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Sempre meno diritti, sempre meno certezze, sempre meno tutele, sempre meno garanzie: questa la drammatica realtà del mondo del lavoro da diversi anni a questa parte che diventa, purtroppo, giorno dopo giorno ancor più preoccupante per la spaventosa crisi finanziaria che sta attanagliando il Paese e che finisce tra l’altro per ingrossare quel ben noto esercito formato da coloro che il lavoro lo hanno perso o non lo hanno mai avuto e che appartiene a quella triste realtà chiamata disoccupazione. Per capire l’attuale stato delle cose, però, è giusto tornare con la mente a qualche decennio fa quando i grandi potentati economico-finanziari nel mondo occidentale riuscivano a convincere un po’ tutti gli attori della vita politica ed economica che flessibilità avrebbe fatto rima con opportunità e che sarebbe stata la nuova frontiera del mondo del lavoro. E così oltre alla destra che ha nel proprio dna (a meno che non trattasi di quella cosiddetta sociale) una visione del lavoro poco attenta alle tutele e alle garanzie, la grande finanza riusciva a convincere anche la stragrande maggioranza della sinistra e del sindacato. Non possiamo infatti dimenticare che fu il centrosinistra, con l’allora ministro del lavoro Treu nel 1995, ad introdurre con il cosiddetto “pacchetto Treu” i primi elementi di flessibilità. La flessibilità, si diceva, sarà la panacea ai mali del sistema, produrrà più occupazione e nello stesso garantirà la possibilità di cambiare più volte lavoro. Cosa chiedere di più: fine della conflittualità sociale e dell’inferno della disoccupazione, spazio ad un mondo dorato ricco di opportunità. Come purtroppo sappiamo, però, niente di tutto questo, il risultato che si otterrà, in Italia poi più che altrove, è quello di tradurre la parola flessibilità in precarietà, con lavoratori sottopagati, con meno diritti, e con l’impossibilità di sindacalizzazione a causa della tipologia stessa del contratto di lavoro, sempre a termine e delle sempre più piccole dimensioni delle stesse aziende. Conclusione: fine di un sogno e ritorno ad Fuori dalla MISCHIA di Valentino Mingarelli Il lavoro che non c’è una realtà avara di diritti e certezze, che non si conosceva ormai da molti decenni. Detto questo ecco giunti ai giorni nostri dove, dopo la fine ingloriosa del berlusconismo di governo che con la sua massiccia dose di populismo economico-sociale aveva ancor più acuito l’ormai inarrestabile perdita di diritti dei lavoratori, ci vediamo costretti a dover far fronte ad una spaventosa crisi (a mio avviso voluta pìù dai potentati economico-finanziari che dagli errori della stessa classe politica) e soprattutto ad un attacco senza precedenti ai diritti dei lavoratori. In nome del Paese da salvare, paradossalmente gli stessi attori che provengono da quel mondo che è la causa stessa della crisi che viviamo, vengono a proporre, o meglio ad imporre scelte dolorose a chi, a differenza loro, ha già poche garanzie e bassi redditi. “Dobbiamo salvare il Paese” è lo slogan ricorrente di questi tecnocrati imposti alla guida dell’Italia e giù tasse, tagli di servizi, riduzioni di stipendi e pensioni e ancor più mano libera nei confronti dei diritti dei lavoratori. A mio avviso non è questa la soluzione del problema, o meglio può essere questa una medicina amara ma inevitabile da dover mandar giù in questa fase con la minaccia di una morte improvvisa della nostra economia, ma per ridare fiato ad un Paese in crisi profonda si devono scegliere altre strade, concertate con le forze sociali e non imposte dall’alto. Non si può avere la presunzione di voler cambiare le abitudini degli italiani senza aver avuto il mandato a governare dagli stessi, e senza concertare le grandi scelte. I cambiamenti epocali, caro presidente del consiglio pro tempore, prevedono percorsi lunghi e condivisi, altrimenti dobbiamo purtroppo riconoscere che la nostra democrazia è sospesa e al governo c’è una dittatura della finanza. Non si può quindi immaginare di poter risolvere i problemi ingrandendo ancor di più la platea dei meno tutelati, non è questa la strada da seguire. Da che mondo è mondo, è chiaro che più aumenta lo scontro sociale, più diminuiscono i diritti dei lavoratori e più male si vive. Un Paese dove sempre più ampio diventa il divario tra ceti sociali non potrà essere altro che un Paese di ineguaglianze e diversità. Al contrario, invece, rafforzando i diritti dei lavoratori si migliora il sistema Paese: la via da seguire non è quella della riduzione dei diritti, ma quella dell’allargamento. Mi permetto al fine di chiudere con una provocazione, ma non troppo: l’articolo 18 non va tolto a coloro che lavorano in aziende con più di quindici dipendenti, ma esteso a quelli che operano in quelle con meno di 15 dipendenti. La diversità di trattamento anche tra gli stessi lavoratori non è buona cosa. Riflettete tecnocrati….. riflettete! 19