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E domani - Anna Lussignoli

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E <strong>domani</strong>


La fotografia sul retro di copertina è di Elisabetta Del Medico<br />

Marco Serra Tarantola<br />

editore<br />

Corso Zanardelli, 52 - 25100 Brescia - Tel. 030.49300<br />

www.tarantola.it<br />

email: editore@tarantola.it<br />

Ogni riferimento a fatti e persone della vita reale è puramente casuale<br />

ISBN 978-88-95839-35-6<br />

© Tutti i diritti riservati<br />

Il committente esonera espressamente l'editore da ogni e qualsiasi responsabilità<br />

discendente dagli scritti contenuti nel libro garantendo di tenerlo indenne da qualsiasi azione e danno<br />

che potrebbe a lui derivare per la pubblicazione del libro


<strong>Anna</strong> <strong>Lussignoli</strong><br />

e <strong>domani</strong><br />

Marco Serra Tarantola Editore


“Alla mia cara Miriam”


La viaggiatrice<br />

Corpi diafani senza contorni muovevano le impressioni di Veronica.<br />

Piano si rompeva il silenzio ad ogni fermata. Qualcuno saliva. Qualcuno<br />

scendeva.<br />

Billie salì alla fermata di mezzo. Quella in cui è troppo tardi per tornare<br />

indietro. Troppo presto per sentirsi arrivati. Lontani da ogni meta. I<br />

loro cenci facevano da scudo l’un l’altro. Il punto di non ritorno delle<br />

percezioni era già sorpassato. I corpi di quella gente si scontravano.<br />

Si toccavano. C’era ribrezzo nei loro visi. Troppi colori, troppi dialetti<br />

mescolati.<br />

Veronica era seduta e pensava. Intanto il paesaggio cangiava le prospettive.<br />

Si cascava in basso. Si risaliva. Ed era una relazione lunga ed<br />

incomprensibile quel viaggio. Una simbiosi di tratti e ricordi. Le immagini<br />

della gente di questo tempo. Di tutti i tempi. Bisognava cogliere<br />

il taglio giusto. Educarsi al battere d’ali delle farfalle. Cercare di non<br />

calpestare le formiche. Fondersi con la natura. Con la sua vita. Con la<br />

propria.<br />

Veronica guardava fuori dal finestrino, mentre il bus traballante la portava<br />

a San Francisco. Il corpo bianco e fragile si cibava dei fruscii che<br />

scorrevano dietro al vetro. Spazi rossi e ramati, terrosi e sconfinati sfumavano<br />

in lontananza senza che anima viva li abitasse, senza voci.<br />

Tutto esisteva intorno al bus. Tutto senza rumori.<br />

Il tramonto rincorreva il volo degli uccelli e si appoggiava sul profilo<br />

dentato dell’orizzonte.<br />

Veronica non sapeva quale forza la cullasse in giro per il mondo. Erano<br />

anni che non si fermava. Anni che andava a caccia dei segreti sinceri<br />

della gente. Anni che attraversava stazioni di pelle umana e porti fatti<br />

di fantasia. Anni che s’interessava ai nei delle persone negli aeroporti<br />

e che comprava biglietti di sola andata verso la luna, per vendetta contro<br />

la pesantezza della terra… Anni che come il fuoco sollevava le sue<br />

fiamme verso l’alto.<br />

5


Veronica aveva cambiato diverse città. Si era indurita nelle metropoli<br />

e si era ammorbidita nei villaggi. Aveva cacciato, perseguitato i suoi<br />

sogni per sentirsi nuova sempre. Aveva ricercato la bellezza delle cose,<br />

guardato attraverso i buchi dei propri occhi l’anima degli altri. Gli stessi<br />

occhi con cui ora intravedeva il suo profilo argentato nello specchietto<br />

retrovisore. Era come un’onda falsata. Irreale e priva di proporzioni.<br />

Non riusciva a vedersi bene. Lo specchio dispettoso ingoiava la sua<br />

immagine. Catturava i suoi io concedendole solo un riflesso genziano<br />

soffuso.<br />

Veronica allungava le gambe davanti a sé, ma solo un po’ perché lo<br />

spazio era esiguo.<br />

Alcuni ragazzini come punti impazziti di un videogame giocavano alla<br />

sua destra. Due bambini urlavano e reclamavano il loro posto.<br />

Tutti erano pigiati sul quel vecchio trabiccolo diretto alla culla della<br />

beat generation: San Francisco.<br />

Veronica si nascondeva in larghi vestiti e alcune cicatrici le stravolgevano<br />

il cuore. Ripensava alla sua semplice vita nella sua semplice città.<br />

Ripensava alle sue scelte, agli “aut aut”, alle sue leggerezze e si chiedeva<br />

che cosa la spingesse ancora alla ricerca teoretica di se stessa lungo una<br />

strada polverosa dentro le lande aranciate californiane. La medesima<br />

ricerca che era iniziata in una stretta stanza di provincia, quando s’interrogava<br />

sul perché avesse la sconcertante sensazione che qualcosa in<br />

questa vita non andasse. Salvo poi ascoltare, però, gli Smith e perdersi<br />

nell’azzurro dei giorni estivi con un attimo di gioia nel cuore.<br />

Correva a piedi nudi quando gli altri portavano le scarpe. Si librava,<br />

dentro una schiumosa bolla di sapone, s’impegnava a scoprire la linea<br />

che la separava dal vedere il mondo illuminato, rispetto al punto di<br />

rottura dove tutto è spezzato: odori, suoni, luci.<br />

Billie era accanto a lei e non faceva che studiarla per vederla, guardarla,<br />

capirla. Che cosa c’era dietro quella maglia spiegazzata? Quale mondo<br />

si celava nei suoi letti disfatti e nella consapevole lontananza dalle meschinità?<br />

Cosa era quell’ essere ribelle?<br />

6


Veronica era folle, indubbiamente, dietro gli occhiali spessi, però, non<br />

aveva mai venduto l’ anima. Il suo corpo, quello forse sì, l’aveva venduto.<br />

Il corpo non era importante, era solo un’appendice. Uno strumento<br />

che lei aveva deciso di usare in molti modi: per il piacere e per<br />

il dolore.<br />

Aveva voglia di consumarlo, anche su quel mezzo scassato che la stava<br />

portando verso nuove mete, nuovi viaggi, nuove vite da indagare.<br />

E intanto il filo dei pensieri di Veronica si snodava come un treno in<br />

corsa:<br />

“Oggi vorrei andare lontano. Sì proprio oggi. Vorrei prendere il primo<br />

volo disponibile e lasciarmi tutto il vento alle spalle. Vorrei arrivare<br />

lassù in alto, guardare rimpicciolirsi la mia città e lasciarmi andare verso<br />

un nuovo mondo, fatto di culture che si incrociano e di dialetti che si<br />

arrampicano l’uno sull’altro. In verità ancora non saprei dove andare.<br />

Non ho viaggiato molto, ma nemmeno troppo poco per non sapere che<br />

una volta arrivata, qualunque sia la meta, si può imparare qualcosa.<br />

Bisognerebbe che tutti lasciassero il proprio Paese almeno una volta.<br />

Fosse solo per vedere l’alba su un lato del mondo opposto al nostro.<br />

Un briciolo di mondo nuovo per me lo vorrei oggi. Provare l’emozione<br />

di una stretta di mano con una nuova superficie, con una nuova sfaccettatura<br />

di vita. Non dimentico comunque che ogni angolo di realtà è<br />

importante, come quando cammino ad Agosto per le strade della mia<br />

città addormentata dal sole caldo, che impone di nascondersi dietro le<br />

tende nelle case appoggiate sulle vie del centro. Se si cammina piano<br />

si possono sentire i rumori delle televisioni accese nei salotti. Qualche<br />

suono a ricordare che l’anima di una città non si spegne mai, nemmeno<br />

quando il deserto estivo porta tutti nelle affollate località turistiche.<br />

Oggi vorrei andare lontano dove la terra è polverosa e dorata, dove c’è<br />

tanto da scoprire, dove non importa più da dove vengo, ma conta solo<br />

dove andrò.<br />

Oggi vorrei andare lontano, vicino ad un oceano azzurro che s’infrange<br />

7


sui miei sogni, sui miei desideri. Sì, oggi lontano andrei volentieri per<br />

capirne un po’ di più, per vedere un po’ di più di questo mio mondo.<br />

Per non rimanere sempre incollata alle mie tradizioni, ma per assaggiarne<br />

di nuove. Per mangiare un cibo diverso, mentre ascolto il suono<br />

delle milioni di vite che ancora non conosco, che mi stanno aspettando<br />

per spiegarmi l’etimo di una parola nella loro lingua, per farmi provare<br />

una tradizione religiosa che non ho mai sentito prima. Potrei incrociare<br />

lo sguardo di un’altra cultura, un’altra educazione e lasciarmi sedurre<br />

dagli occhi imbronciati del pezzo di cielo che ancora mi manca.<br />

Oggi vorrei andare lontano, accartocciare questa piccola città nella<br />

pallina dei ricordi che mi appartengono, che verranno sempre con me<br />

anche quando rotolerò su suoni diversi. Il ricordo di me stessa verrà<br />

via con il corpo, ma soprattutto con il mio spirito e sarà lì, quando la<br />

mia immagine rispecchierà odori impregnati di sconosciuto e di nuovo.<br />

Certo che i ricordi verranno con me in giro per il mondo, per non farmi<br />

dimenticare da dove vengo, per permettere agli occhi di vedere bene<br />

attraverso la mia esperienza, l’esperienza degli altri.<br />

Oggi vorrei andare lontano, portando con me tutti i tramonti che mi<br />

attendono lì, dall’altra parte del mondo, sulle lastre ghiacciate di tutto<br />

quello che non ho visto mai e potrebbe scivolarmi via, ancora prima di<br />

avere avuto il tempo, ancora prima di avere avuto il coraggio o forse,<br />

ancora prima di avere avuto il desiderio di afferrarlo e farlo mio.<br />

Oggi vorrei andare lontano, modulare le prospettive. Volare dove i tratti<br />

e i colori si mescolano sulla tela irregolare di orizzonti appena accennati,<br />

per poi esplodere dentro diversi esseri umani che s’incontrano, si<br />

stringono la mano e imparano il valore della diversità.<br />

Oggi andrò all’aeroporto. Solleverò le mie fiamme verso l’alto per incontrare<br />

nuove terre, nuovi profili, nuove aspettative.<br />

Prenderò un aereo, un autobus, un auto, me stessa e andrò lontano, molto<br />

lontano. Proverò a conoscere gli altri, a imparare gli altri e allora,<br />

forse solo allora potrò provare a curare alcuni tra i più grandi difetti del<br />

mondo: l’incapacità di sognare e di tenere sempre aperta la mente”.<br />

8


Veronica non capiva fino in fondo perché fosse nata con quel difetto:<br />

la voglia di sognare e di tenere aperta la mente. Desiderava sempre<br />

scardinare le regole che stavano sospese sopra di lei… o forse era lei<br />

sospesa sopra le stesse? Aveva voglia di vagabondare in un mondo a colori.<br />

C’era, però, un prezzo da pagare. Ci voleva coraggio. Ce ne voleva<br />

tanto per essere figlia di una preghiera chiamata libertà, per accettarne<br />

la narrazione e rendersi schiava del nihil che spesso ne è epilogo. Ci voleva<br />

coraggio per non sciupare i giorni dimenticandosi di sorridere, per<br />

guardare le fette di luna e le ombre ripiegate all’alba. Era necessaria<br />

molta forza per seguire le orme che il mare ogni poco cancella.<br />

Billie questo non lo capiva. Che cosa muoveva le attese di lei?<br />

Lei era fatta di felicità impossibili, ma da vivere, di scatole vuote e di<br />

particolari che si perdevano nelle bambole con cui ancora giocava.<br />

Ella stessa era la sua bambola preferita, soprattutto quando si metteva<br />

su un bus per San Francisco con accanto Billie.<br />

Billie, da uomo disattento quale era, perdeva i silenzi nelle conchiglie<br />

ai margini del viso di Veronica.<br />

Lui e lei erano una crisi del mondo, erano il pezzo che non s’incastrava<br />

nel puzzle perfetto, gli outsiders, il peccato, l’errore.<br />

Eppure lui le pettinava la testa mentre lei trascinava appresso a sè desideri<br />

leggeri.<br />

Disegnavano i contorni delle loro mani come i bambini che teneramente<br />

provano a riprodurre le cose, forse perché credono che rendendole<br />

statiche le capiranno, ma niente è statico.<br />

Billie e Veronica avevano voglia di meravigliarsi, di immaginare nonostante<br />

il tempo che passa, avevano voglia di andare all’origine della<br />

sensibilità. Desideravano scavare nelle percezioni. Per questo Billie<br />

trasformò in regalo un’idea. Aveva donato a Veronica un sogno: una<br />

piccola fata dai lunghi capelli biondi sarebbe andata a trovare Veronica<br />

9


ogni notte di luna piena. Una piccola fata nata da abili mani nella terra<br />

che nessuno conosce. Una fata dagli occhi di vetro e dal viso smaltato<br />

l’avrebbe condotta dove lui non era capace, dove il suo limite lo bloccava.<br />

L’avrebbe portata dove la vita ed il tempo erano pieni di lei.<br />

Le vecchie leggende raccontano di elfi, gnomi, di streghe, di maghi,<br />

principesse e regni incantati. Noi non abbiamo mai tempo di ricordarlo<br />

sotto il peso opprimente di orologi, sveglie ed agende di appuntamenti.<br />

È in questo modo che ci allontaniamo dai nostri sogni. Studiamo, lavoriamo,<br />

amiamo, o fingiamo di farlo, e perdiamo la voglia di scoprire<br />

la strada, di prendere ancora una volta un bus sconosciuto. Abbiamo<br />

paura, ma soprattutto abbiamo poca memoria.<br />

Diventiamo adulti e scendiamo sulla terra. Non prendiamo più treni,<br />

non inseguiamo più le nebbie dell’alcool in un bar o, se lo facciamo, è<br />

per le ragioni sbagliate. Diventiamo adulti. Diventare adulti significa,<br />

però, diventare uomini?<br />

La fatina di Veronica custodiva i suoi sogni in fondo al cuore, mentre<br />

le pietre rendevano dissestata la strada ed il bus saltellava su tutte le<br />

buche.<br />

Billie non era come Veronica, però sapeva fare altre cose. Sapeva stringere<br />

gli occhi senza chiuderli del tutto, soltanto leggermente. Sapeva<br />

cogliere il punto luce nelle corse di Veronica.<br />

Il loro viaggio era come una trottola che gira e gira e gira… Una trottola<br />

fabbricata a mano in qualche solaio o bottega di paese all’ombra<br />

di un’era medioevale qualche centinaio d’anni fa. Eppure già le mani<br />

dell’artista avevano visto il suo prezioso equilibrio. Quale legge fisica<br />

poteva spiegare davvero questo fenomeno? Così, esattamente come<br />

una trottola, Veronica e Billie ricercavano un equilibrio a metà tra il<br />

sogno e la realtà, tra la terra ed il cielo.<br />

E mentre la trottola continuava a piroettare in circolo il giorno si<br />

dissolveva nel tramonto e la mano di Billie danzava con quella di<br />

10


Veronica. Perché Billie e Veronica erano una cosa delicata, lontana<br />

dagli occhi indiscreti del mondo. Billie esisteva accanto a Veronica,<br />

mentre i loro sguardi trasparenti si perdevano nel frastagliato orizzonte<br />

lontano.<br />

11


PRIMA PARTE


I<br />

Nello specchio guardavo un’immagine che rifletteva le prime rughe,<br />

i segni di un’età che non mi ero quasi accorta di vivere. Fuori dalla<br />

finestra alcuni bambini giocavano beffandosi l’un l’altro, grazie alla<br />

loro carne giovane e morbida ridevano, ma non intenzionalmente,<br />

anche di me e della mia pelle invecchiata.<br />

Avevo sempre pensato di poter dire tante cose, ma soprattutto credevo<br />

che a qualcuno interessasse. Questo rivelava un grande errore di<br />

concetto, infatti chiusa nella mia stanza non vi era alcuna telecamera<br />

del mondo pronta a cogliere l’innata perspicacia, né l’abilità nel ricercare<br />

sinonimi che mi contraddistingueva.<br />

Una leggera penombra avvolgeva la mia tesi di laurea insieme ai tentativi<br />

di capire qualcosa di più sulla vita e sull’amore, tentativi sempre<br />

improduttivi di soluzione alcuna. Cercavo di risolvere problemi<br />

leggendo valanghe di libri, partecipando a circoli intellettuali d’ultima<br />

generazione, comprando collane enciclopediche su vari temi che<br />

uscivano ogni lunedì con il giornale. In realtà riempivo scaffali di<br />

sapere che non interiorizzavo e che altro non faceva che impolverare<br />

ancora di più la mia intelligenza.<br />

Giulia, la mia migliore amica, non si lasciava ossessionare dalle soluzioni<br />

stampate, lei preferiva il cammino per arrivare all’obiettivo,<br />

la strada le piaceva più del traguardo e una volta arrivata alla meta<br />

non ci trovava nulla di così interessante. Per questo non collezionava<br />

15


enciclopedie, non leggeva qualsiasi cosa, ma sceglieva solo gli autori<br />

giusti. Non andava a tutte le mostre, ma amava l’arte conforme al suo<br />

percorso, alla sua formazione.<br />

Giulia, estremamente elevata intellettualmente, era cinica, ma pur<br />

terribilmente affascinante: aveva tutto ciò che a me era sempre mancato:<br />

coraggio, carisma e anche un pizzico di bellezza, o forse fascino.<br />

Da bambine giocavamo insieme nel cortile vicino a casa, mentre<br />

il sole risplendeva sulla pelle e i cuori inconsapevoli del futuro si<br />

avvinghiavano a quanto di più caro potesse esistere: il mio topo di<br />

peluche bianco e la sua bambola bionda senza un occhio. Ben diverse<br />

dalle due quasi donne con ruoli impacchettati nelle scatole della<br />

vita, che si cercavano per bere un caffè oggi.<br />

Lei si era sistemata con un impiego, ben retribuito - a quanto affermava<br />

- in un piccolo comune vicino a casa. Io insegnavo in un liceo<br />

in città. Ci telefonavamo spesso, ci coccolavamo e “messaggiavamo”<br />

(che vocaboli può creare l’evoluzione moderna: messaggiare???)<br />

“Pronto sono Giulia…”<br />

La sicurezza della sua voce mi placava lo spirito, dopo il piccolo<br />

sussulto che il mio cuore involontariamente faceva ad ogni squillo<br />

del telefono, per il timore e il desiderio di essere cercata. Per la generazione<br />

nata sul finire degli anni 70 un cellulare che s’illumina è la<br />

soluzione al senso di solitudine e disagio grazie ai i nuovi modi di comunicare:<br />

“ :-; .! ;o) xxx tvb1kdb rx”: immediati ed efficaci simboli<br />

per riempire un’emozione. Un cellulare che s’illumina può lenire la<br />

confusione e aiutare ad inserirsi nel nuovo mondo caratterizzato da<br />

un linguaggio che è sempre più veloce ed incomprensibile. Un mondo<br />

dove si parla in fretta, ma purtroppo si pensa anche molto in<br />

fretta.<br />

“Ciao Giuly, come stai…?”<br />

16


Risposte rituali a domande rituali. La tribù dei cellulare-dipendenti<br />

è telegrafica.<br />

“... Quasi bene. Bene è una parola troppo grande per me… Ci vediamo<br />

stasera?”<br />

“Si stasera…”.<br />

Certo che ci saremmo viste la sera, non dovevo occuparmi del Pil<br />

nazionale, né di sanare il debito pubblico, non ero una pop star che<br />

avrebbe tenuto un concerto indimenticabile a Milano o Roma. Ero<br />

decisamente ed infelicemente libera.<br />

Presagivo una serata intrisa di confidenze e pettegolezzi ormai noti.<br />

Cambiavano i nomi, ma le situazioni che ci raccontavamo erano sempre<br />

le stesse da anni.<br />

Dovevo uscire dalla stanza, fuori era quasi buio e l’aria profumava di<br />

ghiaccio. L’Italia in quel periodo dell’anno era un po’ malinconica,<br />

anche se i turisti che invadevano le vie delle città d’arte, come Roma<br />

e Venezia, nei weekend non avrebbero condiviso il mio pensiero.<br />

Le strade riflettevano i presagi dell’inverno e forse l’umore dei passanti,<br />

che in autunno guardano sempre in basso e, confusi dai loro<br />

pensieri, distolgono l’attenzione dalla luna pallida. Lei, ignara delle<br />

umane piccole preoccupazioni, irriverente osserva la Terra e, forse,<br />

qualche volta sorride delle sue imperfezioni.<br />

Attraversate le poche strade che separavano i nostri appartamenti,<br />

bussai alla porta scrostata di Giulia. Mi aprì. I capelli scoordinati,<br />

riccioluti e gli occhi profondi. Dietro di lei la passione di una rosa<br />

in un vaso, appoggiato sulla cassettiera, un po’ datata, regalatela da<br />

sua madre. Il mobile era formato da una struttura in legno con un<br />

coperchio di cristallo trasparente sotto il quale c’erano infilati i momenti<br />

della vita di Giulia: una foto di quando aveva tredici anni e<br />

scorreva l’asfalto sui pattini a rotelle (quelli a quattro ruote della Fischer<br />

Price non certo gli ultramoderni Rollerblade), una di quando<br />

eravamo state a Mykonos per le vacanze della maturità, sorridevamo<br />

sull’abbronzatura che s’infilava dentro i costumi colorati di un’estate<br />

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lontana in cui, raggiunto il diploma, pensavamo che tutto sarebbe<br />

stato solo spensieratezza, libertà, felicità.<br />

C’era anche la foto di lei con Luca quando per la prima volta aveva<br />

dormito da lui, quando per la prima volta a 25 anni aveva permesso<br />

ad un uomo di entrarle nel cuore e nel letto, quando finalmente aveva<br />

spalancato le porte ad un’alternativa al caffellatte consumato in<br />

solitudine la domenica mattina. Era un viso disteso, incorniciato da<br />

un pendaglio al collo con incisa in oro bianco una “G”. Era il viso<br />

di quando si era appena svegliata nel letto con Luca e aveva perso le<br />

ore a giocare con lui prima di alzarsi, impedendo a qualsiasi evento<br />

esterno, estraneo di uccidere l’amore. In quell’immagine, leggermente<br />

meno nitida ai bordi, il suo sorriso non era stato ancora cancellato<br />

dal tempo seguito alla disillusione per Luca. Luca ancora non l’aveva<br />

guardata negli occhi dritta dritta dicendole: “Non mi interessa<br />

assolutamente più niente di te. Sto uscendo con un’altra e mi piace.<br />

Fattene una ragione. Mettici una pietra sopra. Dimentica. Io non ci<br />

penso quasi più. Perdonami, ma la nostra storia mi prosciuga ormai<br />

ed io non ne ho più bisogno”. Luca ancora queste cose non gliele<br />

aveva dette, quando lei tra le lacrime gli sussurrava:<br />

“Come fai a dire che non ti manco, che non t’importa nulla, che stai<br />

meglio così. Tutto quello che mi hai detto allora forse non era vero,<br />

perché se lo fosse stato come può essere finito? Come puoi guardarmi<br />

quando ti passo davanti e non desiderarmi ancora? Perché tutto<br />

finisce qui?”<br />

Le fotografie non portavano il segno di quella disgrazia: la disgrazia<br />

di non crederci più, il male di capire che purtroppo tutte le storie<br />

hanno una trama, ma soprattutto un epilogo.<br />

Nella foto Giulia mostrava un viso disteso e lucido, lontano dalla<br />

porzione di noia e disattenzione riservate ad ognuno di noi.<br />

Sopra a quei momenti del “prima” intrappolati sulla carta c’era un<br />

vetro di cristallo che isolava il passato dal presente e costituiva la<br />

parte superiore della cassettiera. Appoggiato sopra le foto un vaso di<br />

18


vetro lavorato conteneva la rosa rossa che andava essiccandosi. Nessuno<br />

degli uomini da lei amati gliene aveva mai regalata una, tuttavia<br />

adorava questo fiore e nella sua casa ce n’era sempre almeno una,<br />

magnetica e seducente, quasi come se stesse aspettando di essere ammirata<br />

dal primo sconosciuto, che volendo avere il cuore di Giulia si<br />

sentisse un po’ in competizione con il misterioso donatore del fiore.<br />

Sotto i riccioli neri che le cascavano dispettosi sulle spalle, un pigiama<br />

corto infantile la copriva, mentre gli occhioni ambrati sgranavano<br />

il suo disincanto.<br />

Strizzò le palpebre. Disse di andare in cucina. Doveva parlarmi.<br />

Ci sedemmo, lei giocava con la mia borsa, poi piegò le ciglia e<br />

iniziò:<br />

“Mia zia ha una casa a Los Angeles ed io ho voglia di cominciare<br />

una nuova vita, soprattutto da quando Luca mi ha lasciata. La casa<br />

sarebbe gratis… Stasera volevo chiederti tu che ne avresti pensato di<br />

partire con me. So che qui non sei davvero soddisfatta, che il lavoro<br />

ti piace, ma i ragazzi non ti ascoltano mai e poi lo stipendio è quello<br />

che è… Dici sempre di annoiarti…”.<br />

Ero senza parole. Quante volte nella vita mi sarebbe piaciuto viaggiare,<br />

andarmene lontano in un posto senza nome, in un tempo indefinito<br />

sospeso tra realtà e fantasia. Quante volte avevo desiderato<br />

vederlo un po’ il mondo.<br />

Avevo l’occasione di fare la valigia e di lasciarmi tutto alle spalle: la<br />

mia piccola città, la scuola e gli occhi disinteressati dei miei alunni,<br />

una famiglia confusionaria con due sorelle e un fratello più piccoli<br />

di me. Non ero mai vissuta da sola, non mi ero mai dovuta occupare<br />

di riordinare casa, né di fare la spesa. Un supermercato quasi non<br />

sapevo come fosse fatto. E ora? Ora avevo una strada davanti a cui<br />

non avevo mai pensato.<br />

“Giulia, ma sei sicura? Io dovrò licenziarmi, e poi ci sono i miei genitori,<br />

sai sono sempre stati piuttosto apprensivi. Come la prenderanno?<br />

La California è dall’altra parte del mondo. E poi quanto tempo<br />

19


dovremmo stare via? Per sempre?”<br />

Lei appoggiò dolcemente il mento sul tavolo e sorrise divertita:<br />

“Non esiste il per sempre e possiamo tornare tra un mese, tra un<br />

anno, comunque prima di per sempre”.<br />

C’era anche il problema del mio inglese per nulla fluente, della mia<br />

scarsa abilità di adattamento, della mia incapacità di arrangiarmi da<br />

sola.<br />

Cos’era però questo rispetto a posti che ancora non conoscevo, a<br />

persone che non credevano disegnata la mia presenza nella loro vita<br />

? Come l’impeto di un uragano, la mia voce disse:<br />

“Quando?”<br />

Mi stupii di averlo detto, non era da me. Persona piuttosto banale<br />

che leggeva le sue verità nei libri stampati, che cercava le risposte in<br />

una canzone degli Smith. Non mi distinguevo di certo grazie al mio<br />

aspetto ordinario, né avevo mai fatto nulla per modificarmi, forse<br />

perché le scomodità delle belle non mi calzavano. Tacchi alti e seduzione<br />

mi avrebbero reso solo più goffa di quanto già non fossi.<br />

Allora, però, le cose sarebbero potute cambiare. La mediocrità della<br />

mia vita avrebbe potuto abbandonarmi e con lei anche le insicurezze<br />

legate alla voce tremante e alle gambe imperfette. Le mie gambe certo<br />

non “parlavano quando si muovevano” 1 .<br />

Giulia non aveva bisogno di viaggi e avventure. Lei era capace di risolvere<br />

tutto tra le quattro mura della sua casa. Sapeva chi chiamare,<br />

chi l’avrebbe portata fuori a cena, quale libro leggere e abbandonare<br />

sul letto, quale incisione tatuarsi sul cuore e quale sfregio dimenticare<br />

e superare. Ma io… Io avevo un cellulare che s’illuminava raramente,<br />

su due mani al massimo stavano quelli che avevano il mio<br />

numero e una mano era occupata dalla mia famiglia. Il venerdì sera<br />

lo passavo quasi sempre davanti al televisore e il sabato non era altro<br />

che un giorno qualunque. Io sì che dovevo andare.<br />

“Quando partiamo?”<br />

1 Kundera: “amori ridicoli”.<br />

20


“Molto presto, anche tra qualche settimana”.<br />

Mi sentivo volare al di sopra di un filo fatto di aspettative e dolci<br />

illusioni. Con passi lenti e sguardo sognante mi avviai verso la porta<br />

e uscii di casa. Le luci della notte non mi parevano ostili come al<br />

solito e l’espressione della gente si era trasformata da diffidente e<br />

circospetta a aperta e solare. Il mio umore stava cambiando e già<br />

presagivo un leggero senso di libertà, come se avessi avuto le ali ai<br />

piedi. Volai a casa.<br />

21


II<br />

La radio in cucina suonava una vecchia canzone, di quelle che nessuno<br />

ricorda, e mamma stava finendo di riordinare la confusione generata<br />

dalle mie sorelle.<br />

Marta e Chiara: diciassette e sedici anni, piene di vita e contraddizioni,<br />

calate nella fase dell’esistenza in cui ci si adira per uno sguardo rifiutato<br />

o per due chili di troppo sulla bilancia. Vivevano di momenti,<br />

di batticuore, di speranze e di sogni. Esaltavano la vita nei tatuaggi<br />

e con poesie scritte di nascosto durante l’ora di latino s’incidevano<br />

il corpo.<br />

“Miriam, tesoro, dove sei stata?<br />

Ferme le parole in gola, non avevo pensato a quel momento, al viso<br />

amorevole di mia madre, al suo affetto e al suo bisogno di me, che<br />

però non sfociava mai in egoismo o imposizione di scelte sue piuttosto<br />

che mie. Mentre le altre ragazze vivevano conflitti interminabili<br />

con madri nevrotiche e depresse, io scherzavo con la mia sull’ironia<br />

della sorte, sugli scherzi che la stessa ci gioca. Chissà se anche questa<br />

volta avremmo riso, se lei avrebbe capito oppure se le sarebbero cascati<br />

i capelli davanti alla fronte per nascondere gli occhi ingigantiti<br />

dalla tristezza. Uscì solo un esile:<br />

“Mamma devo andare in camera, ho i compiti da correggere e poi c’è<br />

il consiglio di classe lunedì”.<br />

Quel “lunedì” mi morì in gola.<br />

22


Abbandonato il clima domestico, lasciai dietro di me un alone di parole<br />

non dette. Non ero riuscita ad affrontare il primo ostacolo, dove<br />

volevo andare? Non avevo avuto il coraggio di superare il primo problema<br />

conseguente alla mia scelta. Questa volta non si trattava di<br />

far accettare alla mia famiglia un fidanzato troppo grande o troppo<br />

piccolo, troppo povero o troppo ricco, troppo tatuato o imbranato.<br />

Si trattava della prima scelta seria che riguardava me e soltanto me.<br />

La possibilità di fuggire da un mondo in cui avevo sempre sentito<br />

mancarmi qualcosa per andare verso luoghi nuovi. Non sapevo se<br />

sarebbe durata per sempre, ma avevo dietro di me tante delusioni e<br />

ancora non riuscivo ad accettarle e vederle come semplici gradini di<br />

crescita.<br />

Tanta vita dietro di me, ma anche tanta vita ancora davanti a me avevo,<br />

che forse poteva davvero essere come io volevo.<br />

Un buco nello stomaco mi straziava il fisico e mi chiedevo con quali<br />

parole avrei parlato con la mia famiglia, ma soprattutto come avrei<br />

giustificato a me stessa l’irrefrenabile desiderio di fuga e di pace che<br />

sentivo nascermi dentro? Come iniziare un discorso volto a spiegare<br />

il bisogno di una formazione interiore che ancora non avevo raggiunto?<br />

Come spiegare le radici profonde che mi muovevano o raccontare<br />

la ricerca di un equilibrio sempre sperato, ma mai trovato?<br />

Avevo perso l’equilibrio psichico necessario alla scelta di essere felice.<br />

Perché essere felice è una scelta, non una condizione il più delle<br />

volte. Era rimasto invece il desiderio di fuga, ma in ogni desiderio di<br />

fuga c’è sempre un motivo. Si può dire agli altri che si è spinti dalla<br />

voglia di novità, ma si sta mentendo e quando si mente agli altri si<br />

mente solo a se stessi. Io avevo motivi per andarmene, degli ottimi<br />

motivi.<br />

Forse aveva giocato un ruolo determinante il tradimento che avevo<br />

subito da Mattia.<br />

Ricordavo perfettamente il momento in cui lo scoprii.<br />

Era un pomeriggio estivo, mi sentivo sicura di una vita già scritta,<br />

23


danzavo mollemente nei tratti incerti del sorriso di Mattia, gli accarezzavo<br />

le labbra e mi nascondevo tra i suoi capelli. Trovavo rifugio<br />

nei gesti sicuri, nelle sue frasi d’amore. Credevo in lui, quasi come se<br />

quell’uomo potesse appartenere ad una specie aliena che non conosce<br />

tradimento, crudeltà e ipocrisia. Poi finì tutto. Entrai nella “nostra”<br />

casa e lo vidi stretto a lei: un’altra donna. Era bastato un attimo<br />

ed eravamo già lontanissimi. La “nostra” casa in un baleno tornò<br />

quella che era: solo e soltanto la sua casa.<br />

Forse volevamo le stesse cose quando dandoci le spalle in mezzo agli<br />

altri ci tenevamo la mano e lui mi accarezzava le dita. C’era un contatto<br />

tra noi e volevamo le stesse cose anche quando lui mi disse che<br />

per innamorarsi di me avrebbe potuto metterci una vita, ma anche<br />

solo un secondo se io gli avessi portato la luna. E la luna gliela portai<br />

davvero. Dipinsi una luna enorme e gliela regalai. Lo guardai e gli<br />

chiesi:<br />

“Io la luna te l’ho portata e ora?” Lui incredulo rispose: “Questa è<br />

sicuramente la storia d’amore più bella che io abbia mai avuto”.<br />

Eppure niente gli impedì di sgretolare tutto. Smise di credere in noi<br />

forse molto prima del momento in cui sgranai gli occhi e lo vidi con<br />

un’altra donna. Non invidiai a Mattia quel tradimento. Sarei stata<br />

anche io capace di farlo, ma non volevo. Gli avrei rubato però volentieri<br />

la capacità di distaccarsi così dalle cose, dai sentimenti, dalle<br />

persone. Le nostre strade si divisero lì. Volarono via tutte le emozioni.<br />

Da allora cominciai ad avere incubi, le notti si allungarono e tutto<br />

divenne un’immensa distesa di paure, incertezze, sfiducia e ancora<br />

paure. Nacque dentro me la voglia di fuggire, di allontanarmi, di<br />

dimenticare. Volevo solo dimenticare, distruggere il contatto fisico<br />

e psicologico tra me e il resto del mondo. Cercavo un confine da oltrepassare<br />

per pulire le chiazze di un passato che mi aveva costretto<br />

ad accettare l’abbandono dell’amore. Dopo avermi stretto i fianchi<br />

per anni Mattia aveva voltato le spalle al mio viso pallido e scavato.<br />

Il mio desiderio di fuga era nato lì, con quel tradimento. Eppure<br />

24


come raccontare quelle sensazioni al corpo ossuto di mia madre?<br />

Come spiegare la genesi di quella che sarebbe stata una svolta nella<br />

mia vita?<br />

Salita in camera la stanza era buia, ma le tende permettevano alla<br />

luce della luna di entrare. Le persiane appena socchiuse si inchinavano<br />

davanti al cielo e sul muro si muovevano le ombre degli alberi<br />

sulla strada. Un profilo imperfetto schiacciava la mia personalità e lo<br />

specchio impietoso non mi dava tregua. Decisi che era l’ora di andare<br />

a letto, mi lasciai cadere tra i cuscini e sognai.<br />

25


Il sogno<br />

Le mie ciglia erano pesanti, che cosa era successo? Un ambiente<br />

bianco mi circondava, tutto era pulito. I piedi diventati zavorra m’incespicavano<br />

i movimenti. Nulla intorno sembrava potermi liberare<br />

dalla nausea che penetrava fin nelle viscere più profonde, le ossa legate<br />

m’impedivano il respiro.<br />

Finalmente rividi la luce.<br />

Quanto tempo era passato? Giorni, mesi, anni? Che cosa mi aveva<br />

strappato alla tranquilla quotidianità per gettarmi in un tunnel oscuro<br />

di cui non ricordavo nulla?<br />

Avevo deciso: dovevo alzarmi da quel piccolo letto in ferro, spostare<br />

le lenzuola candide e ben curate, per muovermi verso la verità.<br />

Volevo a tutti i costi capire. Difficoltosamente mi destreggiai tra i<br />

pochi mobili anonimi della stanza, presi coraggio e mi avviai verso<br />

la porta sprangata. Abbassai titubante la maniglia, con un leggero<br />

cigolio mi aprii la strada. Ogni passo mi costava una fatica infinita,<br />

come se l’intero universo mi fosse avverso. Gli abiti che indossavo<br />

all’apparenza confortevoli, erano in realtà leggeri e il vento soffiava<br />

contro la carne. Un brivido gelido tagliava il corpo. Entrai in un labirinto<br />

