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Coltrane e l’India<br />
prodotto la musica americana in assoluto. In essi <strong>il</strong> sistema modale<br />
è sempre meno esclusivo, diversamente combinato con altri<br />
urgenti st<strong>il</strong>emi tecnico-espressivi, facendo diventare diffic<strong>il</strong>e individuare<br />
anche <strong>il</strong> centro tonale, che indubbiamente c’è, ma è come<br />
se non ci fosse, o forse non c’è, ma è come se ci fosse, seppur<br />
sfumato e indefinito. Coltrane, assoluto e coerente nel modo di un<br />
Cec<strong>il</strong> Taylor, equ<strong>il</strong>ibrato e pulsante nel modo di un Ornette<br />
Coleman, teso e abbagliante nel modo di un Don Cherry, procede<br />
come in un incantamento su un territorio arg<strong>il</strong>loso senza punti fissi,<br />
senza strade principali e nemmeno sentieri secondari, arrivando a<br />
momenti concitati ma con, alla base del proprio animo, una apparente<br />
ritrovata serenità, o forse meglio una disperata rassegnazione,<br />
che può apparire come melanconica serenità. È la vertigine di<br />
una angoscia rassegnata che vuole fare perdere dimensione all’arte,<br />
per conferirne invece alla vita, che sentiva ormai sfuggirgli.<br />
Aveva deciso, all’inizio del 1966, di prendersi sei mesi sabbatici<br />
per studiare esclusivamente proprio la musica classica indiana,<br />
rinunciando a tutti gli impegni concertistici e di registrazione, per<br />
studiare con Ravi Shankar a Los Angeles, nella sua scuola; ma<br />
non fece in tempo perché morì poco prima, <strong>il</strong> 17 luglio 1967, a quarant’anni.<br />
g<br />
McCoy Tyner (<strong>Jazz</strong> Disposition)<br />
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