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Dove danzano gli angeli - Stefano Emanuele Ferrari

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Da casa non uscivo quasi mai, nonostante le continue<br />

sollecitazioni di mia madre. Uscire per fare cosa? Andare dove? Non<br />

c’era più il ragazzino che si nascondeva nella piazzetta aspettando la<br />

conta, che giocava spensierato a calcio sul sagrato della chiesa, che<br />

camminava nei boschi o correva in bici solo per il gusto di andare<br />

lontano, che trascorreva lunghi pomeriggi attorno alla fontana<br />

sognando di diventar grande. Non c’era più. Era solo un ricordo, una<br />

fotografia. Anche i vecchi amici non c’erano più. Chi se ne era andato<br />

via per lavoro, chi, col mutare del tempo, era diventato una semplice<br />

conoscenza. Solo Raffaele era rimasto. Se ne stava rinchiuso in casa<br />

anche lui, piegato sui suoi studi giuridici. A volte passavo a salutarlo,<br />

discutevamo della realtà che ci circondava, compatendoci a vicenda.<br />

Non avevo più nulla a che fare con questo paese dove la vita<br />

scorre quieta e sempre uguale. Mi sentivo un estraneo tra queste<br />

persone dalla vita programmata, tra questi giovani presto appagati e<br />

senza più grandi pretese – una casa col giardino curato, una macchina<br />

nuova ogni cinque anni, qualche buon film alla televisione per non<br />

addormentarsi subito, la pizza il sabato sera con la fidanzata, la notte<br />

al pub con la solita compagnia, la partitella a calcio la domenica, le<br />

ferie pagate, qualche foto per raccontare a<strong>gli</strong> amici la settimana di<br />

vacanze, e poi di nuovo, e ancora, e ancora, tutto già scritto, per<br />

giorni, mesi, anni, fino a quando ci si scopriva vecchi.<br />

Mi chiedevo spesso come facessero. Era mancanza di<br />

immaginazione, o cosa? O forse ero io che stavo sba<strong>gli</strong>ando tutto,<br />

che non riuscivo ad accontentarmi delle piccole cose?<br />

A volte invidiavo la loro tranquillità. Ma poi venivo assediato da<br />

mille dubbi. Erano felici davvero di quella vita? Oppure si erano<br />

rassegnati a fingere? Magari al punto tale di immedesimarsi nella<br />

parte?<br />

Lentamente scivolavo nella solitudine. Mi aggrappavo alle<br />

telefonate per un soffio di vita. Ma non sempre ne traevo beneficio.<br />

Rendevano ancora più evidente il mio isolamento. E non potevo mai<br />

dare libero sfogo alla mia frustrazione. Con <strong>gli</strong> amici bisognava<br />

sempre difendere una reputazione. Barcollo ma non mollo, lo spirito<br />

da usare, scherzarci sopra. Nei momenti di difficoltà conti in una<br />

mano le persone con cui riesci veramente a confidarti. Con le altre va<br />

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sempre messa in scena una commedia, non ti riesce di to<strong>gli</strong>ere la<br />

maschera, di spo<strong>gli</strong>arti e mostrare le tue debolezze. Chi desidera una<br />

persona che piange se stesso? La società non perdona i deboli. È<br />

cinica. Finge pietà ma si specchia in quei volti per trovarsi mi<strong>gli</strong>ore. E<br />

vanno tenuti sempre alla giusta distanza, i deboli. Si può rischiare di<br />

farsi trascinare nella loro miseria. Me<strong>gli</strong>o non mostrarsi troppo, mi<br />

sono sempre detto, l’importante è avere una persona con la quale si<br />

possa uscire di tanto allo scoperto, piangere se ci va, per non tenersi<br />

tutto dentro. Ma non è semplice comunque.<br />

Anche con Emanuela avevo qualche difficoltà. Certo, sapeva che<br />

stavo male, ma sorvolavamo quasi subito. Mi parlava spesso del<br />

lavoro, battibecchi, piccoli incidenti e avvenimenti all’interno di quel<br />

ristorante nel centro storico di Roma. La nuova assunta che è lavativa<br />

e non sa fare niente, il proprietario isterico che a volte dà di testa, i<br />

clienti che ci provano, i piatti rotti. Si era stancata di quella vita:<br />

«Finita l’estate smetto!» mi diceva, e adesso la sentivo determinata<br />

«Inizio un corso per agente turistico, è da tanto che ci pensavo, mi<br />

sono già informata». E io che faccio? mi domandavo. Aspettavo, e<br />

non sapevo neanche io cosa. Forse un aiuto che non avevo il<br />

coraggio di chiedere, per uscirmene da qui, da me stesso. «Quando ci<br />

vediamo?» le domandavo. Lei temporeggiava sempre: «… è un casino<br />

adesso, lo sai!». Finché un pomeriggio mi chiamò entusiasta, aveva<br />

trovato una camera: «È bellissima, spaziosa, luminosa, il letto grande!<br />

A settembre mi trasferisco! Non vedo l’ora! Domani verso la<br />

cauzione. Sei contento amore mio? Potrò finalmente ospitarti!». Per<br />

lei, adesso, tutto era a posto, pianificato. Indaffarata com’era, non<br />

sentiva il peso dei giorni, ma io non riuscivo a scrollarmelo di dosso.<br />

E non facevo altro che pensarci.<br />

La noia mi teneva prigioniero di me stesso.<br />

Lu<strong>gli</strong>o non era ancora finito.<br />

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