controllo su<br />

Oria.<br />

«Intorno alla seconda metà del IX secolo sul territorio <strong>di</strong> Oria si incontrarono e si<br />

scontrarono, dal punto <strong>di</strong> vista religioso e politico, varie realtà e Teodosio, fedele al<br />

vescovo <strong>di</strong> Roma, rivestì il ruolo <strong>di</strong> me<strong>di</strong>atore durante la guerra tra i Longobar<strong>di</strong> e i<br />

Bizantini. Egli, infatti, in qualità <strong>di</strong> aprocrisario fu inviato due volte a Costantinopoli da<br />

papa Stefano V con l’incarico <strong>di</strong> far convivere il rito latino e quello greco sui territori <strong>di</strong><br />

sua competenza. Nell’arco del suo episcopato, infatti, si <strong>di</strong>ffuse in Oria sia il culto dei<br />

protomartiri romani Crisante e Daria, sia la venerazione delle reliquie del santo monaco<br />

del deserto Barsanufio <strong>di</strong> Gaza giunte dall’oriente sul litorale <strong>di</strong> Ostuni, intorno all’873.<br />

Questo breve periodo <strong>di</strong> tregua consentì allo stesso presule <strong>di</strong> convocare un sinodo,<br />

nell’887, in cui si stabilirono precise norme liturgiche e si regolamentò la vita dei<br />

chierici confermando la <strong>di</strong>sciplina del celibato… Da Oria, Teodosio si prese cura anche<br />

delle sorti della Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, recuperando le reliquie <strong>di</strong> san Leucio, primo vescovo<br />

<strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, il quale, secondo la tra<strong>di</strong>zione, sarebbe stato <strong>di</strong>scepolo <strong>di</strong> san Pietro, ma più<br />

probabilmente visse fra il IV e il V secolo.» [G. LEUCCI 6 ]<br />

«Si deve a Teodosio, amico del vescovo <strong>di</strong> Benevento e <strong>di</strong> Gaideriso, principe spodestato<br />

<strong>di</strong> Benevento inviato dai greci in Oria, la restituzione <strong>di</strong> una parte delle reliquie<br />

[trafugate da Tranesi quasi due secoli prima] <strong>di</strong> san Leucio, protovescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

alla chiesa <strong>di</strong> questa città. Queste reliquie furono riposte nella basilica che, costruita per<br />

opera <strong>di</strong> Teodosio, fu consacrata dal successore, vescovo Giovanni.» [G. CARITO 7 ]<br />

Questa circostanza è per sé sufficiente prova del fatto che Teodosio si considerava<br />

essere vescovo non solo <strong>di</strong> Oria, ma anche <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, nonché – come ad esempio lo<br />

assume CARITO 7 – vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si con sede in Oria. Dopo Teodosio, morto nell’895,<br />

la successione dei vescovi <strong>di</strong> Oria e <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si con sede in Oria presenta una nuova<br />

lacuna, mentre il debole equilibrio da lui intessuto tra la chiesa <strong>di</strong> Roma e quella <strong>di</strong><br />

Costantinopoli fu ra<strong>di</strong>calmente sconvolto da quando i Saraceni, nel 925 dopo aver<br />

devastato Brin<strong>di</strong>si, giunsero una prima volta – e non sarà l’ultima – a Oria, razziandola<br />

e deportando in Sicilia molti dei suoi abitanti.<br />

L’organizzazione ecclesiastica fu da allora con<strong>di</strong>zionata <strong>di</strong>rettamente dalle vicende<br />

politiche e militari intercorse fra Bizantini e Longobar<strong>di</strong> in lotta per il controllo del<br />

territorio, cosicché una stessa area fu <strong>di</strong> fatto spesso regolata da due giuris<strong>di</strong>zioni<br />

<strong>di</strong>fferenti, quella latina e quella bizantina. In tali circostanze, fu il vescovo <strong>di</strong> Canosa a<br />

coagulare e guidare i latini da Bari, dove aveva trasferito la sua sede e dove <strong>di</strong> fatto<br />

esercitava da metropolita con l’obiettivo <strong>di</strong> contrastare e contenere l’azione del<br />

metropolita <strong>di</strong> Otranto.<br />

«La successiva egemonia <strong>di</strong> Bisanzio sul Salento determina il tentativo <strong>di</strong> comprendere<br />

le <strong>di</strong>ocesi salentine nel patriarcato <strong>di</strong> Costantinopoli. Roma, a salvaguar<strong>di</strong>a dei propri<br />

<strong>di</strong>ritti, attribuisce il titolo della sede <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ai vescovi <strong>di</strong> Canosa. Si hanno così<br />

vescovi residenti la cui elezione è confermata da Bisanzio e vescovi nominali cui il titolo<br />

è conferito da Roma… Così, vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fu Giovanni, arcivescovo <strong>di</strong> Canosa e<br />

Brin<strong>di</strong>si dal 952 al 978, risiedeva in Bari e si sottoscriveva archiepiscopus Sancte Se<strong>di</strong>s<br />

Canusine et Brundusine Ecclesie. Gli successe Paone, dal 978 al 993, anch’egli arcivescovo<br />

<strong>di</strong> Canosa e Brin<strong>di</strong>si, anch’egli risiedeva in Bari e anch’egli si sottoscriveva episcopus<br />

Sancte Se<strong>di</strong>s Kanusine et Brun<strong>di</strong>sine Ecclesie… II rito greco, comunque, si affiancò più che<br />

sostituirsi a quello latino, anche perché in quel periodo è possibile vi siano stati vescovi<br />

latini eletti dal popolo e dal clero, poi confermati dal patriarca <strong>di</strong> Bisanzio.» [G. CARITO 7 ]<br />

132


Parallelamente, ma in Oria, vi era Andrea, episcopus oritanus riconosciuto da<br />

Costantinopoli, il quale nel 977 aveva assistito al sacco <strong>di</strong> Oria da parte dei Saraceni e<br />

poi, in pieno agosto del 979, era stato ucciso dal protospatario imperiale Porfirio,<br />

autorità bizantina <strong>di</strong>morante in Oria, a conseguenza <strong>di</strong> un aspro litigio sorto per strada<br />

tra quelle due figure del potere citta<strong>di</strong>no. Trascorsi otto anni dall’assassinio <strong>di</strong> Andrea,<br />

l’imperatore bizantino nominò Gregorio vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Oria, Ostuni e Monopoli, il<br />

quale esercitò il suo presulato dal 987 al 996 dalle se<strong>di</strong> <strong>di</strong> Monopoli e Ostuni.<br />

Certo è, che la confusione regnava sovrana nelle chiese dei territori del Tema<br />

bizantino della Langobar<strong>di</strong>a – fondato nell’892 e poi unificato nel 975 con quello <strong>di</strong><br />

Calabria nel Catepanato d’Italia – in cui i vescovi eletti dal clero locale venivano<br />

consacrati dal pontefice esercitando in <strong>di</strong>ocesi considerate tutte suburbicarie ed in cui,<br />

con la sola eccezione <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> Otranto il cui vescovo sempre riconobbe la <strong>di</strong>retta<br />

autorità del patriarca <strong>di</strong> Costantinopoli, i vescovi latini cercavano <strong>di</strong> mantenere certa<br />

in<strong>di</strong>pendenza dall’ingerenza del patriarca e dei funzionari bizantini.<br />

«La lotta tra i vari vescovi che si contendono le stesse chiese non è soltanto teologica. Se<br />

a Bari, Brin<strong>di</strong>si, Ostuni e Monopoli si instaura un modus viven<strong>di</strong> che non degenera in<br />

aperta e violenta ribellione contro i funzionari bizantini, ad Oria i contrasti assumono<br />

aspetti violenti per l’atteggiamento delle autorità greche che non ammettono la<br />

posizione assunta dal clero <strong>di</strong> fronte alla riforma della Chiesa <strong>di</strong> Costantinopoli. Soltanto<br />

dopo un ventennio dalla morte <strong>di</strong> Andrea, finalmente incontriamo un nuovo vescovo –<br />

residente – ad Oria: Giovanni, che regge questa chiesa dal 996 al 1033, riconoscendo<br />

l’autorità del patriarca <strong>di</strong> Costantinopoli.» [T. PEDIO 5 ]<br />

«Verso la fine del X secolo, durante l'impero <strong>di</strong> Basilio II e Costantino VIII (976-1025),<br />

Brin<strong>di</strong>si fu elevata ad arcivescovado. Anche se manca il documento con il quale la sede<br />

<strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ed Oria era stata elevata ad arcivescovado metropolitano, per le prerogative<br />

connesse al titolo – Giovanni nel 1033 consacrò Leone vescovo suffraganeo in Monopoli<br />

e eresse un’altra sede suffraganea in Ostuni – è da credere che Giovanni sia stato elevato<br />

alla <strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> arcivescovo contemporaneamente alla sua nomina, avvenuta nel 996,<br />

come primo arcivescovo e metropolita <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Sia Giovanni (996-1038) che i suoi<br />

successori, quali il greco Leonardo (1038-1051), il latino Eustachio (1051-1074) e<br />

l'altro greco Gregorio (1074-1080), continuarono a risiedere in Oria. Il nuovo clima<br />

politico determinatosi con la scomparsa dei domini greci in Italia, provocò il ritorno<br />

della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si alla chiesa latina... Dopo il greco Gregorio, nel 1085 fu nominato<br />

arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Go<strong>di</strong>no, un benedettino probabilmente originario <strong>di</strong> Acerenza,<br />

che iniziò il suo episcopato nella sede <strong>di</strong> Oria.» [G. CARITO 8 ]<br />

Era comunque giunto il momento <strong>di</strong> archiviare la controversia tra Costantinopoli e<br />

Roma per il controllo delle chiese del meri<strong>di</strong>one italiano ed in particolare <strong>di</strong> quelle<br />

pugliesi, tra le quali la brin<strong>di</strong>sina. Completata la conquista normanna nel corso del<br />

secolo XI, infatti, le chiese meri<strong>di</strong>onali italiane ritornano alle <strong>di</strong>pendenze della Chiesa<br />

latina e a Roma si riorganizzarono le <strong>di</strong>ocesi: le metropolite e le rispettive suffraganee.<br />

«Nella seconda metà dell'XI secolo, i Normanni procurarono <strong>di</strong> riscostruire e ripopolare<br />

la conquistata Brin<strong>di</strong>si e ottennero che l'arcivescovo Go<strong>di</strong>no tornasse a fissare la<br />

cattedra arcivescovile nella sede originaria. Il pontefice Urbano II il 3 ottobre 1089<br />

scrisse da Trani una lettera, ingiungendo al vescovo Go<strong>di</strong>no, il quale omesso il titolo <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si si considerava solo vescovo <strong>di</strong> Oria, che non si trattenesse oltre in Oria. Nello<br />

stesso 1089, il papa si <strong>di</strong>resse a Brin<strong>di</strong>si ove consacrò il perimetro della Cattedrale e alla<br />

stessa chiesa <strong>di</strong>spose fosse restituita la <strong>di</strong>gnità episcopale.» [G. CARITO 8 ]<br />

133


Urbano II – Papa dal 1088 al 1099 Pasquale II – Papa dal 1099 al 1118 Callisto II – Papa dal 1119 al 1124<br />

Alessandro III – Papa dal 1159 al 1181 Lucio III – Papa dal 1181 al 1185 Innocenzo III – Papa dal 1198 al 1216<br />

Paolo III – Papa dal 1534 al 1549 Giovanni Carlo Bovio Gregorio XIV – Papa dal 1590 al 1591<br />

Arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1564 al 1570 decretò la <strong>di</strong>visione delle due Chiese<br />

134


«Il papa Urbano II, in seguito alla richiesta <strong>di</strong> Goffredo ‘dominus’ normanno <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

ingiunse al vescovo Go<strong>di</strong>no (1085-1099) <strong>di</strong> trasferire la sede episcopale da Oria a<br />

Brin<strong>di</strong>si, non a motivo dell’esiguità degli abitanti <strong>di</strong> Oria, ma per ristabilire la sede<br />

originaria. Ciò innescò una – secolare – <strong>di</strong>atriba su quale dovesse essere la sede<br />

protocattedra. In un primo momento Go<strong>di</strong>no si rifiutò <strong>di</strong> attuare le <strong>di</strong>sposizioni del papa<br />

e furono necessarie altre due lettere pontificie in cui si minacciava la scomunica, per<br />

indurre il presule a trasferirsi a Brin<strong>di</strong>si.» [G. LEUCCI 6 ]<br />

Così il ricalcitrante Go<strong>di</strong>no, finalmente e comunque <strong>di</strong> malavoglia, si trasferì a<br />

Brin<strong>di</strong>si e nel mese <strong>di</strong> luglio del 1098 si sottoscrisse archiepiscopus brundusinus,<br />

intervenendo alla donazione, da parte del conte Goffredo, della moglie Sichelgaita e<br />

dei figli Roberto ed Alessandro, in favore del monastero <strong>di</strong> Santa Maria <strong>di</strong> Monte<br />

Peloso. Quel trasferimento da Oria a Brin<strong>di</strong>si fu però inevitabilmente estremamente<br />

sofferto, e la lacerazione che causò fra il clero delle due città fu così grave e profonda<br />

che perdurò nei cinque secoli successivi, durante i quali non si placò mai del tutto la<br />

contesa per la residenza del vescovo e per la titolarità della <strong>di</strong>ocesi.<br />

Già nel 1099, fu necessario per il nuovo pontefice, Pasquale II, continuare ad<br />

insistere su Go<strong>di</strong>no per ricordargli che la chiesa <strong>di</strong> Oria era soggetta a quella <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si. E fu necessaria una bolla papale del 23 marzo 1101 al nuovo presule Nicola,<br />

subentrato a Baldovino arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel 1100, dopo Go<strong>di</strong>no, per riaffermare<br />

la titolarità metropolita <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si sulle suffraganee Oria, Ostuni e Mesagne. Poi, lo<br />

stesso pontefice Pasquale II, ancora e più volte, dovette intervenire:<br />

«Nel comunicare al clero e al popolo <strong>di</strong> Oria la consacrazione nel 1105 <strong>di</strong> Guglielmo,<br />

nuovo arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e <strong>di</strong> Oria dopo Nicola, e nello scrivere una lettera al duca<br />

Ruggero per confermare essere Oria soggetta al presule brin<strong>di</strong>sino. Nonostante,<br />

Guglielmo cerca qualsiasi pretesto per tornare ad Oria e alla sua morte, il papa Callisto II<br />

deve riaffermare la subor<strong>di</strong>nazione <strong>di</strong> Oria a Brin<strong>di</strong>si e che il nuovo arcivescovo, dal<br />

1122 il car<strong>di</strong>nale Bailardo, fisserà la sua <strong>di</strong>mora nell’antica sede della <strong>di</strong>ocesi: Brin<strong>di</strong>si. Il<br />

24 <strong>di</strong>cembre 1165, il pontefice Alessandro III intima alla chiesa oritana <strong>di</strong> non ledere i<br />

<strong>di</strong>ritti dell’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Lupo, succeduto nel 1144 a Bailardo e il 28 giugno<br />

1178 intima <strong>di</strong> obbe<strong>di</strong>re all’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Guglielmo, succeduto nel 1173 a<br />

Lupo. Anche il seguente papa, Lucio III, il 31 luglio 1183 si <strong>di</strong>rige al clero e al popolo<br />

oritani affinché riconoscano la supremazia del nuovo arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, Pietro <strong>di</strong><br />

Bisiniano succeduto a Guglielmo e gli obbe<strong>di</strong>scano. Ed ancora, il 16 <strong>di</strong>cembre 1199,<br />

Innocenzo III interviene per indurre Gerardo, succeduto nel 1196 a Pietro, a rientrare a<br />

Brin<strong>di</strong>si, sede della sua <strong>di</strong>ocesi. Nel giugno 1219, Federico II, nel confermare Pellegrino<br />

Brundusinus Archiepiscopus dal 1216, precisa che la sua giuris<strong>di</strong>zione si estende anche<br />

sulla chiesa <strong>di</strong> Oria. Poi, sul finire del secolo XIII, l’arcivescovo Adenolfo, succeduto nel<br />

1288 – dopo Pellegrino, Giovanni <strong>di</strong> Trajecto, Giovanni <strong>di</strong> Santo, Pietro Paparone – a<br />

Pellegrino <strong>di</strong> Castro, dopo che Bonifacio VIII nell’ottobre del 1294 lo ha trasferito alla<br />

chiesa <strong>di</strong> Conza, in forma polemica si sottoscrive Horitane et Brundusine se<strong>di</strong>s<br />

archiepiscopus, facendo riaffiorare le antiche aspirazioni del clero oritano e i contrasti,<br />

in realtà rimasti sempre vivi, tra le due città.» [T. PEDIO 5 ]<br />

Dopo i pur limitati progressi prodottisi nel periodo normanno-svevo, sotto i regni<br />

angioini e aragonesi sia Brin<strong>di</strong>si che Oria vissero secoli con lunghi perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> relativo<br />

declino economico, culturale e demografico, tanto da non essere più considerate se<strong>di</strong><br />

arcivescovili ambite, rimanendo fino al 1378 comunque sempre unite sotto lo stesso<br />

presule – Pandone, Rodolfo, Bartolomeo, Bertrando, Isar<strong>di</strong>, Guglielmo, Galardo,<br />

135


Giovanni e Giso – residente in Brin<strong>di</strong>si quale Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus,<br />

anche se per gli oritani trattavasi <strong>di</strong> Uritanus et Brundusinus archiepiscopus.<br />

«Lo scisma d’occidente – consumatosi tra il 1378 e il 1417 – con la doppia obbe<strong>di</strong>enza e<br />

le <strong>di</strong>visioni fra il clero e i fedeli, creò forte <strong>di</strong>sorientamento anche in questi territori, e i<br />

vescovi <strong>di</strong> ambedue le parti [ 9 e 10 ], per evitare opposizioni e contrasti, preferirono<br />

risiedere lontano dalla <strong>di</strong>ocesi. Al loro ritorno, i pastori dovettero intraprendere una<br />

faticosa opera <strong>di</strong> recupero delle ren<strong>di</strong>te, dei benefici e dei privilegi… Il clero trascorreva<br />

la sua esistenza nel ristretto ambito del paese <strong>di</strong> origine e della chiesa <strong>di</strong> appartenenza,<br />

limitandosi al culto e celebrando le più importanti feste liturgiche nelle rispettive<br />

cattedrali <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e Oria, le quali rimasero comunque sempre fortemente<br />

antagoniste. Gli arcivescovi, infatti, si sottoscrivevano come vescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e Oria se<br />

i provve<strong>di</strong>menti erano presi per la sede Brin<strong>di</strong>sina, e <strong>di</strong> Oria e Brin<strong>di</strong>si se riguardavo la<br />

zona della <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> competenza della cattedra oritana.» G. LEUCCI 6<br />

Con il secolo XVI iniziò il lungo periodo vicereale del regno <strong>di</strong> Napoli e dopo la pace<br />

<strong>di</strong> Cambrai del 5 agosto 1529, Carlo V – sacro romano imperatore e re <strong>di</strong> Napoli – si<br />

arrogò il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> nominare nel regno 18 vescovi e 7 arcivescovi, tra i quali quello <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, come aveva stipulato un mese prima nel trattato <strong>di</strong> Barcellona con il papa<br />

Clemente VII. Da quel momento la chiesa brin<strong>di</strong>sina, che fino ad allora era appartenuta<br />

ai pontefici, <strong>di</strong>venne regia garantendo al regno, con la nomina <strong>di</strong> prelati spagnoli o<br />

comunque filospagnoli, l’affidabilità <strong>di</strong> una città strategicamente importante.<br />

Nel 1518, era stato nominato arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il car<strong>di</strong>nale Gian Pietro Carafa,<br />

il quale però non <strong>di</strong>morò mai in città e quando nel 1524 rinunciò, per poi – nel 1555 –<br />

<strong>di</strong>venire papa con il nome <strong>di</strong> Paolo IV, gli succedette Girolamo Aleandro. Questi,<br />

<strong>di</strong>venuto in seguito anche car<strong>di</strong>nale, non risiedette quasi mai nella sua <strong>di</strong>ocesi, perché<br />

occupato ad assolvere all’incarico <strong>di</strong> nunzio apostolico, prima in Francia e poi in<br />

Germania e a Venezia; e comunque, quando raramente sostò in sede, preferì risiedere<br />

per lo più in San Pancrazio “per la bontà <strong>di</strong> quell’aria”. Alla sua morte, nel 1542, Carlo<br />

V nominò il nipote Francesco Aleandro quale Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus.<br />

«Quando il nuovo presule pre<strong>di</strong>spone una visita pastorale a Oria – feudo del marchese<br />

Gian Bernar<strong>di</strong>no Bonifacio, in annosa vertenza con la Mensa arcivescovile – la città gli si<br />

mostra ostile e gli consente l’accesso nella chiesa soltanto dopo lunghe trattative a<br />

seguito delle quali l’Aleandro giura che nei suoi atti si sarebbe sottoscritto Uritanus et<br />

Brundusinus Archiepiscopus a in<strong>di</strong>care la preminenza della chiesa <strong>di</strong> Oria su quella <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si.» [T. PEDIO 5 ]<br />

«Questo arcivescovo, mentre Regia Camera della Summaria per il Dottore Guerriero,<br />

presidente <strong>di</strong> detta Camera, si fabbricava il processo tra il Capitolo ed il Marchese,<br />

perché quest’ultimo restituisse la possessione e tenuta “decimarum annualium<br />

terraticorum <strong>di</strong>cte civitatis Orie”, mentre il Marchese non voleva ad<strong>di</strong>venire alla<br />

restituzione in quanto il privilegio <strong>di</strong> re Fer<strong>di</strong>nando prodotto al Capitolo era stato<br />

revocato da re Federico con il dono a Roberto Bonifacio, suo padre, delle dette terre <strong>di</strong><br />

Oria, e mentre il Capitolo stesso aveva fatta procura per tale causa al venerabile<br />

canonico Roberto Caballero con atto del notario Vittorio Pinzica in data 26 gennaio<br />

1545, forse perché si temeva che il Caballero non facesse gli interessi della chiesa, in un<br />

giorno imprecisato, ma che va dal 26 gennaio 1545 ai primi <strong>di</strong> maggio dello stesso anno,<br />

l’arcivescovo decise <strong>di</strong> recarsi in Oria e <strong>di</strong>scutere personalmente col marchese… Ma il<br />

Marchese temendo che l’ingresso dell’arcivescovo nella città avesse potuto procurare<br />

una sollevazione nel popolo che aveva sofferto il cattivo governo <strong>di</strong> suo padre e che<br />

136


soffriva anche il suo cattivo governo, riuscì ad indurre il popolo stesso ed il clero a<br />

chiudere col suo appoggio le porte <strong>di</strong> ingresso della città all’arcivescovo… facendo leva<br />

sul sentimento patrio degli Oritani che da molti secoli mal sopportavano la comunanza<br />

della loro cattedra episcopale con quella <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.» [R. JURLARO 11 ]<br />

«Il comportamento del clero e della Università <strong>di</strong> Oria provoca la legittima reazione del<br />

presule: rientrato a Brin<strong>di</strong>si, il 23 marzo del 1542, l’arcivescovo fa compilare dal notaio<br />

Nicolò Taccone e dal giu<strong>di</strong>ce Nicola Monticelli, copia della bolla del 1144 con la quale il<br />

pontefice Lucio II in<strong>di</strong>cava la giuris<strong>di</strong>zione che si estendeva, oltre che sulla città <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, anche su Oria, Ostuni, Carovigno e Mesagne. Quin<strong>di</strong> chiede l’intervento del<br />

pontefice e Paolo III, con bolla del 20 maggio del 1545, richiamandosi anche alle bolle <strong>di</strong><br />

Alessandro III e <strong>di</strong> Lucio III, riba<strong>di</strong>sce la supremazia del vescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e che a<br />

questi, Brundusinus et Uritanus Archiepiscopus, il clero e il popolo <strong>di</strong> Oria devono<br />

debitam obe<strong>di</strong>entiam et honorem.» [T. PEDIO 5 ]<br />

Ma gli oritani, imperterriti, continuarono a non darsi per vinti e continuarono a<br />

cercare <strong>di</strong> replicare e <strong>di</strong> contrastare in ogni modo anche quell’ennesimo esplicito<br />

dettame pontificio, con l’obiettivo <strong>di</strong> provare la preminenza della loro chiesa su quella<br />

brin<strong>di</strong>sina, coinvolgendo nell’ormai secolare controversia i loro eru<strong>di</strong>ti, stu<strong>di</strong>osi e<br />

cronisti, per contrapporli a quelli brin<strong>di</strong>sini e ricevendo il pressante stimolo del<br />

marchese Gian Bernar<strong>di</strong>no Bonifaci.<br />

A Francesco Aleandro, nel 1564, succedette il brin<strong>di</strong>sino Gian Carlo Bovio, già<br />

arci<strong>di</strong>acono della cattedrale <strong>di</strong> Monopoli e già vescovo <strong>di</strong> Ostuni. Dopo un paio d’anni<br />

dalla sua elezione all’episcopato brin<strong>di</strong>sino, Bovio ebbe una <strong>di</strong>savvenenza con gli<br />

amministratori della sua città, si racconta 12 a causa <strong>di</strong> un malinteso e – comunque <strong>di</strong><br />

certo – per una questione futile, una questione <strong>di</strong> vino: Il crescere in Brin<strong>di</strong>si, su<br />

sollecitazione veneziana, della produzione viti-vinicola e, successivamente, il venir<br />

meno dei mercati d’esportazione nel levante con la conseguente necessità <strong>di</strong> riversare<br />

in città le eccedenze, resero troppo zelanti – nell’applicazione della regola che in città<br />

si potesse consumare unicamente vino locale – i responsabili della amministrazione<br />

civica, i quali ruppero nella piazza alcuni vasi del vino che l’arcivescovo aveva fatto<br />

venir da fuori Brin<strong>di</strong>si, per uso personale.<br />

Dopo quell’episo<strong>di</strong>o, e pur sanato il malinteso, l’arcivescovo Bovio cominciò a<br />

pre<strong>di</strong>ligere <strong>di</strong>morare in Oria, dove fece e<strong>di</strong>ficare un nuovo e suntuoso palazzo<br />

vescovile, vi trasferì la sua cattedra e, finalmente, si stabilì in permanenza. Inoltre,<br />

stando in Oria incoraggiò la ricognizione <strong>di</strong> tutti gli antichi <strong>di</strong>plomi e dei privilegi<br />

riguardanti la sede oritana, per far intraprendere – in realtà riprendere – al clero<br />

oritano il percorso del reclamo dell’in<strong>di</strong>pendenza dalla chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Poi, nel<br />

1570, l’arcivescovo Bovio, relativamente giovane, morì in Ostuni e, per sua espressa<br />

volontà, fu sepolto a Oria.<br />

In questo stesso frangente storico, s’inserisce la famosa Epístola apologetica ad<br />

Quintinium Marium Corradum, scritta in data 1°<strong>di</strong>cembre 1567 dal brin<strong>di</strong>sino Iohannis<br />

Baptistae Casimirii al suo amico Quinto Mario Corrado, vicario generale del clero<br />

oritano, noto umanista dell’epoca. Un importantissimo ed esteso documento destinato<br />

a <strong>di</strong>ventare una pietra miliare per la storiografia brin<strong>di</strong>sina: <strong>di</strong> fatto, in qualche modo,<br />

la più antica ‘Storia <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si’ pervenutaci integralmente, precedente alla Antiquità e<br />

vicissitu<strong>di</strong>ni della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dalla <strong>di</strong> lei origine sino all'anno 1694 <strong>di</strong> Giò Maria<br />

Moricino e successiva solo alla Hi<strong>storia</strong> Brundusina <strong>di</strong> Giovanni Carlo Verano, il cui<br />

137


manoscritto, elaborato tra la fine del XV Secolo e gli inizi del XVI Secolo, è però andato<br />

<strong>di</strong>sperso. Il documento del regio notaio e storico brin<strong>di</strong>sino Casimiro, un manoscritto<br />

ine<strong>di</strong>to conservato nella biblioteca brin<strong>di</strong>sina De Leo, è stato recentemente – 2017 –<br />

pubblicato, nella sua versione originale in latino, da Roberto SERNICOLA 13 .<br />

Il successore <strong>di</strong> Gian Carlo Bovio fu Bernar<strong>di</strong>no Figueroa, arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

dal 1571 al 1586, con il quale ebbe inizio la serie dei vescovi spagnoli che si<br />

susseguirono sulla cattedra brin<strong>di</strong>sina fino al 1723. Figueroa risiedette sempre in<br />

Brin<strong>di</strong>si e si schierò apertamente con il clero brin<strong>di</strong>sino, sostenendo la supremazia <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si su Oria. Naturalmente, con ciò si ravvivò nuovamente il malcontento nel clero<br />

oritano che, guidato dal vicario generale Quinto Mario Corrado, si rivolse sia alla Sede<br />

Apostolica sia alla Corte spagnola, per accelerare la causa della definitiva separazione.<br />

«La “causa” dello smembramento delle due chiese veniva deferita già il 19 <strong>di</strong>cembre<br />

1588 a una commissione <strong>di</strong> car<strong>di</strong>nali, perché la esaminassero e ne riferissero al papa<br />

Sisto V. Il parere dei porporati fu affermativo, ma poiché frattanto Sisto V era morto il<br />

27 agosto del 1590, ed era morto anche il suo successore – il romano Giovan Battista<br />

Castagna, Urbano VII – papa Gregorio XIV, con bolla “Regimini Universae” del 10 maggio<br />

1591 staccava “in perpetuum” Oria da Brin<strong>di</strong>si.» [F. BABUDRI 10 ]<br />

Fintanto, dopo la morte <strong>di</strong> Figueroa nel 1586, e certamente a causa della ravvivata<br />

e inasprita irrisolta controversia, la sede episcopale era rimasta vacante per ben<br />

cinque anni, fino a quando con quella bolla, il papa Gregorio XIV or<strong>di</strong>nò la <strong>di</strong>visione<br />

delle due chiese: Brin<strong>di</strong>si avrebbe mantenuto la sede arcivescovile mentre la sede<br />

vescovile <strong>di</strong> Oria – senza più i casali <strong>di</strong> Leverano, Cellino, Guagnano, Salice e Veglie,<br />

assegnati a Brin<strong>di</strong>si – sarebbe <strong>di</strong>ventata suffraganea della metropolia <strong>di</strong> Taranto.<br />

E così fu, in secula seculorum! C’erano però voluti ben cinque secoli <strong>di</strong> controversie<br />

e <strong>di</strong> aspri contrasti 14 .<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

1 G. CARITO Lo stato politico economico della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli inizi del IV secolo all'anno 670 in<br />

"Brun<strong>di</strong>sii Res" 1976<br />

2 O. GIORDANO L’introduzione del cristianesimo a Brin<strong>di</strong>si in "Brun<strong>di</strong>sii Res" 1970<br />

3 G. CARITO Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si sino al 674 in "Parola e <strong>storia</strong>" 2007<br />

4 A. DE LEO Dell’origine del rito greco nella chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a cura <strong>di</strong> R. Jurlaro 1974<br />

5 T. PEDIO La Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dai Longobar<strong>di</strong> ai Normanni in “Archivio storico pugliese” 1976<br />

6 G. LEUCCI Storia delle Chiese in Puglia: Brin<strong>di</strong>si & Oria Ecumenica E<strong>di</strong>trice scrl 2008<br />

7 G. CARITO Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal VII al X secolo in "Parola e <strong>storia</strong>" 2008<br />

8 G. CARITO Gli arcivescovi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nell’XI secolo in "Parola e <strong>storia</strong>" 2009<br />

9 F. BABUDRI Lo Scisma d'Occidente e riflessi sulla Chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si in "Archivio Storico Pugliese"<br />

1955<br />

10 F. BABUDRI Oria e lo Scisma d’Occidente in "Archivio Storico Pugliese" 1956<br />

11 J. ROSARIO La lite tra G. B. Bonifacio e la chiesa <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si per il possesso <strong>di</strong> Oria in “Stu<strong>di</strong><br />

Salentini” 1958<br />

12 F. ASCOLI La <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si scritta da un marino 1886<br />

13 R. SERNICOLA Introduzione, trascrizione e note <strong>di</strong> commento all’Epístola apologetica ad<br />

Quintinium Marium Corradum <strong>di</strong> Iohannis Baptistae Casimirii 2017<br />

14 P. COCO La sede vescovile <strong>di</strong> Oria e relazioni con quella <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1943 [scritto non consultato]<br />

138


Brin<strong>di</strong>si e Venezia: dall’XI al XVI secolo, tra accor<strong>di</strong> solenni e severe <strong>di</strong>spute<br />

Nella prima metà del X secolo, all’incirca cent’anni dopo l’inse<strong>di</strong>amento del primo<br />

Dogado – 810 – in Rio Alto, i lagunari avevano già iniziato ad estendere il loro raggio<br />

d’azione e Venezia aveva cominciato a perseguire il controllo dell’Adriatico a sostegno<br />

e <strong>di</strong>fesa dei propri interessi mercantili. Inoltre, grazie anche alla rinomata abilità della<br />

sua marina militare, la città <strong>di</strong> San Marco già manteneva una relazione privilegiata con<br />

l’Impero Romano d’Oriente dal quale aveva ricevuto importanti riconoscimenti, tanto<br />

che giunti alla fine dell’XI secolo, i Veneziani erano <strong>di</strong> fatto <strong>di</strong>ventati i principali clienti<br />

e i fornitori preferiti <strong>di</strong> Bisanzio.<br />

Come <strong>di</strong>retta conseguenza “geografica” <strong>di</strong> quell’espansione delle attività marinare<br />

veneziane verso il ricco e strategico Oriente, fu inevitabile che Venezia instaurasse<br />

presto contatti, e non solo contatti, con tutte le regioni costiere adriatiche e in special<br />

modo con gli strategici porti pugliesi, tra cui quello <strong>di</strong> certo molto importante <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, città per secoli contesa da Bizantini, Longobar<strong>di</strong>, Arabi e Franchi e<br />

successivamente, a partire dall’XI secolo, integrata al regno <strong>di</strong> Sicilia, dei Normanni<br />

prima e degli Svevi, degli Angioni, degli Aragonesi e degli Spagnoli dopo.<br />

Con le prime crociate, Venezia consolidò la propria posizione sullo scacchiere del<br />

Me<strong>di</strong>terraneo orientale, accumulando notevoli ricchezze con le razzie e, soprattutto,<br />

con il controllo dei commerci su vaste aree del Levante. E con la IV crociata, la<br />

Repubblica <strong>di</strong> San Marco si inserì decisamente nel novero delle potenze marittime<br />

dell’epoca, quando la spe<strong>di</strong>zione guidata proprio dai Veneziani portò, nel 1204, alla<br />

conquista e al saccheggio <strong>di</strong> Bisanzio, nonché, per Venezia, al conseguente possesso <strong>di</strong><br />

tutta una serie <strong>di</strong> strategiche isole, porti e fortezze costiere nello Ionio e nell’Egeo.<br />

Dopo qualche centinaio d’anni <strong>di</strong> potere marittimo, più o meno contrastato,<br />

l’invasione francese dell’Italia nel 1494 ed il gioco <strong>di</strong> alleanze che ne seguì per<br />

contrastarla, permise a Venezia <strong>di</strong> ottenere, nel 1495, tre strategici avamposti in<br />

Puglia – Trani, Brin<strong>di</strong>si e Otranto – regione chiave per il controllo <strong>di</strong> Adriatico e Ionio.<br />

Poi però, nel 1499, i Turchi la privarono d’importanti città sulle coste albanesi e<br />

greche e con la pace del 1503 Venezia dovette rinunciare alle sue pretese su quelle<br />

città. E nel 1509, una poderosa lega internazionale sorta in funzione anti-veneziana,<br />

costrinse la Serenissima a rinunciare anche all’occupazione degli strategici porti<br />

pugliesi, dopo soli pochi anni <strong>di</strong> possesso.<br />

Dopo decenni <strong>di</strong> dominio marittimo turco, nel 1571 ci fu il riscatto cristiano <strong>di</strong><br />

Lepanto, la grande battaglia navale che pur costituendo per Venezia una grande<br />

vittoria morale, non impedì alla sua potenza marittima <strong>di</strong> imboccare la via del declino,<br />

conseguente – tra l’altro, ma non solo – all’affermarsi delle vie <strong>di</strong> traffico oceaniche a<br />

<strong>di</strong>scapito delle rotte me<strong>di</strong>terranee.<br />

Nella seconda metà del ‘600, l’impero turco s’impegnò in una lunga lotta per il<br />

possesso della veneziana Creta, fino a conquistarla nel 1669, e Venezia si rifece<br />

qualche anno più tar<strong>di</strong>, strappando ai Turchi il Peloponneso. Ma la pace <strong>di</strong> Carlowitz<br />

che ne seguì, in realtà certificò l’ultima storica conquista veneziana, peraltro <strong>di</strong>fficile<br />

da mantenere e che perciò non ebbe vita lunga: nel 1714, i Turchi si ripresero il<br />

Peloponneso e quin<strong>di</strong> tentarono – comunque senza esito – <strong>di</strong> prendere anche Corfù,<br />

che restò così ultimo baluardo <strong>di</strong> quello “Stato da mar” che era stata Venezia.<br />

139


L’Adriatico già non era il “Golfo <strong>di</strong> Venezia” demarcato dall’asse Brin<strong>di</strong>si-Corfù ed in<br />

quel mare ormai, le flotte da guerra straniere operavano tranquillamente senza il<br />

permesso <strong>di</strong> Venezia. La potenza navale veneziana era solo un’ombra, il suo ruolo <strong>di</strong><br />

“dominatrice dell'Adriatico” un ricordo lontano e la un tempo temibile flotta da guerra<br />

veneziana, stentava finanche a proteggere i convogli mercantili dagli attacchi corsari.<br />

E poi, a chiudere la parabola della Serenissima, sopraggiunse l’uragano napoleonico.<br />

E fu in questo contesto, seguendo cioè la parabolica evoluzione veneziana, che con<br />

il trascorrere dei secoli gli interessi <strong>di</strong> Venezia per le relazioni commerciali con i porti<br />

pugliesi – con i carichi <strong>di</strong> vino, <strong>di</strong> olio, <strong>di</strong> grano, <strong>di</strong> frumento <strong>di</strong> lana e <strong>di</strong> legumi, che le<br />

navi <strong>di</strong> San Marco esportavano in grande quantità e con le tante merci che le stesse<br />

navi vi portavano da Venezia, da molti scali me<strong>di</strong>terranei e da porti ancor più lontani<br />

d’Oriente – a un certo punto si allargarono alla sfera politico-militare, con Venezia che<br />

oltre all’acquisizione <strong>di</strong> vantaggiose esenzioni fiscali e <strong>di</strong> molti altri privilegi e<br />

monopoli, cominciò ad ambire alla conquista ed occupazione fisica <strong>di</strong> quelle stesse<br />

città già per secoli trattate per lo più amichevolmente e quin<strong>di</strong> molto ben conosciute.<br />

Così, nel 1496 Brin<strong>di</strong>si fu, non conquistata, ma in qualche modo comprata da<br />

Venezia, e i Veneziani la governarono – <strong>di</strong>scretamente bene – per tre<strong>di</strong>ci anni, fino al<br />

1509, quando passò ad integrare il viceregno spagnolo <strong>di</strong> Napoli, senza che comunque<br />

Venezia abbandonasse da subito l’idea <strong>di</strong> una eventuale riconquista, aspirazione<br />

certamente ancora viva perlomeno fino a quell’ultimo tentativo concreto effettuato<br />

durante la cosiddetta “Campagna <strong>di</strong> Puglia” del 1528 e 1529. Poi, finalmente,<br />

cessarono le secolari aspirazioni veneziane <strong>di</strong> conquista su Brin<strong>di</strong>si e scemarono le<br />

<strong>di</strong>spute militari tra le due città, senza che comunque cessassero le relazioni<br />

commerciali destinate, invece, a perdurare tra alti e bassi molto a lungo: per sempre.<br />

* * * * *<br />

Un primo formale approdo militare dei Veneziani in Terra d’Otranto risale al IX<br />

secolo, quando – fallito nell’836 il primo tentativo – nell’867 il doge Orso I<br />

Partecipazio inviò a Taranto – che come anche Bari era stata conquistata dai Saraceni<br />

quasi una trentina d’anni prima – una flotta <strong>di</strong> quaranta navi con cui, anche se solo per<br />

pochi anni, si poté restaurare il dominio bizantino su quella città. Qualche anno dopo<br />

inoltre, nell’871, la stessa marina veneziana partecipò anche alla liberazione <strong>di</strong> Bari<br />

dall’emiro Sawdan, aiutando in quell’impresa l’imperatore franco, Ludovico II.<br />

È da presumere quin<strong>di</strong>, che i Veneziani si sentissero a quel tempo molto più como<strong>di</strong><br />

a commerciare, e più in generale a relazionarsi, con territori soggetti all’allora amico<br />

impero bizantino o tutt’al più al dominio franco-longobardo, anziché a doversela<br />

vedere con la aggressiva presenza araba. Così, le relazioni tra Venezia e la Puglia, per<br />

anni seguirono vicissitu<strong>di</strong>ni alterne, con i tanti vantaggiosi scambi specialmente<br />

favorevoli a Venezia quando sui territori dell’estremo peninsulare italiano<br />

sembravano prevalere i Bizantini, e con le continue tensioni e le tante nefaste<br />

conseguenze degli assalti delle scorrerie e delle occupazioni saracene, che mai<br />

cessarono del tutto durante quei due lunghissimi secoli – dall’827 al 1038 – durante i<br />

quali gli Arabi occuparono stabilmente la Sicilia, che utilizzarono come loro sicura e<br />

strategica base per sistematicamente scorribandare su tutte le coste, e non solo le<br />

coste, del meri<strong>di</strong>one italiano.<br />

140


Poi, tra l’XI e il XII secolo, tutto cambiò per l’intero meri<strong>di</strong>one italiano quando<br />

sopraggiunsero i Normanni che in meno <strong>di</strong> un secolo lo conquistarono tutto e, con<br />

Ruggero II nel Natale del 1130, fondarono il regno <strong>di</strong> Sicilia integrando in uno stato<br />

unitario tutti quei territori laddove si erano stanziati avvicendati e sistematicamente<br />

combattuti per secoli i Bizantini, i Longobar<strong>di</strong>, i Franchi e gli Arabi.<br />

I Veneziani, temendo a ragion veduta per i propri interessi nell’Adriatico, cercarono<br />

vanamente <strong>di</strong> osteggiare la conquista normanna della Terra d’Otranto, da dove, come<br />

temuto, nel 1081 il duca Roberto salpò per occupare Corfù e quin<strong>di</strong> prendere Durazzo.<br />

E da dove – da Brin<strong>di</strong>si – nel 1085, pochi mesi prima <strong>di</strong> morire, il Guiscardo salpò per<br />

la sua ultima campagna antibizantina, in cui vinse i Veneziani e strappò loro Kassiopi.<br />

Poi, giusto iniziando il secolo XII – in data compresa tra il 1101 e il 1104 – Venezia,<br />

per rappresaglia o rivincita, alleatasi circostanzialmente col re Colomano <strong>di</strong> Ungheria<br />

contro i Normanni, impulsò un’incursione navale dalla Dalmazia su Monopoli e su<br />

Brin<strong>di</strong>si, che fu brevemente occupata.<br />

«Hoc tempore, Colomanus rex Ungarie misit exercitum in Dalmacia, et occi<strong>di</strong> fecit regem<br />

Petrum, et per legatos suos cum Venetorum duce fedus iniit contra Normanos et pariter<br />

exercitum in Apuleam ad eorum dampna mitere statuunt; parata autem clase per Venetos,<br />

regius aparatus in Apuliam navigans, Brun<strong>di</strong>sium et Monopolim optinent, et tribus<br />

mensibus, Apuliam vastant et redeunt.» [A. DANDOLO 1 ]<br />

In seguito, però, le ostilità cessarono del tutto – anche perché alla lunga i Normanni<br />

si ritirarono dalla <strong>di</strong>rimpettaia costa adriatico-ionica per concentrare tutti i loro sforzi<br />

in Italia – e così le relazioni commerciali tra la Repubblica e il Regno migliorarono.<br />

Già nel maggio 1122, infatti, i Veneziani del doge Domenico Michiel stipularono un<br />

trattato commerciale con il principe <strong>di</strong> Bari Grimoaldo Alferanite. Quin<strong>di</strong> seguirono<br />

altri trattati tra Venezia e Palermo: con il già re Ruggero II nel 1139, concordando e<br />

regolamentando i rapporti e le relazioni commerciali tra Venezia e i sud<strong>di</strong>ti dell’Italia<br />

meri<strong>di</strong>onale; con il re Guglielmo I nel 1154, essendo doge Domenico Morosini; e con il<br />

re Guglielmo II nel 1175, essendo doge Sebastiano Ziani. I commerci pertanto<br />

fiorirono,<br />

«con le tante flotte mercantili veneziane che recandosi in Oriente, e sviluppando quel<br />

gran traffico che nei secoli seguenti doveva costituire l'opulenza <strong>di</strong> Venezia, tanto<br />

nell'andata come nel ritorno, poggiavano sempre a Otranto e a Brin<strong>di</strong>si.» [G. GUERRIERI 2 ]<br />

Con gli Svevi sul trono <strong>di</strong> Palermo, nei primi tempi le relazioni commerciali con<br />

Venezia si mantennero, giacché l’imperatore Enrico VI, pur privilegiando<br />

notoriamente le relazioni con Pisa, come re <strong>di</strong> Sicilia riconfermò al doge Enrico<br />

Dandolo i <strong>di</strong>plomi emanati precedentemente dai Normanni.<br />

Poco dopo la sua improvvisa morte, inoltre, quando ancora era in corso la confusa<br />

transizione politica tra Normanni e Svevi, a Brin<strong>di</strong>si si stipulò un patto <strong>di</strong> commercio<br />

<strong>di</strong>rettamente tra “supposti” rappresentanti del popolo e Venezia, quando nel<br />

settembre 1199 i due capitani navali veneziani, Giovanni Basilio e Tommaso Falier,<br />

delegati a rappresentare il loro Doge Enrico Dandolo, conclusero – forse, meglio,<br />

imposero – a Brin<strong>di</strong>si il solenne pactum <strong>di</strong> pace e <strong>di</strong> mutua <strong>di</strong>fesa che fu sottoscritto da<br />

un gruppo <strong>di</strong> trentaquattro “notabili” brin<strong>di</strong>sini, evidentemente selezionati tra i proveneziani:<br />

141


«Nel 1199, quando il regno è ormai in preda all'anarchia, l'intervento della Serenissima<br />

valse a liberare l'Adriatico dalla presenza della flotta pisana e ricondusse Brin<strong>di</strong>si,<br />

saccheggiata perché colpevole d'aver offerto supporto logistico ai Pisani, a “solitam<br />

venetorum amicitiam”. Nella desolata città vengono in<strong>di</strong>viduati 34 citta<strong>di</strong>ni, fra i quali<br />

sono alcuni degli autori dell'assalto a Santa Maria de parvo ponte, quali il giu<strong>di</strong>ce Isacco<br />

e gli esponenti della comunità ravellese, che sottoscrivono innanzi Rogerius Pirontus et<br />

notarius Calo, regi camerari <strong>di</strong> Terra d'Otranto, solenne impegno a non dar ricetto nel<br />

porto a naviglio ostile a Venezia. Il trattato del 1199, in certo senso, riportò Brin<strong>di</strong>si nel<br />

sistema <strong>di</strong> relazioni commerciali precedente l'intervento imperiale e, all'interno della<br />

città, sancì il momentaneo predominio dei partigiani [pro-normanni] <strong>di</strong> Margarito; fra i<br />

firmatari l'accordo è il camerario dell'ammiraglio.» [G. CARITO 3 ]<br />

Certo è che, comunque, tra Brin<strong>di</strong>si e Venezia seguirono anni <strong>di</strong> rinnovate fruttifere<br />

relazioni commerciali, a esempio delle quali è documentato che:<br />

«Nel maggio del 1224 molte navi veneziane provenienti da Costantinopoli toccarono il<br />

porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, caricando e scaricando merci prima <strong>di</strong> muovere per Venezia; e negli<br />

anni successivi, dal maggio 1225 al giugno 1228, quando le città del dominio veneto<br />

furono afflitte da grande carestia, il re imperatore Federico II permise alla Repubblica la<br />

tratta del grano dai porti <strong>di</strong> terra d'Otranto, con non poche notizie <strong>di</strong> navi veneziane<br />

partite cariche dal porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, già restaurato proprio dall'imperatore e fornito <strong>di</strong><br />

como<strong>di</strong> arsenali.» [G. GUERRIERI 2 ]<br />

Lo stesso Federico II, inoltre, permise ai Veneziani <strong>di</strong> <strong>di</strong>morare temporaneamente<br />

nel regno e <strong>di</strong> svolgere da lì – principalmente dalle città pugliesi tra cui in primis<br />

Otranto e Brin<strong>di</strong>si – i loro commerci, come venne esplicitamente concordato in un<br />

altro trattato concluso nel marzo 1232 nello stesso palazzo ducale della Serenissima<br />

con il doge Jacopo Tiepolo. Sembra che in quel periodo fosse la lana il prodotto <strong>di</strong><br />

maggior interesse per i Veneziani, ma anche l’olio, il formaggio, le carni salate, e<br />

soprattutto i cereali.<br />

Poi però, i rapporti tra Venezia e Federico II si incrinarono a causa dell’alleanza che<br />

Venezia aveva stretto con Genova e – segretamente – col pontefice Gregorio IX il quale,<br />

scomunicato l’imperatore, nel 1240 indusse la Repubblica veneziana a inviare una sua<br />

armata in Puglia, per asse<strong>di</strong>arla e tentare <strong>di</strong> prendere un suo porto, magari Brin<strong>di</strong>si:<br />

l’impresa non riuscì, ma l’armata veneziana comandata da Giovanni Tiepolo, figlio del<br />

doge Jacopo, attaccò varie città costiere e <strong>di</strong>versi convogli <strong>di</strong> regie navi mercantili, tra<br />

cui un’enorme nave che proveniente dalla Siria affondò proprio nei pressi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

con a bordo mille marinai <strong>di</strong> equipaggio. E Federico II, in vendetta per quelle scorrerie<br />

venete sulle coste pugliesi, nel novembre del 1240 fece impiccare in una torre della<br />

marina <strong>di</strong> Trani un altro figlio del doge, Pietro Tiepolo, che nel 1237 era stato<br />

catturato nella battaglia <strong>di</strong> Cortenuova – nei pressi <strong>di</strong> Milano – e tratto prigioniero.<br />

«Tunc Joannes Teapulo, capitaneus xxv galearum, up pape promissum fuerat, contra<br />

Federicum egre<strong>di</strong>tur, et xii galeas il illius subsi<strong>di</strong>um accedentes fugavit, et in Apuliam<br />

Termoles, Castrum Marinum, Rodes, Bestie et Bestice cepit, et prostravit, et secus<br />

Brunduxium unam navem de Syria redentum, mille bellatoribus munitam optinuit:<br />

imperator autem, longa obsi<strong>di</strong>one, Faventiam habuit…<br />

Tunc Petrus Theupolus, ducis natus, potestas Me<strong>di</strong>olanensium, cum ipsis et eorum amicis,<br />

contra Federicum progre<strong>di</strong>tur, qui per <strong>di</strong>strictum Brixie omnia destruebat; sed, fluvio<br />

interposito, minime prelium comiserunt; tandem Me<strong>di</strong>olanenses revertuntur, et dum nichil<br />

142


mali suspicarentur, Federicus cum milicia sua eos prevenit, et, facto impetu apud Turrem<br />

novam in eos, multos ex eis cepit, plures occi<strong>di</strong>t, sed et potestas pre<strong>di</strong>ctus captus est et<br />

carocium; quem Federicus dapnavit ad mortem; dux autem Venecie, ex hoc turbatus,<br />

Venetos, ut illius emuli fierent, induxit.» [A. DANDOLO 1 ]<br />

Federico II comunque, nei suoi ultimi anni poté vedere rinnovate le buone relazioni<br />

con Venezia e Manfre<strong>di</strong>, suo figlio e successore, ratificò al doge Jacopo Tiepolo il<br />

trattato del 1232 e ne stipulò anche altri: nel 1257, nel 1259 e nel 1260 con il doge<br />

Rainerio Zeno, aggiungendo ogni volta numerosi nuovi privilegi per i lagunari,<br />

permettendo loro, ad esempio, <strong>di</strong> pagare un dazio <strong>di</strong> solo il <strong>di</strong>eci percento sui prodotti<br />

acquistati e concedendo <strong>di</strong> poter esportare <strong>di</strong>ecimila salme <strong>di</strong> grado da alcuni porti<br />

pugliesi, tra cui Brin<strong>di</strong>si. E a partire da allora, con le relazioni commerciali<br />

notevolmente incrementate, venne instaurato il consolato veneziano a Trani, con<br />

viceconsoli a Barletta, Manfredonia e anche a Brin<strong>di</strong>si, e numerosi Veneziani si<br />

poterono stabilire nelle più importanti città della ricca regione costiera pugliese.<br />

Con gli Angioini sul trono <strong>di</strong> Napoli, il re Carlo I, pur privilegiando apertamente le<br />

relazioni commerciali con i Fiorentini e senza abrogare né riconfermare i <strong>di</strong>plomi<br />

svevi alla Serenissima, permise la lenta ripresa dei rapporti con Venezia e il porto <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, oltre ad essere usato per fini militari, continuò a svolgere un certo ruolo nel<br />

commercio d’esportazione granaria e soprattutto olearia verso Venezia e nella<br />

re<strong>di</strong>stribuzione dei prodotti industriali in arrivo da quella Repubblica.<br />

Con la traumatica e prolungata guerra dei Vespri però, il ruolo commerciale <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si cominciò a ri<strong>di</strong>mensionarsi e la città iniziò a impoverirsi. Accadde così che a<br />

causa dei privilegi vecchi e nuovi a favore <strong>di</strong> Venezia e Firenze, ritenuti dai Brin<strong>di</strong>sini<br />

essere eccessivi al confronto delle enormi fiscalità imposte loro, iniziarono a<br />

manifestarsi da parte dei citta<strong>di</strong>ni – così come in varie altre città costiere pugliesi –<br />

rappresaglie a danno <strong>di</strong> navi <strong>di</strong> veneziane, con conseguenti ovvie reazioni:<br />

«Nel 1323 alcuni Brin<strong>di</strong>sini danneggiarono gravemente nelle vicinanze del porto la nave<br />

<strong>di</strong> mercanti veneziani e tre anni più tar<strong>di</strong>, il brin<strong>di</strong>sino Nicolò De Genio, vice console<br />

veneto a Brin<strong>di</strong>si, fu sollecitato dal console veneto in Puglia, Pietro da Canale, a<br />

restituire una galea completa <strong>di</strong> tutti gli attrezzi esistenti su quella nave, ai danneggiati<br />

Bono <strong>di</strong> Torre e Nicolò Assanti, armatori veneziani… Si può affermare comunque, che le<br />

offese e le rappresaglie furono scambievoli, e se da una parte il re <strong>di</strong> Napoli Roberto<br />

cercava <strong>di</strong> dare sod<strong>di</strong>sfazione al senato <strong>di</strong> Venezia, dall'altra si raccomandava con<br />

insistenza che nello stesso tempo fossero concessi i compensi e gli indennizzi che<br />

spettavano ai loro sud<strong>di</strong>ti ai quali i Veneziani avevano recato oltraggio... Nel 1339 navi<br />

veneziane giunsero a recare gravi offese a quattro galee con ban<strong>di</strong>era napoletana,<br />

comandate da Marino Costa, perseguitandole senza alcun motivo da Otranto fino a<br />

Brin<strong>di</strong>si e asse<strong>di</strong>andole dopo in questo stesso porto.» [G. GUERRIERI 2 ]<br />

«Nel febbraio del 1341, una nave veneziana <strong>di</strong> cà Marcello, comandata da Domenico<br />