e la paura mi assalì. Che cosa avevo sbagliato? Perché mi trovavo<br />

in un luogo tanto sconosciuto? Addentrata in una serie infinita<br />

di cunicoli, un rumore sordo attirò la mia attenzione. Moltitudini di<br />

finestre irregolari, mal curate, sporche bucavano la stanza. Al centro<br />

un tavolo liscio a cui erano sedute alcune persone senza volto, senza<br />

segni somatici. Parlavano a tratti animatamente e a tratti si zittivano.<br />

Cosa dicevano? All’inizio non capii e poi una sola parola trapassò i<br />

vetri, le mura, le percezioni e il ricordo di tutto quello che ero stata<br />

o avevo provato ad essere.<br />

“È morta. Purtroppo non abbiamo potuto salvarla da quel tragico<br />

incidente”. Balbettò una donna. Appoggiò le braccia sul tavolo e si<br />

26


assegnò sulla sedia.<br />

“Noi abbiamo tentato. Aveva solo 22 anni”. Rispose un uomo.<br />

Capii e voltandomi di scatto cominciai a correre verso il nulla. Il<br />

cuore batteva forte, un vortice di sensazioni travolgeva ogni punto<br />

del mio essere. Ero fatta di molecole che si disperdevano.<br />

Corsi per un tempo indefinito. Mi fermai in una dimensione irreale,<br />

davanti a me un solo oggetto: uno specchio sospeso nel soffio del<br />

tempo che passa. Mi avvicinai, presi coraggio e allora la vidi. Era lì.<br />

La mia anima con tutti i suoi dubbi, le sue paure, le sue debolezze.<br />

Com’era bella e leggera. Avrei potuto volare, allora che cosa mancava?<br />

Che cosa m’impediva di andarmene? Alzai lo sguardo, il guizzo<br />

dei miei occhi incrociò il destino vestito di stracci e inorridii… Ero<br />

morta, camminavo nel mondo dei morti, perdevo i denti, mi cascavano<br />

in mano. Il cranio liscio non era più protetto dalle cascate di<br />

capelli. Le mani sanguinavano ed io pensai che avevo commesso un<br />

errore, un solo piccolo errore che mi sarebbe costato la vita, la libertà:<br />

non gli avevo detto che lo amavo. Avevo scordato un dettaglio<br />

nello scorrere del tempo. Avevo fatto finta di nulla, lasciando che le<br />

pieghe della carne s’insidiassero in me e non ero riuscita nemmeno a<br />

dire un semplice “ti amo”. Continuai a guardare lo specchio. Lo afferrai.<br />

Lo rovesciai a terra. Si ruppe in mille pezzi. Dietro lo specchio<br />

c’era qualcuno. Lui.<br />

Emisi un urlo infinito. Mi svegliai.<br />

27


III<br />

La mattina seguente un pallido sole solleticava le palpebre. Il breve<br />

sogno era offuscato dai problemi routinari. Tanto per cominciare la<br />

sveglia non era suonata. Sarei arrivata davanti ai volti dei miei ragazzi<br />

con un certo ritardo, ottima ragione per legittimare un brusio intermittente<br />

dalle otto all’una.<br />

Scelsi senza cura gli abiti da indossare: la solita camicetta insignificante<br />

abbinata con poca fantasia ad una gonna scozzese assolutamente<br />

fuori moda.<br />

Pescavo dall’armadio sempre abiti larghi, poco pretenziosi. Dipingevo<br />

la mia personalità con altri stratagemmi: l’intelligenza, il carisma<br />

e altre stupidaggini del genere. Non mi consideravo brutta, ma certo<br />

non mi impegnavo ad avere uno stile.<br />

Non era sempre stato così. Ricordavo benissimo quando avevo quindici<br />

o sedici anni e il mondo mi pareva fatto solamente di baci, di<br />

emozioni forti, di corse in motorino senza casco… Perché si sapeva,<br />

il casco era poco “in” e noi ragazze fashion victims volevamo mostrare<br />

i capelli, il viso troppo truccato, ma soprattutto la sbavatura<br />

intorno agli occhi che faceva tanto punk cattiva e ribelle.<br />

Da adolescente non avrei mai pensato che la vita mi avrebbe riservato<br />

una classe di occhi annoiati o una scrivania di seconda mano<br />

nell’ultima stanza dell’ultimo corridoio del mio istituto superiore.<br />

Dicono che valga la teoria del piano inclinato per cui quando una<br />

28


cosa va male tutto peggiora a catena. In effetti dopo il tradimento<br />

di Mattia era successo esattamente questo. Che cosa era crollato?<br />

Forse la mia sicurezza di essere sempre la migliore, la più bella o la<br />

più intelligente.<br />

Mattia era un uomo straordinario, uno di quegli uomini che presenteresti<br />

ai genitori, della cui etica non dubiteresti mai. Aveva una<br />

morale, peccato che i suoi principi non fossero con lui la notte in cui<br />

lo vidi abbracciato ad una rossa nel letto della sua casa al mare.<br />

Ignara di tutto, ma armata di buoni propositi mi ero decisa a fargli<br />

una sorpresa, andare da lui senza avvertirlo, così perché mi andava<br />

di farlo. Semplicemente. Dal momento che negli ultimi tempi frequentemente<br />

litigavamo, avevo pensato di regalargli un’emozione<br />

che rispolverasse le antiche passioni e tutto l’amore che ci eravamo<br />

voluti. Evidentemente però lui un modo di vivere nuovo l’aveva già<br />

trovato.<br />

E fu proprio allora, in quel preciso momento che tutta la mia vita<br />

cambiò, fu allora che guardai il mondo con occhi diversi. Non ricordo<br />

l’età che avevo, ma in quell’istante io non fui più una bambina.<br />

Mi sentii sola, disperata e inutile, vuota. Dove erano finiti i miei sogni,<br />

le cene fatte in casa, mentre parlavamo di noi, del nostro essere<br />

una cosa sola. E il lavarsi i denti al mattino con lo stesso spazzolino?<br />

Dove erano le mie lacrime sulle sue spalle? Quando era successo?<br />

Quando era finito tutto? Perché dimenticava tanto in fretta le pizze<br />

alle quattro del mattino che ci tappavano lo stomaco dopo aver fatto<br />

l’amore? Perché soprattutto dimenticava l’amore? Quando un amore<br />

finisce e soprattutto quando cominci a non credere più nell’amore,<br />

bensì nell’impersonale fine di un sentimento? Quando sbatti la testa<br />

contro un muro fino a che non sanguina come il tuo cuore? Quando<br />

giuri a te stessa che crescerai, che diventerai forte, che la prossima<br />

volta non farai più questo errore? L’errore di amare.<br />

È un errore amare? Non l’ho mai pensato. In realtà ero stata risucchiata<br />

in una relazione banale, domestica, ripetitiva fatta di promesse<br />

29


sotto i riflettori e di menzogne sottobanco. Faceva acqua da tutte le<br />

parti, ma in modo ottuso continuavo a fissarmi su Mattia e sulla sua<br />

faccia d’angelo. Quante volte ci si ostina sul bravo ragazzo, su quello<br />

che mamma e papà approvano, su quello che ottiene il benestare di<br />

parenti ed amici, quello laureato, ricco, “normale”. Mattia era molte<br />

di queste cose: bello, intelligente, buono a detta di molti, ma non sapeva<br />

gestire a lungo la quotidianità di una relazione, per questo con<br />

il passare del tempo mi aveva messa da parte stringendo attorno a<br />

me un cerchio isolante. Dato che con il passare degli anni mi trovavo<br />

sempre più spesso a dover fare i conti con le domande degli altri,<br />

avevo accettato di stare con Mattia ben oltre la data di scadenza.<br />

L’impatto che la società ha sul nostro orologio biologico con frasi del<br />

tipo: “Guarda che non hai più vent’anni”, “non sei più una bambina”,<br />

“devi crescere”, “non puoi rimanere adolescente a vita” avevano<br />

avuto la loro parte nell’accanirmi a portare avanti ad ogni costo il<br />

corpo di un sentimento ormai morto. Invece che seppellire quel corpo<br />

cercavo di resuscitarlo in ogni modo. Nel cercare di seguire alla<br />

lettera i consigli altrui, mi trasformai in una persona vecchia dentro,<br />

priva di voglia di fare, incapace non solo di ridere, ma cosa ancor più<br />

grave di piangere. Alla disperata ricerca di una situazione comoda,<br />

negai a me stessa che l’unica pace che si possa davvero trovare è<br />

quella svincolata dalle opinioni esterne. Intrappolata alle pressioni<br />

esterne che gravavano sul mio capo vissi gli ultimi mesi con Mattia,<br />

donandogli soltanto una serie di momenti spenti e ovvi. Passai un<br />

periodo molto lungo a guardare spesso la televisione: m’impediva<br />

la concentrazione e faceva rumore. Avevo iniziato ad odiare il silenzio.<br />

La notte soprattutto non finiva mai ed era il momento peggiore<br />

perché era lì che avevo tempo di riflettere e sospettare. Sospetti che<br />

divennero reali un caldo pomeriggio d’estate in cui la radio suonava:<br />

“Io vorrei trovare un senso a questa storia anche se questa storia un<br />

senso non ce l’ha”. Feci il salto da cui non si torna più indietro: vidi<br />

il tradimento di Mattia. Non mi stupii troppo perché lo percepivo da<br />

30


molto che la regola del nostro amore non era più essere in due, ma<br />

almeno in tre: unico modo per andare avanti. Forse per questo decisi<br />

di fargli una sorpresa nella sua casa al mare, perché volevo vedere<br />

con i miei occhi quello che già sapevo.<br />

In pochi passi fui in classe. La mattinata trascorse serena nonostante<br />

le previsioni negative, i ragazzi non si accorsero nemmeno del mio<br />

ritardo. Mentre la mente già volava su altre scelte, su scenari diversi:<br />

atmosfere irreali e lontane.<br />

La lezione finì in fretta con le biro che sentendo la forza di gravità<br />

caddero sui banchi, mentre i ragazzi correvano a casa.<br />

La quercia nel cortile della scuola oscurava i motorini parcheggiati.<br />

Era la stessa quercia che aveva visto le primavere della mia tenera<br />

età, quando da ragazzina mi davo appuntamento lì con le amiche<br />

per leggere le poesie di Montale e Neruda. L’albero era grande e rassicurante<br />

nello stesso modo in cui lo era quando guardavo il cielo e<br />

mi chiedevo se sarebbe stato più limpido un giorno. Era forte, come<br />

quando sorridendo mi ci nascondevo dietro per non farmi vedere,<br />

prima di fuggire sulla sella posteriore di un motorino verso il caldo<br />

sole di Maggio sulle colline della mia città. Cercai di ricordare la sensazione<br />

di libertà che quei pochi momenti mi davano, ma mi accorsi<br />

che facevo fatica ad immaginare di essere proprio io quella ragazza.<br />

Erano davvero la stessa persona l’insegnante in grigio ai colloqui con<br />

i genitori e la giovane donna in jeans che prendeva il sole con i primi<br />

due occhioni scuri che la facevano sentire un po’ meno inadeguata?<br />

Era la stessa Miriam quella che correva per le vie del centro per gettarsi<br />

tra le braccia del suo grande amore e quella che si svegliava con<br />

le occhiaie da notte insonne per il conto in banca sempre in rosso?<br />

In quel momento mi sembravano due entità completamente divise<br />

da un muro fatto di maturità, di crescita e di percorsi definiti ed intrapresi.<br />

Come se tutte le scelte, le emozioni, i libri letti, le sigarette<br />

fumate, i viaggi, gli amori fossero serviti solamente a dimenticare la<br />

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ambina dubbiosa che disegnava grandi punti di domanda sul suo<br />

banco durante le lezioni di latino. Invece di consolidare una preziosa<br />

fragilità mi accorsi di aver costruito una sorta di indifferenza apatica<br />

verso l’esterno: avevo sviluppato una totale incapacità di stare bene e<br />

anche di stare male. Non riuscivo ad apprezzare le piccole cose. Non<br />

sapevo più apprezzare quello che avevo sulla punta delle dita.<br />

Mancavano anche i momenti in cui arrabbiata con il mondo mi chiudevo<br />

in camera mia e ficcavo la testa sotto il cuscino per assaporare<br />

il gusto della vita.<br />

Era giunto il momento di cambiare qualcosa. Forse quel viaggio al<br />

limite della follia, che Giulia mi aveva proposto, dall’altra parte del<br />

mondo, era un segno che dovevo assecondare. Sentii la decisione<br />

diffondersi in me in modo autonomo. Se mi concentravo su quella<br />

questione mi sentivo di nuovo instabile, insicura, incerta eppure vedevo<br />

i pezzi ricomporsi in un nuovo quadro che già mi apparteneva.<br />

Un quadro che dovevo ancora scarabocchiare, immaginare, ma che<br />

esisteva già. Dovevo solo tirarlo fuori dalla mia mente. Ma sì, quasi<br />

quasi io me ne andavo via.<br />

I tacchi delle scarpe sfioravano le vie del centro, ogni tanto un foglio<br />

di giornale vi si incastrava per poi dissolversi tra mille altri sconosciuti<br />

passi. Ero quasi davanti a casa di Giulia.<br />

Stava uscendo: “Pensavo saresti arrivata più tardi, comunque entriamo”.<br />

La seguii e osservai i larghi pantaloni, sempre contro tendenza. Giulia<br />

non aveva mai avuto la necessità di seguire le mode, la sua bellezza<br />

era l’unica particolarità di cui aveva bisogno, gli occhi grandi,<br />

grandissimi, le labbra dall’incarnato spesso e scuro le bastavano per<br />

incantare il mondo, insieme al suo profilo perfetto.<br />

“Hai ragionato sulla mia proposta? Lo sguardo eloquente mi supplicava<br />

una risposta affermativa.<br />

Sentii la testa andare su e giù. Avevo scelto, per una volta avevo scelto.<br />

E l’avevo fatto da sola senza i miei genitori, senza un uomo o un<br />

32


qualunque mentore. Ero pronta ad assaporare i preparativi, l’eccitazione<br />

di una piccola valigia al mio fianco.<br />

“Pensi che saremo capaci di sopravvivere in un posto come L.A.?<br />

Pensi che dovrei comprare qualcosa in particolare? E il biglietto<br />

aereo quando lo prendiamo? Domani? Oggi?” Mi sentivo la testa<br />

scoppiare in un vortice di incertezze.<br />

“Miriam non preoccuparti, farò tutto io. Partiremo la prossima domenica<br />

e il biglietto io te lo avrei già comprato… Certo è un seconda<br />

classe con tre scali, ma credo che non sia importante per ora”.<br />

Abbracciai la mia migliore amica e fui grata al cielo di averla di fronte<br />

in quel momento, perché mi stava regalando una nuova storia, anche<br />

se pareva non avere nessun senso. Ma allora del senso di quella<br />

situazione non mi importava nulla. Volevo scrivere un nuovo tempo.<br />

Solo questo contava.<br />

Così salutai Giulia e andai a casa.<br />

Quella sera mia madre capì che qualcosa di inaspettato stava per succedere.<br />

Il vento cambiava direzione e lei apostrofò: “Miriam, tesoro,<br />

cosa ti succede?”<br />

Tagliai ogni tipo di riflessione:<br />

“Domenica prossima parto, lascio la scuola, vado negli Stati Uniti,<br />

a Los Angeles con Giulia. Cercheremo un lavoro, vivremo a casa di<br />

sua zia. Almeno all’inizio..”<br />

Calò il silenzio. Nessuno disse niente a parte un flebile: “Hai trent’anni…,<br />

ma ci mancherai lo stesso”.<br />

Strinsi forte ogni membro della mia famiglia e raccolsi i frammenti di<br />

una sicurezza che ai miei cari non apparteneva più. Non cercarono<br />

di dissuadermi.<br />

Dicono che quando si cresce il rischio è quello di smettere di sognare.<br />

E se diventare grandi significasse invece smettere di fare piccoli<br />

sogni per farne sempre più grandi? Grandi come noi.<br />

33


Se a diciannove anni si pensa o dice qualcosa nessuno la considera,<br />

tutti credono che siano illusioni adolescenziali, ma se le stesse cose<br />

le si dice a quarant’anni hanno una risonanza diversa, soprattutto se<br />

ci si è costruiti potere intorno. In questo caso il desiderio di potere<br />

e l’impegno per ottenerlo avrebbero un senso: portare avanti grandi<br />

sogni. Io non avevo quel genere di potere, ma avevo i miei grandi<br />

sogni. Era già un buon punto di partenza.<br />

34


IV<br />

In coda al supermercato per comprare gli ultimi pezzi d’Italia mi<br />

chiedevo se mi sarebbe servito realmente il detersivo per il bucato,<br />

in fondo andavo in America non in Sud Africa. “Comunque non si sa<br />

mai che chiudano tutti i negozi e non funzioni più nessuna laundry,<br />

meglio essere previdenti”. Pensavo.<br />

Laundry era una di quelle parole che mi ero occupata di cercare sul<br />

vocabolario insieme a job, meals e private room. Infatti la prima cosa<br />

che avrei dovuto fare una volta arrivata sarebbe proprio stata quella<br />

di cercare un lavoro, nonché soddisfare i bisogni biologici maslowniani.<br />

Non preoccupatissima, anzi divertita al pensiero della mia goffaggine<br />

di immigrata m’immaginavo già là.<br />

Gli stranieri hanno sempre qualcosa di cui le persone “inserite” diffidano.<br />

Vengono attribuiti loro particolari ridicoli come il cattivo odore,<br />

la pelle ruvida, la scarsa propensione alla pulizia. Perché spesso<br />

non si riesce a vederli per niente altro che “diversi”. Non è concepibile<br />

che siano donne o uomini, madri, figli come noi. Si vede una<br />

diversità che non esiste e quella diversità diventa più importante di<br />

un sorriso, rivolto in modo gentile verso di noi da qualcuno che altro<br />

non vuole se non essere educato.<br />

Davanti a me si fletteva leggermente un omino nel tentativo di riordinare<br />

tutta la sua spesa da single: peperoni, insalata, yogurt magri,<br />

il tutto in rigorosa porzione monodose per finire con un bottiglione<br />

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gigante di coca cola super zuccherata e davvero poco ipocalorica.<br />

Forse quell’omuncolo leggermente tarchiato, sotto i capelli appicicaticci,<br />

unti dalla sera precedente in qualche night di periferia, era<br />

davvero convinto che una dieta equilibrata rendesse la vita migliore,<br />

salvo poi imbottirsi di bibite gassate per recuperare un po’ di gioia<br />

interiore. Il cibo può risolvere tanti problemi, ma anche crearne altrettanti.<br />

La cassiera annoiata passava distrattamente gli acquisti sul rullo. Lo<br />

sguardo giovane, avido di esperienze. Era chiaro che non ne poteva<br />

più di stare seduta a pigiare un bottone. Aveva voglia di uscire,<br />

di passare del tempo sulle scale dell’oratorio con gli amici. Era una<br />

bambina, forse quello era solo un lavoro che faceva nel weekend per<br />

guadagnarsi due soldi da portare a casa, per sentirsi meno vittima<br />

della dipendenza verso i genitori. Il suo corpo magro viveva da poco,<br />

ma sicuramente assaporava già i gusti di quell’illusione che a noi piace<br />

chiamare vita. Addentava i colori e i suoni in modo più reattivo<br />

del mio.<br />

Presi la spesa e uscii. Mi diressi verso la macchina. Avevo comprato<br />

tutto.<br />

Riordinati i pochi abiti che mi sarei potuta infilare in un clima secco<br />

come quello della California, mi tranquillizzai per aver comprato gli<br />

oggetti che volevo con me nel passaggio di abitudini. Non ero realmente<br />

convinta che sarei sopravvissuta a quell’esperienza, piuttosto<br />

mi vedevo già con la coda tra le gambe tornare a casa da mamma in<br />

un tempo brevissimo. Comunque valeva la pena provare. In fondo le<br />

cose possono andare diversamente da come uno si aspetta. I sentieri<br />

che si percorrono e le casualità che ci coinvolgono non sono prevedibili.<br />

Dietro l’angolo tutti i nostri progetti possono stravolgersi per gli occhi<br />

verdi di uno sconosciuto che ci dice: “Pensavi che la tua vita sarebbe<br />

andata così? Ti sbagliavi tesoro perché ancora non ci eravamo<br />

incontrati”. Oppure notiamo per la prima volta che qualcuno sta<br />

36


peggio di noi. Ed è allora, non prima non dopo, che ci si accorge di<br />

quanto tutte le nostre considerazioni, le nostre sicurezze siano confutabili<br />

e deboli. Passiamo la vita stendendo progetti, calcolando ogni<br />

dettaglio sul nostro futuro, dimenticando i dettagli più importanti:<br />

gli occhi di un bambino seduto sul ciglio di una strada, che ti chiede<br />

due soldi per non essere pestato al rientro da genitori violenti e sfruttatori,<br />

le impronte di un uccellino in un vaso sul nostro terrazzo, un<br />

filo d’erba che attraversa un impietoso marciapiede di cemento.<br />

Crediamo di sapere dove siamo e dove andremo, ma non ci accorgiamo<br />

che se vogliamo essere quel filo d’erba che supera le leggi dell’uomo,<br />

e solo l’uomo ha creato, abbiamo bisogno di guardare il sole al<br />

tramonto, di assaggiare una torta in un freddo pomeriggio invernale<br />

e di sentirne il sapore, di camminare per strada stringendo la mano<br />

a qualcuno, di guardare dritto negli occhi le persone che abbiamo<br />

davanti, di scaldare l’amore dentro una candela che rimane accesa.<br />

Abbiamo bisogno di queste cose ed io sentivo che le avevo perse, forse<br />

ancor prima di trovarle. Per questa ragione partivo e raccoglievo<br />

un caso della vita. La mia amicizia con Giulia sapevo mi avrebbe portato<br />

qualcosa di buono, l’avevo sempre saputo. Dentro di me c’era la<br />

convinzione che lei avrebbe potuto, un giorno, cambiare completamente<br />

tutto il senso della mia vita e da buona ragazza previdente non<br />

avevo permesso agli anni di portarmela via. Nonostante il cambio<br />

delle abitudini, i compleanni che si susseguivano e le piccole gelosie<br />

che a volte si crearono, me la tenni stretta il più possibile.<br />

Le valigie erano pronte, appoggiate, come vecchi viaggiatori assonnati,<br />

alla porta di casa. Mi mancava davvero poco all’uscita di scena.<br />

Un sipario si abbassava, un altro si sarebbe alzato. Fu allora, mentre<br />

cercavo il mio foulard preferito, che incappai in una foto di qualche<br />

anno prima. Avevo 22 o forse 23 anni e stavo abbracciata ad un ragazzino<br />

dagli occhi verdi e le ciglia molto lunghe. Era stata un’estate<br />

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calda e lunghissima. Impossibile da dimenticare.<br />

Io e Dario ci eravamo conosciuti in uno dei tanti locali che animano<br />

la riviera romagnola. Ero rimasta subito colpita da quel fascino<br />

innocente. Avevo tentato di sapere il suo nome in tutti i modi, poi<br />

scoprii che era proprietario di un piccolo hotel sul mare in cui stavano<br />

alcuni miei amici.<br />

Il nostro amore era stato molto breve: un bacio passionale fuori dal<br />

suo albergo, seguito da una passeggiata in spiaggia all’alba, quando<br />

il sole timidamente mostra il suo lato migliore. Gli ombrelloni chiusi<br />

e il rosso delle prime ore del mattino incorniciavano le nostre personalità<br />

rendendole interessanti.<br />

Ero innamorata del suo atteggiamento infantile e mi ero lasciata convincere<br />

a vedere dove viveva. La foto era stata scattata proprio lì<br />

vicino, così fu inevitabile non essere avvolta dal ricordo. Mi tornò<br />

alla mente la sua piccola stanza disordinata, la mia fretta di scappare<br />

via per poi invece finire tra le sue braccia con il cuore che mi usciva<br />

dal petto. Ricordai il timore di scoprire qualcosa di nuovo e la gioia<br />

di trovarmi proprio lì con lui. Ricordai le sue mani che prendevano le<br />

mie per poi tuffarci insieme in una spirale di sensazioni giovani e sconosciute.<br />

Allora mi trovavo in momento della vita in cui non si è più<br />

adolescenti, ma non si è ancora abbastanza grandi. Attraversavo quel<br />

particolare momento in cui ci si accorge e si prende coscienza che<br />

non si ha tutto il tempo del mondo e che, quindi, forse è meglio vivere<br />

piuttosto che pensare troppo a cosa si dovrebbe fare. Fu proprio<br />

per quelle ragioni che feci l’amore con lui, senza pensarci troppo. Fu<br />

intenso e divertente. Ridevamo del nostro non conoscerci affatto. Mi<br />

sdraiai sopra di lui e gli chiesi, fingendo un’espressione seria:<br />

“Chi sei veramente tu?”<br />

Dario incrinò verso l’alto le labbra e la sua voce secca e profonda<br />

disse:<br />

“Io sono una persona qualunque”.<br />

Era vero. Stavo facendo l’amore con una persona qualunque ed an-<br />

38


che io ero una qualunque, che usava un corpo qualunque per vivere<br />

un amore qualunque in un’estate qualunque.<br />

Riposi la foto in un cassetto. Non mi serviva chi ero o non ero stata in<br />

passato. Ora una sola cosa importava: i giorni che non avevo ancora<br />

scritto, ma che già mi stavano aspettando dietro il portone di casa,<br />

nel taxi che mi avrebbe condotto all’aeroporto.<br />

39


V<br />

Io e Giulia ci incontrammo tra i viaggiatori in partenza ed in arrivo a<br />

Milano Malpensa. Inizialmente facemmo fatica ad individuarci, poi<br />

un cenno della mano pose fine al mio disorientamento riportandomi<br />

ad una dimensione familiare a me cara.<br />

Ci sedemmo su una fredda panchina dell’aeroporto in silenzio. Noi<br />

avevamo sempre avuto un sacco di cose da dire, ci accomunava la<br />

capacità di essere pettegole su ogni argomento, eppure tra un carrello<br />

carico di valigie e il pianto di un bambino assonnato non ci<br />

scambiammo neppure una parola. Il nostro aereo sarebbe partito<br />

puntualissimo alla volta di Parigi per poi far scalo a New York ed<br />

infine arrivare alla meta: Los Angeles.<br />

Per ingannare il tempo decisi di infilarmi in uno di quei negozi in cui<br />

si crede che non essendoci le tasse da pagare tutto sia praticamente<br />

gratis. Mentre mi perdevo tra profumi di marche famose e qualche<br />

giornaletto da spiaggia feci il calcolo di quante vite ogni giorno passavano<br />

su quel pavimento. Migliaia di storie, di culture e di ideali<br />

si mescolavano davanti al bar che serviva panini e brioches calde.<br />

Rimasi affascinata dalla possibilità delle persone di girare, muoversi<br />

e scoprire. In fondo, anche se ognuno lo faceva per diverse ragioni,<br />

tutti passavano di lì. Mi voltai per studiare il mondo che mi circondava<br />

e rimasi sorpresa. Al mio fianco si trovava una famiglia, che<br />

sembrava piuttosto felice, probabilmente in partenza per le vacanze<br />

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primaverili. Lui era molto alto con abiti casual, ma curati nel minimo<br />

dettaglio: forse era un libero professionista o un imprenditore<br />

in viaggio con i figli. Pareva perfettamente a suo agio nel formato<br />

turista per caso, mentre con fare protettivo sollevava lo spallino del<br />

vestito alla moglie. Sembravano innamorati anche dopo i figli, i chili<br />

di troppo e l’evidente stress da lasciarsi alle spalle. Forse era possibile<br />

che le cose andassero anche così. Forse le cose, a volte, potevano<br />

andare anche bene. Nonostante tutto.<br />

Davanti a me un ragazzo leggeva distrattamente uno di quegli opuscoli<br />

sulla sicurezza quando si viaggia. Aveva uno sguardo rassegnato:<br />

chissà dove era diretto. Certamente non era italiano dati i tipici<br />

lineamenti nordici: capelli biondini, pelle lattea. Dava l’impressione<br />

di essere una persona fredda, magari in viaggio per lavoro o studio,<br />

oppure era in trasferta per raccogliere dati per la sua tesi di laurea<br />

in economia. Chissà perché avevo pensato facesse economia. Forse<br />

per la sua espressione da economista con quel suo costosissimo computer<br />

portatile. Io non avrei saputo nemmeno che tasto premere per<br />

accenderlo e favorire delle sue fantastiche performance.<br />

Magari, però, mi sbagliavo su di lui. Forse era venuto in Italia per inseguire<br />

un amore e il suo spirito era inquieto e triste all’idea della separazione<br />

dalla donna amata: forse si erano conosciuti in un viaggio<br />

di lei in una città del nord Europa: Amsterdam. Si Amsterdam! Lei<br />

correva in bicicletta e i loro sguardi si erano incrociati in una fredda<br />

mattinata nella Venezia del Nord e si erano innamorati. Per lui quella<br />

era stata la visione più fantastica da anni. E poi lui aveva sentito che<br />

lei entrava nella sua anima, che poteva innamorarsi di quell’arcobaleno<br />

di colori che si prospettava davanti a loro. E poi lei aveva riempito<br />

uno spazio vuoto. Lo spazio vuoto che era dentro di lui. Lei copriva<br />

quello spazio, perché quello spazio c’era. E poi avevano deciso di<br />

amarsi. Di far cadere il cielo della distanza e tra mille difficoltà il loro<br />

amore aveva resistito. Quell’amore era resistito alle notti nei Paesi<br />

lontani. Avevano superato la tristezza e tutto aveva preso il volo ver-<br />

41


so il senso più profondo della vita. O forse no… Forse la realtà era<br />

meno romantica ed era giusta la mia prima impressione: tra le pieghe<br />

della sua camicia si nascondeva la noia di un viaggio in solitudine, a<br />

caccia di dati indecifrabili nelle importanti biblioteche milanesi. E<br />

ora stava solo tornando a casa.<br />

I pensieri furono interrotti dal sopraggiungere di una ragazza che un<br />

po’ scocciata mi fece intendere che doveva pulire il pavimento e che,<br />

quindi, mi dovevo spostare. Lei, incurante delle mie macchinazioni<br />

mentali, mi spinse via.<br />

Con andatura lenta ed annoiata mi diressi verso Giulia, che non<br />

aveva cambiato posizione né espressione dacchè me ne ero andata.<br />

Quando si accorse del mio ritorno parve tuttavia rincuorata.<br />

“Miram forse non dovremmo partire…”<br />

“Giulia perché dici così, sai benissimo che in fondo questo è quello<br />

che vuoi davvero”.<br />

Appoggiò la biro con cui stava compilando delle parole crociate<br />

e con mano tremante afferrò la sua borsettina rossa. Come poteva<br />

viaggiare con così poca roba? Forse le persone belle come Giulia<br />

non hanno bisogno di nulla per sistemarsi perché sono sempre a posto.<br />

Il suo viso pallido si confondeva con i suoni dell’altoparlante, i<br />

fischi degli aerei in partenza ed il rumore metallico dei carrelli carichi<br />

di oggetti necessari quando ci si allontana da casa. Fissava la pista di<br />

atterraggio e pareva contrariata all’idea di dovercisi avvicinare.<br />

Sentii il suono della mia voce:<br />

“Forse è questo il nostro momento, forse se non lo viviamo fino in<br />

fondo ce ne pentiremo tutta la vita, forse è ora che dobbiamo prendere<br />

questo aereo senza guardarci indietro e senza pensare troppo,<br />

forse questa è l’unica occasione che abbiamo e se non la cogliamo ci<br />

guarderemo tra 10 anni indietro chiedendoci perché non abbiamo<br />

avuto coraggio. Il coraggio è certamente qualcosa di soggettivo. Per<br />

qualcuno è affermarsi in una carriera ricca di soddisfazioni economi-<br />

42


che, per altri è sacrificarsi e lottare per avere una famiglia unita, per<br />

noi, oggi, è volare in California”.<br />

Giuly non mi stava affatto ascoltando, sembrava come in trance.<br />

Davanti a noi una lunga fila di persone si accodava per ottenere un<br />

panino precotto ed immangiabile in altre occasioni, ma che gli stomaci<br />

contratti e sfasati dai fusi orari tolleravano perfettamente.<br />

Arrivò la chiamata, priva di espressioni, del nostro volo: “Tutti i passeggeri<br />

diretti a Parigi con il volo 404 sono pregati di recarsi all’uscita<br />

numero otto”.<br />

“Andiamo Giulia”. Ci alzammo e con un po’ di timore ci mettemmo<br />

in fila.<br />

L’aereo era quasi completamente pieno e l’aria condizionata mi stava<br />

uccidendo. Alcuni bambini urlavano contro la madre perché non<br />

aveva comprato loro il gioco desiderato al duty free.<br />

Io e la mia migliore amica ci accoccolammo pronte a rilassarci prima<br />

della partenza. L’hostess cortesemente ci offrì qualcosa da bere. Aveva<br />

un viso curato, occhi verdi ben disegnati all’interno della matita<br />

nera. Un trucco molto pesante, per nascondere la sua anima o forse,<br />

semplicemente, per apparire non solo carina, ma davvero bellissima.<br />

Le donne non sono mai abbastanza. Non si sentono mai abbastanza.<br />

Se sono magre sono anoressiche. Se sono in carne sono grasse. Se<br />

sono alte sono stangone. Se sono basse sono nane. Se sono more va<br />

di moda il biondo quest’anno. Se sono bionde… è tornato il castano.<br />

Le donne. Che meravigliosa contraddizione sono le donne.<br />

Anche io ero una donna.<br />

E stavo partendo. Mi lasciavo alle spalle tutto. Alla ricerca dell’indipendenza.<br />

Lontana dai miei genitori avrei finalmente capito chi<br />

ero. Domani avrei costruito qualcosa di nuovo. Lo sentivo già dentro<br />

di me. Ci stavo cominciando a credere in quel viaggio. Non poteva<br />

essere casuale la mia partenza. In realtà faceva tutto parte di un<br />

mio percorso. Potevo farlo. E partire. Potevo finalmente cambiare il<br />

corso degli eventi prestabiliti e separarmi dalla mia laurea, dai miei<br />

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amici “perbene”, dai locali fumosi che ero solita frequentare perché<br />

così avrei potuto conoscere uno come me con cui fare tanti bambini<br />

e vivere per sempre felice e contenta. Questa favola non esisteva,<br />

l’avevo sempre saputo. Al massimo si poteva aspirare ad essere brutti<br />

e contenti. Non avevo mai creduto che dietro una vita perfettamente<br />

orchestrata si potesse nascondere la felicità, ma nel mio mondo fuori<br />

dal mondo sapevo che la vera gioia doveva passare per le ruvide scale<br />

dell’indifferenza, della solitudine e dell’abbandono. Quanta infelicità<br />

ci voleva prima di essere felici? E quanto infelicità avevo passato<br />

io? Poca rispetto a molti altri che sapevano affrontare già il dolore.<br />

Io, proprio io, avevo subito un tradimento da Mattia e poi avevo<br />

passato un lungo periodo di solitudine tra la fine dell’università e il<br />

tentativo di trovare un lavoro decente, ma il percorso del mio dolore<br />

era ancora molto breve, perché in realtà avevo avuto un’esistenza parata<br />

dalla carta di credito dei miei genitori, che mi permettevano di<br />

vivere in una sorta di zoo, con tante belle attrazioni, ma mai una vera<br />

scelta. Qualche volta avevo creduto di essere fuori dagli schemi, di<br />

essere diversa e che so… persino speciale. Un’illusione enorme scoprire<br />

che la vita era fatta di un affitto a fine mese che ancora non mi<br />

potevo permettere e che, quindi, ero costretta a trent’anni a vivere<br />

sotto il tetto della mia famiglia. Non stavo male, ma mi mentivo abilmente<br />

giustificando la mia condizione dicendomi che ero un’eterna<br />

ragazzina incapace di badare a se stessa e, quindi, bisognosa delle<br />

cure di mamma e papà, che decidevano sempre per me. Non ero<br />

stata mai capace di prendere una decisione. Nemmeno per la scelta<br />

di una vacanza. Ero un disastro, non sapevo mai che cosa fare. Spendere<br />

tanto, poco, andare al mare o in una città d’arte, andarci con<br />

l’amica-sorella o con l’amore della mia vita (di quel momento)?<br />

Vivevo su un equilibrio che altri creavano per me. In fondo anche<br />

il mio amore con Mattia era finito perché lui lo aveva deciso, il suo<br />

tradimento era stata la chiave di svolta e non certo la mia determinazione<br />

nel non vederlo più. Ero sempre in bilico sulle scelte che altri<br />

44


facevano per me.<br />

Forse ora mi stavo prendendo la mia occasione di cambiare le cose,<br />

di scegliere per una volta. Di farlo io e soltanto io. Nella vita sono<br />

poche le cose certe e la scelta è una di queste. Sentivo, come un macigno<br />

sullo stomaco, il senso di colpa verso i miei genitori, ma l’avrei<br />

superato, forse non subito, ma l’avrei fatto. Per loro la lontananza<br />

sarebbe stata un lento dolore con cui imparare a convivere insieme ai<br />

capelli bianchi e al tempo che scorreva veloce fuori dalle finestre.<br />

Quello che però in quel momento ancora non capivo era che per<br />

una ragazza di provincia come me, cresciuta con le stesse due facce<br />

davanti al naso per una vita, andata a scuola dalle suore, laureata in<br />

letteratura, convinta che il quadro della realtà si chiudesse dietro la<br />

porta di un liceo, la vita sarebbe stata molto dura negli States.<br />

Non ero capace di relazionarmi con la diversità, con le diverse lingue.<br />

Ero un gattino che faceva i bagagli per la giungla pensando si<br />

trattasse di un luna park.<br />

Quello che non sapevo era che la durezza della solitudine non si<br />

sconfiggeva con una banconota da 100 $, né con una telefonata a<br />

casa in lacrime, ma avevo sul mio tavolo la possibilità di provare ad<br />

affrontarlo, dovevo solo imparare la coerenza e la capacità di non<br />

tornare indietro. Dovevo imparare che non solo non lo dovevo fare,<br />

ma che non lo potevo fare se volevo distinguermi dalle bambole fatte<br />

in serie che vivono dentro il mondo di Barbie, che comprano le borse<br />

di Louis Vuitton e che si siedono a tavoli costosi nelle discoteche<br />

della propria città pensando che non vi sia nulla oltre.<br />

Dovevo imparare a godermi una notte di pioggia vicino ad un lago<br />

desolato in silenzio, ma anche urlare perché nessuno mi aiutava se<br />

mi si bucava una gomma in autostrada e non mi rimaneva che fare 5<br />

miglia a piedi. Dovevo imparare ad amare la vita. Perché la mia vita<br />

un po’ strappata valeva tanto e non per i libri che avevo letto, né per<br />

l’abilità che avevo nel criticare un’opera d’arte. Tantomeno per le<br />

formule e le teorie matematiche o le poesie che recitavo a memoria,<br />

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ma perché io “ero”. Sentivo. Vedevo. Capivo. E amavo tutto questo<br />

di me.<br />

Dovevo comunque imparare un po’ di cose che allora, all’inizio, non<br />

potevo sapere. C’era tanto da portare con me, ma anche tanto da<br />

scoprire. Per farlo era meglio appesantirmi con un masso ai piedi ed<br />

evitare di costruire una storia irreale di un viaggio vacanza negli Stati<br />

Uniti. Partivo per superare tutte le mie paure. Per sentire i miei sogni<br />

senza il filtro di tutto il resto. Partivo per trovare il senso. Ero una<br />

persona vera che usciva da un sentiero per seguirne un altro. Un paio<br />

di colpi di sfortuna o di fortuna mi lanciavano nel mondo e perché<br />

non cogliere l’occasione fino in fondo?<br />

46


VI<br />

L.A. mi accolse con un po’ di timore, diffidavamo l’una dell’altra. Io,<br />

donna europea che mai aveva visto nulla eccetto il proprio fazzoletto<br />

di terra composto dalle venti persone con cui ci si doveva comportare<br />

bene e cui si mostrava il lato di sé sfasato e a volte un po’ falso solo<br />

perché cosa giusta da fare.<br />

L.A. era diversa. Dall’aereo pareva un’immensa landa abbagliante.<br />

Un gigante campo di luci. Tante piccole stelle, tante vite sparse<br />

per quartieri completamente diversi fra loro. Imparai solo successivamente<br />

la differenza tra Beverly Hills e Down Town, perché in<br />

quel momento mi appariva un mondo uniforme e gigantesco. Ebbi<br />

la consapevolezza del dislivello Beverly Hills-Down Town solo in seguito,<br />

quando rimasi su un autobus che attraversava tutta la città<br />

dall’alto verso il basso. Vidi il panorama cambiare, le inferriate alle<br />

finestre crescere esponenzialmente da Up Town a Long Beach. Con<br />

le grate aumentava anche la paura per una donna bianca di stare da<br />

sola dopo le 8 di sera.<br />

Questa era l’altra faccia, quella nascosta, quella di cui non avevo letto<br />

molto nelle guide turistiche comprate in libreria prima di partire.<br />

Giulia ed io trovammo facilmente la casa in cui saremmo andate a<br />

vivere. Il quartiere fresco e soleggiato tutto l’anno era vicino a S. Monica,<br />

poche fermate di autobus e si ascoltava il rumore dell’oceano.<br />

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I primi giorni furono terribili perché mi assalì il senso di malinconia.<br />

