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Laocoonte: il mito e la statua nelle fonti classiche Per una lettura di ...

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etimologica, conferisce al verso grande potenza espressiva e un potenziale sonoro che sembra non esaurirsi<br />

in quel punto, quando <strong>il</strong> racconto rimane sospeso, interrotto dall’intrusione del rimpianto <strong>di</strong> Enea. Le parole<br />

dell’eroe sono caricate del<strong>la</strong> consapevolezza ex post dell’inesorab<strong>il</strong>ità, che a livello testuale si esprime<br />

attraverso un costrutto ipotetico irreale bimebre: «et si fata deum, et si mens non <strong>la</strong>eva fuisset/…Troiaque<br />

nunc staret, Priamique arx alta maneres» (vv. 54 e 56). Il polisindeto in variatio, <strong>il</strong> brusco passaggio dal<strong>la</strong><br />

terza al<strong>la</strong> seconda persona segna<strong>la</strong>no l’accorata tensione <strong>di</strong> un desiderio che sa <strong>di</strong> rimpianto per <strong>una</strong> patria<br />

ormai perduta, ma che alle nostre orecchie consapevoli giunge come annuncio che altre saranno le mura che<br />

s’innalzeranno sopra le ceneri <strong>di</strong> quel<strong>la</strong> Troia <strong>di</strong>strutta, unde altae moenia Romae (Aen. I, 7).<br />

L’intromissione <strong>di</strong> queste parole <strong>di</strong> Enea ha <strong>la</strong> funzione <strong>di</strong> stemperare nel rimpianto sofferto tutta <strong>la</strong> carica<br />

eversiva del gesto <strong>di</strong> <strong>Laocoonte</strong> che ancora sembra rimbombare sul<strong>la</strong> pagina, come l’alvo percosso dal<strong>la</strong><br />

<strong>la</strong>ncia.<br />

Segue ai vv. 57-198 l’improvvisa apparizione <strong>di</strong> Sinone che, con <strong>il</strong> suo <strong>di</strong>scorso ingannevole cerca <strong>di</strong><br />

persuadere i Troiani ad accettare <strong>il</strong> dono del cavallo, <strong>la</strong>sciato dai Greci per p<strong>la</strong>care l’ira <strong>di</strong> Minerva,<br />

oltraggiata dal furto del Pal<strong>la</strong><strong>di</strong>o: non accettarlo, si preme <strong>di</strong> far notare <strong>il</strong> malevolo Sinone, comporterebbe <strong>la</strong><br />

rovina del regno <strong>di</strong> Priamo. La retorica manipo<strong>la</strong>toria del greco riesce a convincere <strong>la</strong> parte troiana, quando<br />

aliud maius multoque tremendum si offre agli occhi degli astanti, quasi a stab<strong>il</strong>ire l’affidab<strong>il</strong>ità delle parole<br />

<strong>di</strong> Sinone, a corroborarne <strong>la</strong> vali<strong>di</strong>tà. Quello che segue è per i Troiani un segno inequivocab<strong>il</strong>e, è <strong>il</strong> monito<br />

del<strong>la</strong> vendetta <strong>di</strong>vina.<br />

Col v. 199 infatti inizia <strong>la</strong> concitata descrizione del<strong>la</strong> morte <strong>di</strong> <strong>Laocoonte</strong> e dei suoi figli: <strong>il</strong> verso, scan<strong>di</strong>to<br />

fonicamente da un’insistita allitterazione del<strong>la</strong> <strong>la</strong>biale, marcato lessicalmente da <strong>una</strong> serie aggettivale<br />

incalzante all’insegna del<strong>la</strong> grandezza e del<strong>la</strong> turbolenza dell’evento, in<strong>di</strong>rizza l’attenzione del lettore e attira<br />

lo sguardo dei Troiani verso quell’altare dove <strong>Laocoonte</strong>, prossima vittima sacrificale, in qualità <strong>di</strong> sacerdote<br />

tratto a sorte da Nettuno, sta per immo<strong>la</strong>re un grande toro: «Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos /<br />

solemnis taurum ingentem mactabat ad aras» (vv. 201-202. Ma ecco che a interropere <strong>la</strong> solennità del rito<br />

sopraggiungono dal mare tranqu<strong>il</strong>lo gemini angues, due serpenti immensis orbibus. Una battuta fuori campo<br />

ci consegna l’orrore <strong>di</strong> Enea nel raccontare quae ipse miserrima vi<strong>di</strong>(t) / et quorum pars magna fui(t) (Aen.<br />

II, 3-4). Enea è lì, è presente, assiste con orrore all’evento che, proprio in qualità <strong>di</strong> testimone <strong>di</strong>retto, egli<br />

può raccontare nei partico<strong>la</strong>ri più inquietanti che ora, al<strong>la</strong> corte cartaginese, gli si affacciano al<strong>la</strong> mente nel<strong>la</strong><br />

veste <strong>di</strong> segno incontrovertib<strong>il</strong>e delle fine <strong>di</strong> Troia. Ben otto versi sono impiegati nel<strong>la</strong> descrizione<br />

dell’avvicinarsi dei serpenti al lido: <strong>il</strong> loro moto <strong>di</strong> avanzamento è deciso, inesorab<strong>il</strong>e; essi solcano i flutti<br />

con determinazione, scagliati come dar<strong>di</strong> infuocati ( e i loro occhi sono ardentis e suffecti sanguine et igni)<br />

verso <strong>il</strong> loro bersaglio: «Illi agmine certo / Laocoonta petunt» (vv. 212-13). La scena, inquietante, tocca qui<br />

<strong>il</strong> culmine del<strong>la</strong> tensione: primum, l’abbraccio mortale implicat corpora duorum natorum e le loro membra<br />

(miseros artus) subiscono lo strazio dei morsi. L’attenzione è senz’altro posta sul<strong>la</strong> corporetità, sul<strong>la</strong><br />

concretezza e consistenza <strong>di</strong> quei corpi avvinghiati dalle spire: non i loro volti sconvolti, non le loro grida e<br />

<strong>il</strong> loro terrore, ma i loro parva corpora e i loro miseros artus.<br />

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