Marotto, era stata costretta a rifugiarsi nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si per “sevitiam maris” e i<br />

Brin<strong>di</strong>sini, senza por tempo <strong>di</strong> mezzo, avevano imposto al patrono <strong>di</strong> scaricare 700<br />

salme <strong>di</strong> frumento “ad salam Bran<strong>di</strong>ci”, che valevano, stimando come pretendevano i<br />

padroni del carico, ogni tomolo sette carlini, once 653 e tarì <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> carlini gigliati,<br />

“computata qualibet uncia carlinis ziliatis LX”.» [G. I. CASSANDRO 4 ]<br />

Dopo reiterati reclami formali <strong>di</strong> risarcimento fatti giungere persino al re <strong>di</strong> Napoli<br />

Roberto, e trascorso già più <strong>di</strong> un anno dai fatti, il senato repubblicano finalmente, il<br />

143


22 giugno 1342, decise la più volte minacciata rappresaglia e or<strong>di</strong>nò la rottura <strong>di</strong> ogni<br />

relazione della Repubblica con i Brin<strong>di</strong>sini e il sequestro, ovunque possibile, dei<br />

prodotti e dei beni <strong>di</strong> questi. Non accadde nulla e, dopo nuovi tentativi legali <strong>di</strong><br />

riscossione, Venezia si rivolse al nuovo sovrano <strong>di</strong> Napoli, la regina Giovanna I, e<br />

persino al legato pontificio. Si era giunti a metà del 1345 e il debito <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nei<br />

confronti dei Veneziani solo si era in qualche modo ridotto e così, <strong>di</strong>etro nuove<br />

insistenze veneziane, si stipulò a Napoli un accordo <strong>di</strong> pagamento <strong>di</strong>lazionato a un<br />

anno, tra il sindaco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e il notaio <strong>di</strong> Venezia, ma ancora nel 1346 il conto non<br />

era del tutto saldato e il 1 novembre 1349, una nuova delibera veneziana rese ancor<br />

più severe le misure adottate contro Brin<strong>di</strong>si e poco dopo, forse perché finalmente<br />

mossi dall’interesse alla ripresa dei traffici commerciali,<br />

«ve<strong>di</strong>amo rappresentanti dell'Università <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si trattare a Venezia <strong>di</strong>rettamente con<br />

i danneggiati la liquidazione dell’ormai annosa controversia. I Brin<strong>di</strong>sini ottengono <strong>di</strong><br />

pagare il rimanente “per terminis”, ma devono fare “plena finis quietatio et remissio” dei<br />

danni che durante la rappresaglia i Veneziani avessero loro arrecato.» [G. I. CASSANDRO 4 ]<br />

«In quel 1349, sempre per questioni <strong>di</strong> grano, Venezia veniva a lite con lo stesso<br />

Comune <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Essendosi la famiglia Cavalerio appropriata certo grano<br />

appartenente a’ veneti, la Repubblica reclamò al Comune, e quantunque questo non<br />

ritenesse per niente suo dovere, assunse il risarcimento dei danni entro un<br />

quinquennio. Allora soltanto, il doge <strong>di</strong>chiarò terminata la questione e annullate le<br />

sentenze <strong>di</strong> rappresaglia concesse contro <strong>di</strong> esso. I brin<strong>di</strong>sini avrebbero potuto d'or<br />

innanzi esercitare il commercio come per l'ad<strong>di</strong>etro, qualora il Comune promettesse<br />

pure libertà <strong>di</strong> commercio ai veneti nel suo territorio e <strong>di</strong> non molestarli altrove…<br />

Pare che così procedesse la Repubblica in tali frangenti. Dapprima, con prudente<br />

pazienza, il console [veneziano] del luogo incriminato pubblicava che fra nove mesi, non<br />

essendo venuta dall'Università sod<strong>di</strong>sfazione alcuna, i mercanti [veneziani] <strong>di</strong>etro loro<br />

responsabilità, sarebbero partiti con le robbe. Dopo sei mesi, il console, tornato a<br />

Venezia ban<strong>di</strong>va a Rialto lo stesso avviso, soltanto il termine era naturalmente ridotto a<br />

tre mesi.» [A. ZAMBLER & F. CARABELLESE 5 ]<br />

Sotto il lungo regno <strong>di</strong> Giovanna I comunque, dopo la carestia del 1345 e la peste<br />

del 1348, Brin<strong>di</strong>si – nonostante l’importante <strong>di</strong>ploma che con enormi concessioni a<br />

Venezia aveva emesso nel 1357 il principe <strong>di</strong> Taranto, Roberto cognato della stessa<br />

regina e al tempo titolare imperatore costantinopolitano – imboccò decisamente la via<br />

<strong>di</strong> un prolungato ed accelerato processo <strong>di</strong> immiserimento, tanto che nel 1381, il<br />

successore re, Carlo III, per provare a far rivivere la città, estese al porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si le<br />

franchigie già godute dai Veneziani nel porto <strong>di</strong> Trani, privilegio poi riconfermato e<br />

nuovamente ampliato nel 1410 dal re La<strong>di</strong>slao e quin<strong>di</strong> anche dalla regina Giovanna II<br />

nei trattati dell’aprile 1419.<br />

«A Brin<strong>di</strong>si [Roberto, il principe] per avvantaggiare il commercio, riduceva a metà gli<br />

aggravi che i veneti ivi pagavano, con pieno sod<strong>di</strong>sfacimento dello stesso Comune, il<br />

quale dandone nel medesimo giorno partecipazione al Senato, dopo aver magnificato i<br />

vantaggi che ne avrebbe tratti commerciando con Venezia, chiedeva che i veneti<br />

frequentassero la piazza.» [A. ZAMBLER & F. CARABELLESE 5 ]<br />

Ma in pratica per Brin<strong>di</strong>si, nonostante una timida ripresa dei traffici marittimi, non<br />

ci furono più reali opportunità <strong>di</strong> un pronto ritorno al passato splendore, mentre al<br />

144


contempo, Lecce era avviata a <strong>di</strong>venire la città in Terra d’Otranto <strong>di</strong> gran lunga più<br />

importante, anche grazie all’apporto <strong>di</strong> molti facoltosi commercianti veneziani,<br />

nonché <strong>di</strong> banchieri fiorentini e <strong>di</strong> intraprendenti affaristi Genovesi, che in quella città<br />

avevano iniziato a <strong>di</strong>morare.<br />

Con l’arrivo, nel 1442, degli Aragonesi sul trono <strong>di</strong> Napoli, la situazione per Brin<strong>di</strong>si<br />

peggiorò ancor più, sia perché le relazioni del Regno con la potente Venezia si<br />

deteriorarono fino a sfociare nel 1449 in guerra aperta, e sia a causa della<br />

malaugurata idea che in quel frangente ebbe il principe <strong>di</strong> Taranto Giovanni Antonio<br />

Orsini del Balzo, <strong>di</strong> chiudere l’accesso al porto interno, ostruendone il canale per<br />

impe<strong>di</strong>re l’ingresso alla città <strong>di</strong> eventuali forze invasori veneziane. Un’azione fatale<br />

che fu quasi una condanna a morte per Brin<strong>di</strong>si, presto circondata da malsane palu<strong>di</strong> e<br />

rapidamente depopolata: alla fine del secolo XV gli abitanti si erano ridotti a<br />

solamente circa 3000 unità.<br />

Poi, con il trascorrere degli anni e con l’evolvere delle complesse interrelazioni<br />

politiche tra gli Stati, in particolare con l’avvento a Milano <strong>di</strong> Francesco Sforza nel<br />

1450 e con la fatale caduta <strong>di</strong> Costantinopoli nel 1453, i rapporti cambiarono ancora e<br />

si avviò una nuova, anche se breve, stagione <strong>di</strong> fruttiferi scambi commerciali tra<br />

Venezia e Napoli, <strong>di</strong> cui in buona misura beneficiò anche Brin<strong>di</strong>si, che vide<br />

gradualmente ristabilire e intensificare i suoi contatti <strong>di</strong>retti con la Serenissima, anche<br />

a conseguenza del rinnovo delle vecchie concessioni che nel febbraio 1463 il re<br />

Ferrante, succeduto al padre Alfonso il Magnanimo, concesse con un <strong>di</strong>ploma a<br />

Venezia, aggiungendone anche <strong>di</strong> nuove: a Brin<strong>di</strong>si, per esempio, i Veneziani furono<br />

esentati dall’imposta straor<strong>di</strong>naria dell’uno per cento e dalla nuova imposta sulle navi.<br />

«Nel lungo proemio del <strong>di</strong>ploma, il re Ferrante commentava le forti ragioni che lo<br />

obbligavano a stringere rapporti d’amicizia e <strong>di</strong> commercio con la Repubblica veneta,<br />

unita al suo stato da antichissimi legami, perpetuatisi dal tempo <strong>di</strong> re Roberto fino a<br />

quello d'Alfonso suo padre e ricordava in modo particolare il <strong>di</strong>ploma <strong>di</strong> re La<strong>di</strong>slao del<br />

7 <strong>di</strong>cembre 1410, i due della regina Giovanna del 1419 e un quarto emesso nel 1347 al<br />

tempo dell'imperatore costantinopolitano Roberto. Quest'ultimo fu <strong>di</strong> fatto interamente<br />

confermato e integrato da re Ferrante, e l'esteso decreto fu integralmente pubblicato in<br />

Bari il 14 gennaio 1464.» [A. ZAMBLER & F. CARABELLESE 5 ].<br />

Gli incalzanti eventi politici e i tanti intrighi <strong>di</strong> palazzo interni ed esterni all’Italia<br />

però, presto vanificarono tutte quelle attestazioni <strong>di</strong> amicizia e <strong>di</strong> cooperazione tra<br />

Venezia e Napoli, e le nuove tensioni raggiunsero l’apice nel 1480 a seguito del tragico<br />

evento della caduta <strong>di</strong> Otranto in mano ai Turchi, finalmente risolto grazie alla<br />

provvidenziale morte dell’imperatore Maometto II che indusse gli occupanti arabi<br />

della sfortunata città ad abbandonare la loro presa. Fer<strong>di</strong>nando I – il re Ferrante –<br />

considerò, pur senza averne prove certe, che Venezia in quel frangente avesse<br />

parteggiato per gli Ottomani, quanto meno per omissione.<br />

Quin<strong>di</strong>, i rancori sfociarono in vere e proprie ostilità nel 1482, quando Fer<strong>di</strong>nando<br />

I, amico e anche parente del duca Ercole <strong>di</strong> Ferrara, volle tutelarne gli interessi contro<br />

la Serenissima nella <strong>di</strong>sputa sorta intorno ai confini <strong>di</strong> quei due stati limitrofi. E la<br />

guerra ebbe un’importante eco anche in Puglia, che fu ripetutamente razziata e<br />

devastata nelle sue coste dagli Stra<strong>di</strong>otti dell’armata veneziana che, con base a Corfù al<br />

comando del Capitano general da mar Giacomo Marcello, fu inviata a caccia delle navi<br />

mercantili regie che caricavano foraggi in Terra d’Otranto.<br />

145


«Dopo lo sbarco nel piccolo porto <strong>di</strong> Guaceto, al nord <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> 600 Stra<strong>di</strong>otti che<br />

occuparono San Vito degli Schiavi, detto ora impropriamente dei Normanni, e<br />

Carovigno, depredando, uccidendo molti uomini e portando con gli incen<strong>di</strong><br />

innumerevoli rovine [Cronache <strong>di</strong> M. Antonello Coniger ‐1700], la flotta veneziana,<br />

partita da Corfù al comando <strong>di</strong> Marcello andò a Brin<strong>di</strong>si, ma la città fu <strong>di</strong>fesa da Pompeo<br />

Azzolino, brin<strong>di</strong>sino, famoso per il suo gran valore… e il generale Marcello, visto inutile<br />

ogni tentativo <strong>di</strong> conquista, dopo aver predato nei porti pugliesi dell’Adriatico navi che<br />

caricavano grani, tornò a Corfù e mandò il capitano Domenico Malipiero a continuare le<br />

scorrerie lungo le coste della Puglia con l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> rientrare a Corfù per la Pasqua.» [G.<br />

GUERRIERI 2 ]<br />

Rientrato Malipiero, d’accordo con le informazioni strategiche da lui riportate sulla<br />

situazione in Puglia, si decise <strong>di</strong> assalire Gallipoli perché ritenuta essere una presa<br />

facile e la flotta veneta, forte <strong>di</strong> quattor<strong>di</strong>ci galee e cinque navi, comandata<br />

<strong>di</strong>rettamente da Marcello, si mosse da Corfù. La città pugliese fu finalmente espugnata,<br />

anche se nell’attacco del 19 maggio 1482, lo stesso comandante Marcello rimase<br />

ucciso da una bombarda e il comando dell’occupazione passò al suo secondo, il<br />

capitano Domenico Malipiero fino alla nomina del successore <strong>di</strong> Marcello, Melchiorre<br />

Trevisan. Due mesi e mezzo dopo, il 7 agosto, la guerra <strong>di</strong> Ferrara si concluse con la<br />

pace <strong>di</strong> Bagnolo e la flotta veneziana si ritirò da Gallipoli che fu restituita al Regno con<br />

le altre basi navali che in Puglia erano state occupate dai lagunari durante la guerra. E<br />

Venezia ebbe presto riconfermati tutti gli anteriori privilegi commerciali.<br />

Finita quella guerra, ne scoppiò presto un’altra, questa volta interna al Regno <strong>di</strong><br />

Napoli: la “congiura dei baroni”, che prolungandosi per anni indebolì enormemente,<br />

anche sul piano internazionale, il vecchio re Ferrante che morì il 25 gennaio 1494. Gli<br />

succedette l’o<strong>di</strong>ato figlio Alfonso II che dopo solo un anno <strong>di</strong> regno, il 21 gennaio 1495,<br />

fu costretto ad ab<strong>di</strong>care a favore del figlio Fer<strong>di</strong>nando II – Ferrantino – mentre,<br />

approfittando della critica situazione in cui versava il regno napoletano, il re <strong>di</strong><br />

Francia Carlo VIII era sceso in armi in Italia, chiamato dal duca <strong>di</strong> Milano Ludovico<br />

Sforza in <strong>di</strong>sputa con gli aragonesi <strong>di</strong> Napoli. Il 30 novembre 1494 Carlo VIII era già a<br />

Roma da dove ripartì il 28 gennaio del 1495 e, senza incontrare resistenza militare<br />

alcuna, il 22 febbraio si sedette sul trono <strong>di</strong> Napoli con mira a procedere da lì, alla<br />

conquista del Sud, mentre Ferrantino con la corte si era rifugiato in Sicilia, da dove<br />

mantenne per mesi una guerra <strong>di</strong> guerriglia, capeggiata da Federico I suo fratello<br />

minore, contro i Francesi.<br />

Allarmati per quella troppo veloce e facile conquista francese in territorio italiano,<br />

presto si costituì un’alleanza antinvasione, la Lega Santa detta anche Lega <strong>di</strong> Venezia,<br />

stipulata proprio a Venezia il 31 marzo 1495, a cui aderirono un po’ tutti: dal papa<br />

Alessandro VI che la organizzò, al sacro romano imperatore Massimiliano I, a<br />

Ludovico Sforza <strong>di</strong> Milano e alla Repubblica <strong>di</strong> Venezia. A quel punto Carlo VIII preferì<br />

lasciare Napoli e battere in ritirata. Per strada, il 6 luglio, battagliò a Fornovo in<br />

Lombar<strong>di</strong>a e finalmente varcò le Alpi e con il suo esercito rientrò in Francia.<br />

Ovviamente, il determinate intervento <strong>di</strong> Venezia a favore del Regno <strong>di</strong> Napoli e<br />

contro l’invasione francese, non era stato <strong>di</strong>sinteressato e neanche gratuito. Il prezzo<br />

formalmente stipulato il 21 gennaio 1496 – inizialmente per un semplice prestito <strong>di</strong><br />

duecentomila ducati, e poi per la protezione armata al re Ferran<strong>di</strong>no e al suo Regno –<br />

fu, alla fine dei conti, il pignoramento alla Repubblica <strong>di</strong>: Brin<strong>di</strong>si, Otranto e Trani.<br />

146


«1° Che le parti pre<strong>di</strong>tte, per li nomi pre<strong>di</strong>tti, sono insieme convenuti, che 'l Serenissimo<br />

Principe e la Serenissima Signoria <strong>di</strong> Venezia man<strong>di</strong>no nel Regno, per aiuto et soccorso<br />

della Maestà [Fer<strong>di</strong>nando II], homeni d'arme 700, computando in questo numero li<br />

Stra<strong>di</strong>othi che si manderanno, a tre Stra<strong>di</strong>othi per doi homeni d'arme.<br />

2° Man<strong>di</strong>no 3.000 fanti; et mandando più homeni d'arme, si man<strong>di</strong> tanto meno fanti; et<br />

ulterius, che esborsino de praesenti alla Maestà ducati quindesemille per una volta sola;<br />

et sia tenuta la Maestà satisfar integramente al Serenissimo Principe et Serenissima<br />

Signoria; restituir tutte le spese si farà per lei in <strong>di</strong>tti pressi<strong>di</strong>i; et similiter restituir <strong>di</strong>tto<br />

imprestedo, come più sotto più particolarmente si dechiarirà.<br />

3° Sia tenuta <strong>di</strong>tta Maestà satisfar tutta la spesa si farà per la Serenissima Signoria nel<br />

governar et guardar delle terre infrascritte, et lochi da esser consignati per cautione et<br />

segurtade della satisfattion sua; detratta però l'intrada che la Illustrissima Signoria<br />

havesse dei luochi pre<strong>di</strong>tti.<br />

4° Per cautione et segurtade del Serenissimo Principe et Eccellentissima Signoria <strong>di</strong><br />

Venezia, siano consignati imme<strong>di</strong>ate, in mano et potestà sua, o de' sui comessi che da lei<br />

serano deputati et or<strong>di</strong>nati, queste tre cittade della Puglia: Bran<strong>di</strong>zo, Otranto et Trani;<br />

con tutte le fortezze, et munitioni che si trovasse in quelle, da esser tolte per inventario;<br />

lochi, ville et territorii, tenimenti, porti, piazze, cargadori, rasone et giuri<strong>di</strong>ttione<br />

terrestre et maritime, per ciascuna per tinentia sua, et ad esse spettante et pertinente,<br />

con mero et misto imperio da esser governate.<br />

5° Siano tenute per la Illustrissima Signoria le <strong>di</strong>tte città, terre et lochi, territorii, in loco<br />

<strong>di</strong> pegno et ipotheca, per tutte le spese che si farano nel governo et guar<strong>di</strong>a de detti lochi<br />

da esser consignati, et nell'imprestedo presente deducati quindesemille, come è <strong>di</strong>tto de<br />

sopra; et non siano tenute <strong>di</strong>tte città, fortezze, territorii, ut supra, per la Illustrissima<br />

Signoria, finchè tutte le spese predette le siano intieramente restituide per la Regia<br />

Maestà, la qual restitutione non si possa impe<strong>di</strong>re per la Illustrissima Signoria, per<br />

respetto <strong>di</strong> rasone o colore alcuno <strong>di</strong> cosa passata o futura; ita che, fatta <strong>di</strong>tta integra<br />

solutione de spese et imprestedo, essa Illustrissima Signoria imme<strong>di</strong>ate, senza eccezione<br />

alcuna, debba restituir città, roche et territorii, omni exccusatione cessante.<br />

6° Sia tenuta la Maestà satisfar integramente tutte le spese che dal zorno della notitia<br />

habuda <strong>di</strong> questo contratto innanzi, si faranno nell'armata marittima del Serenissimo<br />

Principe et Eccellentissima Signoria, essistente hora in Napoli, per il tempo sarà nel<br />

Regno; siando però in libertà della Regia Maestà <strong>di</strong> tener o licentiar tutta o parte <strong>di</strong> detta<br />

armada, sì come a <strong>di</strong>tta Maestà parerà.<br />

7° Promette la Illustrissima Signoria, li pre<strong>di</strong>tti pressi<strong>di</strong>i si manderanno nel Regno,<br />

tenerli oltra l'anno pre<strong>di</strong>tto per li besogni della Regia Maestà; et in caso che avanti 'I<br />

compir dell'anno occorresse urgente necessità ad essa Illustrissima Signoria, per<br />

conservatione del stado suo, <strong>di</strong> revocar tutti o parte de i pressi<strong>di</strong>i, sia in libertà sua<br />

poterlo fare, data prima notitia per un mese avanti alla Regia Maestà: con questa<br />

dechiaration, che, se revocherà tutte o parte delle genti sue, quello havesse speso manco<br />

de ducati 200,000 in tutti li pressi<strong>di</strong>i haverano nello Regno, si da terra come da mar, sia<br />

tenuta essa Illustrissima Signoria suplire quello mancasse fin alla summa pre<strong>di</strong>tta, o in<br />

gente o in danari, sicome albora serà terminato et concluso; non computata la spesa<br />

dell'armada, che sono ducati 500 al mese per galia.<br />

8° Ogni pratica et intelligentia, quale havesse essa Illustrissima Signoria, o per sè o per<br />

huomini sui, <strong>di</strong>recte vel in<strong>di</strong>recte, con baroni, potentie, città, terre e castelli, o sta<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

quella, debba esser con volontà et beneplacito della prefata Maestà o sui comessi; et non<br />

aliter, nec alio modo.<br />

9° Le terre, città, roche, provincie del Regno, che per forza o per altro modo veniranno in<br />

futuro in poter della Illustrissima Signoria, o de huomini soldati <strong>di</strong> quella, et che siano al<br />

presente in poter de Francesi o <strong>di</strong> essa Maestà, o de altri stati; incontinenti si debbano<br />

147


consignar alla Maestà, o a' sui deputati, senza aspettar altra consultation <strong>di</strong> essa<br />

Illustrissima Signoria. Nè possi la Illustrissima Signoria pigliar nè accettar<br />

raccomandato alcuno, o protettione <strong>di</strong> persona o stato in <strong>di</strong>tto Regno, nè extra, dei<br />

regnicoli o possessori in <strong>di</strong>tto Regno, senza volontà, saputa et beneplacito della Maestà.<br />

10° Che le genti d'arme che manderà essa Illustrissima Signoria in sussi<strong>di</strong>o della Maestà,<br />

debbino per lo tempo che serano nello Regno <strong>di</strong> Napoli, servir fidelmente, et star sotto 'l<br />

governo <strong>di</strong> essa Maestà et sui deputati, et obe<strong>di</strong>r a quelli; et far in omnibus et per omnia,<br />

come per loro sarà or<strong>di</strong>nato et imposto per essa Maestà, et sui luogotenenti et<br />

commissarii.<br />

11° Se l'accaderà nelle terre o roche pre<strong>di</strong>tte, o alcune <strong>di</strong> esse, far altra spesa necessaria,<br />

et importante fortificatione, persegurtà sì della Regia Maestà come <strong>di</strong> essa Illustrissima<br />

Signoria; tale fortificazione far non si possa, nisi participato consilio, e de volontà della<br />

prefata Maestà et della Illustrissima Signoria <strong>di</strong> Venezia, in quella forma et modo che a<br />

uno et l'altro parerà necessario aut espe<strong>di</strong>ente.<br />

12° Che tanto la Illustrissima Signoria, quanto qual si voglia altra persona, non possa nè<br />

debba estraher intrada de formenti, vini, oli, o altre robe cujuscumque generis, de <strong>di</strong>tte<br />

terre, et loro territorii; salvo che pagati li dretti, gabele, doane, daci, come è stato<br />

osservato fin al presente dì; non pregiu<strong>di</strong>cando però ai privilegii <strong>di</strong> essa Illustrissima<br />

Signoria et <strong>di</strong> Veneziani.<br />

13° Li citta<strong>di</strong>ni, et habitanti, et esenti, debbano pagar i focolari, sali, et altre impositioni<br />

consuete; et che siano conservate et tenute con quelle con<strong>di</strong>cioni et obligationi sono<br />

soliti; e per la <strong>di</strong>tta Illustrissima Signoria non se li possi zonzer o mancar, senza volontà<br />

<strong>di</strong> essa Maestà, dei pagamenti ad modum prae<strong>di</strong>ctum.<br />

14° Che in <strong>di</strong>tte terre non si possi far merca<strong>di</strong>, nun<strong>di</strong>ne et doane o panairi, se non a<br />

modo solito, per no dannificar le altre terre del Regno della Maestà prefata, senza<br />

espressa volontà <strong>di</strong> quella.» [D. MALIPIERO 6 ]<br />

Il 30 <strong>di</strong> marzo 1496 nella cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si si formalizzò la consegna tra Priamo<br />

Contareno, rappresentante del doge <strong>di</strong> Venezia Agostino Barbarigo, e il notaio<br />

Geronimo De Imprignatis, inviato del re <strong>di</strong> Napoli. E questi, Fer<strong>di</strong>nando II d’Aragona,<br />

Ferrantino, con una lettera personale volle scusarsi e spiegare ai Brin<strong>di</strong>sini le ragioni e<br />

la temporalità <strong>di</strong> quella cessione. Nonostante la <strong>di</strong>ffidenza e anzi l’aperto malcontento<br />

che caratterizzò l’animo dei Brin<strong>di</strong>sini a fronte della cessione della propria città ai<br />

Veneziani, la nuova situazione doveva rivelarsi alquanto positiva: il doge Agostino<br />

Barbarigo non solo confermò tutti i privilegi concessi a Brin<strong>di</strong>si dai governanti<br />

aragonesi, ma ne aggiunse altri importanti, fra cui quello che tutte le galere veneziane,<br />

dovendo passare nei paraggi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, dovessero entrare in porto e rimanervi per<br />

tre giorni. I Brin<strong>di</strong>sini esternarono presto la loro sod<strong>di</strong>sfazione e Brin<strong>di</strong>si conobbe<br />

anni <strong>di</strong> benessere e <strong>di</strong> espansione dei propri commerci, traffici e industrie.<br />

«E non solo il doge Barbarigo, ma il successore, Leonardo Loredano, eletto nel 1501,<br />

confermò gli antichi e nuovi privilegi; non escluso quello che tutti i vassalli mercantili<br />

dovessero fare scalo a Brin<strong>di</strong>si. E i Brin<strong>di</strong>sini anzi, in occasione del nuovo doge,<br />

inviarono come ambasciatore a Venezia il nobile Teodoro Cavalieri. Insomma,<br />

l’occupazione veneziana lungi dall’essere avversata, giovò grandemente alla città <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, che raddoppiò quasi le sue popolazioni, e acquistò importanza commerciale e<br />

militare…<br />

A Brin<strong>di</strong>si vigeva la consuetu<strong>di</strong>ne per cui il viceconsole, in nome della Repubblica, nel<br />

giorno <strong>di</strong> San Marco - il 25 aprile, nella Cattedrale tra le solennità della messa maggiore,<br />

presentava all’arcivescovo una forma <strong>di</strong> cera bianca <strong>di</strong> cinque libre.» [A. FOSCARINI 7 ].<br />

148


«Attendevano i Veneziani con ogni possibile <strong>di</strong>mostrazione d’affetto a cattivarsi gli<br />

animi dei citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, et a beneficiare la città tanto da loro stimata. Provvidero a<br />

quanto era <strong>di</strong> bisogno per il bene pubblico e per l’utile dei particolari; erano comuni<br />

commercij, et li trafichi tra l’una e l’altra gente, si trattavano come fratelli tra <strong>di</strong> loro i<br />

Brin<strong>di</strong>sini con i Veneziani, e l’una e l’altra città da sorelle uterine. Riposava in pace e<br />

sicura d’ogni turbolenza la città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, e pareva non solo che respirasse, ma ancora<br />

che fosse risorta da morte in vita sotto il nuovo dominio veneto havendo tanto patito<br />

per li tempi passati dalli eserciti composti per lo più da gente tumltuaria <strong>di</strong> varie nationi<br />

e <strong>di</strong> fede <strong>di</strong>versa, e sopr’a tutto era sicuro il suo porto <strong>di</strong> non essere più occupato da<br />

barbari legni e da gente quasi inhumana priva <strong>di</strong> fede e <strong>di</strong> lege; essendo allo stesso<br />

visitato da galere e da navi venete, che tanto con l’occasione del passaggio quanto che<br />

per <strong>di</strong>ritto sentiero nel Porto approdavano non senza molto lucro dei citta<strong>di</strong>ni che per la<br />

comunicazione delle merci, che vicendevolmente si vendevano, e si compravano.» [A.<br />

DELLA MONACA 8 ].<br />

L’11 novembre del 1500 si stipulò in Granada un accordo tra il re <strong>di</strong> Spagna,<br />

Fer<strong>di</strong>nando il Cattolico marito <strong>di</strong> Isabella <strong>di</strong> Castiglia e il re <strong>di</strong> Francia Luigi XII, per<br />

spartirsi il regno aragonese <strong>di</strong> Napoli del re Federico I, succeduto a Fer<strong>di</strong>nando II<br />

morto prematuramente nel 1496. Quel patto prevedeva la Campania e gli Abruzzi per<br />

la Francia, e la Calabria e la Puglia per la Spagna. Ma l’accordo, nel 1504, sfociò in<br />

guerra aperta tra i due paesi proprio sulla <strong>di</strong>sputa per il Tavoliere delle Puglie, alla<br />

fine della quale, gli Spagnoli ebbero la meglio e Fer<strong>di</strong>nando il Cattolico <strong>di</strong>venne il<br />

nuovo sovrano del Regno <strong>di</strong> Napoli, sottraendolo al cugino Federico I, incorporandolo<br />

alla corona spagnola e nominando un viceré, il tutto con l’investitura del papa Giulio II.<br />

Venezia rimase neutrale in quella guerra, anche perché occupata a lottare contro i<br />

Turchi, e dei benefici <strong>di</strong> quella neutralità poté usufruire anche Brin<strong>di</strong>si. La prosperità<br />

goduta dalla città sotto il dominio veneziano doveva però durare ancora poco. Venezia<br />

fu, nel 1508, attaccata da una Lega <strong>di</strong> innumerevoli nemici coor<strong>di</strong>nati dal papa Giulio II<br />

e guidati dall’imperatore Massimiliano d’Austria ed alla fine dovette soccombere e per<br />

salvare il salvabile sacrificò una buona parte dei propri posse<strong>di</strong>menti, specificamente<br />

quelli che erano reclamati dal papa e dagli Spagnoli, Brin<strong>di</strong>si tra essi. Nel 1509 i<br />

Veneziani, dopo soli tre<strong>di</strong>ci anni <strong>di</strong> formale possesso, consegnarono Brin<strong>di</strong>si agli<br />

Spagnoli e il marchese Della Palude prese in consegna la città con le sue due fortezze,<br />

il castello <strong>di</strong> terra e quello <strong>di</strong> mare, in nome <strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando il Cattolico, re <strong>di</strong> Spagna.<br />

Dopo le <strong>di</strong>spute per la successione al trono dell’impero sacro romano, tra il<br />

vincitore Carlo d’Asburgo – Carlo V, Carlo I <strong>di</strong> Spagna, Carlo II d’Ungheria e Carlo IV <strong>di</strong><br />

Napoli – e il perdente Francesco <strong>di</strong> Francia, questi <strong>di</strong>ede vita alla Lega <strong>di</strong> Cognac anti-<br />

Carlo V, che fu costituita il 22 maggio1526 da Francia, Firenze, Milano, Inghilterra e<br />

Venezia, e ad essa aderì anche lo Stato Pontificio del papa Clemente VI. Quella mossa<br />

del pontefice causò la reazione dell’imperatore, che radunò un esercito <strong>di</strong> mercenari<br />

lanzichenecchi tedeschi per farli <strong>di</strong>scendere in Italia dove, assieme alle truppe<br />

spagnole e napoletane sovrastarono le forze della Lega, <strong>di</strong> scarsa coesione e me<strong>di</strong>ocre<br />

efficienza militare, e dopo qualche mese giunsero alle porte <strong>di</strong> Roma, dove entrarono il<br />

5 maggio 1527 mentre il papa si rifugiava in Castel Sant’Angelo. E i lanzichenecchi,<br />

esasperati per le pessime con<strong>di</strong>zioni sopportate durante la campagna e per i mancati<br />

pagamenti pattuiti, si <strong>di</strong>edero per otto giorni al saccheggio della città e alla violenza<br />

sui suoi abitanti.<br />

149


In seguito agli eventi <strong>di</strong> Roma, nell’agosto del 1527, l’esercito francese <strong>di</strong>scese in<br />

Italia e si unì alle altre forze della Lega sotto la guida del maresciallo d’oltralpe Odet de<br />

Foix, conte <strong>di</strong> Lautrec. Alla fine dell’anno, con la notizia dell’imminente uscita delle<br />

truppe imperiali da Roma, i collegati <strong>di</strong> Cognac decisero <strong>di</strong> portare la guerra al sud,<br />

nello spagnolo regno <strong>di</strong> Napoli. Lautrec quin<strong>di</strong>, intraprese lo spostamento <strong>di</strong> tutte le<br />

forze allegate verso Napoli e ai primi <strong>di</strong> marzo del 1528 entrò nella strategica Puglia,<br />

dove molte città si arresero o si allearono alla Lega: Barletta, Monopoli, Molfetta,<br />

Bisceglie, Giovinazzo, Cerignola, Trani, Andria, Minervino, Altamura, Matera,<br />

Polignano, Mola, Bari e Ostuni. Fece invece resistenza Manfredonia, mentre l’esercito<br />

allegato inseguiva gli imperiali in ritirata verso Napoli e mentre più a sud i Veneziani,<br />

con ingenti forze terrestri – duemila fanti, cento uomini d’arme e duecento cavalli<br />

leggeri – già pensavano fosse giunto il momento sempre atteso <strong>di</strong> riprendersi i porti<br />

perduti nel 1509, tra i quali quello della strategica Brin<strong>di</strong>si.<br />

«Questa città, come le altre <strong>di</strong> Puglia, era sfornita <strong>di</strong> truppe imperiali che erano state<br />

mandate verso la Capitanata al principio della guerra. All’intimazione <strong>di</strong> arrendersi e<br />

non ostante la minaccia <strong>di</strong> dover pagare cinquantamila scu<strong>di</strong>, rispose dapprima<br />

negativamente per timore dei forti, ma poi, aperte trattative, il 29 aprile 1528 Brin<strong>di</strong>si<br />

alzò ban<strong>di</strong>era veneziana, mentre le persone atte alle armi si ritiravano nelle due fortezze<br />

a <strong>di</strong>fendervi la ban<strong>di</strong>era imperiale. I Veneziani appena entrati in città, ove fu posto a<br />

governatore Andrea Gritti, commisero soprusi e angherie contro gli abitanti ai quali già<br />

avevano rovinato le campagne all’intorno, poi misero l’asse<strong>di</strong>o ai castelli stabilendo <strong>di</strong><br />

darvi il 4 maggio un pieno assalto.» [V. VITALE 9 ]<br />

A metà <strong>di</strong> maggio però, l’ammiraglio veneziano Pietro Lando – senza essere riuscito<br />

a espugnare i due castelli, nonostante i tanti e ripetuti attacchi sferzati sia da mare che<br />

da terra – con le sue venti galee, che non potendo entrare nel porto avevano trovato<br />

approdo nella rada <strong>di</strong> Guaceto, fu inviato a Napoli per rafforzarne l’asse<strong>di</strong>o, lasciando<br />

a Brin<strong>di</strong>si i seicento soldati e le tre galee al comando <strong>di</strong> Camillo Orsini senza possibilità<br />

reali <strong>di</strong> poter prendere i castelli. Sopravvenne la <strong>di</strong>sfatta che i collegati, morto Lautrec<br />

<strong>di</strong> malaria, subirono il 30 agosto in Aversa, quando gli imperiali, liberatisi dell’asse<strong>di</strong>o<br />

<strong>di</strong> Napoli, li inseguirono e li sconfissero. In quel contesto così critico per gli<br />

antimperiali,<br />

«a Venezia le stava a cuore sopra a tutto il possesso <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, il miglior porto della<br />

costa, e or<strong>di</strong>nava perciò al provve<strong>di</strong>tore Giovanni Vitturi <strong>di</strong> tentare la conquista dei suoi<br />

castelli rimasti agl’imperiali, autorizzando anche a procurarne la cessione con denaro –<br />

sino a quin<strong>di</strong>cimila ducati – dai castellani ai quali avrebbe anche potuto promettere una<br />

provvigione a vita o condotta <strong>di</strong> truppe per conto della Signoria.» [V. VITALE 9 ]<br />

Brin<strong>di</strong>si, invece, fu riconquistata dagli imperiali e l’anno seguente, quando i<br />

collegati deliberarono tornare alla riscossa contro l’impero, Venezia decise<br />

riprenderla per il suo strategico porto, l’unico sulla costa adriatica pugliese adatto ad<br />

accogliere una grande flotta navale. I confusi eventi militari in Puglia fecero posporre<br />

più volte l’impresa finché, giunto agosto, gli ufficiali francesi e veneti, mantenuti a<br />

oscuro delle trattative in corso tra Carlo V e Francesco I che sarebbero presto sfociate<br />

nella pace <strong>di</strong> Cambrai, pianificarono quell’attacco e <strong>di</strong>sposero che il capitano Orsini<br />

conducesse tutti i suoi millecinquecento fanti su Brin<strong>di</strong>si, e questi si avviò, facendo<br />

tappa a Monopoli.<br />

150


«Il capitano generale, partito da Monopoli la mattina del 12, avendo seco ventinove<br />

galee, il 13 fece scendere tutte le sue genti nel porto <strong>di</strong> Gausiti; al comando del<br />

provve<strong>di</strong>tore Giovanni Contarini l’avanguar<strong>di</strong>a si avvicinò a Brin<strong>di</strong>si che, in<strong>di</strong>fesa, al<br />

comando <strong>di</strong> arrendersi rispose tuttavia andassero a prenderla “la qual risposta fo per<br />

servar l’honor suo con Spagnoli”. Ma poi, avvicinandosi sempre più l’esercito, i citta<strong>di</strong>ni<br />

si arresero chiedendo solo la conferma dei capitoli precedentemente ottenuti dalla<br />

Signoria. Subito entrarono in città quattro compagnie; i soldati francesi si <strong>di</strong>edero al<br />

saccheggio con grande danno dei citta<strong>di</strong>ni e con immenso sdegno del provve<strong>di</strong>tore che<br />

si valse delle genti veneziane per frenarli, onde ne venne un conflitto in cui morirono<br />

quin<strong>di</strong>ci fanti. Anzi per impe<strong>di</strong>re le ruberie e le violenze che continuarono a fare anche<br />

dopo, i Francesi furono mandati ad alloggiare fuori <strong>di</strong> città… Camillo Orsini, arrivato a<br />

Brin<strong>di</strong>si il 18 agosto, ebbe subito il comando dei fanti e perché, presa la città, bisognava<br />

occupare i due castelli che anche l’anno prima erano rimasti agli Spagnuoli, fu deliberato<br />

<strong>di</strong> assalire per primo quello <strong>di</strong> mare detto “dello scoglio”. A ciò attese l’Orsini ponendovi<br />

l’asse<strong>di</strong>o e battendolo con nove cannoni, ma dopo due soli giorni gli mancavano le<br />

munizioni.» [V. VITALE 9 ]<br />

Quin<strong>di</strong> si decise <strong>di</strong> chiamare a rinforzo il capitano papalino Simone Tebal<strong>di</strong>, detto<br />

Romano, il quale presto giunse a Brin<strong>di</strong>si con i suoi 16.000 soldati. Il 28 agosto, in una<br />

ricognizione intorno al castello <strong>di</strong> terra, il comandante pontificio trovò la morte per un<br />

fortunoso colpo <strong>di</strong> artiglieria degli asse<strong>di</strong>ati, proprio quando – con la notizia che a<br />

Cambrai il 5 agosto era stata firmata la pace – giungeva la <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> togliere<br />

l’asse<strong>di</strong>o alla città, nonostante la <strong>di</strong>chiarata reticenza <strong>di</strong> Venezia. Ma per Brin<strong>di</strong>si era<br />

ormai troppo tar<strong>di</strong>: l’uccisione del capitano Romano aveva già scatenato l’inferno.<br />

«Furono della morte <strong>di</strong> costui dalla soldatesca celebrati lagrimosi funerali nella misera<br />

città, contro la quale sfogò il suo sdegno senza timore alcuno della <strong>di</strong>vina giustizia, e<br />

senza pietà degl’innocenti; perciò che i soldati, essendo <strong>di</strong> varie nationi, e liberi dal freno<br />

del capitano, trascorsero nella solita loro indomabile natura, essendo natural con<strong>di</strong>tione<br />

<strong>di</strong> costoro, quando non han capo, che li gui<strong>di</strong>, <strong>di</strong> commettere ogni enormità<br />

imaginabile… Quel furore dunque, che dovevan accenderli contro i loro propri nemici,<br />

che stavano nella fortezza uccisori del loro duce, rivolsero contro gli amici della città,<br />

che spontaneamente gl'havean raccolti nelle loro case, e dando nome <strong>di</strong> vendetta alla<br />

loro avaritia, e <strong>di</strong> giustitia alla loro perfi<strong>di</strong>a, s'incrudelirono nell’innocente città, e nella<br />

robba de' citta<strong>di</strong>ni… Cominciò a darsi sacco <strong>di</strong> notte, per celar forse col buio delle<br />

tenebre, la crudeltà ch’usavano. Non si possono senza orrore descrivere, né meritano<br />

esser u<strong>di</strong>te da orecchie umane le particolarità delle sceleratezze commesse da quella<br />

soldatesca <strong>di</strong>ss'humanata, e feroce, avida non men <strong>di</strong> sangue, che <strong>di</strong> ladronecci. Non<br />

perdonarono a cosa alcuna, humana o <strong>di</strong>vina, furono gl’infelici vecchi, e l'innocente<br />

vergini tratti per barba e per crine, acciò rivelassero le nascoste ricchezze, furono<br />

abbattuti i chiusi claustri, e fracassate le caste celle delle spose <strong>di</strong> Dio. I tempi con<br />

orren<strong>di</strong> sacrilegi profanati; furono fatte in minutie i tabernacoli, e buttando per terra le<br />

sacre hostie consacrate, si presero i piccoli vasi d'argento ove stavan riposte. Eccessi<br />

invero abominevoli, esecran<strong>di</strong>, per li quali meritavano aprirsi le voragini della terra,<br />

esser da quelle ingoiati; o esser fulminati dal cielo, o strangolati dalle furie; ma si <strong>di</strong>fferì<br />

dalla <strong>di</strong>vina giustitia il dovuto castigo ad altro tempo per esser più severo degli<br />

accennati… Restò per qualche conforto alla depredata città il cadavero del general<br />

nemico, che fu seppellito nella chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale in un deposito, dal canto<br />

destro nell'entrar della porta principale della chiesa, dove fino a tempi nostri si lesse<br />

quest'iscrittione nel sasso: Hic iacet Simeon Thebaldus Romanus, imperator exercitus.»<br />

[A. DELLA MONACA 8 ].<br />

151


La pace <strong>di</strong> Cambrai, firmata alle spalle <strong>di</strong> Venezia, per quel che riguardava la Puglia<br />

stabiliva non solo la cessione <strong>di</strong> Barletta e delle altre terre occupate dai Francesi, ma<br />

anche <strong>di</strong> Trani, Monopoli e quant’altro appartenesse ai Veneziani. E così, Brin<strong>di</strong>si,<br />

dopo apprensive consultazioni indugi e ripensamenti del governo della Repubblica, fu<br />

finalmente abbandonata dai soldati veneziani nei primi giorni <strong>di</strong> settembre.<br />

Quando il castellano spagnolo Hernando Alarcon rientrò a Brin<strong>di</strong>si, incontrò la città<br />

semi<strong>di</strong>strutta e si sommò alla richiesta inviata dai citta<strong>di</strong>ni al re Carlo, avallata dal<br />

viceré <strong>di</strong> Napoli principe d’Orange, affinché fosse annullata la condanna per ribellione<br />

che era stata inflitta alla città dal commissario Girolamo Morrone – essendo stata<br />

considerata fiancheggiatrice <strong>di</strong> francesi veneziani e papalini per la sua reiterata resa<br />

alle truppe della Lega – segnalando, a sostegno della sua posizione, proprio l’epica<br />

resistenza che avevano mostrato entrambi i suoi castelli, lottando fedeli all’imperatore<br />

senza mai arrendersi agli allegati. Per buona ventura dei Brin<strong>di</strong>sini, la supplica fu<br />

accolta da Carlo V e alla città furono restituiti i privilegi che nel passato erano stati<br />

concessi dai re d’Aragona.<br />

«Anche quest'ultimo tentativo <strong>di</strong> penetrazione nella Puglia e conquista <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, non<br />

fu più fortunato dei precedenti per Venezia, la quale d'allora in poi rinunzia al suo<br />

<strong>di</strong>segno. Resta dei suoi tentativi il ricordo del buon governo da essa tenuto nelle terre<br />

occupate [Brin<strong>di</strong>si tra esse], dei molti provve<strong>di</strong>menti adottati per lenire la miseria delle<br />

popolazioni, delle fortificazioni e delle altre opere costruite a <strong>di</strong>fesa <strong>di</strong> quelle terre, delle<br />

quali mirava a conquistare la fiducia e l'attaccamento. Ma, insieme con tutto ciò,<br />

dovrebbe pure rimanere il ricordo che, anche se si vuole in<strong>di</strong>rettamente, Venezia ha<br />

preservato le terre pugliesi dalla invasione e dalla occupazione dei Turchi. Non v'è alcun<br />

dubbio che, con la condotta allora seguita, Venezia faceva soprattutto i suoi interessi,<br />

che questa fu la guida costante della sua politica; ma è certo pure che, occupando in<br />

anticipo i migliori punti della Puglia, quando si presentava il pericolo che su <strong>di</strong> essi,<br />

approfittando del <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne e della debolezza del reame, si gettassero i Turchi, Venezia<br />

ha scongiurato quello che sarebbe stato non solo un gravissimo danno per lei, ma anche<br />

una grande iattura per l'Italia. In conclusione, la politica <strong>di</strong> Venezia tra il cadere del<br />

Quattrocento e i principi del Cinquecento, coincidendo gl'interessi della Repubblica con<br />

quelli della Puglia, ha avuto risultati benefici per l'una e per l’altra: alla prima ha<br />

risparmiato la chiusura dell'Adriatico che avrebbe paralizzata la sua libertà; a favore<br />

della seconda ha impe<strong>di</strong>to che le terre pugliesi cadessero in possesso della Mezzaluna, o<br />

per lo meno che a queste toccassero gli orrori e le stragi da cui fu accompagnata la presa<br />

<strong>di</strong> Otranto.» [A. PACELLA 10 ]<br />

«Senza la potenza marittima <strong>di</strong> Venezia, è facile presunzione che il Canale d’Otranto<br />

sarebbe stato varcato ben più in forze <strong>di</strong> come lo fu, e che l’Adriatico tutto sarebbe<br />

<strong>di</strong>venuto un lago ottomano. Venezia, presente non solo sulla sua laguna ma giù giù per<br />

tutta la duplice costa adriatica e nelle note sue basi stesse <strong>di</strong> Puglia, nonché sul mare <strong>di</strong><br />

qua e <strong>di</strong> là del Canale, salvò sé e l’Italia da quel pericolo; eppure alla politica veneziana<br />

non meno che a quella fiorentina, nel gioco delle rivalità fra gli Stati d’Italia prima del<br />

suo asservimento, il nostro Salento deve l’episo<strong>di</strong>o più noto <strong>di</strong> questa nuova fase della<br />

sua <strong>storia</strong>, l’attacco e il martirio <strong>di</strong> Otranto nel 1480.» [F. GABRIELI 11 ]<br />

Resterà, comunque, e forse per sempre, il legittimo dubbio sulla eventualità che un<br />

<strong>di</strong>verso atteggiamento <strong>di</strong> Venezia in quella circostanza – magari con meno ragion <strong>di</strong><br />

stato e con un po’ più <strong>di</strong> solidarietà cristiana – avrebbe potuto evitare agli Otrantini<br />

quella trage<strong>di</strong>a immane. Tuttavia, non v’è dubbio che la ragion <strong>di</strong> stato e, forse ancor<br />

152


più, il portafoglio <strong>di</strong> stato, fu per Venezia, nel bene e nel male, il costante life motive, il<br />

suo vero motore propulsore, durante tutti quei vari secoli che accompagnarono la sua<br />

sfolgorante parabola storica.<br />

Altrettanto e ancor più <strong>di</strong>fficile sarebbe, infine, tentar <strong>di</strong> emettere un giu<strong>di</strong>zio<br />

globale e definitivo sulle plurisecolari relazioni intercorse – e qui passate<br />

sommariamente in rassegna – tra la plurimillenaria Brin<strong>di</strong>si e la potente Venezia,<br />

oppure tra i Brin<strong>di</strong>sini e i Veneziani. Relazioni che per così tanti secoli si susseguirono<br />

complesse e articolate, la cui evoluzione – con frequenza involuzione – fu molto spesso<br />

controllata, quando non <strong>di</strong>rettamente dettata, dalla personalità dei principi <strong>di</strong> turno<br />

che la <strong>storia</strong> via via pose a governare la città più orientale d’Italia, nonché dagli<br />

aggrovigliati scenari internazionali nel contesto dei quali le due città si trovarono,<br />

conscia o inconsciamente, <strong>di</strong>retta o in<strong>di</strong>rettamente, coinvolte. Relazioni, infine,<br />

destinate a proseguire nei secoli e le cui tracce in Brin<strong>di</strong>si e nei Brin<strong>di</strong>sini si sarebbero<br />

rivelate indelebili, superando la fine della Serenissima Repubblica e del Regno <strong>di</strong><br />

Napoli a mano <strong>di</strong> Napoleone, nonché la fine del restaurato Regno delle Due Sicilie e<br />

dell’austriaca occupazione del Veneto, fino alla comune e solidaria appartenenza al<br />

Regno prima e alla Repubblica d’Italia dopo.<br />

BIBLIOGRAFIA:<br />

1 A. DANDOLO Chronica per extensum descripta aa. 46‐1280 d.C. a cura <strong>di</strong> E. PASTORELLO - 1938<br />

2 G. GUERRIERI Le relazioni tra Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530 - 1903<br />

3 C. CARITO Brin<strong>di</strong>si in età sveva in “Atti del II convegno nazionale <strong>di</strong> ricerca storica su Federico<br />

II e Terra d'Otranto, 16 e 17 <strong>di</strong>cembre 1994” - 2000<br />

4 G. I. CASSANDRO Una controversia tra Venezia e Brin<strong>di</strong>si in “Rinascenza Salentina” - 1937<br />

5 A. ZAMBLER & F. CARABELLESE Le relazioni commerciali fra la Puglia e la Repubblica <strong>di</strong> Venezia<br />

dal secolo X al XV. Ricerche e Documenti - 1898<br />

6 D. MALIPIERO Annali Veneti dall’anno 1457 al 1500 con prefazione <strong>di</strong> A. Sagredo - 1843<br />

7 A. FOSCARINI Venezia e Terra d’Otranto nel Cinquecento in “Stu<strong>di</strong> Salentini” - 1994<br />

8 A. DELLA MONACA Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - 1674<br />

9 V. VITALE L'impresa <strong>di</strong> Puglia 1528‐1529 in “Nuovo Archivio Veneto” - 1907<br />

10 A. PACELLA La Repubblica <strong>di</strong> Venezia e la Puglia in “Rinascenza Salentina” - 1934<br />

11 F. GABRIELI Il Salento e l'Oriente Islamico ‐ 1956<br />

Espansione massima <strong>di</strong> Venezia ‐ Sec. XVI<br />

153


1595 ‐ 1600: <strong>Pagine</strong> <strong>di</strong> cronaca brin<strong>di</strong>sina <strong>di</strong> fine Secolo XVI<br />

Pubblicato.su.il7.Magazine.del.18 gennaio 2019<br />

Nel XVI secolo Brin<strong>di</strong>si faceva parte del viceregno spagnolo <strong>di</strong> Napoli. Gli Spagnoli<br />

infatti, all’inizio del secolo – nel 1509 – erano subentrati agli Aragonesi sul trono <strong>di</strong><br />

Napoli, e ci sarebbero poi restati per duecento anni. Nel trascorso <strong>di</strong> quel primo secolo<br />

<strong>di</strong> dominazione spagnola sul meri<strong>di</strong>one italiano, a Madrid il trono <strong>di</strong> Spagna era stato<br />

occupato, in successione, da Fer<strong>di</strong>nando il cattolico, Carlo V e Felipe II, mentre furono<br />

molti <strong>di</strong> più i viceré spagnoli che si avvicendarono a Napoli. Nel 1595 era viceré<br />

Enrique de Guzman e il regio governatore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si era Francisco Maldonado de<br />

Salazar. Le altre principali autorità citta<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> nomina regia erano i castellani <strong>di</strong> terra<br />

(del castello svevo) e <strong>di</strong> mare (del castello alfonsino), il giu<strong>di</strong>ce e l’arcivescovo. Il<br />

sindaco, invece, era nominato dal preside della provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto,<br />

s’inse<strong>di</strong>ava il 1º settembre e durava in carica un anno. Sul finire del 1595 era sindaco<br />

Bartolomeo Gennuzzo, il castellano <strong>di</strong> terra era Vicente Castelloli, quello <strong>di</strong> mare<br />

Girolamo de Herrera, il giu<strong>di</strong>ce era Vincenzo Pitigliano e l’arcivescovo era Andrés de<br />

Ayar<strong>di</strong>, il primo arcivescovo della sola Brin<strong>di</strong>si, dopo che Oria era <strong>di</strong>ventata<br />

suffraganea dell’arci<strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> Taranto.<br />

Ed è proprio con l’arcivescovo Ayar<strong>di</strong>, che inizia la serie dei fatti che qui si raccontano,<br />

susseguitisi in città durante quell’ultimo lustro <strong>di</strong> secolo. Fatti del tutto or<strong>di</strong>nari<br />

alcuni, <strong>di</strong> cui si tralascia il racconto, e meno or<strong>di</strong>nari e finanche <strong>di</strong> cronaca nera altri,<br />

tutti registrati nella “Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1529‐1787” scritta dai due<br />

sacerdoti brin<strong>di</strong>sini Pietro Cagnes e Nicola Scalese e pubblicata da Rosario Jurlaro nel<br />

1978.<br />

Fatti, quelli che si trascrivono <strong>di</strong> seguito, che in qualche modo assemblano una specie<br />

<strong>di</strong> notiziario brin<strong>di</strong>sino <strong>di</strong> quel lustro, uno spaccato sociopolitico della città, un riflesso<br />

<strong>di</strong> realtà e problematiche urbane <strong>di</strong> un’epoca lontana, anche se comunque non da<br />

troppo tempo scomparse o, forse, non ancora scomparse del tutto: delitti passionali,<br />

invi<strong>di</strong>e e xenofobie, ragazze madri e neonati abbandonati, <strong>di</strong>ritti dei lavoratori violati,<br />

prelati d’ogni rango coinvolti in storie criminose, giochi d’azzardo, militari che<br />

invadono le sfere civili, tempi lunghissimi per eseguire opere pubbliche, vertenze e<br />

controversie economiche tra pubblico e privato, eccetera.<br />

«A 4 settembre 1595 passò da questa a miglior vita l’arcivescovo Andrea de Aijardes, il<br />

quale fu avvelenato, dove ne fu inquisito Giovanni Figueroa, che si <strong>di</strong>ceva, che lui<br />

l’avesse fatto avvelenare, per la morte del quale venne in questa città un consigliero da<br />

Napoli, Giovanni Tomaso Vespoli, il quale carcerò detto Giovanni, e lo portò in Napoli,<br />

insieme con Matteo della Ragione per detta causa. Il 20 ottobre i me<strong>di</strong>ci Giovanni<br />

Maria Moricino e Marcello Barlà furono carcerati nel castello <strong>di</strong> terra per or<strong>di</strong>ne del<br />

regio consigliero per commissione <strong>di</strong> S. Eccellenza soluti vinculis, et catenis si<br />

obbligano <strong>di</strong> tener loco carceris detto castello sotto la pena <strong>di</strong> ducati 2000 per cui<br />

entraron fideiussori dottor Antonio Leanza, Giovanni Battista de Napoli, Giovanni<br />