Lo stomaco mangiato dalla sensazione di vuoto e paura di aver<br />

sbagliato tutto. La tentazione di tornare indietro, di seguire la via<br />

più facile, di accasarmi di nuovo con i miei affetti consolidati era<br />

immensa. Poi cominciai la fase di adattamento al diverso e imparai<br />

a familiarizzare con i negozietti di Venice Beach, con i grandi centri<br />

commerciali e perfino con i Rollerblade vicino la spiaggia. Capii anche<br />

che in fondo il mondo non era poi così grande. Realizzai che con<br />

un aereo al massimo in 24 ore potevo tornare alla mia vita di prima.<br />

Potevo tornare a scuola. Potevo tornare a guardare la foto di Mattia e<br />

sentirlo ancora come la mia unica possibilità di essere felice. Oppure<br />

potevo restare, potevo provarci. Potevo, dovevo solo volerlo. E lo<br />

volevo davvero.<br />

Così cominciò tutto.<br />

Il fuso orario mi stava mi stava sfasando completamente il bioritmo.<br />

Erano le sei del mattino, ma avevo voglia di una pizza margherita<br />

fatta da Pasquale nel vicolo sotto casa mia in Italia.<br />

Inoltre mi sentivo estraniata dal mondo, come se ci fosse una sorta<br />

di vetro che separava me da tutto il resto, le orecchie erano tappate e<br />

l’udito mi aveva abbandonata.<br />

Decisi che dovevo alzarmi, anche se era decisamente presto. Feci una<br />

scoperta interessante. L.A. era completamente sveglia alle 7 del mattino.<br />

Le ragazze universitarie ed i business men facevano jogging vicino<br />

all’oceano Pacifico, mentre gli uccelli osservavano attentamente<br />

l’acqua in cerca di una preda mattutina. C’era fresco e tutto pareva<br />

incredibilmente calmo.<br />

Primo problema: trovarmi un lavoro, anche un lavoretto, tanto per<br />

cercare di sbarcare il lunario all’inizio.<br />

Con il mio inglese arrugginito tentai la fortuna. Dopo alcuni tentativi<br />

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deludenti ricavai un impiego, ma solo in prova al gazebo che affittava<br />

biciclette per turisti curiosi di respirare l’aria che corre tra S. Monica<br />

e Marina del Rei.<br />

Davanti a me si mescolavano animali-uomini di ogni forma e colore.<br />

Capitava di vedere l’uomo bianco con la donna ispanica, la ragazzina<br />

nipponica con il ragazzetto di colore vestito 10 taglie più grande.<br />

Imparai subito che questa era l’America.<br />

Un continente fatto di colori, di forme, di provenienze diverse. Un<br />

Paese che armonizzava religioni, culture, dialetti differenti. Un mondo<br />

fatto di sfumature, ma dotato di un forte senso di appartenenza.<br />

A S. Monica si potevano vedere miscele di ogni tipo, ma le bandiere<br />

a stelle e strisce sventolano ovunque e univano tutti. Questo fu uno<br />

degli aspetti che mi fece innamorare delle spiagge della California.<br />

Quella sensazione di movimento, di continua scoperta. Quel mondo<br />

che per un’italiana come me era solo dentro alcuni film, spesso nemmeno<br />

di alta qualità, visti al cinema in seconda serata il sabato sera,<br />

tanto per baciarsi con il fidanzato.<br />

Invece in quel momento era vero. Era tutto davanti ai miei occhi.<br />

Reale esattamente come la carbonara di mia madre la domenica. Ma<br />

era la baia californiana davanti a me con i suoi suoni, le sue voci e la<br />

sua gente: dagli artisti di strada ai venditori dei negozi, dai ragazzi<br />

free style con gli skateboards sotto i piedi alle adolescenti bionde che<br />

correvano lungo le correnti dell’oceano. La Baya California.<br />

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VII<br />

I tratti orientali dell’islamico catturarono subito la mia attenzione, era<br />

come un angelo venuto da un altro pianeta. Ricordo perfettamente<br />

il modo con cui mi si avvicinò. Lui aveva già deciso che sarei dovuta<br />

diventare la sua donna. C’era qualcosa in me che andava bene, anche<br />

se non capivo cosa visto che ero impresentabile, con i capelli sfatti e<br />

il viso segnato da una giornata di lavoro, lavoro che avevo trovato in<br />

una caffetteria intellettual-lussosa a Westwood, dopo il breve periodo<br />

al gazebo di Santa Monica.<br />

Ero strapazzata come i frappè e cappuccini che servivo ai tavoli,<br />

sembravo uscita da un frullatore. Eppure lui mi guardò da lontano<br />

all’inizio della Kelton Ave, mentre io ero sulla porta della caffetteria,<br />

si diresse verso di me, mi prese subito la mano per presentarsi quasi<br />

fosse un suo legittimo diritto farlo e, nonostante il mio inglese non<br />

fosse assolutamente perfetto, lo sentii dire:<br />

“Perdonami, ma sai che sono molto attratto da te”. Allora L.A. era<br />

anche quella cosa meravigliosa? Quel corpo perfettamente disegnato<br />

dentro una camicia di stile chiaramente italiano e quei grandi occhi<br />

neri che avrebbero potuto stravolgere il mondo di chiunque. Come<br />

era possibile resistere a tanta bellezza ed eleganza? Con voce forte e<br />

rassicurante m’interpellò:<br />

“Scusa posso sapere il tuo nome?”<br />

“Miriam, mi chiamo Miriam”.<br />

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Non capivo bene il suo strano accento ed in più costruiva le frasi in<br />

un modo in cui la mia mente ancora non poteva spiegarsi. Era chiaro<br />

però che gli piacevo e questo andava oltre qualsiasi cultura, religione<br />

o differenza linguistica. Era chiaro anche il mio interesse, anche se<br />

forse ero un po’ sospettosa verso quest’uomo che profumava di terre<br />

medio orientali inimmaginabili. Cosa ci faceva là? Cosa ci faceva<br />

proprio a quell’ora davanti a me?<br />

“Hai impegni per stasera?”<br />

Mi domandò non abbandonandomi per un solo attimo la mano.<br />

“Forse, ma tu che cosa mi proponi?”<br />

“Stasera danno “American pie 3” e vado a vederlo al cinema giù<br />

a Down Town con alcuni amici. Così pensavo che potresti venire<br />

anche tu…”<br />

Passava dal tono formale a quello confidenziale in una frazione di<br />

secondo e nello stesso momento spariva tutto intorno a me. Il pavimento<br />

su cui poggiavo i piedi gonfi e il cielo tante volte spettatore<br />

della malinconia della mia vita banale. Tutto era sparito ed era rimasto<br />

soltanto lui ed io sopra le nuvole più alte del cielo. Stavamo<br />

incominciando un volo fatto di sensazioni e respiri appena accennati<br />

e tutto era capitato così, per caso, senza una ragione precisa,<br />

mentre lavoravo. Lui avido di parole non diceva molto, ma diceva<br />

abbastanza.<br />

“Dammi solo il tempo di farmi una doccia, ne ho bisogno. Vediamoci<br />

alla multisala, diciamo tra 30 minuti. Per oggi ho finito di lavorare”.<br />

“Va bene, ti aspetterò, fai presto”.<br />

Sfoderai il migliore sorriso che in quel momento mi potevo permettere<br />

e corsi lungo Kelton Ave fino ad arrivare a casa. Nell’emozione<br />

mi si era rovesciata la borsa e non riuscivo più a trovare le chiavi.<br />

L’ascensore poi, fu lentissimo. Il cuore mi scoppiava nel petto, le<br />

mani sudavano ed io mi sentivo come una bambina di 10 anni. Mi vedevo<br />

già seduta al cinema con accanto quest’uomo bellissimo. Come<br />

aveva detto di chiamarsi? Non l’aveva detto.<br />

51


Dovevo essere all’altezza della situazione. Mi ghiacciai sotto una<br />

doccia veloce e con mano non troppo esperta cercai di fare quello<br />

che si poteva per migliorare il mio aspetto per nulla splendido. Cosa<br />

indossare? Avevo davvero poco tempo. Fortunatamente Giulia era<br />

fuori casa così non dovevo nemmeno rispondere a troppe domande,<br />

anche perché cosa potevo dire? Uno sconosciuto senza nome mi<br />

aveva chiesto di uscire, io su due piedi avevo accettato e adesso mi<br />

trovavo disperata perché non trovavo nel mio armadio uno straccio<br />

di vestito adatto a sedurre un uomo come quello?<br />

Era meglio non parlare ed agire d’impulso, senza pensarci. Il tempo<br />

scorreva e l’unico abbinamento appena decente che avevo trovato<br />

era un jeans stile anni ‘70 che mi faceva molto figlia dei fiori, ma che<br />

quantomeno mi rendeva più ragazzina, posto che in quel momento<br />

pantaloni stracciati si adattavano perfettamente al mio cervello completamente<br />

schiacciato e incapace di scegliere razionalmente cosa<br />

fare. I movimenti confusi precedevano la logica degli atti. Priva di<br />

razionalità cavalcavo gli eventi.<br />

Vi siete mai chiesti quanto sia strano che spesso ci si programmi di<br />

spaccare il mondo, di stravolgere la propria vita, di trovare l’amore<br />

ad ogni costo senza ottenere niente, mentre altre volte il destino<br />

giochi scherzi senza che noi cerchiamo nulla. Così può succedere<br />

di uscire per mesi per cercare l’amore, si può provare a frequentare<br />

locali di ogni genere per avere tutto sotto controllo, si può cercare di<br />

vestire con particolare stile per attirare l’attenzione della nostra possibile<br />

anima gemella, affannarsi nel disperato tentativo di realizzare<br />

il nostro sogno d’amore e di vita.<br />

Alcune volte c’impegniamo e otteniamo una buona posizione sociale,<br />

perdiamo i cinque chili di troppo che tanto ci assillano, frequentiamo<br />

un buon golf club per socializzare con la gente “giusta”.<br />

Alcune volte invece invertiamo la marcia, prendiamo un aereo verso<br />

52


mete esotiche e ci ritroviamo catturati da emozioni profonde, che<br />

giocano con noi come se fossimo tutta la vita ragazzini dimentichi<br />

di ogni responsabilità. Ma la nostra prima responsabilità non è forse<br />

verso noi stessi? Verso la realizzazione dei nostri sogni in questa<br />

vita, senza rimandare alla “prossima occasione”. Perché di vita non<br />

ne avremo un’altra. Abbiamo solo questa e solo in questa ci può<br />

capitare di correre sotto il buio tra le stelle tenendo la mano ad uno<br />

sconosciuto che non parla neppure la nostra lingua, ma sentirci in<br />

paradiso, mentre improvvisiamo un valzer senza musica alla luce di<br />

una luna bianca, che curiosa ci osserva e sorride del nostro desiderio<br />

di sentirci bambini ad ogni età.<br />

Abbiamo solo questa vita per percorrere il corridoio di una piccola<br />

casa di provincia, uscire dalla porta e poi decidere di voltarci indietro<br />

per dare un’ultima occhiata alla sua finestra e scoprire che lui<br />

ancora ci sta guardando. Scopriamo che nemmeno lui voleva lasciarci<br />

andare e siamo felici. Per essere felici non serve poi tanto, basta<br />

poco. Basta prendersi quell’attimo per voltarsi indietro.<br />

Ci sono volte in cui ci svegliamo nel letto di uno, sconosciuto fino al<br />

giorno prima, e ci meravigliamo del fatto che non abbiamo voglia né<br />

di andarcene né di una doccia, ma semplicemente accorciamo la distanza<br />

tra noi e lui e sorridiamo prendendogli la mano. Ci stupiamo<br />

perché il grande amore a volte consiste semplicemente nei nostri piedi<br />

nudi che poggiano a terra, toccano il pavimento dopo una notte di<br />

passione e non sentono freddo, perché la nostra mente vola lontana<br />

e certo non si occupa di quello che capita sotto di noi, ma solo di<br />

quello che va oltre la nostra piccola mente.<br />

Questi pensieri confusi mi accompagnavano mentre percorrevo la<br />

strada in discesa che collegava il mio mini appartamento alla fermata<br />

dell’autobus che mi avrebbe condotto verso il primo rapporto sociale<br />

con un essere dell’altro sesso oltre oceano.<br />

53


Sull’autobus si alternavano ragazzotti palestrati, avvolti dentro abiti<br />

che non conoscevano forma o dimensione, qualcuno portava un<br />

cappellino con la visiera al contrario oppure fasce per tenere capelli<br />

neri molto crespi. Mi sedetti vicino al vetro per vedere il tramonto<br />

sul Sunset Boulevard.<br />

A L.A. il tramonto era una forma d’arte imperdibile, soprattutto se<br />

incorniciava occhi come quelli del ragazzetto di colore che con un<br />

ditino cercava di infastidire la madre per farsi comprare le caramelle.<br />

Quel giorno lei era troppo stanca per dargli retta così si limitava ad<br />

ignorarlo. Era una ragazza sui 28 anni. Una donna scura vestita di<br />

povertà e miseria, una di quelle che abitavano nelle zone della città<br />

dove spariscono i bei giardini di Beverly Hills per far posto a vecchie<br />

baracche tenute insieme da materiali economici, che non sopravvivevano<br />

alle minime intemperie. Certo io non potevo saperlo, capirlo,<br />

non potevo guardare dietro alle sue mani graffiate né allo splendido<br />

sorriso triste. Potevo solo guardare il tramonto che si perdeva dietro<br />

quel pezzo di vita ed andare avanti. Potevo contare le fermate che mi<br />

separavano dall’incontro inaspettato, ma dovevo scendere dall’autobus<br />

alla mia fermata. Forse avrei scritto un giorno su un pezzo di<br />

carta di quel breve, all’apparenza insignificante incontro.<br />

Il cinema era vicino ad un supermercato immenso aperto 24 ore al<br />

giorno. In America alcuni supermercati o negozi non chiudono mai.<br />

Io mi ero stupita della possibilità di fare la spese alle quattro del mattino,<br />

magari dopo una sbornia. Si poteva finire a lanciare nel carrello<br />

qualsiasi cosa.<br />

Questo è l’aspetto dell’America dei grandi templi-supermercati in<br />

cui si può trovare tutto in ogni momento della giornata. È l’America<br />

che non conosce sonno e che vuole soddisfare la sua gente.<br />

L’America sveglia, produttiva, efficiente che tanto le vale il primato<br />

nell’economia mondiale. Per un’italiana come me tutto era sor-<br />

54


prendente e ammaliante. Questo anche perché avevo sempre avuto<br />

il difetto della curiosità e la gente di periferia che si mette in testa di<br />

voler sapere troppo, di emozionarsi troppo, di vivere troppo finisce<br />

spesso nei guai. Infatti i guai erano dietro l’angolo ad aspettarmi.<br />

Anche perché era vero che quando ero partita era soprattutto perché<br />

mi sentivo invecchiata di colpo, perché non c’erano più stelle da<br />

osservare e il mio tempo era scaduto insieme ai miei calzettoni della<br />

domenica pomeriggio davanti ad un vecchio film di Woody Allen.<br />

Però era anche vero che sotto la mia coperta sgualcita ero comoda,<br />

sicura e protetta, mentre lì ero sola, senza soldi e nemmeno comunicavo<br />

perfettamente. Comunque decisi di sedermi ed aspettare lo<br />

sconosciuto vicino al cinema, la strada si stava svuotando, gli ultimi<br />

uomini d’affari si affrettavano verso casa dentro le loro macchine<br />

sportive all’ultima moda. I minuti passavano e più il tempo scorreva<br />

più si affievoliva il mio sogno di passare la serata con il bello e sconosciuto.<br />

Effettivamente rimasi sola con la mia borsettina nera banale<br />

in mano e con un piccolo, fragile desiderio spezzato.<br />

Il vento soffiava e la mia canottiera non copriva molto. Inoltre avevo<br />

notato che mi trovavo in una zona della città che non conoscevo ed<br />

ero l’unica ragazza sola in giro. Con tutti quei pensieri non avevo<br />

guardato l’orologio, questo anche perché mi rifiutavo di portarne<br />

uno. Troppo spaventata dal tempo che passa e che si butta via.<br />

Comunque erano le 10 e delle labbra orientali carnose nemmeno<br />

l’ombra. Decisi con mia grande delusione che era ora di trovare il<br />

modo di tornare indietro. Mi riavviai mollemente verso la grigia fermata<br />

del bus. Mi sedetti vicino al finestrino. Quale era la reale ragione<br />

per cui mi trovavo nel buio lungo una via di L.A.? Io che ragione<br />

avevo di essere lì? Che cosa stavo cercando che non avevo trovato<br />

tra le confortevoli mura domestiche di casa mia? Cosa mancava nella<br />

pace del fuoco che accendevo con la mia famiglia a Natale? Dove era<br />

radicato il problema? Era forse la mia paura di crescere, di diventare<br />

finalmente una donna adulta? Di decidere che cosa avrei fatto da<br />

55


“grande”? Oppure il mio era il timore di essere già diventata grande<br />

e di non aver fatto nulla di quello che sognavo da piccola? Forse LA<br />

rappresentava un modo di rincorrere nella spirale della mia esistenza<br />

un significato che ancora non mi apparteneva e che temevo mai mi<br />

sarebbe appartenuto.<br />

Con la bruciante delusione mi tornarono in mente alcuni soffi del<br />

cortometraggio del mio passato. I vestiti si gonfiavano sopra le pulsazioni<br />

del cuore. Mi librai su una piccola casa editrice nel cuore di<br />

Milano dove appena laureata avevo iniziato a collaborare sperando<br />

di trovare l’ispirazione per scrivere il libro del secolo. Speravo che<br />

leggendo quello che gli altri pensavano sarei potuta essere più perspicace,<br />

acuta, intelligente, interessante. M’illudevo che la strada della<br />

sapienza assoluta fosse realizzabile semplicemente costruendo una<br />

rete di conoscenze letterarie e filosofiche tendenti all’infinito. Nello<br />

stesso momento però vivevo in una sorta di dimensione parallela.<br />

Ero al di fuori del mondo reale. Non avevo conti da pagare a fine<br />

mese e la mia famiglia, a quei tempi, si poteva permettere di farmi<br />

vivere in un certo lusso. Non eravamo ricchi, non lo siamo mai stati.<br />

Non eravamo nemmeno fra quelli che fingevano di esserlo, tuttavia<br />

i miei mi adoravano e viziavano sperando in questo modo di preservarmi<br />

dalle miserie e dalle crudeltà del mondo.<br />

Ricordai le pareti dell’ufficio dove correggevo le prime bozze che<br />

sembravano accartocciarsi su di me. Ricordai la testa che mi pesava<br />

e il capo che pulsava. Rividi davanti a me la macchinetta del caffè<br />

vicino la scrivania, dove raccoglievo le speranze per il mio futuro. Le<br />

scartoffie si accumulavano ogni giorno di più, le due fotografie appese<br />

dell’estate appena trascorsa sbiadivano e venivano sommerse dalle<br />

scadenze e dalle immagini di responsabilità che mi attendevano.<br />

Qualche volta mi domandavo dove tutti gli anni sui libri mi avrebbero<br />

davvero portato. Ad avere, almeno in prospettiva, ricchezza,<br />

potere? Già il potere, quella piccola macchiolina nella reputazione<br />

di ognuno di noi. La voglia di sentirsi migliori degli altri. La bellezza,<br />

56


i nostri vestiti e poi le macchine, i viaggi, le case. Chi non li ha lotta<br />

duramente tra fango ed ingiustizie per ottenerli e chi li ha con aria<br />

supponente li considera un’ovvietà senza rilievo.<br />

Avevo 24 anni, mi ero appena laureata, la vita mi riservava infinite<br />

opportunità. Per me. Perché avevo studiato, così come i miei genitori<br />

prima di me, avevo degli amici, un’accogliente casa. Perché il gelo<br />

dell’isolamento e della fatica non lo conoscevo ancora. Non veramente.<br />

Non ne avevo bisogno. Così allora per me era tutto scontato.<br />

I vestiti, i libri: mai di seconda mano. Le corse sulle belle macchine,<br />

i weekend al mare, nelle capitali europee. Tutto dovuto. Facile poi<br />

parlare di arte, quando si aveva avuto il tempo di visitare i musei,<br />

quando la schiena la si poteva pigramente riposare su morbidi cuscini,<br />

magari immergendo il naso in un buon libro. Facile era poi<br />

parlare di filosofia e letteratura annodando i piedi sotto la seggiola.<br />

Immune a ciò che mi circondava. Ignara allora della cruda prospettiva<br />

d’immagine che la vita mi avrebbe presto riservato. Fu in quella<br />

stanzetta nella grande casa editrice milanese che avvertii che qualcosa<br />

non andava, che la vita era un po’ diversa da quello che mi aspettavo.<br />

E lo cominciai a capire quando conobbi Aura.<br />

Aura<br />

Aura era una donna di 26 anni. Mi sento di dire una donna. Perché<br />

Aura aveva una figlia di due anni: Nicole. Aura si alzava tutte le<br />

mattine alle sei, prendeva 3 autobus e da Crema andava a lavorare a<br />

Milano. Lavorava a Milano perché nel suo piccolo paese di profonda<br />

periferia impieghi ben retribuiti non ce n’erano. Aura aveva studiato.<br />

Aveva frequentato ragioneria. Era una contabile della casa editrice.<br />

Le era sempre piaciuto curiosare tra i libri. Aura era sempre stata<br />

57


intelligente. Aveva qualcosa in più. Vinceva le borse di studio, tutti<br />

la apprezzavano prima. Anzi tutti la apprezzavano anche allora. Allora,<br />

però, aveva un marito. Suo marito non lavorava. Non ne aveva<br />

voglia. Tanto Aura avrebbe pensato a tutto. Lei avrebbe sistemato le<br />

cose. Avrebbe pagato l’affitto, lavato, cucinato. Avrebbe portato Nicole<br />

all’asilo. In qualche modo sarebbero arrivati alla fine del mese.<br />

Aura sarebbe corsa avanti ed indietro per le scale dell’ufficio. Qualche<br />

volta avrebbe sbagliato un congiuntivo. Lei non aveva tempo<br />

per la grammatica. Sua figlia sarebbe cresciuta in fretta e si sarebbe<br />

voluta sentire come gli altri, avrebbe voluto le scarpe firmate, il motorino,<br />

sarebbe voluta andare in centro con le amiche e non si sarebbe<br />

potuta sentire povera, diversa, inferiore, sbagliata. Così Aura<br />

si dava da fare. Lavorava, faceva fatica e non le importava se ogni<br />

mattina si alzava alle sei, se suo marito non aveva voglia di fare nulla.<br />

Lei doveva pensare alla bambina. I momenti s’incatenavano gli uni<br />

agli altri. Ormai si cominciavano a confondere i giorni, le stagioni.<br />

Non faceva mai caldo, né freddo in quell’ufficio. Si lavorava semplicemente,<br />

la cosa più popolare e antica del mondo. Qualche volta i<br />

capi erano gentili, qualche volta insopportabili, ma Aura non poteva<br />

dire nulla, doveva tenersi tutto dentro. Spingere tutto fino in fondo<br />

all’anima. Non poteva scherzare, doveva soffocare il suo disappunto<br />

e sorridere. Aura voleva fare l’università, ma non aveva potuto perché<br />

i suoi genitori erano morti. Aura era diventata grande in fretta,<br />

la vita non le aveva risparmiato privazioni e crudeltà. Aura era sola.<br />

Era sola quando inseguiva l’autobus delle 7.05 e lo perdeva perché<br />

il conducente si era alzato male quella mattina. Era sola quando cominciava<br />

a piovere e il traffico si faceva intenso. Ma per Aura l’unico<br />

problema vero era che se avesse fatto tardi non sarebbe stata pagata<br />

e addio vestito nuovo per Nicole, nemmeno i 10 euro per entrare allo<br />

zoo si sarebbero potuti racimolare. Così Nicole non avrebbe regalato<br />

ad Aura la sua unica fonte di gioia, il sorriso fresco di una bambina<br />

che illuminava il grigio stress di un ufficio nel centro di Milano.<br />

58


Aura non era bella, non aveva corteggiatori fuori dalla porta. Non<br />

aveva messaggi romantici sul telefono. Aura era una comparsa tra i<br />

lembi di un sipario. Il sipario del teatro della vita. Aura non si poteva<br />

permettere nemmeno il lusso di cadere in depressione, perché chi<br />

avrebbe badato alla sua piccola? Chi l’avrebbe accompagnata lungo<br />

il cammino della crescita?<br />

A quei tempi io facevo ancora i capricci e mi permettevo di prendere<br />

a calci il muro quando qualcosa andava storto. Vivevo nella nostalgia<br />

delle vacanze e nel frattempo ne progettavo una per il mese successivo.<br />

Era tutto diverso allora. Facevo quelle cose e potevo, soprattutto,<br />

continuare a farle. Se avessi voluto potevo continuare a lungo.<br />

Potevo guardare soltanto la mia prospettiva incorniciata, come una<br />

fotografia in bianco e nero. Anche un capolavoro, ma statica, ferma.<br />

Oppure potevo riscrivere gli eventi. Potevo aprire il mio cuore. Guardare<br />

la dea bendata che mi aveva donato la mia faccia, la mia famiglia,<br />

il mio cognome e potevo cominciare ad usare bene questa cosa.<br />

Io non avevo una bambina piccola da mantenere e i miei genitori<br />

erano ancora vivi e badavano a me. Certamente questo non significava<br />

che non dovessi né potessi cambiare il mondo o fermare le guerre<br />

ingiuste. Non potevo cambiare la sorte dei bambini dell’Equador o<br />

dell’Afghanistan. Non potevo salvare i profughi, gli emarginati del<br />

mondo. Non dovevo nemmeno crederlo perché questi idealismi puramente<br />

cattolici li avevo già abbandonati da tempo. Però, questo<br />

non significava che non potessi vedere le cose, ma soprattutto gli<br />

uomini, le persone, la gente. Andare oltre il dualismo nemici-amici:<br />

cose di poco conto. E potevo cominciare da lì. Proprio lì. Nella scrivania<br />

a fianco a quella di Aura.<br />

Quei tempi però erano lontani mentre mi raffreddavo sulla panchina<br />

di fronte al cinema. Volevo aspettare ancora, ma lo sconosciuto quella<br />

notte non arrivò mai.<br />

59


VIII<br />

L’autobus di ritorno finalmente fece la mia fermata ed io abbandonai<br />

i frammenti di me. Mi rifugiai a casa. Quella notte piansi. Un pianto<br />

dirotto, di quelli provocati dal vuoto e dall’impotenza di gestire le<br />

cose, ma anche un pianto liberatorio.<br />

Mentre mi giravo e rigiravo nel letto ero assolutamente incapace di<br />

prendere sonno e mi ponevo domande sul fatto che forse potevo<br />

anche smettere di credere nell’amore, così come potevo smettere di<br />

credere che quel viaggio significasse una vita diversa per me. Si dice<br />

che nella vita esista un percorso, ma forse non tutte le persone hanno<br />

un percorso. Io l’avevo? Allora ricordai un discorso che Giulia fece<br />

quando avevamo circa 25 anni. Mi ricordai ogni particolare di quel<br />

singolare incontro che tenemmo sull’amore.<br />

Era fine settembre. Una sera leggera, ma già fresca. Il lago d’Iseo<br />

appariva blu scuro, blu come la notte mia e di Giulia. Un po’ temevamo<br />

gli abissi tenebrosi dell’acqua. Cosa sarebbe successo se fossimo<br />

cadute accidentalmente nella bocca del lago? Forse l’oscurità avrebbe<br />

inghiottito i nostri caratteri ed i tratti somatici. Forse la paura si<br />

sarebbe sostituita alla semplice assenza delle nostre anime.<br />

Giulia ed io passeggiavamo vicine, anche se alcune volte rincorrevamo<br />

a turno i piccioni solitari vicino al pontile.<br />

Iseo è un paesino che trasuda provincialità, nemmeno il turismo esti-<br />

60


vo riesce a dargli un tono un po’ più sofisticato tipico dei lussuosi<br />

luoghi di villeggiatura.<br />

In autunno le foglie piatte cadendo disegnano cerchi sull’acqua e<br />

litigano con gli eleganti cigni dal collo lungo.<br />

Ero innamorata di quegli uccelli maestosi e ammalianti fin da quando,<br />

a cinque anni, afferravo la mano di mia madre (rubandola a mio<br />

padre) per illuminarmi nelle pupille dei volatili. Volevo assaggiare<br />

tutti gli aspetti della natura. Desideravo vivere troppo, perché senza<br />

vivere troppo sentivo di non vivere abbastanza e quegli animali mi<br />

parevano straordinariamente intelligenti ed aggraziati. Le loro immagini<br />

sottili rivoluzionavano la fantasia verso luoghi lontani e misteriosi,<br />

oscuri e mitologici. Costruivo con la mente fortezze medioevali<br />

che si ergevano intorno a me sulle rive del lago e che mi seguivano<br />

ben oltre quel momento. Quando mi raggomitolavo sul sedile posteriore<br />

della macchina per tornare a casa fantasticavo su anatroccoli<br />

che diventavano cigni e venivano carezzati da principesse dorate e<br />

irraggiungibili. Sul velluto morbido dell’auto mi sentivo innocente e<br />

felice. Allora mi sentivo beata. Ogni parte del mio viso si distendeva<br />

come un lungo tappeto soffice che regala pace agli ospiti di una casa<br />

antica e profumata.<br />

Giulia ed io ci piegavamo verso i tuffi dei cigni per studiarli meglio e<br />

per coglierne la profonda bellezza.<br />

Mi domandavo spesso cosa fosse la bellezza, l’essenza della bellezza<br />

e mi ero resa conto che ne percepivo la sensualità estetica sempre in<br />

modo improvviso ed inaspettato.<br />

La bellezza non amava farsi scoprire, né essere l’oggetto del desiderio<br />

dei molti. Era piuttosto una dea incantatrice e suadente, una sirena<br />

seducente e pericolosa nascosta agli angoli del mondo, vicino alle<br />

piccole cose. Tra i sorrisi e le righe delle poesie la si poteva trovare,<br />

ma sempre facendo molta attenzione. Non era casuale la sua presenza.<br />

E la bellezza non era di chi la creava, ma di chi la riconosceva.<br />

61


Come una donna restia e pudica la bellezza si vergognava a mostrarsi<br />

al pubblico acclamante e sudato. Tuttavia già allora la bramavo e<br />

Giulia anche.<br />

Giulia ed io eravamo molto diverse tra noi, a venticinque anni ancor<br />

più che a trenta. A quell’età eravamo donne d’altri tempi. I tempi che<br />

non esistono. Quando ci accomodavamo in qualche caffè parevamo<br />

sempre sedute all’interno di carrozze ottocentesche. Ci addobbavamo<br />

con abiti eleganti e colorati per recitare meglio il ruolo di nobili<br />

intellettuali e in alcuni momenti abbandonavamo la discussione per<br />

affondare il naso in testi musicali o religiosi di cui spesso non capivamo<br />

molto. Oppure ce ne inventavamo il significato costruendo<br />

paradigmi sulla vita, sull’amicizia e sull’amore.<br />

Giulia ed io silenziose, complici, rare.<br />

Lei era leggermente più grande di me biologicamente, ma soprattutto<br />

nella vita: studiava, analizzava lo snodarsi degli eventi. Giulia<br />

parlava poco, ma rifletteva molto, come recita un antico proverbio<br />

cinese: “Parlava piano e pensava in fretta”. Spesso mi domandavo<br />

su cosa tanto ostinatamente si interrogasse quando incurvava la fronte<br />

e si trasformava in una matrona pignola e assolutamente geniale.<br />

Questa era lei allora e questa era lei poi: sempre con le ali ai sogni, i<br />

suoi un po’ più contorti, eppure logici, un po’ più profondi e intensi<br />

rispetto a quelli degli altri.<br />

Il campanile rintoccò le sei. Era quasi ora di voltare le spalle al lago<br />

quella sera. Prima, però, il simposio doveva compiersi.<br />

“Giulia, alcune volte mi sento così dannatamente male. Sento che<br />

non sono in grado di gestire la mia vita. Io non so quello che voglio.<br />

È come se tutto ciò che ho mi fosse capitato per sbaglio ed io, aperte<br />

le braccia, l’avessi cullato come un bambino malato”.<br />

“Miriam, io ti stimo, tu lo sai, perché non riesci a capire che se stai<br />

male è solo ed unicamente perché vai contro te stessa. Perché calzi<br />

panni che non sono i tuoi. Non esiste motivo altro al mondo perché<br />

62


si provi l’incertezza ed il dolore di cui parli”.<br />

Mi ripiegai sul ventre come se quella mossa potesse permettermi di<br />

diventare più piccola, quasi invisibile e tornarono alla mente le mie<br />

strategie di vita. Avevo capito fin da piccola che l’andare bene a scuola<br />

mi avrebbe permesso di non avere problemi di alcun genere, così<br />

mi ci ero impegnata, seppur a volte un po’ meno. Avevo con questa<br />

tattica fatto tacere amici e parenti, mi ero autoconvinta della mia<br />

intelligenza e parallelamente costruivo un mondo immaginario tanto<br />

assurdo, quanto ideale in cui tutto si srotolava su una strada diversa<br />

da quella che percorrevo nella realtà. Questo mondo funzionava, ma<br />

come tutte le cose che ci si inventa provocò un grave trauma quando<br />

si sovrappose alla realtà.<br />

La realtà s’impose eccome su di me, nel momento in cui, come in una<br />

tragedia greca, l’attore principale viene tradito dal suo grande amore.<br />

Io ero stata tradita dall’amore. Quell’amore in cui si può credere<br />

una sola volta nella vita. Un uomo mi aveva tradita: Mattia. O per<br />

meglio dire un amore mi aveva abbandonata.<br />

Io, però, ero nata con un sogno: che l’amore esistesse e non potevo<br />

che morire con quel sogno. Ci volevo credere, anche se l’abbandono<br />

mi aveva gettata in una sorta di apatia e di noia. Aveva addormentato<br />

la speranza.<br />

Giulia era più forte, di quella forza preziosa ed illogica figlia della<br />

testardaggine e dei grandi idealismi. Giulia sperava ancora. Perfino<br />

ci credeva più di me.<br />

Quando aveva tre anni sua cugina le cantava sempre una filastrocca<br />

che più o meno faceva così:<br />

“A cosa servono le mani?<br />

Per toccare !!!<br />

A cosa servono gli occhi?<br />

Per vedere!!!<br />

A cosa serve la bocca?<br />

63


Per mangiare!!!<br />

A cosa serve il cuore?<br />

Per amare!!!<br />

A cosa serve il cervello?”<br />

Giulia appoggiava le labbra ad un bicchiere d’acqua, respirava e rispondeva:<br />