Andrea Monetta, ed Angelo Pappalardo.»<br />

154


[Si trattò del giallo più clamoroso del secolo. Quel presunto omici<strong>di</strong>o per<br />

avvelenamento dell’arcivescovo Andres de Ayar<strong>di</strong>, infatti, rimase giu<strong>di</strong>zialmente<br />

irrisolto e i suoi due me<strong>di</strong>ci, entrambi illustri personaggi brin<strong>di</strong>sini, sospettati e<br />

incarcerati, furono poi rilasciati perché poterono provare la loro estraneità. Per<br />

quanto attiene la sorte <strong>di</strong> Giovanni Figueroa, questi non fece più ritorno a Brin<strong>di</strong>si, ma:<br />

“Si è pure sospettato che i motivi de’ <strong>di</strong>sgusti tra l’arcivescovo Andrea e Giovanni<br />

Figueroa fossero stati, perché quegli da <strong>di</strong>ligente ed ottimo prelato, chiedeva dal<br />

Figueroa stretto conto de’ mobili della Chiesa involati durante la lunga vedovanza <strong>di</strong><br />

circa sei anni seguita alla morte dell’anteriore arcivescovo, Bernar<strong>di</strong>no de Figueroa, <strong>di</strong><br />

lui zio"].<br />

Il 1º settembre 1596 subentrò a sindaco Giovanni Battista de Napoli: «A dì 19<br />

novembre, giorno <strong>di</strong> martedì, ad ore 18 fu ammazzato Daniele Coci arci<strong>di</strong>acono e<br />

vicario capitolare, se<strong>di</strong>a vacante, per averlo trovato Luca Ernandez in casa <strong>di</strong> Giovanni<br />

Tafuro con sua sorella, moglie <strong>di</strong> detto Giovanni, dove detto Luca fu pigliato carcerato<br />

da Spagnoli della compagnia, e portato a Lecce, e dopo in Napoli.»<br />

Il 1º settembre 1597 subentrò a sindaco Giovanni Antonio Piscatore: «Il 16 ottobre il<br />

maestro Pietro de Tuccio prende l’appalto, per 80 ducati, <strong>di</strong> costruire il ponte levatoio<br />

al castello dell’Isola [una delle ultime strutture a completamento del Forte a mare la<br />

cui costruzione, laboriosa e complessa, si era protratta per quasi 50 anni] … Giovanni<br />

Battista Monticelli, che aveva combattuto con propria compagnia a Lepanto nel 1570,<br />

ed in altri tempi in altre battaglie, ottiene per la sua famiglia e per sé la patente <strong>di</strong><br />

nobiltà nonostante l’opposizione dei nobili brin<strong>di</strong>sini Sebastiano del Balzo e Teodoro<br />

Pando che <strong>di</strong>cevano il padre suo Pietro fosse stato maestro d’ascia seu mannese,<br />

povero e vile… I Domenicani protestarono che le case <strong>di</strong> loro proprietà sono quasi<br />

tutte rovinate per la malhabitazione <strong>di</strong> spagnoli et <strong>di</strong> altre genti <strong>di</strong> presi<strong>di</strong>o quali<br />

vengono e vanno subitamente e mal trattano detti luoghi, et case, così<br />

medesimamente de vigneti, territori, in città situati.»<br />

Il 1º settembre 1598 subentrò a sindaco Antonio Leanza, nobile e nello stesso anno<br />

subentrò a governatore Giovanni Francesco Carducci: «A dì 15 settembre passò da<br />

questa a miglior vita la buona memoria del nostro re Filippo II, e successe il figlio<br />

Filippo III. Si fecero le esequie in Brin<strong>di</strong>si, a 10 novembre con aversi posto <strong>di</strong> lutto il<br />

governo a spese della città… A dì 13 novembre venne l’arcivescovo Giovanni Petrosa, il<br />

quale <strong>di</strong>morò a S. Leucio, cioè nelli Cappuccini una mano <strong>di</strong> giorni, e non entrò nella<br />

città insino a 22 <strong>di</strong> detto mese… Il 12 febbraio 1599 il frate agostiniano Oronzo Gaza si<br />

trova carcerato nel castello grande sotto la custo<strong>di</strong>a del castellano… Il 13 giugno, è<br />

battezzata una figlia naturale <strong>di</strong> Caterina, schiava mora <strong>di</strong> Visconte Rizzago,<br />

commerciante veneto <strong>di</strong>morante in Brin<strong>di</strong>si.»<br />

Il 1º settembre 1599 subentrò a sindaco Giuseppe Pascale e nello stesso anno<br />

subentrò a viceré Fernando Ruiz de Castro: «Il 20 settembre è gran pericolo <strong>di</strong> rivoltar<br />

la città perché il castellano <strong>di</strong> mare aveva or<strong>di</strong>nato ai suoi soldati <strong>di</strong> togliere il danaro<br />

delle gabelle del mosto <strong>di</strong> vino ai carrettieri che lo portavano ad alcuni privati che non<br />

godevano <strong>di</strong> franchigia ed aveva anche minacciato <strong>di</strong> incarcerare gli arrendatori della<br />

stessa gabella… Tra marzo e aprile dell’anno 1600 vi sono vertenze tra l’arrendatore<br />

dei sali per la provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto Scipione de Raho, i credenzieri del regio<br />

fondaco dei Sali e saline in Brin<strong>di</strong>si Vittorio Pascale, Antonio Sguri e Lattanzio<br />

155


Tarantino, il fondacchiere Camillo Coco e gli amministratori della città… Il 26 maggio<br />

Pasquale Villanova fa pubblica promessa <strong>di</strong> non giuocare ai da<strong>di</strong> né ad altro giuoco,<br />

sotto pena <strong>di</strong> far eseguire per la chiesa del Carmine un quadro <strong>di</strong> sua proprietà del<br />

valore <strong>di</strong> venticinque ducati.»<br />

Il 1º settembre 1600 subentrò a sindaco Giovanni Battista Monetta e nello stesso anno<br />

subentrò a governatore Luigi de Benardes: «Il 24 ottobre è battezzata una figlia<br />

naturale <strong>di</strong> Speranza, schiava mora <strong>di</strong> Giovanni Camillo Coci… Sono anche battezzati<br />

Camilla “exposita cuius parentes ignorantur” e Francesco “naturalis filius universitatis”.<br />

Molti altri battesimi <strong>di</strong> “espositi” [in genere neonati da ragazze madri che venivano<br />

abbandonati, lasciati – esposti – sulla ruota] si ritrovano anche in varie date<br />

successive, un fenomeno spesso legato agli arrivi in Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> nuove compagnie <strong>di</strong><br />

soldati, spagnoli e a volte d’altri paesi, che si avvicendavano <strong>di</strong> continuo.»<br />

A complemento <strong>di</strong> questo peculiare “notiziario” cinquecentesco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, e per<br />

meglio intendere quali erano all’epoca “i venti” che aleggiavano sulla città, è<br />

interessante rileggere il primo paragrafo <strong>di</strong> un articolo scritto nel 1978 da Giacomo<br />

Carito a proposito della “cultura a Brin<strong>di</strong>si dalla seconda metà del XVI secolo in<br />

avanti”:<br />

«Nel XVI secolo si propongono in Brin<strong>di</strong>si problemi <strong>di</strong> non poco momento: la<br />

formazione <strong>di</strong> gruppi eretici, l’impoverimento economico determinato dall’espulsione<br />

degli ebrei, la definizione <strong>di</strong> un nuovo ruolo per la città adriatica dopo che<br />

l’espansione turca – impedendo il “trafficare nell’Illirico, nella Grecia e nell’Egitto –<br />

ridusse la negotiatione in piccolissimi termini, e fù à poco, à poco tralasciato da<br />

Brun<strong>di</strong>sini il maritimo negotio”. Generalmente, le scelte e le impostazioni che si<br />

assumono nel corso del XVI secolo finiscono con l’essere determinanti e con<strong>di</strong>zionanti<br />

anche per i secoli successivi: così è per la ridefinizione militare del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e<br />

per la sempre più marcata presenza, non solo in termini religiosi ma anche culturali<br />

ed economici, delle strutture ecclesiastiche.»<br />

Ed è anche giusto, infine, ricordare che in quel lustro <strong>di</strong> fine secolo, tra i brin<strong>di</strong>sini si<br />

annoveravano non pochi personaggi <strong>di</strong> grande levatura, tra i quali, i già citati Gio<br />

Battista Monticelli, intrepido comandante militare e lo scrittore storico Giò Maria<br />

Moricino, i letterati Nicolò Taccone e Lucio Scarano, il giurista Ferrante Fornari e,<br />

niente meno che Giulio Cesare Russo – Fra’ Lorenzo – il più illustre figlio <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong><br />

tutti i tempi.<br />

La Cronaca dei Sindaci Il Viceré Guzman Ferrante Fornari Fra’ Lorenzo<br />

156


Il Forte a mare sull’isola <strong>di</strong> San Andrea – contiguo al preesistente Castello Alfonsino –<br />

La sua costruzione culminò alla fine del XVI secolo dopo quasi 50 anni <strong>di</strong> laboriosi e<br />

complicati lavori, eseguiti sul progetto iniziale <strong>di</strong> Antonio Conde e le successive mo<strong>di</strong>fiche<br />

introdotte da vari tra i più rinomati architetti militari dell’epoca, che via via intervennero<br />

157


Compie 400 anni ‘quasi’ al suo posto la fontana Pedro Aloysio De Torres<br />

Pubblicato.su.il7.Magazine.del.23 novembre.2018<br />

Il famoso libro “Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si” fu<br />

pubblicato nel 1674 dal padre Andrea Della Monaca, Provinciale dei Carmelitani <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si. Come ben risaputo, quel libro fu plagiato dall’ine<strong>di</strong>to “Antiquita’ e<br />

vicissitu<strong>di</strong>ni della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si” <strong>di</strong> Giovanni Maria Moricino, me<strong>di</strong>co e filosofo<br />

brin<strong>di</strong>sino, morto nel 1604. Del Della Monica, pertanto, risulta originale solo l’XI<br />

Capitolo del libro V, l’ultimo, che tratta degli avvenimenti in Brin<strong>di</strong>si dal 1604 al 1671.<br />

Contemporaneo quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> quegli avvenimenti accaduti mentre la città apparteneva<br />

allo spagnolo viceregno <strong>di</strong> Napoli, Della Monaca ci lasciò questa descrizione,<br />

certamente la più antica in assoluto che si ha, della fontana monumentale sita<br />

nell’attuale piazza Vittoria:<br />

«Pativa la Città d’Acqua, e sentivano non poco scommodo i Citta<strong>di</strong>ni nel<br />

mandare a pigliarla hor d’un Aquedotto, e hor d’un altro, e particolarmente da<br />

quello, che presso le mura della Città scorreva… però nell’anno della nostra<br />

salute 1618 governando la Città per il Re uno spagnuolo <strong>di</strong> gran prudenza,<br />

bontà, integrità e sopra tutto <strong>di</strong> gran resolutione, chiamato Pietro Aloysio de<br />

Torres considerando tanto <strong>di</strong>fetto in un’habitazione riguardevole, si pose in<br />

pensiero <strong>di</strong> darci opportuno rime<strong>di</strong>o, che fu <strong>di</strong> condurre l’acqua dentro la<br />

Città, e <strong>di</strong>stribuirla per <strong>di</strong>versi luoghi per utile de’ Citta<strong>di</strong>ni… però per non<br />

aggravare il publico per la spesa, che doveva farsi, la <strong>di</strong>stribuì fra particolari<br />

Citta<strong>di</strong>ni, secondo le forze <strong>di</strong> ciascheduno, segnando <strong>di</strong> color rosso le giornate<br />

nei Muri delle Case, che con ogni puntualità faceva pagare secondo i giorni da<br />

lui stabiliti. Si condusse in questa maniera con ogni celerità l’Acqua per nuovi<br />

condotti, e si formò la prima Fontana, che menava con due butti d’acqua in<br />

una strada maestra per <strong>di</strong>ritta linea della muraglia predetta [Bastione San<br />

Giorgio]. Di là ripigliandosi l’istesso camino, la condusse nella Piazza Maggiore<br />

[Piazza Vittoria], in mezzo della quale si fabricò il luogo della caduta<br />

dell’acque tutto <strong>di</strong> Marmi, e prima si sollevò una Colonna, che servì per base<br />

d’una gran conca <strong>di</strong> bellissimo marmo, che da quattro teste <strong>di</strong> Cavalli lavorate<br />

<strong>di</strong> bronzo, gitta abbondantissime acque, e doppo sin’alzò più sù un'altra<br />

Colonna benché più delicata della prima, dalla quale scorressero l’acque<br />

nell’imme<strong>di</strong>ato Vaso grande predetto dalla bocca <strong>di</strong> quattro mezzi Cavalletti<br />

<strong>di</strong> bronzo col Capitello vagamente lavorato, e cinto d’una Corona Reale.<br />

L’iscrizione scolpita in detto Fonte per restar memoria à posteri d’un tanto<br />

beneficio è la seguente:<br />

“Petro Aloysio De Torres Praetori, quod...”»<br />

L’iscrizione originale, tutt’ora ben leggibile scolpita sull’esterno della bella vasca<br />

marmorea, è in latino e tradotta all’italiano è la seguente:<br />

158


PIETRO LUIGI TORRES GOVERNATORE, PERCHÉ EMULANDO I ROMANI COLLA SUA<br />

AUTORITÀ E PERSPICACIA, E CON GLI AUSPICI DEL RE FILIPPO III E DEL VICERÈ PIETRO<br />

GIRON CONTE DI OSSUNA, NONCHÉ COLL’OPERA E COL DENARO DEI CITTADINI,<br />

RESTAURAVA L’ANTICO ACQUEDOTTO ROVINATO PER L’INGIURIA DEI TEMPI E DI<br />

GUGLIELMO IL MALO E, RIPARANDO I CUNUCULI DELLA VECCHIA CONDUTTURA, NE<br />

COSTRUIVA UNA NUOVA, E PER VIA DI ALTRE TUBATURE E SALIENTI, PER TORTUOSO<br />

CAMMINAMENTO, RICONDUCEVA L’ACQUA NELLA CITTÀ: ORDINA IL POPOLO BRINDISINO,<br />

MEMORE E GRATO PER TANTA COMODITÀ ED ORNAMENTO. NELL’ANNO DELLA SALUTE 1618<br />

La ‘vaga lavorazione’ del capitello, in<strong>di</strong>cata da Della Monaca, si riferisce allo scudo del<br />

re Felipe III, solo abbozzato sormontato da tre elmi coronati con un cordone che lo<br />

circonda. Sull’esterno della vasca, invece, è chiaramente scolpito lo scudo aral<strong>di</strong>co del<br />

capitano De Torres, con cinque torri merlate. La vasca che costituisce il corpo<br />

principale della fontana, la gran conca, è <strong>di</strong> fattura anteriore alla fontana e quasi<br />

sicuramente appartenne a un antico fonte battesimale, forse proveniente dal<br />

tempietto <strong>di</strong> san Giovanni al sepolcro, ritenuto essere stato il battistero della vicina<br />

Cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e<strong>di</strong>ficata nel XII secolo. La più ampia vasca marmorea inferiore,<br />

che raccoglie l’acqua che zampilla dalle quattro bocche <strong>di</strong> bronzo incastonate nella<br />

vasca superiore, è racchiusa da una sorta <strong>di</strong> corona fatta con mezze giare tagliate<br />

verticalmente e rinforzate con pezzetti <strong>di</strong> colonnine, tutte anch’esse <strong>di</strong> marmo e quasi<br />

certamente <strong>di</strong> riuso da epoca romana.<br />

In quell’anno 1618, re <strong>di</strong> Spagna era Felipe IV (Filippo III <strong>di</strong> Napoli), viceré <strong>di</strong> Napoli<br />

era Pedro Giron e governatore <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si era il capitano Pedro Aloysio De Torres. Era<br />

sindaco della città Cesare D’Aloysio ed era arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si lo spagnolo<br />

Giovanni Falces. Il capitano Pedro Aloysio De Torres, a Brin<strong>di</strong>si dal 1615, fu<br />

probabilmente il migliore dei governatori che la città ebbe durante i duecento anni del<br />

periodo vicereale e l’episo<strong>di</strong>o relativo al progetto e alla costruzione della fontana, ne<br />

costituisce certamente una buona prova.<br />

In quegli anni, peraltro, Brin<strong>di</strong>si si era ripopolata e contava con quasi 10.000 abitanti,<br />

un picco non destinato a mantenersi troppo a lungo e che dopo un altro pronunciato<br />

deca<strong>di</strong>mento sarebbe ritornato solo sul finire del regno napoletano, nel 1860.<br />

E nel 1618 mancava solo un anno alla conclusione della costruzione, iniziata nel 1609,<br />

della chiesa Santa Maria degli Angioli con l’annesso monastero delle sorelle<br />

cappuccine, opere maestose volute e promosse dall’illustre brin<strong>di</strong>sino Lorenzo Russo,<br />

il futuro san Lorenzo da Brin<strong>di</strong>si, già Generale dell’Or<strong>di</strong>ne dei Cappuccini, che doveva<br />

morire a Lisbona l’anno seguente, nel giorno del compleanno 60.<br />

La fontana De Torres, nome con cui passò alla <strong>storia</strong>, continuò per secoli a fornire la<br />

sua preziosa acqua ai brin<strong>di</strong>sini con due sole interruzioni, e continua a farlo tutt’ora,<br />

anche se oggi a solo scopo ornamentale. Nel marzo del 1715 la fontana smise <strong>di</strong><br />

erogare acqua per qualche mese finché, a fine ottobre, fu ripristinata. Nel 1729 invece,<br />

una nuova interruzione del servizio durò molto <strong>di</strong> più, sette anni, fino al 1736.<br />

Quella in<strong>di</strong>cata dal Della Monaca con il nome spagnoleggiante <strong>di</strong> piazza Maggiore,<br />

all’epoca aveva forma quadrata ma fu, in realtà, denominata in vari altri mo<strong>di</strong>, piazza<br />

dei commestibili, mercato, rustica, da basso o della plebe o del popolo e poi, nel 1922,<br />

demolito un isolato <strong>di</strong> vecchie botteghe, fu integrata con la a<strong>di</strong>acente piazza del Se<strong>di</strong>le,<br />

detta anche urbana e da alto o dei nobili, per così conformare l’attuale piazza Vittoria.<br />

159


Piazza Vittoria nel 1926: con la fontana De Torres ancora al suo posto originale<br />

e anche il monumento ai caduti <strong>di</strong> Vitantonio De Bellis<br />

Piazza Vittoria nel <strong>di</strong>cembre del 1928: con la fontana De Torres al suo nuovo posto<br />

160


Avendo deciso <strong>di</strong> collocare al centro della nuova piazza il monumento ai caduti, il<br />

Comune deliberò togliere la fontana dalla piazza e spostarla a piazza Anime. Però, il<br />

Ministero della Pubblica Istruzione e molti brin<strong>di</strong>sini si opposero a quel progetto e tra<br />

<strong>di</strong> loro il carismatico e battagliero canonico Pasquale Camassa, papa Pascalinu, il quale<br />

riuscì finalmente a impe<strong>di</strong>re che la storica fontana scomparisse dalla piazza<br />

emblematica <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Così, nel 1926, il monumento ai caduti dello scultore<br />

Vitantonio De Bellis fu eretto nel centro della piazza, <strong>di</strong> fronte al palazzo delle poste, e<br />

la fontana De Torres rimase al suo posto, alcuni metri più in giù rispetto al<br />

monumento, ma ci rimase ancora per poco. Quel monumento ai caduti non fu mai<br />

inaugurato e fu venduto alla città <strong>di</strong> Erchie perché ritenuto poco maestoso per<br />

Brin<strong>di</strong>si, mentre il Comune decise commissionarne un altro allo scultore brin<strong>di</strong>sino<br />

Edgardo Simone, per essere però collocato in piazza Crispi, oppure in piazza Dionisi.<br />

Liberato così lo spazio centrale in piazza Vittoria, il Comune deliberò nuovamente<br />

spostare la fontana De Torres, però questa volta <strong>di</strong> soli pochi metri, quelli necessari a<br />

collocare la fontana nel centro della piazza, proprio nel posto in cui era stato eretto il<br />

primo monumento ai caduti. La decisione fu sopportata anche da considerazioni <strong>di</strong><br />

or<strong>di</strong>ne tecnico, giacché la ampia vasca inferiore della fontana, nella sua posizione<br />

originale era molto bassa e perciò restava spesso invasa da fango, e quant’altro,<br />

convogliata dalle acque piovane e <strong>di</strong> scolo.<br />

Il canonico Camassa nuovamente volle opporsi alla delibera e, nel mese <strong>di</strong> maggio del<br />

1928, pubblicò un opuscolo stampato nella Tipografia del Commercio Vincenzo<br />

Ragione, intitolato “Una fontana storica” in cui sosteneva la sua posizione, citando a<br />

sostegno anche le opinioni <strong>di</strong> eminenti scientifici, italiani e stranieri, contrari ad ogni<br />

eventuale spostamento e concludendo: «Ho creduto opportuno riferire i giu<strong>di</strong>zi che<br />

intorno alla fontana De Torres hanno autorevolmente espresso i sullodati insigni<br />

archeologi e cultori della <strong>storia</strong> dell’arte, per <strong>di</strong>mostrare che, se da un decennio,<br />

serenamente affrontando l’impopolarità e il sorriso canzonatorio <strong>di</strong> alcuni amici, ho<br />

doverosamente lottato per la conservazione e inamovibilità dello storico monumento,<br />

mi trovo in ottima compagnia». Ma questa volta papa Pascalinu non ebbe successo: il<br />

10 ottobre 1928, come immortalato dal fotografo Pietro Acquaviva, la fontana De<br />

Torres fu traslata dalla sua posizione originaria all’attuale: un po’ più elevata, ma solo<br />

pochi metri più in là. E papa Pascalinu - credo - nel suo intimo si consolò sapendo che,<br />

definitivamente, aveva comunque scongiurato per sempre ogni eventuale proposito <strong>di</strong><br />

spostare la fontana fuori dalla sua piazza, che era stato da sempre - credo - il suo<br />

obiettivo principale.<br />

Scudo <strong>di</strong> Felipe III Primo piano della vasca superiore Scudo <strong>di</strong> P. Aloysio De Torres<br />

161


Spostamento della fontana il 10 ottobre 1928 – Foto <strong>di</strong> Pietro Acquaviva<br />

162


Mamma li turchi! Cronache brin<strong>di</strong>sine <strong>di</strong> scorrerie, rapimenti, schiavi e quant’altro<br />

Pubblicato.su.il7.Magazine.del 29 febbraio 2019<br />

La caduta <strong>di</strong> Costantinopoli in mano agli Ottomani il 29 maggio 1453, oltre a<br />

significare la fine dell’Impero Romano d’Oriente, determinò un profondo cambio<br />

geopolitico per l’intera Europa e specialmente per le regioni del Me<strong>di</strong>terraneo<br />

orientale, per le quali fu soprattutto l’equilibrio militare marittimo a rimanere scosso<br />

decisamente a favore dell’impero ottomano, perlomeno per più <strong>di</strong> un secolo, fino a<br />

quando il 7 ottobre 1571 a Lepanto ci fu una prima grande vittoria dell’armata<br />

cristiana sull’impero ottomano. In questo contesto, sul finire del XV secolo – ed ancor<br />

più in quello seguente – in particolar modo nei mari della Terra d’Otranto, lo<br />

scacchiere <strong>di</strong>venne complicato e continuamente cambiante, con la presenza <strong>di</strong> tanti<br />

protagonisti <strong>di</strong> peso e dagli interessi contrapposti: la repubblica marinara <strong>di</strong> Venezia,<br />

la Francia <strong>di</strong> Francesco I, il regno spagnolo <strong>di</strong> Napoli dell’imperatore Carlo V e l’impero<br />

ottomano <strong>di</strong> Maometto II, il quale riven<strong>di</strong>cava apertamente i suoi <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong> possesso su<br />

Brin<strong>di</strong>si, Otranto e Gallipoli, in quanto antichi porti dell’impero bizantino da lui<br />

conquistato.<br />

All’alba del 28 luglio del 1480, alcune decine <strong>di</strong> migliaia uomini a bordo <strong>di</strong><br />

un’imponente flotta turca composta da un paio <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> navi, giunsero a Valona<br />

e da lì salparono verso le coste salentine per sbarcare poco a nord <strong>di</strong> Otranto, presso i<br />

laghi Alimini, nella baia poi detta “dei turchi”, da dove si <strong>di</strong>ressero verso la città<br />

mettendola a ferro e fuoco. E anche se fu abbastanza accre<strong>di</strong>tata l’idea che<br />

l’ammiraglio ottomano Ge<strong>di</strong>k Ahmet Pascià avesse puntato su Brin<strong>di</strong>si prima <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>rottare su Otranto per ragioni meteorologiche, in effetti, la scelta <strong>di</strong> Otranto<br />

probabilmente non dovette essere solo un ripiego occasionale, giacché quella città era<br />

palesemente in<strong>di</strong>fesa, mentre Brin<strong>di</strong>si aveva ricevuto rinforzi, e in più era infestata da<br />

una temibile peste. Comunque siano andate le cose, certo è che quell’evento ebbe così<br />

tanta risonanza che a Brin<strong>di</strong>si crebbe enormemente la percezione dell’ineluttabilità <strong>di</strong><br />

un prossimo sbarco turco sulla città. Una città per la quale non era certamente nuova<br />

né ingiustificata quella paura – <strong>di</strong> fatto già atavica – all’invasione barbarica<br />

proveniente dal mare.<br />

Così, in quello stesso 1481, Brin<strong>di</strong>si fu fatta fortificare dal re aragonese Fer<strong>di</strong>nando I,<br />

che or<strong>di</strong>nò al figlio Alfonso la costruzione <strong>di</strong> una grande fortezza sulla punta<br />

occidentale dell’isola Sant’Andrea all’ingresso del porto. E le opere <strong>di</strong> <strong>di</strong>fesa costiera<br />

proseguirono anche con l’avvento degli spagnoli sul trono <strong>di</strong> Napoli, Fer<strong>di</strong>nando il<br />

cattolico prima, l’imperatore Carlo V dopo, Felipe II, e così via: nella prima metà del<br />

secolo XVI si costruì il Forte a mare contiguo al castello Alfonsino e, a partire dall’anno<br />

1569, furono e<strong>di</strong>ficate in serie lungo il litorale, ben quattro nuove torri – Testa, Penna,<br />

Mattarelle e Guaceto – che vennero ad affiancare la preesistente angioina Torre<br />

Cavallo, il tutto come conseguenza del costantemente rinnovato timore <strong>di</strong> nuove<br />

scorrerie e saccheggi da parte <strong>di</strong> turchi e barbareschi. Scorrerie e saccheggi che, in<br />

effetti, ci furono, perdurarono per tutto il secolo XVII e continuarono – pur<br />

<strong>di</strong>radandosi – anche nel XVIII.<br />

163


Tra gli assalti più prossimi a Brin<strong>di</strong>si: Il 27 luglio 1537 i turchi sbarcarono a Castro,<br />

ottenendo la resa dal comandante del castello <strong>di</strong>etro assicurazioni che sarebbero state<br />

rispettate la vita e gli averi degli abitanti. Più che i patti, naturalmente non osservati<br />

considerato il gran numero dei catturati, influirono sulla resa le ingenti forze – 7000<br />

fanti e 500 cavalli – messe a terra dai turchi. Il 1° gennaio 1547 fu assalito San<br />

Pancrazio da cui, colti in piena notte, furono portati via gli abitanti che poi, in parte<br />

furono riscattati e in parte furono portati in Turchia e venduti come schiavi. Le mire<br />

dei turchi poi, si rivolsero anche al santuario <strong>di</strong> Leuca, il quale subì più volte saccheggi<br />

insieme con le vicine terre del Capo: Salve, Gagliano, San Giovanni <strong>di</strong> Ugento, Marina <strong>di</strong><br />

Cesaria e altre. E nel 1594 ci fu ad<strong>di</strong>rittura un clamoroso tentativo <strong>di</strong> saccheggiare<br />

Taranto quando, tra il 14 e il 22 <strong>di</strong> settembre, sbarcati da un centinaio <strong>di</strong> navi, orde<br />

turche condotte dal rinnegato messinese Sinan Bassà Cicala, in più riprese tentarono –<br />

vanamente – <strong>di</strong> entrare in città.<br />

Uno degli aspetti più terrifici <strong>di</strong> quelle scorrerie turche, nonché <strong>di</strong> quelle barbaresche,<br />

era il sequestro in<strong>di</strong>scriminato degli abitanti cristiani sorpresi dagli assalitori, che<br />

venivano poi schiavizzati e venduti nei vari mercati nordafricani o che, nel migliore<br />

dei casi, venivano rilasciati <strong>di</strong>etro il pagamento <strong>di</strong> un congruo riscatto. Si trattava <strong>di</strong><br />

fatto <strong>di</strong> un mercato fiorente su un istituto, quello della schiavitù, in realtà molto antico<br />

e, comunque, considerato del tutto normale all’epoca, praticato sistematicamente e<br />

massivamente da entrambi i contendenti: i musulmani da una parte e i cristiani<br />

dall’altra.<br />

I catturati, provvisoriamente raccolti in posti vicini, come per la Puglia erano Valona o<br />

una qualunque delle isole vicine, in seguito erano concentrati in città più lontane,<br />

come Costantinopoli, Tunisi, Tripoli, Algeri, e sottoposti a duri trattamenti, sempre che<br />

non fossero condannati ai remi.<br />

Esposti nei bazar, se ne <strong>di</strong>batteva la ven<strong>di</strong>ta, oppure si fissava il prezzo del riscatto che<br />

era notificato a congiunti o a incaricati da questi perché la somma fissata fosse<br />

raccolta ed inviata. Si sviluppava così un vero e proprio mercato, per il quale, <strong>di</strong> fronte<br />

ai depositi degli schiavi infedeli, ne sorgevano altrettanti nelle città degli stati cristiani,<br />

come a Napoli, Messina, Palermo, dove si effettuavano le compraven<strong>di</strong>te o dove<br />

me<strong>di</strong>atori laici ed ecclesiastici s’incaricavano <strong>di</strong> agevolare lo scambio degli infelici.<br />

Ebbene, tutto quanto riferito ritrova riscontro in più occasioni anche tra le righe delle<br />

cronache cinquecentesche e seicentesche della nostra città: cronache <strong>di</strong> scorribande <strong>di</strong><br />

assalti <strong>di</strong> rapimenti o <strong>di</strong> pagamenti del riscatto, ma anche cronache d’acquisto <strong>di</strong><br />

schiavi musulmani e <strong>di</strong> giovani schiave “che incanutivano al servizio dei nobili<br />

brin<strong>di</strong>sini perché morissero sterili o madre <strong>di</strong> schiavi cui il padrone concedeva il nome<br />

della casata perché fossero, come schiavi, sempre più legati a lui”, o cronache <strong>di</strong><br />

battesimi e morti o <strong>di</strong> liberazione degli stessi schiavi, eccetera. Per esempio, dalla<br />

Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1529-1787, scritta da Pietro Cagnes e Nicola Scalese,<br />

pubblicata da Rosario Jurlaro nel 1978:<br />

«…Il 25 maggio 1553 si perfeziona l’atto <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> un’abitazione <strong>di</strong> Filippo Capasa<br />

promessa in ven<strong>di</strong>ta dal fratello mentre Filippo era prigioniero dei turchi, per il<br />

riscatto del quale si era resa necessaria la somma anticipata dall’acquirente. Il 13<br />

giugno 1599 è battezzata una figlia naturale <strong>di</strong> Caterina, schiava mora <strong>di</strong> Visconte<br />

164


Rizzago, commerciante veneto <strong>di</strong>morante in Brin<strong>di</strong>si. Il 17 aprile 1600 è battezzata<br />

una figlia naturale <strong>di</strong> tale Lucia, schiava fatta cristiana e il 24 ottobre è battezzata una<br />

figlia naturale <strong>di</strong> Speranza, schiava mora <strong>di</strong> Giovanni Camillo Coci.<br />

L’11 maggio 1620 nella cattedrale si sono fatti funerali per Domenico Bucicco, morto<br />

schiavo dei turchi. Il 5 agosto 1628 Fer<strong>di</strong>nando Bassan libera il suo schiavo turco Sciti<br />

Jaza a richiesta del greco Pietro Ullano perché potessero, in cambio, essere liberati<br />

alcuni cristiani dai turchi e il 26 novembre, dopo essere stata istruita e catechizzata<br />

dall’arcivescovo Giovanni Falces, è battezzata dallo stesso, alla presenza del castellano<br />

grande Francesco Carrillo de Santoia, Anna Maria Mancipia, schiava turca del capitano<br />

della coorte spagnuola residente in Brin<strong>di</strong>si Diego Marziale d’Agusti.<br />

Il 13 giugno 1637 il capitolo della cattedrale dà un aiuto economico al cantore della<br />

chiesa <strong>di</strong> Maruggio che andava men<strong>di</strong>cando per aver fuggito da mano <strong>di</strong> turchi quando<br />

pigliarono Maruggio - il 13 giugno 1630. Il 31 gennaio 1667 un sacerdote greco<br />

raccoglie elemosine in Brin<strong>di</strong>si per il riscatto <strong>di</strong> schiavi cristiani dai turchi. Il 6 maggio<br />

1672 il capitolo della cattedrale dà due carlini <strong>di</strong> elemosina ad un uomo che era<br />

fuggito dalla prigionia dei turchi lasciando il figlio che sperava <strong>di</strong> riscattare e il 10<br />

agosto dà <strong>di</strong>eci grana <strong>di</strong> elemosina ad un sacerdote greco scappato dalla dai turchi.<br />

A dì 5 agosto 1673 giorno <strong>di</strong> sabato su la mezza notte fu integralmente saccheggiato<br />

dalli turchi Torchiarolo, con morte <strong>di</strong> quattro persone <strong>di</strong> detto casale e ottantaquattro<br />

ne furono fatti schiavi. A dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la<br />

torre della Penna e la torre delle Teste, e fece do<strong>di</strong>ci schiavi dalle masserie vicine e a<br />

Brin<strong>di</strong>si – a causa del grande spavento per quell’assalto così prossimo alla città – si<br />

fece costruire la muraglia, ovvero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno<br />

con quella della porta <strong>di</strong> Mesagne. Nel luglio 1681 Specchiolla, presso San Vito dei<br />

Normanni, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata dai turchi.<br />

Dal 1686 al 1694 molte famiglie <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, tra le quali Vavotico, Samblasio,<br />

Seripando, Montenegro, Stea, Pizzica, Vitale, Brancasi, Sarmiento, Ripa ed altre,<br />

acquistano schiave e schiavi turchi ‘a cristianis captos’ in Ungheria e in Grecia.<br />

Il 2 settembre 1688 è sepolto in cattedrale Gabriele, schiavo turco <strong>di</strong> Carlo Lata,<br />

battezzato in Brin<strong>di</strong>si e il 7 <strong>di</strong>cembre 1695 viene sepolto in Brin<strong>di</strong>si Antonio figlio <strong>di</strong><br />

Teresa, turca fatta cristiana, serva <strong>di</strong> Nicolò Romano. Il 28 luglio 1701 è sepolta Anna<br />

de Marco, il 30 luglio Maddalena Cuggiò ed il 9 ottobre Nicolò Montenegro, tutti i tre<br />

defunti con la specifica ‘ex genere turcarum’ che vuol <strong>di</strong>re: schiavo della famiglia <strong>di</strong> cui<br />

porta il nome.<br />

Il 20 marzo 1703 il capitano <strong>di</strong> barca <strong>di</strong> ventura Coci Dimitri Tirandafilo <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong><br />

avere avuto incarico <strong>di</strong> riscattare dai turchi quattro schiavi <strong>di</strong> Taranto, ossia Antonio<br />

Francesco Batta, Antonio Minzulo, Cataldo Chierono, Antonio Nicola de Totero, e <strong>di</strong><br />

avere riscattato gli stessi grazie a Giorgio Papa <strong>di</strong> Corfù con duecento do<strong>di</strong>ci piastre<br />

siciliane <strong>di</strong> Spagna in argento, più cento quaranta piastre occorse per tramezzaneria <strong>di</strong><br />

altri turchi ed il nolo della barca fino a Brin<strong>di</strong>si ove sono in quarantena i riscattati. E<br />

<strong>di</strong>ce dell’aiuto ricevuto dall’Opera del monte della miseria <strong>di</strong> Napoli per quel riscatto.<br />

Mentre si trova in quarantena del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il 29 giugno 1707, <strong>di</strong>chiara degli<br />

stessi aiuti dell’Opera, Stefano Papa, epirota della città <strong>di</strong> Salina, nipote <strong>di</strong> Giorgio Papa<br />

con il quale si de<strong>di</strong>ca a riscattare cristiani da schiavitù da <strong>di</strong>verse parti <strong>di</strong> Turchia...»<br />

165


Galeone del Secolo XVII – Olio <strong>di</strong> Willem van de Velde, 1670<br />

166


Al centro <strong>di</strong> un conflitto: Brin<strong>di</strong>si dal 1799 al 1801<br />

Dal riformismo carolino alle riforme <strong>di</strong> età napoleonica<br />

Terra <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fra XVIII e XIX secolo - 16 Aprile 2019<br />

Il 7 marzo 1799 il generale francese Alexandre Dumas lasciò l'Egitto, dopo aver<br />

partecipato alla campagna napoleonica, <strong>di</strong>retto in Francia a bordo della Belle Maltaise,<br />

una nave militare <strong>di</strong>smessa, in compagnia del suo amico, il generale Jean Baptiste<br />

Manscourt du Rozoy, del geologo Déodat Gratet de Dolomieu, <strong>di</strong> quaranta soldati<br />

francesi feriti e numerosi civili maltesi e genovesi per un totale <strong>di</strong> quasi 120 imbarcati.<br />

Durante la navigazione però, la vecchia nave cominciò a fare acqua e finalmente, a<br />

causa del maltempo dovette rifugiarsi nel porto <strong>di</strong> Taranto, nel Regno <strong>di</strong> Napoli, dove<br />

Dumas e i suoi compagni si aspettavano un ricevimento amichevole, avendo saputo<br />

che il regno era stato rovesciato dalla Repubblica Partenopea instaurata sul modello<br />

della Francia repubblicana.<br />

Ma quella repubblica, costituita a Napoli il 21 gennaio 1799, era risultata precaria e<br />

nelle province del sud aveva presto ceduto alle forze filoborboniche dell'esercito della<br />

Santa Fede guidato dal car<strong>di</strong>nale Fabrizio Ruffo, fedele al re Fer<strong>di</strong>nando IV, che dalla<br />

Sicilia era sbarcato sulla penisola e la stava risalendo con l'intenzione, poi finalmente<br />

concretizzata, <strong>di</strong> raggiungere Napoli e <strong>di</strong> restaurare il potere monarchico,<br />

combattendo le forze francesi presenti sul territorio del regno. La cattura dei<br />

naufraghi fu inevitabile e le autorità sanfe<strong>di</strong>ste che da una settimana, dall'8 marzo,<br />

ricontrollavano la piazza <strong>di</strong> Taranto, imprigionarono Dumas, Manscourt e il resto dei<br />

passeggeri francesi della Belle Maltaise, confiscando quasi tutte le loro cose.<br />

Durante i primi giorni da recluso, nei quali gli fu impossibile riuscire a parlare con un<br />

qualche ufficiale <strong>di</strong> alto rango a cui chiedere spiegazioni sulla sua prigionia, Dumas<br />

ricevette la visita <strong>di</strong> un personaggio enigmatico, Giovanni Francesco Boccheciampe,<br />

presunto fratello del re <strong>di</strong> Napoli, ma in realtà <strong>di</strong>sertore corso che da poco più <strong>di</strong> un<br />

mese era sorto a capo delle forze sanfe<strong>di</strong>ste della provincia <strong>di</strong> Lecce, riconquistandola<br />

quasi tutta alla corona borbonica, Taranto inclusa. Ma neanche da costui ebbe un<br />

qualche chiarimento circa la sua detenzione.<br />

L'avventuriero Giovanni Francesco Boccheciampe aveva acquistato improvvisa fama<br />

rocambolescamente quando, giunto il 14 febbraio a Brin<strong>di</strong>si, era stato creduto essere<br />

il fratello del re <strong>di</strong> Napoli ed era stato acclamato capo armato dei locali<br />

controrivoluzionari sanfe<strong>di</strong>sti. Qualche settimana dopo, il car<strong>di</strong>nale Ruffo fece<br />

chiedere ai due generali francesi prigionieri a Taranto, Dumas e Manscourt, <strong>di</strong><br />

comunicare ai comandanti delle forze francesi ancora in Napoli, una proposta <strong>di</strong><br />

scambio <strong>di</strong> prigionieri: loro due in cambio proprio <strong>di</strong> quello stesso corso<br />

controrivoluzionario, Boccheciampe, catturato dalle truppe francesi che il 9 aprile<br />

erano giunte nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si al seguito del vascello Généreux – proveniente<br />

dall'Egitto, scampato alla <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Abukir – ed avevano occupato la città. Inviata a<br />

Napoli quella proposta però, il car<strong>di</strong>nale Ruffo perse interesse in quell'eventuale<br />

scambio <strong>di</strong> prigionieri, quando sospettò che il Boccheciampe fosse stato fucilato dai<br />

francesi quale <strong>di</strong>sertore, evento in effetti verosimilmente avvenuto tra il 18 e il 19<br />

aprile nei pressi <strong>di</strong> Trani, per or<strong>di</strong>ne del generale J. Sarrazin.<br />

167


E così, sfumata ogni possibilità <strong>di</strong> liberazione imme<strong>di</strong>ata, dopo quasi sette settimane<br />

dalla loro detenzione, il 4 maggio Dumas e Manscourt furono <strong>di</strong>chiarati prigionieri <strong>di</strong><br />

guerra dell'esercito della Santa Fede, mentre quasi tutti gli altri naufraghi della Belle<br />

Maltaise furono liberati. In un documento che riposa nell'Archivio <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> Taranto –<br />

<strong>di</strong> fatto un assurdo decreto <strong>di</strong> prigione indefinita, senza accusa ne processo – datato 8<br />

maggio 1799, si legge:<br />

«Dumas e Manscourt rimarranno rinchiusi nella fortezza reale della città [il<br />

castello aragonese <strong>di</strong> Taranto] custo<strong>di</strong>ti dal comandante militare della fortezza,<br />

Giambattista Teroni, fino a quando possano essere consegnati a Sua Eminenza il<br />

car<strong>di</strong>nale D. Fabrizio Ruffo, servo <strong>di</strong> Sua Maestà Fernando IV, che Id<strong>di</strong>o lo bene<strong>di</strong>ca<br />

sempre […]»<br />

Per il generale Dumas, era così iniziata una lunga e penosa prigionia, che doveva<br />

concludersi a Brin<strong>di</strong>si due anni dopo.<br />

Due anni <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> sofferenze per il generale prigioniero e due anni <strong>di</strong> eventi, che a<br />

momenti furono veramente incalzanti, trascorsi in una Brin<strong>di</strong>si ignara <strong>di</strong><br />

quell'appuntamento frugale con la leggenda – quella del conte <strong>di</strong> Montecristo – che la<br />

<strong>storia</strong> gli aveva posto in serbo. Il generale Dumas, infatti, oltre ad essere<br />

«un militare sperimentato, un fervente repubblicano e un uomo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong><br />

convinzioni e spiccato valore morale. Famoso per la sua forza fisica, la sua destrezza<br />

con la spada, il suo coraggio e la sua naturale capacità a <strong>di</strong>stricarsi con <strong>di</strong>sinvoltura<br />

dalle situazioni più <strong>di</strong>fficili, fu anche conosciuto per la sua impertinenza arrogante e<br />

per i suoi problemi con le autorità. Fu un generale tra soldati, temuto dai nemici ed<br />

amato dai suoi uomini, un eroe in un mondo in cui tale appellativo non si attribuiva<br />

alla leggera» 1<br />

fu anche il padre del prestigioso romanziere Alexandre Dumas, autore dei Tre<br />

moschettieri e del Conte <strong>di</strong> Montecristo, i due arci famosi romanzi per i quali<br />

l'indubbio ispiratore fu proprio quel padre generale con la sua rocambolesca<br />

esistenza 2 : quella <strong>di</strong> Thomas Alexander Davy de la Pailleterie, o più semplicemente<br />

Alex Dumas, come preferì firmarsi dopo essere asceso per merito proprio fino al grado<br />

<strong>di</strong> generale <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione 3 .<br />

Ebbene, all'incirca quegli stessi due anni in cui il generale Dumas rimase prigioniero<br />

del regno napoletano, videro Brin<strong>di</strong>si, dove quella celebre prigionia si concluse,<br />

spettatrice e protagonista <strong>di</strong> tutta una serie <strong>di</strong> altri eventi rilevanti, che la resero<br />

partecipe – a volte attiva e passiva altre volte – della convulsa <strong>storia</strong> d'Italia e<br />

d'Europa trascorsa a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.<br />

Nella <strong>storia</strong> occidentale, il 1799 fu indubbiamente un anno rilevante, l'anno in cui<br />

stava per <strong>di</strong>lagare sull'Europa intera, con tutto il suo bagaglio rivoluzionario,<br />

l'uragano napoleonico piombato alla ribalta della <strong>storia</strong> universale al seguito della<br />

Rivoluzione francese scoppiata da un decennio.<br />

Un anno vissuto a Brin<strong>di</strong>si da una città che, anche se con i suoi meno <strong>di</strong> seimila<br />

abitanti non attraversava certo uno dei suoi tempi migliori con i lavori <strong>di</strong> restauro del<br />

porto nuovamente sospesi, si pregiava comunque <strong>di</strong> avere come arcivescovo l'illustre<br />

Annibale De Leo 4 – già fondatore della biblioteca pubblica arcivescovile – e <strong>di</strong> contare<br />

con prominenti citta<strong>di</strong>ni della levatura <strong>di</strong> Teodoro Monticelli 4 e <strong>di</strong> Carlo De Marco 4 .<br />

168


Un anno in cui la città si trovò a dover essere campo <strong>di</strong> battaglia tra sanfe<strong>di</strong>sti e<br />

repubblicani, caposaldo della controrivoluzione popolare e per pochi giorni territorio<br />

conquistato dai repubblicani francesi, mentre era sindaco l'eclettico personaggio<br />

Francesco Gerar<strong>di</strong> 5 .<br />

Napoli, la capitale del regno, cadde nel caos dopo che il 22 <strong>di</strong>cembre 1798 il re<br />

Fer<strong>di</strong>nando IV l'abbandonò rifugiandosi a Palermo, avendo fallito nel suo intrepido<br />

tentativo <strong>di</strong> liberare Roma dalle truppe francesi e lasciando sgombra la strada al<br />

generale napoleonico Jean Etienne Championnet. Così a Napoli, il 24 gennaio 1799, i<br />

giacobini proclamarono la repubblica.<br />

A Brin<strong>di</strong>si le notizie giunsero l'8 febbraio, quattro giorni dopo che nel porto era<br />

arrivato un bastimento mercantile con a bordo Vittoria e Adelaide, due principesse<br />

francesi zie del re Luigi XVI accompagnate da un folto gruppo <strong>di</strong> nobili e alti prelati, in<br />

fuga dalle truppe napoleoniche che erano già penetrate nel regno <strong>di</strong> Napoli e in attesa<br />

<strong>di</strong> un imbarco sicuro verso Trieste, o verso Oriente dove flotte russe turche e inglesi<br />

tenevano asse<strong>di</strong>ata Corfù, destinata presto ad essere liberata dall'occupazione<br />

francese e dove, in effetti, dopo varie settimane d'attesa furono infine accompagnate le<br />

due principesse con il loro seguito.<br />

Poi, nei seguenti mesi, specialmente nei giorni trascorsi tra il 14 febbraio e il 16 <strong>di</strong><br />

aprile, in città si susseguirono fatti clamorosi e per certi aspetti anche rocamboleschi,<br />

perfetto riflesso della situazione politica e militare del tutto caotica in cui si ritrovò a<br />

versare in quel frangente storico, l'intero sud della penisola. Dalla cronaca che<br />

Giovanni Tarantini 4 redasse verso metà '800, conservata nella Biblioteca Arcivescovile<br />

De Leo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, riscritta e integrata da quanto manoscritto da Tommaso Cinosa nel<br />

suo Compen<strong>di</strong>o storico della città:<br />

«Era giunta intanto la notizia che i francesi avevano occupato la capitale, e<br />

credendo il basso popolo che nella città vi fossero <strong>di</strong> quelli che congiurassero contro<br />

del sovrano, <strong>di</strong>etro l’esempio <strong>di</strong> altre città <strong>di</strong> Puglia tumultuò la notte dal 13 al 14<br />

febbraio, pretendendo così <strong>di</strong> prenderne la <strong>di</strong>fesa.<br />

[…] Alcuni emigrati corsi guidati da un tal Buonafede Gerunda <strong>di</strong> Monteiasi<br />

[Taranto] giunsero in quel giorno colla veduta <strong>di</strong> trovare un imbarco, essendosi<br />

<strong>di</strong>chiarati contrari alla rivoluzione francese. Erano cinque. Sia stato comunque il come,<br />

corse voce nel popolo che uno <strong>di</strong> quelli [Casimiro Raimondo Corbara] fosse il principe<br />

ere<strong>di</strong>tario Francesco [e che un altro, Giovanni Francesco Boccheciampe, fosse il<br />

fratello del re <strong>di</strong> Spagna]. Tanto bastò perché non si pensasse più alle persecuzioni, ma<br />

ad onorare il voluto principe, menandolo alla Cattedrale. […] Il voluto principe,<br />

consigliato a secondare pel meglio il comune errore, sostenne bene la sua parte, e con<br />

una certa autorità che cominciò a spiegare ottenne e volle si sedasse il tumulto, e che<br />

fossero posti in libertà gli arrestati. […] Dopo <strong>di</strong> ciò il principe da scena Corbara si<br />

imbarcò per Corfù [via Otranto] onde ottenere, egli <strong>di</strong>ceva, dalle potenze alleate<br />

soccorsi e truppe regolari a <strong>di</strong>fesa comune. Rimasero a Brin<strong>di</strong>si due del suo seguito,<br />

Boccheciampe e De Cesari [Giovan Battista], i quali radunarono molta truppa a massa<br />

per avvalersene al bisogno.<br />

[…] Il giorno 9 aprile al far del giorno fu veduto sulle acque della vicina Torre<br />

Penna un grosso vascello da guerra che poco dopo si trovò in faccia alla fortezza <strong>di</strong><br />

mare. Era un vascello francese nominato Genereux, al quale nella <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Abukir era<br />

riuscito <strong>di</strong> scampare e non <strong>di</strong>venir preda della flotta inglese comandata da Nelson.<br />

169


Lo seguivano quattro trasporti con mille uomini da sbarco, viveri e munizioni da<br />

guerra. […] Si impegnò l’azione tra il vascello e la fortezza, la quale era rimasta<br />

spogliata <strong>di</strong> <strong>di</strong>fensori. Il Boccheciampe e alcuni capi delle masse uscirono del forte, ed<br />

andarono a rifugiarsi sulla vicina isola del lazzaretto. Un ufficiale <strong>di</strong> artiglieria<br />

chiamato Giustiniano Albani per tre ore sostenne l’attacco col bravo artigliere <strong>di</strong><br />

cognome Lafuenti, e maneggiando un solo cannone. […] Rimasto solo l’ufficiale fu<br />

obbligato ad inalberare la ban<strong>di</strong>era bianca ed arrendersi. Capitolò la salvezza della vita<br />

per sé e per gli altri, ma i francesi vollero escluso dalla capitolazione il Boccheciampe,<br />

che menarono seco prigioniero. Da alcuni è stato detto che l’avessero fucilato, da altri<br />

che partiti da Brin<strong>di</strong>si l’avessero mandato libero.<br />

Anche la città dall’alto della collina ove sorgono le antiche colonne dette i segni<br />

della resa, e poi spedì sul vascello una deputazione parlamentaria, composta dalle<br />

principali autorità, fra le quali l’arcivescovo [Annibale De Leo e il sindaco Francesco<br />

Gerar<strong>di</strong>]. Fu la deputazione molto bene accolta, ed anche trattenuta alla mensa. Ebbe<br />

quin<strong>di</strong> l’incarico <strong>di</strong> assicurar la città che sebbene sarebbe occupata dalla truppa, pure<br />

questa vi entrerebbe da amica» 6 .<br />

E, <strong>di</strong>rettamente dal "Compen<strong>di</strong>o historico della città dalla <strong>di</strong> lei fondazione al corrente<br />

anno MDCCCXVII " <strong>di</strong> Tommaso Cinosa:<br />

«Sul mezzogiorno sbarcati da trabbaccolli che seguivano il vascello, in numero <strong>di</strong><br />

circa mille uomini, occuparono la fortezza e la città. La tennero per otto giorni, nei<br />

quali, la notte del 10, ebbero un attacco dalla truppa a massa venuta in sotto le mura,<br />

la quale avendo conosciuto inutile ogni tentativo <strong>di</strong> scacciare il nemico retrocedé nella<br />

vicina Mesagne, ove si sciolse.<br />

Il dì 16 premurati da replicati or<strong>di</strong>ni del generale <strong>di</strong> Bari, inchiodati i cannoni e<br />

buttata in mare la polvere della fortezza, evacuarono la città partendo per quella volta.<br />

[…] La città restò in una somma tranquillità, molto più che ci era la vicina speranza <strong>di</strong><br />

vedere presto nel nostro porto i soccorsi promessi dalla flotta <strong>di</strong> Corfù, cui già quella<br />

città si era resa» 6 .<br />

Accadde, in effetti, che tutte le truppe francesi stanziate nel meri<strong>di</strong>one del regno <strong>di</strong><br />

Napoli, in seguito alle notizie delle sconfitte subite in Lombar<strong>di</strong>a a opera dell'esercito<br />

austriaco, ricevettero l'or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> sgomberare e <strong>di</strong> concentrarsi su determinate<br />

posizioni strategiche da continuare a mantenere sul territorio del regno. Così, anche<br />

dopo che i sanfe<strong>di</strong>sti del car<strong>di</strong>nale Ruffo ripresero Napoli il 13 giugno, il re Fer<strong>di</strong>nando<br />

IV rimase ancora per tre anni a Palermo e quando ritornò a Napoli ci rimase per poco<br />

più <strong>di</strong> tre anni, per poi tornarsene <strong>di</strong> nuovo a Palermo ed attendere il trascorrere del<br />

lungo "decennio francese", durante il quale sul trono <strong>di</strong> Napoli sedettero i due re<br />

napoleonici: Giuseppe Bonaparte prima, e Gioacchino Murat dopo.<br />

Poco dopo la partenza delle truppe d'occupazione francesi, giunsero nel porto <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si tre fregate russe e una turca. E, su una corvetta napoletana, giunse anche il<br />

cavaliere Antonio Micheroux, ministro plenipotenziario borbonico presso l'armata<br />

russo-turca, il quale si trattenne in città per un paio <strong>di</strong> giorni, lasciandola poi guarnita<br />

<strong>di</strong> un contingente russo.<br />

La situazione però, non è del tutto vero che, come scritto dal Cinosa, fosse poi così<br />

tranquilla, giacché la sommossa sanfe<strong>di</strong>sta e la pur breve occupazione francese della<br />

città, avevano prodotto innumerevoli azioni e controazioni, nelle quali molti brin<strong>di</strong>sini<br />