“Per amare!!!”<br />

Sua cugina la sgridava sempre dicendole che il cervello era per pensare.<br />

Sì, il cervello era per pensare, ma Giulia era stata convinta e lo<br />

era ancora all’epoca della nostra storia di quello che aveva detto. Il<br />

suo non era stato un errore casuale.<br />

Anche Giulia conosceva l’abdicazione di un uomo all’amore, eppure<br />

sorrideva davanti al ricordo di quello stesso uomo che era fuggito<br />

lontano da lei nell’esotico Messico. Luca l’aveva abbandonata eppure<br />

lei diceva:<br />

“Vedi Miriam il punto non è tanto che Luca sia andato in Messico, il<br />

punto è quello in cui noi decidiamo di credere. Il punto è che Luca<br />

è solo un uomo su una mano. La mia. Luca non ha il potere di farmi<br />

decidere di credere o meno nell’amore. Io ho deciso di stare da<br />

questo lato del lago e non voglio andare dall’altra parte anche perché<br />

non saprei davvero cosa cercare. Non sarei io e soprattutto non sarei<br />

quello cui io sono proclive ad essere. Luca può anche andarsene ma<br />

GiuliaeLuca rimarranno per sempre”.<br />

Quando Giulia diceva “Luca” la voce le si tingeva di malinconia,<br />

eppure sorrideva, come se il nome soltanto racchiudesse un intero<br />

indecifrabile universo, come se quell’uomo-bambino, incapace di<br />

orientarsi nella vita, le turbasse il cuore ma senza alcuna possibilità<br />

di romperlo. E ancora sosteneva:<br />

“Nella vita non si valorizza mai abbastanza quello che si ha. Luca è<br />

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stato una cosa della mia vita. La mia cosa bella. E questo è quello che<br />

mi rimarrà di lui. Non lo sciuperò”.<br />

La luna sbucò nel cielo e rese argentate le nostre parole. Conferì ad<br />

esse uno stile eclettico e metafisico. L’opale bianco e azzurro irrorava<br />

gli occhi screziati di Giulia.<br />

“Giulia, in fondo tu ed io potremmo parlare delle ore e non verremmo<br />

a capo di nulla. Forse tu non hai torto, ma vedi, quando il<br />

mio amore mi tradì io non potei crederci e ricordo ancora certe sue<br />

taglienti parole. Mi disse, e non potrò mai scordarlo, che io dovevo<br />

alzarmi e camminare da sola. Mi prese la faccia e guardandomi dritta<br />

negli occhi disse che non gli importava più nulla di me. Ma come era<br />

stato possibile? L’amore non è forse ciò che rende due esseri indistinti<br />

e fusi in un’unica essenza? Non si è forse due parti della stessa<br />

mela? Su questo mia cara Giulia che mi dici?”<br />

Giulia raccolse la sua borsetta, preziosa dal momento che conteneva<br />

le iniezioni di insulina indispensabili per proteggerla dai mali del diabete.<br />

Si arricciò i capelli, voltò lo sguardo ed i suoi occhi divennero<br />

due piccole biglie, di quelle con cui si gioca nei quartieri di periferia<br />

da piccoli, mentre mamma esce a comprare il pane.<br />

“E poi, Giulia, dopo il tradimento io ho seguito Mattia. Sono corsa<br />

alla sua porta, l’ho implorato di tornare, ho calpestato me stessa e<br />

non è servito a nulla”.<br />

“Mia cara amica, lo sai che ti stimo e rispetto, però non insultare<br />

la tua intelligenza. Io ho parlato di amore, non ho mai detto annullamento,<br />

perdita della propria identità. Tu ti eri agiata su Mattia e<br />

avevi smesso di curare te stessa, dimenticando cosa significa stare<br />

bene con se stessi. Solo stando bene con se stessi si può stare bene<br />

con gli altri. Mia cara, è come se tu avessi voluto dare senza avere<br />

nulla da dare. E poi ti eri impigrita, ti eri adagiata nel tipico egoismo<br />

di chi dà tutto per scontato e fa l’errore di credere che le persone<br />

che ci amano ci ameranno per sempre indipendentemente dal nostro<br />

comportamento. Forse tu avevi smesso di dare pensando che tutto<br />

65


ti fosse dovuto. Ma dare significa essere disposti a subire il silenzio<br />

del dolore, anche saper aspettare, cercare di capire perché gli altri<br />

si comportano in un certo modo. Hai mai provato a capire cosa ha<br />

spinto Mattia in un altro letto? Lo sai bene che tutto è partito da voi<br />

due. Insieme vi siete amati come pochi. Insieme vi siete traditi come<br />

molti. Hai mai pensato a quello che tu avevi dentro di te da offrire?<br />

Con quali doni potresti gettarti nelle braccia estetiche e pretenziose<br />

di eros senza possedere i tuoi propri fiori? Sarebbe come pretendere<br />

che il nulla porti da qualche parte. Sarebbe come innalzare il nulla<br />

e farne un dio. Il nulla appartiene alla miseria e, bada bene, l’amore<br />

invece appartiene alla povertà, perché ciò che è privazione è desiderio<br />

e il desiderio si può mutare in passionalità. Dunque tesoro, come<br />

potrei rendere morbida la mia considerazione? Il tuo uomo non aveva<br />

torto quando ti disse alzati e cammina da sola, perché era la vostra<br />

fine. Molte storie finiscono. Nella fine in realtà tu puoi trovare la tua<br />

grandezza, perché quello è il punto di partenza per donare. L’amore<br />

è dono. L’amore tra l’uomo e la donna, ma anche tra i genitori e i figli<br />

ed infine l’amore altruistico verso gli altri”.<br />

Con faccia perplessa osservai il cielo cercando di vedere oltre il nostro<br />

sistema solare, oltre le nostre domande, oltre le risposte e poi<br />

sussurrai:<br />

“Giulia ciò che dici mi dà da riflettere, ma io ero convinta che la<br />

forma più pura di amore fosse la totale mescolanza dei sensi che fa di<br />

due esseri uno soltanto”.<br />

Un gatto fuggiva selvaggio nella notte, mentre le ultime persone finivano<br />

i loro caffè nei bar quasi vuoti di fronte a Monteisola.<br />

“Miriam, ricorda che quello di cui tu vai vaneggiando è l’amore delle<br />

passioni, l’amore legato agli uomini che puoi amare. Persi loro, perdi<br />

l’amore. Ma l’amore di cui io tratto va ben al di là di queste emozioni<br />

precarie. È il sogno dell’amore realizzato nelle sue infinite dimensioni<br />

e sfaccettature. È l’amore altruistico e puro. È l’amore bello e<br />

disinteressato. È l’amore che sorride, quello che non conosce malin-<br />

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conia e tristezza. Per provare tale amore, però, è necessario coraggio.<br />

È l’amore imperituro. Devi scegliere di andare o meno in questa direzione.<br />

Sei tu che scegli questo tipo di sentimento. Sei tu che decidi<br />

di crescere e donare. Una volta sulla porta d’ingresso dell’abitazione<br />

di un noto letterato italiano ho letto una frase che recita: “Io ho ciò<br />

che ho donato”. Me lo sarei voluta tatuare addosso perché quello ero<br />

lo stile con cui avrei voluto vivere. Ed è lo stile che provo a seguire<br />

anche ora. Non è facile, ma cerco quantomeno di evitare di fare agli<br />

altri ciò che non vorrei facessero a me. Eppure ricorda che non ti<br />

capiterà addosso questo amore, come invece ti cadranno addosso gli<br />

uomini o un lavoro che gonfierà il portafoglio. Non è una questione<br />

di fortuna, è solo la tua scelta. Dare è una scelta così come lo è essere<br />

felici per averlo fatto. Certo, non credere di alzarti ogni mattina e di<br />

essere coerente. Certo non ti puoi illudere che non sbaglierai, ma la<br />

tua grandezza sarà la voglia e la capacità di scegliere ancora e sempre<br />

il sogno con cui sei nata. Questo tipo di amore è già dentro di te, se<br />

hai la fortuna di possederlo. Questo tipo di amore è un regalo per cui<br />

potresti interrogarti sul donatore. Certe persone non si chiederanno<br />

mai queste cose, certe persone semplicemente le ignoreranno, ma io<br />

non credo che la tua soffusa profondità non riesca ad intuire la tua<br />

fortuna. Tu sei così, vedi le cose le capisci, le vivi. Impara anche a<br />

donarle”.<br />

Sulla scia di questi discorsi ricordai un episodio.<br />

Camminavo su una strada sterrata bagnata da una pioggia tropicale<br />

dell’agosto cubano. Arrancavo perché volevo arrivare alla cima di<br />

un noto pendio vicino a Trinidad. Pioveva leggermente e insieme il<br />

sole picchiava sul volto. Un uomo mi passò davanti velocemente con<br />

un bastone. Lo invidiai, ma si capiva che era più esperto di me nelle<br />

camminate di lungo tragitto.<br />

Dissi in italiano, senza preoccuparmi che lui capisse:<br />

“Accidenti… se solo avessi un bastone come quello non farei tutta<br />

questa fatica”.<br />

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L’uomo scomparve davanti a me inghiottito dal bosco umido. Feci<br />

pochi passi ancora e lo vidi in piedi davanti a me. Mi aspettava. Si era<br />

voltato e mi aspettava. Teneva due bastoni in mano: quello che avevo<br />

visto poco prima e un altro. Il suo originale più curato e funzionale<br />

me lo porse con un sorriso. L’arnese era affusolato nella parte superiore<br />

per poter essere tenuto comodamente tra le mani. Mi si inumidì<br />

l’occhio sinistro e pensai: “Ecco, questo è il mondo che vorrei”. Dentro<br />

quel gesto colsi il suo spirito profondo e gentile e pensai anche<br />

che era proprio un mondo così che mi mancava, mi mancava molto il<br />

tremore che univa il suo gesto a me. La sua generosità era amore.<br />

Ebbene, quell’uomo era dentro il mio percorso, perché io un percorso<br />

l’avevo, dovevo solo trovare il coraggio di spingermi un po’ più in<br />

là. A proposito di spingersi un po’ più in là: Giulia si stava esponendo<br />

con metà busto sul lago:<br />

“Giuly stai attenta” le intimai e lei mi disse:<br />

“Vieni Miriam l’acqua non ha fondo”.<br />

“No, io non guardo, ho paura.”.<br />

“Se non spingi un po’ più in là ogni volta la tua paura, non avrai mai<br />

il coraggio. Spingi il tuo limite un po’ più in là ogni volta. Credimi,<br />

è la strada giusta”.<br />

Ero estasiata dai discorsi della mia amica, mio mentore dagli occhi<br />

brillanti. Mi era venuta voglia di affondare le caviglie nell’acqua ormai<br />

gelida a causa della notte che avanzava. Volevo provare a spingermi<br />

un pezzettino oltre le mie paure, senza però svegliarmi dal<br />

sogno di quel momento.<br />

C’erano poche stelle e alcuni amanti si baciavano furtivamente sulle<br />

panchine. Uomini maturi portavano a passeggio il cane e con aria<br />

riflessiva spaziavano oltre i limiti del lago, le alture circostanti e oltre<br />

i propri stessi pensieri.<br />

Accavallai le gambe e mi allungai per avvicinarmi a Giulia, anche il<br />

contatto fisico diventava importante.<br />

Giulia riprese: “Noto che sei sempre disorientata dal mondo, che le<br />

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piccole cose ti possono generare grandi disturbi e che in amore non<br />

trovi l’equilibrio della felicità, ma tu devi essere felice. Ti sei mai<br />

chiesta che cosa davvero ti rende felice? Il tuo lavoro alla casa editrice<br />

ti soddisfa, dici, e di certo sei ben integrata, almeno esteriormente,<br />

con la società. Nulla di puramente materiale ti manca e in fondo<br />

nemmeno il tuo aspetto è un problema. Allora cos’è che ti manca per<br />

avere la felicità?”<br />

Lanciò un’occhiata al cellulare. Sempre in attesa della chiamata invisibile,<br />

della tranquillità di essere cercata e desiderata da qualcuno.<br />

Anche io guardai il mio e capii che ero molto lontana da quella che<br />

ero un tempo, quando la parola cellulare non faceva nemmeno parte<br />

del vocabolario. Rividi me stessa dentro quell’epoca precedente.<br />

Correvo tra i fili d’erba nei campi dietro casa di mia nonna. Mi mancò<br />

profondamente la capacità di curare la natura, ma soprattutto di<br />

amarla, di darle qualcosa di mio, ottenendo con essa una fusione<br />

totale, senza pretendere il cambiamento delle sue geometrie. Semplice<br />

e puro dare, che fosse quello l’amore che si slegava dagli uomini<br />

che ti abbandonano, dalle stagioni che si susseguono, dagli anni che<br />

imbiancano? Era quello il sentimento di cui parlava Giulia?<br />

Ebbi voglia di avvicinarmi di nuovo agli uccelli piumati dal collo<br />

serico e esile, quando fui loro accanto puntai i piedi vicino alla passerella,<br />

mi voltai, chiamai Giulia, ma gli uccelli in gruppo presero il<br />

volo verso l’altro lato del lago.<br />

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Gocce di luce grezza<br />

IX<br />

La mattina successiva mi alzai e mi accorsi che era tardissimo. Mi<br />

ero addormentata tra le lacrime ed i ricordi, ma il lavoro certo non<br />

poteva attendere. Dovevo preparare decine di caffè quel giorno, ma<br />

prima mi dovevo recare a Long Beach per acquistare dal fornitore<br />

della caffetteria alcuni prodotti.<br />

Avevano mandato me perché ero l’ultima arrivata. Dopo il lavoro<br />

al chiosco delle biciclette, quello alla caffetteria era il migliore che<br />

avevo trovato e, anche se era temporaneo, mi permetteva di sopravvivere.<br />

Per questo cercavo di farlo bene.<br />

Iniziai così, di fretta, a vivere il giorno. Questo aspetto non variava<br />

attraverso i continenti.<br />

M’imbattei in altri viaggiatori, mi scontrai con uno di loro e, indispettita,<br />

proseguii verso la destinazione. Ero fuori tempo. Il tempo<br />

mi oltrepassava.<br />

E il tizio con cui mi ero scontrata era già sparito.<br />

“Scusami, non volevo venirti addosso…” si difese un lui sconosciuto.<br />

“Scusami tu, ma sai, andavo di fretta…” replicai io.<br />

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“Andiamo sempre di fretta” mesto reagì lui.<br />

Andiamo di fretta tra le canzoni stonate della nostra era. Picchiettiamo<br />

i tacchi delle scarpe contro pavimenti già calpestati e marchiati.<br />

Ondeggiamo il volto al ritmo di pentagrammi disarmonici. Tutto ciò<br />

mentre “gli altri” tagliano il pane la mattina per i figli che vanno a<br />

scuola o mentre si siedono, un po’ stanchi della vita, negli spazi verdi<br />

delle grandi città.<br />

Il quadro delle quotidianità mi ingoiava spesso e quella mattina, anche<br />

se mi trovavo in California, fuori dalle abitudini solite, anche se<br />

avevo preso un aereo per trovare un senso alla mia vita, mi ero atteggiata<br />

non molto diversamente rispetto a quando vivevo a Brescia e la<br />

memoria del passato tradiva e l’ignoranza sul futuro affliggeva.<br />

“Scusami” dissi a bassa voce. Cercavo il tizio con cui mi ero scontrata.<br />

Scusami se non ho colto il tuo sguardo tra la folla molle e traslucida.<br />

Abbiamo avuto un momento in cui potevamo guardarci e non<br />

l’abbiamo fatto. Potevamo, potremmo, avremmo potuto… afferrare<br />

quell’istante e costruirci sopra il senso della nostra vita. Proprio lì…<br />

nello spazio di attesa del prossimo metrò.<br />

Ci sono 18 anni per sognare. 18 anni per andare a scuola, per educare<br />

l’anima alle nostre future evoluzioni.<br />

18 anni per correre in motorino senza casco. Per sbattere contro la<br />

vita. Per fare le gare su chi arriverà prima in cima alle scale.<br />

18 anni per comprare il gelato al bar. Per mangiare le caramelle. Per<br />

sorridere quando ci si inciampa.<br />

A 18 anni esistevano solo i libri di Keruak e Salinger. Esistevano i<br />

Nirvana e la finta e inconsapevole trasgressione.<br />

Esistevano gli amori forti. Quelli non ricambiati. Quelli tra i banchi<br />

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di scuola. Quelli per i rappresentanti d’istituto irraggiungibili. Quelli<br />

per il prof. di letteratura che ti portava a leggere, dell’ “amore che<br />

muove il cielo e le altre stelle”, sulla terrazza assolata fuori dalle mura<br />

di una classe sempre troppo angusta. Esistevano il tempo libero ed i<br />

corsi sul cinema indipendente.<br />

Esistevano i sentimenti puri. Quelli di cui poi ci illudiamo di poter<br />

fare a meno. Quelli su cui da adulti sorridiamo. Quelli lontani da<br />

noi, che non ci toccano più. Quelli che tacciamo come adolescenziali.<br />

Quelli fatti d’incomprensioni, ma anche di crescita comune e<br />

di lotta. Quelli contrastati, sui muretti di qualche parco nascosto, il<br />

sabato mattina. Quelli che ti facevano saltare la scuola per inseguire<br />

la poesia dentro la vita vera.<br />

Però non c’era solo quello.<br />

C’era anche la tua migliore amica. Quella con cui giravi per il centro<br />

il sabato pomeriggio tenendoti per mano: così affrontare la gente era<br />

più semplice. Così non facevano paura i ragazzi più grandi e potevi<br />

fingere di essere felice. Il punto, però, era che lo eri davvero. Lo eri<br />

quando ti stropicciavi gli occhi e ti angosciavi, ma neanche troppo,<br />

per la versione di latino del lunedì mattina…. Ti saresti dovuta ricordare<br />

Lucrezio dopo un sabato sera in sella al motorino, anche a<br />

Gennaio quando il freddo ti entrava dentro, fino nelle ossa e rimanevi<br />

gelata per una giornata intera. Ma non importava, perché quello<br />

era un modo di sentire che il tuo corpo reagiva all’esterno. Che il<br />

tuo corpo poteva stare male, bene. Poteva ibernarsi, poteva patire<br />

i turbamenti. Tu facevi fatica anche a parlare, per il viso paralizzato<br />

dall’umidità della nebbia del nord, poi Lui ti acciuffava la mano, ti<br />

spingeva contro una parete in una strada ciottolata e a te non importava<br />

più nulla del fatto che era tardi, che dovevi tornare a casa, che<br />

eri piccolina. Perché in quel momento tu eri GRANDE. Davvero. In<br />

quel momento tu facevi l’esercizio di calligrafia più sublime. Tu davi<br />

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forma al sogno. Il sogno astratto diventava materia.<br />

Il sogno esisteva su questa terra di passaggio.<br />

C’erano stati 18 anni, ancora una volta, per incontrarsi all’entrata<br />

della metropolitana. Eravamo lì. Io e lo sconosciuto avevamo di nuovo<br />

18 anni, anche se ne avevamo 30, 40, 50. Era la nostra occasione.<br />

Avrei potuto scoprire quell’essere umano.<br />

Avrei potuto far iniziare il tempo allora e farlo finire nello stesso<br />

istante.<br />

Avrei potuto rendere il tempo un concetto relativo o addirittura<br />

inesistente. Oppure avrei potuto fare iniziare il tempo da quel momento.<br />

Il tempo reale poteva, come il flusso d’acqua di una fontana, irradiarsi<br />

da me proprio allora.<br />

Avevo la magia tra le mani.<br />

Il tempo fermo nell’infinito.<br />

La possibilità di realizzare l’eternità.<br />

Insieme potevamo percorrere fiumi e strade. Potevamo anche rimanere<br />

sollevati, lassù in alto. Dove ancora noi non intendevamo. Dove<br />

noi, forse sapevamo, ma avevamo dimenticato. Dove avremmo potuto<br />

imprigionare il vento che ci muoveva i capelli in quella calda<br />

mattina californiana al limite della razionalità.<br />

Le ombre tremolavano, tremavano ripiegate sugli incastri del pavimento<br />

della stazione.<br />

Eppure, sono sicura, non era difficile vederlo quel momento. Come<br />

avevo potuto perderlo?<br />

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Eppure mi voltai, catturata dal movimento di una labrena e<br />

quell’istante, in cui i nostri occhi si potevano sintetizzare gli uni con<br />

gli altri, era stato inghiottito dalla corsa della metropolitana successiva.<br />

Ancora una volta. Scivolava via un alito di vita, in punta di piedi<br />

se ne andava nell’indifferenza.<br />

Un fiore, un tempo coraggioso, contro l’asfalto si era accasciato timidamente.<br />

Si era tirato indietro.<br />

Mi ero forse persa veramente nella voragine delle riviste patinate delle<br />

edicole, nelle interminabili repliche dei telefilm anni ottanta che<br />

non significano nulla, nei giochi della play-station?<br />

Ancora correvo? Anche lì dall’altra parte del mondo?<br />

Ancora non osservavo.<br />

La poetica delle sinfonie catartiche di carrilons capaci di condurmi<br />

all’entrata del palazzo delle emozioni, si era interrotta per la mia disattenzione,<br />

la PIGRIZIA.<br />

Ancora una volta.<br />

Mi sedetti in metropolitana e osservai il sole, perché la subway di Los<br />

Angeles è all’aperto a differenza di quelle nelle altre città. Questa<br />

particolarità m’indusse a notare la diversità del paesaggio che mi circondava<br />

rispetto a quello a cui ero abituata da anni. Era una visione<br />

ariosa del mondo, non mi stavo immergendo in un buco nero nel<br />

capoluogo milanese. Respiravo l’aria che mi vestiva di luce.<br />

Quando a Milano m’infilavo sulla metro ignoravo ogni cosa. Incanalavo<br />

il percorso della mente verso l’ufficio, verso la casa dei miei<br />

amici, per giocare l’ennesima partita a risiko o per vedere ancora un<br />

film al cinema. Pensavo alla solita chiacchierata con il mio uomo su<br />

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come cambiare il mondo, ma il mondo io l’avrei potuto cambiare,<br />

almeno un po’, quel giorno e non l’avevo fatto.<br />

L’avevo ignorato.<br />

L’ignoranza: la cecità verso la specie umana, l’ignoranza e il vizio di<br />

vivere sempre le emozioni da angolazioni diverse rispetto alle anime<br />

che ci passano accanto. Le identità individuali, come barriere, ci dividono<br />

l’un l’altro. Ma fino a che punto la nostra essenza particolare<br />

ci può separare dal tutto che ci circonda?<br />

In pochi secondi Los Angeles e Milano si sovrapponevano come un<br />

puzzle ad incastri malefici. Io ero sempre io e rivivevo in una specie<br />

di diabolico déjà vu tutti i miei errori.<br />

Ero di nuovo a Milano, la seconda metropolitana era ripartita ed io<br />

con lei, per intrufolarmi poi, in fretta, in libreria ad acquistare libri<br />

che mi avrebbero dato le risposte che stavo cercando.<br />

Me ne sovvenne uno in particolare. Me lo aveva consigliato un caro<br />

amico. Trattava dell’amore: della sua caducità, della sua temporaneità,<br />

della sua data di scadenza.<br />

Ricordai le riflessioni che avevo maturato riguardo la società e la nostra<br />

anestesia verso la gente, le situazioni, gli incontri.<br />

Il ricordo e la realtà si confondevano e non capivo bene quali elucubrazioni<br />

fossero fresche di giornata e quali si agganciassero ai miei<br />

anni più inesperti.<br />

Meditai sulla perdita della concezione di una vita che dipendesse<br />

interamente da noi e non dall’esterno: era forse questo il problema?<br />

Il cosmo che mi circondava? La contestualizzazione continua delle<br />

emozioni? L’incapacità di fluttuare tra i gas puri dei sentimenti autentici?<br />

Che il fine dell’amore si muovesse, ormai, con l’utilità dell’amore<br />

stesso? Era diventata così gretta la natura di eros per me?<br />

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Quel libro parlava proprio di qualcosa di simile, come si intitolava?<br />

Ricordai, anzi rimembro: “L’amore dura tre anni”. Sì professava che<br />

l’amore avesse una scadenza, come le scatolette al supermercato.<br />

Tutto avrebbe, dunque, una data di utilizzo: le città in cui decidiamo<br />

di vivere, le amicizie che ci accompagnano durante le stagioni del<br />

nostro cammino e, perché no, l’amore.<br />

L’eterno trasloco dei sentimenti, l’interminabile impacchettamento<br />

delle nostre cose da un cuore ad un altro sono la spiegazione delle<br />

altalene del cuore? Come se fossimo sempre inquilini in affitto in una<br />

casa che non ci apparterrà mai.<br />

Forse i sentimenti altro non sono che facce della nostra esperienza,<br />

facce della nostra memoria che vive, fino a quando c’è da vivere, e<br />

poi muore… lentamente… come una mano privata delle sue funzioni<br />

vitali che si srotola su un pavimento asettico. L’amore che dramma…<br />

che poi alla fine uno dei due uccida sempre… l’altro?<br />

La capacità di vedere la relatività dei punti di vista è la capacità di<br />

vedere le cose, le facce, le persone, anche se si è su una metropolitana<br />

in corsa.<br />

Gli incontri-non incontri, gli appuntamenti perduti nelle stazioni o<br />

per le strade, partoriscono tanta rabbia, amarezza e a volte, purtroppo,<br />

rassegnazione. Rassegnazione alla nostra solitudine. Ci sentiamo<br />

soli, ma non guardiamo oltre a noi stessi.<br />

La rassegnazione è il male più grande.<br />

L’arresa, davanti alla nostra piccolezza paragonata all’infinità del<br />

cosmo, invece che la fiducia nella nostra grandezza, è la sconfitta<br />

peggiore. La chiusura in un incanalamento verso mete già scritte e<br />

disegnate è davvero deprimente.<br />

Gli incontri-non incontri che lasciano una scia frastagliata dietro<br />

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di noi potrebbero essere uno dei modi di inaugurare una reazione,<br />

nonché un riscatto verso la divinizzazione dell’impassibilità e della<br />

noncuranza.<br />

A volte gli incontri sopiti vengono spinti lontano da un uragano invisibile,<br />

altre volte noi raggiungiamo la perfetta mescolanza di temperanza<br />

e coraggio ed affrontiamo il dilatare degli anni con l’entusiasmo<br />

dei 18 anni che si mischiano ai 30, 40, 50. Abdichiamo la nostra<br />

sordità temporanea. Rientriamo in noi stessi. Ritorniamo, allora, ad<br />

essere GRANDI. Davvero.<br />

Immemori smemorati che siamo! Eppure nessuno vuole sfuggire<br />

alla propria unicità. Il trauma della nascita della nostra maturità ci<br />

sorprende e spaventa. Ci strabilia non strabiliarci più per niente. Cadiamo<br />

nella desolazione del medesimo che si ripete sempre uguale e<br />

noi con lui cominciamo a ripeterci, ad omologarci, a rimpicciolirci.<br />

Smettiamo di esaltare noi stessi. O meglio ci facciamo sedurre da un<br />

io egoista ed amorale fatto di strette di mano e favori dati e ricevuti.<br />

Lasciamo che questo io ci ammali ed accechi. Eppure. Eppure c’è di<br />

più. Basta vederlo. Non esiste soltanto la ripetizione dell’identico.<br />

Esiste anche l’artista obbligato e chiuso in un ufficio amministrativo<br />

che emana la sua poetica da ogni poro che, come un flusso di sole,<br />

illumina i cortili deserti alle prime luci dell’alba.<br />

Il genio non può essere ingabbiato, codificato, spiegato, né capito razionalmente.<br />

Per questo siamo tutti un po’ incompresi. Forse questa<br />

è l’unica predestinazione che esiste. Al di là delle frasi tautologiche,<br />

si può obiettare che il nostro “demone” ci dà la fermezza per uscire<br />

dai ripari sicuri e dalle analitiche categorizzazioni.<br />

Purtroppo, però, esiste anche chi, come l’intellettuale enciclopedico<br />

fatto di definizioni e luoghi comuni, intrappolato nella sua miseria,<br />

pretende di fasciare la realtà con citazioni fuori luogo illudendosi che<br />

quella sia la strada dell’emozione.<br />

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Tuttavia non ci si può esimere dall’evidenza che dimostra l’intrinseca<br />

nostra necessità di credere nella grandezza dell’uomo, nelle sue possibilità,<br />

nelle sue capacità, nella sua curiosità, nel suo altruismo, nel<br />

suo lavoro. Non esiste l’eterna ripetizione dell’identico.<br />

Chi di noi conosce due persone perfettamente uguali? Probabilmente<br />

nessuno, perché l’identità perfetta non può essere colta nel mondo<br />

delle percezioni e, forse, perché ognuno di noi dentro il percorso<br />

millenario degli eventi deve tracciare una storia, dare vita al suo romanzo,<br />

suonare la sua canzone.<br />

Qualcuno lo fa aiutando gli altri: gesti nobili.<br />

Qualcuno corteggia l’arte: il cinema, la letteratura, la moda. Qualcuno<br />

costruisce case, ponti, moderni castelli in cui ci esaltiamo per lo<br />

shopping.<br />

Qualcuno regola le interazioni tra le persone: avvocati, psicologi, comunicatori.<br />

Qualcuno amministra piccole imprese, oppure grandi imperi commerciali.<br />

Qualcuno gestisce la cosa pubblica, fa politica.<br />

Qualcuno lo fa bene, qualcuno lo fa male. In tutte le cose si presenta<br />

però la polarità socratica virtù-conoscenza/vizio-ignoranza.<br />

Considerato tutto ciò non ci si può trattenere dal sorprendersi nel<br />

constatare che siamo, comunque, tutti uomini e che vale la pena di<br />

guardarci negli occhi, scoprirci l’un l’altro e incuriosirci. Vale la pena<br />

scrutare, anche solo per un attimo, oltre il nostro perimetro e provare<br />

a guardare nel profondo gli altri. Gli altri esistono.<br />

Uomini che corrono tra le nebbie rarefatte delle grandi città, che si<br />

allontanano in motorino nelle campagne o che lambiscono, come<br />

lingue infuocate, autobus in perenne ritardo.<br />

Tutti uomini. Privi di tratti somatici e di alcuna distinzione di razza.<br />

Uomini i cui sguardi s’incrociano e si abbandonano nel gioco degli<br />

incontri-non incontri.<br />

L’anima della gente è l’anima del mondo e pulsa fortissima, anche<br />

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quando non la vogliamo sentire. È l’anima che ci rende unici e molteplici,<br />

distinti e indistinti. È quello che ci permette di guardarci l’un<br />

l’altro prima di salire su una metropolitana ed è anche quello che<br />

ci permette una sosta razionale dentro le dinamiche del mondo per<br />

osservare gli sconosciuti. Siamo come tante gocce di luce grezza che<br />

si includono ed escludono, che si incontrano e si lasciano nell’oceano<br />

che riflette le gradazioni cromatiche del cielo infinito, profondo e<br />

bellissimo.<br />

Nel frattempo ero giunta tra le palme di Long Beach.<br />

79


X<br />

A Long Beach scesi dalla metropolitana e cominciai a studiare la direzione<br />

da prendere, dato che le strade erano enormi e confuse tra le<br />

palme ed il traffico. Capii dove si trovava l’oceano, ne seguii l’odore<br />

e mi trovai scalza in spiaggia.<br />

Sapevo di avere poco tempo e che la signora Sanchez, il mio capo,<br />

mi avrebbe rimproverata se fossi arrivata tardi, tuttavia il gioco delle<br />

dita dei piedi con la sabbia mi divertiva. Avevo voglia di respirare<br />

l’aria calda di quella giornata.<br />

La spiaggia deserta. Era quasi mezzogiorno. Due uomini combattevano<br />

contro il vento per appoggiare un asciugamano vicino alla<br />

riva. Le onde alte si infrangevano sugli scogli. Il sale dell’oceano mi<br />

entrava tra i capelli e vidi una mamma con il suo bambino.<br />

“Brad vieni qui, dove vai?”<br />

“Mamma voglio vedere dove sono Jo e Emma, torno più tardi”.<br />

Il viso della mamma si adombrò un poco. Nei suoi occhi si leggeva<br />

una certa sofferenza per il distacco forzato. Il distacco fisico e dell’età<br />

tra lei ed il ragazzino.<br />

Si distese e chiuse gli occhi. Forse sognò. Forse pensò a quando era<br />

lei stessa assolutamente noncurante verso sua madre e a quando,<br />

anche lei voleva tagliare le briglie che la legavano ad una famiglia<br />

per scoprire tutta la gente che stava fuori. Forse si ricordò di quella<br />

gente molto più che del viso di sua madre. Solo ora capiva le rughe<br />

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sulla fronte della sua genitrice, di colei che le aveva dato un’origine,<br />

perché erano le stesse che portava su se stessa. Magari ripensò alla<br />

sua illusione di voler conoscere la gente, quando in realtà aveva conosciuto<br />

solo se stessa e nemmeno troppo bene.<br />

Scattata quella fotografia esistenziale, proseguii verso un piccolo gazebo<br />

sulla spiaggia dove alcuni uomini dai tratti ispanici, forse messicani,<br />

strofinavano le poche mattonelle di pavimento intorno ad una<br />

singolare costruzione che, probabilmente, nel pomeriggio si sarebbe<br />

trasformata in un punto di ristoro nell’immensa spiaggia.<br />

Uno dei due uomini si voltò verso di me ed iniziò un eloquio non<br />

troppo ornato né ricercato.<br />

Proferì in realtà solo qualche apprezzamento sulla mia gonnellina<br />

rosa che in effetti svolazzava libera. Iniziò a flirtare con me. Devo<br />

dire che certo non era bello come gli occhi orientali della sera precedente.<br />

Per i suoi occhi certo non avrei pianto, né me la sarei presa<br />

se non gli fossi piaciuta, ma mi dava un certo sollievo quell’interesse<br />

fugace alla luce del sole. Mi limitai a sorridere e sono sicura che il<br />

sorriso mi venne bene, perché ero felice.<br />

Mi sono sempre inebriata davanti al mare. Le onde, la sabbia ed il<br />

sole mi rendono ebbra. Mi danno la stessa sensazione dell’innamoramento,<br />

anzi è qualcosa di molto più fisico. Sentivo un’eccitazione<br />

interiore. Come se un uomo dagli occhi verdi e dal fisico statuario,<br />

magari più giovane di me, mi cominciasse a massaggiare sulla schiena<br />

e con movimenti circolari mi desse le vertigini sul collo.<br />

I granelli di sabbia e l’odore di spazi aperti mi tentavano come una<br />

bottiglia di vodka quando si è già abbastanza ubriachi da voler continuare<br />

a bere e non si sta ancora male da sentire il desiderio di smettere.<br />

Quel paesaggio mi stregava, come quando il corpo di un uomo ti<br />

desidera e tu sei umilmente accondiscendente. Come un uomo che ti<br />

prende con forza e non ti lascia parlare, come un uomo che si muove<br />

su di te, che ti tocca tra le gambe, che ti accarezza le ginocchia, che<br />

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preme il suo corpo contro il tuo, così Long Beach mi aveva fatta sentire.<br />

Come quando a 19 anni ti incastri tra i sedili posteriori di una<br />

macchina perché la passione ti arde dentro e non puoi contenerla in<br />

alcun modo. Come quando picchi la testa contro il finestrino nel parcheggio<br />

perché ti vuoi strappare tutti i vestiti di dosso e due labbra<br />

si fanno guidare l’una dall’altra tra le vie che partono dalla superficie<br />

del cranio fino a giungere ai lembi di pelle sotto il braccio, sul gomito,<br />

sui polpacci e sulle piante dei piedi. Long Beach fa palpitare<br />

esattamente così.<br />

Fissavo il sole e poi l’acqua e poi di nuovo il sole e nel mio cervello i<br />

colori si mischiavano. Caddi. Vinta da me stessa mi coccolai in quel<br />

senso di assoluta freschezza. Ero vittima di me. Eccitata dall’eccitamento.<br />

Sedotta dalla seduzione. Mi sentii bella. La bellezza aveva<br />

vinto. Tutto intorno a me era straordinariamente bello: le mie unghie<br />

dei piedi in cui s’incagliavano i granelli di sabbia, le note armoniche<br />

del Pacifico, la malinconia della mamma lasciata sola, i due ispanici<br />

al bar, i bicipiti di un paio di adolescenti biondi al campo di basket.<br />

Era tutto incantevole, esisteva veramente ed io ero lì a guardare. Mi<br />

sollevai la maglietta, scaraventai le ciabatte a terra e corsi verso la<br />

salsedine. Mi schizzai di tuffi e risa, quanto risi. Ero sola e ridevo.<br />

Ridevo ed il sole continuava a splendere. Ridevo verso l’infinità del<br />

blu, verso l’altezza delle onde. Ridevo per il vento e per il fatto che<br />

ero lì. Ridevo e guardavo davanti a me. Ridevo e guardavo dietro di<br />

me. Ridevo e raccontavo di me a me stessa. Ridevo ed inventavo il<br />

buio che si scioglieva. E poi baciavo d’alba il mio cuore. Come nel<br />

Laocoonte i miei muscoli erano tesi, i tendini sensibili e al pari di una<br />

scultura squisitamente plastica dal mio ventre si sollevava il riso.<br />

“Promettiamoci che se un giorno una di noi passerà dall’altra parte<br />

l’altra farà di tutto per aprirle gli occhi”. Giulia me lo aveva detto<br />

quando avevo vent’anni. Mi sgridava sempre perché sosteneva che<br />

le cose dovrebbero essere fatte semplicemente perché ci va di farle,<br />

82


semplicemente perché ci piacciono e ci rendono felici. L’errore nella<br />

concezione della felicità è che spesso la vediamo come un diritto che<br />

ci compete senza volontà, ma sbagliamo. La felicità non è un diritto:<br />

la felicità è una scelta, anzi, un dovere. Un nostro dovere scegliere di<br />

essere felici.<br />

Stava per scadere il 2006. Un anno nato in fretta e finito ancor prima.<br />

Passava veloce e in quel 2006 erano successe un sacco di cose.<br />

Avevo visto posti. Tramonti. Albe e cieli diversi. Avevo camminato a<br />

lungo su strade sconosciute spiando il nuovo. Avevo seguito il sole<br />

e cercato il paradiso. L’avevo anche avuto con Mattia quel paradiso<br />

per un breve istante. Poi l’avevo perduto… ma in fondo nella vita<br />

sono tante le cose che si possono perdere. Però ci sono momenti che<br />

si sognano tutta la vita e che io nel 2006 avevo vissuto e che nessuno<br />

avrebbe potuto portarmi via. Avevo preso aerei. Preso e perso<br />

treni. Inseguito sogni. Perso cose importanti. Ma capito anche cose<br />

importanti. Però sempre e comunque non avevo smesso di crederci<br />

che esistessero attimi che potevano aprire il cuore e cambiare per<br />

sempre il corso della vita. Poi tutto sarebbe passato. Passa tutto.<br />

Passa la delusione. Passano i momenti. Passa persino l’amore... ma<br />

quello che impari non passa e tu continuerai ad inseguire i tuoi sogni.<br />

Continuerai a ridere e piangere nella tua vita e nella vita di qualcun<br />

altro, ma chi ti ha segnata sarà sempre con te. Ti dondolerai ancora<br />

sulle altalene e farai tardi agli appuntamenti e andrai avanti verso un<br />

nuovo giorno. Un nuovo sole. Un nuovo cielo. E scoprirai che non è<br />

poi tanto male quello che hai. Basta guardarlo da vicino. Basta provarci.<br />

Ti volterai indietro per un secondo. Ti passerà la delusione, la<br />

rabbia, l’incomprensione e vedrai di nuovo il bello che hai avuto e<br />

che è valso ogni lacrima che hai pianto, ogni stretta al cuore ed ogni<br />

vuoto intorno a te. Ti butterai nell’oblio dei sensi e avrai di nuovo<br />

un senso e quel senso arriverà da quello che hai dentro e da quello<br />

che ti si è appiccicato addosso, da quello che sei stato e sì... anche<br />

da quello che sarai... tra gli ostacoli del <strong>domani</strong> ritroverai le cose che<br />