170


erano rimasti pericolosamente coinvolti. A tale proposito, la Cronaca dei sindaci <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si 1787‐1860 redatta da Rosario Jurlaro nel 2001 – dalle <strong>di</strong>verse fonti in essa<br />

citate – riporta:<br />

«I tumulti <strong>di</strong> febbraio crearono panico. I citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si pensarono subito a<br />

salvare i risparmi e quanto potevano avere <strong>di</strong> prezioso. […] A 13 febbraio 99,<br />

mercoledì, ad ore quattro della notte se ne passò da questa a miglior vita [nella sua<br />

casa a Lecce] il nostro preside della provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto, Francesco Marulli<br />

dell’età <strong>di</strong> anni sessantadue. Si <strong>di</strong>sse che la causa fosse il gran timore presosi, quando<br />

la domenica andò tutto il popolo tumultuante da lui. Altri vogliono che lui stesso<br />

s’avesse ammazzato con pigliarsi il veleno per aver giurata tanto lui quanto tutto il<br />

tribunale come si <strong>di</strong>ce fedeltà alla Repubblica francese. […] Boccheciampe, fatti<br />

arrestare [il 6 marzo] i ministri del tribunale <strong>di</strong> Lecce in fama <strong>di</strong> giacobini, li mandò al<br />

Forte a mare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si tra turbe fanatiche che per poco non li uccisero. […] Giuseppe<br />

e Pietro Montenegro <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, padri celestini in Lecce, rischiarono <strong>di</strong> essere linciati<br />

dalla plebe leccese perché li considerava giacobini e come tali furono poi processati.<br />

Sbarcati i francesi a Brin<strong>di</strong>si, i patrioti repubblicani del Salento si adoperarono per<br />

schiacciare la controrivoluzione capeggiata da De Cesari. Andrea Tresca da Lecce si<br />

adoperò allora per ridare libertà ai prigionieri fatti da Boccheciampe e detenuti l’8<br />

marzo nel castello marittimo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dove si sa che era anche Francesco Persano.<br />

[…] D. Paolo Ferrari <strong>di</strong> Parabita figlio del fu d. Giacinto Ferrari e <strong>di</strong> d. Mafia Antonia<br />

Beamount, nell’entrata de' francesi del dì 9 del corrente mese fu ammazzato, e poi nel<br />

giorno 17 fu data sepoltura al cadavere nella chiesa de' P.P. Riformati del Casale<br />

coll’associamento <strong>di</strong> un solo prete. […] L’arcivescovo De Leo fu ridotto alle massime<br />

angustie dalle così dette truppe repubblicane straniere, che il 9 aprile da nemiche<br />

invasero questa nostra città. Esse purtroppo abusando della licenza militare, tennero il<br />

<strong>di</strong> lui Episcopio non sol come locanda, ma come taverna aperta incessantemente a lor<br />

<strong>di</strong>screzione, e dove gli uffiziali superiori arbitrariamente s’intrudevano e<br />

stravizzavano con eccessiva insolenza a spese del prelato, <strong>di</strong>lapidando così il<br />

patrimonio de' suoi poveri. […]<br />

Partiti i francesi, subito scesi dalle tre navi moscovite i soldati coll’ufficiali hanno<br />

fatta la carcerazione <strong>di</strong> cinque intere famiglie, cioè una del castellano [Giovanni<br />

Bianchi] l’altra dell’arcivescovo ed altre. Il detto giorno è arrivato un ambasciatore<br />

moscovito in Lecce e subito partì il signor preside [Tommaso Luperto] per Brin<strong>di</strong>si per<br />

far sospendere la giustizia che li moscoviti volevano fare <strong>di</strong> fucilare tutte quelle cinque<br />

famiglie da loro carcerati. […] Molti però, furono i repubblicani giacobini, o presunti<br />

tali, della Terra d’Otranto che furono imprigionati e processati a Lecce e, nelle carceri<br />

napoletane <strong>di</strong> Portici e Granili, tra le migliaia <strong>di</strong> prigionieri della repressione<br />

borbonica del 1799, risultarono essere <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il militare Giovanni Pagliara, nato<br />

nel 1777 figlio del dottor fisico Giacinto e <strong>di</strong> Saveria Carasco figlia del notaio Pasquale,<br />

e lo studente Cherubino Balsamo, nato nel 1776 figlio <strong>di</strong> Domenico e <strong>di</strong> Grazia<br />

Maiorano <strong>di</strong> Piano <strong>di</strong> Sorrento» 6 .<br />

Dopo il consolidamento – a metà giugno – della vittoria dei conservatori nella capitale<br />

del regno, effimera per chi sapeva leggere il futuro nei fatti correnti, la restaurazione<br />

s'impose, pur senza eccessivo scalpore, anche a Brin<strong>di</strong>si. Sul finire <strong>di</strong> quell'anno, il 23<br />

novembre 1799, l'arcivescovo Annibale De Leo fece celebrare una messa requiem nella<br />

chiesa Cattedrale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si per la morte del papa Pio VI avvenuta qualche mese<br />

prima, in agosto, in Francia, dove era stato forzosamente condotto dalle truppe<br />

repubblicane francesi.<br />

171


Poi, il 3 gennaio del 1800, prevedendo quel che avvenne, me<strong>di</strong>ante rivalsa cautelativa<br />

l'arcivescovo affidò al notaio Pasquale Giaconelli gli atti con i quali il 10 ottobre<br />

dell'anno 1798 erano stati consegnati gli argenti della Chiesa alla regia corte, una<br />

cessione patriotica destinata a <strong>di</strong>venire, per la futura insolvenza della corte, un'inutile<br />

opera <strong>di</strong> carità.<br />

Il 6 maggio lasciò Lecce l'ultrareazionario preside della provincia <strong>di</strong> Terra d'Otranto,<br />

Tommaso Luperto che l'8 marzo del precedente anno 1799 era stato inse<strong>di</strong>ato dal<br />

fantomatico corso Boccheciampe e che per più <strong>di</strong> un anno aveva sostenuto la rivalsa<br />

giu<strong>di</strong>ziaria borbonica in tutta la provincia.<br />

E il giorno seguente, il 7 maggio 1800, giunse "colla grazia del signore Id<strong>di</strong>o" il nuovo e<br />

meno ven<strong>di</strong>cativo preside, Vincenzo Maria Mastrilli marchese della Schiava,<br />

proveniente da Taranto, dove era stato inse<strong>di</strong>ato dalla Santa Fede come capo politico.<br />

Nel settembre 1800, in occasione dell'arrivo a Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> una compagnia <strong>di</strong> comici, si<br />

vietò agli ecclesiastici <strong>di</strong> assistere alle recite in teatro e il giorno 22, l'arcivescovo De<br />

Leo emise un e<strong>di</strong>tto nel quale:<br />

«Si vietava agli ecclesiastici <strong>di</strong> qualsiasi grado <strong>di</strong> presenziare quelle sceniche<br />

rappresentanze e si rinnovava [per gli stessi ecclesiastici] il <strong>di</strong>vieto <strong>di</strong> assistere ai<br />

giuochi che si fanno nelle botteghe, spezierie ed altri ridotti, ove concorre ogni sorta <strong>di</strong><br />

gente» 7 .<br />

In seguito, l'effimera pace conclusa tra i napoletani e i francesi sul finire dell'inverno<br />

1800-1801 – prima a Foligno il 18 febbraio 1801 e poi a Firenze a marzo – e la<br />

sorveglianza permessa a questi ultimi sui porti delle coste adriatiche, sempre usati<br />

dagli inglesi per le rotte verso l'Oriente salpando o approdando ora da Trieste ora da<br />

Venezia, resero Brin<strong>di</strong>si campo <strong>di</strong> frequenti contese e <strong>di</strong> battaglie.<br />

Un campo che i francesi si guardarono bene dal lasciare troppo tempo sguarnito,<br />

magari ufficiosamente quando non poterono farlo ufficialmente, e un episo<strong>di</strong>o<br />

esemplificativo della situazione politico-militare che regnava in quei primi mesi del<br />

1801, fu quello accaduto il 13 giugno:<br />

«Verso le quattro del pomeriggio, un brigantino borbonico, il Lipari, che recava a<br />

bordo sessantaquattro soldati al comando del tenente <strong>di</strong> vascello Ruggero Settimio, ed<br />

era seguito da una polacca sorrentina carica <strong>di</strong> frumento, entra nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Erasi quivi appena ancorato, quando appaiono quattro vascelli britannici, i quali<br />

prendono a cannoneggiare con violenza le due navi, che gravemente colpite<br />

minacciano <strong>di</strong> affondare. Accorrono quin<strong>di</strong> gl’inglesi con una squadra <strong>di</strong> lancioni, e<br />

catturate le artiglierie insieme col comandante e col pilota, tentano <strong>di</strong> trascinar seco i<br />

legni pericolanti. Intervengono a questo punto i francesi, e <strong>di</strong>vampa una furiosa<br />

mischia, a cui partecipano le forze brin<strong>di</strong>sine: granatieri francesi e marinai britannici<br />

trovano la morte nel conflitto» 8 .<br />

Questo, in grande sintesi, quanto trascorso <strong>di</strong> rilevante a Brin<strong>di</strong>si in quei due fati<strong>di</strong>ci<br />

anni durante i quali il generale Alexandre Dumas rimase prigioniero in Terra<br />

d'Otranto 9 , prima a Taranto e poi, negli ultimi sei mesi, a Brin<strong>di</strong>si, dove l'epilogo fu<br />

come è raccontato <strong>di</strong> seguito.<br />

172


Nell'ottobre del 1799 Napoleone, finalmente ritornato in Francia, conquistò il potere<br />

eliminando il Direttorio con il colpo <strong>di</strong> stato del 18 brumaio – 10 novembre – e presto<br />

non esitò a intraprendere la seconda campagna d'Italia, rifondando la Repubblica<br />

Cisalpina dopo la battaglia <strong>di</strong> Marengo del 14 giugno 1800. Poco dopo, a settembre,<br />

per <strong>di</strong>sposizione del marchese Della Schiava – Vincenzo Maria Mastrilli, preside della<br />

provincia <strong>di</strong> Lecce – Dumas e Manscourt furono trasferiti da Taranto a Brin<strong>di</strong>si, dove<br />

furono reclusi nel castello svevo – o forse nell'Alfonsino – mantenuti, questa volta, in<br />

una situazione <strong>di</strong> gran lunga migliorata.<br />

Durante la durissima prigionia a Taranto, infatti, Dumas era rimasto malnutrito e<br />

ancor peggio curato per circa <strong>di</strong>ciotto mesi e così, quando giunse a Brin<strong>di</strong>si, era zoppo,<br />

con la guancia destra paralizzata, quasi cieco dall'occhio destro e sordo dall'orecchio<br />

sinistro. Il suo fisico era quasi <strong>di</strong>strutto e arrivò a convincersi che tutti quei suoi<br />

malanni si produssero perché sottoposto a un lento e sistematico avvelenamento al<br />

quale era sopravvissuto solo perché aiutato da un gruppo locale filofrancese segreto,<br />

che gli aveva fornito alimenti me<strong>di</strong>cine libri e altri conforti.<br />

Da recluso a Brin<strong>di</strong>si, Dumas poté conversare regolarmente con un sacerdote <strong>di</strong> nome<br />

Bonaventura Certezza, una specie <strong>di</strong> cappellano dei castelli, con il quale finì con<br />

istaurare una sincera amicizia. Nel museo Alexandre Dumas a Villers Cotterêts in<br />

Francia, è conservata una lettera che il padre Bonaventura scrisse a Dumas qualche<br />

mese dopo la sua liberazione, il 17 agosto 1801.<br />

«Sappi mio caro generale, che ho sempre mantenuto e sempre manterrò vivo<br />

dentro <strong>di</strong> me ciò che sento per te, sentimenti che mi obbligano a rivolgerti<br />

eternamente i miei rispetti. Di fatto, non ho tralasciato <strong>di</strong> muovere neanche una sola<br />

pietra, per trattare <strong>di</strong> ottenere tue notizie. So che ascoltare lo<strong>di</strong> ti incomoda, però,<br />

conscendo il calore del tuo cuore, oso parlarti in questo modo. Magari potessi<br />

abbracciarti! – maledetta <strong>di</strong>stanza – Te lo <strong>di</strong>co <strong>di</strong> tutto cuore. E se un giorno vorrai<br />

visitarmi, a casa mia sempre sarai da me ricevuto a braccia aperte. […]» 10<br />

E anche con Giovanni Bianchi, il suo carceriere – castellano <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1798 al<br />

1802, nonché già sospetto giacobino – Dumas mantenne durante i circa sei mesi della<br />

sua permanenza nella prigione del castello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si una costante e, per quello che le<br />

circostanze potevano permettere, cor<strong>di</strong>ale relazione personale e anche epistolare,<br />

come si evince da alcune <strong>di</strong> quelle loro epistole conservate nel Museo Alexandre<br />

Dumas.<br />

Le cortesi lettere scambiate tra i due, spesso trattavano questioni del tutto triviali, per<br />

esempio relative alle vettovaglie, agli indumenti, alle scarpe e quant'altro <strong>di</strong> cui il<br />

generale prigioniero potesse aver bisogno. Finanche, una volta annunciata la<br />

prossimità della liberazione, Bianchi inviò a Dumas campioni <strong>di</strong> stoffa affinché il<br />

generale scegliesse quella più adatta a fargli confezionare l'uniforme da indossare nel<br />

viaggio, nonché alcuni cappelli tra i quali scegliere il modello che ritenesse più<br />

consono per lui. Una relazione insomma, che se pur non esente da qualche screzio, fu<br />

migliorando con il passare dei mesi, probabilmente anche a riflesso degli eventi<br />

militari che, in corso e sempre più prossimi alle porte del regno, lasciavano facilmente<br />

presagire una imminente evoluzione pro-francese della situazione.<br />

173


Difatti, verso la fine dell'anno 1800, le forze napoleoniche in Italia sotto il comando del<br />

generale Joachim Murat, misero in fuga l'esercito napoletano <strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando IV, il cui<br />

governo riprese la via del rifugio a Palermo, e il 18 febbraio1801 a Foligno fu concluso<br />

l'armistizio tra le truppe francesi e quelle del re <strong>di</strong> Napoli, con la firma del generale<br />

Murat per la Francia e del generale Damas per Fer<strong>di</strong>nando IV.<br />

E così, subito dopo quelle vicende dell'inverno 1800-1801, alla fine del mese <strong>di</strong> marzo<br />

del 1801, si produsse, finalmente, la liberazione del generale Dumas, che fu inviato alla<br />

base navale francese <strong>di</strong> Ancona, nel contesto <strong>di</strong> una situazione politico-militare<br />

estremamente confusa: Brin<strong>di</strong>si, ufficialmente sotto il re <strong>di</strong> Napoli che però era<br />

rifugiato a Palermo, <strong>di</strong>pendeva dalla provincia <strong>di</strong> Lecce presieduta dal borbonico<br />

marchese della Schiava, mentre a Mesagne era inse<strong>di</strong>ata una consistente guarnigione<br />

francese composta da circa 350 militari, senza uno status formale riconosciuto e<br />

ufficialmente in via <strong>di</strong> smobilitazione.<br />

«Nelle riunioni capitolari della ciesa <strong>di</strong> Ognissanti <strong>di</strong> Mesagne, ancora il 19 aprile<br />

1801, si <strong>di</strong>scuteva degli obblighi, imposti d’autorità, per dare alloggio, letti o danaro ai<br />

soldati del battaglione francese, <strong>di</strong> stanza in quella terra, costituito da 350 soldati e<br />

comandato da Barraire. Le richieste <strong>di</strong> danaro, da parte del ministro regio David<br />

Winspeare, da parte dell’arcivescovo De Leo e dei sindaci per alloggiare e dare il vitto<br />

ai soldati francesi, si susseguirono alle date 22 luglio e 31 agosto 1801; 20 marzo e 12<br />

giugno 1802; 22 agosto, 2 settembre e 11 ottobre 1803 e 18 settembre 1804» 8 .<br />

In effetti, dopo l'armistizio <strong>di</strong> Foligno e la successiva pace <strong>di</strong> Firenze del 28 marzo<br />

1801, le navi repubblicane francesi rimasero nel basso Adriatico a sorvegliare quella<br />

strategica costa nonché a proteggere le truppe rimaste in terra, con la scusa <strong>di</strong> dover<br />

far rispettare le clausole marittime <strong>di</strong> quella pace, e solo la pace <strong>di</strong> Amiens del 25<br />

marzo 1802 accordò che tutti i territori del regno napoletano fossero liberati sia dalle<br />

truppe francesi e sia da quelle inglesi e russe, per permettere alla corte borbonica <strong>di</strong><br />

rientrare da Palermo a Napoli.<br />

Ma anche allora, i soldati francesi da tempo inse<strong>di</strong>ati nel castello normanno-svevo <strong>di</strong><br />

Mesagne che avrebbero dovuto sgomberare tra il 30 <strong>di</strong> aprile e il 5 <strong>di</strong> maggio 1802,<br />

non lo fecero: tergiversarono e cominciarono a partire solo molto dopo, molto<br />

lentamente, a più riprese e senza farlo mai del tutto, fin quando, il 15 luglio 1803,<br />

l'esercito francese fece ufficialmente ritorno in Terra d'Otranto, a causa delle non<br />

meglio precisate "<strong>di</strong>fficoltà sorte tra francesi e inglesi".<br />

Di fatto, quei soldati francesi ritornati nei <strong>di</strong>ntorni Brin<strong>di</strong>si fin dai primi giorni del<br />

1801, non tolsero mai del tutto la loro ingombrante presenza da quel territorio,<br />

evidentemente troppo strategico.<br />

Una presenza che probabilmente aveva in qualche misura influito sulla liberazione del<br />

prigioniero Dumas, liberazione alla quale non doveva neanche essere rimasto<br />

estraneo lo stesso generale Murat che, forse non a caso, volle che tra le clausole<br />

dell'armistizio, si inserisse quella relativa alla liberazione dei prigionieri francesi.<br />

174


______________________________________________________________________________________________________________________________<br />

1<br />

Tomas REISS The Black Count: Glory, Revolution, Betrayal, and the Real Count of<br />

Monte Cristo Crown Publishers - New York, 2012<br />

Reiss ha soggiornato lungamente in Francia per svolgere ricerche in archivi militari e musei,<br />

riuscendo infine ad accedere anche ai documenti ine<strong>di</strong>ti custo<strong>di</strong>ti da Elaine, la bibliotecaria del<br />

Musée Alexandre Dumas <strong>di</strong> Villers-Cotterêts de<strong>di</strong>cato alla <strong>storia</strong> dei tre Dumas, dopo che la donna<br />

era morta senza rivelare la combinazione della sua cassaforte. Il libro <strong>di</strong> Tomas Reiss è anche e<br />

soprattutto la meticolosa e rigorosa biografia del generale francese Alexandre Dumas, padre<br />

dell'omonimo famoso romanziere e nonno dell'altrettanto omonimo drammaturgo.<br />

2<br />

Alexandre DUMAS Mes Memoires A. Cadot E<strong>di</strong>teur - Paris, 1852<br />

Le prime duecento pagine delle memorie sono de<strong>di</strong>cate a suo padre, il generale Dumas. «Ve<strong>di</strong><br />

padre mio che non ho <strong>di</strong>menticato nessuno dei ricor<strong>di</strong> che mi avevi affidato perché li conservassi.<br />

Da quando sono stato in grado <strong>di</strong> pensare, i tuoi ricor<strong>di</strong> hanno vissuto in me come una lampada<br />

sacra, che illumina tutto e tutti quelli che avevi toccato anche se la morte me l'ha portata via»<br />

Alexandre Dumas père.<br />

3<br />

Gianfranco PERRI Si concluse in un castello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si la lunga prigionia del generale<br />

Alexandre Dumas, ispiratore del leggendario Conte <strong>di</strong> Montecristo - Academia, 2019<br />

4<br />

Gianfranco PERRI i 100 personaggi dell’odonomastica <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che attraversano tutta<br />

la <strong>storia</strong> della città Lulu.com, 2017<br />

Annibale De Leo, a pagina 67 - Teodoro Monticelli, a pagina 68 - Carlo De Marco, a pagina 64<br />

- Giovanni Tarantini, a pagina 74<br />

5<br />

Gianfranco PERRI Francesco Gerar<strong>di</strong>, un eclettico sindaco <strong>di</strong> fine’700 il7 MAGAZINE<br />

settimanale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del 1° <strong>di</strong>cembre, 2017<br />

«[…] Nel 1798 Francesco Gerar<strong>di</strong>, negoziante d’ogni mare, lo si ritrova eletto sindaco <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, incarico che nonostante le gran<strong>di</strong> turbolenze politiche e militari <strong>di</strong> quegli anni, poté<br />

conservare fino a quasi tutto il 1800. Nato il 16 maggio 1746 da Onofrio, Francesco fu battezzato il<br />

17 maggio, posò Isabella Gerar<strong>di</strong> figlia <strong>di</strong> Pasquale ed ebbe due figli: Maria Vincenza nel 1782 e<br />

Onofrio nel 1785. […]<br />

Il 9 aprile il vascello <strong>di</strong> guerra francese "Généreux" entrò nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e intraprese una<br />

cruenta battaglia contro le forze sanfe<strong>di</strong>ste asserragliate nel forte <strong>di</strong> mare, riuscendo infine a<br />

sopraffarle pur subendo numerose per<strong>di</strong>te, tra le quali il proprio capitano, Louis Jean Nicolas<br />

Lejoille. I francesi quin<strong>di</strong>, invitarono ed accolsero benignamente sul Généreux il sindaco Gerar<strong>di</strong><br />

con l’arcivescovo De Leo e le altre autorità civili della città, le quali finalmente mostrarono<br />

tutt’altro che ostilità verso gli invasori, e così le truppe francesi poterono sbarcare ed occuparono<br />

militarmente la piazza.<br />

Il giorno 13 aprile il popolo fu convocato nella Cattedrale per un Te Deum officiato<br />

dall’arcivescovo e quando il giorno 14 le autorità militari francesi nominarono i nuovi ufficiali<br />

municipali, il sindaco, Francesco Gerar<strong>di</strong>, fu confermato nella carica repubblicana. Dopo solo<br />

qualche giorno però, inaspettatamente il 16 aprile, tutti i soldati francesi lasciarono Brin<strong>di</strong>si, parte<br />

per mare e parte per terra, e non si poté sapere se per un or<strong>di</strong>ne ricevuto o per il sentore percepito<br />

che stessero per giungere le navi russe da Corfù nonché gli eserciti sanfe<strong>di</strong>sti dalla Calabria.<br />

Effettivamente, le navi moscovite arrivarono a Brin<strong>di</strong>si dopo qualche giorno e così il sindaco<br />

Francesco Gerar<strong>di</strong> si riscoprì fervente sanfe<strong>di</strong>sta “…essendo stato obbligato con la forza dai soldati<br />

francesi, alla piantagione del simbolico albero della libertà, in quella infausta domenica del 14<br />

aprile scorso”. Come risaputo però, i napoleonici tornarono a Napoli dopo qualche anno – nel 1806<br />

– e il re Borbone tornò a rifugiarsi a Palermo, restandoci questa volta per un intero decennio, giusto<br />

quanto durò il regno napoleonico su Napoli, con sul trono Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino<br />

Murat dopo.<br />

175


E a Brin<strong>di</strong>si che ne fu in quel decennio dell’ex sindaco borbonico - invero per sette giorni<br />

filofrancese - Gerar<strong>di</strong>? Ebbene, quando fu eletto sindaco per il periodo 1807-1808 Giuseppe<br />

Nichitich, noto giacobino, il Francesco Gerar<strong>di</strong> è tra i membri decurioni - la giunta - della sua<br />

amministrazione. Dal 1811 al 1813 fu sindaco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Francesco Sala, per <strong>di</strong>retta nomina<br />

murattiana e per tre anni interi, e dalla sua prima delibera decurionale del 3 gennaio 1811, tra i<br />

decurioni risulta esserci – anche e ancora – Francesco Gerar<strong>di</strong>: quin<strong>di</strong>, indubbiamente<br />

collaborazionista per tutto il decennio <strong>di</strong> governo francese a Napoli.<br />

Poi, caduto Napoleone e a restaurazione borbonica già consolidata, il 1° febbraio 1818, il<br />

Francesco Gerar<strong>di</strong>, nella veste formale <strong>di</strong> "Cavaliere del borbonico sovrano or<strong>di</strong>ne Costantiniano",<br />

lo si ritrova a presiedere il rituale <strong>di</strong> iniziazione a cavaliere <strong>di</strong> Giuseppe Villanova. Finalmente il 15<br />

settembre 1819, Gerar<strong>di</strong> quasi settantacinquenne, depositò presso il notaio Tommasi Minunni "sette<br />

documenti relativi tutti ai servigi prestati dal medesimo in qualità <strong>di</strong> sindaco all’epoca del 1799 in<br />

1800 pel fedelissimo real servizio". E perché mai quell’atto? Perché mai proprio in quella data già<br />

<strong>di</strong>stante dagli avvenimenti riferiti in quei sette documenti? Perché mai, insomma, il Gerar<strong>di</strong><br />

considerò in quel momento necessario, o comunque conveniente, documentare formalmente e<br />

integralmente quella "allora sua assoluta fedeltà" al Borbone?»<br />

6<br />

Rosario JURLARO Cronaca dei sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1787-1860 Amici della A. de Leo -<br />

Brin<strong>di</strong>si, 2001<br />

7<br />

Archivio Della Curia Arcivescovile Di Brin<strong>di</strong>si - Brin<strong>di</strong>si, 1800<br />

8<br />

Antonio LUCARELLI La Puglia nel Risorgimento Vol. III Dalla rivoluzione del 1799<br />

alla restaurazione del 1815 - Trani, 1951<br />

9<br />

Rapport fait au gouvernement francais par le general de <strong>di</strong>vision Alexandre Dumas, sur<br />

sa captivité à Tarente et à Brin<strong>di</strong>si, ports du Royaume de Naples - 5 Mai, 1801<br />

Documento ritrovato da Tom Reiss nella cassaforte del Museo Dumas a Villers Cotterêts<br />

10<br />

Museo Dumas a Villers Cotterêts<br />

Alexandre Dumas, generale <strong>di</strong> cavalleria – Dipinto <strong>di</strong> Olivier Pichat<br />

176


Francesco Gerar<strong>di</strong>: eclettico sindaco brin<strong>di</strong>sino <strong>di</strong> fine ‘700<br />

Pubblicato sul il7 Magazine del 1º <strong>di</strong>cembre 2017<br />

Nella lettura della voluminosa antologia stipata tra i capitoli e i documenti della<br />

“Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1787 al 1860” <strong>di</strong> Rosario Jurlaro, è inevitabile<br />

imbattersi in Francesco Antonio Gerar<strong>di</strong>, un personaggio brin<strong>di</strong>sino dal protagonismo<br />

ricorrente in tutti quei tribolati anni della cronaca citta<strong>di</strong>na trascorsi a cavallo tra il<br />

XVIII e il XIX secolo. Si legge <strong>di</strong> lui in ben 25 pagine <strong>di</strong>stribuite nell’arco <strong>di</strong> tutta la<br />

prima metà delle più <strong>di</strong> 700 pagine che compongono l’intero volume.<br />

Si inizia proprio dalla prima pagina in cui si relata che nel marzo del 1786, tale<br />

Antonio Cesarea, affittuario <strong>di</strong> un giar<strong>di</strong>no delle monache Benedettine vicino alla casa<br />

della Deputazione presso Porta Reale, mentre lavorava per risistemarne un settore<br />

abbandonato, scoprì accidentalmente un bauletto d’oro - lungo un palmo e alto mezzo<br />

- che avrebbe affidato al Francesco Gerar<strong>di</strong>, commerciante e suo cre<strong>di</strong>tore il quale<br />

aveva assistito casualmente al rinvenimento. Gerar<strong>di</strong> convinse Antonio a consegnargli<br />

il bauletto <strong>di</strong>etro promessa <strong>di</strong> venderlo e rendergli il ricavato, che valutò in principio<br />

intorno ai 460 ducati, o forse 600, il cui corrispettivo residuo però, il Gerar<strong>di</strong> non<br />

avrebbe mai completato interamente al Cesarea, per cui la moglie <strong>di</strong> questi, Tommasa<br />

Viola, si protestò cre<strong>di</strong>trice con atto pubblico del 25 novembre 1788, innanzi al notaio<br />

Carlo d’Ippolito, presso la casa del canonico Benedetto Montenegro.<br />

A detta <strong>di</strong> Tommasa, il marito cominciò a ostentare il denaro ricevuto e a commentare<br />

a vanvera del misterioso ritrovamento finché fu denunciato - sembra ad<strong>di</strong>rittura dal<br />

suo stesso fratello Teodoro - e dovette spendere gran parte del compenso ricevuto dal<br />

Gerar<strong>di</strong> per <strong>di</strong>fendersi dall’accusa, per cui lei chiese al Gerar<strong>di</strong> un compenso<br />

ad<strong>di</strong>zionale, ma sia il Gerar<strong>di</strong> che il marito, la minacciarono intimandole <strong>di</strong> non<br />

menzionare più con chicchessia quel ritrovamento. La minaccia fu, che se non avesse<br />

desistito dal parlare <strong>di</strong> quel misterioso bauletto d’oro, per giustificare la provenienza<br />

del denaro in possesso <strong>di</strong> suo marito lo avrebbero fatto attribuire al fatto che lei<br />

avesse acconsentito ad “atti confidenziali”.<br />

A detta <strong>di</strong> Antonio, invece, anch’egli recatosi il 4 <strong>di</strong>cembre innanzi al notaio presso la<br />

casa dei Montenegro, fu la moglie del Gerar<strong>di</strong> che s’ingelosì a causa delle sempre più<br />

frequenti visite <strong>di</strong> suo marito alla casa del giar<strong>di</strong>niere - e della moglie Tommasa - per<br />

cui le si dovette spiegare il tutto. E fu proprio da lì che al Gerar<strong>di</strong> venne la bella idea -<br />

per giustificare la ormai troppo palese sua donazione <strong>di</strong> ingenti somme <strong>di</strong> denaro ad<br />

Antonio e per quin<strong>di</strong> salvarsi dall’imputazione <strong>di</strong> occultamento del misterioso<br />

bauletto - <strong>di</strong> autoaccusarsi per aver “insi<strong>di</strong>ato l’onore” <strong>di</strong> Tommasa e <strong>di</strong> avere perciò<br />

dovuto compensare monetariamente e abbondantemente il marito circuito.<br />

Del misterioso bauletto d’oro non se ne parlò più e nel 1798 Francesco Gerar<strong>di</strong>,<br />

negoziante d’ogni mare, lo si ritrova eletto sindaco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, incarico che nonostante<br />

le gran<strong>di</strong> turbolenze politiche e militari <strong>di</strong> quegli anni, poté conservare fino a quasi<br />

tutto il 1800. Nato il 16 maggio 1746, figlio <strong>di</strong> Onofrio, fu battezzato il 17 maggio,<br />

sposò Isabella Gerar<strong>di</strong> figlia <strong>di</strong> Pasquale ed ebbe due figli: Maria Vincenza nel 1782 e<br />

Onofrio nel 1785.<br />

177


L’8 febbraio del 1799, a Brin<strong>di</strong>si si seppe che il re Fer<strong>di</strong>nando IV Borbone il 22<br />

<strong>di</strong>cembre aveva lasciato Napoli e si era rifugiato con tutta la famiglia e la corte a<br />

Palermo e che nella capitale occupata dalle truppe napoleoniche del generale<br />

Championnet, a gennaio era stata proclamata la Repubblica napoletana. E così, a<br />

Brin<strong>di</strong>si nei giorni che seguirono, molti furono i giacobini segnalati, veri o finti e molti<br />

altri furono i sanfe<strong>di</strong>sti, veri o finti.<br />

Da qualche giorno nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si erano giunte da Napoli le principesse <strong>di</strong><br />

Francia Adelaide e Vittoria zie <strong>di</strong> Luigi XVI accompagnate da nobili e alti prelati<br />

fuggendo tutti dalle inva<strong>di</strong>trici truppe napoleoniche e cercando un imbarco per Corfù,<br />

quando nella notte del 14 febbraio il basso popolo si rivoltò in <strong>di</strong>fesa dei Borbone e<br />

contro i supposti giacobini brin<strong>di</strong>sini, arrestando e rinchiudendo nel castello <strong>di</strong> terra<br />

quasi tutti i gentiluomini della città e finanche l’arcivescovo Annibale De Leo.<br />

Al mattino seguente però, la rivolta cambiò decisamente piega: si sparse infatti la voce<br />

che tra un gruppo <strong>di</strong> forestieri giunti in città in cerca <strong>di</strong> un imbarco a Corfù per fuggire<br />

dalla Rivoluzione francese, ci fosse anche il principe ere<strong>di</strong>tario Francesco Borbone. Si<br />

trattava invece <strong>di</strong> un giovane corso, Casimiro Raimondo Corbara, il quale fu<br />

consigliato dalle principesse e dal sindaco Gerar<strong>di</strong> <strong>di</strong> secondare l’errore per poter così<br />

placare i tumultuosi e far liberare gli arrestati della notte. L’imbroglio funzionò, la<br />

rivolta rientrò e il supposto principe s’imbarcò per Corfù... “onde ottenere soccorsi<br />

dalle potenze alleate”.<br />

Il 9 aprile il vascello <strong>di</strong> guerra francese “Généreux” seguito da quattro trasporti con<br />

mille uomini, entrò nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e intraprese una cruenta battaglia contro le<br />

forze sanfe<strong>di</strong>ste asserragliate nel forte <strong>di</strong> mare, riuscendo infine a sopraffarle pur<br />

subendo numerose per<strong>di</strong>te, tra le quali il proprio capitano, Louis Jean Nicolas Lejoille.<br />

I Francesi quin<strong>di</strong>, invitarono ed accolsero benignamente sul Généreux il sindaco<br />

Gerar<strong>di</strong> con l’arcivescovo De Leo e le altre autorità civili della città, le quali finalmente<br />

mostrarono tutt’altro che ostilità verso gli invasori e così le truppe francesi poterono<br />

sbarcare e occupare militarmente la piazza.<br />

Il giorno 13 aprile il popolo fu convocato nella Cattedrale per un Te Deum officiato<br />

dall’arcivescovo e quando il giorno 14 le autorità militari francesi nominarono i nuovi<br />

ufficiali municipali, il sindaco, Francesco Gerar<strong>di</strong>, fu confermato nella carica<br />

repubblicana. Dopo solo qualche giorno però, inaspettatamente il 16 aprile, tutti i<br />

soldati francesi lasciarono Brin<strong>di</strong>si, parte per mare e parte per terra, e non si poté<br />

sapere se per un or<strong>di</strong>ne ricevuto o per il sentore percepito che stessero per giungere<br />

le navi russe da Corfù nonché gli eserciti sanfe<strong>di</strong>sti dalla Calabria.<br />

Effettivamente, le navi moscovite arrivarono a Brin<strong>di</strong>si dopo qualche giorno, i primi <strong>di</strong><br />

maggio, e così il sindaco Gerar<strong>di</strong> si riscoprì fervente sanfe<strong>di</strong>sta “…essendo stato<br />

obbligato con la forza dai soldati francesi, alla piantagione del simbolico albero della<br />

libertà, in quella infausta domenica del 14 aprile”.<br />

Come risaputo però, i napoleonici tornarono a Napoli dopo qualche anno - nel 1806 - e<br />

anche il re Borbone tornò a rifugiarsi a Palermo, restandoci questa volta per un intero<br />

decennio, giusto quanto durò il regno napoleonico su Napoli, con sul trono Giuseppe<br />

Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo.<br />

178


Il vascello francese “Généreux” che il 9 aprile 1799<br />

attaccò e espugnò Forte a mare <strong>di</strong>feso dai sanfe<strong>di</strong>sti<br />

Louis Jean Nicolas Lejoille<br />

Capitano del Généreux<br />

E a Brin<strong>di</strong>si che ne fu in quel decennio dell’ex sindaco borbonico - invero per sette<br />

giorni filofrancese - Gerar<strong>di</strong>? Ebbene, quando fu eletto sindaco per il periodo 1807-<br />

1808 Giuseppe Nichitich, noto giacobino, il Gerar<strong>di</strong> è tra i membri decurioni - la giunta<br />

- della sua amministrazione. Il seguente sindaco, fino al 31 <strong>di</strong>cembre 1809, fu Cosimo<br />

Laviano e Gerar<strong>di</strong> è <strong>di</strong> nuovo nella giunta della nuova amministrazione.<br />

Dal 1811 al 1813 fu sindaco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Francesco Sala, per <strong>di</strong>retta nomina murattiana<br />

e per tre anni interi, e dalla sua prima delibera decurionale del 3 gennaio 1811, tra i<br />

decurioni risulta esserci anche - e ancora - Francesco Gerar<strong>di</strong>: quin<strong>di</strong>, indubbiamente<br />

collaborazionista per tutto il decennio <strong>di</strong> governo francese a Napoli.<br />

Poi, caduto Napoleone e a restaurazione borbonica già consolidata, l’1° febbraio 1818,<br />

il Francesco Gerar<strong>di</strong>, nella veste formale <strong>di</strong> “Cavaliere del borbonico sovrano or<strong>di</strong>ne<br />

Costantiniano”, lo si ritrova a presiedere il rituale <strong>di</strong> iniziazione a cavaliere <strong>di</strong><br />

Giuseppe Villanova, secondo quanto redatto dal notaio Tommaso Minunni.<br />

Finalmente il 15 settembre 1819, Francesco Gerar<strong>di</strong> quasi settantacinquenne, con atto<br />

del notaio Tommaso Minunni depositò “numero sette documenti relativi tutti ai servigi<br />

prestati dal medesimo in qualità <strong>di</strong> sindaco all’epoca del 1799 in 1800 pel fedelissimo<br />

real servizio”.<br />

Questa è l’ultima citazione che <strong>di</strong> Francesco Gerar<strong>di</strong> si fa nella Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, alla pagina 307. E perché mai quell’atto notarile? Perché mai proprio in quella<br />

data già <strong>di</strong>stante dagli avvenimenti riferiti in quei sette documenti? Perché mai,<br />

insomma, il Gerar<strong>di</strong> considerò in quel momento necessario, o comunque conveniente,<br />

documentare formalmente e integralmente quella “allora sua assoluta fedeltà“ al<br />

Borbone.<br />

179


Si concluse in un castello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si la lunga prigionia del generale<br />

Alexandre Dumas, ispiratore del leggendario Conte <strong>di</strong> Montecristo<br />

Pubblicato su Academia.edu – e, parzialmente, su il7 Magazine del 19 e 26 aprile 2019<br />

Il 7 marzo 1799 il generale francese Alexandre Dumas lasciò l'Egitto, dopo aver<br />

partecipato alla campagna napoleonica, <strong>di</strong>retto in Francia a bordo della Belle Maltaise.<br />

Dopo qualche giorno <strong>di</strong> navigazione però, le precarie con<strong>di</strong>zioni della nave e il mare in<br />

tempesta, costrinsero i francesi a cercare rifugio nel porto <strong>di</strong> Taranto, fiduciosi<br />

d'incontrare accoglienza amica in un territorio della novella Repubblica partenopea,<br />

da qualche settimana proclamata proprio con l'appoggio delle armi rivoluzionarie<br />

francesi. Non fu così: tutti furono catturati e imprigionati dai sanfe<strong>di</strong>sti del car<strong>di</strong>nale<br />

Fabrizio Ruffo che, per sfortuna <strong>di</strong> quei naufraghi francesi, da qualche giorno avevano<br />

ricondotto la città sotto il controllo borbonico.<br />

Per il generale Dumas iniziò così una lunga e penosa prigionia, che doveva concludersi<br />

nella cella <strong>di</strong> un castello <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si due anni dopo. Due anni <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> sofferenze per il<br />

generale prigioniero e due anni <strong>di</strong> eventi, che a momenti furono veramente incalzanti,<br />

trascorsi in una Brin<strong>di</strong>si ignara <strong>di</strong> quell'appuntamento frugale con la leggenda – quella<br />

del conte <strong>di</strong> Montecristo – che la <strong>storia</strong> gli aveva posto in serbo.<br />

Il generale Dumas, infatti, oltre ad essere<br />

«un militare sperimentato, un fervente repubblicano e un uomo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> convinzioni e<br />

spiccato valore morale, famoso per la sua forza fisica, la sua destrezza con la spada, il<br />

suo coraggio e la sua naturale capacità a <strong>di</strong>stricarsi con <strong>di</strong>sinvoltura dalle situazioni più<br />

<strong>di</strong>fficili, fu anche conosciuto per la sua impertinenza arrogante e per i suoi problemi con<br />

le autorità, fu un generale tra soldati, temuto dai nemici ed amato dai suoi uomini, un<br />

eroe in un mondo in cui tale appellativo non si attribuiva alla leggera» 1 .<br />

fu anche il padre del prestigioso romanziere Alexandre Dumas, autore dei Tre<br />

moschettieri e del Conte <strong>di</strong> Montecristo, i due arci famosi romanzi per i quali<br />

l'indubbio ispiratore fu proprio quel padre generale con la sua rocambolesca<br />

esistenza: quella <strong>di</strong> Thomas Alexander Davy de la Pailleterie, o più semplicemente<br />

Alex Dumas, come preferì firmarsi dopo essere asceso per merito proprio fino al grado<br />

<strong>di</strong> generale <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione.<br />

Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie 1 e 2<br />

Il famoso generale francese mulatto, noto anche come Alex Dumas, nacque il 25 marzo<br />

1762 a Jérémie, nella colonia caraibica francese <strong>di</strong> Saint Domingue – la o<strong>di</strong>erna Haiti –<br />

figlio <strong>di</strong> un nobile francese, il marchese Alexandre Antoine Davy de la Pailleterie (20<br />

giugno 1714, Belleville en Caux - 15 giugno 1786, Saint Germain en Laye) e <strong>di</strong> Marie<br />

Cessette Dumas (nata in Africa in data sconosciuta e morta probabilmente nel 1772 a<br />

La Guinaudée, vicino Jérémie in Saint Domingue), la schiava nera concubina <strong>di</strong><br />

Antoine.<br />

Il generale nella sua vita usò anche altri nomi, oltre a quello ufficiale <strong>di</strong> Thomas<br />

Alexandre Davy de la Pailleterie: Thomas Rethoré, Alexandre Dumas e Alex Dumas.<br />

Davy de la Pailleterie era il nome <strong>di</strong> famiglia <strong>di</strong> suo padre. Il nome Rethoré lo usò<br />

durante alcuni anni dopo che suo padre, nel 1776, riuscì rocambolescamente a farlo<br />

arrivare in Francia. Il nome Dumas era <strong>di</strong> sua madre e il primo riscontro del nome<br />

180


Alexandre Dumas, lo si trova nel registro del 6° Reggimento dei Dragoni della Regina,<br />

in cui si arruolò volontario il 2 giugno 1786 – nel rotolo <strong>di</strong> arruolamento, il futuro<br />

generale fu descritto come "alto 1,85 metri, con capelli neri e crespi, viso ovale, bocca<br />

piccola e labbra carnose". Usò la forma semplice Alex Dumas a partire dal 1794 e il suo<br />

nome completo Thomas Alexandre Dumas Davy de la Pailleterie lo si ritrova scritto sul<br />

certificato <strong>di</strong> nascita <strong>di</strong> suo figlio, il famoso scrittore romanziere Alexandre Dumas,<br />

nato nel 1802, qualche anno prima della morte del generale, sopraggiunta nel 1806.<br />

Il padre del generale, Alexandre Antoine Davy de la Pailleterie, era il primo dei tre figli<br />

del marchese Alexandre Davy de la Pailleterie (1674 - 1758) e <strong>di</strong> Jeanne Françoise<br />

Paultre de Dominon (morta nel 1757). I Davy de la Pailleteries erano aristocratici<br />

francesi della provincia normanna <strong>di</strong> Caux, la cui ricchezza era in declino. La famiglia<br />

aveva acquisito il titolo signorile nel 1632 e nel 1708 il re <strong>di</strong> Francia aveva concesso il<br />

titolo <strong>di</strong> marchese a Alexandre Davy de la Pailleterie, il nonno del generale. Gli altri<br />

due fratelli più giovani <strong>di</strong> Antoine, si chiamavano: Charles Anne Edouard, nato nel<br />

1716 e Louis François Thérèse, nato nel 1718. Tutti e tre i fratelli furono educati in<br />

una accademia militare per ufficiali dell'esercito francese e servirono nella guerra <strong>di</strong><br />

successione polacca. Antoine, che raggiunse il grado <strong>di</strong> colonnello, partecipò<br />

all'asse<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Philipsburg nel 1734.<br />

Nel 1732, Charles ebbe un incarico militare nella colonia francese <strong>di</strong> Saint Domingue,<br />

nel settore occidentale dell'isola La Spagnola nelle In<strong>di</strong>e Occidentali, dove si<br />

coltivavano piantagioni <strong>di</strong> canna da zucchero lavorate dalla schiavitù africana e nel<br />

1738 lasciò il servizio militare per <strong>di</strong>venire coltivatore <strong>di</strong> zucchero in quella colonia,<br />

sposando Marie Anne Tuffé, una ricca creola francese orfana <strong>di</strong> padre, e rilevandone la<br />

preziosa proprietà. Quell'anno anche Antoine lasciò l'esercito e si unì a suo fratello<br />

Charles e a sua moglie in Saint Domingue. Visse con loro e lavorò nella piantagione per<br />

<strong>di</strong>eci anni, fino al 1748 quando, dopo aver litigato violentemente con Charles, lasciò la<br />

piantagione portando con sé i suoi tre schiavi preferiti e interrompendo il contatto con<br />

suo fratello e con tutto il resto della sua famiglia.<br />

Quando, dopo la marchesa Jeanne Françoise, nel 1758 morì anche il marchese<br />

Alexandre Davy de la Pailleterie, in assenza <strong>di</strong> notizie del primogenito Antoine,<br />

Charles ritornato in Norman<strong>di</strong>a riven<strong>di</strong>cò e ottenne il titolo nobiliare del padre con il<br />

castello e le altre proprietà <strong>di</strong> famiglia. Poi, quando il blocco britannico alle spe<strong>di</strong>zioni<br />

francesi durante la guerra dei sette anni (1756-1763) limitò le esportazioni <strong>di</strong><br />

zucchero da Saint Domingue, Charles si de<strong>di</strong>cò a contrabbandare la merce da un<br />

territorio neutro, sul confine nordorientale della colonia, lo scoglio <strong>di</strong> Monte Christi,<br />

oggi in territorio della Repubblica Dominicana, <strong>di</strong> fronte al quale si trovava un<br />

isolotto: Monte Cristo.<br />

Charles morì <strong>di</strong> gotta nel 1773 e poco dopo, Louis, il più giovane dei tre fratelli,<br />

rimasto militare, fu coinvolto in uno scandalo collegato con la ven<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> armi <strong>di</strong>fettose<br />

all'esercito francese, un grande scandalo rimasto noto come "le procès des Invalides".<br />

Con la reputazione rovinata, Luis scontò una condanna <strong>di</strong> quin<strong>di</strong>ci giorni <strong>di</strong> carcere<br />

militare e, un mese dopo, anche lui morì.<br />

Antoine invece, il padre del generale, pur restando in Saint Domingue durante altri<br />

quasi trenta anni, <strong>di</strong>menticò la sua famiglia e si guadagnò da vivere in Jérémie come<br />

coltivatore <strong>di</strong> caffè e cacao nella sua modesta piantagione, La Guinaudèe, sotto il nome<br />

181


<strong>di</strong> Antoine de l'Isle. Acquistò la schiava Marie Cessette a un prezzo esorbitante e la<br />

tenne come concubina. Nel 1762 nacque il loro primo figlio mulatto Thomas<br />

Alexandre ed in seguito nacquero anche due figlie, Adolphe e Jeannette, che<br />

affiancarono una prima figlia <strong>di</strong> Marie Cessette, Marie Rose, avuta da un altro uomo<br />

prima dell'inizio della relazione con Antoine.<br />

Dopo la morte dei suoi due fratelli, Antoine, rimasto erede unico della famiglia Davy<br />

de la Pailleterie, nel 1775 e già sessantenne, decise <strong>di</strong> tornare in Francia giungendo in<br />

Norman<strong>di</strong>a nella prima settimana <strong>di</strong> <strong>di</strong>cembre per riscattare il titolo nobiliare e le<br />

residue proprietà della famiglia. Non avendo il denaro necessario al viaggio, se lo<br />

procurò vendendo a un tal Monsieur Carron <strong>di</strong> Nantes le tre figlie e forse – visto che<br />

alcune fonti in<strong>di</strong>cano che fosse già morta – anche la loro madre, la sua schiava<br />

concubina.<br />

La madre del generale, Marie Cessette Dumas, nacque in Africa e fu condotta come<br />

schiava nella colonia francese <strong>di</strong> Saint Domingue. L'unica fonte ufficiale con il suo<br />

nome completo è costituita dal certificato e dal contratto <strong>di</strong> matrimonio del figlio, il<br />

generale. Le Memoires <strong>di</strong> suo nipote, il romanziere Alexandre Dumas, in<strong>di</strong>cano come<br />

suo nome quello <strong>di</strong> Louise e un'altra fonte la registra come Cécile. Alcuni stu<strong>di</strong>osi<br />

hanno suggerito che Dumas non fosse un cognome per Marie Cessette, ma che<br />

significasse "della masseria" (du mas in francese) e che fu aggiunto al suo nome per<br />

in<strong>di</strong>care che apparteneva alla proprietà della piantagione. Altri autori hanno suggerito<br />

origini africane sia del nome Cessette che del nome Dumas. La schiava, destinata ad<br />

essere la matriarca <strong>di</strong> una saga <strong>di</strong> uomini illustri, convisse come concubina del suo<br />

proprietario Antoine nella piantagione <strong>di</strong> caffè La Guinaudée, vicino la città portuaria<br />

<strong>di</strong> Jérémie in Saint Domingue, verosimilmente fino alla sua morte, avvenuta nel 1772,<br />

o nel 1775, o forse ancor dopo.<br />

Oltre alle tre sorelle, anche Thomas Alexandre, che aveva quattor<strong>di</strong>ci anni d'età, fu<br />

venduto dal padre Antoine per 800 lire francesi, al capitano Langlois in Porto Principe.<br />

Questa ven<strong>di</strong>ta però, fu effettuata con <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> riscatto, fornendo sia un modo legale<br />

per mandare Alexandre in Francia con Langlois e sia un prestito temporaneo per le<br />

spese del viaggio.<br />

Così, il ragazzo accompagnato dal capitano Langlois arrivò al molo <strong>di</strong> El Havre in<br />

Francia il 30 agosto 1776, registrato sul manifesto della nave come lo schiavo<br />

Alexandre, proprietà <strong>di</strong> un tal tenente Jaques Louis Roussel. Appena sbarcato, suo<br />

padre lo ricomprò e lo liberò, portandolo con il nome <strong>di</strong> Thomas Retoré – cognome<br />

probabilmente preso in prestito da un vicino <strong>di</strong> casa <strong>di</strong> Jérémie – nella riscattata<br />

tenuta <strong>di</strong> famiglia a Belleville in Caux, Norman<strong>di</strong>a, dove vissero per più <strong>di</strong> un anno,<br />

finché, venduta quella proprietà si trasferirono in una casa in rue de l'Aigle d'Or, nel<br />

sobborgo parigino <strong>di</strong> Saint Germain en Laye.<br />

Già riconosciuto legalmente dal padre e quin<strong>di</strong> con <strong>di</strong>ritto a chiamarsi Thomas<br />

Alexandre Davy de la Pailleterie, il giovane figlio <strong>di</strong> un marchese, e quin<strong>di</strong> conte, stu<strong>di</strong>ò<br />

all'accademia <strong>di</strong> Nicolas Texier de La Boëssière, maestro <strong>di</strong> sciabola del re, dove<br />

ricevette la tipica istruzione superiore <strong>di</strong> un giovane nobile del tempo. In quella scuola<br />

imparò anche l'arte della spada dal Cavaliere Saint Georges, un altro uomo <strong>di</strong> razza<br />

mista originario dei Caraibi francesi, considerato all'epoca essere il migliore<br />

spadaccino del mondo. E con il denaro ricavato dalla ven<strong>di</strong>ta della tenuta <strong>di</strong> famiglia,<br />

182


grazie alla generosità <strong>di</strong> suo padre, per una decina <strong>di</strong> anni il giovane Thomas visse una<br />

vita abbastanza agiata, socializzando in luoghi come il Palais Royal e il Teatro Nicolet,<br />

fino a compire 24 anni, nel 1786.<br />

Il 3 febbraio <strong>di</strong> quell'anno, Antoine sposò la trentenne Mademoiselle Françoise Retou,<br />

già sua domestica principale nel castello <strong>di</strong> famiglia ormai venduto e <strong>di</strong>venuta da già<br />

qualche anno sua convivente. Secondo le Memoires del figlio del generale – il<br />

romanziere Dumas – Thomas si manifestò in totale <strong>di</strong>saccordo con quella decisione<br />

del padre e non volle firmare come testimone e neanche assistere a quel matrimonio,<br />

che finì con propiziare il raffreddamento delle relazioni tra padre e figlio.<br />

Qualche mese dopo, Thomas decise <strong>di</strong> unirsi all'esercito francese, un'occupazione<br />

comune per i gentiluomini francesi <strong>di</strong> quel tempo. Però, a <strong>di</strong>fferenza dei suoi nobili<br />

pari che presero le armi come ufficiali, Thomas si dovette arruolare come soldato<br />

semplice. Una regola militare stabilita nel 1781, per ottenere la qualificava <strong>di</strong> ufficiale<br />

richiedeva che si <strong>di</strong>mostrassero almeno quattro generazioni <strong>di</strong> nobiltà dal lato<br />

paterno, e anche se Thomas possedeva tale requisito, le leggi razziali francesi<br />

rendevano <strong>di</strong>fficile per un uomo <strong>di</strong> razza mista riven<strong>di</strong>care il suo legittimo titolo o<br />

status nobiliare.<br />

Secondo le Memoires, conosciuto il progetto <strong>di</strong> Thomas <strong>di</strong> arruolarsi come un semplice<br />

soldato <strong>di</strong> cavalleria, suo padre insistette affinché il figlio prendesse un nome <strong>di</strong><br />

battaglia per non trascinare il loro nobile cognome <strong>di</strong> famiglia nei ranghi bassi<br />

dell'esercito. Ma Thomas, nel cui animo si fu ra<strong>di</strong>cando ancor <strong>di</strong> più il suo già notevole<br />

rancore maturato verso il padre, il 2 giugno 1786, si iscrisse al 6° Reggimento dei<br />

Dragoni della Regina con il nome "Alexandre Dumas" assumendo così quello della<br />

madre e, 13 giorni dopo, suo padre Antoine, morì.<br />

Il soldato generale Alexandre Dumas 1 e 2<br />

La folgorante carriera militare <strong>di</strong> Alexandre Dumas iniziò, quin<strong>di</strong>, nei Dragoni della<br />

Regina e il 15 agosto 1789, a un mese dall'inizio della Rivoluzione, la sua unità fu<br />

inviata nella città <strong>di</strong> Villers Cotterêts, giacché il capo locale della Guar<strong>di</strong>a Nazionale,<br />

l'albergatore Claude Labouret, ne aveva fatto richiesta per controllare l'ondata <strong>di</strong><br />

violenza rurale che anche lì <strong>di</strong>lagava incontrollata. Dumas alloggiò presso l'Hôtel de<br />

l'Ecu per quattro mesi e si fidanzò con la figlia dell'albergatore, Marie Louise. Poi, il<br />

suo reggimento fu inviato a Parigi il 17 luglio 1791, in funzione antisommossa insieme<br />

alle unità della Guar<strong>di</strong>a Nazionale, sotto il <strong>di</strong>retto comando del marchese Lafayette,<br />

partecipando al famoso massacro <strong>di</strong> Champ de Mars.<br />

Caporale della Rivoluzione nel 1792, Dumas ebbe la sua prima esperienza <strong>di</strong><br />

combattimento in un attacco francese contro i Paesi Bassi Austriaci nell'aprile <strong>di</strong><br />

quell'anno. Era uno dei 10.000 uomini sotto il comando del generale Biron e sul<br />

confine belga, vicino a Maulde, il 18 agosto 1792 catturò 12 soldati nemici mentre<br />

guidava il suo piccolo gruppo <strong>di</strong> esploratori e la sua reputazione cominciò a crescere e<br />

a <strong>di</strong>ffondersi tra i militari francesi.<br />

Nell'ottobre 1792, con a Parigi già proclamata la repubblica, a Dumas fu offerto <strong>di</strong><br />

entrare con il grado <strong>di</strong> tenente colonnello nella Légion franche des Américains et du<br />