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hai imparato ieri ed andrai avanti. Ancora errori e sbagli, ma ancora<br />

vita e sogni. Tanti sogni e amore.<br />

Con il viso illuminato dal sole di <strong>domani</strong> ci sarà ancora il sapore<br />

del vento di ieri lì accanto a te nel posto dove le cose non si dimenticano...<br />

quel vento sarà lì senza regole, senza stile e t’inforcherà<br />

i capelli. Ti scriverà sul corpo nuovi segni e ti farà vivere e vivere<br />

ancora momenti istanti… attimi… e ancora momenti... come quello<br />

in cui... l’oceano Pacifico bagnava il mio corpo sulle spiagge secche<br />

di Long Beach.<br />

Accantonati i pensieri, uscii dall’acqua e riosservai la strada, forse ero<br />

vicina allo stabilimento presso cui mi dovevo recare. Lo raggiunsi in<br />

pochi passi con addosso ancora l’umidità dei miei vent’anni. Entrai.<br />

Un uomo sulla cinquantina di gradevole aspetto trafficava immerso<br />

nelle scartoffie e alcune donne di colore trasportavano pacchi stracolmi<br />

di buste con caffè, thè infusi e altri intrugli.<br />

Sbrigai le mie commissioni in breve e mi accostai nuovamente al<br />

viaggio, questa volta di ritorno al caffè per terminare la mia giornata<br />

di lavoro alla caffetteria.<br />

Prima di tornare a casa mi fermai al supermercato dove mi persi tra<br />

gli altissimi scaffali e la quantità di marche di ogni genere. Dopo essermi<br />

faticosamente orientata ed aver capito dove prendere il carrello<br />

riuscii a pagare senza intoppi, ma nel piazzale le borsine si ruppero.<br />

Ero abituata a comprare molta roba e a metterla in poche buste, ma<br />

questo perché in Italia le buste sono resistenti. In America usavano<br />

tantissimi sacchetti e quando il mio latte utra-super- light si rovesciò<br />

in terra ne capii la ragione.<br />

Un ragazzo scuro di pelle mi si avvicinò e mi chiese se volevo una<br />

mano. Dietro lui altri due amici. Uno non mi vedeva nemmeno e si<br />

84


guardava attorno.<br />

“Io mi chiamo Stanley” mi fece quello che mi aveva aiutato. Fu gentile.<br />

Scambiammo poche parole, ma abbastanza perché lui capisse<br />

che io ero nuova della città e non conoscevo ancora molto.<br />

“Vuoi che ti aiuti? Mi sembri in difficoltà”.<br />

In effetti tutta la mia spesa era a terra. Gli altri ragazzi mi ignoravano,<br />

ma lui sembrava cortese.<br />

“Non mi dispiacerebbe se…”<br />

Non feci in tempo a finire la frase che lui aveva già raccolto tutto.<br />

Continuò:<br />

“Dove abiti?”<br />

Gli risposi che stavo sulla Kelton. Lui mi guardò. Sospirò conscio del<br />

fardello che si era andato a trovare e pronunciò:<br />

“La strada da qui è tutta in salita, se vuoi ti diamo un passaggio. Noi<br />

abitiamo al campus lì vicino, alla U.C.L.A”..<br />

Ringraziai ed accettai il favore.<br />

Salita in macchina odorai subito il profumo di marjuana che impregnava<br />

la pelle dei sedili. Tenni i piedi alzati per non toccare la collezione<br />

di bottiglie di birra vuote sui tappetini.<br />

“Che fai stasera?” improvvisò Stanley.<br />

Mi sovvenne la domanda che forse le mie relazioni sociali stavano<br />

prendendo un’impennata e che dovevo coglierla.<br />

Disse che, se mi andava di divertirmi, lui la sera sarebbe andato con<br />

gli amici fuori, se volevo potevo andare anche io. Colsi l’occasione.<br />

Ero intimidita, ma Giulia avrebbe lavorato fino a tardi ed io non<br />

volevo stare davanti alla TV tutta la sera. Dissi a Stanley che sarei<br />

andata volentieri.<br />

La sera stessa percorsi il marciapiede fino alla piazzetta davanti la<br />

caffetteria dell’Università e chiesi dove fosse il dormitorio di cui aveva<br />

parlato Stanley. Lo trovai e presa la rampa di scale giunsi al quarto<br />

piano correndo. Correre verso qualcosa o qualcuno è la parte più<br />

85


ella di un incontro, perché fissa il momento trepido dell’attesa che<br />

esplode poi nella realtà.<br />

Correre verso qualcosa o qualcuno. Inseguire una luce per poter parlare<br />

di noi. Vedevo le luci delle stanze superiori illuminate e correvo<br />

con la speranza che quel correre segnasse un inizio. Una partenza<br />

nuova. Una possibilità di scrivere una storia che partendo dalle prime<br />

righe facesse sentire i miei passi lungo i gradini neri fino ai piani<br />

superiori dell’edificio per riempire il tempo di musica, di persone<br />

da incontrare, di cose da fare. Per riempire il tempo di me. Perché il<br />

tempo senza gente e senza armonia volevo lasciarlo in fondo alle scale.<br />

Quello era un tempo senza valore: quasi un non tempo. Il tempo<br />

stavo ricominciando a scriverlo e non perché temevo la solitudine.<br />

O meglio non solo per quello. In realtà la solitudine era la cosa che<br />

temevo di più al mondo. Mattia una volta regalandomi l’anello che<br />

ancora portavo ad una catenina appesa al collo mi guardò e disse:<br />

“Cos’è che ti fa paura? Qual è la cosa di cui hai più paura?”<br />

Risposi senza alcun dubbio: “La solitudine. Io ho paura della solitudine”.<br />

“Ecco, fino a quando tu me lo permetterai io farò tutto quello che<br />

sarà possibile per non farti sentire sola”.<br />

Non avevo parole. Mai nessuno prima di allora mi aveva detto una<br />

cosa simile. Mai. Era come dire che non mi dovevo più preoccupare<br />

di nulla. Mi baciò. Un bacio che durò un secondo ed un secolo insieme.<br />

Mi mise l’anello al dito.<br />

“Spero che la tua vita sia piena di speranza, di sogni, di amore. E<br />

spero che questa sia solo la prima di tutte le luci che illumineranno<br />

la tua vita”.<br />

Amai quel gesto, ma quel gesto non era Mattia, o meglio era una parte<br />

di lui. Ogni uomo è come composto da una gamma di colori, ma<br />

non tutti s’incastrano con quelli degli altri. Quel colore di Mattia mi<br />

piaceva: era il verde dei prati a primavera, era il bello dell’inizio delle<br />

cose, le prime note di una canzone, le prime parole di una poesia.<br />

86


Quando è ancora tutto da scoprire. Quando tutto potenzialmente<br />

potrebbe essere quello che stavi cercando: come la luce che usciva<br />

dalla fessura sotto la porta della camera – se non mi sbagliavo – di<br />

Stanley. Bussai.<br />

Quando entrai nella stanza c’erano già Stanley e molti suoi compagni<br />

d’università. Eravamo nel dormitorio del campus e non potevamo<br />

fare troppo rumore. Stanley continuava a lanciarmi occhiate ambigue<br />

e metteva le mani dove non mi andava. Se doveva prendere una<br />

birra mi passava davanti e faceva in modo di scontrarsi con me. Cercava<br />

di catturare la mia attenzione. Non lo faceva in modo maleducato<br />

o viscido, ma non mi andava ugualmente. Lui non mi piaceva.<br />

Nella stanza erano tutti uomini ed io l’unica donna e l’unica bianca,<br />

ma loro non mi facevano sentire una diversa. Ce ne era uno solo che<br />

non mi guardava mai e che mi escludeva dalle conversazioni e dai<br />

loro slang incomprensibili. Gli chiesi un paio di volte il nome, lui<br />

rispondeva biascicando e non capivo.<br />

Stanley mi aveva invitato con loro perché gli piacevo e perché vedeva<br />

che ero straniera e un po’ sola, però voleva qualcosa in cambio dato<br />

che mi avrebbe portata a ballare con la sua macchina, ma a me non<br />

andava. Ero lì perché l’alternativa di passare la serata a casa non mi<br />

piaceva e volevo godermi un po’ L.A.<br />

Il ragazzo scuro di carnagione di cui non capivo il nome, ma che mi<br />

piaceva chiamò con il cellulare qualcuno e nell’arco di poco ci raggiunsero<br />

due ragazze. Non ero più l’unica donna, ma continuavo ad<br />

essere l’unica bianca. Le ragazze mi guardarono storto non appena<br />

mi videro. Mi presentai all’italiana dando la mano e due baci sulla<br />

guancia. Loro indietreggiarono. Solo in seguito scoprii che in USA<br />

dare due baci sulla guancia è qualcosa di molto formale e che è un<br />

modo per tenere le distanze, oltre che un modo di fare da snob tra<br />

ragazzi. Mi ero già giocata la mia possibilità di andare a genio alla<br />

comitiva.<br />

Le ragazze parlavano nel loro gergo e certo non mi volevano nel grup-<br />

87


po. Tutti bevevano. Bevvero anche le ultime arrivate fino a che non<br />

fu finito tutto il bevibile. Stacchettando le donne e saltando come dei<br />

pazzi i ragazzi dietro a loro poi, uscimmo verso le macchine. In auto<br />

mi sedetti dietro. Stanley guidava, ma voleva il mio sguardo mentre<br />

io cercavo quello del tipo che aveva alzato un muro tra noi, tanto da<br />

non dirmi nemmeno il nome, quello che aveva chiamato le altre due<br />

ragazze. Quello che correva come un pazzo per le strade di L.A. nella<br />

Hummer nera davanti a noi.<br />

In un attimo fummo sul Sunset, il vento caldo s’infilava tra le luci e i<br />

suoni della strada vivificavano la città. C’imbucammo in un locale.<br />

Le ragazze danzavano danze molto erotiche con i maschi che stavano<br />

al gioco. Il ragazzo che mi piaceva era circondato da tre ragazze:<br />

due nere ed una ispanica. Quella ispanica gli aveva già preso il cuore<br />

grazie ad un vestito bianco aderente e due gambe chilometriche. Lui<br />

mollò le altre due e si strusciò con questa. Non riuscivo a togliergli<br />

gli occhi di dosso. Mi aveva calamitato l’attenzione. Lei lo provocava<br />

e si toccava i capelli, poi lui a ritmo di musica glieli afferrava a mo’<br />

di coda e la traeva verso sé. Lei lasciava fare mentre diventavano i<br />

protagonisti della sala da ballo.<br />

Riuscivo a vedere le mani di lui.<br />

“Miriam ma che guardi?”<br />

Mi fece Stanley. Caddi fuori dalla mia visione. Mi si avvicinò troppo e<br />

m’infastidì la cosa perché non volevo si pensasse che stavo con lui.<br />

“Guardi Abdu? Per caso ti piace? Guarda che quella con cui balla è<br />

la sua ex ragazza e non mi pare che sarà ex ancora a lungo”. Così si<br />

chiamava: Abdu.<br />

In effetti parevano in perfetta intesa ed io invece cominciavo a sentirmi<br />

fuori luogo. Ero troppo “diversa” per stare lì, così guardai l’orologio.<br />

Forse non saremmo rimasti ancora a lungo. Così fu.<br />

Uscimmo verso le macchine, ma c’era anche una ragazza in più con<br />

noi: l’ispanica, la quale salì sulla macchina di Abdu. Li spiai un poco.<br />

Lei si aggiustava il lembo di stoffa che la copriva e lui le porgeva<br />

88


qualcosa che non vedevo. Il macchinone nero fece un rombo e sparirono<br />

lasciando sul Sunset un po’ di polvere in più.<br />

Stanley mi accompagnò a casa, ma io non facevo altro che pensare<br />

ad Abdu. Avevo scoperto che si chiamava Abdu. Liquidai Stanley<br />

in breve sulla porta di casa. Faceva molto caldo e le strade erano<br />

deserte, però Los Angeles aveva sempre un’aria di mondanità, anche<br />

a quell’ora.<br />

Stanley tentò di baciarmi e quando gli risposi di no sembrò non capire.<br />

Alcuni uomini non riescono a capire quando non è il caso d’insistere.<br />

Cercai di essere cortese, ma non era proprio possibile, perché lui<br />

continuava a chiedermi perché non mi piaceva, perché volevo andarmene.<br />

Gentilmente proposi risposte del tipo che era un amico e non<br />

cercavo altro, ma lui proprio non sentiva.<br />

Quando finalmente mi chiusi la porta alle spalle tirai un sospiro di<br />

sollievo.<br />

Aprii il frigorifero e ne tirai fuori un barattolo enorme di gelato, mi<br />

ipnotizzai davanti alla tv. Non avevo voglia di pensare a niente, nemmeno<br />

alla sensazione di pesce fuor d’acqua che avevo sentito quella<br />

sera.<br />

Stavo per addormentarmi ancora vestita e con il rimmel colato sulle<br />

guance che sentii bussare alla porta. Chi poteva essere? Era davvero<br />

tardi. Non mi andava di infilarmi le ciabatte ed aprire, ma udii ancora<br />

due o tre colpi e così mi alzaii.<br />

Probabilmente era Stanley che mi domandava ancora un bacio.<br />

Aprii e mi ritrovai faccia a faccia con il faccino da bambolotto nero<br />

di Abdu.<br />

“So che è un po’ tardi, ma non ci siamo nemmeno salutati prima, così<br />

ho pensato di passare. Disturbo? Non ero sicuro abitassi qui, ma ti<br />

ho spiata entrare prima… Forse ho fatto male…”<br />

Credo che l’espressione del mio viso rispose da sé. Non sapevo cosa<br />

dire. Certamente lui i miei occhi li aveva letti allora, quando non mi<br />

89


ispondeva alle domande lo faceva apposta. Forse era una di quelle<br />

intese tra uomini per cui non si porta via la ragazza all’amico. Il fatto<br />

comunque era che lui era davanti a me e mi voleva “salutare”.<br />

“Io ho fame, ti va di accompagnarmi a mangiare qualcosa?”<br />

Avevo mangiato mezzo chilo di gelato, ma mi andava eccome di<br />

mangiare ancora qualcosa.<br />

“Ti ho visto che ballavi con una, perché non sei andato con lei a<br />

mangiare?”<br />

“Shantal è solo un’amica”.<br />

“Un’amica con cui balli molto stretto”.<br />

Lui non si scompose. “Ti va di uscire? Altrimenti vado”. Molto sbrigativo.<br />

Sapeva dove voleva arrivare.<br />

Sollevai il sopracciglio, presi le chiavi e mi chiusi la porta alle spalle.<br />

Scendemmo le scale senza parlare e non dicemmo una parola nemmeno<br />

in macchina, ma quello che contava era che io stavo al posto<br />

dell’ispanica, mi sembrava stranissimo, ma mi piaceva. L’aria calda<br />

entrava dal finestrino. Mi permisi di fargli una carezza sulla testa e<br />

lui si ritirò indispettito.<br />

“Scusa, non volevo infastidirti”.<br />

“Non è per te, anzi è molto dolce. Solo che io sono nigeriano e da<br />

noi questo non è un bel gesto. È come se tu mi volessi sottomettere.<br />

Mi viene da spostarmi sempre. Non lo faccio di proposito, non è<br />

per te”.<br />

Mi scusai e mi colpì molto questo angolo della sua cultura. Avevo<br />

cercato subito il contatto fisico e invece ottenevo distanza. Scoprivo<br />

il nuovo e mi piaceva, come quando camminando nei vialetti storici<br />

della mia città dietro qualche porta socchiusa tu potevi intravedere<br />

le luci e le ombre di una casa, i colori dei mobili, una mamma che<br />

preparava la cena. Potevi sentire qualcuno che rideva ed intravedere<br />

l’aranciato del pavimento, oltre le lenzuola appese alla finestra sopra<br />

i portoni.<br />

Guardavo con avidità di scoperta dentro una casa a Brescia o den-<br />

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tro una cultura sconosciuta a Los Angeles. Scoprivo qualcosa. C’era<br />

sempre un nuovo perimetro da superare.<br />

Abdu parcheggiò la macchina vicino ad una sorta di bancarella che<br />

vendeva specialità messicane che mi risultarono indigeribili, ma non<br />

lo diedi a vedere dato che non volevo rovinare il caldo, il silenzio,<br />

la notte e Miriam-Abdu con un: “Certo che il cibo messicano a<br />

quest’ora è proprio da voltastomaco”.<br />

Altra gente aspettava e noi ci sedemmo. Abdu ordinò qualcosa che<br />

non saprei ripetere e si mise vicino a me. Ancora qualche silenzio e<br />

poi:<br />

“Ti piace Stanley?”<br />

“Veramente è solo un amico. Qui a L.A. non conosco molta gente e<br />

quindi cerco amici, ma non è facile”.<br />

“A Stanley piaci però e lo sapevi”.<br />

Lo sapevo così come sapevo che in quel momento mi piaceva<br />

Abdu.<br />

Arrivò da mangiare e mi sforzai di avere una faccia compiaciuta.<br />

Mentre ci sbriciolavamo sul mento Abdu mi si avvicinò, appoggiò il<br />

piatto e mi baciò sulla bocca. Sembravamo il sole e la luna che s’incontravano<br />

all’alba, una carezza d’acqua calda nell’oceano alle prime<br />

ore del mattino.<br />

Non avevo mai baciato prima un colore diverso dal mio. La mia educazione<br />

m’insegnava a diffidare del diverso e di ciò che non conoscevo.<br />

La società in cui ero cresciuta era fatta di bianchi e se salivo su un<br />

autobus e c’era qualcuno non come me mi creava un certo disagio.<br />

Non lo facevo per cattiveria o comunque non era una cattiveria conscia,<br />

ma mi avevano insegnato così. Mi avevano insegnato l’ignoranza<br />

del disprezzo e della paura, ma quando baciai Abdu sentii non<br />

solo due labbra che s’incontravano, ma anche che io baciavo quello<br />

che lui rappresentava per me. La sua mano nera sulla mia gamba<br />

bianca mi piaceva e mi piaceva il fatto di baciare un altro mondo, di<br />

unirmi a lui.<br />

91


Presi il suo braccio, lo avvicinai al mio e dissi:<br />

“Riesci a vederlo?” Lui non capiva. La nostra carne era diversa, lui<br />

inclinò il capo, dietro i suoi occhi vidi una macchina gialla passare e<br />

le punte delle palme frusciare. Lui guardò ancora le nostre braccia<br />

e disse:<br />

“Io non vedo nessuna differenza”.<br />

Proprio in quel momento passarono tre ragazzi bianchi ci guardarono<br />

e fecero un risolino di scherno. Forse pensavano che eravamo<br />

ridicoli. Non ero a Brescia, ma ero ancora nel mondo civilizzato e<br />

diffidente dove tutti non comprendono, dove tutti cercano un colpevole,<br />

purchè diverso da se stessi. Intanto la notte finiva e il sole era<br />

quasi sorto. Negli occhi di Abdu si rifrangeva il primo raggio di sole.<br />

Mi alzai, lui mi seguì. Dalla macchina vedevo l’albeggiare del cielo e<br />

le prime finestre che si aprivano. Vedevo i barboni che si voltavano<br />

a pancia in giù sulle panchine, perché infastiditi dalla luce. Alcune<br />

macchine che facevano saltare i bassi con musica hip hop nelle casse<br />

ci superavano. Non ero stanca. Il cervello non mi si era ancora indolenzito.<br />

C’erano signori anziani che portavano fuori il cane e ragazze<br />

con i capelli raccolti in coda di cavallo che facevano jogging, probabilmente<br />

prima di andare a lezione in università. La vita si risvegliava<br />

ed io mi ritrovavo nella land dei “se”, dei “ma” e dei “forse”. Ero in<br />

un mondo tra i mondi, tra tutti i mondi possibili e forse da quel punto<br />

vedevo meglio le facce delle cose. Vedevo l’architettura dell’opera<br />

“mondo”. Vedevo l’insofferenza di quando mi precedeva alla cassa<br />

di un supermercato un ragazzo di colore, ma vedevo anche le mie<br />

labbra ammorbidite su quelle di Abdu e pensavo che avevo visto<br />

un sospetto di sole diverso quel giorno, perché l’avevo guardato nel<br />

contrasto chiaro-scuro del contorno dell’iride di Abdu.<br />

Ero come un bambina che con la bicicletta si arrischia imprudente<br />

su una curva pericolosa per guardare in una strada di campagna una<br />

contadina che lavora. Lei cadeva. Cadevo anche io. Mi ero logorata<br />

le toppe sui pantaloni, mi ero graffiata le mani e le ginocchia ed il ma-<br />

92


nubrio della bici mi aveva quasi tagliato la gola, ma mi alzavo. Tiravo<br />

su la bicicletta e un signore dai capelli argentati mi diceva:<br />

“Tutto a posto? Spero non ti sia fatta niente”.<br />

Io rimontavo in sella, ripartivo e sorridevo. Non solo avevo osato e<br />

non mi ero fatta niente, ma alla prossima curva non sarei più caduta.<br />

Abdu ed io non incontrammo più le nostre strade. L.A. decise che<br />

quel momento in cui i binari si erano sovrapposti doveva restare solo<br />

un momento, solo una notte. Tutto sommato però era andata bene<br />

così, perché in fondo le nostre storie sarebbero anche potute non<br />

incontrarsi mai sotto il blu stellato del mondo.<br />

93


XI<br />

Il tempo passò ed io mi ambientavo sempre di più nelle nuove strade<br />

che percorrevo. La Kelton era ormai un riparo sicuro e il Sunset mi<br />

mostrava ogni tanto qualche volto famoso. Cominciavo a dimenticare<br />

quello che era avvenuto prima della scritta “Beverly Hills” e<br />

dell’Apple Martini all’Habbey il mercoledì sera.<br />

All’Habbey, arcinoto locale gay in West Hollywood, incontrai la<br />

gente più stramba che ebbi mai modo di conoscere. Bar “ambiguo”<br />

e soprattutto ritrovo per giovani attori e omosessuali di ogni tipo,<br />

l’Habbey attraeva ambiziosi di ogni genere, qualcosa accomunava<br />

tutte le facce tirate dell’Habbey: il sogno. A volte mi chiesi se quelli<br />

fossero davvero aspiranti attori o dei semplici sognatori. Forse “los<br />

dos es el mismo” come mi aveva fatto notare Fabry, uno di loro dalle<br />

origini andalusiane.<br />

Una sera prima di andare a stordirmi all’Habbey mi capitò tra le<br />

mani una piccola busta contenente una lettera. Me l’aveva scritta<br />

Giulia:<br />

“Un leggero brusio riempie lo spazio asettico che mi circonda. Poca<br />

luce e nessuna voce.<br />

Oggi è morto il gatto di Mary.<br />

Ogni volta che muore una vita muore il mondo intero. Io sto malissimo.<br />

L’universo è freddo ed incostante. La mia poliedricità non mi<br />

94


ha salvata dall’indifferenza dei sentimenti. Continuo a scrivere, ma<br />

vorrei smettere per essere felice. Voglio essere felice. Devo essere<br />

felice.<br />

Devo lasciar cadere la mia penna su questa scrivania ed uscire. Ricominciare<br />

a respirare.<br />

Devo protendermi verso l’esterno: fuori da queste quattro mura.<br />

Gli esercizi di stile s’inseguono sulla carta. Si modulano, s’inseguono<br />

e si bloccano. Ancora e ancora. La proprietà di linguaggio è un’illusione<br />

inquadrata nella staticità della mia evoluzione.<br />

Sono ferma e la luce irradia il mondo fuori da questa caverna stretta<br />

e buia.<br />

Ora alzerò i miei piedi e passeggerò sul ciottolato che ricopre il<br />

cortile per raggiungere la soglia degli eventi reali. Lambirò le vesti<br />

della vita.<br />

Oggi, però, il gatto di Mary è morto. La sua voce rotta ha attraversato<br />

l’aria e me lo ha comunicato.<br />

Si era impresso sul fondo della mia anima il musetto di Nettuno: il<br />

micio di Mary.<br />

Ricordo che emetteva fusa ingarbugliate contro le mie calze smagliate<br />

e che si gettava a pancia in su per subire coccole e sorrisi di ogni<br />

genere. Era vivo ed era vita esso stesso. Il suo pelo serico strusciava<br />

vellutato su divani, tavoli e spigoli di quotidianità. Giocava con le banalità<br />

e si meravigliava dell’ovvio. Era un micio inconsapevole della<br />

crudeltà, del vizio e della perversione del mondo.<br />

Non sapeva nulla di maremoti o guerre; di catastrofi di ogni tipo.<br />

Certo delle lotte di classe, di etnia e religione era all’oscuro.<br />

Non distingueva la vita e la morte. Forse non l’aveva distinta neppure<br />

quando i cani dei vicini di Mary l’hanno azzannato.<br />

L’alito della vita ha abbandonato Nettuno e come in una danza ancestrale<br />

la morte è succeduta alla vita. Vita e morte si sono strette e per<br />

un attimo si sono fuse in un valzer antico quanto il cosmo.<br />

95


Oggi apro il giornale sulla mia scrivania. Le pagine bianche e nere affaticano<br />

la mia vista e costringono i miei nervi ad un enorme sforzo.<br />

Aggiornarsi.<br />

Oggi mi devo aggiornare. Come ogni giorno.<br />

Però Nettuno non c’è più.<br />

Io devo scrivere e lavorare e poi ancora scrivere e pensare. E concentrarmi<br />

sulle scadenze alle porte. Il lavoro, il dottorato a cui volevo<br />

iscrivermi e poi l’amore che mi manca e che forse non conoscerò<br />

mai. Oggi io non ci penserò.<br />

Oggi nessuno penserà a Nettuno perché il suo caldo soffio non faceva<br />

la differenza del mondo… ma chi l’ha detto?”<br />

Era una lettera sconnessa che tenevo nel portafoglio e ogni tanto<br />

tiravo fuori per fermare un momento. La prima volta in cui l’avevo<br />

letta mi aveva colpita e mi ero sentita davvero vicina a Giulia e a<br />

Mary. Mi riallacciai al tempo di allora dalla mia vita inconsapevole<br />

dell’oggi che stavo vivendo. Non conoscevo Mary. Mary faceva parte<br />

del mondo misterioso di Giulia, delle cose che non sappiamo degli<br />

altri. Faceva parte delle serate a casa a giocare a monopoli, quando<br />

non venivo invitata perché stavo con Mattia o semplicemente perché<br />

non si viene invitati sempre ovunque. Nemmeno dai nostri più cari<br />

amici.<br />

La giostra di pensieri si dissolse quando Giulia si materializzò davanti<br />

a me e disse:<br />

“Sei pronta per l’Habbey stasera? Poi magari allo Shelter..”.<br />

Infilai le scarpe e in un attimo oltrepassai la porta di casa, poi le sale<br />

dell’Habbey e numerosi Apple Martini mi condussero allo Shelter.<br />

La notte poteva cominciare.<br />

Il locale era stipato di gente in fila al bar per i superalcolici che deformavano<br />

il mondo circostante. Bevvi molto anche io, volevo che<br />

96


l’alcool scorresse nelle mie vene al posto del sangue. Volevo dimenticare<br />

oppure ricordare meglio me stessa. Volevo gesticolare in modo<br />

confuso in un italo-inglese provinciale. Volevo buttarmi tra i corpi<br />

sudati che ancheggiavano a ritmo R&B e non pensare che quello non<br />

era il suono della mia cultura, perché ogni cultura volevo fosse mia.<br />

La mescolanza dei ritmi mi risuonava dentro, mentre la mia testa si<br />

faceva leggera. Non mi volevo accontentare. Meglio sentire che non<br />

ne avevo abbastanza: del rumore, delle persone, della musica.<br />

Qualche voce soffusa intorno:<br />

“Miriam come stai? Sicura di non aver bevuto troppo?”<br />

“Miriam andiamo a sederci là?”<br />

“Miriam l’hai visto quello?”<br />

“Miriam… dove vai?”<br />

Tentavo di rispondere, ma le parole non uscivano dalla mia bocca.<br />

Dopo qualche minuto mi ritrovai a parlare con un italiano trapiantato<br />

in California per il desiderio di diventare anchorman. Mi chiedevo<br />

come fosse possibile che gli italiani all’estero si attraessero come<br />

calamite. Il locale era grande e superaffollato eppure io ero riuscita<br />

a finire su un divano con questo ragazzetto ventiduenne di Napoli.<br />

Lui cominciò a parlarmi di corsi di recitazione e più mi parlava più<br />

si avvicinava al mio orecchio e più con il braccio s’insinuava vicino<br />

alla mia spalla nuda. Diventava ampio velocemente davanti a me e<br />

bramava di occupare tutto il mio spazio percettivo. Se distoglievo lo<br />

sguardo richiamava la mia attenzione sul suo egocentrismo, come un<br />

narciso primitivo si faceva ammirare, ma la mia mente era già altrove,<br />

mi alzai e lui mi seguì. Pretese un ballo con me. Dico pretese, perché<br />

non mi lasciò l’alternativa di un no. Volammo in mezzo alla sala e ci<br />

perdemmo tra le braccia svestite e le gambe scoperte degli altri ballerini.<br />

Lui si strusciava esplicitamente a me, il suo corpo invitava il mio<br />

ad un party privato. Ero disgustata, ma l’alcool in corpo mi toglieva<br />

la forza di reagire, così appoggiavo la testa sul petto muscoloso del<br />

mio connazionale. Tutti si dimenavano come burattini a ritmo ed io<br />

97


ero completamente scoordinata. Ogni poco una mano mi sfiorava il<br />

fondo schiena e non individuavo mai il colpevole.<br />

Con una scusa mi staccai dall’uomo “ampio” che pretendeva di modellarsi<br />

su di me come possono fare l’aria o l’acqua. Mi dileguai verso<br />

il bagno e mentre mi districavo tra i corpi della gente che parevano<br />

pietrificati a terra lo vidi. Vidi Lui.<br />

L’uomo dalle radici persiane era ad un tavolo con molta gente. Mi<br />

nascosi dietro una colonna per spiarlo. Ero ubriaca fradicia e credevo<br />

di sognare. Desideravo andare da lui e liberarmi della mia rabbia<br />

dicendogli quanto era stato maleducato a non venire all’appuntamento,<br />

ma nello stesso tempo volevo accarezzargli la spalla e dirgli<br />

che era magnifico, semplicemente magnifico.<br />

Continuai a spiarlo, mentre si versava da bere e accarezzava i capelli<br />

di una biondina che nervosamente cercava qualcosa nella borsa.<br />

La musica nel club diminuiva a causa dell’orario e anche la mia sbornia<br />

mi abbandonava.<br />

“Miriam, ma dove eri finita? Ti stavamo cercando. Sembri un adolescente<br />

pescata a rubare ai grandi magazzini. Perché hai quella<br />

faccia?”<br />

“Giuly, l’ho visto. È là…”<br />

“Andiamo a casa che stai cominciando ad attorcigliare le parole. Andrà<br />

a finire che stanotte rigetterai anche l’anima”.<br />

In quel momento l’alcool riattivò i suoi effetti e sentii le mie labbra<br />

allargarsi. Era davvero ridicola quella situazione: io dietro le palme,<br />

la mia amica che mi ripeteva come se stesse leggendo un sermone in<br />

chiesa che avrei vomitato e lui a pochi metri da me.<br />

Uscii docile all’aperto e finalmente rigettai la vodka e tutta la mia<br />

malinconia dietro una macchina in pieno Sunset Boulevard.<br />

Quando finii lo spasmo riaprii gli occhi e nell’oscurità vidi muoversi<br />

la figura di Giulia. Stava fumando una sigaretta appoggiata al muro e<br />

si guardava intorno. La strada era affollatissima e una Bmw grigia si<br />

98


avvicinò a noi. L’uomo orientale era all’interno con una ragazza mora<br />

seduta a fianco, non era la stessa del locale, era un’altra.<br />

Mi aveva scoperta ed io ero in uno stato orribile. Parevo uno scolorito<br />

paio di jeans appena uscito dalla lavatrice. Mi sentivo pallida in<br />

viso e lo stomaco faceva la danza della pioggia dentro di me. Non<br />

potevo ignorarlo. Anche se un martello pneumatico mi trapassava il<br />

cervello.<br />

“Miriam?”<br />

“Ciao... Come va?”<br />

“Bene, ma mi pare che tu non stia altrettanto”. Volevo ucciderlo da<br />

un lato e dall’altro riempirlo di baci. Le sue braccia erano grandi e<br />

indossava una camicia che ne esaltava la virilità. Si affiancò a me,<br />

come per dirmi qualcosa di privato, poi però un uomo sulla cinquantina<br />

lo chiamò e ci raggiunse, anche Giulia non si era allontanata.<br />

L’orientale e l’uomo parlarono in una lingua incomprensibile, forse<br />

arabo o turco. L’uomo tirò fuori alcune rose che teneva una borsa<br />

di carta. L’orientale, o medio orientale forse, ne prese una e diede<br />

all’uomo qualche banconota da un dollaro; mentre continuava a parlare<br />

me la porse. Senza nemmeno guardarmi negli occhi. Io la presi<br />

senza capire che stava succedendo. Poi l’uomo se ne andò, l’orientale<br />

appoggiò una mano sulla mia spalla e disse:<br />

“Questo è per scusarmi se non ci siamo visti quella sera, ma non ti<br />

ho potuta chiamare, non avevo il tuo numero. Ora ti lascio il mio,<br />

così se vuoi…”. Mentre parlava aveva rimediato un foglietto e una<br />

biro e scrisse.<br />

Mi ritrovai con alcuni numeri in rilievo su un pezzetto di carta strappato,<br />

probabilmente un tovagliolo dello Shelter. Lui si scusò ancora,<br />

mi strinse e ripartì veloce sulla sua Bmw, con la donna mora accanto.<br />

Infilai il numero di telefono in tasca. Ed infilai anche il suo nome<br />

in tasca: me l’aveva scritto. Si chiamava Jam. Come la marmellata.<br />

Dolce come la marmellata.<br />

Giulia, che aveva assistito alla scena, mi prese la mano e chiamò un<br />

99


taxi. Era ora di tornare a casa. O meglio di farmi tornare a casa.<br />

M’imbucò su un veicolo giallo, mi baciò la guancia, si voltò verso un<br />

giovane dall’aria piuttosto allegra e mi salutò soffiandomi all’orecchio.<br />

“Passerò la notte da lui. Ci vediamo <strong>domani</strong>”.<br />

Mi appoggiai al sedile del taxi, afferrai con le mani la tela del sedile,<br />

mi voltai per vedere attraverso il vetro dov’era Giulia, ma le macchine<br />

già mi coprivano la visuale. Guardai il taxista, poi il Sunset, poi le<br />

insegne luminose dei negozi chiusi e mi addormentai.<br />

La notte di Giulia<br />

Giulia passò un dito sotto l’occhio per cercare di togliere le tracce<br />

di rimmel che durante la notte erano colate, offrì la sua mano a Rob<br />

e lo seguì.<br />

“Giulia ma lo sai che mi piaci proprio tanto? Sei bellissima!” La<br />

bocca di Rob pareva il regno del superlativo.<br />

Rob stritolava la mano di Giulia e ogni poco la sollevava.<br />

“Dove abiti?” azzardò lei dopo dieci minuti che camminavano.<br />

“Qui vicino, non preoccuparti, ancora poco”.<br />

Rob indagò con l’indice la mano di Giulia e cominciò a correre.<br />

“Perché stai correndo?”<br />

Lui ansimò: “Perché non abbiamo tutto il tempo del mondo. Vorrei<br />

averlo. Sarebbe meglio, ma non l’abbiamo”.<br />

“Rob, ma dove mi vuoi portare?”<br />

La complicità tra loro cresceva ad ogni raggio di luna in più. C’erano<br />

tre stelle ad illuminarli.<br />

“Giulia, qualcuno ti aspetta quando torni a casa?”<br />

“Sì”, Giulia aveva sempre qualcuno che la aspettava.<br />

Rob indagò: “E ci stai bene?” Lei esitò qualche secondo poi<br />

rispose:<br />

“Io sto bene con me stessa”.<br />

100


“Ma lui ti dà ciò di cui tu hai bisogno?”<br />

“Lui è molto diverso da me, ma bisogna sempre valorizzare quello<br />

che si ha. Certe volte anche accontentarsi di quello che si ha. Si potrebbe<br />

scoprire che ci fare stare bene”.<br />

“Allora perché sei qui con me?”<br />

“Perché io sono incontrollata e soprattutto incontrollabile. Vedi<br />

Rob, l’80% delle persone non mi cambiano la vita, non mi portano<br />

sopra le righe, ma sono comunque persone. Con il 15% invece potrei<br />

parlare per ore e scoprire che abbiamo molto in comune, con il<br />

4% potrei perfino arrivare a fare l’amore, ma è solo l’1% che quando<br />

non c’è può fare la differenza. Io sto ancora cercando quell’uno”.<br />

“Streghetta, sei tu quell’uno. Per questo sei speciale. Sei tu che crei<br />

il tuo uno. Non hai mai pensato che forse ognuno di noi può essere<br />

quell’uno?”<br />

Le parole si dissolvevano nell’aria. Un uomo per strada suonava<br />

con la chitarra i brividi di “Hey you” dei Pink Floyd. O forse i<br />

brividi quella sera Giulia e Rob li provavano per la chimica del loro<br />

incontro.<br />

“E tu, tu una metà che ti aspetta a casa ce l’hai?”<br />

“No” rispose seccamente Rob.<br />

“L’hai mai avuto qualcuno di importante?”<br />

“Sì”. Di nuovo monosillabi.<br />

“Perché è finita? Perché l’amore finisce? Quando l’amore finisce?”<br />

“L’amore finisce quando ne comincia un altro”.<br />

“Ma tu sei mai stato innamorato?”<br />

“Sono stato molto bene”.<br />

“Non ti ho chiesto se sei stato bene, anche io sto bene adesso. Sto<br />

bene quando la mattina c’è il sole, quando ho un giorno di vacanza.<br />

Quando mia madre prepara le frittelle. Sto bene quando l’aria è leggera,<br />

quando ascolto un cd che mi piace, quando condivido la tavola<br />

con una mia amica. Non ti ho chiesto se sei stato bene, ti ho chiesto<br />

se hai mai amato qualcuno”.<br />

101


“No”.<br />

“Peccato, ti sei perso qualcosa.. Ti sei perso quando io e te cessa di<br />

essere io e te e diventa ioete, diventa noi”<br />

“Cosa vuol dire noi?”<br />

“Noi vuol dire il futuro. Vuol dire non immaginare <strong>domani</strong> senza te.<br />