Mi<strong>di</strong>, fondata un mese prima da Julien Raimond. Una legione libera, in<strong>di</strong>pendente cioè<br />

dall'esercito regolare, composta da uomini <strong>di</strong> colore liberi.<br />

183


Fu chiamata in vari mo<strong>di</strong> "Legione americana", "Legione nera" e “Legione <strong>di</strong> Saint<br />

Georges”. Il comandante della legione, infatti, era il Cavaliere Saint Georges, l'ex<br />

istruttore <strong>di</strong> Dumas nell'arte della spada, e fu proprio lui a volere con sé nella legione<br />

quel fervente e convinto repubblicano, nominandolo comandante in seconda e<br />

permettendogli <strong>di</strong> comandarla più volte, durante le sue sempre frequenti assenze.<br />

Il 28 novembre 1792, mentre era <strong>di</strong> stanza con la legione ad Amiens, Dumas sposò<br />

Marie Louise Elisabeth Labouret a Villers Cotterêts – testimone fu anche Madame<br />

Retou, la vedova <strong>di</strong> suo padre – dove poi comprò una fattoria <strong>di</strong> 30 acri, che abitò con<br />

la sua famiglia nei momenti liberi dalle sue campagne militari. Lì nacquero le sue due<br />

figlie, Marie Alexandrine il 10 settembre 1794 e Louise Alexandrine, nata nel 1796 e<br />

morta l'anno seguente e, il 24 luglio 1802, anche il suo unico figlio Alexander, il futuro<br />

famoso romanziere.<br />

Sciolta la legione, il 30 luglio 1793 Dumas fu promosso a generale <strong>di</strong> brigata<br />

nell'esercito del Nord e un mese dopo fu promosso <strong>di</strong> nuovo, a generale <strong>di</strong> <strong>di</strong>visione,<br />

ricevendo il 19 settembre l'incarico <strong>di</strong> comandare l'esercito dei Pirenei Occidentali. Il<br />

22 <strong>di</strong>cembre 1793 fu inviato a comandare i 53.000 uomini dell'esercito delle Alpi<br />

contro le truppe austriache e piemontesi che <strong>di</strong>fendevano il passo del Piccolo San<br />

Bernardo coperto dal ghiacciaio del Moncenisio, sul confine franco-piemontese. Dopo i<br />

mesi invernali <strong>di</strong> pianificazione e ricognizione con base a Grenoble, nella primavera<br />

del 1794 Dumas lanciò i primi assalti, finché il 5 aprile iniziò le operazioni<br />

conquistando prima il passo del Piccolo San Bernardo e, il 14 maggio, la vetta del<br />

Moncenisio, dopo aver scalato impervie scogliere <strong>di</strong> ghiaccio e facendo più <strong>di</strong> mille<br />

prigionieri: una strepitosa e strategica vittoria, che fece scalpore anche a Parigi.<br />

Tra agosto e ottobre del 1794, il generale Alex Dumas passò al comando dell'esercito<br />

d'Occidente, per controllare la massiccia rivolta da tempo scoppiata nella regione della<br />

Vandea contro il governo rivoluzionario <strong>di</strong> Parigi. In quel comando, molto s'impegnò<br />

nel migliorare la <strong>di</strong>sciplina militare e nell'eliminare gli abusi da parte dei soldati sulla<br />

popolazione locale. Per il suo agire in quella missione, fu poi descritto come "un<br />

soldato senza paura e irreprensibile, un leader che merita <strong>di</strong> passare ai posteri,<br />

contrastando favorevolmente con il comportamento dei suoi contemporanei, che la<br />

pubblica in<strong>di</strong>gnazione inchioderà sempre alla gogna della Storia". Dopo un periodo <strong>di</strong><br />

licenza trascorso a casa con la sua famiglia, nel settembre 1795, Dumas fu incorporato<br />

all'esercito del Reno comandato dal generale Jean Baptiste Kléber e partecipò<br />

all'attacco francese a Düsseldorf, dove fu ferito.<br />

Nel novembre del 1796, Alex Dumas fu trasferito oltralpe e inviato a Milano per unirsi<br />

all'esercito d'Italia – comandato in capo dall'ancora poco conosciuto generale<br />

Napoleone Bonaparte – che era entrato in Piemonte ad aprile e quin<strong>di</strong> a Milano il 15<br />

maggio. In quel periodo, tra i due generali sorse una certa tensione, quando Dumas<br />

obiettò e provò a contrastare la politica <strong>di</strong> Napoleone <strong>di</strong> consentire<br />

in<strong>di</strong>scriminatamente alle truppe francesi <strong>di</strong> saccheggiare le proprietà nei territori che<br />

venivano occupati e <strong>di</strong> maltrattarne gli abitanti. Nel <strong>di</strong>cembre Dumas fu messo a capo<br />

della <strong>di</strong>visione che asse<strong>di</strong>ava la strategica città <strong>di</strong> Mantova e, grazie anche ad una sua<br />

risoluta azione <strong>di</strong> controspionaggio e con pochi uomini, riuscì a bloccare il tentativo<br />

austriaco del 16 gennaio 1797 <strong>di</strong> rompere l'asse<strong>di</strong>o, permettendo l'arrivo dei rinforzi<br />

francesi che il 2 febbraio ottennero la capitolazione della città. Dopo quei<br />

184


combattimenti, Dumas si sentì offeso dalla descrizione poco e<strong>di</strong>ficante delle sue<br />

azioni, contenuta nel rapporto <strong>di</strong> battaglia del generale Berthier, aiutante <strong>di</strong> campo <strong>di</strong><br />

Bonaparte e se ne lamentò a<strong>di</strong>ratamente e insolentemente con il comandante in capo,<br />

Napoleone. E così, nel rapporto <strong>di</strong> battaglia che questi inviò al Direttorio della<br />

Rivoluzione, l'impertinente Dumas fu ad<strong>di</strong>rittura ignorato.<br />

In seguito, gli fu assegnato un comando ben al <strong>di</strong> sotto del suo grado, la guida <strong>di</strong> una<br />

sotto<strong>di</strong>visione agli or<strong>di</strong>ni del generale Masséna, però anche in quella posizione, nel<br />

febbraio 1797, Dumas si <strong>di</strong>stinse permettendo all'esercito francese <strong>di</strong> spingere le<br />

truppe austriache verso nord e catturandone migliaia nell'inseguimento. Fu in quel<br />

periodo che, <strong>di</strong>venuto famoso anche tra i nemici, i soldati austriaci iniziarono a<br />

chiamarlo Schwarze Teufel (Diavolo Nero). L'apice della popolarità <strong>di</strong> Dumas in quella<br />

prima campagna napoleonica d'Italia arrivò quando, passato sotto il comando del suo<br />

amico generale Joubert, combatté lungo le rive dell'A<strong>di</strong>ge terrorizzando gli austriaci<br />

finché un giorno, il 23 marzo, respinse da solo un intero squadrone <strong>di</strong> loro truppe su<br />

un ponte sul fiume Eisack a Klausen – oggi Chiusa, in Italia – e per quell'impresa i<br />

francesi iniziarono a riferirsi a lui come "l'Orazio coclite del Tirolo". Fu lo stesso<br />

Napoleone a suggerirlo e quella volta lo ricompensò facendolo comandante <strong>di</strong> tutte le<br />

forze <strong>di</strong> cavalleria nel Tirolo. Con quell'incarico, Dumas trascorse gran parte del 1797<br />

come governatore militare, amministrando la provincia <strong>di</strong> Treviso, raccogliendo per<br />

sé anche il favore degli abitanti.<br />

Lasciato quell'incarico <strong>di</strong> governatore, Dumas tornò per qualche mese a casa, a Villers<br />

Cotterêts, finché nel marzo 1798 il Ministero della Guerra gli or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> presentarsi a<br />

Toulon per un incarico imprecisato. Si unì a un'enorme armata francese che si stava<br />

ammassando lì, in preparazione della partenza per una destinazione segreta. L'armata<br />

partì il 19 maggio 1798, con destinazione ancora non annunciata e fu solo il 23 giugno,<br />

dopo che la flotta aveva conquistato e saccheggiato Malta, che Napoleone, al comando<br />

della spe<strong>di</strong>zione, annunciò ai suoi 54.000 uomini lo scopo principale della missione:<br />

conquistare l'Egitto. E mentre era a bordo della nave Guillaume Tell, nel mezzo del Mar<br />

Me<strong>di</strong>terraneo in rotta verso Alessandria, Dumas fu nominato comandante della<br />

cavalleria dell'esercito d'Oriente. L'armata arrivò in porto alla fine <strong>di</strong> giugno e il 2<br />

luglio Dumas guidò i granatieri fin sotto le mura, entrando in città con il resto delle<br />

truppe francesi. In quell'occasione, l'ufficiale me<strong>di</strong>co della spe<strong>di</strong>zione Renè Nicolas<br />

Desgenettes, raccontò che gli egiziani, al confrontare l'altezza e la struttura fisica <strong>di</strong><br />

Dumas con quelle <strong>di</strong> Napoleone, credettero fosse Dumas il vero comandante della<br />

spe<strong>di</strong>zione.<br />

Dal 7 al 21 luglio, a Dumas toccò guidare la cavalleria dell'esercito invasore nella lunga<br />

marcia verso sud, da Alessandria al Cairo, sostenendo vari scontri con la cavalleria<br />

mamelucca, la principale forza militare egiziana. Per le truppe francesi, le con<strong>di</strong>zioni<br />

nel deserto risultarono estremamente dure, per il calore, la sete, la stanchezza e la<br />

mancanza <strong>di</strong> rifornimenti adeguati, provocando finanche un certo numero <strong>di</strong> suici<strong>di</strong>.<br />

Accampati a Damanhour, Dumas incontrò <strong>di</strong>versi altri generali, tra i quali Lannes,<br />

Desaix e Murat, con i quali esternò critiche alle modalità <strong>di</strong> conduzione dell'impresa da<br />

parte del comandante Napoleone, e con loro <strong>di</strong>scusse anche sulla possibilità <strong>di</strong><br />

eventualmente rifiutarsi <strong>di</strong> proseguire la marcia al <strong>di</strong> là del Cairo. Conclusa<br />

vittoriosamente il 21 luglio la battaglia delle Pirami<strong>di</strong>, durante l'occupazione del Cairo<br />

Napoleone apprese <strong>di</strong> quelle critiche del suo generale Dumas e lo affrontò<br />

185


a<strong>di</strong>ratamente, minacciando finanche <strong>di</strong> sparargli per se<strong>di</strong>zione. In risposta, Dumas<br />

solo gli chiese il permesso <strong>di</strong> tornare in Francia e Napoleone non si oppose a quella<br />

richiesta. Ormai, lo scontro tra i due generali della Rivoluzione, oltre che ideologico,<br />

era <strong>di</strong>venuto anche personale.<br />

Però, a causa della quasi totale <strong>di</strong>struzione dell'armata francese – nella baia <strong>di</strong> Abukir<br />

il 1° agosto a opera della flotta britannica dell'ammiraglio Orazio Nelson – nella<br />

battaglia del Nilo presso Alessandria, Dumas non fu in grado <strong>di</strong> lasciare l'Egitto e<br />

rimase al Cairo prestando regolare servizio fino alla primavera dell'anno successivo.<br />

In ottobre, tra il 21 e il 22, Dumas fu determinante nel reprimere una rivolta<br />

antifrancese al Cairo, caricando a cavallo i ribelli nella moschea <strong>di</strong> Al Azhar. E per<br />

l'occasione, Napoleone <strong>di</strong>sse a Dumas: "Ci sarà un <strong>di</strong>pinto sulla presa della moschea e<br />

tu ne sarai la figura centrale". Un<strong>di</strong>ci anni dopo, in effetti, il <strong>di</strong>pinto "La rivolta del<br />

Cairo" fu commissionato da Napoleone a Girodet però, nel centro del quadro, l'ufficiale<br />

francese che a cavallo sta guidando la carica nella moschea è un uomo bianco.<br />

Cattura e prigionia a Taranto del generale Dumas<br />

Il 7 marzo 1799 Dumas finalmente lasciò l'Egitto a bordo della corvetta Belle Maltaise,<br />

una nave militare <strong>di</strong>smessa, in compagnia del suo amico, il generale Jean Baptiste<br />

Manscourt du Rozoy, del geologo Déodat Gratet de Dolomieu, <strong>di</strong> quaranta soldati<br />

francesi feriti e numerosi civili maltesi e genovesi per un totale <strong>di</strong> quasi 120 imbarcati.<br />

Dumas aveva venduto ciò che possedeva nei suoi alloggi al Cairo e con il ricavato<br />

aveva noleggiato la nave e aveva acquistato duemila chili <strong>di</strong> caffè e un<strong>di</strong>ci cavalli arabi<br />

– due stalloni e nove fattrici – con l'intenzione <strong>di</strong> costituire un allevamento presso la<br />

sua fattoria a Villers Cotterêts.<br />

Durante la navigazione però, la vecchia nave cominciò a fare acqua e Dumas dovette<br />

gettare via gran parte del suo carico, per poi, finalmente, rifugiarsi a causa del<br />

maltempo nel porto <strong>di</strong> Taranto, nel Regno <strong>di</strong> Napoli, dove Dumas e i suoi compagni si<br />

aspettavano un ricevimento amichevole, avendo saputo che il regno era stato<br />

rovesciato dalla Repubblica Partenopea instaurata sul modello <strong>di</strong> quella francese.<br />

Ma quella repubblica, costituita a Napoli il 24 gennaio 1799, era risultata precaria e<br />

nelle province del sud aveva presto ceduto alle forze filoborboniche dell'esercito della<br />

Santa Fede guidato dal car<strong>di</strong>nale Fabrizio Ruffo, fedele al re Fer<strong>di</strong>nando IV, che dalla<br />

Sicilia era sbarcato sulla penisola e la stava risalendo con l'intenzione, poi finalmente<br />

concretizzata, <strong>di</strong> raggiungere Napoli, la capitale del regno, e <strong>di</strong> restaurare il potere<br />

monarchico, combattendo le forze francesi presenti sul territorio del regno. Napoli,<br />

pochi mesi prima, era caduta nel caos dopo che il 22 <strong>di</strong>cembre 1798 il re Fer<strong>di</strong>nando<br />

IV l'aveva abbandonata rifugiandosi a Palermo, avendo fallito nel suo intrepido<br />

tentativo <strong>di</strong> liberare Roma dalle truppe francesi e lasciando sgombra la strada al<br />

generale napoleonico Jean Etienne Championnet.<br />

A Brin<strong>di</strong>si le notizie <strong>di</strong> quegli eventi napoletani erano giunte l'8 febbraio, quattro<br />

giorni dopo che nel porto era arrivato un bastimento mercantile con a bordo Vittoria e<br />

Adelaide, due principesse francesi zie del re Luigi XVI accompagnate da un folto<br />

gruppo <strong>di</strong> nobili e alti prelati, in fuga dalle truppe napoleoniche che erano già<br />

penetrate nel regno <strong>di</strong> Napoli e in attesa <strong>di</strong> un imbarco sicuro verso Trieste, o verso<br />

Oriente dove flotte russe turche e inglesi tenevano asse<strong>di</strong>ata Corfù, destinata presto<br />

186


ad essere liberata dall'occupazione francese e dove, in effetti, dopo varie settimane<br />

d'attesa furono infine accompagnate le due principesse con il loro seguito.<br />

Poi, nei seguenti mesi, e specialmente nei giorni trascorsi tra il 14 febbraio e il 16 <strong>di</strong><br />

aprile <strong>di</strong> quel 1799, in città si susseguirono fatti clamorosi e per certi aspetti anche<br />

rocamboleschi, perfetto riflesso della situazione politica e militare del tutto caotica in<br />

cui si ritrovò a versare in quel frangente storico, l'intero sud della penisola 3 :<br />

Nella notte tra il 13 e il 14 <strong>di</strong> febbraio, mentre il popolo citta<strong>di</strong>no si era sollevato a<br />

<strong>di</strong>fesa del re <strong>di</strong> Napoli, giunsero a Brin<strong>di</strong>si cinque corsi <strong>di</strong>sertori della repubblica<br />

rivoluzionaria francese, guidati da un tal Buonafede Gerunda <strong>di</strong> Monteiasi,<br />

intenzionati a trovare un imbarco. Corse voce nel popolo in piena rivolta, che uno <strong>di</strong><br />

quelli, Casimiro Raimondo Corbara, fosse il principe ere<strong>di</strong>tario, Francesco, e che un<br />

altro, Giovanni Francesco Boccheciampe, fosse il fratello dello stesso re <strong>di</strong> Napoli.<br />

Tanto bastò perché non si pensasse più a perseguire i giacobini locali, ma ad onorare il<br />

venuto principe, accogliendolo nella Cattedrale. Il supposto principe, consigliato dalle<br />

due principesse francesi e dalle stesse autorità citta<strong>di</strong>ne a secondare quello scambio <strong>di</strong><br />

identità, sostenne bene la sua parte, ottenendo che si sedasse il tumulto e che fossero<br />

posti in libertà tutti coloro che erano stati arrestati. Dopo <strong>di</strong> ciò il principe si imbarcò<br />

per Corfù, via Otranto, “onde ottenere dalle potenze alleate del re <strong>di</strong> Naopli, soccorsi e<br />

truppe regolari per <strong>di</strong>fendere la città dai rivoluzionari francesi”. Rimasero a Brin<strong>di</strong>si<br />

due del suo seguito, Boccheciampe e Giovan Battista De Cesari, i quali assoldarono<br />

numerosi popolani volontari per la <strong>di</strong>fesa armata sanfe<strong>di</strong>sta.<br />

«[…] Boccheciampe, fatti arrestare il 6 marzo i ministri del tribunale <strong>di</strong> Lecce in fama <strong>di</strong><br />

giacobini, li mandò al Forte a mare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si tra turbe fanatiche che per poco non li<br />

uccisero.<br />

[…] Il giorno 9 aprile al far del giorno fu veduto sulle acque della vicina Torre Penna un<br />

grosso vascello da guerra che poco dopo si trovò in faccia alla fortezza <strong>di</strong> mare. Era un<br />

vascello francese nominato Genereux, al quale nella <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Abukir era riuscito <strong>di</strong><br />

scampare e non <strong>di</strong>venir preda della flotta inglese comandata da Nelson. Lo seguivano<br />

quattro trasporti con mille uomini da sbarco, viveri e munizioni da guerra. […] Si<br />

impegnò l’azione tra il vascello e la fortezza, la quale era rimasta spogliata <strong>di</strong> <strong>di</strong>fensori. Il<br />

Boccheciampe e alcuni capi delle masse uscirono del forte, ed andarono a rifugiarsi sulla<br />

vicina isola del lazzaretto. Un ufficiale <strong>di</strong> artiglieria chiamato Giustiniano Albani per tre<br />

ore sostenne l’attacco col bravo artigliere <strong>di</strong> cognome Lafuenti, e maneggiando un solo<br />

cannone. […] Rimasto solo l'ufficiale fu obbligato ad inalberare la ban<strong>di</strong>era bianca ed<br />

arrendersi. Capitolò la salvezza della vita per sé e per gli altri, ma i francesi vollero<br />

escluso dalla capitolazione il Boccheciampe, che menarono prigioniero. Da alcuni è stato<br />

detto che l'avessero fucilato, da altri che partiti da Brin<strong>di</strong>si l'avessero mandato libero.<br />

[…] Sul mezzogiorno sbarcati da trabbaccolli che seguivano il vascello, in numero <strong>di</strong><br />

circa mille uomini, occuparono la fortezza e la città. La tennero per otto giorni, nei quali,<br />

la notte del 10, ebbero un attacco dalla truppa a massa venuta in sotto le mura, la quale<br />

avendo conosciuto inutile ogni tentativo <strong>di</strong> scacciare il nemico retrocedé nella vicina<br />

Mesagne, ove si sciolse. […] Anche la città dall'alto della collina ove sorgono le antiche<br />

colonne dette i segni della resa, e poi spedì sul vascello una deputazione parlamentaria,<br />

composta dalle principali autorità, fra le quali l'arcivescovo Annibale De Leo e il sindaco<br />

Francesco Gerar<strong>di</strong>. Fu la deputazione molto bene accolta, ed anche trattenuta alla<br />

mensa. Ebbe quin<strong>di</strong> l'incarico <strong>di</strong> assicurar la città che sebbene sarebbe occupata dalla<br />

truppa, pure questa vi entrerebbe da amica.<br />

187


[…] Sbarcati i francesi a Brin<strong>di</strong>si, i repubblicani del Salento si adoperarono per<br />

schiacciare la controrivoluzione ancora capeggiata da De Cesari. Andrea Tresca da Lecce<br />

si adoperò allora per ridare libertà ai prigionieri fatti da Boccheciampe e detenuti l’8<br />

marzo nel castello marittimo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. […] L’arcivescovo De Leo fu ridotto alle<br />

massime angustie dalle così dette truppe repubblicane straniere, che il 9 aprile da<br />

nemiche invasero questa nostra città. Esse purtroppo abusando della licenza militare,<br />

tennero il <strong>di</strong> lui Episcopio non sol come locanda, ma come taverna aperta<br />

incessantemente a lor <strong>di</strong>screzione, e dove gli uffiziali superiori arbitrariamente<br />

s’intrudevano e stravizzavano con eccessiva insolenza a spese del prelato, <strong>di</strong>lapidando<br />

così il patrimonio de' suoi poveri.<br />

[…] Il dì 16, premurati da replicati or<strong>di</strong>ni del generale <strong>di</strong> Bari, inchiodati i cannoni e<br />

buttata in mare la polvere della fortezza, i soldati francesi evacuarono la città partendo<br />

per quella volta. […] La città restò in una somma tranquillità, molto più che ci era la<br />

vicina speranza <strong>di</strong> vedere presto nel nostro porto i soccorsi promessi dalla flotta <strong>di</strong><br />

Corfù, cui già quella città si era resa. […] Partiti i francesi, subito scesi dalle tre navi<br />

moscovite i soldati coll’ufficiali hanno fatta la carcerazione <strong>di</strong> cinque intere famiglie,<br />

cioè una del castellano Giovanni Bianchi, l’altra dell’arcivescovo ed altre. Il detto giorno<br />

è arrivato un ambasciatore moscovito in Lecce e subito partì il signor preside Tommaso<br />

Luperto per Brin<strong>di</strong>si per far sospendere la giustizia che li moscoviti volevano fare <strong>di</strong><br />

fucilare tutte quelle cinque famiglie da loro carcerati. […] Molti furono i repubblicani<br />

giacobini, o presunti tali, della Terra d’Otranto che furono imprigionati e processati a<br />

Lecce e, nelle carceri napoletane <strong>di</strong> Portici e Granili, tra le migliaia <strong>di</strong> prigionieri della<br />

repressione borbonica del 1799, molti risultarono essere <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si» 4 .<br />

In questo clima politico-militare, la cattura dei naufraghi francesi della Belle Maltaise<br />

fu inevitabile e le autorità sanfe<strong>di</strong>ste che da una settimana, dall'8 marzo,<br />

ricontrollavano la piazza <strong>di</strong> Taranto, imprigionarono Dumas, Manscourt e il resto dei<br />

francesi della Belle Maltaise, confiscando la maggior parte delle loro cose.<br />

Durante i primi giorni da recluso, nei quali gli fu impossibile riuscire a parlare con un<br />

qualche ufficiale <strong>di</strong> alto rango a cui chiedere spiegazioni sulla sua prigionia, Dumas<br />

ricevette la visita <strong>di</strong> un personaggio enigmatico, Giovanni Francesco Boccheciampe,<br />

presunto fratello del re <strong>di</strong> Spagna, ma in realtà <strong>di</strong>sertore corso che da poco più <strong>di</strong> un<br />

mese era sorto a capo delle forze sanfe<strong>di</strong>ste della provincia <strong>di</strong> Lecce, riconquistandola<br />

quasi tutta alla corona borbonica, Taranto inclusa. Ma neanche da lui ebbe un qualche<br />

chiarimento circa la sua detenzione. L'avventuriero Boccheciampe aveva acquistato<br />

improvvisa fama rocambolescamente quando, giunto il 14 febbraio a Brin<strong>di</strong>si, era<br />

stato creduto essere il fratello del re <strong>di</strong> Spagna ed era stato acclamato capo armato dei<br />

locali controrivoluzionari sanfe<strong>di</strong>sti.<br />

Qualche settimana dopo, il car<strong>di</strong>nale Ruffo fece chiedere ai due generali francesi<br />

prigionieri a Taranto, Dumas e Manscourt, <strong>di</strong> comunicare ai comandanti delle forze<br />

francesi ancora in Napoli, una proposta <strong>di</strong> scambio <strong>di</strong> prigionieri: loro due in cambio<br />

proprio <strong>di</strong> quello stesso controrivoluzionario corso, Boccheciampe, fatto prigioniero<br />

dalle truppe francesi che il 9 aprile erano giunte nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si al seguito del<br />

vascello Généreux proveniente dall'Egitto, scampato dalla <strong>di</strong>sfatta <strong>di</strong> Abukir, ed<br />

avevano conquistato la città. Inviata a Napoli quella proposta però, il car<strong>di</strong>nale Ruffo<br />

perse interesse in quell'eventuale scambio <strong>di</strong> prigionieri, quando sospettò che il<br />

Boccheciampe fosse stato fucilato dai francesi quale <strong>di</strong>sertore, evento in effetti<br />

188


verosimilmente avvenuto tra il 18 e il 19 aprile nei pressi <strong>di</strong> Trani, per or<strong>di</strong>ne del<br />

generale J. Sarrazin.<br />

E così, sfumata ogni possibilità <strong>di</strong> liberazione imme<strong>di</strong>ata, dopo quasi sette settimane<br />

dalla loro detenzione, il 4 maggio Dumas e Manscourt furono <strong>di</strong>chiarati prigionieri <strong>di</strong><br />

guerra dell'esercito della Santa Fede, mentre quasi tutti gli altri naufraghi della Belle<br />

Maltaise furono liberati. In un documento che riposa nell'Archivio <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> Taranto –<br />

<strong>di</strong> fatto un assurdo decreto <strong>di</strong> prigione indefinita, senza accusa ne processo – datato 8<br />

maggio 1799, si legge:<br />

«Dumas e Manscourt rimarranno rinchiusi nella fortezza reale della città [il castello<br />

aragonese <strong>di</strong> Taranto] custo<strong>di</strong>ti dal comandante militare della fortezza, Giambattista<br />

Teroni, fino a quando possano essere consegnati a Sua Eminenza il car<strong>di</strong>nale D.<br />

Fabrizio Ruffo, servo <strong>di</strong> Sua Maestà Fernando IV, che Id<strong>di</strong>o lo bene<strong>di</strong>ca sempre […]»<br />

Il 13 giugno l'esercito sanfe<strong>di</strong>sta entrò a Napoli, la repubblica cadde e il regno<br />

napoletano fu restaurato. A Taranto, Dumas lo seppe perché gli comunicarono che la<br />

sua prigionia sarebbe passata ad un regime <strong>di</strong> carcere duro, senza più passeggiate<br />

giornaliere all'aria, eccetera. E ben prima che quel 1799 terminasse, caddero anche<br />

tutte le altre repubbliche italiane e i francesi perdettero tutto quanto conquistato in<br />

Italia nella campagna napoleonica <strong>di</strong> due anni prima. Tutte circostanze queste che,<br />

naturalmente, congiurarono contro la sorte imme<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> Dumas, vanificando anche le<br />

continue pressanti richieste che sui governanti in Parigi esercitava la moglie <strong>di</strong> Dumas,<br />

Marie Louise Labouret, per avere assistenza nel trovare e salvare suo marito.<br />

Il generale Dumas a Brin<strong>di</strong>si<br />

Nell'ottobre del 1799 Napoleone, finalmente ritornato in Francia, conquistò il potere<br />

eliminando il Direttorio con il colpo <strong>di</strong> stato del 18 brumaio – 10 novembre – e presto<br />

non esitò a intraprendere la seconda campagna d'Italia, rifondando la Repubblica<br />

Cisalpina dopo la battaglia <strong>di</strong> Marengo del 14 giugno 1800. Poco dopo, a settembre,<br />

per <strong>di</strong>sposizione del marchese Della Schiava – Vincenzo Maria Mastrilli, preside della<br />

provincia <strong>di</strong> Lecce – Dumas e Manscourt furono trasferiti da Taranto a Brin<strong>di</strong>si, dove<br />

furono reclusi e mantenuti, questa volta, in una situazione <strong>di</strong> gran lunga migliorata.<br />

Durante la durissima prigionia a Taranto, infatti, Dumas era rimasto malnutrito e<br />

ancor peggio curato per circa <strong>di</strong>ciotto mesi e così, quando giunse a Brin<strong>di</strong>si, era zoppo,<br />

con la guancia destra paralizzata, quasi cieco dall'occhio destro e sordo dall'orecchio<br />

sinistro. Il suo fisico era quasi <strong>di</strong>strutto e arrivò a convincersi che tutti quei suoi<br />

malanni si produssero perché sottoposto a un lento e sistematico avvelenamento al<br />

quale era sopravvissuto solo perché aiutato da un gruppo locale filofrancese segreto,<br />

che gli aveva fornito alimenti me<strong>di</strong>cine libri e altri conforti.<br />

Da recluso a Brin<strong>di</strong>si – forse nel castello Svevo, o forse nell’Alfonsino – Dumas poté<br />

conversare regolarmente con un sacerdote <strong>di</strong> nome Bonaventura Certezza, una specie<br />

<strong>di</strong> cappellano dei castelli, con il quale finì con istaurare una sincera amicizia. Nel<br />

museo Alexandre Dumas a Villers Cotterêts in Francia, è conservata una lettera che il<br />

padre Bonaventura scrisse a Dumas qualche mese dopo la sua liberazione, il 17 agosto<br />

1801.<br />

«Sappi mio caro generale, che ho sempre mantenuto e sempre manterrò vivo dentro <strong>di</strong><br />

me ciò che sento per te, sentimenti che mi obbligano a rivolgerti eternamente i miei<br />

189


ispetti. Di fatto, non ho tralasciato <strong>di</strong> muovere neanche una sola pietra, per trattare <strong>di</strong><br />

ottenere tue notizie. So che ascoltare lo<strong>di</strong> ti incomoda, però, conscendo il calore del<br />

tuo cuore, oso parlarti in questo modo. Magari potessi abbracciarti! – maledetta<br />

<strong>di</strong>stanza – Te lo <strong>di</strong>co <strong>di</strong> tutto cuore. E se un giorno vorrai visitarmi, a casa mia sempre<br />

sarai da me ricevuto a braccia aperte. […]»<br />

E anche con Giovanni Bianchi, il suo carceriere – castellano <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1798 al<br />

1802, nonché già sospetto giacobino – Dumas mantenne durante i circa sei mesi della<br />

sua permanenza nella prigione del castello una costante e, per quello che le<br />

circostanze potevano permettere, cor<strong>di</strong>ale relazione personale e anche epistolare,<br />

come si evince da alcune <strong>di</strong> quelle loro epistole conservate nel Museo Alexandre<br />

Dumas.<br />

Le cortesi lettere scambiate tra i due, spesso trattavano questioni del tutto triviali, per<br />

esempio relative alle vettovaglie, agli indumenti, alle scarpe e quant'altro <strong>di</strong> cui il<br />

generale prigioniero potesse aver bisogno. Finanche, una volta annunciata la<br />

prossimità della liberazione, Bianchi inviò a Dumas campioni <strong>di</strong> stoffa affinché il<br />

generale scegliesse quella più adatta a fargli confezionare l'uniforme da indossare nel<br />

viaggio, nonché alcuni cappelli tra i quali scegliere il modello che ritenesse più<br />

consono per lui. Una relazione insomma, che se pur non esente da qualche screzio, fu<br />

migliorando con il passare dei mesi, probabilmente anche a riflesso degli eventi<br />

militari che, in corso e sempre più prossimi alle porte del regno, lasciavano facilmente<br />

presagire una imminente evoluzione pro-francese della situazione.<br />

Difatti, verso la fine dell'anno 1800, le forze napoleoniche in Italia sotto il comando del<br />

generale Joachim Murat, misero in fuga l'esercito napoletano <strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando IV, il cui<br />

governo riprese la via del rifugio a Palermo, e il 18 febbraio1801 a Foligno fu concluso<br />

l'armistizio tra le truppe francesi e quelle del re <strong>di</strong> Napoli, con la firma del generale<br />

Murat per la Francia e del generale Damas per Fer<strong>di</strong>nando IV.<br />

E così, subito dopo quelle vicende dell'inverno 1800-1801, alla fine del mese <strong>di</strong> marzo<br />

del 1801, si produsse, finalmente, la liberazione del generale Dumas, che fu inviato alla<br />

base navale francese <strong>di</strong> Ancona, nel contesto <strong>di</strong> una situazione politico-militare<br />

estremamente confusa: Brin<strong>di</strong>si, ufficialmente sotto il re <strong>di</strong> Napoli che però era<br />

rifugiato a Palermo, <strong>di</strong>pendeva dalla provincia <strong>di</strong> Lecce presieduta dal borbonico<br />

marchese della Schiava, mentre a Mesagne era inse<strong>di</strong>ata una consistente guarnigione<br />

francese composta da circa 350 militari, senza uno status formale riconosciuto e<br />

ufficialmente in via <strong>di</strong> smobilitazione.<br />

«Nelle riunioni capitolari della chiesa <strong>di</strong> Ognissanti <strong>di</strong> Mesagne, ancora il 19 aprile<br />

1801, si <strong>di</strong>scuteva degli obblighi, imposti d’autorità, per dare alloggio, letti o danaro ai<br />

soldati del battaglione francese, <strong>di</strong> stanza in quella terra, costituito da 350 soldati e<br />

comandato da Barraire. Le richieste <strong>di</strong> danaro, da parte del ministro regio David<br />

Winspeare, da parte dell’arcivescovo De Leo e dei sindaci per alloggiare e dare il vitto<br />

ai soldati francesi, si susseguirono alle date 22 luglio e 31 agosto 1801; 20 marzo e 12<br />

giugno 1802; 22 agosto, 2 settembre e 11 ottobre 1803 e 18 settembre 1804» 4 .<br />

In effetti, dopo l'armistizio <strong>di</strong> Foligno e la successiva pace <strong>di</strong> Firenze del 28 marzo<br />

1801, le navi repubblicane francesi rimasero nel basso Adriatico a sorvegliare quella<br />

strategica costa nonché a proteggere le truppe rimaste in terra, con la scusa <strong>di</strong> dover<br />

far rispettare le clausole marittime <strong>di</strong> quella pace, e solo la pace <strong>di</strong> Amiens del 25<br />

190


marzo 1802 accordò che tutti i territori del regno napoletano fossero liberati sia dalle<br />

truppe francesi e sia da quelle inglesi e russe, per permettere alla corte borbonica <strong>di</strong><br />

rientrare da Palermo a Napoli.<br />

Ma anche allora, i soldati francesi da tempo inse<strong>di</strong>ati nel castello normanno-svevo <strong>di</strong><br />

Mesagne che avrebbero dovuto sgomberare tra il 30 <strong>di</strong> aprile e il 5 <strong>di</strong> maggio 1802,<br />

non lo fecero: tergiversarono e cominciarono a partire solo molto dopo, molto<br />

lentamente, a più riprese e senza farlo mai del tutto, fin quando, il 15 luglio 1803,<br />

l'esercito francese fece ufficialmente ritorno in Terra d'Otranto, a causa delle non<br />

meglio precisate "<strong>di</strong>fficoltà sorte tra francesi e inglesi".<br />

Di fatto, quei soldati francesi ritornati nei <strong>di</strong>ntorni Brin<strong>di</strong>si fin dai primi giorni del<br />

1801, non tolsero mai del tutto la loro ingombrante presenza da quel territorio,<br />

evidentemente troppo strategico. Una presenza che probabilmente aveva in qualche<br />

misura influito sulla liberazione del prigioniero Dumas, liberazione alla quale non<br />

doveva neanche essere rimasto estraneo lo stesso generale Murat che, forse non a<br />

caso, volle che tra le clausole dell'armistizio, si inserisse quella relativa alla liberazione<br />

dei prigionieri francesi.<br />

Ritorno in Francia del generale Dumas<br />

Dopo essere stato liberato dalla lunga prigionia, partito da Brin<strong>di</strong>si via mare, Dumas<br />

fece scalo a Ancona e poi il 12 aprile arrivò a Firenze, dove sostò per un po' <strong>di</strong> giorni.<br />

Quin<strong>di</strong> raggiunse la Francia, dove consegnò la sua relazione <strong>di</strong> prigionia 6 e poi,<br />

finalmente a casa nel giugno <strong>di</strong> quell'anno 1801.<br />

Aveva da poco compito trentanove anni e da subito dovette cominciare a lottare per<br />

mantenere la sua famiglia, che aveva trascorso la sua assenza in gran<strong>di</strong> ristrettezze<br />

economiche. Scrisse ripetutamente al governo francese e a Napoleone Bonaparte,<br />

reclamando il compenso economico per il suo periodo <strong>di</strong> prigionia e chiedendo anche<br />

un nuovo incarico militare, ma senza mai ricevere risposte veramente positive al<br />

rispetto da parte del governo e senza mai ricevere risposta alcuna da Napoleone.<br />

Il 24 luglio 1802, Marie Louise dette alla luce il terzo e ultimo figlio del suo<br />

matrimonio, Alexandre. Meno <strong>di</strong> quattro anni dopo, il 26 febbraio 1806, Alex Dumas<br />

morì <strong>di</strong> cancro allo stomaco nella sua casa a Villers Cotterêts all'età <strong>di</strong> quarantaquattro<br />

anni. Alla sua morte, suo figlio Alexandre, il futuro famoso romanziere, aveva tre anni<br />

e sette mesi. Il ragazzo, sua sorella e sua madre vedova, rimasero in povertà, giacché<br />

Marie Louise Labouret Dumas non ricevette la pensione normalmente assegnata dal<br />

governo francese alle vedove dei generali e dovette lavorare come ven<strong>di</strong>trice in una<br />

tabaccheria. Era nata il 4 luglio 1769 e morì il 1º agosto 1838.<br />

Ultimo atto<br />

A Parigi il nome <strong>di</strong> Alexandre Dumas è inciso sulla parete sud dell'Arco <strong>di</strong> Trionfo e,<br />

nel 1912, una statua del generale fu eretta in Place Malesherbes, ora Place du Général<br />

Catroux, dove rimase per trent'anni accanto alle statue dei suoi due famosi<br />

<strong>di</strong>scendenti – Alexandre Dumas père, il romanziere e Alexandre Dumas fils, il<br />

drammaturgo – finché le truppe tedesche d'occupazione, l'abbatterono tra il 1941 e il<br />

1942, senza che mai più sia stata riposta.<br />

191


Statua del generale Alexandre Dumas in Parigi, dello scultore Alfred Moncel<br />

Eretta nel 1912 e abbattuta dalle truppe tedesche nel 1942<br />

192


BIBLIOGRAFIA:<br />

1 Tomas REISS The Black Count: Glory, Revolution, Betrayal, and the Real Count of<br />

Monte Cristo Crown Publishers - New York, 2012<br />

Reiss ha soggiornato lungamente in Francia per svolgere ricerche in archivi militari e musei,<br />

riuscendo infine ad accedere anche ai documenti ine<strong>di</strong>ti custo<strong>di</strong>ti da Elaine, la bibliotecaria del<br />

Musée Alexandre Dumas <strong>di</strong> Villers-Cotterêts de<strong>di</strong>cato alla <strong>storia</strong> dei tre Dumas, dopo che la<br />

donna era morta senza rivelare la combinazione della sua cassaforte. Il libro <strong>di</strong> Tomas Reiss è<br />

anche e soprattutto la meticolosa e rigorosa biografia del generale francese Alexandre Dumas,<br />

padre dell'omonimo famoso romanziere e nonno dell'altrettanto omonimo drammaturgo.<br />

2 Alexandre DUMAS Mes Memoires A. Cadot E<strong>di</strong>teur - Paris, 1852<br />

Le prime duecento pagine delle memorie sono de<strong>di</strong>cate a suo padre, il generale Dumas. «Ve<strong>di</strong><br />

padre mio che non ho <strong>di</strong>menticato nessuno dei ricor<strong>di</strong> che mi avevi affidato perché li conservassi.<br />

Da quando sono stato in grado <strong>di</strong> pensare, i tuoi ricor<strong>di</strong> hanno vissuto in me come una lampada<br />

sacra, che illumina tutto e tutti quelli che avevi toccato anche se la morte me l'ha portata via»<br />

Alexandre Dumas père.<br />

Altre importanti fonti bibliografiche <strong>di</strong>sponibili su Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie – in<br />

or<strong>di</strong>ne cronologico <strong>di</strong> pubblicazione – sono le seguenti:<br />

- André MAUREL Les trois Dumas Librairie illustrée - Paris, 1896<br />

- Ernest D’AUTERIVE Un Soldat de la Révolution: Le Général Alexandre Dumas - Paris, 1897<br />

- André MAUROIS The Titans: A Three‐Generation Biography of the Dumas Harper & Brothers -<br />

New York, 1957<br />

- Víctor E.R. WILSON Le Général Alexandre Dumas: Soldat de la Liberté Quisqueya - Québec, 1977<br />

- Gilles HENRY Les Dumas: Le secret de Monte Cristo Condé‐sur‐Noiraud - Corlet, 1982<br />

- John G. GALLAHER General Alexandre Dumas: Sol<strong>di</strong>er of the French Revolution Southern Illinois<br />

University Press - Carbondale, 1997<br />

- Claude RIBBE Alexandre Dumas, le dragon de la reine É<strong>di</strong>tions du Rocher - Paris, 2002<br />

- Claude RIBBE Le <strong>di</strong>able noir Alphée - Monaco, 2008<br />

- Tom REISS The Black Count: Glory, Revolution, Betrayal, and the Real Count of Monte Cristo Crown<br />

Publishers - New York, 2012<br />

3 Gianfranco PERRI Al centro <strong>di</strong> un conflitto: Brin<strong>di</strong>si tra il 1799 e il 1801 in “Dal<br />

riformismo carolino alle riforme <strong>di</strong> età napoleonica” - Brin<strong>di</strong>si, 2019<br />

4 Rosario JURLARO Cronaca dei sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1787‐1860 Amici della De Leo -<br />

Brin<strong>di</strong>si, 2001<br />

5 Rapport fait au gouvernement francais par le general de <strong>di</strong>vision Alexandre Dumas, sur<br />

sa captivité à Tarente et à Brin<strong>di</strong>si, ports du Royaume de Naples - 5 Mai 1801<br />

Documento ritrovato da Tom Reiss nella cassaforte del Museo Dumas a Villers Cotterêts<br />

193


Duecento anni fa: quando Mesagne era più importante <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

Pubblicato.su.il7.Magazine.del.21 luglio.2017<br />

Quando agli albori del secolo XIX, il 13 febbraio 1806, anche il regno <strong>di</strong> Napoli <strong>di</strong>venne<br />

napoleonico e il re borbonico Fer<strong>di</strong>nando IV si rifugiò a Palermo sotto la protezione<br />

della marina inglese, il nuovo re Giuseppe Bonaparte soppresse la feudalità e si de<strong>di</strong>cò<br />

a riformare l’amministrazione dello stato, ammodernandola sul modello francese. Con<br />

la legge numero 132 dell’agosto 1806, si mo<strong>di</strong>ficò la ripartizione territoriale del regno,<br />

sopprimendo definitivamente ciò che ancora restava del sistema dei giustizierati,<br />

originalmente introdotti dallo svevo Federico II, e creando formalmente il tuttora<br />

vigente istituto della provincia.<br />

La provincia era sud<strong>di</strong>visa in successivi livelli amministrativi gerarchicamente<br />

<strong>di</strong>pendenti dal precedente e al livello imme<strong>di</strong>atamente successivo alla provincia<br />

seguivano i <strong>di</strong>stretti che, a loro volta, erano sud<strong>di</strong>visi in circondari e questi ultimi<br />

comprendevano uno o più comuni, che costituivano l’unità <strong>di</strong> base della nuova<br />

struttura politico-amministrativa dello stato, ai quali potevano far capo gli eventuali<br />

villaggi, che erano centri minori a carattere prevalentemente rurale.<br />

A capo della provincia c’era un intendente e nei capoluoghi del <strong>di</strong>stretto c’era un<br />

sottintendente; quin<strong>di</strong>, nei comuni governava il sindaco. I sindaci venivano nominati<br />

dal ministro dell’interno, o dall’intendente in quelli meno popolosi, ed erano affiancati<br />

da due eletti e da un consiglio decurionale composto da un numero <strong>di</strong> membri<br />

variabile da minimo 10 a massimo 30 in funzione della popolazione del comune, i<br />

quali erano eletti - successivamente tratti a sorte e poi, finalmente, scelti dal ministro<br />

o dall’intendente - all’interno <strong>di</strong> liste <strong>di</strong> ‘eleggibili’ confezionate sulla base della ren<strong>di</strong>ta<br />

annua e delle professioni liberali.<br />

Il territorio continentale del regno risultò così sud<strong>di</strong>viso in 13 province e tra queste<br />

quella <strong>di</strong> Terra d’Otranto, che comprese un totale <strong>di</strong> 44 circondari, <strong>di</strong>stribuiti tra i<br />

seguenti <strong>di</strong>stretti: Lecce, che fungeva anche da capoluogo della provincia, Taranto e<br />

Mesagne, al quale apparteneva il circondario <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, oltre a quelli <strong>di</strong> Francavilla,<br />

Oria, San Vito, Campi, Salice, Ostuni, Martina e Ceglie: una ripartizione amministrativa<br />

che perdurò durante sette anni, durante i quali Mesagne fu capoluogo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stretto e<br />

quin<strong>di</strong> sede <strong>di</strong> sottintendenza con giuris<strong>di</strong>zione amministrativa su tutto il <strong>di</strong>stretto e,<br />

pertanto, anche su Brin<strong>di</strong>si.<br />

Il primo intendente <strong>di</strong> Terra d’Otranto fu il conte Francesco Anguissola e il primo<br />

sottintendente del <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> Mesagne fu il brin<strong>di</strong>sino Mariano Monticelli. Mentre a<br />

Brin<strong>di</strong>si era sindaco Teodoro Vavotici, coa<strong>di</strong>uvato da 2 eletti e da un decurionato <strong>di</strong> 10<br />

membri.<br />

194


Il castello Normanno Svevo <strong>di</strong> Mesagne<br />

195


Anche se sulla decisione <strong>di</strong> scegliere Mesagne come capoluogo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stretto influirono<br />

certamente le pessime con<strong>di</strong>zioni ambientali in cui - dopo il clamoroso fallimento<br />

dell’opera del Pigonati - versava nuovamente Brin<strong>di</strong>si, considerata città <strong>di</strong> ‘aere<br />

malsano’, molto probabilmente tale scelta rispose alle contingenti esigenze militari del<br />

momento, in vista della precaria sicurezza che il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, molto più esposto,<br />

poteva offrire in tempi <strong>di</strong> assestamenti e rovesciamenti politici ancora molto flui<strong>di</strong>. In<br />

quegli inizi del secolo, infatti, con le truppe napoleoniche in Italia, ma con le flotte<br />

inglesi, russe e turche girovagando tutt’intorno, la situazione politico-militare nel<br />

regno <strong>di</strong> Napoli, e nel basso Adriatico in particolare, era abbastanza confusa.<br />

Dopo la pace <strong>di</strong> Firenze del 1801 tra il re Fer<strong>di</strong>nando IV e Napoleone, le navi<br />

repubblicane francesi nel basso Adriatico, vi rimasero con la scusa <strong>di</strong> dover far<br />

rispettare le clausole marittime <strong>di</strong> quella pace. E anche se la pace <strong>di</strong> Amiens del 1802<br />

accordò che tutti territori del regno napoletano fossero liberati sia dalle truppe<br />

francesi e sia da quelle inglesi e russe per permettere alla corte borbonica <strong>di</strong> rientrare<br />

da Palermo a Napoli, nella Terra d’Otranto, <strong>di</strong> fatto, non fu proprio così.<br />

A Mesagne infatti, dove nel castello normanno-svevo si era stabilmente inse<strong>di</strong>ato un<br />

importante battaglione francese, tutti quei soldati lo avrebbero dovuto sgomberare<br />

tra il 30 <strong>di</strong> aprile e il 5 <strong>di</strong> maggio dell’anno 1802, ma non lo fecero: tergiversarono e<br />

cominciarono a partire solo molto dopo, molto lentamente, a più riprese e senza farlo<br />

mai del tutto, fin quando, il 15 luglio 1803, l’esercito francese fece ufficialmente<br />

ritorno in Terra d’Otranto, a causa delle non meglio precisate “<strong>di</strong>fficoltà sorte tra<br />

Francesi e Inglesi”. A Brin<strong>di</strong>si i soldati francesi mancarono solo dal maggio 1802 al<br />

luglio 1803 e a Lecce, capoluogo <strong>di</strong> Terra d’Otranto, nell’aprile del 1804, se ne<br />

contavano oltre 3000.<br />

Poi, il 21 aprile 1813, il re Gioacchino Murat, che nel mentre era succeduto a Giuseppe<br />

Bonaparte, per la provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto decretò la creazione <strong>di</strong> un quarto<br />

<strong>di</strong>stretto, quello <strong>di</strong> Gallipoli, scorporando 14 circondari dal <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> Lecce e al<br />

contempo riorganizzò quello <strong>di</strong> Mesagne, rinominandolo <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che da<br />

allora <strong>di</strong>venne capoluogo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stretto e quin<strong>di</strong>, sede del comando <strong>di</strong> battaglione e della<br />

sottintendenza, che il 15 maggio si trasferì dall’ex convento dei Celestini <strong>di</strong> Mesagne<br />

all’ex convento dei Francescani in San Paolo a Brin<strong>di</strong>si.<br />

Quel sistema amministrativo territoriale napoleonico, <strong>di</strong> fatto restò invariato anche<br />

dopo la parentesi decennale che, conclusa nel 1816, precedette la restaurazione ed il<br />

ritorno dei Borbone sul trono del regno, ri-denominato delle Due Sicilie. Brin<strong>di</strong>si, in<br />

quell’anno 1816, come capoluogo dell’omonimo <strong>di</strong>stretto composto da 15 comuni -<br />

Carovigno, Ceglie, Erchie, Francavilla, Guagnano, Latiano, Oria, Ostuni, Salice,<br />

Sandonaci, San Pancrazio, San Vito, Torre Santa Susanna, Veglie e Mesagne - contava<br />

6114 abitanti.<br />

Finalmente, nel nuovo regno d’Italia del 1861, la provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto cambiò<br />

la sua denominazione a quella <strong>di</strong> provincia <strong>di</strong> Lecce, dalla quale, nel 1924 e nel 1927,<br />

furono scorporate e rese in<strong>di</strong>pendenti le attuali province <strong>di</strong> Taranto e Brin<strong>di</strong>si.<br />

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Il canale d’ingresso al porto interno <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: Pigonati “NO” Monticelli “SI”<br />

Pubblicato su Senza Colonne News del 3 novembre 201<br />

Il riferimento é naturalmente all’intitolazione del canale che a Brin<strong>di</strong>si separa il porto interno<br />

da quello esterno e che notoriamente si chiama Canale Pigonati in riconoscimento del fatto<br />

che nel 1778 fu l’ingegnere Andrea Pigonati a completare il suo “riaprimento” dopo secoli <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>sastroso e tragico abbandono. Eppure, invece, sarebbe giustizia intitolarlo a Monticelli!<br />

Ma perché “Pigonati NO” e “Monticelli SI”? Perché Andrea Pigonati fu l’ingegnere siciliano<br />

contrattato per realizzare quell’opera <strong>di</strong> “riaprimento” che in effetti completò in tempi e con<br />

costi relativamente limitati, ma commettendo un imperdonabile errore <strong>di</strong> progettazione così<br />

grave che in pochissimi anni ne invalidò completamente il risultato. E perché Giovanni e<br />

Francescantonio Monticelli furono invece due illustri brin<strong>di</strong>sini, familiari <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> quel<br />

luminare che fu Teodoro Monticelli, che lottando contro la potente e spregiu<strong>di</strong>cata lobby<br />

gallipolina, tra il 1831 e il 1834 si pro<strong>di</strong>garono <strong>di</strong>sinteressatamente riuscendo a scongiurare<br />

per Brin<strong>di</strong>si la morte ormai già decretata, convincendo il re Fer<strong>di</strong>nando II a non desistere dal<br />

recuperarne il porto, re al quale va quin<strong>di</strong> e comunque il merito <strong>di</strong> essersi fatto convincere.<br />

Ció premesso, per tutti coloro i quali ne hanno un qualche interesse e un po’ <strong>di</strong> voglia, qui <strong>di</strong><br />

seguito riassumo il racconto dall’inizio, procedendo quin<strong>di</strong> in or<strong>di</strong>ne cronologico:<br />

Dopo la sua gloriosa e prolungata stagione della Roma repubblicana, il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si subì<br />

un enorme <strong>di</strong>sastro ambientale, inizialmente a causa dei residui delle palafitte fatte piantare<br />

all´entrata del porto interno nel 49 aC da Giulio Cesare durante la guerra civile per,<br />

vanamente, tentar <strong>di</strong> impe<strong>di</strong>re la fuga <strong>di</strong> Pompeo, e successivamente, e con effetti ancor più<br />

devastanti, a causa delle due tartane zavorrate che il principe <strong>di</strong> Taranto, Giovanni Antonio del<br />

Balzo Orsini, nel 1449 fece affondare nello stesso luogo, verosimilmente per impe<strong>di</strong>re che la<br />

città cadesse preda della flotta veneziana. Poi, negli anni seguenti, le sabbie e i limi provenienti<br />

dalle palu<strong>di</strong> circostanti con quelle che le maree portavano dal porto esterno all’interno, le<br />

alghe che si moltiplicavano nelle acque poco mobili, e finalmente i residui soli<strong>di</strong> d´ogni sorta<br />

che liberamente scolavano dalla città stessa, finirono per ostruire quasi del tutto quel<br />

passaggio, isolando il porto interno da quello esterno e trasformando il primo in una palude<br />

salmastra con conseguenze catastrofiche per la città e i suoi abitanti.<br />

Anche se da subito, fin dai primi anni del XVI secolo quando la corona spagnola istituì nel<br />

regno <strong>di</strong> Napoli un vicereame, si riconobbe la gravità della situazione e nel parlamento si<br />

convenne in più occasioni che era in<strong>di</strong>spensabile e inderogabile risolvere il problema del<br />

restauro del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, per secoli tutto restò in <strong>di</strong>scorsi e in buone intenzioni mentre la<br />

città, via via più abbandonata a se stessa e decimata dalla malaria, continuava a languire<br />

avviandosi lentamente ma inesorabilmente verso una definitiva inevitabile scomparsa.<br />

Dopo la ventennale parentesi austriaca, nel 1734 il regno <strong>di</strong> Napoli ritornò sotto la<br />

dominazione spagnola, ma questa volta dei Borbone e, novità non da poco, con il rango <strong>di</strong><br />

regno in<strong>di</strong>pendente e con un re tutto proprio: Carlo Borbone, figlio del re <strong>di</strong> Spagna Filippo V,<br />

al quale nel 1759 successe al trono il suo terzo figlio, Fer<strong>di</strong>nando IV, che nel 1768 sposò Maria<br />

Carolina, figlia dell´imperatore d´Austria Francesco I e che, pur non essendo stato un gran re al<br />

confronto con suo padre Carlo, ebbe l´enorme merito <strong>di</strong> aver soccorso e <strong>di</strong> fatto salvato<br />

momentaneamente Brin<strong>di</strong>si, preoccupandosi e impegnandosi al “riaprimento” del suo porto.<br />

Nel 1775 infatti, Fer<strong>di</strong>nando IV inviò a Brin<strong>di</strong>si due ingegneri, i più rinomati del regno per le<br />

opere idrauliche, con il compito <strong>di</strong> determinare i provve<strong>di</strong>menti necessari al risanamento del<br />

porto e della città intera: Vito Caravelli, professore <strong>di</strong> matematica, e Andrea Pigonati, tenente<br />

colonnello del genio. I due ingegneri fecero stu<strong>di</strong> e compilarono i progetti che sottoposero al<br />

re: le loro proposte furono approvate e ritornarono a Brin<strong>di</strong>si per attuare quanto progettato.<br />

197


Andrea Pigonati – 1789<br />

Philippe Hacker – 1789<br />

198


Nell’anno 1776, quando Andrea Pigonati dette principio ai lavori <strong>di</strong> riapertura del canale che<br />

comunicava il porto esterno con quello interno, le palu<strong>di</strong> al centro del passaggio nei momenti<br />

<strong>di</strong> alta marea si ricoprivano con 25 centimetri d’acqua, mentre nei momenti <strong>di</strong> bassa marea le<br />

acque scomparivano del tutto e le secche rimanevano scoperte fino a 50 centimetri in alcuni<br />

punti. A stento, e solamente nelle alte maree, si poteva passare per il canale con una barchetta,<br />

e il porto interno era un lago stagnante dove potevano navigare solo le barchette e i lontri.<br />

I lavori iniziarono il 4 marzo e il 28 approdò nel porto una polacca proveniente da Napoli,<br />

carica <strong>di</strong> vari attrezzi e legnami destinati all’opera. I lavori avanzarono tra varie <strong>di</strong>fficoltà, non<br />

ultima quella dell’insufficienza e dell’impreparazione della mano d’opera locale, per cui si<br />

dovette ricorrere anche ai lavoratori forzati: nell’aprile del 1777 giunsero a Brin<strong>di</strong>si i regi<br />

sciabecchi con cento forzati e il 26 <strong>di</strong>cembre ne giunsero altri duecento.<br />

A causa della poca <strong>di</strong>sponibilità <strong>di</strong> grosse pietre necessarie all’esecuzione del progetto,<br />

Pigonati pensò bene <strong>di</strong> poter utilizzare i ruderi <strong>di</strong> vecchie costruzioni, e così <strong>di</strong>spose la<br />

demolizione <strong>di</strong> alcune vecchie case site in prossimità <strong>di</strong> Porta Reale e dei blocchi residui della<br />

stessa, e impiegò anche le pietre estratte dalla superstite torretta angioina che era stata<br />

fabbricata per l’operazione della catena <strong>di</strong> chiusura del canale.<br />

Nell’aprile del 1778 il pilota brin<strong>di</strong>sino Francesco Alló, poté per primo entrare fino in<br />

vicinanza della Porta Reale con un bastimento carico, e poté ripartire ricarico d’olio: la<br />

larghezza del canale era già stata ampliata e la profon<strong>di</strong>tà aveva raggiunto 5,20 metri. E il 26<br />

giugno <strong>di</strong> quello stesso anno, entrò felicemente nel porto interno il bastimento olandese<br />

Giovine Adriana con una portata <strong>di</strong> ben 3740 ettolitri <strong>di</strong> grano.<br />

Pigonati consegnò l’opera compiuta il 30 <strong>di</strong>cembre 1778, a 2 anni 9 mesi e 22 giorni dall’inizio<br />

lavori: l’ostruzione che aveva isolato porto e città tutta durante secoli, era stata finalmente<br />

rimossa. Alla consegna dell’opera, il canale, con la bocca rivolta a greco-levante, era lungo<br />

1861 palmi compresi i moli e le scogliere, era profondo 18 palmi e largo 183 palmi verso la<br />

rada e 162 palmi allo sbocco nel porto interno. Le sponde del canale furono rivestite <strong>di</strong><br />

banchine murarie che furono prolungate con due pennelli sporgenti nel porto esterno.<br />

Poco dopo però, il canale cominciò a riempirsi, le palu<strong>di</strong> nel porto interno iniziarono a<br />

rinnovarsi e la malaria fece ritorno: Pigonati, agendo con buona dose d’ignoranza nonché <strong>di</strong><br />

arroganza, aveva commesso il grossolano errore <strong>di</strong> orientare l’imboccatura del canale a grecolevante<br />

e quel grave errore d’ingegneria finì per vanificare l’ingente sforzo. Dopo pochi anni e<br />

vari improbabili tentativi <strong>di</strong> rime<strong>di</strong>are a quell’errore, il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si era <strong>di</strong> nuovo perduto<br />

e precluso ai gran<strong>di</strong> traffici navali, e l’intera città era ripiombata nella sua triste criticità.<br />

Nel 1797 il francese Antoine Laurent Castellan visitò Brin<strong>di</strong>si: «...La città é povera, non ci sono<br />

quasi affatto botteghe e le poche non hanno che gli articoli <strong>di</strong> prima necessità. Le malattie<br />

hanno spopolato intere strade, il popolo si nutre poco e male e stuoli <strong>di</strong> men<strong>di</strong>canti premono<br />

alle porte <strong>di</strong> chiese e conventi dove si <strong>di</strong>stribuisce minestra. La maggior parte dei bambini non<br />

raggiunge la pubertà e gli altri, palli<strong>di</strong> e senza forza, trascinano un’esistenza triste e dolorosa<br />

che finisce spesso con spaventose malattie...».<br />

Nel 1789 fu la volta dello svizzero Carl Ulysses von Salis: «...A misura che ci avvicinavamo alla<br />

città si presentavano regioni <strong>di</strong> miseria e <strong>di</strong> desolazione, che fa pena vedere lì incolta una<br />

campagna benedetta dal suolo fertile e dal clima più propizio. Larghe strade con case rovinate,<br />

cortili ricoperti <strong>di</strong> erbe, miserabili tuguri appoggiati a vecchie mura. Poche sono le case abitate<br />

e le persone che vi <strong>di</strong>morano sono giornalmente esposte ai lenti ma inevitabili effetti della<br />

febbre malarica. L’abbandono totale in cui è stato lasciato il porto, ha dato vita a palu<strong>di</strong><br />

estesissime che circondano la città e riempiono l’aria <strong>di</strong> esalazioni pestilenziali, per cui non<br />

199


esiste più un volto roseo in Brin<strong>di</strong>si. La febbre malarica regna durante tutto l’anno e sono<br />

pochi quelli che tirano innanzi la loro miserabile vita sino all’età <strong>di</strong> sessant’anni...».<br />

E l’illustre viaggiatore non esitò a entrare in aperta polemica con Pigonati ribattendogli, tra<br />

altro, anche una delle tante asseverazioni che, <strong>di</strong>mostrando molta poca benevolenza verso gli<br />

abitanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, egli aveva scritto nella sua “Memoria del riaprimento del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si”<br />

pubblicata nel 1781. Carl Ulysses von Salis <strong>di</strong>sse: «Ma con quale giustizia si può rimproverare<br />

ai brin<strong>di</strong>sini la loro indolenza, perché lavorano solo quattro ore al giorno e passano il<br />

rimanente della giornata nelle taverne, cercando <strong>di</strong> affogare nel vino la loro miseria?». E poi<br />

aggiunse: «I lavori <strong>di</strong> alcuni anni ad<strong>di</strong>etro vennero così mal eseguiti dall`ingegner Pigonati,<br />

forse per ignoranza o altra ragione, che la città è tuttora così miserabile e insalubre com’era<br />

prima della sua venuta. Sebbene siano appena passati soli un<strong>di</strong>ci anni dacché l’opera <strong>di</strong><br />

Pigonati è stata compiuta, già il canale è nuovamente bloccato dalle alghe e dalla rena...».<br />

Nel 1829 un altro famoso svizzero, Charles Di<strong>di</strong>er, visitò Brin<strong>di</strong>si: «...Decimata dalla malaria, la<br />

popolazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si è scesa da centomila abitanti a seimila: tra il 1827 e il 1829, nella<br />

desolata città le nascite sono state 1117 a fronte <strong>di</strong> 2323 morti. Brin<strong>di</strong>si é pochissimo<br />

civilizzata e poco industrializzata e le campagne dei <strong>di</strong>ntorni sono vere steppe deserte e<br />

spesso paludose, dove si può camminare un giorno intero senza incontrare un viso umano e<br />

senza trovare un albero sotto cui ripararsi dal sole...».<br />

Alla fine del 1830, morì il re Francesco I, figlio <strong>di</strong> Fer<strong>di</strong>nando IV che dopo la definitiva sconfitta<br />

dei francesi <strong>di</strong> Napoleone era tornato sul trono <strong>di</strong> Napoli con il nuovo titolo <strong>di</strong> re Fer<strong>di</strong>nando I<br />

delle Due Sicilie. E a Francesco I gli successe il figlio, giovanissimo, Fer<strong>di</strong>nando II.<br />

Giovanni Monticelli, appartenente a quella nobile e antica famiglia brin<strong>di</strong>sina abitante nel<br />

rione Sciabiche, avuto sentore <strong>di</strong> manovre <strong>di</strong> palazzo tendenti a <strong>di</strong>stogliere il re <strong>di</strong> Napoli<br />

Fer<strong>di</strong>nando II Borbone dal promuovere lavori <strong>di</strong> risanamento del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a favore<br />

della costruzione <strong>di</strong> un novello porto in Gallipoli, si mobilitò in prima persona recandosi più<br />

volte a Napoli e finalmente, nel 1831, scrisse per il re ben 51 pagine <strong>di</strong> una sua prima<br />

relazione intitolata “Difesa della città e porti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si”.<br />

In quella relazione, Monticelli denuncia la risoluzione del Consiglio Provinciale <strong>di</strong> Lecce e le<br />

tante manovre in atto, quelle palesi e quelle occulte, tendenti a convincere l’amministrazione<br />

pubblica statale ad autorizzare il finanziamento, con i fon<strong>di</strong> destinati alla Provincia <strong>di</strong> Lecce,<br />

della costruzione <strong>di</strong> un nuovo porto a Gallipoli, giustificandola tecnicamente e appoggiandone<br />

la richiesta in base a un supposto economicamente importante potenziale <strong>di</strong> commercio d’olio.<br />

Ma soprattutto denuncia, quale obiettivo segreto e inconfessabile <strong>di</strong> quelle manovre, la<br />

volontà <strong>di</strong> scre<strong>di</strong>tare ogni progetto <strong>di</strong> recupero del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, basando il tutto su una<br />

serie <strong>di</strong> mezze verità e <strong>di</strong> aperte menzogne, tutte utilizzate per mascherare null’altro che<br />

meschini interessi economici e miserrimi campanilismi a favore <strong>di</strong> Gallipoli e contro Brin<strong>di</strong>si.<br />

Monticelli in maniera appassionata si <strong>di</strong>rige al re facendo appello sia ad argomentazioni <strong>di</strong><br />

tipo storico e sia ad argomentazioni <strong>di</strong> tipo economico, nonché trattando con grande<br />

competenza anche i temi più strettamente tecnici, sia quelli relativi all’insuperabile qualità del<br />

porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e sia quelli relativi alla nefandezza del proposto porto <strong>di</strong> Gallipoli. Spiega in<br />

dettaglio Monticelli, sia il grave errore idraulico del Pigonati e sia l’inconsistenza tecnica<br />

concettuale insita alla base del progetto del famigerato nuovo porto <strong>di</strong> Gallipoli.<br />

E cita quanto “il buon Fer<strong>di</strong>nando I, amatissimo nonno del re” aveva risolutamente fatto per il<br />

porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, in quanto assolutamente convinto della sua importanza strategica e del suo<br />

potenziale economico, non solo promuovendo la sfortunata opera del Pigonati, ma<br />

impegnandosi in imporre la pur <strong>di</strong>spen<strong>di</strong>osa manutenzione del porto necessaria per il suo<br />

funzionamento, fino al nefasto abbandono della stessa all’arrivo degli invasori napoleonici.<br />

200


E si <strong>di</strong>lunga inoltre Monticelli in <strong>di</strong>mostrare l’infondatezza delle scellerate e interessate<br />

opinioni secondo le quali l’aria malsana <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fosse un qualcosa d’intrinseco alla città,<br />

in<strong>di</strong>pendente cioè dalla problematica dell’ostruzione delle acque del porto interno e fosse<br />

pertanto un qualcosa d’irrime<strong>di</strong>abile e costituisse quin<strong>di</strong>, una ragione per sé sufficiente a non<br />

investire denari su quella <strong>di</strong>sgraziata città.<br />

E finalmente, accingendosi a concludere, scrive: «...La città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si non invi<strong>di</strong>a a Gallipoli<br />

un porto, né si oppone alla costruzione <strong>di</strong> esso, ma reclama la giustizia del governo e del<br />

Sovrano a suo favore. Abbia Gallipoli il suo porto, ma l’abbia a sue spese; ricca e prosperosa<br />

come l’è ben potrebbe soffrirne il peso. La giustizia non solo deve sedere né tribunali, ma<br />

benanche nelle amministrazioni pubbliche».<br />

Nei suoi frequenti viaggi a Napoli, Monticelli volle in più occasioni incontrare l’illustrissimo<br />

suo concitta<strong>di</strong>no Benedetto Marzolla, un prestigioso ufficiale che in quegli anni rivestiva<br />

l’importante carica <strong>di</strong> procuratore della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, il quale ben volentieri abbracciò la<br />

nobile causa, tanto da accettare <strong>di</strong> contribuire <strong>di</strong>rettamente alla stesura <strong>di</strong> una seconda<br />

e<strong>di</strong>zione della relazione <strong>di</strong> Monticelli, che fu completata in quello stesso 1831. La relazione fu<br />

consegnata il 5 Agosto a Giuseppe Ceva Grimal<strong>di</strong>, ministro <strong>di</strong> stato per gli affari interni, e con il<br />

titolo “Difesa della città e del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ seconda e<strong>di</strong>zione aumentata e corretta” fu<br />

pubblicata con ben 120 pagine nel 1832.<br />

Così come si può leggere nella lettera che accompagnò la consegna della relazione, si volle fare<br />

appello alla colta sensibilità del ministro e alla fortunata circostanza che egli avesse<br />

conosciuto <strong>di</strong> persona sia Brin<strong>di</strong>si e il suo porto e sia Gallipoli. Il marchese <strong>di</strong> Pietracatella, il<br />

ministro appunto, era infatti stato amministratore della Provincia <strong>di</strong> Lecce e autore del libro<br />

“Itinerario da Napoli a Lecce e nella Provincia <strong>di</strong> Terra d’Otranto nell’anno 1818” in cui, nel<br />

capitolo de<strong>di</strong>cato a Brin<strong>di</strong>si, traspare la sua ammirazione per il suo glorioso e fantastico porto.<br />

In questa seconda relazione corretta e aumentata, si aggiungono nuove e più dettagliate<br />

considerazioni relative a tutte le problematiche del raffronto tra i vantaggi <strong>di</strong> restaurare il<br />

pieno funzionamento del porto naturale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e gli svantaggi, soprattutto tecnici, ma<br />

anche economici strategici militari e politici, <strong>di</strong> costruire in sua vece un nuovo porto del tutto<br />

artificiale a Gallipoli. Si segnala il parere favorevole a Brin<strong>di</strong>si del Direttore <strong>di</strong> ponti e strade, e<br />

si attacca il parere favorevole a Gallipoli <strong>di</strong> Giuliano De Fazio, Ispettore generale delle acque e<br />

strade, autore nel 1828 <strong>di</strong> un saggio intitolato “Intorno al miglior sistema <strong>di</strong> costruzione dei<br />

porti” in cui esalta la costruzione <strong>di</strong> porti artificiali ad archi, detti anche a moli traforati, come<br />

quello appunto che si era progettato per Gallipoli.<br />

De Fazio, per contrastare e sconfessare l’azione e lo scritto <strong>di</strong> Monticelli, nel <strong>di</strong>cembre del<br />

1833 ne scrisse anche lui uno <strong>di</strong> 20 pagine, intitolandolo “Osservazioni sul ristabilimento del<br />

porto e sulla bonificazione dell’area <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si”.<br />

In quanto alla possibilità <strong>di</strong> realizzare lavori <strong>di</strong> restaurazione del canale, Fazio la liquida<br />

affermando che affinché gli stessi potessero funzionare bisognerebbe con essi portare la<br />

situazione a quella precedente alle azioni <strong>di</strong> Cesare, cosa che però sarebbe tecnicamente quasi<br />

impossibile e che comunque costerebbe un immenso patrimonio. Quin<strong>di</strong>, passa a trattare<br />

dell’aria <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, aspetto sul quale incentra la sua enfatica posizione contraria al restauro.<br />

L´insalubrità del clima <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, secondo la tesi <strong>di</strong> De Fazio, era solo in minor parte dovuta al<br />

ristagnare delle acque del porto interno, conseguenza a sua volta dell´ostruzione, mentre era<br />

principalmente dovuta «...alla gravezza della smodata instabilità dell’incostante atmosfera<br />

della città, o sia il repentino passaggio dal caldo al freddo, cagione questa che pare che non<br />

possa essere cessata mai; dappoichè se questa superstite porzione <strong>di</strong> aria malsana abbia tal<br />

forza da nuocere alla vita, per certo sarà opera vana il ristabilimento del porto...».<br />

201


E abbondano nello scritto <strong>di</strong> De Fazio le notizie storiche non dette e quelle palesemente<br />

manipolate e tergiversate, così come abbondano le citazioni <strong>di</strong> supposti esperti, naturalmente<br />

anche stranieri, a sostegno <strong>di</strong> quella sua tesi scapigliata. E poi, a contorno, quanta ipocrisia:<br />

«Per verità, chiunque miri alla naturale bellezza <strong>di</strong> questo porto é indotto a volerlo rinnovato<br />

e in essere, ma se per poco rivolga in mente le accennate <strong>di</strong>fficoltà, ei non saprà a qual partito<br />

appigliarsi, e forse muterà proposito e si rimarrà dall’impresa...».<br />

Ed ecco entrare in campo Francescantonio Monticelli a sostegno della causa dell’anziano suo<br />

zio Giovanni. Francescantonio, barone e deputato gratuito della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, elaborò una<br />

“Terza memoria in <strong>di</strong>fesa della città e de’ porti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si” seguita da un ”Esame critico delle<br />

Osservazioni sul ristabilimento del porto e sulla bonificazione dell’aria <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si date in luce dal<br />

sig. De Fazio”, due documenti che furono pubblicati nel 1833 e nel 1834, rispettivamente.<br />

Nella memoria in <strong>di</strong>fesa della città e del suo porto, un documento <strong>di</strong> 70 pagine, appellandosi<br />

alla Consulta <strong>di</strong> Stato e al Re, Monticelli fa un´appassionata frontale e documentatissima critica<br />

a un progetto <strong>di</strong> intervento limitato e tecnicamente sbagliato che per il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si si<br />

stava proponendo attuare a mo’ <strong>di</strong> palliativo, e che a suo avviso solamente sarebbe servito a<br />

superare una congiuntura politica e a finalmente <strong>di</strong>mostrare, con il suo scontato fallimento,<br />

l´impossibilità stessa <strong>di</strong> poter recuperare il porto. E perorando al contempo, e sulla base <strong>di</strong><br />

una precisa documentazione, la realizzazione del progetto, già dettagliatamente concepito, <strong>di</strong><br />

un intervento integrale e tecnicamente accertato che invece, e giustamente, prevedeva il totale<br />

abbandono dello schema concettualmente erroneo realizzato dal Pigonati.<br />

E nell’esame critico delle osservazioni date in luce da De Fazio, in una sessantina <strong>di</strong> pagine<br />

Monticelli confuta risolutamente ognuna <strong>di</strong> quelle osservazioni, sia quelle relative al recupero<br />

del porto e sia quelle relative al tema dell’aria malsana. Dimostra con calcoli e numeri, che la<br />

stima del volume dei lavori da eseguire per restaurare completamente il canale avanzata dal<br />

De Fazio (300mila canne <strong>di</strong> terra da dragare) era assolutamente infondata e volutamente<br />

esagerata, giacché la realtà tecnica la collocava oggettivamente sull’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> solo un sesto a<br />

un terzo <strong>di</strong> quell’enorme quantità. Quin<strong>di</strong> commenta profusamente come i lavori <strong>di</strong> un<br />

recupero integrale del porto possano essere tecnicamente ben realizzati, ed a costi contenuti.<br />

Poi, in relazione alla questione della malsana aria <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, nella seconda parte del suo<br />

esame critico Monticelli si <strong>di</strong>lunga nel confutare tutte le asseverazioni <strong>di</strong> De Fazio,<br />

denunciandone per molte <strong>di</strong> esse l’inesattezza o la malintenzionata falsità, nonché<br />

ricoli<strong>di</strong>zzandone un’altra buona parte. In realtà non fatica troppo nell’argomentare l’assur<strong>di</strong>tà<br />

delle tesi <strong>di</strong> De Fazio, basandosi a volte sul solo buonsenso e, quando necessario,<br />

semplicemente ricorrendo alla plurimillenaria <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Finalmente, il re Fer<strong>di</strong>nando II, per sua lungimiranza, per merito dei due Monticelli, e per<br />

nostra fortuna, non abboccò alle manovre dei lobbisti gallipolini. Non solo: intuita la malafede<br />

e il tentativo d’inganno, s’incavolò tanto che defenestrò il De Fazio dal governo.<br />

Nel 1834 il re nominò una commissione per la compilazione <strong>di</strong> un progetto definitivo <strong>di</strong><br />

rilancio del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e questa, dopo due anni, glielo presentò. Nonostante l’ingente<br />

spesa prevista i lavori furono appoggiati dal sovrano, il quale nominò a sopraintendere l’opera<br />

uno dei componenti la commissione, il colonnello del genio Albino Mayo, e si recò a Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong><br />

persona per <strong>di</strong>mostrare l’avallo sovrano al grande progetto. Purtroppo, però i lavori non<br />

partirono con il verso giusto e dopo ben otto anni, fu necessario emanare uno specifico reale<br />

decreto per dare nuovo impulso al progetto e la costruzione dell’opera ebbe finalmente<br />

formale principio nel 1843 «...coll’abbassamento dell’isola angioina, coll’apertura del canale<br />

borbonico, abbattendo le vecchie banchine che vi faceano argine, e portando le acque alla<br />

stessa refluenza primiera sulle spiaggiate dei giar<strong>di</strong>ni...».<br />

202


Nel 1845 il re Fer<strong>di</strong>nando II venne a Brin<strong>di</strong>si per verificare i lavori <strong>di</strong> bonifica e perché vi<br />

erano «interessi sovrani per il porto alla vigilia dell’apertura del canale <strong>di</strong> Suez». Vi tornò<br />

ancora per lo stesso motivo nel 1846 e nuovamente il 26 maggio 1847.<br />

E proprio in quel 1847 si completò la mo<strong>di</strong>fica dell’orientamento del canale che, così rivolto<br />

verso tramontana, risolse il problema del perio<strong>di</strong>co insabbiamento e della conseguente<br />

ostruzione. Poi, con l’inizio del 1848, i lavori furono sospesi a seguito del precipitare dei fatti<br />

politici e militari <strong>di</strong> quell’anno. Furono ripresi solamente nel 1854 e il 17 gennaio 1856 si<br />

svolse una pomposa cerimonia d’inaugurazione delle nuove - però parziali - opere del porto.<br />

Il 28 <strong>di</strong>cembre 1860, nel pieno dei fermenti legati all’avvenuta annessione del regno delle Due<br />

Sicilie al regno <strong>di</strong> Sardegna, poi regno d’Italia, il nuovo governatore della provincia <strong>di</strong> Terra<br />

d’Otranto bandì il concorso d’appalto <strong>di</strong> una nuova serie <strong>di</strong> lavori già programmati per il<br />

porto: la costruzione d`una parte della banchina nel seno <strong>di</strong> ponente. E non si trattava ancora<br />

del totale completamento dell’impresa, la quale <strong>di</strong> fatto si protrasse per ulteriori vari decenni,<br />

tra le venturose e tragiche vicissitu<strong>di</strong>ni sociali politiche e militari che si succedettero finanche<br />

addentrato il nuovo secolo.<br />

Purtroppo, però, e nonostante quell’indubbio successo della definitiva riapertura del canale<br />

alla navigazione, le vicissitu<strong>di</strong>ni del nostro porto erano destinate a perdurare tra “alti e bassi”<br />

fino a giungere ai nostri giorni e senza che s’intraveda ancora una luce chiara alla fine del<br />

tunnel: é il destino <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, in<strong>di</strong>ssolubilmente legato a quello del suo celeberrimo porto.<br />

Quel - comunque - gran<strong>di</strong>ssimo successo, e senza alone <strong>di</strong> dubbio alcuno, lo si deve<br />

innanzitutto ai Monticelli, a Giovanni e a Francescantonio. Non certo a Pigonati!<br />

gianfrancoperri@gmail.com 3 Novembre 2014<br />

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Lo storico e glorioso idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

Pubblicato su.Brin<strong>di</strong>siweb.it ‐ 2015<br />

Probabilmente molti giovani brin<strong>di</strong>sini d’oggi non sanno che l'aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si,<br />

recentemente denominato “Del Grande Salento” ed in origine intitolato al comandante <strong>di</strong><br />

aeromobile civile Antonio Papola deceduto il 13 febbraio del 1938 in un incidente <strong>di</strong> volo, ha<br />

avuto un glorioso antenato e capostipite che tra pochissimo commemorará il suo primo<br />

centenario della nascita.<br />

Le piú lontane origini dell'aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che furono <strong>di</strong> caracttere militare e che<br />

risalgono agli albori della stessa aviazione italiana, coincidono infatti con gli anni iniziali della<br />

Prima guerra mon<strong>di</strong>ale, quando nel basso Adriatico si scontravano acerbamente le flotte<br />

dell'Intesa <strong>di</strong> cui faceva parte l’Italia, contro quelle austro-tedesche. Il suo primissimo nucleo<br />

fu una stazione provvisoria per idrovolanti creata, con lo scoppio della guerra e poco prima<br />

dell’entrata in guerra dell’Italia, per iniziativa della Regia Marina Militare: una circolare della<br />

Regia Marina, la N° 25260 del 6 <strong>di</strong>cembre 1914, stabiliva la creazione <strong>di</strong> tre stazioni per<br />

idrovolanti, a Venezia Pesaro e Brin<strong>di</strong>si, per contrastare l’aeronautica austriaca che stava<br />

imperversavano sull’Adriatico. Della ventina <strong>di</strong> apparecchi dei quali <strong>di</strong>sponeva allora la Regia<br />

Marina, a Brin<strong>di</strong>si furono assegnati 3 idrovolanti Curtiss. Erano apparecchi <strong>di</strong> legno e tela, e a<br />

Brin<strong>di</strong>si furono inizialmente depositati sulla nave Elba e successivamente sulla nave Europa,<br />

in attesa che si completasse la costruzione <strong>di</strong> un apposito hangar in un’area al confine tra le<br />

due zone costiere denominate ”Posillipo”e “Costa Guacina” sul lato ovest dell’avanporto.<br />

Costa Guacina, tra Posillipo e Fontanelle, prima dei lavori <strong>di</strong> sterro che daranno spazio all’area dell’idroscalo<br />

204


Nel 1916, per meglio contrastare l’aviazione austriaca <strong>di</strong> base a Durazzo, la stazione fu<br />

potenziata <strong>di</strong>venendo stabile e più efficiente: era cosí nato l'Idroscalo Militare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Il<br />

complesso sorgeva in località Costa Guacina, appena fuori dal porto interno, uscendo dal porto<br />

sul lato sinistro del canale Pigonati, su un’area costiera compresa tra il canale e Fontanelle, da<br />

sempre punto <strong>di</strong> attracco <strong>di</strong> navigli imbarcazioni e battelli vari in quanto riparata dalle<br />

correnti marine, e per questo <strong>di</strong>fesa dalla piazzaforte navale. Furono anche necessari<br />

impegnativi lavori <strong>di</strong> sterro per portare sul livello del mare tutta l’area della costa che in<br />

origine fu topograficamente sopraelevata.<br />

Planimetria <strong>di</strong> Costa Guacina ‐ Dicembre 1916<br />

Quel bellissimo specchio d’acqua, dalle con<strong>di</strong>zioni naturali invi<strong>di</strong>abili, fu la pista dalla quale fin<br />

dal 1914 si levavano in volo gli idrovolanti della squadriglia guidata da Orazio Pierozzi, eroico<br />

aviatore deceduto in volo <strong>di</strong> addestramenteo nel 1919 dopo aver guidato innumerevoli azioni<br />

<strong>di</strong> guerra vittoriose. Soprannominato l’asso del mare, a lui dopo la sua tragica morte fu<br />

intitolato l’idroscalo. Cosí come durante gli anni della grande guerra si levavano in volo le altre<br />

due squadriglie <strong>di</strong> base all’idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, guidate da altri due formidabili aviatori,<br />

Umberto Maddalena e Francesco De Pinedo, piloti militari che <strong>di</strong>vennero celebri per le loro<br />

imprese aviatorie, anche loro deceduti in volo, nel 1931 e nel 1933 rispettivamente.<br />

Orazio Pierozzi Umberto Maddalena Francesco De Pinedo<br />

205


1918: Orazio Pierozzi col suo Macchi 55 Maddalena (primo a sinistra) e De Pinedo (terzo)<br />

La squadriglia <strong>di</strong> M55 <strong>di</strong> Umberto Maddalena, uno dei piloti italiani piú decorati ‐ Giugno 1918<br />

Aereo austriaco Hansa Brandemburg W 13 catturato a Brin<strong>di</strong>si ‐ June 1918 (foto La Valigia delle In<strong>di</strong>e)<br />

206


Nel corso del 1916 furono costruite le aereorimesse per gli idrovolanti da bombardamento<br />

progettati dall’ingegnere Luigi Bresciani. Un incidente <strong>di</strong> volo in fase <strong>di</strong> sperimentazione causó<br />

la morte del progettista e la <strong>di</strong>struzione del prototipo e il progetto fu abbandonato, peró il<br />

nome Bresciani rimase ai 6 hangars. A<strong>di</strong>acenti e a nord degli hangars Bresciani, si costruirono<br />

anche 3 enormi hangars per <strong>di</strong>rigibili i quali peró furono presto <strong>di</strong>smessi e trasferiti a San Vito<br />

dei Normanni, per ragioni <strong>di</strong> sicurezza. Gli hangars Bresciani invece, con muratura <strong>di</strong> tufi e<br />

cemento e con copertura a botte con sesto ribassato in solaio latero-cementizio, sono ancora<br />

oggi in situ e utilizzati dall’ONU.<br />

Hangars Bresciani quasi completati e primo hangar <strong>di</strong>rigibili in costruzione ‐ 1916<br />

Finita la grande guerra, nel 1919 il governo italiano propose alla Grecia la creazione <strong>di</strong> un<br />

servizio <strong>di</strong> posta aerea tra Roma ed Atene con scalo a Brin<strong>di</strong>si, peró con un pensiero chiaro e<br />

lungimirante giá rivolto ai possibili sviluppi futuri dell’aeronautica commerciale. Fu proprio<br />

un raid effettuato tra il 9 e il 12 settembre <strong>di</strong> quello stesso anno da Francesco De Pinedo,<br />

comandante della stazione <strong>di</strong> idrovolanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, e conclusosi positivamente con un<br />

percorso aereo tra Brin<strong>di</strong>si ed Atene in sole cinque ore, a rendere più concreta quell’idea. Quel<br />

raid doveva infatti rivelarsi essere stato una mossa propagan<strong>di</strong>stica <strong>di</strong> notevole spessore,<br />

tanto che per l’occasione il governo greco inviò alle autorità italiane una lettera <strong>di</strong><br />

congratulazioni per l’efficacia degli idrovolanti <strong>di</strong> base a Brin<strong>di</strong>si.<br />

Con regio decreto del 28 marzo 1923 fu fondata la Regia Aeronautica Militare che al momento<br />

della sua nascita ricevette in consegna da Esercito e Marina tutti i campi aeronautici terrestri e<br />

gli idroscali allora esistenti: a Brin<strong>di</strong>si prese possesso del campo terrestre <strong>di</strong> San Vito dei<br />

Normanni che era sorto nel 1918 a circa 9 kilometri dalla città sulla strada per San Vito dei<br />

Normanni con l’a<strong>di</strong>acente, tra i vigneti <strong>di</strong> contrada Marmorelle, campo <strong>di</strong>rigibili e quin<strong>di</strong>,<br />

prese possesso anche dell’idroscalo Orazio Pierozzi.<br />

Cosí nello stesso 1923 toccó alla fiammante Regia Aeronautica Militare avviare la costruzione<br />

dell’Idroscalo Civile <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che, affiancando quello militare, fu completato nel 1925<br />

perfezionando cosí un grande sistema <strong>di</strong> trasporti e collegamenti all’importantissimo e<br />

strategico porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che con il sub-sistema treno-nave della Valigia delle In<strong>di</strong>e era già<br />

funzionante fin dal secolo precedente.<br />

207


Parallelamente, vennero costituite le prime aerolinee private italiane: la societá Servizi Aerei<br />

SISA nel 1921, la Societá Anonima Navigazione Aerea SANA nel 1925, la societá Transadriatica<br />

nel 1926 e la piú famosa Aero Espresso Italiana AEI che, fondata il 12 <strong>di</strong>cembre 1923, il 7<br />

maggio 1924 stipuló con l’Aeronautica Militare una convenzione per l’impianto e l’esercizio <strong>di</strong><br />

una linea commerciale tra Italia Grecia e Turchia, via Brin<strong>di</strong>si. Era cosí nata la prima linea<br />

aerea internazionale italiana e il 1° Agosto del 1926 dall’idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si partì il primo<br />

volo commerciale internazionale <strong>di</strong> linea italiano, che aprì al traffico la linea Brin<strong>di</strong>si-Atene-<br />

Costantinopoli con idrovolanti Macchi M24. Nel 1927 fu aggiunta la linea Brin<strong>di</strong>si-Atene-Ro<strong>di</strong><br />

e la SISA inaugurò la Brin<strong>di</strong>si-Durazzo-Zara. Nel 1928 un’altra importante compagnia, la SAM<br />

Società Aerea Me<strong>di</strong>terranea, avviò la Brin<strong>di</strong>si-Valona con idrovolanti Savoia Pomilio S59.<br />

Brin<strong>di</strong>si ‐ Atene ‐ Costantinopoli dell´ Aero Espresso Italiana: dal 1926 al 1934<br />

L’Idroscalo civile dell’Aereo Espresso Italiana a Brin<strong>di</strong>si ‐ 1927<br />

208


N<br />

Piano dell’Idroscalo militare e civvile <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si: Regia Aeronautica e Aero Espresso Italiana – 1927<br />

209


Sul fronte militare, negli anni Venti Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>venne sede dell’86° Gruppo Idrovolanti dotato<br />

<strong>di</strong> numerosi apparecchi Macchi M24 e poi Siai Marchetti S55 e sorse cosí la necessitá <strong>di</strong> nuovi<br />

hangars la cui costruzione, stabilita a nord degli hangars Bresciani, fu commissionata alla<br />

Societá Officine Savigliano <strong>di</strong> Torino. I 4 hangars Savigliano, ognuno a pianta rettangolare <strong>di</strong><br />

circa 54 x 60 metri, furono completati intorno al 1930: ossatura reticolare metallica a una<br />

campata e rivestimenti in lamiere ondulate zincate, cupolino centrale <strong>di</strong> aereazione a doppia<br />

falda in materiale policarbonato. Ognuno dei quattro accessi verso la banchina ha un’apertura<br />

<strong>di</strong> circa 51 metri con piú <strong>di</strong> 12 metri <strong>di</strong> altezza. L’ottima struttura metallica, nonostante la sua<br />

vicinanza al mare è rimasta pressoché intatta ed é ancora funzionale ai nostri giorni: uno degli<br />

hangars é gestito dall’ONU e negli altri tre opera la societá Alenia Aeronavali.<br />

Hangars Savigliano e pontoni aerei dell’Idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ 1931<br />

Si trattava <strong>di</strong> un idroscalo d’avanguar<strong>di</strong>a con infrastrutture e servizi <strong>di</strong> grande qualitá, per<br />

esempio era il solo al mondo ad essere dotato <strong>di</strong> un carrello <strong>di</strong> alaggio su rotaie che consentiva<br />

un comodo imbarco a terra <strong>di</strong> passeggeri, merci e posta. Alcuni resti <strong>di</strong> quelle rotaie si<br />

possono ancora riconoscere sul terreno a tutt’oggi.<br />

Rampe <strong>di</strong> scivoli all’Idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ 1934<br />

210


L’idroscalo con la sua sezione militare e con quella civile, grazie alla posizione strategica <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si, aveva funzionato a pieno ritmo per tutti gli anni Venti, con un vasto impiego <strong>di</strong><br />

idrovolanti in molte delle nuove correnti <strong>di</strong> traffici commerciali e militari del Me<strong>di</strong>terraneo.<br />

Invece, per <strong>di</strong>versi anni gli aerei militari e civili si erano continuati a servire del campo<br />

terrestre <strong>di</strong> San Vito fino a quando l’amministrazione provinciale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si decretó la<br />

costruzione <strong>di</strong> un nuovo aeroporto, procedendo all’esproprio ed acquisto dei terreni agricoli<br />

siti alle spalle dell’idroscalo, approntando nel 1931 il piano regolatore del nuovo aeroporto e<br />

iniziando i lavori <strong>di</strong> costruzione alla fine dello stesso anno 1931.<br />

Il campo entrò in funzione nel 1933, inaugurato da Benito Mussolini il 30 <strong>di</strong> luglio, e<br />

l’aerostazione fu completata nel 1937, con pista <strong>di</strong> lancio orientata a nord, inizialmente <strong>di</strong> 50<br />

metri x 600 metri e successivamente portata a 850 metri <strong>di</strong> lunghezza.<br />

A seguito della politica del regime, voluta dal ministro dell’Aeronautica Italo Balbo, tutte le<br />

societá aeree furono via via liquidate o accorpate fino alla formazione <strong>di</strong> un’unica compagnia<br />

<strong>di</strong> ban<strong>di</strong>era, l’Ala Littoria, alla quale finalmente passó anche AEI nell’ottobre del 1934, quando<br />

il 28 <strong>di</strong> quel mese la compagnia SAM dopo aver assorbito la quasi totalitá dei servizi aerei<br />

italiani era ufficialmente <strong>di</strong>venuta “Ala Littoria S.A.” aggiungendo il fascio littorio alla<br />

ron<strong>di</strong>nella azzurra del simbolo SAM che sua volta era stato ere<strong>di</strong>tato dalla Transadriatica.<br />

Aerostazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Linee aeree SAM Societá Aerea Me<strong>di</strong>terranea, poi Ala Littoria ‐ 1934<br />

Nell’aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si l’Ala Littoria gestiva, tra altre, le linee Brin<strong>di</strong>si-Ro<strong>di</strong>; Brin<strong>di</strong>si-Roma-<br />

Trieste; Roma-Brin<strong>di</strong>si-Tirana-Salonicco; Brin<strong>di</strong>si-Atena-Ro<strong>di</strong>-Haifa; Roma-Brin<strong>di</strong>si-Bagdad;<br />

Brin<strong>di</strong>si-Durazzo-Lagosta-Zara-Lussino-Pola-Trieste.<br />

211


L’idroscalo militare era stato intitolato a Orazio Pierozzi, comandante della Squadra<br />

Idrovolanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante la Prima guerra mon<strong>di</strong>ale, e con la stessa denominazione<br />

venne inizialmente in<strong>di</strong>cato anche il nuovo aeroporto, che era militare e civile allo stesso<br />

tempo. Poi nel 1938 l’aeroporto civile ebbe la sua intitolazione ad Antonio Papola, mentre il<br />

militare conserva a tutt’oggi l’intitolazione originale a Orazio Pierozzi. Il 15 marzo del 1937 si<br />

formó sull’aereoporto militare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il 35° Stormo con aerei SM.55 e l’anno seguente<br />

1938, si formarono i Gruppi 95° e 86° con aerei idrovolanti CANT Z.606.<br />

Trimotore Savoia Marchetti S.73 dell’Ala Littoria sulla linea Roma‐Brin<strong>di</strong>si ‐ 1937<br />

Idrovolanti SM.55 del 35° Stormo schierati <strong>di</strong> fronte agli hangars Savigliano ‐ 1937<br />

212


1938 Ala Littoria Un idrovolante S66 della rotta per Haifa e Ro<strong>di</strong><br />

Hangar Savigliano: Bimotore Breda 44 dell’Ala Littoria sulla linea Roma‐Brin<strong>di</strong>si‐Tirana Salonicco ‐ 1938<br />

213


Idrovolanti CANT Z.506 dei Gruppi 95°& 86° schierati sull’Idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ 1938<br />

Con la Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale fu realizzata dai tedeschi una nuova pista <strong>di</strong> 1500 metri e si<br />

intensificó l’attivitá militare a scapito <strong>di</strong> quella civile, fino a quando questa si esaurí del tutto<br />

nel settembre del '43 con l’ultimo idrovolante civile <strong>di</strong> linea che decolló il 9 settembre alla<br />

volta <strong>di</strong> Ancona. L’attivitá civile fu infatti sospesa totalmente giá che l’aeroporto <strong>di</strong>venne base<br />

dei reparti aerei alleati <strong>di</strong> occupazione, sotto comando inglese, e nel 1944 gli alleati<br />

costruirono una terza pista <strong>di</strong> 1800 metri, in terra stabilizzata con l’olio bruciato degli aerei.<br />

CANT z 506: sullo sfondo il Collegio Navale il Monumento al Marinaio le navi scuola Vespucci e Colombo ‐ 1943<br />

214


N<br />

USAAF intelligence aerodrome chart of Brin<strong>di</strong>si Camp showing the position of the seaplane base ‐ 1943<br />

Dopo la Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, l’attività civile dell’aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si riprese con<br />

regolaritá nel maggio del 1947 con la nuova compagnia <strong>di</strong> ban<strong>di</strong>era Alitalia e si ripristinó la<br />

linea Roma-Brin<strong>di</strong>si alla quale si affiancó la linea Brin<strong>di</strong>si-Catania.<br />

Ma l’epoca gloriosa delle idrolinee da e per l’idroscalo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si era ormai finita per sempre:<br />

quell’epopea dell’aviazione civile italiana e brin<strong>di</strong>sina in particolare, durata all’incirca una<br />

ventina <strong>di</strong> anni, si era definitivamente conclusa.<br />

Gli idrovolanti militari invece continuarono a scivolare sullo specchio del porto me<strong>di</strong>o per un<br />

po’ <strong>di</strong> anni ancora, fino a tutti gli anni ’60, e molti <strong>di</strong> noi meno giovani ce li ricor<strong>di</strong>amo ancora<br />

identificandoli chiaramente sull’orizzonte dalle rive delle nostre spiagge interne al porto<br />

(Sant’Apollinare - Fiume piccolo - Fiume grande - Marimisti e Fontanelle), con il loro<br />

coinvolgente rullare e con le lore sagome un po’ goffe dalle estremitá arancione fosforescente,<br />

fino a farsi sempre piú ra<strong>di</strong> prima <strong>di</strong> svanire anch’essi nelle pieghe della <strong>storia</strong> della cittá e del<br />

suo porto: ben piú <strong>di</strong> cinquant’anni <strong>di</strong> <strong>storia</strong> brin<strong>di</strong>sina.<br />

215


Anche l’attivitá militare riprese finalmente autonoma dall’occupazione militare dopo la<br />

Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale. Nel 1947 a Brin<strong>di</strong>si fu destinato l’83° Gruppo Soccorso Aereo con<br />

idrovolanti CANT Z 506 sostituiti a partire dal 1958 con idrovolanti HU 16 A-Albatross. Poi,<br />

con l’entrata nel 1949 dell’Italia nella NATO, arrivarono in dotazione all’aeroporto militare <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si i primi aerei militari americani.<br />

Tra il 15 ed el 18 settembre 1950 la portaerei americana Mindoro sbarcó i primi 40 aerei<br />

Curtiss Hell<strong>di</strong>ver 52-C, per armare la ricostruita Aeronautica Militare. E nel giugno del 1952<br />

dalla portaerei americana Corregidor furono sbarcati i primi aviogetti da caccia, gli aeroplani a<br />

reazione F-84G thunderjet, protetti da uno speciale rivestimento plastico detto ‘cocoon’.<br />

Dalla nave americana Mindoro sbarcano per l’aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si gli aerei Curtiss 52C ‐ 16 settembre 1950<br />

Aviogetti caccia F‐84G thunderjet sbarcarti dalla portaerei americana Corregidor ‐ Giugno 1952<br />

216


Fiat G 59 B per addestramento schierati davanti agli hangars Savigliano ‐ 1957<br />

Il mio primo volo con mio padre, il Maresciallo Settimio Perri, nel cielo dell’aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ‐ 1957<br />

217


Sottufficiali dell’Aeronautica, colleghi <strong>di</strong> mio padre il Maresciallo Settimio Perri al centro con la sciabola<br />

Aeroporto Militare Orazio Pierozzi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nella festa della Madonna <strong>di</strong> Loreto ‐ 12 Dicembre 1957<br />

Il 10 settembre 1967 sull’aeroporto militare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si fu ricostituito con il 13° Gruppo caccia<br />

bombar<strong>di</strong>eri e ricognitori, quel 32° Stormo che era stato originalmente costituito l’1°<br />

<strong>di</strong>cembre 1936 e poi sciolto il 27 gennaio 1943. Il velivolo in dotazione fu il Fiat G.91R, in<br />

dotazione anche alla gloriosa pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori, e nel 1974 lasció<br />

spazio al bireattore G.91Y. Dal 1993 peró, lo Stormo non ha piú sede a Brin<strong>di</strong>si ed opera<br />

dall’aeroporto Amendola, in Foggia. Finalmente, nel 2008 l’aeroporto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ha perso lo<br />

status <strong>di</strong> scalo militare aperto al traffico civile ed ha acquisito la semplice denominazione <strong>di</strong><br />

aeroporto civile.<br />

218


E quell’idroscalo, sorto quasi cento anni or sono nel porto me<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, è anche stato il<br />

luogo d’origine dell’industria aeronautica brin<strong>di</strong>sina che lí nacque e quin<strong>di</strong> vi prosperó per<br />

quasi ottant’anni: gli idrovolanti infatti avevano bisogno non solo <strong>di</strong> uno scalo posto vicino ad<br />

uno specchio d’acqua, ma anche <strong>di</strong> assistenza e manutenzione. La Societá Anonima Cantieri<br />

d’Aeroporto SACA entró in attività nel 1934 e sotto la guida dell’ingegnere Michele Dell’Olio<br />

<strong>di</strong>venne rapidamente la principale industria della provincia.<br />

Nel dopoguerra la SACA, con la nuova denominazione <strong>di</strong> Societá per Azioni Costruzioni<br />

Aeronavali, fu rinnovata ed ampliata tanto che negli anni ’60 il personale raggiunse le mille<br />

unità. Imperdonabilmente nel 1977, dopo un continuo deca<strong>di</strong>mento aziendale, si giunse alla<br />

penosa <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> fallimento. La Industria Aeronautica Meri<strong>di</strong>onale IAM ne rilevò le<br />

maestranze, gli impianti e le attività. In seguito a ristrutturazione, la IAM <strong>di</strong>venne Agusta e<br />

questa, nel 1999, cedette ad Alenia Aeronautica il sito dell’idroscalo: 3 degli hangars<br />

Savigliano sono attualmente officine della societá Alenia Aeronavali.<br />

Gli hangars Bresciani e Savigliano – 2010 (foto Ugo Imbriani)<br />

Ma quella della SACA e <strong>di</strong> tutta l’industria aeronautica brin<strong>di</strong>sina é tutta un’altra lunga<br />

gloriosa e, per certi versi, triste <strong>storia</strong> alla quale bisognerá de<strong>di</strong>care molto piú <strong>di</strong> un capitolo.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

Tra cielo e mare. Mostra documentaria. Archivio <strong>di</strong> Stato <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si – 2007<br />

Orazio Pierozzi l’asso della marina. M. Mattioli – 2003<br />

La base navale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante la grande guerra. G. T. Andriani – 1993<br />

L’Aeroporo civile <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. F. Gorgoni – 1993<br />

Lotte e vittorie sul mare e nel cielo. U. Maddalena – 1930<br />

219


2015: 100 anni dalla trage<strong>di</strong>a della Benedetto Brin<br />

Pubblicato su Senza Colonne News dell’11 luglio 2015<br />

In questo 2015 ricorrerà il centenario della trage<strong>di</strong>a brin<strong>di</strong>sina della nave corazzata<br />

Benedetto Brin: sarà il 27 settembre alle ore 8 e 10 minuti del mattino quando si<br />

compiranno cento anni esatti dall'esplosione della santabarbara della nave che si<br />

trovava alla fonda nel porto me<strong>di</strong>o in prossimità della spiaggia Fontanelle, a<strong>di</strong>acente a<br />

Marimisti, <strong>di</strong> fronte alla costa Guacina. La nave s'incen<strong>di</strong>ò e s'inabissò portando con sé<br />

in fondo al mare 456 marinai, in sostanza la metà dell’intero equipaggio <strong>di</strong> 943 uomini<br />

che in quel lunedì mattina erano imbarcati, e tra i tantissimi caduti il comandante<br />

della nave, il capitano Gino Fara Forni e anche il comandante della 3ª Divisione Navale<br />

della 2ª Squadra, il contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin.<br />

Un boato tremendo squarciò l'aria e il rombo <strong>di</strong> un'esplosione si ripercosse lontano<br />

sul mare e sulla città, le navi ancorate ebbero un sussulto e le case tremarono. La nave<br />

non si vedeva più e al suo posto una colonna alta oltre cento metri <strong>di</strong> fumo giallo,<br />

rossastro, misto a gas e vapori s'innalzava al cielo. La catastrofe apparve in tutta la sua<br />

orrenda gran<strong>di</strong>osità alcuni momenti dopo, quando la colonna <strong>di</strong> fumo lentamente si<br />

<strong>di</strong>radò.<br />

L'affondamento della Benedetto Brin nel Porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si il 27 settembre 1915<br />

Ecco qui una parte <strong>di</strong> quello che raccontò l'ufficiale Fausto Leva, testimone della<br />

trage<strong>di</strong>a: «Nel fumo denso si <strong>di</strong>stinse per un momento la massa d'acciaio della torre<br />

poppiera dei cannoni da 305 mm, che lanciata in aria dalla forza dell'esplosione fino a<br />

metà della colonna, ricadde poi violentemente in mare, sul fianco sinistro della nave.<br />

Pochi momenti dopo, <strong>di</strong>ssipato il nembo del fumo, lo scafo della Benedetto Brin fu<br />

veduto appoggiare senza sbandamento sul fondo <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci metri e scendere ancora<br />

lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Mentre la prora poco danneggiata si<br />

nascondeva sotto l'acqua che arrivava a lambire i cannoni da 152 della batteria, la<br />

parte poppiera completamente sommersa appariva sconvolta e ridotta a un ammasso<br />

<strong>di</strong> rottami. Caduto il fumaiolo e l'albero <strong>di</strong> poppa, si ergeva ancora dritto e verticale<br />

l'albero <strong>di</strong> trinchetto» [estratto da “La base navale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante la grande<br />

guerra” <strong>di</strong> Teodoro G. Andriani, 1993].<br />

220


Fatalità volle che nel quadrato <strong>di</strong> poppa il contrammiraglio Rubin a quell'ora teneva a<br />

rapporto gli ufficiali, per cui la maggior parte <strong>di</strong> loro saltò in aria tra l'ammasso<br />

informe dei rottami sconnessi e roventi: mai si ritrovò neppure la salma del<br />

contrammiraglio.<br />

Esemplare fu il comportamento dell'equipaggio superstite della corazzata. Questo<br />

riferisce il comandante del cacciatorpe<strong>di</strong>niere francese Borèe che stava uscendo in<br />

mare aperto e che transitava in quel momento a qualche centinaio <strong>di</strong> metri<br />

dall'esplosione: «Una grande parte dell'equipaggio superstite della Brin, subito dopo<br />

l'esplosione si era raccolta sulla prua in perfetto or<strong>di</strong>ne e non si u<strong>di</strong>va tra quegli<br />

uomini né un grido né un appello. Non ho visto un solo marinaio gettarsi in acqua<br />

prima che sia stato dato l'or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> abbandonare la nave: una condotta veramente<br />

ammirevole» [estratto da “Brin<strong>di</strong>si durante la prima guerra mon<strong>di</strong>ale” <strong>di</strong> Teodoro G.<br />

Andriani, 1977].<br />

Lo sbarco avvenne qualche minuto dopo in tutto or<strong>di</strong>ne. Numerosi rimorchiatori e<br />

imbarcazioni delle tante navi italiane e francesi presenti nel porto raccolsero i<br />

superstiti e li portarono nelle loro infermerie.<br />

La corazzata Benedetto Brin, lunga 138 metri e larga 23 metri, pescava 8 metri, aveva<br />

una stazza <strong>di</strong> 14000 tonnellate ed era dotata <strong>di</strong> 46 cannoni 2 mitragliere e 4<br />

lanciasiluri. La sua costruzione iniziò nel 1899 e fu varata nel 1901 a Castellammare <strong>di</strong><br />

Stabia. Fu consegnata alla Regia Marina nel 1905, ricevendo la ban<strong>di</strong>era <strong>di</strong><br />

combattimento il 1º aprile 1906. Durante la guerra italo-turca aveva partecipato allo<br />

sbarco a Tripoli il 2 ottobre del 1911.<br />

Il varo della Benedetto Brin a Castellammare <strong>di</strong> Stabia nel 1901<br />

221


La corazzata era stata intitolata a Benedetto Brin, un militare <strong>di</strong> mare nato a Torino<br />

nel 1833, che fu generale del genio navale, economista e uomo politico. Fu il<br />

rinnovatore della Marina Militare Italiana e fu creatore delle prime gran<strong>di</strong> corazzate<br />

moderne e progettista dei primi incrociatori da battaglia. Fu ministro della Marina per<br />

circa <strong>di</strong>eci anni, e fu anche ministro degli Esteri. Promosse lo sviluppo dell'industria<br />

navalmeccanica italiana e nel 1878, istituì a Livorno l'Accademia Navale.<br />

Imme<strong>di</strong>atamente dopo lo scoppio, le autorità militari avanzarono l'ipotesi<br />

dell'attentato ad opera dei nemici <strong>di</strong> guerra austriaci, ma poco a poco cominciò a<br />

prendere corpo anche la più verosimile possibilità <strong>di</strong> un'autocombustione avvenuta<br />

nella grande stiva a<strong>di</strong>bita a deposito <strong>di</strong> munizioni: il calore della sala motori, vicina al<br />

locale della santabarbara, avrebbe innescato l'incen<strong>di</strong>o che a sua volta avrebbe fatto<br />

scoppiare le munizioni. Mai fu data una risposta definitiva... e ormai, certamente non<br />

importa troppo sapere l'esatta verità, né certamente mai importò troppo saperla a<br />

quei 456 marinai.<br />

D’altra parte, non è tra i propositi <strong>di</strong> quest'articolo, il proporre una ricostruzione<br />

storica <strong>di</strong> quel tragico episo<strong>di</strong>o accaduto a Brin<strong>di</strong>si cent'anni fa, né tanto meno<br />

l'approfon<strong>di</strong>re il <strong>di</strong>battito, mai chiuso, sulle cause e sulle responsabilità <strong>di</strong> quel<br />

luttuoso evento, così grave e impattante da giungere a coinvolgere l'intera città con<br />

tutti i suoi citta<strong>di</strong>ni. Già altri, e con maggior cognizione <strong>di</strong> causa della mia, si sono da<br />

anni de<strong>di</strong>cati con più o meno successo a entrambi obiettivi [raccomando agli<br />

interessati la lettura <strong>di</strong> quanto contenuto a tale proposito su “Memorie brin<strong>di</strong>sine” <strong>di</strong><br />