Ho chiesto ad un mio amico una volta perché seguisse la sua ragazza<br />

in giro per il mondo dato che lei, essendo modella, viaggiava spesso.<br />

Gli chiesi cosa vedesse in lei. In fondo non era per niente comodo<br />

quell’amore. “Cosa vedi in lei” insistevo e lui rispose “in lei vedo il<br />

futuro”. Allora l’amore molto spesso è scomodo, difficile, quasi un<br />

enigma da risolvere e quando pensi di aver scoperto molto ti accorgi<br />

che c’è ancora molto, tanto da scoprire”.<br />

“Giuly, il problema è che il mio cuore è di pietra. Non l’ho mai aperto.<br />

Sono stato sempre un traditore. Ho tradito tanto”.<br />

Giulia si allontanò un poco e lo fissò dritto negli occhi. Disse:<br />

“Quando ho tradito io ho sempre sporcato tutto, inquinato le cose<br />

belle. Sono stata brava, quasi una stratega del tradimento. Inventavo<br />

bugie pennellate di verità inesistenti e il dramma è che stavano in<br />

piedi. Lui non le scopriva mai. Eppure io avevo già commesso un<br />

delitto. Dentro di me avevo già ucciso un sentimento che, invece di<br />

valorizzare, sminuivo. È la differenza tra costruire e distruggere”.<br />

“Ci sono volte in cui tu razionalmente vorresti sincronizzare cuore e<br />

mente. Vorresti dare e invece prendi, ma non lo fai con cattiveria”.<br />

“Lo so Rob. Il tuo cuore comunque sarà pure di pietra, ma tu sai<br />

essere anche morbido, caldo, intenso. Sai essere un universo da scoprire.<br />

Sei come un mare su cui sono riflesse le stelle. Hai mai pensato<br />

che forse ci sono delle stelle in fondo al mare e che quella luce<br />

quindi non sia solo un riflesso? Le cose a volte sono diverse da come<br />

sembrano, dobbiamo solo sforzarci di pensare e potremmo scoprire<br />

che anche noi siamo diversi da come immaginavamo, meno crudeli,<br />

meno cinici e calcolatori. Potremmo essere capaci di cose grandissime<br />

se credessimo in quella stella in fondo al mare”.<br />

102


Rob si fece intenerire da quelle parole, ma tornò in fretta con i piedi<br />

per terra. Era bello sognare di essere migliori, di essere speciali, ma<br />

poi lì tra loro c’era la realtà. Continuò:<br />

“Fatina, la parola d’ordine tra noi da adesso sarà libertà”<br />

Stavolta Giulia si mise a correre. Lui la seguì. Lei prese una storta<br />

al piede e si dovette fermare un attimo. Alcune gocce di sudore le<br />

colarono agli angoli degli occhi e fece:<br />

“Cosa significa libertà? Non è forse una parola talmente usata che se<br />

ne è svalutato il significato? Libertà vuol dire tutto e non vuole dire<br />

niente”.<br />

“Esatto: un po’ come noi che stasera saremo un po’ tutto e un po’<br />

niente”.<br />

Rob distrasse il discorso. La notte diventava sempre più buia e Giulia<br />

sentiva la stanchezza della sua età. Rob era più giovane, si vedeva.<br />

Lei avrebbe voluto rubargli il tempo in più che a lui ancora aspettava.<br />

Loro insieme, comunque, un po’ di tempo ancora ce l’avevano.<br />

“Vuoi mangiare qualcosa?” Fece Rob. Giulia sapeva che condividere<br />

il cibo era come condividere il letto e non voleva mettere freni. Mangiarono<br />

tanto: pizzette, ciambelle, focacce e perfino un gelato. Si fermarono<br />

ad ogni piccolo market aperto e cominciarono a gareggiare<br />

su chi avrebbe mangiato di più. Poi il gioco continuò sulla pancia di<br />

Giulia nel letto di Rob. Lui mangiò di tutto su quel ventre e intanto<br />

ridevano e si baciavano.<br />

Giulia non aveva freni e nemmeno ne voleva. Era carnale e senza<br />

pensarci molto assaliva continuamente il collo di Rob. Ne esplorò<br />

l’odore creando da subito l’intesa dei corpi.<br />

Rimase invaghita da quel momento sapendo che già l’in<strong>domani</strong> le<br />

sarebbe mancato. I vestiti per loro costituivano solo un ostacolo facilmente<br />

superabile, un muro da abbattere mentre selvaggiamente<br />

si mangiavano addosso e naturalmente ridevano. Così il tempo si<br />

dilatò.<br />

Lunga e breve. Sensuale e sporca. Vera vitale e bella stava diventan-<br />

103


do quella notte. Il tempo e lo spazio si comprimevano agli angoli del<br />

mondo da dove partivano infinite nuove passioni. Spaziosa e ampia,<br />

profumava già di sesso, senso e arte quella notte.<br />

Rob e Giulia erano legati da un sottile filo rosso.<br />

Anche vuota era quella notte, eppure tutto aveva un senso ed erano<br />

Rob e Giulia a darglielo. Interpretavano personaggi che si potevano<br />

incontrare solo nella notte tracciando luoghi nuovi della mente e<br />

del cuore. La vita era breve, troppo breve per rinunciare a percorsi<br />

che s’intrecciano e così Rob e Giulia s’incontrarono. Non avrebbero<br />

passato insieme tutta una vita, ma certo avrebbero trascorso insieme<br />

parte di quella notte, forse la parte più bella stretti l’uno alla vita<br />

dell’altro. Erano entrambi ancora molto lontani da quel momento<br />

della vita in cui non si prova più niente, in cui tutto scorre limpido<br />

e tristemente regolare senza salti del cuore. Loro come fili rossi si<br />

intrecciavano insieme e creavano il cuore del mondo. Quel cuore<br />

pulsava ancora sotto il seno di Giulia schiacciato dal corpo di Rob.<br />

104


XII<br />

Una settimana più tardi ancora non mi decidevo a chiamare. Rimiravo<br />

i numeri sul foglio, ma mi mancava la sfrontatezza. Il desiderio<br />

però era tanto, soprattutto dopo la rosa. Era stato un gesto inaspettato<br />

e naturale. Fiori me ne avevano sempre regalati pochi ed io dichiaravo<br />

che non m’interessavano, ma in realtà come la maggior parte<br />

delle donne dicevo una cosa e ne pensavo un’altra. La rosa mi era<br />

piaciuta. Era vermiglia e profumata. Avrei composto il numero.<br />

“Ciao Jam, come stai, ti disturbo, no perché se fosse così ti richiamo<br />

in un altro momento... Sono Miriam”.<br />

“No, figurati mi fa piacere, come stai? Che fai stasera?”. Doveva aver<br />

capito che il mio inglese al telefono non era dei migliori ed era andato<br />

subito dritto al punto per evitare i miei continui: “Scusa puoi<br />

ripetere che non ho capito bene”.<br />

Risposi: “Io bene e per stasera… Perché no… facciamo per le<br />

dieci?”<br />

“Vuoi giocare? Stasera?”<br />

“No, che dopo mi confondi e mi metti tutta in disordine”.<br />

“L’ordine non mi è mai piaciuto. Ci vediamo per le dieci stasera.<br />

Ciao”.<br />

Riattaccò. Conversazione telegrafica, non pensavo nemmeno di trovarlo<br />

al telefono. In pochi minuti avevamo di nuovo un appuntamento.<br />

105


Quella sera uscimmo veramente, non eravamo soli. Andai con Giulia.<br />

Pensai che per iniziare ci si poteva vedere in compagnia con altre<br />

persone. In fondo non ci conoscevamo per niente. Finimmo a ballare<br />

latino americano in tre. Non era proprio il numero perfetto per me,<br />

ma a lui andava bene così. Ci immergemmo nelle danze a metà tra<br />

l’erotismo e la pornografia e mi accorsi che avevo voglia di tuffare<br />

le mie mani tra i suoi capelli e di inghiottire il suo profumo. Così ci<br />

demmo il primo bacio. Non sentii le campane, questo no. Fu solo<br />

un bacio, in un locale, al buio, di notte, niente di più. Forse l’unica<br />

cosa che feci di diverso dalle altre volte fu guardarlo, tenere gli occhi<br />

aperti quando i nostri nasi si scontrarono. Accendeva la mia fantasia,<br />

m’incuriosiva, così non volevo perdermi i suoi lineamenti visti da<br />

vicino. Mentre le nostre lingue si presentavano, lo penetravo. È una<br />

cosa che evitavo di solito, perché tenere gli occhi aperti nella maggior<br />

parte dei casi comporta che non si veda nulla e ciò è davvero<br />

deludente, ma con lui rischiai e non ne capivo la ragione.<br />

Tutto quello che venne dopo lo scrissi su pagine di vento che forse<br />

sarebbero volate via un giorno oppure si sarebbero impresse sul fondo<br />

del cuore.<br />

Prima di tutto ci furono le parole. Le onomatopee, le metafore, le<br />

voci. Poi ci furono i brividi, il pallore della luna appoggiata sull’oceano,<br />

la musica.<br />

Lui cominciò ad insegnarmi qualcosa. All’inizio non lo intuivo, lo<br />

ignoravo. Non mi piaceva sollevarmi verso la luce eterea del mio io<br />

guidata da un auriga che non conoscevo. Non mi fidavo. Lui credeva<br />

di sì, ma la verità è che ne avevo paura. Temevo, e temo ancora adesso,<br />

di scrivere quello che avevo visto, percepito, assaporato. Come<br />

una linea retta mi tesi verso di lui e divisi in infinite parti il segmento<br />

delle mie capacità. Fin dove potevo arrivare? Dove mi poteva con-<br />

106


durre quel mezzo uomo e mezzo animale? Dove iniziava la sua razionalità<br />

e finiva la mia illusione? Cominciammo ad allontanarci dalla<br />

mondanità. Cominciai a cercare un guscio che non si potesse scalfire.<br />

È vero. Avevo paura. L’ombra della sua figura mi guidava in una danza<br />

ideale, mentre io mi affaccendavo sulla zattera della vita nel porto<br />

delle mie possibilità. Avevo appena deciso di lasciare. Avevo da poco<br />

accettato i miei vestiti logori. Avevo fatto amicizia con l’umiltà di chi<br />

capisce. Crede di aver capito. Finge di aver capito. E invece non ha<br />

capito nulla. Stavo traghettando il mio essere verso l’oscuro mondo<br />

delle anime sottili, senza passato, senza futuro, senza consapevolezza,<br />

quando danzai con lui tra gli altari di sabbia e la voce del mare.<br />

Questa fu la mia possibilità. Mi si presentò quando non lo pensavo<br />

possibile. La possibilità di comprendere. Di spolverare ciò che era<br />

cristallizzato dentro di me.<br />

Così osservai l’infinito, lo filtrai, lo sfidai. Se esisteva dovevo averlo.<br />

Doveva essere mio. Dentro la pioggia delle mie lacrime, come dopo<br />

una rovinosa caduta. Dovevo alzarmi. Scoprirmi. Mostrarmi. Correre.<br />

Sì correre. Fin sopra la montagna. Fino al picco più alto. Dal fragore<br />

della cascata fino a dove la sorgente nasce, dove gli scrosci non<br />

sono più pericolosi. Dove puoi vedere. Sentire o come avrebbe detto<br />

lui “vibrare”. Usava questa parola spesso. Vibrare. Vibrare dentro<br />

la propria sfera di cristallo. Frantumarla in mille pezzi e superare il<br />

confine. Attraversare la galleria di tutto ciò che ci appare reale e giusto<br />

per guardare un nuovo orizzonte, capire il tutto e l’uno. Il singolo<br />

ed il molteplice.<br />

Mi diceva che siamo tutti come facce di un prisma. Possiamo farci<br />

oltrepassare dai raggi del sole e riproiettarli in tutte le combinazioni<br />

possibili sulla lavagna che memorizza le tempeste della nostra vita.<br />

In questo modo sono incorsa nella sua lezione. D’amore. Di vita. Lui<br />

continuava ad insegnare. Qualcuno aveva insegnato a lui. E ora lui<br />

insegnava a me. La luce. Le stelle. La luna.<br />

Aveva preso me, una discepola non diligente, nemmeno troppo at-<br />

107


tenta, distratta. Sì, io sono sempre stata distratta. Imparavo facilmente.<br />

Dimenticavo facilmente. La mia indifferenza uccideva i ricordi, le<br />

facce, i profili.<br />

Eppure lui mi guardò e mi diede cielo, alba, mare, terra. Mi diede le<br />

trame rosse di un sole che nasce. Lui me le fece vedere. Schiaffeggiò<br />

il mio silenzio, la mia ostinazione e mi fece vedere un po’ più in là.<br />

Oltre.<br />

Lui spiegava. Con le parole. Con la virtù dell’anima. Mi chiese se volevo<br />

salire sulla sua carrozza per assaggiare la magia del tutto. Potevo<br />

elevarmi. Staccarmi. Annientare l’anestesia che aveva addormentato<br />

i miei sensi. E vedere. Immaginare. Creare.<br />

Come nella tradizione più antica mi interrogava spesso. Per valutarmi.<br />

Analizzarmi. Forse lo delusi. Non ero preparata a scorgere. Non<br />

lo sono neppure ora. Era troppo presto.<br />

Ero ancora avvolta nelle pesanti coperte di una dimensione fisica<br />

opprimente. Tuttavia avevo intravisto. Avevo intuito. Ero lontana,<br />

ma potevo cominciare a contare i passi che mi separano dalla meta.<br />

A volte erano brevi e decisi. A volte lunghi e lenti. Sentivo, però,<br />

che era possibile. Con lui sentii che era possibile. Il diadema tra le<br />

mie sopracciglia avrebbe indicato la strada per comprendere la vera<br />

natura che scolpiva le mie forme.<br />

Volevo sedermi. Riflettere. Ero gelosa del mio tempo. Della mia solitudine.<br />

Era una contraddizione che si manifestava continuamente.<br />

Solitudine. Compagnia.<br />

Volevo sedermi sulle pietre dei miei modi di essere e studiare la direzione<br />

di gravità.<br />

Volevo girarmi, ribaltarmi, contorcermi, ripiegarmi su me stessa. Volevo<br />

dissolvermi. Diventare gas. Pura essenza. A tratti esperienza.<br />

Ricordo. Immagine. Di tutti i percorsi che si stendevano davanti a<br />

me. Di tutti i sentieri che mi ero lasciata alle spalle. Ero ad un bivio.<br />

Restare. Andarsene. Sognare. Svegliarsi. Tuffare le mie caviglie<br />

108


nell’oceano insieme alle sue. Oppure bere una tazza di thè davanti<br />

ad uno schermo senza vita. Davanti allo spettro di quello che io sarei<br />

potuta essere. Anzi del tutto di cui io avrei potuto fare parte. Fantasmi<br />

e vecchie streghe minacciavano il candore della verità. Ma non<br />

volevo processarli. Io li avevo creati. Io avevo ricamato il mio essere.<br />

A volte mi sfuggiva, ma era una mia opera e solo io, se volevo, potevo<br />

migliorarlo. Ed andare “oltre”. Come lui mi stava insegnando.<br />

Chi prima di lui aveva traghettato la verità? Chi si sopraeleva verso<br />

la stessa? E chi mi avrebbe allora aiutata a scorrere sulle parole per<br />

fermare, ingabbiare un pensiero che presto, già lo sapevo, sarebbe<br />

scivolato via? E, infine, chi aveva detto a lui di afferrare la mia mano<br />

e di condurmi verso l’origine dei sensi?<br />

Eppure... Eppure già morivo dentro per il dolore della separazione,<br />

per la generazione di nuovi io e per la corruzione di quel momento.<br />

I fotogrammi di diverse sinfonie e diversi suoni rigonfiavano la mia<br />

inquietudine. Che cosa sarebbe successo? Forse non sarebbe bastato<br />

chi eravamo. Non sarebbe bastato chi saremmo voluti essere, né<br />

quello di cui avremmo voluto far parte.<br />

Alcune volte c’infervoriamo ed infiammano i nostri sensi. Altre volte,<br />

invece, le persone e le situazioni vanno fuori fuoco. In fondo non è<br />

sempre nemmeno colpa nostra. Spesso ci proviamo ad usare i colori<br />

giusti, le parole giuste, ma non sempre è sufficiente. E allora che cosa<br />

sarebbe successo? Forse avremmo potuto leggere insieme un libro.<br />

Forse avremmo potuto farci una carezza in più.<br />

Avremmo potuto crearci un gergo comune per sorpassare le nostre<br />

diversità. Forse, addirittura, della diversità avremmo potuto farne un<br />

valore. O, forse, le cose semplicemente non sarebbero andate così.<br />

Le persone, in fondo, vanno e vengono. Qualche volta prendiamo<br />

un treno, qualche volta no. Qualche volta c’innamoriamo e qualche<br />

volta diventiamo solo frammenti nei ricordi di qualcuno che non<br />

vedremo più. Qualcuno che dimenticherà, nel peggiore dei casi, in<br />

fretta, oppure ci appenderà all’album dei ricordi lontani. I ricordi<br />

109


di una estate, di una spiaggia, di una casa, di un letto. Momenti che<br />

scorrono dentro la vetrina della nostra vita, a volte durante un viaggio<br />

Los Angeles-Milano. Mentre i fili di sole punteggeranno le cime<br />

di verde, rimarranno nella memoria gli odori della nostra pelle e,<br />

forse, un giorno ci ritroveremo ad usare un’espressione, una parola,<br />

un riferimento di cui non ricorderemo esattamente la provenienza,<br />

forse un giorno ascolteremo quella canzone e non riusciremo a realizzare<br />

quando l’abbiamo sentita la prima volta e perché. Però, in<br />

quel preciso momento, noi avremo dato un senso a tutto quello che è<br />

successo. E saremo lontani, vittime di altre emozioni, di altri luoghi,<br />

di nuovi desideri e mondi da scoprire, tuttavia proprio allora nascerà<br />

un nuovo brivido sulla nostra pelle e in quel momento noi ricorderemo<br />

esattamente tutto.<br />

In questo modo andarono le cose tra me e lo sconosciuto. O almeno<br />

questa fu l’essenza del nostro incontro.<br />

110


XIII<br />

Mi stavo recando al lavoro quando vidi un Internet point, non l’avevo<br />

mai notato prima forse perché rimossi ogni ponte e legame con<br />

il passato, ma mi venne voglia di guardare nella mia posta. Entrai. Il<br />

posto era piuttosto malandato e fatiscente, decisamente c’era poco<br />

di moderno, però la linea funzionava, così aprii la mia finestra sul<br />

mondo.<br />

Accanto al solito spamming-spazzatura riconobbi la mail di Sara.<br />

Sara era partita per gli Usa anni prima e da allora mi mandava cartoline<br />

telematiche sulla sua vita. Io ero sempre impaziente di leggere le<br />

sue parole e questa volta avrei potuto risponderle e dirle che anche io<br />

ero partita, che anche io avevo iniziato il mio attraversamento.<br />

La mail di Sara<br />

“Le strade di NY mi inghiottono, da un lato i piccoli angoli dei mercanti<br />

del Greenwich Village che ti venderebbero qualsiasi cosa per<br />

fare due soldi, dall’altro le grandi e ricche case dell’Upper East Side.<br />

Dove vive la gente che il lunedì mattina si alza e affolla le strade vicino<br />

all’Exchange. I manager di successo volano nei taxi e nelle metropolitane<br />

e fanno poco caso a me. Una piccola vita incorniciata da<br />

grattacieli altissimi e gente di strada che balla hip hop agli angoli tra<br />

111


Harlem e il West Side. Due ragazze di colore con le cuffie dell’MP3<br />

nelle orecchie improvvisano una danza a metà tra il tribale e il post<br />

moderno davanti ad un mucchio di gente di ogni razza, colore, etnia<br />

accomunata dal semplice desiderio di tornare a casa dal lavoro. Questo<br />

è un angolo di NY. E bisogna fare molta attenzione ai cappellai<br />

matti, alle giostre ed alle cartomanti che vogliono leggerti un futuro<br />

fatto di mille e una notte, di favole e sogni per una “modica” cifra di<br />

14 $ a previsione.<br />

Che succede da questo lato del mondo stasera? Stasera Sara e Lizzie<br />

parlano di se stesse sedute su un vecchio mobile sgualcito vicino la<br />

finestra accanto ad uno dei panorami di NY. Siamo nel Bronx a casa<br />

dell’ultima nuova amica di Lizzie. In lontananza i suoni di una lingua<br />

che non capiamo, che non vediamo. Lizzie si alza. Vuole farsi di cocaina.<br />

È un vizietto che non può abbandonare. Lizze finge che non<br />

sia un problema. Agli amici dice che non lo fa mai, che ci cade solo<br />

una volta ogni tanto, ma Lizze mente anche a se stessa. Quando le si<br />

incavano le borse sotto gli occhi e le tremano le mani lei continua a<br />

dire che è solo un po’ agitata e ha bisogno di riprendersi. Riprendersi<br />

da cosa? Dalla vita? Dalla vita non c’è striscia bianca che possa farti<br />

riprendere. Lizze non fa altro che inventare storie sulle persone, crea<br />

mondi che non esistono e attribuisce agli altri quello che in realtà fa<br />

lei. Spara a zero perché è incazzata con il mondo. Un mondo che le<br />

ha offerto una famiglia a metà, un amore a metà, una vita a metà. Lizze<br />

è stata anche in prigione perché per avere la “neve” se non sei ricco<br />

qualcosa devi vendere e finisci nei guai. Lei vende il suo corpo di<br />

ventiduenne agli uomini di quarant’anni per qualche dollaro, in realtà<br />

la pagano bene perché ha un corpo snello, tonico, giovane. Lizze<br />

ci è dentro fino al collo, ma ne uscirà perché non ha ancora perso la<br />

sua forza. Ne uscirà con una marcia di solitudine in più però.<br />

C’è un’altra ragazza nella stanza accanto. Kathy. Khaty è portoricana.<br />

Khaty è bellissima. Khaty è il cielo di chi la osserva o di chi… la spia.<br />

112


Kathy ha gli occhi grandi e sa di essere quello che è. Una che viene<br />

dal Bronx. Una che lotta tutti i giorni con la vita per mangiare, lei<br />

e sua figlia. Lei e quella poveretta di sua madre. Ma Kathy non può<br />

rinunciare alla vita, al sesso, all’amore. Khaty ha 26 anni e sente che<br />

ha già bruciato tante cose. Kathy ha tanta paura. Stasera ha invitato 2<br />

ragazze straniere ad un party a casa sua perché è stufa dei suoi soliti<br />

giri. Le due ragazze sono Sara e Lizze: io e Lizze. Io non sono più<br />

io. Io vedo me stessa: Sara. Come in un cortometraggio d’autore si<br />

abbassano le luci.<br />

Kathy è diversa dalle altre. Sara l’ha capito subito. Kathy disegna<br />

la vita su un muro tra la 125st e la Madison sq. Kathy va a ballare<br />

il venerdì all’“Exit” e cerca uomini ispanici. Ma Kathy non è solo<br />

questo.<br />

Lizzie vuole proprio farsi, non resiste. Sara e Lizzie hanno parlato<br />

troppo e Lizzie ha dovuto ammettere a se stessa che è sola, che nessuno<br />

la ama. Questo è un dolore insopportabile. È insopportabile<br />

dove la terra finisce e cominciano i sogni.<br />

La gente inizia ad arrivare a casa di Kathy. Arrivano tutti. Lasciamoci<br />

andare stasera. Sara vuole dimenticare da dove viene. Chi ha amato,<br />

chi l’ha amata. Dimentichiamoci la piccola strada dove la nonna<br />

di Sara la inseguiva da bambina per convincerla a cenare. Dimentichiamoci<br />

di quel ragazzino che a 15 anni le ha spezzato il cuore. E<br />

andiamo avanti, qui, ora. Guardiamo Kathy e Danny e Joseph e Jack<br />

e Lizzie. La festa può iniziare.<br />

La droga è tanta. Kathy è sempre più eccitata. Sua figlia è fuori dalla<br />

porta stasera. Stasera lei è una di noi. È una come me. Lei può usare<br />

il suo corpo stasera. Può osservare la luna dentro i miei occhi e può<br />

anche baciarmi. Se vuole. Può stringermi e farmi sentire che cos’ è<br />

l’amore sospeso, in bilico tra due mondi, tra tutti i mondi possibili.<br />

Tra le mie zuppe calde del lunedì sera e i suoi take away dopo aver<br />

spazzato la casa dei ricchi tutto il giorno. Lei può farmi assaggiare la<br />

polvere dei suoi vestiti e può farmi molto male. Qui tra queste quat-<br />

113


tro mura un po’ scrostate.<br />

Danny appoggia un braccio sulla spalla di Sara. Lo fa con naturalezza.<br />

Assaggia il suo profumo. Lo vuole. Sara lo sa benissimo. E intanto<br />

Kathy prende per mano Sara, inizia a ballare e la stanza comincia a<br />

girare. Non esiste più chi siamo, chi eravamo o chi saremo. Esistiamo<br />

io e te tra le lenzuola della nostra povertà. Esistiamo io e te che<br />

facciamo a pugni con questo momento. Non l’abbiamo deciso. Forse<br />

non l’abbiamo voluto, ma è nostro. È qui.<br />

Kathy non dovrebbe ballare in quel modo, Lizzie non dovrebbe essere<br />

così fatta, Danny non dovrebbe appoggiarsi a Sara per prendere<br />

le sue sigarette dall’altro lato del divano e Sara… Sara semplicemente<br />

non dovrebbe essere quello che è in questo momento, o forse dovrebbe?<br />

Sara dovrebbe desiderare di cascare dentro ad un nuovo gioco. In<br />

fondo siamo sempre bambini ed abbiamo bisogno di sbiancare la<br />

nostra pelle dentro un nuovo liquido. Non importa se questo è poco<br />

poetico. Questa è la vita di ogni giorno.<br />

La musica aumenta, ma quasi nessuno la ascolta. Inizia il gioco. Inizia<br />

la nostra piccola emozione.<br />

Chi vuole fare l’amore? Chi vuole to fuck? Chi vuole un frammento<br />

di gioia dentro un orgasmo? Chi cerca la felicità? Questa è NY. Tutti<br />

cercano la felicità, così come in ogni parte del mondo.<br />

Questo per Sara è più di NY. Questo è il Bronx e la vita che non esiste.<br />

Questa è Kathy e i suoi piccoli piedi. Questa è Danny e il suo respiro<br />

appoggiato al divano. Questa è Lizzie e il suo male di vivere.<br />

E poi c’è Sara che stringe Kathy, che balla con lei. Che spinge il<br />

piede sull’acceleratore. C’è Sara che ama tra gli stracci della cucina<br />

di Kathy. Sara che raccoglie i coriandoli colorati di un passato che<br />

Kathy vuole dimenticare. Ci sono due labbra che si incontrano. Le<br />

mani si toccano. Il sangue va alla testa e lasciamo perdere i miei capelli<br />

lunghi. I jeans che ho scelto con tanta cura. Lasciamo perdere<br />

le nostre diversità. Abito ad un altro piano del mondo, ma che im-<br />

114


portanza ha.<br />

Abito tra le stoffe protette di una realtà antica, con una propria immagine,<br />

un proprio percorso ben preciso. Ma ora sono qui. Tra le<br />

braccia di quello che qualcuno chiama peccato, ma che qualcun altro<br />

chiama… esperienza. E allora buttiamoci. Dimmi che questa nostra<br />

piccola cosa non finirà mai, dimmi che c’è un perché se sono salita<br />

per tre rampe di scale, invece che due questa sera. Dimmi che la primavera<br />

è qui, in questa cucina che cade a pezzi con i nostri amici fatti<br />

nell’altra stanza. Con tua figlia che ha smesso di piangere al piano di<br />

sotto. Dimmi che amare è una cosa grande, che posso amare ancora,<br />

che posso anche morire questa notte.<br />

Apro gli occhi. È giorno. Forse le sei del mattino. Forse prima. Forse<br />

dopo. Lo smalto di un’unghia spezzata è caduto sul pavimento. Tu<br />

mi guardi. È tutto normale. L’alba cattura i quartieri della città, li<br />

rende nuovi e un po’ misteriosi. Abbracciami e dimmi che non siamo<br />

uscite dal vortice degli eventi. Stritolami l’anima, feriscimi. Uccidimi<br />

di nuovo, e ancora e ancora e poi fammi vivere. Ancora.<br />

Sara si alza, la casa è distrutta. È arrivato un altro giorno. Un giorno<br />

in cui non siamo più quello che eravamo ieri, però un giorno in cui<br />

ancora possiamo aspettare per vedere come saremo <strong>domani</strong>”.<br />

Sara era fuggita dall’Italia perché non capiva la sua sessualità, si sentiva<br />

diversa tra le diverse e voleva capire i suoi desideri nascosti e<br />

repressi. Sara mi voleva bene, nutriva per me un sentimento dolce e<br />

fraterno. Eravamo la finestra l’una dell’altra ai due capi del mondo.<br />

Lei sentiva il bisogno di dire a qualcuno che era viva e lo faceva nel<br />

modo originale di confondere se stessa con il suo personaggio. Chi<br />

non lo fa? Chi non salta, almeno qualche volta, inconsapevolmente<br />

tra ciò che è e ciò che sogna di essere? Sara non voleva essere dimenticata<br />

e mi usava come scrigno dei ricordi, come se io potessi contenere<br />

un po’ della sua vita. In questo modo lei pensava di essere più<br />

viva. Ci sono persone che scrivono per se stesse, ma fanno leggere<br />

115


anche ad altri le loro parole. Oppure scrivono ad altri per scrivere a<br />

se stesse.<br />

Un tempo ci si mandava lunghe lettere che s’impolveravano prima<br />

ancora di essere arrivate e si sospirava nell’attesa. Al liceo collezionavo<br />

quei fogli colorati su cui imprimevo i primi passi verso la vita con<br />

lunghe confidenze scritte nell’ora di scienze, che poi passavo a Sara o<br />

a Giulia. Loro rispondevano con altrettante infinite parole, come se<br />

le parole bastassero e invece non bastavano mai. Oggi basta un click<br />

e istantaneamente le nostre storie attraversano continenti, stagioni,<br />

giorni e notti. Così in un click telematico mi avvalsi anche io delle<br />

nuove tecnologie.<br />

Avvicinai la tastiera alle mani e digitai con i meccanismi del mondo<br />

del futuro la notte allo Shelter, il nuovo lavoro, le facce dei miei genitori<br />

quando partii, gli uccelli buffi di Malibù, le foche di Marina del<br />

Ray, l’orientale e naturalmente… l’oceano di Long Beach.<br />

116


XIV<br />

I giorni passavano. L’inverno finiva ed era di nuovo primavera. Uscivo<br />

sempre più tardi dal lavoro e mi trastullavo nei negozi di cd’s a<br />

Venice Beach. Cercavo nuove musiche, nuovi cantautori, anche poco<br />

conosciuti che però sapessero fare da sottofondo ai miei movimenti.<br />

La musica rimaneva l’essenza stessa dei miei sogni perché quando<br />

la ascoltavo lei guidava in modo straordinario ed imprevedibile i<br />

pensieri. In una certa successione di brani musicali traevo alcune<br />

conclusioni, che non avrei mai tratto attraverso un’altra sequenza<br />

del tutto diversa e puramente casuale. Quando accendevo lo stereo<br />

in camera e a random si succedevano le canzoni in radio ero come su<br />

un sentiero pieno di incroci, ogni canzone rappresentava una svolta<br />

senza indicazione. Potevo andare praticamente ovunque, ed in modo<br />

del tutto imprevisto mi ritrovavo sul sentiero dell’amore, del ricordo,<br />

del sogno.<br />

Eppure l’idea di un sentimento senza musica mi aveva da sempre<br />

incuriosito, così mentre io e Giulia ci prendevamo e lasciavamo la<br />

mano in quel pomeriggio pre-estivo, mi chiedevo se, e quanto sarebbe<br />

potuto essere bello, non avere bisogno di niente, neppure della<br />

musica per amare.<br />

Quanto straordinario sarebbe un sentimento che suona lui stesso<br />

una musica? Un sentimento completamente autonomo, che nasce,<br />

cresce e vive nello stesso luogo, quasi autoctono, che si autoalimenta,<br />

117


eppure che riesce a suonare tutte le musiche possibili e a trasportare<br />

in tutti i luoghi del mondo.<br />

Lontanissima dalla bruma padana, che si attorcigliava sui fili d’erba<br />

davanti a casa mia dentellando i muri ingialliti delle annose cascine<br />

in campagna, vivevo una domenica di aprile nuova. Io e Giulia vagabondavamo<br />

per i negozi in riva al Pacifico. Ci destreggiavamo tra turisti<br />

occasionali e gente del posto che attendeva il tardo pomeriggio.<br />

Ragazzi californiani e qualche ubriacone formarono un cerchio di<br />

birre sulla spiaggia. Uomini e donne di ogni età si accalcavano incuriositi<br />

nei pressi del cerchio e qualcuno iniziava a suonare il tamburo,<br />

le danze potevano iniziare. Era come un rito ebdomadario.<br />

“Miriam… lo senti anche tu?”<br />

“Che cosa Giuly? Dai, oggi non mi va, torniamo a casa”.<br />

“Miriam lo senti?”<br />

“Che cosa? Sai proprio non ti capisco?!?”<br />

Le pupille degli occhi di Giulia si dilatarono. L’iride nera era circondata<br />

da cerchi dorati ed ipnotici.<br />

“Miriam ci dobbiamo muovere!”<br />

“Perché?”<br />

“Perché noi siamo qui e ci possiamo andare. Perché c’è pieno di gente<br />

e non siamo poi così stanche. Perché… lo vedi laggiù?”<br />

Mi voltai e dietro di me vidi la ruota panoramica di S. Monica illuminata.<br />

Era come una preghiera perdutamente surreale. Infinitamente<br />

casta e insieme perversa. Magica e reale. Era un luogo che non è dato<br />

raggiungere ai più, quello in cui io mi trovavo. Interiorizzata la visione<br />

rivolsi la mia attenzione a Giulia che si dirigeva alle altalene vicino<br />

al campo da basket. Vi si riposò sopra. La imitai e mentre la sua figura<br />

allungata, quasi come un ombrellone sulle spiagge della Riviera<br />

Romagnola, s’imbruniva all’affievolirsi del giorno la interrogai:<br />

“Giulia mi spingi?”<br />

“E no, prima tu!!! Tu che te ne volevi andare a casa!”<br />

Le diedi una scossa più che una spinta, perché la mia accidia m’im-<br />

118


pediva di scendere dall’altalena. Cominciai a ondeggiare e oscillai<br />

sull’altalena sempre più veloce. L’oceano s’inscuriva. Qualcuno aveva<br />

acceso un fuoco e altri si baciavano lì vicino.<br />

Io e Giulia andavamo su e giù sull’altalena dei sentimenti, sull’altalena<br />

della vita. Andavamo su e giù e ci piacevano entrambe le direzioni:<br />

salire e scendere. Qualche volta ci andava male, ma quella<br />

volta ci era andata bene. Come quel giorno, come gli ultimi mesi. Ci<br />

eravamo lasciate trascinare dal titolo della nostra storia: “Il viaggio”<br />

e tutto ciò che era stato prima era andato opacizzandosi nel coma<br />

della nostra vita precedente. Ora ci spingevamo con i piedi in alto e<br />

poi ricadevamo in basso e poi di nuovo ci provavamo ad arrivare in<br />

alto, mentre dietro di noi i bonghi suonavano quel genere di musica<br />

che non può essere incisa su un cd, perché è umana e rende solo se<br />

si ascolta l’anima dello strumento dal vivo.<br />

Ci dondolammo ancora un po’. Nel campo di basket alcuni ragazzi si<br />

passavano la palla ed il sole diventava sempre più piccolo per lasciare<br />

il posto alla notte. Il sole si nascondeva, ma il fuoco al centro del<br />

cerchio scintillava e ridava i confini agli esseri.<br />

La tragedia della mia vita si era trasformata in un’allegra commedia<br />

americana priva di citazioni erudite, di duelli e di lacerazioni del cuore.<br />