Antonio M. Caputo, 2004].<br />

La Benedetto Brin in navigazione<br />

Invece, prendendo spunto proprio dallo scritto del professor Caputo, mi piace qui<br />

ricordare come Brin<strong>di</strong>si partecipò al luttuoso evento con tutta sé stessa, e con la<br />

generosità che in certe occasioni è sempre capace <strong>di</strong> dare. Il sindaco, Giuseppe Simone,<br />

in<strong>di</strong>sse tre giorni <strong>di</strong> lutto citta<strong>di</strong>no e il consiglio comunale, il 24 giugno 1916, deliberò<br />

<strong>di</strong> intitolare alla “Benedetto Brin” e ai suoi caduti la strada del rione Casale, che ancora<br />

oggi collega l'ex collegio navale allo sta<strong>di</strong>o comunale e quin<strong>di</strong> all'aeroporto militare.<br />

222


Sulla banchina del porto si raccolse una folla enorme che assistette in angoscioso<br />

silenzio a quel crudele spettacolo del recupero dei corpi <strong>di</strong>laniati e dei superstiti feriti<br />

che furono ricoverati nell'ospedale della Croce Rossa e nell'Albergo Internazionale,<br />

subito a<strong>di</strong>bito a infermeria d'emergenza e che, per l'occasione, funse da efficiente<br />

ospedale militare.<br />

Numerose testimonianze <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni che quel tragico lunedì si riversarono riverenti<br />

sulle vie del porto, descrissero le operazioni <strong>di</strong> salvataggio, che proseguirono durante<br />

l'intero giorno e per tutta la notte, con lo spettacolo sconvolgente dei corpi martoriati<br />

e delle orribili ferite dei superstiti.<br />

A Brin<strong>di</strong>si affluirono molti dei parenti dei militari protagonisti della trage<strong>di</strong>a, con la<br />

<strong>di</strong>sperazione per la per<strong>di</strong>ta improvvisa dei loro congiunti che fu immensamente<br />

accresciuta per quelle tante famiglie che si resero conto che mai avrebbero potuto<br />

piangere e pregare sulla tomba dei loro cari: le vittime infatti, in maggior parte<br />

risultarono ufficialmente scomparse perché i loro corpi <strong>di</strong>laniati furono impossibili da<br />

riconoscere.<br />

Il popolo brin<strong>di</strong>sino si strinse attorno alla Marina Militare in una gara generosa <strong>di</strong><br />

solidarietà e <strong>di</strong> abnegazione, accogliendo con slancio e comprensione la folla dei<br />

familiari accorsi da ogni parte d'Italia per dare sepoltura alle martoriate salme dei<br />

caduti.<br />

I funerali delle prime salme recuperate ebbero luogo il giorno successivo allo scoppio,<br />

tra due fitte ali <strong>di</strong> popolo riverente, e per le altre proseguirono anche nei giorni<br />

seguenti. Tutte le spoglie dei marinai che non poterono essere consegnate alle famiglie<br />

furono seppellite in un'area del cimitero citta<strong>di</strong>no messa a <strong>di</strong>sposizione dal comune e<br />

specialmente a<strong>di</strong>bita.<br />

Area tombale dei marinai della Benedetto Brin nel cimitero <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

223


Rettore della chiesa Madonna <strong>di</strong> Loreto del cimitero, era a quel tempo il grande<br />

filantropo brin<strong>di</strong>sino, canonico Pasquale Camassa -Papa Pascalinu- che era anche<br />

cappellano militare e che pertanto visse quella dolorosa esperienza come pochi altri.<br />

Egli infatti adempì il seppellimento <strong>di</strong> tanti <strong>di</strong> quei marinai sfortunati e assistette al<br />

dolore dei familiari dei caduti che anche durante gli anni successivi alla trage<strong>di</strong>a si<br />

recarono in pellegrinaggio a Brin<strong>di</strong>si per visitare le tombe.<br />

Monumento funereo della trage<strong>di</strong>a della Benedetto Brin nel cimitero <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

224


Inoltre, perché <strong>di</strong> quel funesto <strong>di</strong>sastro potesse conservarsi perenne memoria, Papa<br />

Pascalinu si premurò personalmente <strong>di</strong> raccogliere e far sistemare nel Museo Civico<br />

della città alcuni avanzi <strong>di</strong> quella nave fatale, così come lo volle lui stesso testimoniare<br />

con ogni dettaglio in un numero del suo giornaletto “Il prossimo tuo” che uscì nel<br />

1917.<br />

Le spoglie mortali <strong>di</strong> quei tanti marinai giacquero nel cimitero comunale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

per tantissimo tempo, fino a pochi anni fa, quando furono traslate al cimitero militare<br />

<strong>di</strong> Bari, mentre in quello stesso settore del nostro cimitero furono sepolti anche molti<br />

militari, quasi tutti marinai, morti in combattimento durante la Seconda guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale.<br />

In quell'area del nostro cimitero comunale però, che per tutti noi brin<strong>di</strong>sini resta<br />

in<strong>di</strong>ssolubilmente legata al ricordo <strong>di</strong> quell'immane trage<strong>di</strong>a citta<strong>di</strong>na, si erge tuttora<br />

il suggestivo monumento funereo (*) che fu eretto a ricordo <strong>di</strong> quel tragico 27<br />

settembre <strong>di</strong> 100 anni fa, e ci sono inoltre, allineate lungo il Viale Eroi del Mare che<br />

delimita il settore, le trenta targhe marmoree che portano incisi in or<strong>di</strong>ne alfabetico i<br />

nomi <strong>di</strong> quei 456 sfortunati marinai italiani.<br />

Le targhe con i nomi dei 456 marinai morti nello scoppio della Benedetto Brin<br />

E a proposito del nostro cimitero comunale -non sono in grado <strong>di</strong> affermare che si<br />

tratti <strong>di</strong> una mia esperienza singolare o se la stessa sia in qualche misura<br />

un'esperienza comune ad altri miei concitta<strong>di</strong>ni- uno tra i ricor<strong>di</strong> più suggestivi che<br />

conservo della mia infanzia e anche dell'adolescenza e oltre, è proprio quello delle mie<br />

lunghe passeggiate tra i viottoli del cimitero comunale.<br />

225


Naturalmente ricordo quelle dell'immancabile appuntamento annuale del 2 novembre<br />

in compagnia dei miei, ma soprattutto ricordo quelle, più tranquille e molto più<br />

suggestive, fatte in solitu<strong>di</strong>ne a ogni occasione in cui mi toccava partecipare al<br />

funerale <strong>di</strong> un parente, o amico, o conoscente. Alla fine della cerimonia funebre, mi<br />

appartavo e quin<strong>di</strong> mi <strong>di</strong>leguavo tra quei viottoli. E ricordo bene, come quelle più<br />

emotive fossero le lunghe camminate fatte nelle fredde e grigie mattine autunnali, o<br />

quelle che più <strong>di</strong> rado capitavano in soleggiati e tiepi<strong>di</strong> pomeriggi invernali.<br />

Quelle mie camminate perlustrative duravano qualche ora e il percorso non seguiva<br />

alcun itinerario prestabilito. Solo mi soffermavo a leggere le varie lapi<strong>di</strong> -nomi e datespecialmente<br />

quelle che attraevano la mia attenzione per sembrare essere più antiche,<br />

oppure quelle dai nomi meno comuni o ad<strong>di</strong>rittura stranieri, e anche quelle che<br />

ritrattavano personaggi d'altri tempi in uniforme militare.<br />

Dalle date della morte cercavo <strong>di</strong> risalire al periodo storico dell'evento: Fine<br />

Ottocento? La Prima guerra mon<strong>di</strong>ale? La seconda? Tra le due guerre? Nel<br />

dopoguerra? E quegli stranieri con spesso nomi inglesi? Erano militari o erano civili? E<br />

se erano donne oppure uomini non militari, perché erano sepolti a Brin<strong>di</strong>si? Saranno<br />

stati marini, o comunque viaggiatori <strong>di</strong> una delle tantissime navi che approdavano a<br />

Brin<strong>di</strong>si? Magari della Valigia delle In<strong>di</strong>e, magari erano stati colti in viaggio da<br />

un'improvvisa malattia, o sorpresi da una qualche epidemia?<br />

Da ragazzo, quando non avevo a fianco mio padre o mia madre ai quali chiedere, in<br />

certe occasioni annotavo nomi e date e poi cercavo <strong>di</strong> scoprire qualche in<strong>di</strong>zio: a casa<br />

chiedevo a mio padre e a mia madre e finanche cercavo <strong>di</strong> rintracciare notizie sulle<br />

enciclope<strong>di</strong>e e in biblioteca. Ma era dura: ...e già, non c'era ancora Google! Eppure,<br />

qualche scoperta interessante -per quella mia fantasia fanciullesca e adolescenteriuscii<br />

anche a farla!<br />

Ebbene, il luogo del cimitero che più d'ogni altro ha da praticamente sempre attratto<br />

vigorosamente la mia attenzione, e continua a farlo tuttora, è quell'ampio settore<br />

delimitato da una serie <strong>di</strong> innumerevoli croci bianche, tutte uguali: le decine e decine<br />

<strong>di</strong> croci dei giovani e giovanissimi marinai caduti della Benedetto Brin e dei tanti altri<br />

caduti negli abissi marini dell'Adriatico durante la Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale.<br />

Ma purtroppo, quel settore del cimitero richiama oggi la mia attenzione, e certamente<br />

anche quella degli altri visitatori, altresì perché si presenta sempre più fatiscente e<br />

sempre più desolato e triste, <strong>di</strong> una tristezza non accomunata al senso della morte, ma<br />

accomunata al senso dell'abbandono.<br />

Ma com'è mai possibile? Perché tale abbandono? Sarà forse perché son già passati<br />

tanti anni - ormai cento - e quin<strong>di</strong> quei marinai sfortunati, italiani anche se non<br />

brin<strong>di</strong>sini, non hanno più amici o parenti che possano depositare un fiore su i loro<br />

resti?<br />

O sarà perché nel vortice frenetico della vita moderna si è perso il senso della<br />

compassione e anche quello del rispetto? E già: Non c’è più tempo per certe cose, ci<br />

sono ben altre questioni più urgenti da risolvere, si è sempre in ben altre faccende<br />

affaccendati.<br />

226


E chi dovrebbe occuparsi <strong>di</strong> rime<strong>di</strong>are tale infausta e sconcia situazione? Non ne sono<br />

del tutto certo, ma credo proprio che spetti alle autorità comunali della Città e a quelle<br />

militari e della Marina. E perchè mai dovrebbero farlo? Ma perché <strong>di</strong> motivi ce ne sono<br />

veramente tanti: la compassione e il rispetto per chi ha dovuto sacrificare la propria<br />

giovane vita in nome <strong>di</strong> quella nostra stessa “patria” sarebbero certo due ragioni <strong>di</strong><br />

gran<strong>di</strong>ssimo peso e da sole dovrebbero bastare.<br />

Segni dell'abbandono in cui versa l'area tombale della Benedetto Brin nel cimitero<br />

Eppure, io son convinto che in gioco ci sia anche qualcos'altro, forse ancor più<br />

importante: si tratta, temo, <strong>di</strong> un nuovo segnale della pericolosa tendenza alla<br />

definitiva <strong>di</strong>ssoluzione della memoria storica della nostra Città. Se anche<br />

quest'abbandono continuerà, tra qualche anno quelle tombe non saranno più<br />

riconoscibili, i nomi dei marinai e le stesse date non saranno più leggibili, la sterpaglia<br />

coprirà e <strong>di</strong>vorerà tutte quelle croci.<br />

E allora nessun ragazzo brin<strong>di</strong>sino si potrà chiedere <strong>di</strong> cosa si tratti, e il nome<br />

Benedetto Brin finirà col non <strong>di</strong>r nulla alla maggior parte dei brin<strong>di</strong>sini... “Ma che<br />

strano nome ha quella via del Casale! Sarà Brin il <strong>di</strong>minutivo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>sino?” E già,<br />

potrebbe anche far ridere, ma purtroppo questa domanda io l'ho già ascoltata una<br />

volta, e non ho riso: me ne sono solo un po' rattristito.<br />

Vabbè! Qualcuno potrebbe anche <strong>di</strong>re: “Poco male, non è poi così grave per la Città se<br />

dovesse accadere che dopo cent'anni ci si <strong>di</strong>mentichi della Benedetto Brin e della sua<br />

immane trage<strong>di</strong>a”. E certamente non sarebbe così grave se si trattasse <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o<br />

isolato, <strong>di</strong> una sfortunata <strong>di</strong>menticanza, però non è così. Purtroppo noi brin<strong>di</strong>sini<br />

sappiamo benissimo che, se dovesse accadere, questo nuovo abbandono si andrebbe a<br />

sommare alla triste e lunga collana <strong>di</strong> perle nere della nostra <strong>storia</strong> citta<strong>di</strong>na che negli<br />

anni si è andata sistematicamente arricchendo con sempre nuove perle nere: la torre<br />

227


dell'orologio, il parco della rimembranza, il teatro Ver<strong>di</strong>, il quartiere delle Sciabbiche,<br />

il bastione San Giorgio, il palazzo liberty del Banco <strong>di</strong> Napoli in Piazza Vittoria, o il<br />

palazzo Titi giù al corso, etc., etc., etc.<br />

Purtroppo, infatti, nonostante l'importanza il valore e l'in<strong>di</strong>spensabilità della<br />

conservazione della memoria storica <strong>di</strong> una comunità o <strong>di</strong> una città o <strong>di</strong> un'intera<br />

popolazione, costituiscano ormai concetti universalmente acquisiti tra le società civili,<br />

a Brin<strong>di</strong>si, complice in molti casi l'ignoranza e in molti altri la malafede, lo sport<br />

preferito da chi ha esercitato il potere decisionale, durante anni, decenni e ormai<br />

secoli, è stato quello del trascurare, dell'abbandonare, e finalmente del cancellare o<br />

abbattere.<br />

Una volta ho sentito <strong>di</strong>re che molti dei giovani brin<strong>di</strong>sini d'oggi non s'interessano alla<br />

<strong>storia</strong> della propria città perché non le vogliono sufficientemente bene poiché si<br />

sentono profondamente delusi e tra<strong>di</strong>ti dalla situazione in cui essa oggi versa. Io,<br />

invece, affermo che solo quei brin<strong>di</strong>sini, giovani e meno giovani, ai quali non è stata<br />

opportunamente insegnata la <strong>storia</strong> della loro Città, possono non amarla: e giuro che è<br />

vero!<br />

Non è voler fare allarmismo facile, né purtroppo si tratta <strong>di</strong> un pessimismo<br />

ingiustificato, ma sono semplicemente i fatti concreti e quoti<strong>di</strong>ani che obbligano allo<br />

sconforto e all'allarme. Non si può e non si deve continuare a maltrattare <strong>di</strong>sdegnare<br />

trascurare e finalmente cancellare ogni elemento, piccolo o grande prominente o<br />

secondario, che rimanda al passato prossimo o remoto che sia, e solo perché non<br />

rispondente all'utile misurato con il metro del ren<strong>di</strong>conto del tangibile imme<strong>di</strong>ato. E'<br />

ormai giunto il momento <strong>di</strong> richiamare l'attenzione sul rischio che si possa finire con il<br />

perdere del tutto e irrime<strong>di</strong>abilmente la memoria storica della nostra Città.<br />

E naturalmente neanche si vuol qui scoprire l'acqua calda. Infatti, a Brin<strong>di</strong>si non sono<br />

<strong>di</strong> certo mancati tanti bravi e autorevoli concitta<strong>di</strong>ni -come non citare ancora Papa<br />

Pascalinu Camassa- che in più e ripetute occasioni hanno a questo proposito<br />

segnalato, hanno avvertito, hanno denunciato, hanno protestato, avantieri come ieri e<br />

come oggi. Ma purtroppo non sono stati sufficientemente ascoltati e speriamo che si<br />

finisca con l'ascoltarli, prima che sia troppo tar<strong>di</strong>:<br />

“Io ti <strong>di</strong>co che se ne le tue vene non circola l’ere<strong>di</strong>tà dei millenni, che se nel tuo cuore non<br />

canta il poema de le lontane memorie, tu non sei un uomo, non rappresenti un popolo, né<br />

puoi vantarti d’essere membro d’una nobile città” Cesare Teofilato (1881-1961).<br />

“Il recupero della memoria storica deve rappresentare il momento fondamentale <strong>di</strong> ogni<br />

esperienza civica. La consapevolezza del nostro passato qualifica il rapporto con la città.<br />

Il corredo <strong>di</strong> testimonianze a noi vicine, alcune ritrovate e altre perdute o recuperate,<br />

sono tratti <strong>di</strong> un’identità alla quale una comunità ha il dovere <strong>di</strong> conformarsi allorché<br />

progetta il suo futuro” Domenico Mennitti (1939-2014).<br />

Parecchi anni dopo l'affondamento, durante lavori rutinari <strong>di</strong> dragaggio del porto, fu<br />

fortunosamente recuperata la campana della Benedetto Brin e da allora la si conserva<br />

gelosamente nella cappella sacrario del Monumento al Marinaio: probabilmente, dal<br />

fondo del mare, un chiaro monito per tutti i brin<strong>di</strong>sini a «non <strong>di</strong>menticare».<br />

228


E Brin<strong>di</strong>si, ne son convinto, non vuole “<strong>di</strong>menticare” proprio come ben lo testimonia il<br />

professor Caputo nel suo racconto della Benedetto Brin: «Quanto scritto su vari libri,<br />

insieme a numerosi articoli giornalistici, a due vibranti lettere manoscritte -<br />

testimonianza degli storici<br />

canonico don Pasquale Camassa e<br />

avvocato Giuseppe Roma- e ad altre<br />

carte d'archivio ben fascicolate<br />

sono le risorse a cui attingere per<br />

sapere, perché questa trage<strong>di</strong>a<br />

accaduta a Brin<strong>di</strong>si, cent`anni<br />

orsono, che segnò tante vittime,<br />

rimanga una pagina <strong>di</strong> <strong>storia</strong><br />

appartenente ad una Città che non<br />

vuol <strong>di</strong>menticare, anche quando la<br />

sua <strong>storia</strong> è drammatica, tragica e<br />

luttuosa».<br />

La campana della Benedetto Brin<br />

Concludo con una esortazione, anzi<br />

con un appello, al Sindaco <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si e al Comandante della<br />

Marina Militare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si:<br />

Perché non fare <strong>di</strong> questo<br />

melanconico anniversario Nº100<br />

l'occasione propizia per restituire il<br />

giusto e dovuto decoro alle tombe<br />

dei marinai caduti a Brin<strong>di</strong>si<br />

nell'affondamento della Benedetto<br />

Brin, dando con ciò anche un chiaro<br />

segnale <strong>di</strong> una volontà politica volta<br />

al recupero ed alla conservazione<br />

della memoria storica della nostra<br />

Città?<br />

La Storia e la Città ne rimarrebbero grate per sempre, perché come risaputo -<br />

dovrebbe esserlo- «la rimozione del passato corrisponde inesorabilmente alla<br />

rimozione del futuro».<br />

(*) Statua ai marinai caduti, cent'anni dopo svelato il mistero:<br />

ecco chi era la modella brin<strong>di</strong>sina <strong>di</strong> Gianmarco Di Napoli<br />

Un segreto durato un secolo e che oggi la famiglia ci affida perché è arrivato il tempo <strong>di</strong><br />

svelarlo, giusto cento anni dopo la trage<strong>di</strong>a della "Benedetto Brin", quando ormai da quasi<br />

altrettanto tempo quella statua <strong>di</strong> donna con lo sguardo basso e con un'espressione <strong>di</strong><br />

profonda tristezza domina il sacrario de<strong>di</strong>cato ai marinai morti e l'intero cimitero <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

229


La modella che posò per quella statua era una giovane donna brin<strong>di</strong>sina, moglie e madre, che<br />

non poté mai rivelare la sua identità perché sarebbe stato uno scandalo. Chi posava all'epoca<br />

era considerata donna <strong>di</strong> facili costumi. Ancor più perché lo scultore aveva scelto <strong>di</strong> lasciare a<br />

quella immagine <strong>di</strong>sperata che rappresentava una madre china, che aveva perso i suoi figli in<br />

guerra, una spalla leggermente scoperta. Uno scandalo per quei tempi, che sarebbe andato a<br />

pregiu<strong>di</strong>care la moralità <strong>di</strong> una giovane donna che, più moderna degli anni che viveva, aveva<br />

deciso <strong>di</strong> mettere il suo volto a <strong>di</strong>sposizione della Patria.<br />

Il 27 settembre 1915 la corazzata Benedetto Brin esplode nel porto me<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si:<br />

muoiono 456 marinai italiani. E' una trage<strong>di</strong>a senza precedenti per la Marina italiana. Le<br />

vittime vengono sepolte in un'area del cimitero messa a <strong>di</strong>sposizione dal Comune che viene<br />

invasa da oltre 400 croci bianche. Il governo vuole però che al centro venga posta una statua<br />

che raffiguri il dolore della Patria per l'immane trage<strong>di</strong>a. E incarica uno scultore <strong>di</strong> realizzarla.<br />

L'artista ha bisogno <strong>di</strong> una modella cui ispirarsi. In quel momento Brin<strong>di</strong>si fa parte della<br />

provincia <strong>di</strong> Lecce che è <strong>di</strong>visa in quattro circondari e ha una popolazione <strong>di</strong> 25 mila abitanti,<br />

poco più <strong>di</strong> Ostuni (21 mila), Francavilla (20 mila) e Ceglie (17 mila). E' insomma un paesino<br />

agricolo in cui si stanno costruendo la nuova scuola elementare Perasso, il teatro Ver<strong>di</strong> e in cui<br />

lo sviluppo e<strong>di</strong>lizio popolare si sposta sulle collinette verdeggianti del Casale.<br />

Rocco Piccione è un marittimo che abita in via Bernardo de Rojas, stra<strong>di</strong>na del quartiere <strong>di</strong> via<br />

Lata, uno dei rioni storici insieme a San Pietro degli Schiavoni e Sciabiche. Viene a sapere che<br />

uno scultore incaricato <strong>di</strong> realizzare una statua per i morti della Brin è alla ricerca <strong>di</strong> una<br />

modella. Proprio <strong>di</strong> fronte a casa sua abita una splen<strong>di</strong>da donna <strong>di</strong> trent'anni: Anna Maria De'<br />

Ventura è altissima per quegli anni, quasi un metro e 80. Capelli fluenti, sguardo fiero, profilo<br />

230


greco, un portamento che tra<strong>di</strong>sce probabili origini nobiliari, così come il suo cognome. Suo<br />

marito Luigi Iaia se l'è andata a prendere nel borgo <strong>di</strong> Tuturano. Anna Maria è già mamma e le<br />

sue giornate trascorrono tra la casa <strong>di</strong> via Rojas, la chiesa delle Anime e il mercato. L'Italia è in<br />

guerra e il marito è al servizio della Patria.<br />

Il vicino <strong>di</strong> casa contatta lo scultore e gli segnala la presenza <strong>di</strong> questa donna bellissima che<br />

potrebbe essere una modella perfetta per la sua statua <strong>di</strong> bronzo e così lo conduce sino a casa<br />

sua a conoscerla. Lei è perplessa, ma tutti quei ragazzi morti l'hanno colpita profondamente. E<br />

così decide <strong>di</strong> posare, gratis.<br />

Poi però, qualche giorno dopo, rinuncia. Ha saputo che dovrà avere una spalla leggermente<br />

scoperta. Sarebbe uno scandalo per una donna seria e maritata. Lo scultore non vuole<br />

rinunciare a lei e arrivano a un compromesso: poserà ma nessuno mai dovrà conoscere<br />

l'identità della modella.<br />

Lo scultore realizza una statua in gesso che poi <strong>di</strong>venta un calco e da qui, in una fonderia,<br />

viene realizzata la statua. Un'opera splen<strong>di</strong>da, come conferma il critico d'arte Massimo<br />

Guastella che ha de<strong>di</strong>cato al bronzo lunghi stu<strong>di</strong> cercando <strong>di</strong> risalire all'identità dell'autore e<br />

alla fonderia. Anche questi (come fino ad oggi l'identità della modella) sono sconosciuti, al<br />

punto che il professor Guastella ha soprannominato quella statua "La misteriosa".<br />

Non si hanno notizie sulla cerimonia con cui viene collocata nel cuore del cimitero <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Ma <strong>di</strong> certo lo scultore mantiene il suo impegno e non rivela il nome della modella. Anna<br />

Maria, che quasi ogni mattina si reca al cimitero per deporvi dei fiori, vorrebbe mantenere il<br />

segreto per sempre ma quando il marito torna dalla guerra, un vicino <strong>di</strong> casa gli rivela tutto. E<br />

scoppia il finimondo. Ma durerà poco.<br />

Luigi Iaia, lasciata la <strong>di</strong>visa, riprende a lavorare allestendo i banconi <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>ta per i conta<strong>di</strong>ni<br />

che ogni mattina vengono a Brin<strong>di</strong>si a vendere i loro ortaggi in piazza Mercato. Un mestiere<br />

che poi ere<strong>di</strong>teranno i suoi figli. Passata la burrasca dopo la lite e riappacificatosi con la<br />

moglie, la vita <strong>di</strong> famiglia procede regolarmente e il segreto <strong>di</strong> Anna Maria viene rispettato.<br />

Ogni anno a novembre, durante la cerimonia <strong>di</strong> commemorazione dei caduti in guerra nel<br />

cimitero, don Augusto Pizzigallo, cappellano militare e sacerdote plenipotenziario a Brin<strong>di</strong>si,<br />

ricordava ai fedeli che la statua della donna triste raffigurava davvero una mamma brin<strong>di</strong>sina.<br />

Anna Maria era sempre lì, sorrideva a quelle parole e taceva, ascoltando i commenti delle altre<br />

donne. E quando i suoi bambini <strong>di</strong>ventati gran<strong>di</strong> le chiedevano perché mai ogni volta portasse<br />

fiori a quella statua, rispondeva: "Perché quella donna sono io".<br />

La stessa domanda che si poneva la pronipote Lucia Malfitano quando la mamma Rosanna<br />

Stasi portava i fiori sotto quella statua, tanti anni dopo: "E' la tua bisnonna", le spiegò.<br />

Anna Maria De' Ventura, che era nata nel 1885, ha lasciato questa terra il 3 aprile 1962.<br />

Qualche giorno dopo uno dei figli incontrò il vescovo Nicola Margiotta portandogli i<br />

documenti <strong>di</strong> quasi mezzo secolo prima su cui era attestato che la mamma era la misteriosa<br />

modella della statua dei marinai caduti, impegnandosi a mantenere il silenzio. E celebrando in<br />

suo onore una messa.<br />

Nel corso degli anni, per due volte, i ladri hanno cercato <strong>di</strong> rubare la statua, una volta persino<br />

tentando <strong>di</strong> sra<strong>di</strong>carla con una gru. Ma non ce l'hanno fatta. Ora, cent'anni dopo, la<br />

"Misteriosa" rivela la sua identità. Quella <strong>di</strong> una donna brin<strong>di</strong>sina molto più moderna dei suoi<br />

tempi e <strong>di</strong> una famiglia che ha saputo custo<strong>di</strong>re il suo tenero segreto. Sarebbe ora che quella<br />

statua tornasse nel suo splendore originario e che una targhetta ricordasse il nome <strong>di</strong> Anna<br />

Maria De' Ventura, madre dei Caduti in mare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Finalmente libera <strong>di</strong> svelare a tutti il<br />

suo amore per la Patria.<br />

231


2016: 100 anni fa arrivarono a Brin<strong>di</strong>si i MAS<br />

Pubblicato su Senza Colonne News del 1° marzo 2016<br />

In questo mese <strong>di</strong> marzo 2016 ricorre il centenario dell’arrivo a Brin<strong>di</strong>si dei MAS, i<br />

famosi Motoscafi Anti Sommergibili, le cui siluette, che dovevano presto <strong>di</strong>ventare<br />

familiari a tutti i Brin<strong>di</strong>sini <strong>di</strong> allora, ben riconoscevamo anche noi, oggi giovani<br />

sessantenni, quando negli anni ’60 e ’70 solcavano ancora le tranquille acque del<br />

nostro porto con il loro inconfon<strong>di</strong>bile rombo che ci annunciava l’imminente<br />

sopraggiungere delle loro imponenti onde fino alle rive delle nostre belle spiagge,<br />

ancora tutte all’interno del porto.<br />

In quel tempo <strong>di</strong> guerra, Brin<strong>di</strong>si era la sede del comando superiore navale del Basso<br />

Adriatico retto dal contrammiraglio Umberto Cagni, e il nostro mare era infestato dai<br />

temibili sottomarini austriaci che, con base nel porto <strong>di</strong> Durazzo, scorrazzavano<br />

facendo strage <strong>di</strong> nostri convogli civili e <strong>di</strong> nostri mezzi militari navali.<br />

La genialità dei nostri ingegneri navali era però riuscita a inventare, e quin<strong>di</strong> a<br />

progettare con l'ingegnere livornese Attilio Bisio, fino a poi realizzare in poco tempo<br />

nei cantieri navali della Società Veneziana <strong>di</strong> Automobili Navali, una speciale barca<br />

torpe<strong>di</strong>niera lignea, mossa da un motore a scoppio <strong>di</strong> 40 cavalli ed incre<strong>di</strong>bilmente<br />

economica: velocissima e versatile, con duecento miglia <strong>di</strong> autonomia, fornita <strong>di</strong> un<br />

cannoncino da 75 mm e, soprattutto, <strong>di</strong> due potenti e letali siluri a tenaglia,<br />

costituendo un’arma che avrebbe potuto colpire il nemico con massima efficienza, in<br />

mare aperto così come nei suoi stessi porti.<br />

MAS 1 ‐ Venezia 1916<br />

232


A Venezia -dove in alcune occasioni per l’acronimo MAS fu anche utilizzata la<br />

denominazione “Motobarca Armata SVAN” dal nome dell’azienda che per prima li<br />

produsse- oltre ai primi due prototipi, si cantierizzarono rapidamente altre unità, fino<br />

a costituire la prima squadriglia <strong>di</strong> otto MAS che fu affidata al tenente <strong>di</strong> vascello<br />

Alfredo Berar<strong>di</strong>nelli con la missione <strong>di</strong> esplorazione, attacco e caccia ai sommergibili e<br />

agli altri mezzi navali nemici, sfruttando il grande potere offensivo e il fattore sorpresa<br />

che implicava l‘impiego della nuova arma. Un’arma completamente sconosciuta al<br />

nemico il quale non ebbe mai un’idea esatta della sua effettiva potenzialità, tanto che<br />

talvolta gli attribuì anche qualità ben al <strong>di</strong>sopra delle reali.<br />

MAS 2 ‐ Venezia 1916<br />

Era il 28 marzo 1916 e l’Italia era entrata nel suo secondo anno <strong>di</strong> guerra al fianco<br />

degli alleati dell’Intesa contro l’impero austro-ungarico, quando il MAS 3, <strong>di</strong> solo 8<br />

tonnellate e 15 metri, giunse da Venezia a Brin<strong>di</strong>si su <strong>di</strong> un carro ferroviario. Presto lo<br />

raggiunsero altri cinque e poi, altri 6 fino a conformare con i 12 l’intera 1 a flottiglia<br />

MAS, con la quale Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong>venne la base principale nel Basso Adriatico degli anche<br />

denominati Motoscafi Armati Siluranti, i MAS: le “Streghe”, come confidenzialmente<br />

erano soprannominati dagli equipaggi, perché capaci <strong>di</strong> apparire improvvisamente,<br />

assalire, colpire e allontanarsi velocemente, senza possibilità <strong>di</strong> essere intercettati dal<br />

nemico.<br />

Il 7 giugno <strong>di</strong> quello stesso anno 1916, il MAS 5 del comandante Berardelli e il MAS 7<br />

del comandante Gennaro Pagano <strong>di</strong> Melito, partirono dalla base <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e<br />

penetrarono la rada <strong>di</strong> Durazzo, affondando il piroscafo Lokrum: Le due piccole e<br />

fragili imbarcazioni furono rimorchiate fino alle vicinanze <strong>di</strong> Durazzo da due<br />

torpe<strong>di</strong>niere protette al largo da quattro cacciatorpe<strong>di</strong>nieri francesi. Perlustrando la<br />

baia, i due motoscafi avvistarono un piroscafo, evidentemente carico, ed ognuno<br />

233


lanciò un siluro, colpendo entrambi il bersaglio, che era ancorato tra 150 e 250 metri<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza. A terra il nemico non riuscì a capire quello che stava succedendo e i due<br />

MAS italiani ritornarono in<strong>di</strong>sturbati al luogo <strong>di</strong> riunione che era stato prestabilito con<br />

le torpe<strong>di</strong>niere e quin<strong>di</strong>, rientrarono alla loro base <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Meno <strong>di</strong> venti giorni<br />

dopo, gli equipaggi <strong>di</strong> quei due stessi MAS, composti da <strong>di</strong>eci uomini ciascuno,<br />

riuscirono a portare a termine un’altra missione nella notte tra 25 e 26 giugno,<br />

affondando, nella stessa rada <strong>di</strong> Durazzo, un altro piroscafo austriaco, il Sarajevo.<br />

Mentre anche nell’Alto Adriatico i MAS si riempirono <strong>di</strong> gloria -nel <strong>di</strong>cembre del 1917,<br />

i due MAS 9 e 13 guidati, rispettivamente, da Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini,<br />

affondarono nella rada <strong>di</strong> Trieste la corazzata austro-ungarica Wien e danneggiarono<br />

la Budapest- nella base <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante tutto l’anno 1917, i MAS furono<br />

principalmente impiegati nelle operazioni <strong>di</strong> vigilanza e caccia ai sommergibili<br />

austriaci operanti nel Basso Adriatico e nei servizi <strong>di</strong> polizia costiera in Albania.<br />

Poi, nel 1918 affluirono a Brin<strong>di</strong>si i MAS <strong>di</strong> nuova generazione, più pesanti meglio<br />

armati e con motori più sicuri e più silenziosi, e così, nella notte tra il 12 e il 13<br />

maggio, i MAS 99 e 100, comandati da Gennaro Pagano Di Melito e Mario Azzi<br />

rispettivamente, attaccarono un convoglio nemico e affondarono il grosso piroscafo<br />

Bregenz <strong>di</strong> ben 4000 tonnellate.<br />

Nel corso <strong>di</strong> quella lunga grande guerra ci furono numerose altre missioni dei MAS, <strong>di</strong><br />

successo alcune e andate a vuoto altre e infine, proprio in coincidenza con il secondo<br />

anniversario della prima missione, il 10 giugno del 1918, il MAS 15 del comandante<br />

Luigi Rizzo, l’affondatore, affiancato dal MAS 21 del comandante Giuseppe Aonzo,<br />

affondò nelle acque <strong>di</strong> Premuda sulle coste dalmate, la portentosa corazzata austriaca<br />

Santo Stefano facendo entrare con quell’azione, i MAS italiani nella leggenda:<br />

Il capo <strong>di</strong> stato maggiore della marina austro-ungarica, ammiraglio Nikolaus Horthy,<br />

pianificò un’incursione contro lo sbarramento navale <strong>di</strong> Otranto che ostruiva l’accesso<br />

al mare aperto alla marina asburgica mantenendola confinata nell’Adriatico. E per<br />

quella missione, il 9 <strong>di</strong> giugno 1918 la squadra navale con le corazzate Szent István e<br />

Tegetthoff, salpò da Pola. All’alba del 10 giugno il capitano <strong>di</strong> corvetta Luigi Rizzo,<br />

impegnato con i Mas 15 e 21 in un’operazione <strong>di</strong> rastrellamento <strong>di</strong> mine al largo<br />

dell’isolotto <strong>di</strong> Lutrosnjak, entrò fortuitamente in contatto con la flotta austroungarica<br />

e, sfruttando al meglio le caratteristiche dei MAS, grazie ad un coraggioso ed<br />

occulto avvicinamento spinto fino a meno <strong>di</strong> 500 metri <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, riuscì ad affondare<br />

la corazzata Szent István, fiore all’occhiello della marina nemica.<br />

Il contraccolpo psicologico dell’azione ebbe ripercussioni talmente forti, da impe<strong>di</strong>re<br />

nel corso della grande guerra qualsiasi altra operazione navale alla monarchia<br />

mitteleuropea e da far in<strong>di</strong>re il 10 giugno, come data della festa nazionale della Marina<br />

Militare Italiana.<br />

E Gabriele D’Annunzio, il quale aveva partecipato alla missione “Beffa <strong>di</strong> Buccari” del<br />

MAS 96, assieme ai MAS 94 e 95, nella baia a sud <strong>di</strong> Trieste nella notte tra il 10 e l’11<br />

febbraio 1918 con Luigi Rizzo e Costanzo Ciano, non tardò a coniare per quegli<br />

intrepi<strong>di</strong> motoscafi il motto: Memento Audere Semper - Ricorda Osare Sempre.<br />

234


235


236


MAS 95: uno dei tre della Beffa <strong>di</strong> Buccari nel gennaio 1918<br />

MAS 96: usato da Gabriele D’Annunzio per la Beffa <strong>di</strong> Buccari nel gennaio 1918<br />

237


Conclusa la guerra, molti MAS restarono <strong>di</strong> base a Brin<strong>di</strong>si, che ne accolse anche <strong>di</strong><br />

nuovi e più efficienti. E da Brin<strong>di</strong>si i MAS furono impiegati anche nella seconda guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale, alcuni pochi <strong>di</strong> vecchia generazione, Tipo SVAN e Tipo Baglietto, e alcuni<br />

altri d’ultima generazione, più veloci e più efficienti, che si denominarono MAS 500,<br />

dei quali -con 23 a 30 tonnellate <strong>di</strong> <strong>di</strong>slocamento, con motori Isotta Fraschini Asso<br />

1000 <strong>di</strong> potenza da 2000 a 2300 HP sviluppando da 42 a 44 no<strong>di</strong> <strong>di</strong> velocità massima,<br />

armati <strong>di</strong> due lanciasiluri da 450 millimetri, con 6 a 10 bombe <strong>di</strong> profon<strong>di</strong>tà e con due<br />

mitragliere da 13,2 e 20 millimetri, con equipaggio composto da 9 a 13 uomini- se ne<br />

costruirono 76 unità in quattro serie successive della stessa Classe 500, identificati<br />

con MAS 501 a MAS 576, i quali affiancarono gli antichi 24 MAS ancora in servizio, per<br />

sommare in totale 100 MAS.<br />

Mentre la Regia Marina nella Prima guerra mon<strong>di</strong>ale aveva prodotto più <strong>di</strong> quattro<br />

centinaia <strong>di</strong> MAS, il loro numero nel secondo conflitto mon<strong>di</strong>ale fu infatti molto<br />

minore, perché si rivelarono essere mezzi ormai troppo piccoli e perché, anche se<br />

molto veloci grazie al loro scafo a spigolo, erano poco marini e quin<strong>di</strong> pericolosi da<br />

impiegare con il mare molto mosso.<br />

Per questo motivo, la Regia Marina incorporò con l’identificazione iniziale MAS 1D a<br />

MAS 8D un totale <strong>di</strong> 8 motosiluranti catturati nell’aprile del 1941 alla marina<br />

jugoslava: erano gli schnellboote, lunghi 28 metri prodotti all'inizio degli anni '30 in<br />

Germania i quali, a <strong>di</strong>fferenza dei MAS avevano uno scafo ad U e quin<strong>di</strong>, anche se<br />

leggermente più lenti, erano più robusti sicuri stabili e manovrabili, soprattutto in<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> mare forte. Poi, quei mezzi furono in qualche modo copiati e a<br />

Monfalcone, negli stabilimenti <strong>di</strong> Cantieri Riuniti Dell’Adriatico tra il 1942 e il 1943, se<br />

ne costruirono altri 36 Tipo MS CRDA 60t, identificati con MS 11 a MS 16, MS 21 a MS<br />

26 e MS 31 a MS 36 quelli della prima serie e con MS 51 a MS 56, MS 61 a MS 66 e MS<br />

71 a MS 76 quelli della seconda serie, mentre 6 dei mezzi jugoslavi -i MAS 3D a 8Dfurono<br />

riclassificati e identificati con MS 41 a MS 46, per così sommare in totale 42<br />

motosiluranti.<br />

238


Anche durante la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, furono numerose le azioni condotte dai<br />

MAS e MS, e tra esse, quelle <strong>di</strong> maggior successo furono: il siluramento<br />

dell’incrociatore inglese Capetown l’8 aprile 1941 a opera del MAS 213 comandato dal<br />

guar<strong>di</strong>amarina Valenza; l’affondamento nel Mar Nero del sottomarino sovietico<br />

Equoka il 19 giugno 1942; il danneggiamento dell’incrociatore russo Molotov a opera<br />

dei MAS 568 e 573 il 3 agosto 1942; l’affondamento a opera dei MS 16 e 22 il 12<br />

agosto 1942 del modernissimo incrociatore inglese Manchester nella famosa battaglia<br />

aeronavale <strong>di</strong> Mezzo Agosto nel Me<strong>di</strong>terraneo centrale, nel corso della quale i<br />

numerosi MAS partecipanti affondarono anche i piroscafi Glenorchy, Saint Elisa,<br />

Rochester Castle, Almeria Likes e Wairangi; l'affondamento del cacciatorpe<strong>di</strong>niere<br />

inglese Lightning sulle coste algerine il 12 marzo 1943.<br />

Al termine della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, i pochi MAS superstiti furono requisiti dalle<br />

marine dei vincitori, mentre dei 15 MS CRDA 60t superstiti, 5 vennero ceduti ad altre<br />

marine vincitrici -4 all’Unione Sovietica e 1 alla Francia- e i rimanenti 9 motosiluranti<br />

continuarono prestando servizio nella Marina Militare e furono destinati ad operare<br />

nelle acque dell'Adriatico e dello Ionio, dopo essere però stati declassati a semplici<br />

motovedette in base alle clausole del trattato <strong>di</strong> pace e quin<strong>di</strong> armati solo con le<br />

mitragliere. Poi, il 1º novembre 1952, venute meno le clausole più restrittive del<br />

trattato, quei nove mezzi vennero riclassificati e riarmati <strong>di</strong> siluri, con la<br />

denominazione definitiva 471 a 475 e 481 a 484: il “4” in<strong>di</strong>ca “motosilurante”.<br />

239


240


Da allora e per tutti gli anni ’60 e gran parte dei ‘70, quei nove gloriosi e poderosi MAS,<br />

modernizzati in versione motosiluranti MS e raggruppati nel Comando Motosiluranti<br />

COMOS con sede a Brin<strong>di</strong>si, continuarono attivi -e così, noi ragazzi e giovani brin<strong>di</strong>sini<br />

<strong>di</strong> allora, li potemmo ancora ammirare sulle tranquille acque del nostro porto- fino<br />

alla definitiva apparizione <strong>di</strong> armi navali molto più evolute e più sofisticate che<br />

rivoluzionarono le tecniche militari marine e mandarono in pensione i MAS brin<strong>di</strong>sini,<br />

ai quali succedettero le motovedette lanciamissili.<br />

Cinque <strong>di</strong> quei nove MAS furono posti in <strong>di</strong>sarmo agli inizi degli anni ’60 e dei quattro<br />

restanti, gli ultimi due, quelli che erano stati identificati con 474 e 481, vennero ra<strong>di</strong>ati<br />

nel 1979, a quasi quarant’anni dal varo.<br />

Ad oggi, si conservano ancora due MAS della Prima guerra mon<strong>di</strong>ale - il MAS 96 usato<br />

da Gabriele D’Annunzio, nel Vittoriale degli Italiani a Gardone e il MAS 15 del “due<br />

volte” medaglia d’oro Luigi Rizzo, nel sacrario delle ban<strong>di</strong>ere del Vittoriano a Roma - e<br />

due MAS della Seconda guerra mon<strong>di</strong>ale - il 472, situato nella Marina <strong>di</strong> Ravenna e il<br />

473, conservato nel Museo storico navale <strong>di</strong> Venezia.<br />

Squadriglia degli ultimi 4 MAS motosiluranti italiani in servizio ‐ Mare <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si 1970<br />

241


Lo sra<strong>di</strong>camento delle Sciabiche: 1900 – 1959<br />

Pubblicato su Archivio Storico Brin<strong>di</strong>sino ‐ 2018 ‐ I<br />

Sciabiche: dall’arabo “sciabbach” che significa rete da pesca, specificamente quella che<br />

calata in mare a semicerchio, con il suo progressivo avanzamento cattura il pesce. Le<br />

sciabiche somigliano molto alle più comuni reti dette a strascico, ma si <strong>di</strong>fferenziano<br />

sostanzialmente da queste ultime per la lunghezza dei bracci, che nelle sciabiche – Fig.1 –<br />

sono molto corti, tanto che in realtà il corpo stesso della rete, praticamente si identifica<br />

con il sacco <strong>di</strong> raccolta.<br />

Ma per i brin<strong>di</strong>sini Sciabiche, o ancor meglio “Sciabbiche”, perlomeno già dal ´700 era<br />

ufficialmente il nome del rione che aveva per confini sui lati <strong>di</strong> terra, via Montenegro – o<br />

forse via Santa Chiara – a est, poi Santa Teresa e San Paolo a sud, il largo – oggi Sciabiche e<br />

prima Sdrigoli – a ovest, e che per il resto si affacciava sul mare, allungandosi per circa<br />

400 o 500 metri sulla riva <strong>di</strong> nordovest del Seno <strong>di</strong> Ponente.<br />

Quello stesso rione Sciabiche peró esisteva da molto tempo prima, tanto che fu proprio in<br />

quel rione, certamente il piú emblematico della cittá marinara, che il 5 giugno del 1647<br />

esplose il forte malcontento dei pescatori, suoi incontrastati <strong>di</strong>moranti, facendo scoppiare<br />

la sommossa – un mese prima della più nota rivolta napoletana capeggiata da Tommaso<br />

Aniello d'Amalfi “Masaniello”– dando <strong>di</strong> fatto inizio a quell’insurrezione che finì per<br />

coinvolgere buona parte del meri<strong>di</strong>one italiano, che dal 1509 era in regime <strong>di</strong> viceregno<br />

spagnolo, su cui regnava il re <strong>di</strong> Spagna Filippo III, con Pedro Girón viceré a Napoli.<br />

Da: Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dall’anno 1529 al 1787 e narrazione <strong>di</strong> molti fatti<br />

avvenuti in detta città 1 <strong>di</strong> P. CAGNES e N. SCALESE:<br />

«...Fu la revoluzione nel Regno <strong>di</strong> Napoli, e precise in questa città, e il sin<strong>di</strong>co Ferrante<br />

Glianes fu lapidato dal popolo, e fu pigliato da casa sua, e portato carcerato in una casa<br />

sotto la marina, dove lo trattennero tutto il giorno, e poi la sera lo mandarono libero in<br />

casa sua, e il capopopolo, o vero i capopopoli, furono Donato e Teodoro Marinazzo, e<br />

levarono le gabelle, non facendoli osservare come era <strong>di</strong> solito...»<br />

Ed esisteva, quel quartiere marinaro <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, anche ancor prima.<br />

Da: Le perle <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Personaggi illustri brin<strong>di</strong>sini 2 <strong>di</strong> L. FRANCESCA, 2008:<br />

«...Quel che era rimasto del palazzo quattrocentesco della famiglia che era stata del<br />

condottiero Pompeo Azzolino, continuó in pie<strong>di</strong> fino già iniziato il ´900... Pompeo<br />

Azzolino, vissuto nel XV secolo, fu un grande e valoroso condottiero brin<strong>di</strong>sino.<br />

Fer<strong>di</strong>nando d’Aragona, il re Ferrante, stimandolo molto per le sue virtù militari e per la<br />

fedeltà che <strong>di</strong>mostrava verso la casa regnante, gli aveva affidato il governo della cittá. Fu<br />

un uomo che compì molte imprese, tra le quali da ricordare quella del 1481 quando,<br />

insieme con i suoi uomini, partecipò alla liberazione <strong>di</strong> Otranto dai Turchi. Poi, l’anno<br />

seguente sconfisse in battaglia aperta il comandante veneziano Giacomo Marcello,<br />

facendolo desistere dall’occupare Brin<strong>di</strong>si. I citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si furono assai grati al<br />

loro governatore Pompeo Azzolino della vittoria riportata contro i Veneziani e vollero<br />

per questo eternare la sua memoria con un’iscrizione che fecero incidere sopra una<br />

tavola <strong>di</strong> marmo che collocarono sulla facciata della sua casa, situata nel rione<br />

Sciabiche...»<br />

242


Fig.1: Le sciabiche ‐ Da: Toponomastica brin<strong>di</strong>sina del centro storico <strong>di</strong> A. Del Sordo, 1988<br />

Fig.2: Le Sciabiche - Dettaglio da una foto <strong>di</strong> Giacomo Brogi del 1870<br />

243


E naturalmente si potrebbe continuare andando ancora a ritroso. Ma non è l’obiettivo <strong>di</strong><br />

questo scritto che, invece, va proprio al contrario: non delle “origini” si vuol qui trattare,<br />

ma della “fine” delle Sciabiche. E basti quin<strong>di</strong> qui ricalcare che su tutte le più antiche<br />

mappe della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che siano in qualche modo assimilabili a ció che<br />

consideriamo essere un piano topografico e pertanto elaborate a partire dal 1700, tutto il<br />

tratto <strong>di</strong> riva esposto a nordovest che parte dalla punta situata all’incirca all’altezza<br />

dell’attuale <strong>di</strong>scesa Montenegro e che si estende per quasi 500 metri fino alla base<br />

dell’attuale salita Lucio Scarano, é chiaramente occupato da caseggiati: sono, quelli, le case<br />

delle Sciabiche.<br />

La fotografia più antica che si conosca del rione Sciabiche risale invece al 1870, ed<br />

appartiene alla bella e ormai storica serie <strong>di</strong> foto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che così datate integrano gli<br />

Archivi Alinari e che furono esposte in occasione della mostra Brin<strong>di</strong>si negli Archivi Alinari<br />

tra Unità d’Italia e Prima guerra mon<strong>di</strong>ale 3 a Palazzo Granafei Nervegna dal 18 giugno al 9<br />

ottobre del 2011. La foto originale, dalla quale é estratto il particolare riprodotto nella<br />

Fig.2, è dello Stabilimento Giacomo Brogi.<br />

Praticamente contemporaneo <strong>di</strong> quella prima foto delle Sciabiche, è il piano della città che<br />

nel 1871 fu elaborato a scala 1/2000 da Carlo Fauch e da cui è estratto il particolare<br />

riprodotto nella Fig.3, relativo al rione Sciabiche. Nel piano si possono osservare <strong>di</strong>versi<br />

dettagli interessanti.<br />

La strada Montenegro e la strada Santa Chiara scendono, parallele, verso la banchina. La<br />

strada Montenegro, già Dell’Arcivescovato, sbuca su largo Montenegro, che dà sul mare<br />

delimitato a sud dall’omonimo palazzo e compreso tra due blocchi e<strong>di</strong>ficati: quello piccolo<br />

ad est si stende fino <strong>di</strong> fronte alla strada Santa Chiara, quello ad ovest più grande si<br />

allunga costeggiando la banchina che verso ovest va incurvandosi fino ad esporsi a<br />

nordovest.<br />

Giusto alle spalle <strong>di</strong> questo secondo grande blocco <strong>di</strong> case c´è largo Monticelli sul quale<br />

sbucano, da sud le due viuzze cieche Azzolino e Capozziello – i cui nomi non sono riportati<br />

nel piano – parallele alla strada Montenegro, e da ovest la strada detta Del forno Sciabiche<br />

che scorre lunga e stretta, parallela alla banchina ma internamente, fino a sbucare con il<br />

nome <strong>di</strong> strada Sciabiche, su uno slargo – già denominato largo Sdrigoli ed oggi largo<br />

Sciabiche – dal quale poi sul lato opposto inizia la salita verso Santa Aloy.<br />

L’ultimo caseggiato a quel tempo presente lungo la banchina del seno <strong>di</strong> ponente è quello<br />

che appunto delimita quello slargo in coincidenza con l’inizio della strada in salita,<br />

inizialmente anch’essa denominata strada Sdrigoli ed oggi via Lucio Scarano. Sulla strada<br />

Sciabiche scendono perpen<strong>di</strong>colari ad essa due pen<strong>di</strong>i, uno breve ed accentuato da largo<br />

Santa Teresa e l’altro più lungo e dolce, il pen<strong>di</strong>o Marinazzo, dalla strada De Leo.<br />

Sul piano sono finalmente identificati con colore marrone scuro: ad est, l’Albergo delle<br />

In<strong>di</strong>e Orientali <strong>di</strong> fronte alla banchina della strada Marina – cosi è identificato sul piano<br />

l’attuale viale Regina Margherita – a sudest, la Cattedrale e l’Ospedale su largo Cattedrale e<br />

a sudovest, le chiese <strong>di</strong> Santa Teresa e San Paolo.<br />

Una “Planimetria della Banchina Centrale del Porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si” fu elaborata a scala<br />

1/1000 in data 1° agosto 1882 – il dettaglio è riportato nella Fig.4 – in occasione dei lavori<br />

<strong>di</strong> riparazione <strong>di</strong> quel tratto <strong>di</strong> banchina e su <strong>di</strong> essa sono delimitati con precisione quei<br />

due blocchi <strong>di</strong> case delle Sciabiche, più orientali e prospicenti al mare, il piú piccolo dei<br />

quali è identificato sul piano come Corpo Piloti.<br />

244


Fig.3: Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - Dettaglio dal piano <strong>di</strong> Carlo Fauch del 1871<br />

Fig.4: Planimetria della Banchina Centrale del Porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - Dettaglio piano del 1882<br />

Fig.5: Piano regolatore della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si del 1883 - Dettaglio demolizioni previste<br />

245


La porzione riprodotta del piano include inoltre le seguenti legende: Sciabiche, Palazzo<br />

Montenegro, Consolato Britannico e Albergo In<strong>di</strong>e Orientali. La serie <strong>di</strong> numeri sul mare,<br />

sono gli scandagli: 8,23–8,22–8,51–8,57–8,42–8,76.<br />

Nel 1883 vide la luce il piano regolatore della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, che fu commissionato agli<br />

ingegneri brin<strong>di</strong>sini D’Errico, Santostati e Palma, e quello, per le Sciabiche, fu un segnale<br />

d’inizio, o quanto meno premonitore, del processo demolitore, anche se in realtá<br />

solamente si previde demolire il piccolo blocco fabbricato del Corpo Piloti antistante a<br />

Palazzo Montenegro, alcune parti del blocco fabbricato grande prospicente al mare e,<br />

infine, un altro pezzetto <strong>di</strong> fabbricato a<strong>di</strong>acente al largo Monticelli. Nel dettaglio riportato<br />

nella Fig.5, i settori circoscritti da un perimetro rosso, sono quelli da demolire.<br />

D’accordo con quanto riporta A. DEL SORDO in Toponomastica brin<strong>di</strong>sina del centro<br />

storico 4 ‐1988, fino a tutto l´800 i due toponimi principali del rione furono strada<br />

Sciabiche, che era il lungomare, e via Forno Sciabiche, che era quella parallela alla prima e<br />

che internamente si allungava tra largo Monticelli ad est e largo Sdrigoli a ovest. Poi<br />

c’erano via Pompeo Azzolino e vico Capozziello, le due stradette senza uscita parallele a<br />

via Montenegro. Poi, vico Sciabiche I, vico Sciabiche II, vico Sciabiche III, vico Sciabiche IV.<br />

Una delibera comunale del 1900 cambiò i nomi delle due strade principali, sostituendoli<br />

con: via Lenio Flacco quella del lungomare, e via Sciabiche quella parallela interna. Anche i<br />

vari vico Sciabiche I–II–III–IV, cambiarono nome passando a chiamarsi vico Cannavese,<br />

vico Can<strong>di</strong>lera, vico De´ Mezzacapo, e poi altri nomi ancora. Oggi, la denominazione<br />

Sciabiche è toponomasticamente attribuita unicamente a quello che era stato largo<br />