Ero finalmente priva del peso dell’oblio in cui vengono confinati<br />

troppo spesso i sogni.<br />

Mentre volavo sull’altalena si avvicinò a me una bambina. Aveva i<br />

pattini, non i Rollerblade, i pattini con quattro rotelle. Il suo viso<br />

pulito e i capelli in disordine le esaltavano gli zigomi pronunciati.<br />

Teneva in braccio un peluche bianco a forma di topo. Lo stringeva<br />

con forza, perché era il suo maggior tesoro. Aveva otto anni, faceva<br />

le elementari e festeggiava i compleanni con le amiche a casa, mentre<br />

mangiavano la torta preparata dalla mamma. Faceva merenda e<br />

guardava i cartoni animati giapponesi. Non pensava affatto che sarebbe<br />

cresciuta, ancora non lo sapeva che a trent’anni avrebbe preso<br />

119


un volo per la città degli angeli e che sarebbe stata sedotta dagli occhi<br />

orientali di un unknown man.<br />

Aveva otto anni e andava al cinema a guardare i film di W. Disney.<br />

L’estate sotto gli alberi abbassava le palpebre e si concentrava sulla<br />

letteratura per la sua età. Desiderava avere 15 anni per poter baciare<br />

un ragazzo, così faceva le prove con gli alberi. Parlava da sola e s’inventava<br />

una vita tutta sua in cui s’innamorava perdutamente di un<br />

cantante rock. Lui le bussava alla porta e la rapiva. Senza possibilità<br />

di alcun riscatto e lei non muoveva resistenza.<br />

Miriam era lì davanti a me, mi guardava dolcemente.<br />

Avrei voluto dirle tante cose, ma un morbo incomprensibile mi bloccava<br />

le parole e allora pensavo a quello che le avrei voluto dire attraverso<br />

la porta del tempo perduto. Avrei voluto dirle che a 16 anni<br />

non si sarebbe dovuta innamorare di Mario C., ma che se l’avesse<br />

fatto l’avrei capita. Mario C. era un poeta e come tutti i poeti sapeva<br />

esercitare la sua poesia sul corpo delle donne. Avrei voluto dirle che<br />

anche se il suo amore non era ricambiato i pomeriggi con la porta<br />

sprangata, nella sua camera da letto le sarebbero serviti. Avrei voluto<br />

insegnarle che soffrire è un’esperienza dura, ma rara. Pochi soffrono<br />

veramente. Ed è quando senti il dolore diramarsi dentro te che capisci<br />

molte cose e cresci. Lei davanti a me ed io impaziente di comunicarle<br />

il mio malus vivendi, che poi era il suo. Avrei tradotto volentieri<br />

in un istante gli stati d’animo che solo il tempo le avrebbe svelato.<br />

Miriam in piedi di fronte a me voleva sapere tutto. Un po’ disapprovava<br />

la mia scelta:<br />

“Perché sei qui? Che fai? Mamma e papà non saranno contenti”.<br />

“Miriam sei troppo piccola per capire. Leggi ancora “Gli Istrici” e i<br />

“Vampiretto 2 ”. Tu non lo sai che a 19 anni sognerai un mondo, che a<br />

24 ti accorgerai che non è come te lo aspettavi e che a 30 proverai a<br />

cambiare le cose. Tu ancora non sai”.<br />

“Io so che mi piace leggere e che i personaggi dei miei libri sono i<br />

2 Collane di libri per ragazzi<br />

120


miei migliori amici. So che non sono sola e che voglio iniziare a scrivere<br />

un diario. So che voglio bene a mamma e papà e che <strong>domani</strong><br />

pomeriggio vado a casa di Laura e sua nonna ci preparerà un panino<br />

con il burro e lo zucchero. È buonissimo”.<br />

Il sorriso della sua espressione m’intenerì. Era davvero bella.<br />

“Miriam, promettimi che sceglierai di non fumare, che sceglierai di<br />

fare l’amore per amore, che a volte farai sesso, ma per amore di sensualità.<br />

Promettimi che al liceo leggerai le poesie di Montale e ti innamorerai<br />

di Leopardi. E che all’università andrai a vedere che succede<br />

nei centri sociali, ma anche nei locali dei ricchi figli di papà. Giurami<br />

che non ti lascerai sfuggire nemmeno un dettaglio e che proverai<br />

sempre un po’ di ansia per il timore di leggere troppo poco, di non<br />

saperne abbastanza, di non aver visto a sufficienza. Miriam, soprattutto<br />

assicurami che la futilità di certuni non ti plasmerà, che anzi<br />

l’arte rimarrà il tuo obiettivo. L’arte che si stacca dai nomi dell’arte:<br />

pittura, scultura, letteratura in sé. Amerai. Perseguiterai l’arte della<br />

vita e dei paesaggi, l’arte del cielo e della libertà. L’arte del capire il<br />

valore del tempo. L’arte di un bacio che esplode inaspettato, l’arte di<br />

un sorriso tra i fumi delle eventualità. Sarai sempre vigile?”<br />

“Di che ti preoccupi? Io ho solo 8 anni e adesso voglio andarmene a<br />

casa. Più tardi vado a danza. C’è una maestra che mi è molto simpatica.<br />

Lasciami in pace. Io ho solo 8 anni”.<br />

Mi gettò le braccia al collo e mi stampò un bacino sulla guancia destra<br />

con naturalezza e affetto, sorrise appena, poi si girò su se stessa e<br />

si allontanò sui pattini gialli e rossi. Erano colorati, come lei.<br />

Ed io rimasi sola. Chissà se aveva capito. Chissà se mi avrebbe ascoltata.<br />

Molto probabilmente no. Era soltanto una bambina con un<br />

peluche in mano, un diario da iniziare e i compiti di geometria da<br />

finire.<br />

Giulia si era avvicinata ad una pizzeria al taglio e infilava nella sua<br />

bocca grossi pezzi unti di pasta bianca e rossa.<br />

121


“Ne vuoi un po’? È buona, non proprio come quella italiana, ma<br />

morivo di fame”.<br />

M’infilai una felpa, perché l’aria si era alzata e cercai i soldi per comprare<br />

qualcosa da addentare. Con la pizza in mano ci dirigemmo verso<br />

il mare. La spiaggia era lunghissima, la attraversammo. Ci sedemmo<br />

vicino ad un cerchio di gente. Notai che con il calare della notte<br />

gli unici a essere rimasti in spiaggia erano liceali che come satelliti si<br />

arrotolavano tra la sabbia baciandosi.<br />

“Giulia, ci pensi mai alla morte?”<br />

“Miriam, che discorsi. Qualche volta mi capita, ma poi passa”.<br />

122


XV<br />

“Jam”.<br />

“Perché ripeti continuamente il suo nome?”<br />

“Jam, Jam, Jam”.<br />

Miss Joy, la socia di Sanchez, l’altro mio capo, non capiva perché<br />

continuassi a far svolazzare il nome di Jam al bar, invece che lavorare,<br />

pulire i tavoli e spazzare per terra.<br />

Ripetevo il nome di Jam perché mi piaceva pronunciarlo. A volte lo<br />

scrivevo addirittura su un tovagliolo e quando vedevo una J il mio<br />

cuore scaglioso si calmava.<br />

Le mattine biondeggiavano sui tetti embricati di L.A. mentre le porte<br />

della caffetteria si aprivano e chiudevano.<br />

La signora Joy sfregava zelante il bancone del bar. Era difficile penetrare<br />

nei suoi occhi perché non la conoscevo. Sapevo che aveva<br />

origini arabe, nonostante i capelli biondi, il velo che la ingabbiava<br />

non lasciava dubbi. M’impressionava il segreto che scorreva lungo<br />

la curva del suo naso e cinguettava in sordina sulle labbra, nonchè<br />

la sua sottomissione al marito: quando lui passava a prenderla le appoggiava<br />

un braccio sulla spalla e lei si lasciava condurre via, quasi<br />

che l’uomo arredasse la sua anima come nessun altro. Tuttavia mi<br />

riusciva difficile vedere in quel gesto di possesso un amore libero.<br />

Capita spesso di vedere coppie strette l’uno all’altra, ma il Sig. Ercan<br />

incatenava Miss Joy, la copriva, la nascondeva dietro di sé. Forse la<br />

123


voleva proteggere, ma piuttosto percepivo la volesse imprigionare.<br />

Mi sembrava una bugia d’amore quando lui si sedeva per mangiare<br />

qualcosa e se la stringeva accanto al tavolo. Le aveva chiaramente<br />

permesso molte cose come lavorare e tingersi i capelli, ma il respiro<br />

di lei doveva essere solo per lui.<br />

Jam ed io, invece, eravamo rimasti sospesi nell’attimo prima in cui le<br />

cose belle accadono, per questo amavo il suo nome e guardavo con<br />

ansia il telefono. La signora Joy disprezzava le scritte e arpeggiava<br />

rimproveri alla mia leggera e, a suo dire, inutile persona. Non me ne<br />

curavo troppo perché io e Jam appartenevamo al momento in cui si<br />

è tesi verso qualcosa di meraviglioso che sta per accadere. Ancora il<br />

momento non si era sporcato con le banalità del sesso, né le calunnie<br />

che spesso lo accompagnano entravano nei miei pensieri. Scrivevo il<br />

suo nome sui tovaglioli del bar e tutto mi pareva sensato e poetico,<br />

anche i rifiuti ammassati dietro la caffetteria.<br />

Mr Sanchez aveva accumulato pattume di ogni genere appena fuori<br />

il cortile interno. Pezzi di frigorifero, scarti alimentari, vestiti fuori<br />

uso scolorivano il paesaggio e davano risalto al degrado di una Los<br />

Angeles non sempre dai colori rosa e giallo pastello.<br />

Attraversato il cortile alcuni homeless si litigavano il resto di un cheesburger.<br />

Erano due ragazzi ed un uomo robusto. I giovani dimostravano molti<br />

più anni di quelli che probabilmente avevano. La loro epidermide<br />

granulosa si incollava ai vestiti consunti. Erano seppelliti dalle dinamiche<br />

dell’universo. Mi venne voglia di cogliere dei fiori e farne una<br />

ghirlanda da appendere ai loro alti muri. Sapevo che erano persone<br />

luminose, avevano solo chiuso la porta della stanza in cui si trovava<br />

la loro luce.<br />

Quale tempo gli era stato sottratto?<br />

Quale effimero dettaglio li aveva fatti invecchiare?<br />

Se ne stavano a contendersi un panino precotto da due dollari. Il<br />

124


loro sapore mi ricordava quello di Marta.<br />

Marta era una dipendente della Metal Spa. Era adibita al reparto<br />

saldatura dove svolgeva la mansione di operaia addetta alla macchina<br />

saldatrice. Il suo lavoro consisteva, stando in piedi, nel prendere<br />

i pezzi da lavorare, unirli, inserirli nella macchina saldatrice, dare<br />

l’impulso di avvio, aspettare che il pezzo venisse saldato e ripetere lo<br />

stesso movimento.<br />

La ripetizione del movimento non la salvava della sua pregiudizievole<br />

posizione e seppur Tolstoj sostenga che “La posizione che occupiamo<br />

non è tanto importante quanto la direzione verso la quale<br />

ci muoviamo”, la direzione verso cui si muoveva Marta era quella<br />

di una donna incinta che metteva a repentaglio la salute sua e di<br />

suo figlio vicino alla pressa. Marta non poteva ricoprire alcun ruolo<br />

di carattere amministrativo per mancanza di competenze tecniche<br />

e quindi la gioia del perpetuarsi in un’altra vita si era sostituita ben<br />

presto alle preoccupazioni reali per il futuro di suo figlio. Il suo era<br />

un lavoro ripetitivo, fisicamente faticoso e poco retribuito. Quando<br />

il bambino nacque Marta si spense. Il mondo per lei si fece ostile e<br />

come una perturbazione siberiana fuori stagione l’affitto e le bollette<br />

si fecero sentire.<br />

Marta fu debole e fuggì. Non era una donna libera e non poteva<br />

sopportarlo. Doveva continuamente chiedere “per favore” e prestiti<br />

agli istituti di credito. Marta non si era potuta costruire alcuna posizione<br />

sociale a causa delle sue umili origini e quella stessa povertà<br />

le era penetrata nelle venature viola della pelle; così a 36 anni aveva<br />

perso la gioia di vivere e si era seduta su una panchina nella stazione<br />

di Milano. Non se ne era mai più andata. “Aspetto il mio treno” mi<br />

diceva quando la vedevo. Lei non mi riconosceva. Eravamo amiche<br />

un tempo, ma io appartenevo solo alla moltitudine di maschere senza<br />

valore che provavano a darle l’elemosina ormai.<br />

Mi stupii quando, affievolita dalla pietà mi era venuta voglia di darle<br />

un euro. Mi fissò, abbozzò un sorriso, scosse il capo e mi rimise la<br />

125


moneta in mano. Mi voltò le spalle e se ne andò. Non voleva il mio<br />

denaro. Non aveva bisogno di me. Ero nulla per lei, valevo meno di<br />

uno sputo in terra. Mi permettevo di giudicare la sua scelta con una<br />

moneta, come se la sua felicità fosse in vendita al prezzo di un euro.<br />

Come ero ingenua.<br />

Lei si era voltata. Non mi riconosceva mai. Inizialmente credevo che<br />

di proposito fingesse di non vedermi. Solo più tardi capii nel mio<br />

cuore che quella forma umana non mi aveva riconosciuta. Ero solo<br />

una passante priva di alcun talento che faceva la pendolare Brescia-<br />

Milano. Ero una che per dare profumo alla vita prendeva un treno<br />

di un’ora e quindici minuti. Sceglievo l’interregionale, soprattutto<br />

in primavera perché mi permetteva di affondare la testa nel sedile e<br />

godermi lo scorrere del paesaggio.<br />

Ogni tanto osservavo le donne e gli uomini davanti a me. Si alternavano<br />

insegnanti dalle giacche con le toppe sulle maniche, universitari<br />

libertini con il senso della vita stretto in un libro, impiegati oppure<br />

adolescenti che inseguivano l’amore attraverso gli spazi che dividevano<br />

le città.<br />

Venezia<br />

Un giorno da quel treno non scesi e arrivai fino a Venezia. Una straniera<br />

dagli occhi verdi mi aveva sedotta. Disegnava su un pezzo di<br />

carta davanti a me. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma dal momento<br />

che fino a Brescia il silenzio si era frapposto tra noi, io non volevo<br />

lasciarmi sfuggire l’intrigante accento straniero, così mi ero evitata di<br />

scendere dal treno. Ogni tanto possono capitare queste cose.<br />

Poi tutto era stato inscenato sul palco sentimentale della mia immaginazione.<br />

Come due farfalle c’irradiavamo di colori. Il sangue scor-<br />

126


eva caldo nelle vene e il vento sbriciolava le punte dei capelli di lei.<br />

Ci ritrovammo a fare una passeggiata insieme. Poco dopo gustavo le<br />

stampe in bianco e nero appese nel suo appartamento: una ballerina<br />

voltata di spalle vicino ad un pianoforte.<br />

“Sono io quella. O meglio, vorrei essere io. Con la simmetria del<br />

busto e le luci puntate solo su di me”.<br />

Lei parlava e io bevevo latte dalla tazza con cui lei faceva colazione.<br />

Confondevamo i nostri ritagli di mondo. C’interrogavamo sui nostri<br />

quadri interiori. M’inteneriva la ruga che circondava le labbra di Melory.<br />

Si chiamava Melory e veniva da Amsterdam. Aveva un aspetto<br />

nordico e freddo, eppure mi sorrideva. Mi parlava nell’orecchio e<br />

vibravo per il sottile fruscio che muoveva il profumo di sandalo di<br />

cui le sue stanze erano avvolte. Raccontava di Amsterdam e Venezia,<br />

degli orari, degli aerei, del tempo da vivere.<br />

Però ricordo che dovetti andare. Non la salutai. Ricordo che cercai<br />

di giustificare il bacio non dato ai suoi occhi verdi: riappropriarmi<br />

del mio tempo. Dimenticai il mio braccialetto a casa sua. Le chiesi<br />

senza dire alcuna parola di non cercarmi, di perdonarmi.<br />

Lei poteva perdonarmi, perché dovevo muovermi ed andarmene in<br />

fretta. Dovevo dimenticare ed essere veloce. Appartenevo al traffico<br />

ed al grigio rumore della città, avevo impegni e responsabilità. La<br />

pregai di capirmi e di perdonarmi. Non c’era stato tempo allora. Per<br />

noi. Allora dovevo… Svegliarmi.<br />

Il bar si stava svuotando e la sera si avvicinava.<br />

Jam era fuori la porta. La cosa bella dell’amore è che viaggia senza<br />

perfezioni di stile. Non ha bisogno di metrica come la poesia, ma<br />

rimane assolutamente sensazionale. Il mio amore lo era: sensazionale<br />

intendo, ma anche poetico allo stesso tempo. Jam appoggiato ad un<br />

muretto che aspettava me. Fumava una sigaretta. Era sensazionale.<br />

Non era un gran fumatore, però l’alone che lo avvolgeva allora mi<br />

127


piaceva. Mi dava la sensazione di uomo. Un uomo su cui indagavo.<br />

Ogni cenno riguardo la sua vita costituiva per me tesoro prezioso.<br />

Scoprii che aveva avuto una donna. Per molti anni: sette o forse otto,<br />

aveva condiviso il letto con una mussulmana come lui. Qualcuno<br />

mormorava che fosse una danzatrice del ventre straordinaria dai<br />

lunghi capelli corvini. Da quando avevo percepito questi margini di<br />

vita la mia fantasia produceva immagini definite: lei che gli rubava il<br />

cuscino a letto, per nascondere l’umido degli occhi innamorati.<br />

Lei lo aveva amato? Lo guardava come lo guardavo io in quel momento?<br />

Concepiva la quiddità di lui? L’essenza su cui io non sostavo<br />

un attimo d’interrogarmi?<br />

La cosa di cui avevo più paura al mondo era l’idea d’invecchiare con<br />

un uomo dall’alito pesante che non amavo. Temevo la fine dell’amore,<br />

eppure gradivo sospendere le relazioni, soprattutto dopo Mattia.<br />

Inutile trascinare speranze vuote. Era un po’ come il mio desiderio<br />

di diventare scrittrice. Coltivavo il sogno di un destino di successo<br />

alternativo, ma non potevo creare su carta nulla di simile all’emozione<br />

della vita e preferivo lasciar perdere.<br />

Questa era la mia tragedia. Il mio ostacolo.<br />

M’innamoravo e scrivevo continuamente, ma era come se le due<br />

situazioni fossero parallele e non s’incontrassero mai, come se una<br />

lebbra insensata m’impedisse di tenere in mano la penna quando volevo<br />

tatuare la carta con le riflessioni amorose. L’amore non l’avevo<br />

mai saputo scrivere. Non trovavo il filo conduttore degli eventi. Non<br />

sapevo scrivere, ma… sapevo amare?<br />

Non sapevo frammentare il cielo, le stelle ed il vento di una notte di<br />

mezza estate sul pontile di un lago dolce a Brescia, né avevo le doti<br />

per narrare l’incontro tra due mani a Los Angeles. Però l’incontro di<br />

queste mani, anche se non lo sapevo raccontare, stava succedendo<br />

nella realtà. La musica nel bar si era fatta soffusa e ormai eravamo<br />

all’interno della caffetteria forse in cinque persone.<br />

Una canzone di cui non conoscevo le parole, ma il cui ritmo ricono-<br />

128


scerei anche oggi tra mille altri a distanza di anni, affievoliva gli animi<br />

e Jam mi prese la mano. Inaspettatamente. Ballammo tra le sedie ed i<br />

tavoli del locale, illuminati da una luce non molto clemente sulle mie<br />

prime rughe.<br />

Qualche vecchio ruttava dopo troppe lattine di birra e Joy non faceva<br />

che borbottare come una pentola a pressione sulla confusione e lo<br />

sporco da rimuovere.<br />

Jam ed io ballavamo al ritmo di una canzone che non sapevo e non<br />

so ancora. Abbandonai la testa sulla sua spalla e lui accarezzò la mia<br />

mano. Non lo fece con sicurezza, né per sedurmi. Lo fece mosso da<br />

una volontà primordiale ed inconscia. Fu un gesto che mi colpì e mi<br />

colpì perché ne colsi la veridicità, l’autenticità.<br />

Cessammo così di essere lì. Fummo da un’altra parte, ma non saprei<br />

citarne il nome. Di una cosa, però, ero consapevole, ero lontana da<br />

tutto: da Los Angeles e da Brescia, da ogni luogo dotato di coordinate<br />

geografiche. Ero al di fuori di tutto, tranne che da me stessa.<br />

Gli altri non ci avevano più. Ci accasciavamo su quel momento. Lui<br />

incastrava le dita tra le mie. Mi stringeva forte. Desideravo appartenergli<br />

e volevo che lui fosse solo mio.<br />

Puntuale la gelosia, come una maga malefica travestita di cappello e<br />

sottana mi tentava. Instivalata e incappellata era dietro la porta del<br />

bar e mi guardava sghignazzando. Fingevo di non vederla, ma già la<br />

canzone era cessata e non mi restavano altro che bicchieri da lavare,<br />

scaffali da riordinare e donne bellissime con cui era impossibile competere.<br />

Il retrogusto di quel momento fu amaro ed insidioso.<br />

La gelosia, già sapevo, mi avrebbe uccisa, avrebbe scolorito la mia<br />

guancia appoggiata a quella di Jam mentre ballavamo, mentre i nostri<br />

involucri si compenetravano, contrastati dalle vesti e dal nostro,<br />

purtroppo, essere due entità separate. Ma lo eravamo davvero allora?<br />

E lo fummo anche in seguito? Successivamente, quando c’inseguivamo<br />

scalzi di notte ridendo come pazzi? Lo fummo anche prima<br />

del tango improvvisato in una notte d’estate americana? Fummo se-<br />

129


parati come quando io progettavo un matrimonio con Mattia e Jam<br />

mangiava una pizza con “lei”? Oppure c’era nel nostro percorso un<br />

sottile filo rosso che ci aveva uniti da sempre, anche da prima di<br />

incontrarci? Se avessi perso Jam avrei sofferto perché ormai sapevo<br />

che esisteva. Lui si era materializzato, aveva un nome, un profilo, un<br />

corpo. Un bel corpo. E aveva le mani, gli occhi, il carattere.<br />

Era poi così importante però sapere tutte quelle cose, quelle previsioni<br />

su un <strong>domani</strong> senza lui, quando ero già di fronte ad un istante<br />

di amore? Saremmo forse spariti dalla vita l’uno dell’altra un giorno<br />

e altri ancora a ruota si sarebbero posti le stesse domande che mi<br />

ponevo io, ma sotto le luci bianche del bar avevamo ballato e nessuno<br />

di noi due l’avrebbe dimenticato. Nessuno ci avrebbe mai potuti<br />

intaccare il momento. Quello a noi sarebbe rimasto per sempre.<br />

Finita la canzone allontanai le mie sporgenze da Jam, tornai a immergermi<br />

in un’atmosfera ovattata e a pulire le macchie di unto sul<br />

pavimento biancastro.<br />

130


XVI<br />

Avvolgevo i boccoli di Giulia tra le dita cercando di dare loro una<br />

forma naturale e vaporosa. Giulia voleva essere più bella e, oltre ad<br />

accentuare le vene dorate del carattere, m’impegnava a volumizzarle<br />

i riccioli.<br />

“Miriam, tu credi che le linee del mio passato un giorno si congiungeranno<br />

ad un senso compiuto? Credi che esista un senso alla nostra<br />

fuga psicologica? L’abbandono di ciò che eravamo?”<br />

“Giulia, sei sempre stata tu quella delle risposte. Quando come su un<br />

antico peritato greco mi hai proposto l’alternativa, l’intendevi come<br />

una fuga o sbaglio?”<br />

“No… mesi fa l’amore per il viaggio mi ha vinta. Feci pochi calcoli<br />

sul futuro. Solo il dolore del passato che mi stava abbandonando mi<br />

convinse”.<br />

Mi avvicinai a lei. Mi feci parte di lei, ombra di lei. In effetti le<br />

nostre ombre si sovrapposero e da due diventarono una soltanto.<br />

Riproposi:<br />

“Che cosa ti catturò, ti convinse a intraprendere questo strano e surreale<br />

viaggio in una terra che per noi rimane ancora senza nome?”<br />

Giulia inclinò il capo, lo depose sul palmo a calice delle mani. Soffiò<br />

via un filo di polvere. Odiava lo sporco e anche il disordine.<br />

Sospirò. Accese una candela. Rimirò l’atmosfera mutata della stanza<br />

e inizio il suo perché.<br />

131


Il perché di Giulia<br />

“Sono qui e accendo candele verdi e rosse comprate da Ralph perché<br />

a Brescia non avevo grandi alternative. Perché ero annoiata. Perché<br />

non avevo un uomo e cominciavo ad invecchiare. Perché il mio viso<br />

cadeva.<br />

Sono qui, Miriam, perché due settimane prima di partire sono passata<br />

casualmente sotto la finestra del mio appartamento da universitaria.<br />

La luce azzurra del televisore era accesa e la modella belga<br />

che lo stava abitando rideva con un gruppo misto di altre voci. La<br />

ragazza si stava insinuando tra le mie mura, i suoi abiti vivevano negli<br />

armadi e sedeva sul divano che mi vide preparare gli esami a Legge.<br />

Preparava cene con gli amici usando i fornelli sui quali avevo bruciato<br />

la mia prima pastasciutta. La mattina si alzava, ripercorreva il<br />

corridoio addobbato ormai dei suoi quadri, delle sue foto, di lei e viveva<br />

l’esperienza nel capoluogo lombardo riferendosi al mio numero<br />

civico per segnalare l’ indirizzo ad amici ed uffici pubblici. Magari<br />

faceva l’amore dove io l’avevo fatto con Luca. Magari si era fatta la<br />

fidelity card allo stesso supermercato a cui l’avevo fatta io.<br />

Ho guardato con nostalgia alla piccola finestra che aveva ascoltato i<br />

miei anni all’università tra le tesine in diritto privato e le ricerche di<br />

pratica commerciale.<br />

La legge della memoria m’incollava addosso i pezzi del passato mentre<br />

guardavo quella finestra. Volevo andare avanti ed insieme ritrovare<br />

anche qualcosa dei boccoli che costringevo nei fiocchi colorati<br />

e fiorati all’università.<br />

Volevo darmi un bacio. Non doveva essere però un bacio grande.<br />

Non me lo meritavo ancora. Non doveva essere neanche, però, un<br />

bacio piccolo. Un po’ di strada l’avevo percorsa. Doveva essere un<br />

bacio di mezzo tra la vita vissuta fino a quel momento e la vita che<br />

avrei potuto decidere di vivere da allora.<br />

Queste sono, credo, alcune delle ragioni per cui ti feci la mia propo-<br />

132


sta. La proposta di andare avanti e di sganciarmi dal porto. Ero troppo<br />

vincolata alle mie nostalgie, ai miei “se” e ai miei “ma”. Dovevo<br />

lasciarmeli alle spalle. Con i “se” e con i “ma” non si va da nessuna<br />

parte”<br />

Il vero perché di Giulia<br />

Ci sono messaggi che sul cellulare di Giulia non sarebbero mai arrivati<br />

“se” lei non avesse cambiato direzione dello sguardo, “ma” non<br />

lo fece. Rimase una possibilità perduta.<br />

I messaggi non scritti. I messaggi non letti. Parole inesistenti.<br />

“Come sei fatto tu?”<br />

“Un giudizio su di me… Non è importante”.<br />

“Un bacio lungo lungo lungo”.<br />

“Un bacio da qui fino a stasera. Fino alla prossima volta che berremo<br />

un latte insieme alle cinque del pomeriggio”.<br />

“Dicono che ci si può abituare a tutto, ma io non mi sono ancora<br />

abituato a sentirti lontana... per niente”.<br />

“Me lo fai un sorriso?”<br />

“A) vieni da me stasera B) vieni da me stasera C) vieni da me stasera<br />

D) vieni da me stasera… perché ti amo… ti prego corri”.<br />

“Diciamo che ho voglia di rivederti…subito”.<br />

“Vedrai che <strong>domani</strong> le cose andranno meglio…un bacio grande<br />

come te... immenso”.<br />

“A s r a s a l v... al posto delle lettere scrivi la frase che più ti piace<br />

perché tu ti meriti tutte le frasi del mondo... chiedo solo di poterle<br />

133


scrivere insieme a te”.<br />

“Questo bacio è solo una piccola stellina nell’universo infinito che<br />

ci attende”.<br />

“Ti penso, ti immagino, ti sogno e ti vedo in qualsiasi cosa”.<br />

“Ti darò tutto quello che sono in grado di dare se tu lo vorrai”.<br />

“Oggi fa freddo, molto freddo, ma è comunque una bella giornata<br />

perché tu esisti e disturbi la mia testa”.<br />

“E se ti dicessi che sono uscito questa sera. E se ti dicessi che ho<br />

conosciuto persone interessanti. Se ti dicessi che non mi manchi più<br />

come prima? Se ti dicessi questo sarei un grande attore. In realtà tutto<br />

quello che mi circonda è banale e privo di emozioni senza di te”.<br />

“Sei bellissima e per stare bene con te ci vuole così poco. Sei un’unica<br />

grande emozione”.<br />

“Da quando ti ho incontrato ho perso la metà dei capelli. L’altra<br />

metà è diventata grigia. Non dormo più. Non mangio più. Non gioco<br />

più a scopa. Faccio sogni strani… però…”.<br />

“Però… ti mando un bacio dolce, caldo, morbido dove vuoi tu”.<br />

“Ti sto pensando... Abbastanza da volertelo dire. La mia mano su<br />

di te”.<br />

La possibilità perduta<br />

Una campana rosa di vetro ondeggiava nella camera di Giulia. Aveva<br />

tredici anni e già la sua campana di vetro si dibatteva in tutte le<br />

direzioni degli angoli della Terra, facendo comunque e sempre un<br />

rumore bellissimo.<br />

134


La finestra di Giulia incorniciata da travi a vista si affacciava su via<br />

Dante. Di lì la notte non passava nessuno e lei dormiva tra le sue<br />

cose: tra i disegni appena abbozzati nascondeva il diario, le audiocassette<br />

e le fotografie cui teneva maggiormente.<br />

Era convinta che il destino la attendesse e che lei non dovesse, né<br />

potesse fare nulla per cambiarlo. Invece il destino fa parte del nostro<br />

carattere e il carattere si cambia, come dicevano alcuni filosofi rinascimentali.<br />

La camera di Giulia era piena di lei, esprimeva le sue passioni al punto<br />

che la piccola non aveva bisogno di guardare fuori dalla finestra e<br />

così la teneva sempre chiusa.<br />

Le finestre chiuse<br />

Nicola, sedici anni, guardava i davanzali vuoti e pensava:<br />

“Certe volte mi chiedo cosa ci sia dietro quella finestra. Dietro quelle<br />

tende bianche e azzurre. In fondo vorrei solo vedere il colore delle<br />

sue coperte, quali sono le immagini al suo primo risveglio. Vorrei solo<br />

vederla nella sua quotidianità, quello che dice, quello che pensa.<br />

Cosa dirà a se stessa? Cosa le piacerà della sua personalità e che<br />

cosa tenterà di cambiare? Vorrei soltanto condividere con lei almeno<br />

una cosa importante.. Magari un cappuccino alle cinque del<br />

pomeriggio. Forse un giorno lei mi parlerà e lascerà pezzi di sé con<br />

me. Forse potrò portarla a fare un viaggio, magari in qualche capitale<br />

europea e a lei basterà, lei capirà. Se solo aprisse quella finestra<br />

e mi vedesse. Se solo conoscessi il linguaggio del suo cuore e potessi<br />

parlarle, anche un minuto soltanto. Se solo cessassimo per un<br />

attimo di essere io qui e lei lì dietro. Con la finestra sprangata non<br />

posso vederla. Posso immaginarla, sognarla, anche se non posso<br />

toccarla. Chissà come si chiama lei. So solo che ha i capelli lunghi<br />

e che io la voglio sposare, magari quando avremo trent’anni. Forse<br />

prima, <strong>domani</strong> sarebbe già troppo tardi. Ieri era già troppo tardi.<br />