Sdrigoli.<br />

Anche se non sono note data e circostanze precise in cui i primi fabbricati periferici<br />

dell’est delle Sciabiche furono demoliti, certo é che entro la fine dell´800 e i primissimi<br />

anni del ´900, in quel settore della città il piano regolatore del 1883 era giá stato<br />

parzialmente attuato, con la completa eliminazione del fabbricato piccolo antistante al<br />

palazzo Montenegro e con una parziale demolizione del blocco piú grande, una<br />

demolizione questa meno estesa <strong>di</strong> quanto in<strong>di</strong>cato dal piano regolatore e che,<br />

conservando tutto il suo corpo principale originale parallelo alla banchina, si era <strong>di</strong> fatto<br />

limitata ad allineare la facciata est del blocco con via Montenegro. Nella foto della Fig.6<br />

datata 1915, infatti, si osserva ancora tutto completo il prospetto sul mare <strong>di</strong> questo<br />

blocco la cui spalla delimitava il largo Monticelli.<br />

Quelle prime demolizioni coincisero con la creazione della piazza Baccarini, con al centro<br />

la fontana detta dei delfini, successivamente trasferita ai giar<strong>di</strong>netti della stazione<br />

marittima, circoscritta dal palazzo Montenegro quin<strong>di</strong> dalla banchina e, sul lato ovest, dal<br />

riferito e già parzialmente ri<strong>di</strong>mensionato blocco e<strong>di</strong>ficato prospicente al mare.<br />

Da: Parliamo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si con le cartoline 5 <strong>di</strong> G. CANDILERA, 1985:<br />

«...La piazza fu intitolata all’ex ministro dei lavori pubblici Alfredo Baccarini, morto nel<br />

1890, in riconoscimento al suo apprezzabile e concreto interessamento ai problemi dei<br />

trasporti della città...»<br />

Ed è del 1905 la foto panoramica della Fig.7, che riproduce il lungomare tra l’Albergo delle<br />

In<strong>di</strong>e Orientali ed il Castello <strong>di</strong> terra. In questa foto é ben <strong>di</strong>stinguibile tutta intera la<br />

facciata est del blocco prospicente al mare già perfettamente allineata con l’ultimo palazzo<br />

<strong>di</strong> via Montenegro, quello che anche se abbandonato e fatiscente é ancora in pie<strong>di</strong> a<br />

tutt’oggi. Mentre la foto della Fig.8, quasi contemporanea alla panoramica del 1905,<br />

mostra da più vicino parte della piazza Baccarini con la fontana dei delfini e parte della<br />

facciata est del blocco prospicente al mare.<br />

246


Fig.6: Il lungomare - 1915<br />

Fig.7: Il lungomare - 1905<br />

Fig.8: La strada Marina: Al fondo piazza Baccarini con la fontana dei delfini - 1908<br />

247


Risale anche a quegli stessi ultimi anni dell´800, l’inizio della costruzione dei fabbricati<br />

sulla riva del seno <strong>di</strong> ponente a prolungamento delle Sciabiche verso il Castello <strong>di</strong> terra,<br />

siti su tre isolati contigui occupando la fascia <strong>di</strong> terreno compresa tra il lungomare e la<br />

strada Sdrigoli, poi via Lucio Scarano, che risalendo fino a Santa Aloy era stata aperta a<br />

prolungamento della strada Sciabiche.<br />

È infatti del 1890 la vecchia fotografia <strong>di</strong> A. Mauri della Fig.9, purtroppo pervenuta con<br />

scarsa qualità grafica, che mostra in primo piano pescatori sulle loro barche a remi e sul<br />

fondo le Sciabiche con parte <strong>di</strong> quei nuovi fabbricati, costruiti sulla riva del seno <strong>di</strong><br />

ponente a mo’ <strong>di</strong> prolungamento delle costruzioni preesistenti, facilmente identificabili<br />

allineati sull’estremo destro della fotografia.<br />

Più chiara, e <strong>di</strong> vent’anni più recente, è invece la visione che delle Sciabiche si ottiene dalla<br />

fotografia della Fig.10, datata 1910, che presenta una panoramica abbastanza completa <strong>di</strong><br />

tutte le case delle Sciabiche, quelle più vecchie e quelle al tempo della foto nuove, tutte<br />

sovrastate dall’imponente complesso della chiesa <strong>di</strong> Santa Teresa e da quello della chiesa<br />

<strong>di</strong> San Paolo, che non si vede nella foto perché nella prospettiva è più a destra.<br />

Quell’ultima casa sull’estremo sinistro della fotografia era presente anche sulla prima foto,<br />

quella del 1870 – <strong>di</strong> 40 anni prima – ed altro non è che l’estremo ovest del grande blocco<br />

e<strong>di</strong>ficato prospicente al mare. Trattasi <strong>di</strong> quel pezzo estremo del blocco che doveva essere<br />

demolito secondo il piano regolatore del 1883, e che invece resisteva ben entrato il ´900.<br />

Una mappa della città che riflette per il rione Sciabiche le due novità descritte, sia le prime<br />

demolizioni che i nuovi fabbricati, è quella datata 1916 elaborata a scala 1/4000 da A.<br />

Urbani, dalla quale è estratto il dettaglio riportato nella Fig.11.<br />

Si osserva chiaramente l’assenza del piccolo blocco fabbricato del Corpo Piloti e<br />

l’avvenuta parziale rettifica del grande blocco fabbricato la cui facciata est è ora allineata<br />

con via Montenegro. E si osservano i nuovi fabbricati, ancor oggi esistenti, costruiti tra la<br />

banchina che dal 1919 si intitolerà all’ammiraglio Paolo Tahon <strong>di</strong> Revel e via Lucio<br />

Scarano.<br />

Su questa mappa del 1916 é anche interessante osservare la presenza su via Lenio Flacco<br />

<strong>di</strong> una nuova costruzione isolata sul bordo della banchina: non si tratta <strong>di</strong> abitazioni, ma<br />

<strong>di</strong> un grande capannone <strong>di</strong> attrezzature marine militari legato alla stazione torpe<strong>di</strong>niere<br />

che in quel tratto <strong>di</strong> banchina operò fin da prima dell’inizio della prima guerra mon<strong>di</strong>ale –<br />

la stazione fu trasferita a Brin<strong>di</strong>si dopo il terremoto <strong>di</strong> Messina del 1908 e il capannone<br />

rimase in pie<strong>di</strong> per una ventina d’anni circa, come lo testimonia la sua presenza nella foto<br />

<strong>di</strong> Fig.12, del 1934.<br />

In questa stessa foto datata 1934 non c’è più traccia del grande blocco fabbricato<br />

prospicente al mare sulla banchina <strong>di</strong> fronte a via Montenegro, né del resto vi è presenza<br />

<strong>di</strong> esso nelle numerose e piú ravvicinate fotografie del <strong>di</strong>scorso che Mussolini tenne dal<br />

balcone del palazzo Montenegro l’8 settembre del 1934. Né, tanto meno è rappresentato<br />

nel piano delle demolizioni del rione Sciabiche dello stesso 1934. Quel blocco fabbricato,<br />

quin<strong>di</strong>, deve esser stato demolito – foto de la Fig.13 – negli anni 20, probabilmente<br />

intorno al 1924.<br />

Fino alla metà degli anni 30 comunque, la struttura urbano-architettonica delle Sciabiche,<br />

escludendo la demolizione dei due blocchi fabbricati periferici al rione, <strong>di</strong> cui si é detto,<br />

non aveva subito cambi rilevanti e, <strong>di</strong> fatto, l’apparenza – Fig.12 – che dal mare mostrava<br />

tutto il caseggiato che si snodava lungo la banchina esposta a nordovest era grosso modo<br />

la stessa <strong>di</strong> quella ripresa in una fotografia dei Fratelli Alinari datata intorno al 1908.<br />

248


Fig.9: Brin<strong>di</strong>si: Grande panorama generale dal mare - Foto <strong>di</strong> A. Mauri del 1890<br />

Fig.10: Panoramica delle Sciabiche - 1910<br />

Fig.11: Pianta della Città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si a Scala 1/4000 <strong>di</strong> A. Urbani - Dettaglio - 1916<br />

249


Da quella foto panoramica del 1908 é infatti estratto il particolare, riprodotto nella Fig.14,<br />

che mostra la maggior parte <strong>di</strong> quelle numerosissime case che furono demolite tra il 1934<br />

ed il 1936, quando si consumó la piú vasta delle campagne demolitrici che interessò la<br />

maggior porzione del quartiere e che, comunque, contrariamente a quanto previsto dal<br />

piano delle demolizioni riportato nella Fig.15, risparmiò un limitato settore <strong>di</strong> case,<br />

visibile nella foto della Fig.16, compreso tra via Montenegro e quello che <strong>di</strong>ventò il limite<br />

est della scalinata imperiale, costruita tra la ampliata e risistemata piazza Santa Teresa ed<br />

il nuovo piazzale Lenio Flacco.<br />

Si può osservare, infatti, come il piano in<strong>di</strong>casse da demolire anche le case ubicate nel<br />

settore più a est e che furono invece temporalmente risparmiate nella pur vasta campagna<br />

demolitrice del 1936. Pertanto, quando nel 1959 anche la loro demolizione finalmente si<br />

consumò, si tratto <strong>di</strong> una fine già predestinata ben venticinque anni prima.<br />

Le demolizioni del 1936 interessarono invece tutte le case sciabbicote che, su piani <strong>di</strong><br />

varia altezza degradanti da piazza Santa Teresa e da largo San Paolo al mare, esistevano a<br />

quell’epoca fino a largo Sdrigoli e anche un po’ più in là, fino al pen<strong>di</strong>o Fontana Salsa che è<br />

sulla sinistra dopo già imboccata via Lucio Scarano.<br />

Poi il rione delle Sciabiche, con gli ultimi sciabbicoti le cui vestigie erano ancora tali da<br />

poter essere propriamente così denominati, svanirono per sempre nelle pieghe della<br />

<strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si in quel 1959, quando il piccone demolitore si abbaté inesorabilmente<br />

sulle ultime case fino ad allora risparmiate – Fig.17 – completando l’opera sra<strong>di</strong>catrice e<br />

imponendo al contempo agli ultimi pescatori ed alle loro famiglie <strong>di</strong> trasferirsi<br />

nell’apposito caseggiato che era stato costruito sull’opposta sponda: il villaggio pescatori.<br />

L’affanno demolitore dell’ammodernamento aveva iniziato la sua inarrestabile avanzata<br />

sulle Sciabiche con l’inizio del ´900 quando tra i primi caseggiati designati non furono<br />

risparmiati né il palazzo dove era nato lo scienziato Teodoro Monticelli né quel che<br />

restava dell’immobile quattrocentesco appartenuto alla famiglia <strong>di</strong> Pompeo Azzolino.<br />

L’avanzata incontrò poi nuove energie, abbondanti ed incontrastate, inseguendo il<br />

miraggio della ritrovata gloria imperiale durante la seconda parte del ventennio e non si<br />

arrestó piú neanche dopo, riprendendo e completando l’opera demolitrice con gli albori<br />

del miracolo economico e della fantomatica industrializzazione – Fig.18.<br />

Da: Brin<strong>di</strong>si Nuova Guida 6 <strong>di</strong> G. CARITO, 1994:<br />

«...Del quartiere delle Sciabiche permangono ormai, dall’inse<strong>di</strong>amento della Marina<br />

Militare e sino alla banchina Montenegro, a ridosso del pianoro in cui sono i poli<br />

ecclesiastici <strong>di</strong> San Paolo Eremita e Santa Teresa, scarni relitti. Tali il reticolo tardo<br />

ottocentesco, a ponente, allorché l’abitato si spinse in <strong>di</strong>rezione del castello <strong>di</strong> Terra e gli<br />

e<strong>di</strong>fici su via Azzolina; qui una casa con cavalcatoio documenta l’elevato sfruttamento<br />

dei suoli e<strong>di</strong>ficabili in un’area caratterizzata da stretti vicoli che, dai rialti <strong>di</strong> ponente,<br />

portavano al mare...»<br />

Da: Lo sventramento delle Sciabiche 7 <strong>di</strong> G. PERRI, 2012:<br />

«...Oggi, delle “Sciabiche” e degli “Sciabbicoti” non ci resta che un ricordo, piú o meno<br />

vago <strong>di</strong>pendendo per ognuno <strong>di</strong> noi dalla propria etá anagrafica o dalla luci<strong>di</strong>tá con cui<br />

la nostra memoria ci riporta e ci ripropone quei due termini con i quali i nostri nonni e i<br />

nostri genitori continuarono, e qualcuno <strong>di</strong> loro persino continua ancora, ad identificare<br />

rispettivamente il rione ed i suoi abitanti...»<br />

250


Fig.12: Panoramica dal seno <strong>di</strong> ponente con Monumento Stazione torpe<strong>di</strong>niere e Sciabiche -1934<br />

Fig.13: Caseggiati sul lungomare sra<strong>di</strong>cati con le prime demolizione - 1924 circa<br />

Fig.14: Le Sciabiche nel 1908: Tratta del lungomare con i caseggiati demoliti tra 1934 e 1936<br />

251


1 Pietro CAGNES e Nicola SCALESE Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dall’anno 1529 al 1787 e<br />

narrazione <strong>di</strong> molti fatti avvenuti in detta città<br />

2 Franca PERRONE e Angela GIOSA Le perle <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Personaggi illustri brin<strong>di</strong>sini, 2008<br />

3 Angelo MAGGI e Maurizio MARINAZZO Brin<strong>di</strong>si negli Archivi Alinari, 2011<br />

4 Alberto DEL SORDO Toponomastica brin<strong>di</strong>sina del centro storico, 1988<br />

5 Giuseppe CANDILERA Parliamo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si con le cartoline, 1985<br />

6 Giacomo CARITO Brin<strong>di</strong>si Nuova Guida, 1994<br />

7 Gianfranco PERRI Lo sventramento delle Sciabiche, 2012<br />

Fig.15: Piano delle demolizioni delle Sciabiche - 1934 - Rapp. 1:1000<br />

Fig.16: Le Sciabiche: la fontana imperiale, la risistemata piazza S. Teresa e il piazzale L. Flacco<br />

252


Fig.17: La demolizione delle Sciabiche: Ultimo atto - 1959<br />

Fig.18: Le tre ondate demolitrici delle Sciabiche<br />

253


“La motobarca del Casale: tra attualità e <strong>storia</strong>”<br />

Pubblicato su il7 Magazine del 14 settembre 2018<br />

Finalmente, dopo “soli” quattro anni circa <strong>di</strong> sospensione, sta per essere ripristinata la<br />

tra<strong>di</strong>zionale fermata della motobarca ai pie<strong>di</strong> della scalinata del Casale: un’interruzione<br />

iniziata per dare spazio ai lavori <strong>di</strong> ristrutturazione della banchina durati un paio d’anni e<br />

poi prolungata, anzi ed incre<strong>di</strong>bilmente raddoppiata, a causa <strong>di</strong> un banale ed<br />

imperdonabile errore <strong>di</strong> progettazione che ha impe<strong>di</strong>to il naturale attracco della<br />

motobarca e ha indotto alla costruzione <strong>di</strong> un nuovo costoso pontile galleggiante,<br />

originalmente non previsto. Pazienza, ormai ci siamo… quasi! Propizia, quin<strong>di</strong>, l’occasione<br />

per raccontare una pagina abbastanza originale, <strong>di</strong> <strong>storia</strong> brin<strong>di</strong>sina.<br />

Il popolarissimo servizio <strong>di</strong> traporto passeggeri via mare nelle acque portuali interne del<br />

porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, all’attuale operatore - la Società Trasporti Pubblici <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si STP - fu<br />

formalmente affidato dal Comune nel novembre 2001, determinando quell’atto<br />

amministrativo il definitivo passaggio sotto il controllo <strong>di</strong>retto della città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dello<br />

storico servizio pubblico che durante tanti secoli aveva ininterrottamente operato ‘in<br />

concessione’ sul mare del Seno <strong>di</strong> Ponente, tra la banchina del quartiere marinaro delle<br />

Sciabiche e l’opposta sponda del Casale.<br />

La STP infatti, è la società <strong>di</strong> capitale pubblico proprietà del Comune <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e della<br />

Provincia <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si che opera l’intero trasporto pubblico urbano nel Comune <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si.<br />

Fondata nel 1969 con il nome <strong>di</strong> Azienda Municipalizzata Autotrasporti Brin<strong>di</strong>si AMAB,<br />

nel 1975 assunse il nome e l’assetto azionario attuale.<br />

Prima del novembre 2001 e per circa una settantina d’anni, il servizio <strong>di</strong> traghettamento<br />

tra Brin<strong>di</strong>si e il Casale era stato via via gestito da tutta una serie <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui e <strong>di</strong> società<br />

private da quando, nell’anno 1931, il comandante del porto Silvio Fontanella, aveva<br />

segnalato l’incompatibilità legale dell’esclusività del traghettamento mantenuta per secoli<br />

da parte della Mensa Arcivescovile <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si; una incompatibilità poi ratificata<br />

dall’Avvocatura dello Stato che ritenne tale <strong>di</strong>ritto ‘non provato’. L’allora arcivescovo<br />

Tommaso Valeri, protestò prontamente presso il Procuratore <strong>di</strong> Bari ‘il procedere lesivo<br />

per gli interessi della Mensa Arcivescovile da parte del comandante del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si’<br />

ma, nel <strong>di</strong>cembre dello stesso anno, la Direzione Generale della Marina Mercantile,<br />

riconfermò la piena libertà <strong>di</strong> circolazione nel porto e quin<strong>di</strong>, la conseguente<br />

inconsistenza del preteso <strong>di</strong>ritto esclusivo della Mensa Arcivescovile.<br />

Decaduta quin<strong>di</strong> quell’esclusività, il servizio si fu gradualmente <strong>di</strong>versificando e<br />

privatizzando finché, nell’anno 1958, la società cooperativa ‘Contramare’, proprietà <strong>di</strong><br />

Guadalupi, Gigante, Piliego e De Marco, commissionò alla SACA la costruzione <strong>di</strong> tre<br />

motobarche - Giuseppina, Annamaria e Augusto - che furono a<strong>di</strong>bite alla prestazione del<br />

servizio a visitatori e abitanti <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si. Qualche anno dopo, nel 1962, la cooperativa fu<br />

rilevata da Cosimo Gioia che la liquidò sostituendola con la C.C.I.A.A. <strong>di</strong>tta in<strong>di</strong>viduale <strong>di</strong><br />

sua proprietà che gestì a lungo il servizio Brin<strong>di</strong>si-Casale con un contributo del Comune a<br />

copertura del <strong>di</strong>savanzo sul costo del biglietto. Nel 1978, la società passata in proprietà<br />

alla figlia <strong>di</strong> Cosimo Gioia, Elena, fu liquidata e sostituita dalla società ‘Casalmare’ che poi,<br />

nel 1994, fu assorbita dalla nuova società ‘Brin<strong>di</strong>si mare’ che fu quella che mantenne la<br />

concessione del servizio con il relativo contributo comunale fino a tutto il 2001.<br />

254


La motobarca del Casale dal 2001<br />

La motobarca del Casale negli anni 90’<br />

255


Ma cos’era, in che consisteva e da quando era stato in vigore, quel <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> esclusività <strong>di</strong><br />

traghettamento <strong>di</strong> cui aveva usufruito la Mensa Arcivescovile <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si durante secoli?<br />

Ebbene, a tale proposito bisogna cominciare con il premettere che il servizio regolare <strong>di</strong><br />

traghettamento Brin<strong>di</strong>si-Casale sicuramente sorse - in principio, anche se comunque<br />

senza mai escludere altri usi civili - legato ai continui pellegrinaggi che avevano come<br />

meta la trecentesca chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale.<br />

Eventualmente, non risultando documentato un qualche antico atto legale formale che lo<br />

avesse concesso in forma esplicita, quel <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> servizio <strong>di</strong> trasporto fu ritenuto<br />

esclusivo da parte della Mensa Arcivescovile, in ragione del fatto che lo stesso si originò in<br />

tempi in cui tra la città ed il Casale, <strong>di</strong> fatto completamente <strong>di</strong>sabitato, era usufruito quasi<br />

esclusivamente dai pellegrini che si recavano presso la Chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale:<br />

«… La genesi della chiesa, ai margini <strong>di</strong> un frequentatissimo itinerario quale quello<br />

costituito dall'Appia Traiana e non <strong>di</strong>stante dalle cale portuali <strong>di</strong> ponente in cui era ampia<br />

<strong>di</strong>sponibilità d'acqua dolce, si determina nell'avanzare della linea dei coltivi che<br />

caratterizza il XIII secolo… Lo sviluppo <strong>di</strong> Santa Maria va dunque intrecciato con quello<br />

della fortuna della grande via dei pellegrini, della frequentazione delle cale portuali vicine<br />

e dello sviluppo dell'abitato, in cui non dovevano mancare strutture d'ospitalità, cui<br />

ineriva. Ospizi o ospedali per i crocesignati o i pellegrini <strong>di</strong>retti in Terra Santa erano<br />

ovviamente lungo il grande itinerario che aveva uno snodo essenziale nei porti pugliesi e<br />

fra questi, in particolare, Brin<strong>di</strong>si. Frequenti sono le tracce lasciate nella chiesa da quanti<br />

si <strong>di</strong>rigevano o tornavano dalla Palestina…» [G. Carito, 2010]<br />

Anche se certamente ne esistono <strong>di</strong> precedenti, il riferimento esplicito più antico che ho<br />

reperito in relazione al servizio <strong>di</strong> traghettamento tra Brin<strong>di</strong>si e il Casale, risale al 1568,<br />

anno in cui l’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Giovanni Carlo Bovio (1564-70) cedette la chiesa <strong>di</strong><br />

Santa Maria del Casale e annessi fabbricati ai frati Minori Osservanti della provincia <strong>di</strong> San<br />

Nicola, i quali il giorno 26 aprile vi piantarono la croce dando inizio alla fabbrica del<br />

monastero, che fu poi completato, fra 1635 e 1638, dai frati Minori Osservanti Riformati,<br />

subentrati ai primi nel 1589.<br />

Tra l’arcivescovo e il provinciale frate Lorenzo da Tricase, in quel 1568, si convenne: “Lo<br />

arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si da et concede in perpetuo alli frati <strong>di</strong> San Francesco osservanti la<br />

chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale posta fora della città de Brin<strong>di</strong>si qual è dell’Arcivescoval<br />

Mensa con li e<strong>di</strong>ficij <strong>di</strong> case et torre et con lo giardeno e terreno a<strong>di</strong>acente et contigui ad<br />

essa Chiesa con li patti con<strong>di</strong>tioni […] Item si reserva la barcha de Santa Maria et il<br />

draghetto del portu chiamatu il varcaturo”.<br />

Il padre Bonaventura da Lama nella sua [Cronica… Lecce, 1724] rileva che, comunque,<br />

inizialmente i Padri Osservanti ricevevano una grossa limosina <strong>di</strong> ducati 90 per l’affitto<br />

della barca che tragitta i passeggieri e poi, quando si riformarono, si contentarono <strong>di</strong> soli<br />

24 ducati, rinunciando al resto a favore della Mensa Arcivescovile.<br />

Un altro importante riferimento esplicito al traghettamento, lo si ritrova nel classico testo<br />

sulla <strong>storia</strong> <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, notoriamente plagiato dal padre carmelitano Andrea Della Monaca<br />

e da questi fatto dare alle stampe nel 1674:<br />

«…Si celebra ogn’anno in detta chiesa alli otto <strong>di</strong> settembre la solennità della nascita della<br />

Vergine, e vi è una fiera competente, ma il concorso della gente forestiera è grande, che<br />

rende la festa più celebre. Il camino or<strong>di</strong>nario che si fa per andare alla detta devotione, e al<br />

monasterio de’ padri, parte è per mare, e parte per terra; per mare perché bisogna<br />

256


passare tutta la larghezza del corno destro del porto interiore, che è <strong>di</strong> duecento<br />

cinquanta passi, per il che vi sono molte barche in quel giorno ornate <strong>di</strong> tendali, e<br />

ban<strong>di</strong>ere per fine <strong>di</strong> condurre, e ricondurre le genti dall’una, e l’altra riva, aggiungendosi<br />

per maggior <strong>di</strong>letto de’ spettatori la vista dell’emulatione grande che è tra marinari, ch’in<br />

voga arrancator s’affatigano gli uni per superar gl’altri nella prestezza del viaggio per far<br />

maggior guadagno; oltre la barca or<strong>di</strong>naria fatta à modo <strong>di</strong> scafa, che vi tiene tutto l’anno<br />

l’arcivescovo, essendo ciò sua giuris<strong>di</strong>ttione per far traggitto delle genti che vanno à<br />

lavorare i campi, che sono <strong>di</strong> là del mare; si và anco per terra, poiché uscendosi dalla barca<br />

è <strong>di</strong> bisogno caminare per giongere al monasterio de’ padri passi ottocento, per una strada<br />

amena, spalleggiata dall’ombre delle siepi, delle vigne, de’ giar<strong>di</strong>ni, e d’oliveti, che vi sono<br />

dall’una, e l’altra parte del camino. Si può andare anco sempre per terra senza toccar<br />

mare, ma il viaggio è un poco più lungo, e alquanto faticoso.»<br />

All’anno 1722 invece, risale un documento notarile compilato dal notaio Giuseppe Matteo<br />

Bonavoglia su incarico dell’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Paolo De Vilana Perla, nobile della<br />

Catalogna nativo della città <strong>di</strong> Barcellona. Il documento è una Patea <strong>di</strong> tutte le entrate, cioè<br />

il red<strong>di</strong>to dell’arcivescovo, da beni mobili ed immobili e tassazioni. Ebbene, fra le entrate<br />

figura l’esercizio <strong>di</strong> traghettamento nel porto con la “Barca <strong>di</strong> Santa Maria” tra le due<br />

sponde del seno <strong>di</strong> ponente, tra Brin<strong>di</strong>si in riva Sciabiche e il Casale, località S. Maria.<br />

Un altro riferimento al monopolio del traghettamento Brin<strong>di</strong>si-Casale è contenuto nella<br />

‘Cronica dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dall’anno 1529 al 1787’ <strong>di</strong> Pietro Cagnes e Nicola Scalese.<br />

Dopo la trentennale (1714-1734) parentesi del governo austriaco sul regno <strong>di</strong> Napoli, con<br />

l’avvento <strong>di</strong> Carlo Borbone sul trono, a Brin<strong>di</strong>si erano sorte serie tensioni tra i pubblici<br />

amministratori civili, gli eletti consiglieri il sindaco e il governatore da una parte, e il clero<br />

nella persona dell’arcivescovo Andrea Maddalena, napoletano, dall’altra e le tensioni<br />

accumulate si concretizzarono in occasione <strong>di</strong> alcuni episo<strong>di</strong> specifici, uno dei quali ebbe<br />

al centro della <strong>di</strong>sputa proprio il traghettamento al Casale:<br />

«Il giorno 11 settembre 1738, il sindaco <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si Tomaso Cantamessa, radunò nel Se<strong>di</strong>le<br />

il parlamento citta<strong>di</strong>no e decretò decaduto il <strong>di</strong>ritto del quale godeva l’arcivescovo<br />

relativo allo ‘jus prohiben<strong>di</strong> per la barca del Casale’, una concessione dalla quale a quel<br />

tempo l’arcivescovo otteneva, affittandone il <strong>di</strong>ritto, da 60 a 70 ducati l’anno». Il decreto<br />

citta<strong>di</strong>no fu imme<strong>di</strong>atamente impugnato e rimesso ai tribunali e, a proposito <strong>di</strong> quel<br />

litigio, nell’Archivio <strong>di</strong> Sato <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si [III, B-1-1-XXVII, a. 1738] riposano gli atti che<br />

citano «…una piccola gabella per lo Jus barcagni seu dell’imbarcaturo, per trasportare, seu<br />

passare con la barca, seu scafa tutte le genti che vogliono passare da una banda all’altra;<br />

tanto per andare alla Chiesa <strong>di</strong> Santa Maria del Casale de Padri Riformati, quanto per<br />

andare alle loro Masserie, giar<strong>di</strong>ni e territori e loro beni, tenendovi una sua barca seu scafa<br />

propria della sua Mensa Arcivescovile che l’affitta per triennio…»<br />

Alla fine <strong>di</strong> quel litigio, si ritornò allo status quo, per cui l’arcivescovo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si continuò<br />

- durante altri 200 anni - a riscuotere per quella concessione. Ancora nel 1923, infatti, il<br />

canonico Salvatore Polmone “concede in locazione a Teodoro Piliego il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> passaggio<br />

che la Mensa Arcivescovile possiede per il trasporto delle persone e delle merci dalla sponda<br />

delle Sciabiche nel porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, all’altra opposta <strong>di</strong> Santa Maria del Casale” [Archivio<br />

Storico Diocesano, Brin<strong>di</strong>si, Fondo Amministrazione, Serie Mensa Arcivescovile, cart. 40,<br />

fasc. 2]. E forse quella locazione al Piliego si rinnovò proprio fino a quell’anno 1931, in cui<br />

intervenne a “scompigliare la secolare faccenda“ il comandante Silvio Fontanella.<br />

257


La motobarca del Casale negli anni 60’<br />

La motobarca del Casale nei primi anni 50’<br />

258


Quanti Brin<strong>di</strong>sini sono esistiti nel corso della <strong>storia</strong>? “ 2.536.733 ”<br />

Pubblicato su Senza Colonne News dell'8 <strong>di</strong>cembre 2017<br />

Bella e simpatica domanda vero? Sarà mai possibile dare una risposta atten<strong>di</strong>bile<br />

a questo quesito? Magari si, o forse no. Eppure, io ci voglio provare. Tanto, e<br />

comunque, credo sarà interessante - e certamente <strong>di</strong>vertente - tentarlo.<br />

Indubbiamente il dato fondamentale - per nulla facile da reperire - da cui partire<br />

è quello relativo all’evoluzione - nonché spesso involuzione - demografica che ha<br />

caratterizzato la città <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel corso dei secoli, anzi dei millenni della sua<br />

esistenza. Ma non sarà sufficiente: sarà anche necessario dare risposte plausibili a<br />

tutta una serie <strong>di</strong> domande:<br />

Quando cominciò ad esistere Brin<strong>di</strong>si? Quale fu l’aspettativa <strong>di</strong> vita nel trascorso<br />

dei secoli? Quante furono negli anni le donne feconde brin<strong>di</strong>sine? E quanti figli<br />

procreò ogni donna? Insomma: quanti Brin<strong>di</strong>sini sono nati in ognuno dei tremila anni<br />

in cui Brin<strong>di</strong>si è esistita?<br />

Ebbene, sarà proprio la risposta a quest’ultima domanda che permetterà<br />

finalmente risolvere il quesito fondamentale: basterà infatti sommare i Brin<strong>di</strong>sini nati<br />

per ogni anno ed il risultato della somma sarà il numero totale <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>sini esistiti nel<br />

corso della <strong>storia</strong>! Facile, vero?<br />

Per stabilire la data <strong>di</strong> fondazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si bisognerebbe addentrarsi nelle<br />

tante leggende che raccontano della nascita <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si e comunque, si può ben<br />

anticipare che in fondo non è questo un dato importantissimo ai fini del risultato<br />

numerico da raggiungere: in effetti, al principio <strong>di</strong> tutto, i popolatori <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

saranno stati certamente molto pochi, così pochi da non incidere granché sul valore<br />

del risultato agognato. Quin<strong>di</strong> - per farla breve - se Brin<strong>di</strong>si fu fondata da Ercole,<br />

vissuto prima della guerra <strong>di</strong> Troia e quin<strong>di</strong> prima <strong>di</strong> 1200 anni avanti Cristo, sarà<br />

abbastanza accettabile fissare intorno a 1000 anni prima <strong>di</strong> Cristo la data iniziale del<br />

conteggio.<br />

E adesso il quesito fondamentale: quale l’evoluzione demografica <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nei<br />

secoli? Ovviamente non possono esistere dati seriali per i secoli iniziali, ma purtroppo<br />

neppure ne esistono per i secoli della Brin<strong>di</strong>si messapica - tra l’VIII ed il III a.C. - fino<br />

alla conquista romana del 267 a.C. e così, solo la probabile estensione fisica del<br />

perimetro urbano messapico suggerita dagli archeologi può indurre a una qualche<br />

stima demografica approssimativa. Poi, finalmente, è storicamente documentato che<br />

nel 244 a.C. a Brin<strong>di</strong>si fu dedotta dai Romani una colonia <strong>di</strong> 6000 in<strong>di</strong>vidui, con cui<br />

eventualmente si duplicò la reale popolazione dell’urbe.<br />

Seguirono gli anni dell’eccezionale e vertiginoso incremento dell’importanza e<br />

centralità della Brin<strong>di</strong>si romana, un’importanza strategica, militare e commerciale, che<br />

stimolò un’evoluzione straor<strong>di</strong>naria - che certamente interessò anche l’ambito<br />

demografico - che iniziò nei secoli della repubblica e che si protrasse fino agli anni<br />

ancora dorati dell’impero.<br />

Intorno all’anno 9 d.C. Augusto riorganizzò amministrativamente l’Impero<br />

Romano ed il territorio italiano fu <strong>di</strong>viso in 11 regioni: la Puglia fu la Regio II, Apulia et<br />

Calabria, quin<strong>di</strong> subito dopo la Regio I Latium et Campania. “Brin<strong>di</strong>si era in pieno<br />

splendore, certo il centro più grande della Regio II, con circa 50000 abitanti…” (Puglia<br />

Antica - A. Sirago, 1999).<br />

259


In seguito, Brin<strong>di</strong>si inevitabilmente seguì la fortuna e la decadenza <strong>di</strong> Roma e del<br />

suo impero ed è quin<strong>di</strong> naturale immaginare un progressivo e sostanziale calo della<br />

popolazione già a partire dai primi anni del IV secolo, per così decrescere fino a una<br />

popolazione che intorno all’anno 400 dovette essere <strong>di</strong> circa 15000 abitanti. “Il<br />

circuito delle mura <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si in età tardo antica fa pensare ad una città <strong>di</strong> circa<br />

quin<strong>di</strong>cimila abitanti...” (Lo stato politico economico <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dagli inizi del IV<br />

Secolo all’anno 670 - G. Carito, 1976).<br />

Nel 476 cadde formalmente l’Impero Romano d’Occidente, e poi venne la<br />

ventennale guerra gotico bizantina alla cui conclusione, nel 553, la popolazione <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si si era già ulteriormente ridotta, a circa soli 4000 abitanti. Seguirono gli anni<br />

della esosa corrotta e labile dominazione bizantina, che spostò su Otranto il baricentro<br />

politico militare e commerciale della Terra <strong>di</strong> Otranto, accelerando con ciò la<br />

decadenza e lo spopolamento <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, una decadenza che si prolungò e si accentuò<br />

fino alla conquista, con conseguente <strong>di</strong>struzione, della città da parte dei Longobar<strong>di</strong>,<br />

nel 674, quando Brin<strong>di</strong>si rimase, <strong>di</strong> fatto, quasi del tutto spopolata.<br />

“La documentazione epigrafica dà la certezza che rimasero ai margini della città<br />

solo pochi gruppi <strong>di</strong> Ebrei, parte stabiliti nella zona detta Giudea e parte presso<br />

l’attuale via Tor Pisana. Qualche altro sparuto gruppo <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni si stabilì intorno al<br />

vecchio martyrium <strong>di</strong> San Leucio. I Longobar<strong>di</strong>, <strong>di</strong>strutta Brin<strong>di</strong>si, fecero <strong>di</strong> Oria il loro<br />

più forte caposaldo in Terra <strong>di</strong> Otranto. Fu allora che Oria fu eletta come sede dei<br />

vescovi brin<strong>di</strong>sini e anche quel trasferimento dell’episcopato in<strong>di</strong>ca l’abbandono della<br />

città. Un abbandono ulteriormente confermato dalla quasi totale mancanza <strong>di</strong><br />

riferimenti a Brin<strong>di</strong>si nelle fonti dell’VIII secolo...” (Lo stato politico economico <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670 - G. Carito, 1976).<br />

Fino all’incipiente rifondazione bizantina <strong>di</strong> qualche secolo dopo - tra fine X<br />

secolo e inizio XI - la popolazione brin<strong>di</strong>sina dovette rimanere prossima al minimo ed<br />

è comunque <strong>di</strong>fficile reperire dati utili sul possibile andamento demografico fino a<br />

dopo la conquista normanna del 1071, quando finalmente si cominceranno a<br />

incontrare alcuni elementi utili per una qualificazione approssimativa. Poi, nei primi<br />

decenni del secolo XIII, la decisione <strong>di</strong> Federico II <strong>di</strong> allargare la cinta muraria<br />

citta<strong>di</strong>na, probabilmente ripristinando l’antico tracciato del municipio romano, fa<br />

ipotizzare una maggior crescita della popolazione durante la dominazione sveva,<br />

specificamente nel corso della prima metà del secolo XIII.<br />

“Nel 1269, con gli Angioini appena inse<strong>di</strong>ati sul trono <strong>di</strong> Napoli, l’inchiesta<br />

condotta su un omici<strong>di</strong>o fece riferimento - per stabilire l’ammontare della multa da<br />

imporre alla città - all’esistenza a Brin<strong>di</strong>si <strong>di</strong> circa 1000 fuochi e così, adottando un<br />

moltiplicatore <strong>di</strong> 5 per i nuclei familiari, si deduce che il numero degli abitanti <strong>di</strong><br />

Brin<strong>di</strong>si doveva attestarsi, in quegli anni del XIII secolo, sulle 5000 unità, un numero<br />

che potrebbe rappresentare l’apice del trend positivo iniziato con la conquista<br />

normanna. Poi, negli ultimi decenni dello stesso XIII secolo, ci fu una nuova inversione<br />

<strong>di</strong> tendenza che seguì alle convulsioni politiche legate alla cruenta transizione dagli<br />

Svevi agli Angioini, alla guerra dei Vespri, alla <strong>di</strong>ffusione della peste nera in città,<br />

eccetera...” (Il me<strong>di</strong>oevo nelle città italiane: Brin<strong>di</strong>si - R. Alaggio, 2015).<br />

Infatti, un nuovo minimo puntuale caratterizzò la popolazione <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si<br />

nell’anno 1465, quando - con i re aragonesi succeduti sul trono <strong>di</strong> Napoli - giunse in<br />

città il contagio della devastante peste europea e la popolazione si ridusse all’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

260


261


circa 3000 anime. Poi, nel 1496 è documentato esserci in Brin<strong>di</strong>si 4000 abitanti: lo<br />

relazionò il governatore veneziano Priamo Contarini quando, il 30 <strong>di</strong> marzo in nome<br />

del doge, ricevette la città consegnatagli in pegno dal re Ferran<strong>di</strong>no per l’aiuto<br />

ricevuto nello sventare l’invasione del francese Carlo VIII.<br />

Con l’estromissione definitiva dei monarchi aragonesi da Napoli e dalla Sicilia,<br />

nel 1509 ebbe inizio il lungo - bicentenario - periodo vicereale spagnolo. E per Brin<strong>di</strong>si<br />

quel bicentenario non iniziò certo nel migliore dei mo<strong>di</strong>:<br />

“Nel mese <strong>di</strong> luglio del 1526, la peste fece ritorno a Brin<strong>di</strong>si, <strong>di</strong> certo introdotta e<br />

favorita dalle tante truppe spagnole che vi si avvicendavano <strong>di</strong> continuo, transitandovi<br />

e soggiornandovi in con<strong>di</strong>zioni igieniche del tutto deprecabili. Ad agosto del 1528,<br />

nell’ambito della guerra combattuta per la nomina del sacro romano imperatore tra la<br />

Spagna <strong>di</strong> Carlo V e la Francia <strong>di</strong> Francesco I, Brin<strong>di</strong>si fu attaccata da Simone Tebaldo,<br />

generale romano comandante <strong>di</strong> 16000 soldati, tra francesi veneziani e papali. La città<br />

fu costretta ad arrendersi e, quando Tebaldo fu fortunosamente abbattuto da un<br />

proiettile, venne saccheggiata dalle soldatesche allo sbando, che poi si ritirarono. In<br />

quello stesso anno, il 20 novembre 1528, una delle due colonne romane che avevano<br />

sfidato per tanti secoli le intemperie dei tempi e degli uomini, cadde senza<br />

un’apparente ragione…” (Brin<strong>di</strong>si nel contesto della <strong>storia</strong> - G. Perri, 2016).<br />

E il 1529 è l’anno <strong>di</strong> inizio della Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1529 al 1787<br />

scritta da Pietro Cagnes e Nicola Scalese, nella quale - oltre a tant’altro - si può seguire<br />

l’andamento demografico della città, l’aumentare ed il <strong>di</strong>minuire della popolazione<br />

nell’arco <strong>di</strong> quei circa 250 anni, in rapporto all’economia e al traffico portuale in<br />

particolare, che la città ebbe con alterne vicende, per fatti <strong>di</strong> guerra, per inclemenze<br />

del clima, per flagelli vari e per l’impantanamento delle acque intorno alla città e nel<br />

porto:<br />

Si può notare come per il 1531 la popolazione era precipitata a un nuovo ed<br />

accentuato minimo <strong>di</strong> circa 2000 abitanti - 400 fuochi - un minimo da allora in avanti<br />

mai più toccato, giacché il minimo seguente fu <strong>di</strong> 5000 abitanti e fu riportato per gli<br />

anni 1780 e 1789: prima da A. Pigonati nella sua “Memoria del riaprimento del porto<br />

<strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si” e poi da K. U. Von Salis Marschlins nel suo "Viaggio attraverso il regno <strong>di</strong><br />

Napoli".<br />

262


Il massimo, invece, durante il viceregno spagnolo si toccò nel 1618, con 10000<br />

abitanti <strong>di</strong>stribuiti su un totale <strong>di</strong> 2000 fuochi. Nel 1618, a Brin<strong>di</strong>si il governatore<br />

spagnolo era il capitano Pedro Aloysio De Torres e la città si era decisamente<br />

ripopolata, grazie anche alla sua buona amministrazione: molto probabilmente il<br />

miglior governatore che Brin<strong>di</strong>si ebbe in tutto il bicentenario vicereame spagnolo.<br />

Aloysio De Torres è infatti ancora ben ricordato a Brin<strong>di</strong>si per aver affrontato il<br />

problema della sempre più critica carenza d’acqua - responsabile <strong>di</strong> frequenti<br />

epidemie - progettando un acquedotto che fece realizzare con il contributo monetario<br />

dei citta<strong>di</strong>ni abbienti ed il cui emblema fu la fontana monumentale posta e tuttora<br />

funzionante, nella piazza Maggiore, poi piazza Mercato ed ora piazza Vittoria.<br />

I dati demografici riportati nella Cronaca <strong>di</strong> Cagnes e Scalese, a partire dall’anno<br />

1744 sono anche confrontati con quelli degli Status Animarum. Nella Biblioteca<br />

arcivescovile Annibale De Leo <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si, infatti, sono conservati i registri degli Stati<br />

delle Anime <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si degli anni dal 1744 al 1850, quando quello <strong>di</strong> Napoli era già<br />

<strong>di</strong>ventato - nel 1734 - un regno in<strong>di</strong>pendente: il regno borbonico <strong>di</strong> Napoli, poi delle<br />

Due Sicilie. “Il libro delle Anime <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si nel 1754” curato da Loredana Vecchio e<br />

pubblicato nel 2012, illustra molto bene tipologia caratteristiche <strong>di</strong> quei registri<br />

demografici annualmente compilati dall’arcivescovato.<br />

Il minimo già segnalato dell’or<strong>di</strong>ne dei 5000 abitanti toccato intorno al decennio<br />

tra 1780 e 1790, fu poi nuovamente sfiorato nel 1830: sono gli anni in cui, dopo il<br />

clamoroso fallimento dell’opera <strong>di</strong> risanamento del porto realizzata dal Pigonati, la<br />

situazione economica sociale sanitaria e quin<strong>di</strong> demografica della città era ripiombata<br />

a livelli <strong>di</strong> criticità assoluta, con le morti superando per vari anni consecutivi le<br />

nascite. Lo documentarono dettagliatamente Giovanni e Francescantonio Monticelli,<br />

coa<strong>di</strong>uvati da Benedetto Marzolla, in una serie <strong>di</strong> ben tre memorie in<strong>di</strong>rizzate al re<br />

Fer<strong>di</strong>nando IV nel tentativo - finalmente e per fortuna riuscito - <strong>di</strong> scongiurare per<br />

Brin<strong>di</strong>si la già decretata condanna alla sparizione dalla mappa d’Italia (Memoria in<br />

<strong>di</strong>fesa della città e del porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si - F.A. Monticelli, 1833).<br />

“Altri andranno alla ricerca dei testi poetici o epigrafici in cui sono descritte le<br />

ansie, le sconfitte o le vittorie degli abitanti <strong>di</strong> questa città che un giorno fu<br />

condannata allo spopolamento e che invece vinse l’appello, e la condanna non fu<br />

eseguita, per cui ancora un popolo la abita” (Cronaca dei Sindaci <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si dal 1787<br />

al 1860 - R. Jurlaro, 2001).<br />

Nel 1860 il regno <strong>di</strong> Napoli fu annesso al regno <strong>di</strong> Sardegna per così integrare il<br />

nuovo regno d’Italia in cui, a partire dal 1861, si realizzarono con frequenza decennale<br />

i censi della popolazione, che continuano a realizzarsi tuttora integrati annualmente<br />

dai dati dell’Istat.<br />

Brin<strong>di</strong>si entrò a far parte del regno d’Italia con circa 9000 abitanti e la<br />

popolazione non smise <strong>di</strong> crescere tra ogni censo decennale ed il successivo: dopo<br />

cinquant’anni - nel 1911 - 25692 abitanti e dopo cento - nel 1961 - 70657 abitanti. Poi,<br />

nel 1991 si raggiunse il massimo assoluto <strong>di</strong> 95383 abitanti per ri<strong>di</strong>scendere a 88212<br />

nel censo del 2011, quello dei 150 anni.<br />

L’ultimo dato Istat, per l’anno 2016, in<strong>di</strong>ca a Brin<strong>di</strong>si una popolazione ancora in<br />

franca <strong>di</strong>minuzione, a 87820 abitanti. Un fenomeno, invero, italiano e non solo<br />

brin<strong>di</strong>sino: è infatti <strong>di</strong> questi giorni, la notizia che nell'arco <strong>di</strong> otto anni, dal 2008 al<br />

263


2016, le nascite in Italia sono <strong>di</strong>minuite <strong>di</strong> oltre 100mila unità e che nel 2016 sono<br />

stati iscritti all'anagrafe oltre 12mila bambini in meno rispetto al 2015.<br />

A Brin<strong>di</strong>si, le nascite nel 2015 sono state 655 contro le 709 del 2014. Ma le morti<br />

nello stesso 2015 sono state 850 con quin<strong>di</strong> un saldo negativo <strong>di</strong> 195 ed è a partire dal<br />

2012 che a Brin<strong>di</strong>si, quin<strong>di</strong> per già ben cinque anni consecutivi, il numero <strong>di</strong> morti ha<br />

superato il numero dei nati: non era mai più accaduto da quel lontano e certamente<br />

triste 1832.<br />

A questo punto, dopo aver affrontato il tema dell’evoluzione demografica<br />

brin<strong>di</strong>sina, per poter completare l’algoritmo delineato per il calcolo del numero totale<br />

dei nati a Brin<strong>di</strong>si nel corso della <strong>storia</strong>, bisogna considerare il punto dell’aspettativa<br />

<strong>di</strong> vita e quello della fecon<strong>di</strong>tà delle donne brin<strong>di</strong>sine. Per far ciò, bisogna assumere<br />

alcune ipotesi, in base a conoscenze effettive quando <strong>di</strong>sponibili e, per il resto, in base<br />

a supposizioni che siano il più possibile razionali.<br />

L’aspettativa <strong>di</strong> vita è noto essere in continuo aumento, secondo un fenomeno<br />

che, a parte le puntualità legate a contingenze storiche, sembra sia stato abbastanza<br />

continuo nella <strong>storia</strong> intera dell’umanità. Ed è in effetti risaputo che i nostri nonni e<br />

bisnonni avevano una aspettativa <strong>di</strong> vita inferiore alla nostra. Così come si sa, che<br />

qualche secolo fa, l’età me<strong>di</strong>a fino alla quale si campava era sostanzialmente inferiore<br />

all’attuale, e così via: al tempo dei dominatori romani, ad esempio, era poco comune<br />

che si superassero i 50 anni <strong>di</strong> vita ed è immaginabile che ancor prima, gli uomini e le<br />

donne vivessero anche parecchio meno, forse in me<strong>di</strong>a tra 30 e 40 anni.<br />

In quanto alla fecon<strong>di</strong>tà delle donne, deve considerarsi che l’età “sociale” della<br />

fecon<strong>di</strong>tà nel passato coincideva <strong>di</strong> fatto con l’età biologica della fecon<strong>di</strong>tà e quin<strong>di</strong><br />

iniziava all’incirca ai 15 anni. Poi, a partire dal secolo XIX o XX, quell’età iniziale<br />

“sociale” anche a Brin<strong>di</strong>si è andata aumentando gradualmente fino agli attuali 25 anni.<br />

Pertanto, la durata degli anni <strong>di</strong> fecon<strong>di</strong>tà effettiva delle donne brin<strong>di</strong>sine, può forse<br />

considerarsi essere rimasta in me<strong>di</strong>a pressoché costante nei secoli, intorno ai 20 anni:<br />

dai 15 ai 35 in passato e dai 25 ai 45 nell’attualità.<br />

264


E allora, quanti - nei vari perio<strong>di</strong> della <strong>storia</strong> - sono stati i figli che ogni donna<br />

brin<strong>di</strong>sina ha partorito durante quei suoi venti anni <strong>di</strong> fecon<strong>di</strong>tà sociale? Per l’epoca<br />

attuale i dati statistici del tasso <strong>di</strong> fecon<strong>di</strong>tà in<strong>di</strong>cano valori ormai da molti anni<br />

inferiori a 2 figli per ogni donna, con una chiara tendenza a <strong>di</strong>ventare sempre più<br />

bassi: nel 1950 il tasso nell’Italia meri<strong>di</strong>onale fu 2,3 - nel 1960 fu 2,1 - nel 1970 fu 1,7 -<br />

nel periodo 2005-2010 il tasso fu 1,38, al 174esimo posto su un totale <strong>di</strong> 195 paesi,<br />

con in testa il Niger con un tasso <strong>di</strong> 7,19. Per il 2016 infine, il tasso <strong>di</strong> fecon<strong>di</strong>tà italiano<br />

fu 1,26 e nell’Italia meri<strong>di</strong>onale 1,27.<br />

Per le epoche anteriori però, naturalmente e purtroppo, non sono <strong>di</strong>sponibili<br />

statistiche demografiche e pertanto non resta che affidarsi all’intuizione razionale, ben<br />

sapendo che il tasso nell’antichità deve essere stato via via superiore, con limiti<br />

superiori probabilmente compresi tra 5 e 7.<br />

Ebbene, a questo punto e con l’ausilio <strong>di</strong> excel, il calcolo è bell’è fatto: per ogni<br />

anno, dalla popolazione totale e dall’aspettativa <strong>di</strong> vita femminile si ottiene la<br />

popolazione femminile in fecon<strong>di</strong>tà sociale che, combinata con il tasso <strong>di</strong> fecon<strong>di</strong>tà ed i<br />

venti anni <strong>di</strong> durata della fecon<strong>di</strong>tà sociale, permette calcolare il numero <strong>di</strong> nati per<br />

ogni anno, e quin<strong>di</strong> per ognuno degli intervalli considerato. Poi, basterà sommare tutti<br />

i nati <strong>di</strong> ogni intervallo e si otterrà proprio il numero totale dei nati a Brin<strong>di</strong>si (cioè dei<br />

Brin<strong>di</strong>sini) esistiti in tutto il corso della <strong>storia</strong> della città. Quanti? La tavola excel in<strong>di</strong>ca<br />

poco più <strong>di</strong> 2 milioni e mezzo… all’incirca!<br />

Certo, lo so, troppe imprecisioni, troppe supposizioni, troppe licenze non<br />

autorizzate. Ma non importa, tanto il calcolo lo si potrà sempre rifare, migliorandolo,<br />

mo<strong>di</strong>ficandolo e correggendolo sulla base <strong>di</strong> nuovi o più atten<strong>di</strong>bili elementi, siano<br />

essi relativi ai dati o alle supposizioni. E sarà mia cura presentarne, ogni volta che ne<br />

varrà la pena, la corrispondente attualizzazione.<br />

Ah!<br />

Un’ultima nota ancora: il 21 settembre 1951 nacque il brin<strong>di</strong>sino numero 2.470.151: “io”.<br />

gianfrancoperri@gmail.com 1° <strong>di</strong>cembre 2017<br />

265


E<strong>di</strong>zioni Lulu.com<br />

ID: 24257469<br />

www.lulu.com


BRINDISI “filia solis"<br />

Nella parte più a nord del Salento è situata Brin<strong>di</strong>si, città antichissima crogiolo <strong>di</strong><br />

culture e teatro <strong>di</strong> vicende entrate a buon <strong>di</strong>ritto nei manuali della grande <strong>storia</strong>,<br />

città nobile e antica che secondo alcuni si dovrebbe chiamare Brunda. È noto a tutti<br />

che questo nome significa testa <strong>di</strong> cervo, non in greco o latino, ma in lingua<br />

messapica, il porto <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si ha infatti la forma <strong>di</strong> una testa <strong>di</strong> cervo, le cui corna<br />

abbracciano gran parte della città. Il porto è famosissimo in tutto il mondo e da ciò<br />

nacque il proverbio secondo cui sono tre i porti della terra: Iunii, Iulii, et Brundusii.<br />

La parte più interna del porto è cinta da torri e da una catena; quella più esterna la<br />

proteggono gli scogli da una parte e una barriera <strong>di</strong> isole dall'altra: sembra l'opera<br />

intelligente <strong>di</strong> una natura burlona, ma accorta. La costa, che dal monte Gargano fino<br />

a Otranto è quasi rettilinea ed incurvata in brevi tratti, nei pressi <strong>di</strong> Brin<strong>di</strong>si si<br />

spacca ed accoglie il mare, formando un golfo che si insinua nella terra con uno<br />

stretto delimitato, come già detto, dalle torri e dalla catena. Un tempo, questa stretta<br />

imboccatura era profon<strong>di</strong>ssima e poteva essere attraversata con navi <strong>di</strong> qualsiasi<br />

grandezza.<br />

Da questo stretto, il mare si riversa per un lungo tratto dentro la terraferma<br />

attraverso due fossati naturali che circonvallano la città; è sorprendente, soprattutto<br />

nel corno destro, la profon<strong>di</strong>tà del mare che in qualche punto, <strong>di</strong>cono, supera i venti<br />

passi. La città ha all'incirca la forma <strong>di</strong> una penisola, tra i due bracci <strong>di</strong> mare. Sul<br />

corno destro, ha una fortezza <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>naria fattura, costruita con blocchi <strong>di</strong> pietra<br />

squadrata per volere <strong>di</strong> Federico II, e poi ha il castello Alfonsino, il Forte a mare dei<br />

brin<strong>di</strong>sini.<br />

Brin<strong>di</strong>si è cresciuta sul più orientale porto d'Italia che ne ha determinato il destino.<br />

Le colonne terminali della via Appia, specchiandosi dall'alto della loro scalinata nelle<br />

acque del porto interno, vigilano su quella che la tra<strong>di</strong>zione vuole come l'ultima<br />

<strong>di</strong>mora <strong>di</strong> Virgilio. E poi Brin<strong>di</strong>si cela tantissimi altri frammenti <strong>di</strong> <strong>storia</strong>, le cui<br />

testimonianze sono ancora leggibili nel tessuto urbano, attraverso itinerari che si<br />

devono percorrere per ammirare l'eleganza dei suoi numerosi palazzi, le maestose<br />

<strong>di</strong>more dei Cavalieri Templari, la ricchezza del suo patrimonio chiesastico e da<br />

ultimo, per scoprire l'essenza autentica della città che il grande Federico II definì<br />

"filia solis", esaltando la me<strong>di</strong>terranea solarità <strong>di</strong> questo straor<strong>di</strong>nario avamposto<br />

verso l'Oriente.

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