135


Troppo lontano anche un solo minuto.<br />

Potrei farle un regalo: la luna ed il sole che si baciano. Questo le farebbe<br />

capire il nostro stile, che poi è più il suo che il mio, o meglio,<br />

è il mio, ma se non ci fosse lei non lo potrei esprimere. Come si fa a<br />

dare la buonanotte alla luna?<br />

Se solo tu aprissi quella finestra e guardassi giù mi vedresti. Vorrei<br />

picchiare la testa contro un muro, fare rumore, un fracasso infernale<br />

per attirare la tua attenzione, ma senza che tu capisca che l’ho fatto<br />

apposta.<br />

D’inverno venire fino a qui con il motorino mi pesa. Non abito vicinissimo<br />

e mia madre si preoccupa perché non capisce dove vado alle<br />

nove e mezzo di sera. Vengo da te.<br />

D’inverno fa freddo molto, molto ed io mi congelo qui sotto, ma<br />

non importa perché se so che sono a pochi metri da te, ti intravedo<br />

soltanto, è comunque una bella giornata.<br />

Ecco, apri la finestra. Sto per vedere i tuoi riccioli neri, l’ampio vuoto<br />

tra la maglietta ed il tuo braccio. Saprai di luna e stelle come ogni<br />

notte. E come sempre non mi vedrai. Metterai un po’ di musica e<br />

canticchierai un motivetto pop del momento. Non ti piace la musica<br />

troppo impegnativa. Ti affezioni facilmente alle mode stagionali che<br />

ascolti sull’autobus prima di andare a scuola, mentre guardi quello<br />

dell’ultimo banco parlare con la bellona del quinto anno.<br />

Ecco, stai per farlo… Hai sempre due alternative: ogni sera potresti<br />

guardare giù in strada ed allora mi vedresti, oppure alzare lo sguardo<br />

verso l’alto per cercare la spiegazione alle piccole bugie che ti<br />

raccontano. Non guardi mai giù. Per questo non mi hai mai visto, è<br />

sempre troppo alta la tua prospettiva, sempre alcuni piani più in alto<br />

della mia testa ricciuta. È per questo che forse non c’incontreremo<br />

mai perché tu sei il mio “alto”, il mio cielo cui aspiro dalla finestra.<br />

Io per te, invece, sono solo strade su cui scorrono tutti, biciclette che<br />

chiunque può inforcare per correre da te, per cercarti.<br />

E invece tu non sai che se solo mi vedessi, se solo me lo permet-<br />

136


tessi, scriverei una canzone per te tra 10 anni. Imparerei a suonare<br />

la chitarra e a cantare solo per poter vedere nel salotto di casa mia<br />

la tua faccia stupita. Imparerei a dipingere per poter ritrarre il tuo<br />

enigmatico sorriso e cercherei uno stile simbolico per poter ritrarre i<br />

suggestivi umori che ti contraddistinguono. Sarei l’uomo di cui avresti<br />

bisogno, senza dimenticarmi il bambino con cui vorresti giocare,<br />

perché quelle come te vogliono sempre giocare. Tu sarai sempre a<br />

metà tra una bambina ed una donna. Troppo semplice essere solo<br />

una bambina, troppo difficile essere completamente una donna.<br />

Se solo tu guardassi giù e mi vedessi, vedresti anche l’universo infinito<br />

di possibilità che ci attende.<br />

Tu però non guarderai giù. Non mi vedrai ed andrai avanti riempiendo<br />

album di fotografie con posti che non vedremo, che non vivremo<br />

mai insieme.<br />

Ora prenderò la bicicletta e tornerò a casa. Non tornerò più qui a<br />

guardarti. A spiare le tue finestre chiuse. Ti lascerò vivere tutte le<br />

vite che vorrai. Non farò un passo verso di te. Ti regalerò la libertà<br />

che ti aspetti da chi ti ama. Quel senso di aria fresca che solo sopra<br />

le nuvole si può respirare.<br />

Ora me ne vado. Perdonami se non ho saputo chiamarti, attrarre<br />

il tuo sguardo verso di me, verso il basso, ma ho preferito lasciarti<br />

lassù, più vicino alla tua natura di farfalla solitaria e libera. Scusami<br />

anche se non lo saprai mai e a me non capiterà di dirtelo”.<br />

Nicola, sedicenne che per due anni era andato quasi ogni sera sotto<br />

la finestra del suo primo amore: Giulia. Nicola, sedici anni di guai,<br />

non aveva avuto il coraggio di osare. Era come un bagnante che ad<br />

agosto rimane sui bordi di una piscina perché non vuole nuotare.<br />

Potrebbe morire di caldo e sa perfettamente che il contatto con l’acqua<br />

lo farebbe stare meglio. Basterebbe avere il coraggio di metterci<br />

un piede, di bagnarsi un po’ le spalle, di abituarsi all’impatto e poi<br />

buttarsi. Una volta buttato starebbe meglio, ma Nicola era rimasto ai<br />

137


ordi, aveva preferito il caldo sicuro. Non era stato capace di vivere<br />

fino in fondo quel momento in cui si è a metà tra il cuore che accelera<br />

e la paura dell’ignoto: come quando si è sulle montagne russe e si<br />

arriva in alto alla salita, c’è quell’attimo prima di cadere giù che fa<br />

salire l’adrenalina, fa mancare il fiato e se si tengono gli occhi bene<br />

aperti il cuore batte forte, ma lo spettacolo è tutto da osservare. Le<br />

prospettive perdono la dimensione e tutti i colori si sovrappongono:<br />

uno spettacolo per i sensi. Nicola la voglia di fare questo non<br />

l’aveva avuta. La voglia di abbandonare le insicurezze e arrischiarsi<br />

ad aprire una finestra chiusa non c’era stata e così Giulia non lo<br />

conobbe mai.<br />

A Giulia non arrivarono mai i messaggi di Nicola. Parole non scritte<br />

di mondi immaginari.<br />

Foto bianche<br />

“Perché ieri non mi hai chiamato?”<br />

“Perché non mi andava, dovevo lavorare e poi ho iniziato a leggere.<br />

Sai come sono quando leggo. Ad ogni parola mi confondo e poi<br />

guardo fuori dalla finestra e penso alle tue pupille sotto il sole che<br />

diventano due minuscoli puntini neri. Ieri sera mi è tornato in mente<br />

quando ti eri nascosto dietro gli occhiali da sole perché non riuscivi<br />

a chiedermi di più, non riuscivi a dirmi che a te sarebbe bastato poco<br />

per stare bene”.<br />

Jam mi teneva la mano e poi infilava l’altra sotto la felpa, vicino la mia<br />

pancia, le sue mani erano calde mentre insieme riempivamo il tempo<br />

tra noi. Eravamo sporchi di terra, ma profumavamo dello stesso odore.<br />

Qualche volta avrei voluto profumare più di cielo e meno di terra,<br />

138


poi però lui mi abbracciava la schiena e mi girava il viso, m’infilava la<br />

lingua in bocca ed io al cielo non ci pensavo più.<br />

“A che pensi? Stai viaggiando molto lontano questa sera”.<br />

“No niente. Qualche preoccupazione. Mi manca la famiglia. Il mio<br />

passo è stanco, come quello di milioni di altre persone, non scrivo<br />

più da settimane, non ascolto musica, non creo qualcosa di intelligente<br />

da mesi, non ho il lavoro né il futuro che tutti si aspettavano da<br />

me eppure non sono mai stata più felice in tutta la mia vita”.<br />

Jam ordinò una bibita ed un caffè, i nostri incontri sapevano di birra<br />

e caffè, di muffin e patatine fritte, sapevano di una pasta al pesto genovese<br />

e di un gelato in piazza Venezia a Roma… noi sapevamo dei<br />

sapori buoni del mondo.<br />

“Ahia... ma che fai?!!”<br />

Tiravo i capelli a Jam perché volevo girargli la testa dove pareva a<br />

me e poi gli davo pizzicotti sotto il mento, gli tiravo le guance e lo<br />

stritolavo, tanto che una volta lui fece lo stesso con me. Mi mancò il<br />

respiro.<br />

“Quando mi sposi?”<br />

Avete presente quando si va sulle roller coasters? Immaginate tutta la<br />

salita e la sensazione dell’attimo prima della discesa, quella sensazione<br />

in cui senti che non sei più padrone di nulla, ma allo stesso tempo<br />

non temi più niente. Io e Jam eravamo tanti attimi, ma soprattutto<br />

quell’attimo tra la calma ed il battito del cuore che accelera. Un po’<br />

come lo era stato molti anni prima Giulia per Nicola.<br />

Avevo provato quella sensazione anche una volta a Madrid al Museo<br />

di Sophia. Infatti, dopo aver visto Guernica di Picasso, Giulia ed io<br />

ci eravamo appoggiate al muro di fronte l’immenso dipinto senza<br />

dire una parola, poi dopo un lungo, ma sempre troppo breve sogno<br />

nell’arte, eravamo andate a prendere un ascensore con le pareti di<br />

139


vetro per scendere al piano terra ed uscire dal museo. Io avevo<br />

paura e non volevo salirci perché temevo la sensazione di cadere,<br />

poi Giulia fece:<br />

“Che vuoi, siamo a Madrid e non ce lo facciamo questo giro<br />

sull’ascensore?”<br />

Mi tese la mano e salii. Alla fine ci salimmo e scendemmo tre volte<br />

per continuare a provare quella sensazione che faceva male e bene<br />

insieme, come la maggior parte delle cose belle. Quella sensazione<br />

di vertigine quando scendi di colpo da un punto molto alto. Quella<br />

sensazione, quell’attimo, eravamo Jam ed io.<br />

“Jam, posso chiederti una cosa? Perché hai tante foto in casa tua?<br />

Perché riempi la casa di immagini? Di baci con donne che non sono<br />

io? Perché hai la foto di Zuzu ancora vicino al letto? Perché tutto<br />

questo non si può cancellare? E cosa significa la cornice vuota vicino<br />

all’ingresso?”<br />

Jam appoggiò il gomito sul ginocchio:<br />

“Miriam, come faccio a cancellare chi sono? Come faccio a togliere<br />

le foto di Zuzu o di Annie? Sono state con me ed io le ho amate.<br />

Sono felice di averle incontrate perché ognuna di loro era la donna<br />

della mia vita. Ognuna di loro mi ha avuto e un po’ mi ha ancora.<br />

Non ti arrabbiare”.<br />

“Certo che devi avere proprio un grande cuore!”<br />

La mia gelosia rassicurava e ammorbidiva Jam, mentre il male dagli<br />

occhi verdi non abbandonava me.<br />

“E la cornice vuota con lo sfondo bianco?”<br />

“Quella la tengo per quello che sarò. Dato che mi piace tenere tutto<br />

sotto controllo, mi incollo addosso il passato, ma lascio spazio per<br />

quello che ancora deve succedere. Magari in quella cornice metterò<br />

noi due sullo sfondo di Milano”.<br />

“Ci verrai in Italia con me un giorno?”<br />

140


“Ci verrò in Italia per te un giorno. Sei l’unica Italia che voglio conoscere”.<br />

Mi appoggiai allo schienale della seggiola, con la mia gamba arrampicata<br />

sopra quella di Jam.<br />

Se fosse finito quel momento che avrei fatto? Ma soprattutto che<br />

avrei fatto se quel momento non fosse finito affatto? Se per una volta<br />

le cose fossero andate per il verso giusto?<br />

Era come stendere un dipinto sulla tela. Io disegnavo un contorno e<br />

Jam metteva il colore, io sceglievo una sfumatura e lui tracciava un<br />

profilo. Stavamo creando un quadro meraviglioso: la nostra vita.<br />

La luce nella stanza era sempre più rossa, pareva il Moulin Rouge parigino.<br />

Ci mancavano forse le calze autoreggenti di ballerine scolpite<br />

che dimenavano le ginocchia a ritmo di can can. Avevamo comunque<br />

lo stile poetico e maledetto di chi affronta la vita con forza nel tentativo<br />

di trovare una casa a cui tornare. Perché, senza una casa a cui<br />

tornare, la vita sbiadiva lentamente di significato.<br />

Addormentai gli occhi. Un lettore immedesimato nei capitoli della<br />

mia vita li leggeva con cadenza commovente, io ero impotente. Volevo<br />

raccontarla io la mia vita, ma era come se non riuscissi, come se<br />

fosse uno sforzo troppo grande per me. Descrivere il mio perché.<br />

Il perché di Miriam. La nave.<br />

“Una volta presi una nave per raggiungere la Finlandia dalla Svezia<br />

in pieno inverno. Decisi di uscire sul ponte nonostante facesse molto<br />

freddo per guardare a poppa la scia lasciata dal motore.<br />

Il mare era gelido al punto che per metà era liquido e per metà ricoperto<br />

da enormi lastre di ghiaccio. La terra che mi lasciavo alle spalle<br />

pareva uno specchio blu imbiancato dalla neve.<br />

141


La nave dominava il mare ed io fissavo le venature increspate tra le<br />

tavole di ghiaccio. Mi coprivo la bocca con una sciarpa di lana, ma<br />

non bastava ad alzare la temperatura corporea. Mi allontanavo dai<br />

luoghi propri agli esseri umani per addentrarmi in un tagliente e surreale<br />

paesaggio di ghiaccio disabitato.<br />

Il sole era calato regalando però una speranza di alba per l’in<strong>domani</strong>.<br />

Rimanevano il silenzio, la neve ed il freddo.<br />

La nave si muoveva, ma tutto intorno era completamente immobile:<br />

come una statuetta di cera conservata dentro una stalagmite.<br />

Mi calamitavano i segni che la nave lasciava alle sue spalle.<br />

Non si fermava, procedeva nella traversata e si muoveva da un punto<br />

ad un altro. Eseguiva un percorso e la prova di ciò stava nel rimpicciolirsi<br />

progressivo delle case, degli oggetti, degli uomini e tutto<br />

ciò che si vedeva prima nitido e distinto al momento della partenza.<br />

In realtà, oltre che dalla distanza, il punto di partenza era offuscato<br />

anche da altre sporgenze, si succedevano dune nere e grigie, anfrattuosità<br />

scure di terra.<br />

Poggiavo le mani sulla protezione d’acciaio sciaguattata dall’inverno<br />

che si nutriva sulle onde del mare.<br />

Provavo una sensazione opposta rispetto a quando facevo l’amore.<br />

Quando univo il corpo a quello di un’altra persona mi sentivo una<br />

stretta interiore guidata dal calore della carne. Unico punto di contatto<br />

tra questi due aspetti delle mie emozioni era l’io sine materia.<br />

Non possedevo in entrambi i casi realmente un corpo, ma semplicemente<br />

un odore, un’immaterialità che penetrava e amava tutto<br />

quanto consistesse di vita, anche quell’inverno che minacciava di<br />

rimanere a lungo.<br />

Cercavo un’ingraticciata sia quando mi appoggiavo ad un altro essere<br />

umano, sia mentre scorrevo una costa scura del Nord Europa.<br />

Sognavo un rifugio intriso di suoni eufonici e al riparo dal vituperare<br />

della gente.<br />

142


Andavo errando, cercando la mia casa. Allora come ora sapevo che<br />

in qualche luogo si trovava. Probabilmente nel luogo dell’infantilità<br />

inconsapevole e felice. Forse, la mia risposta era seduta al luna park<br />

dove da bambina compravo i lecca-lecca alla fragola, mentre mi mettevo<br />

in coda per salire sulla ruota panoramica.<br />

Ero partita per L.A. credendo che solo un distacco drastico da tutto<br />

ciò che mi apparteneva avrebbe messo in luce il vero senso della<br />

mia vita.<br />

Ecco spiegato il mio perché. L’abbandono di ogni nevropatia era<br />

il solo modo di aiutarmi a trovare un motivo nuovo per alzarmi la<br />

mattina.<br />

Il mio era un perché semplice. Mi ero fatta schiava di me stessa e<br />

umilmente avevo accettato la mia ignoranza.<br />

Avevo avuto paura, ma molta meno di quando a trent’anni mi ero<br />

guardata allo specchio e avevo visto riflessa l’immagine di una donna<br />

rotta dentro.<br />

Ogni volta in cui s’intraprende un cammino non si sa cosa si può trovare.<br />

Spesso la paura di non essere abbastanza bravi c’impedisce di<br />

tentare, di giocare la nostra partita fino in fondo, di scavarci nell’anima<br />

per capire ciò per cui siamo nati o semplicemente chi siamo davvero.<br />

C’impediamo da soli di farci una corsa in bicicletta oppure di<br />

regalare un bacio senza pensarci troppo. Ci puniamo con una vita<br />

rasa e liscia invece che niellarla con decorazioni che rispecchiano la<br />

nostra unicità.<br />

A trent’anni decisi che non era troppo tardi, che potevo ritrovare<br />

quello che avevo perso o semplicemente nascosto dentro di me.<br />

Volevo essere nuovamente la bambina che dopo la scuola aveva voglia<br />

di correre con la bicicletta verso i prati nei primi giorni di primavera,<br />

quando la doratura del sole sposa il verde degli alberi rinati.<br />

Volevo sentire la ghiaia delle strade di campagna fare attrito con le<br />

ruote, mentre mi dirigevo verso la libertà rappresentata, allora, da un<br />

143


mazzo di margherite colte ai bordi di un fiume.<br />

Volevo la fronte imperlata di sudore per lo sforzo nel percorrere le<br />

salite e le discese impreviste nelle strade di provincia.<br />

Volevo la stanchezza serale per una giornata passata ad osservare<br />

formiche e farfalle.<br />

E poi, naturalmente, volevo fare merenda. Quante volte ci capita<br />

da grandi di fare merenda? La merenda è uno dei primi privilegi<br />

che ci vengono negati. Avevo voglia di ribellarmi alla regola secondo<br />

cui la merenda è un diritto dei piccoli. Ecco ci ero arrivata: la merenda.<br />

Questo poteva essere il perché di Miriam. Riappropriarsi dei<br />

quindici minuti della merenda, quei minuti che una volta persi non<br />

torneranno più.<br />

144


XVII<br />

Jam dormiva sempre più spesso insieme a me e questo faceva scattare<br />

uno strano meccanismo nella mia mente. Ogni notte passata insieme<br />

mi faceva sentire meno spezzata dentro e immaginavo di avere trovato<br />

la mia casa, dopo averla persa nel rifiuto di una vita che non mi<br />

rispecchiava, una vita che uccideva la creatività e che m’incanalava in<br />

un percorso già segnato. Ero però disorientata. Mi ero trovata in un<br />

mondo fuori dal mondo e Jam raccoglieva involontariamente i pezzi<br />

facendomi sentire a casa.<br />

Quando dormivamo insieme - ormai praticamente ogni sera - lui<br />

appoggiava lento il suo piacere vicino al mio e come su una culla<br />

magica diventavamo sognatori di una vita che non si intaccava al<br />

mattino quando la sbronza è finita. Sognavamo insieme e parlavamo<br />

di tatuaggi, di libri, di locali e poi della sua terra e della mia. Mi stavo<br />

affezionando e non lo avevo cercato. Per la prima volta forse non mi<br />

ero fissata a trovare un ideale di uomo inesistente che andasse bene ai<br />

miei amici, ai miei genitori, ai miei colleghi, ma non a me. Non avevo<br />

trovato un uomo con cui dovevo fingere, bastava fossi me stessa e<br />

questo creava le fondamenta del palazzo della nostra vita insieme.<br />

Il sabato notte tornavamo tardi. Io spesso lavoravo al caffè e lui gestiva<br />

un ristorante di specialità turche a Downtown.<br />

Con i capelli inumiditi ancora dal sudore inforcavo la bicicletta o<br />

i Rollerblade e scheggiavo da lui. Era un uomo incantevole con il<br />

145


tovagliolo appoggiato sul braccio e il “suo” posto da curare. Amava<br />

il ristorante turco che aveva fondato con le sue mani. Spesso la notte<br />

mi spostava la testa sul cuscino per spiegarmi meglio di quanto sognasse<br />

vivere negli USA quando ancora stava ad Istanbul e suo padre<br />

voleva trovasse un posto sicuro in qualche istituzione pubblica.<br />

Mi raccontava della sua città, dell’atmosfera silenziosa di Beykoz<br />

contrapposta alle voci dei bar tra la Moschea Blu e Santa Sofia.<br />

Alcune volte sospendeva le parole e accendeva lo stereo. Si avvicinava<br />

e provava a spiegarmi il senso di una canzone turca. Non capivo<br />

alcuna parola, ma il suono lento e dolce della musica mi faceva<br />

sognare il Bosforo. Me lo immaginavo come un enorme specchio<br />

di miele del cielo sul quale potevo danzare ancheggiando i fianchi,<br />

fino a che la musica proveniente dalle discoteche vicine non finiva e<br />

fino a quando, chiudendo gli occhi, potevo vedere le stelle sopra le<br />

moschee.<br />

A Jam divertivano le fantasie sulla sua terra ed ogni giorno mi regalava<br />

un’immagine nuova di Istanbul. Alcune volte mi parlava dei colori<br />

del Gran Bazar, altre volte della quiete dei pescatori sospesi tra la<br />

città ed il mare che attendevano un segno dall’acqua.<br />

Mi guidava tra le diverse tipologie di thé e biscotti turchi. M’insegnava<br />

nomi di cantanti che non avrei mai saputo ripetere, ma anche<br />

parole semplici. Tentava di farmi cogliere la musicalità delle parole<br />

nella sua lingua. Alcune parole non necessitavano di spiegazioni né<br />

traduzioni: le capivo, anche se non le conoscevo. Ne capivo il senso<br />

senza bisogno di avere un libro davanti né di frequentare un corso<br />

all’università. Come la volta in cui Jam si sedette sull’autobus due<br />

poltrone avanti a me e voltandosi mi afferrò l’attenzione distratta<br />

con un “Seny seviorum” 3 .<br />

Nessuno me lo aveva mai detto. Forse per questo quel suono liscio e<br />

pulito mi fu subito chiaro. Non ebbi mai bisogno di chiedere a Jam<br />

cosa intendesse.<br />

3 Ti amo in turco<br />

146


Quando si stancava di raccontare delle voci d’oriente spegneva lo<br />

stereo, chiudeva la mia finestra sulla Turchia e ricominciava ad essere<br />

uno straniero in America che cerca la sua strada, ma prima che<br />

questo accadesse io avevo già costruito una memoria fuori dall’esperienza.<br />

Ero già volata ai bordi del Bosforo e sotto il ponte che unisce<br />

l’Asia e l’Europa avevo ascoltato le preghiere che uscendo dalle moschee<br />

invitavano ad entrarvi e a riconoscere l’unico Dio possibile,<br />

un Dio diverso da quello cristiano, un Dio con il quale io non ero<br />

cresciuta e, ancora, un Dio a cui mai prima di allora avevo pensato,<br />

né mai avevo creduto di poterne imparare l’esistenza o l’amore. Eppure<br />

quello era il Dio in cui credeva Jam e quello stesso Dio lo faceva<br />

arrossire quando la mia natura cristiana-cattolica mi permetteva<br />

di dire certe cose, ma soprattutto di pensarle. Come quando sullo<br />

sfondo di Yalanci Dunya avevamo danzato e io gli avevo sussurrato<br />

in un orecchio che lui era la cosa più bella che tutta la Turchia potesse<br />

avere. Aveva distolto lo guardo. Non era stato abituato nella<br />

sua cultura ad una confessione tanto esplicita, ad un’espressione<br />

tanto trasparente dei propri sentimenti, eppure come su una sottile<br />

linea continua mi aveva ricambiata. Aveva accettato l’incontro dicendomi:<br />

“Miriam, sei la mia vera anima e mi sei mancata tantissimo”. Non<br />

capii fino in fondo.<br />

“Quando?”<br />

“Mi sei mancata in tutta la vita che è trascorsa fino ad adesso”.<br />

Durante i racconti di Jam a volte mi appoggiavo sulla sua pancia e<br />

osservavo la sua faccia deformarsi nelle favole che raccontava, poi<br />

mi spostava cercando di non fare rumore. Era innamorato di me. Lo<br />

capivo da come si perdeva a fissarmi quando gli preparavo la cena<br />

e lui cercava di indovinare gli ingredienti dei miei intrugli, ma non<br />

ci azzeccava mai.<br />

Mi diceva che ci volevamo bene e che sarebbe stato bello continuare<br />

147


a volercene. Sarebbe stato bello che le curve dei miei fianchi si rilassassero<br />

sempre vicino alle sue ginocchia e che lui si alzasse a chiudere<br />

i vetri la notte quando l’aria dispettosa m’impediva di dormire. Jam<br />

si sollevava ed io spiavo il suo profilo e i capelli ribelli nell’oscurità.<br />

Nei pochi secondi di lontananza, la distanza letto-finestra mi straziava<br />

e solo quando il letto s’inclinava dal suo lato potevo riprendere<br />

sonno.<br />

Non sapevo se fosse quello che i più definiscono amore o fosse semplicemente<br />

qualcosa di chimico, qualcosa che avesse a che fare con la<br />

pelle che rabbrividiva al tocco reciproco. Certamente il corpo di Jam<br />

sembrava creato per attorcigliarsi con il mio. Bastava che una sua<br />

parola muovesse l’aria intorno a me perché io lo desiderassi. Desideravo<br />

saltargli in braccio, porgergli una fragola in bocca, spogliarlo.<br />

Sembrava uscito da una pubblicità. Era bellissimo.<br />

Quanto conta la fisicità in una relazione? Quanto conta la fisicità<br />

nell’amore?<br />

Ognuno di noi ha almeno due personalità, i più fortunati ne hanno<br />

molte di più.<br />

Come una donna che denudata di tutto si specchia in un lago e vede<br />

l’immagine di una pantera. La fragilità e la dolcezza della sua nudità<br />

non vengono riflesse perché sono solo una parte di lei. L’altra parte<br />

sono gli occhi vigili e predatori della pantera, l’aggressività dei cacciatori.<br />

La donna non può liberarsi di alcuna di queste prospettive.<br />

Potrebbe avvicinare le ginocchia alla fronte, incrociare le braccia,<br />

avvicinare il viso alle gambe e in posizione fetale riflettere su quale<br />

parte di sé mostrerà al mondo che la osserva. La donna nuda che si<br />

copre il viso con i lunghi capelli o la pantera che appostata dietro un<br />

albero punta il cibo per sopravvivere?<br />

Vincerà l’aggressività o la dolcezza?<br />

L’amore pure ha almeno due prospettive, ma gli amori più belli ne<br />

hanno molte di più.<br />

148


C’è un lato dell’amore come la donna nuda che si spoglia di tutto e<br />

non ha paura a mostrarsi per quello che è. Questo è l’amore maturo<br />

che sicuro del tempo non si vergogna della sua natura. Questo<br />

sentimento, però, se si avvicina al lago vede il riflesso della passione<br />

adolescenziale che rinasce incontrollata ed incontrollabile: la pantera.<br />

Quale soluzione deve trovare un uomo?<br />

Quante volte gli amori di una vita attraversano un filo sottile sospeso<br />

su un precipizio ed appena guardano in basso (o in alto…) perdono<br />

l’equilibrio? Siamo come trapezisti infelici alla disperata ricerca della<br />

perfezione nel nostro numero.<br />

Ci sono amori che solidificano il tempo, che ci danno certezze e che<br />

ci imprigionano o ci liberano dietro a esse. Amori per cui chiudiamo<br />

altri sipari.<br />

L’uomo ha sempre paura di ciò che non conosce. Siamo attratti, ma<br />

anche temiamo ciò che sta dietro una porta mai aperta. È più facile<br />

e sicuro rifugiarci negli affetti di lunga data, anche se magari non ci<br />

rispecchiano più, anche se non risvegliano la nostra pantera. Mentiamo<br />

a noi stessi con scuse quali il fatto che non siamo più ventenni<br />

e che dovremmo trovare un equilibrio con quella tal persona che è<br />

buona e che ci vuole tanto bene. Un’amica una volta mi disse che<br />

stava con il suo uomo perché lui aveva un grande cuore. Questa affermazione<br />

mi aveva sorpresa, soprattutto perché professata da una<br />

donna con un magnetismo da calendario e un corpo da statua greca.<br />

Mi chiesi come fosse possibile sedersi e rinunciare alla vita e alle<br />

emozioni in nome di un “grande cuore”. Il concetto non è che sia<br />

sbagliato, nessuno vorrebbe perdere la testa per un assassino o un<br />

delinquente, ma tra questo e quello di differenza ce ne è tanta. Dove<br />

starebbe il punto di pareggio in cui la fatica che facciamo per far<br />

tacere l’altro lato dell’acqua in cui siamo noi stessi, o meglio in cui<br />

esaltiamo una parte di noi, si compensa perfettamente con il beneficio<br />

di stare con una persona “buona”? Probabilmente però ognuno<br />

di noi è tutto sommato buono, a parte i deviati ed i maniaci, quindi<br />

149


che ragione c’è di perdere tempo dove non c’è il vero amore e la vita?<br />

Dove non c’è l’amore infatti non c’è la vita.<br />

Le storie in cui ci si illude che ci si può sedere perché lui o lei hanno<br />

un grande cuore sono le più insidiose, le più pericolose. Quante volte<br />

capita che si smetta di vestirsi bene, di fare regali o semplicemente<br />

di ascoltare una canzone pensando a lui o a lei per concentrarci sulla<br />

cassiera del supermercato di fronte a casa o l’istruttore di salsa in<br />

palestra? Questo capita tutte le volte che ci manca qualcosa, ma non<br />

guardiamo il lago e non accettiamo anche quella parte di noi: la pantera.<br />

Preferiamo nasconderci e imprigionarci nella scusa degli affetti<br />

consolidati e tranquilli. Si dovrebbe fare attenzione se si va verso il<br />

mondo degli affetti senza problemi, perché quello è anche il mondo<br />

degli affetti senza vita.<br />

150


XVIII<br />

Jam rimbalzava il pallone contro il canestro e nel ruolo di playmaker<br />

guidava il gioco. Giulia ed io lo guardavamo dalle panchine. Dietro<br />

di noi l’oceano e sopra le scie degli aerei che abbandonavano Los<br />

Angeles.<br />

Giulia si aggiustava le pieghe della minigonna nera, unico colore da<br />

lei riconosciuto oltre il rosa, e parlava al cellulare. L’uomo del momento<br />

era un venticinquenne che aveva messo radici alla U.C.L.A.<br />

e che si faceva delle gran canne. A lei piaceva anche se non mi era<br />

chiaro il perché. Lui passava tutto il tempo a scaricare musica da<br />

internet, a giocare al computer oppure con la tavola da surf nell’oceano<br />

e lei impazziva per lui. Forse era la città degli angeli a darle alla<br />

testa o forse era il fatto che lui la portava in giro su macchine truccate<br />

che facevano un gran rumore su e giù per la città. Aveva due televisori<br />

in macchina, un impianto stereo che pareva una discoteca e con<br />

uno strano stratagemma sapeva far uscire il fuoco dal tubo di scarico.<br />

Insomma un fanatico, ma forse proprio l’esagerazione e l’eccesso dei<br />

sedili leopardati facevano sentire Giulia comoda.<br />

Jam seguiva attento con gli occhi il pallone, ma era visibilmente stanco<br />

anche perché ultimamente aveva problemi al ginocchio; tuttavia<br />

era ostinato e non gli andava di rinunciare al suo sport preferito.<br />

Giulia appoggiò la testa sulla mia spalla. Annusò l’aria, mentre il suo<br />

sguardo caliginoso si scontrava con il sole della California.<br />

151


“Miriam, Luca mi ha chiamata. Mi ha detto che non mi ha dimenticata,<br />

che gli manco, che forse potremmo stare ancora insieme, che<br />

potremmo riprovare.<br />

Mi ha chiesto di tornare e che, dopotutto, ha ancora bisogno della<br />

mia presenza. Non so davvero che fare.<br />

Ci sono state così tante storie dopo di lui e poi ora sono qui. A volte<br />

penso che nella società in cui viviamo i rapporti sono fragili e continuamente<br />

soggetti a tempeste ed inquietudini, ma forse con Luca la<br />

tempesta è finita. Che cosa devo fare?”<br />

Non la interruppi per sentire dove sarebbe arrivata.<br />

“A lui penso ancora, ma probabilmente dovrei farmene una ragione<br />

che tutte le cose hanno un inizio e una fine: anche l’amore. Le relazioni<br />

sono molteplici, le occasioni tante e io... ahimè sono sensibile<br />

al fascino dell’emozione della vita... quindi? Quindi dovrei prendere<br />

le cose per quelle che sono, i momenti per come vengono?<br />

Non posso fare, come accadeva per i miei genitori, progetti troppo<br />

lunghi, ma questo non toglie che non possa costruire qualcosa di<br />

ugualmente importante. Vorrei essere mamma, ma non madre prigioniera<br />

di una società che mi vorrebbe sposata necessariamente con<br />

uno come Luca. Lui all’apparenza è l’uomo perfetto, ma in realtà mi<br />

ha abbandonata e ora mi vuole con sé.<br />

Piuttosto vorrei provare a realizzare i miei sogni di ragazzina, ma<br />

attualizzandoli al mondo nuovo in cui vivo.<br />

Non credo di essere l’unica donna al mondo che soffre di relazioni<br />

instabili e non credo neppure di essere l’unica donna che si è vista<br />

costretta a diventare un po’ egoista per non compiacere sempre tutti,<br />

tuttavia…”<br />

La fermai per abbottonarle addosso ciò che lei, già sapevo, pensava:<br />

“… Tuttavia ci sono persone come te e, spero, come me dotate di<br />

una dolcezza capace di vedere e sentire le cose e, se si è consapevoli<br />

di questo, non resta che essere felici e continuare a credere che sicuramente,<br />

alla fine, le cose andranno bene, ma non perché aspettiamo<br />

152


che un Luca qualunque torni, bensì perché agiamo.<br />

“Miriam, che farò con Luca?”<br />

“Luca? Un’incognita nell’equazione della tua vita che tu e solo tu<br />

puoi risolvere”.<br />

Luca e Giulia si erano appartenuti in un amore che li aveva esclusi e<br />

decontestualizzati dal mondo.<br />

Come spesso capita, l’amore ci rende stranieri agli altri e ci costringe<br />

a chiuderci in una stanza i cui soli ospiti sono i due amanti. Così capita<br />

che ci si innamora e si esclude tutto ciò che è avvenuto prima e<br />

s’ignora ciò che succederà in seguito.<br />

L’amore ci rende invulnerabili e addirittura infiniti. Non abbiamo<br />

più bisogno delle feste, del cinema, delle cene con gli amici e nemmeno<br />

dell’arte. L’amore polverizza ogni nostra esigenza colmandole<br />

tutte con uno sfioramento inaspettato di labbra.<br />

Giulia e Luca erano vissuti per un certo periodo di tempo indefinito<br />

ed indefinibile chiusi in una stanza: la stanza da cui si possono ammirare<br />

tutti i panorami del mondo, la stanza dai mille punti di fuga<br />

in cui si può essere chiunque, ma soprattutto la stanza in cui si può<br />

essere se stessi.<br />

Si davano appuntamenti che rimanevano ignoti a tutti tranne che a<br />

loro. S’incontravano nella terra sapida delle domande e non avevano<br />

bisogno di raccontarsi i loro nomi, la loro data di nascita, il loro<br />

lavoro o l’ultimo libro che avevano letto. Si guardavano negli occhi<br />

ed era come sedersi in una calda domenica estiva e guardare la gente<br />

di un villaggio in festa per un matrimonio. La pace della gioia non<br />

necessitava di specificare il proprio nome, la propria età, le scuole<br />

frequentate o i piatti preferiti.<br />

Finita la bianca neve, però, bruciato il momento, il caldo aveva sciolto<br />

il paesaggio e Luca e Giulia non si conoscevano più. Uscirono<br />

dalla stanza dell’amore bruscamente. Alla fine se qualcuno avesse<br />

chiesto loro qualcosa l’uno dell’altro non avrebbero saputo cosa ri-<br />

153


spondere oppure avrebbero dato risposte inconcludenti.<br />

Giulia e Luca si erano amati, si erano uccisi, o meglio uno dei due<br />

aveva ucciso l’altro, come spesso avviene, ed infine, molto semplicemente,<br />

non si conoscevano più. Probabilmente se qualcuno avesse<br />

chiesto a Luca se sapeva come stava Giulia avrebbe risposto: “Giulia?<br />

Giulia chi scusa?” Infatti è così che va: quando alla fine abbandoniamo<br />

la stanza dell’infinito e andiamo avanti, quando cominciamo<br />

a pensare che la vita continua anche da soli, quando siamo stufi<br />

di quello che avevamo, perché viviamo nella convinzione che ci appartenga<br />

totalmente e che quindi si sia impoverito d’interesse perché<br />

troppo scontato. In quel momento successivo alla rottura non si sa<br />

più nulla dell’altro. Come Giulia e Luca. Se qualcuno avesse chiesto<br />

a Luca “Chi è Giulia?” Lui avrebbe risposto: “Giulia chi? Io non<br />

conosco nessuna Giulia”.<br />

Continuavamo a guardare Jam e i suoi amici giocare a basket. Giuly<br />

teneva una birra in mano.<br />

Giuly beveva. Era un problema e lei non lo capiva. Si alzava, ovunque<br />

fossimo e beveva. Si gonfiava la pancia, spegneva il cervello ed i<br />

suoi sensi dilatavano le percezioni. Anche io bevevo ogni tanto, ma<br />

lei camminava addosso alla gente, pestava i piedi alle ragazze con i<br />

tacchi, fuori dai locali. Le cascavano le spalline della maglia e cronici<br />

tic le turbavano il viso.<br />

Iniziava dando risposte a domande che nessuno poneva e le si sfasavano<br />

i tempi di rielaborazione mentale quando beveva.<br />

Perché beveva?<br />

Beveva per cancellare i ricordi. Per cancellare Luca.<br />

Beveva per dimenticare la madre che senza rispetto entrava nella sua<br />

stanza dicendole che era vestita come una puttana, che era truccata<br />

come una di “quelle” e che si vergognava enormemente che fosse<br />

sua figlia.<br />

Beveva per non pensare agli uomini che s’infilavano nel suo letto, che<br />

154


l’accarezzavano, che le rubavano il tempo per poi fuggire il giorno<br />

dopo senza nemmeno una telefonata, un biglietto, una parola.<br />

In quel momento beveva per dimenticare che la sua fuga dall’Italia<br />

non l’aveva portata a nulla, che non aveva trovato quello che cercava,<br />

che era ancora sola, forse più di prima.<br />

Ma Giulia cosa cercava? Cosa cerchiamo tutti noi? Che cosa è quel<br />

qualcosa a cui tendiamo, che già conosciamo eppure ancora non sappiamo?<br />

Quando Giulia beveva s’inventava personalità parallele, ruoli immaginari.<br />

Mi spronava a reggerle il gioco con il tale uomo perché<br />

gli aveva dichiarato di provenire dal Brasile o dall’Argentina. S’improvvisava<br />

latino-americana credendo che questo la rendesse più desiderabile.<br />

Cominciava quindi a biascicare uno spagnolo dapprima<br />

stentato ed infine imbarazzante.<br />

Invecchiava la sua figura con gingilli di poco valore, fingeva una sicurezza<br />

che non aveva, una spregiudicatezza che non le apparteneva<br />

davvero. Mormorava frasi soffocate volte a farsi del male. Una volta,<br />

in mezzo a una strada, mi urlò che era la regina del sesso. Poi fingeva<br />

di dimenticare quanto appena affermato.<br />

Giulia era una bella donna eppure non le andava il suo aspetto. Si<br />

sentiva intrappolata in un corpo che non la soddisfaceva ed il minimo<br />

commento negativo la faceva andare fuori di testa. Sapeva di essere<br />

bella, eppure mai abbastanza. Così, con questo spirito, si susseguivano<br />

spesso sul bancone di un bar un Sex on the beach, un May Tay, 3<br />

birre, un po’ di vino ed infine della vodka liscia. Di colpo spariva il<br />

bancone, la gente, il club e rimaneva solo lei con una bottiglietta di<br />

rum o crema di whisky nella borsa e la luce degli occhi che sbiadiva.<br />

Alcune volte restava anche il barista cui aveva fatto l’occhiolino per<br />

ottenere un drink gratis.<br />

Se il barista restava era quasi sempre un tipo dagli occhi chiari e<br />

il fisico da surfista. Se le andava bene aveva sui venticinque anni e<br />

dopo essersi divertito un po’ con lei se ne andava senza illuderla. Se<br />

155


le andava male era un quarantenne con una donna a casa e iniziava a<br />

mentirle giurandole quanto la notte passata insieme fosse speciale e<br />

lei meravigliosa. Immersa com’era nell’alone della notte, del fumo e<br />

dell’alcool Giulia credeva a tutto perché quello che poteva tollerare<br />

era solo il lato oscuro ed orgiastico del suo spirito.<br />

La verità era tutt’altra cosa: lui non la vedeva. Nessuno ti vede quando<br />

sei così.<br />

La gente allontanava una Giulia ubriaca e sghignazzava di lei. Anche<br />

chi non la conosceva intuiva che il suo fare non era il risultato di una<br />

isolata notte brava, ma piuttosto un morbo recidivo ed incontrollabile<br />

che diramava in lei privandola dell’aria, della luce, dei sogni e<br />

della vita.<br />

Giulia amava sognare da piccola e questa era una delle ragioni che<br />

ci aveva unite. La nostra incapacità di attraccare la nave al porto ci<br />

rendeva speciali, o almeno lo credevamo, e ci avvicinava nella lotta<br />

contro la realtà incolore ed insapore.<br />

Ci arrampicavamo a fatica in cima ad una montagna per vedere cosa<br />

c’era dall’altra parte. Volevamo guardare tutto, forse perfino troppo.<br />

Volevamo la povertà del mondo impressa nell’acqua dei nostri occhi<br />

e poi volevamo capire le paure dentro di noi, ma anche le possibilità,<br />

la vita che avevamo e quella che avremmo potuto avere.<br />

Giulia, però, in California, ma forse già da prima, non sognava più<br />

in quel modo. Quando si accasciava contro un muro perché esausta<br />

di camminare sui tacchi volgeva la faccia al mondo, si raggrinziva su<br />

se stessa, piegava le gambe e come un malato grave rimetteva tutto<br />

quello che aveva mangiato, ma più spesso quello che non aveva mangiato.<br />

Non mangiava molto perché la bellezza ha un prezzo, come qualsiasi<br />

cosa. Le gambe magre non le fornisce il Signore o se lo fa poi bisogna<br />

mantenerle resistendo a ciò che tenta, alle torte, ai dolci, ai nostri<br />

desideri, a ciò che ci piace.<br />

Il timore di Giulia di perdere l’accettazione degli altri si manifestava<br />

156


nella maniacale attenzione alla bellezza. Era legata all’esteticità, al<br />

guscio che contiene l’anima. Amava le armonie e le proporzioni. Un<br />

gusto da esteta la schiavizzava lasciandola senza equilibrio e senza<br />

parole.<br />

Giulia si spingeva fino all’eccesso in ogni cosa: la rinuncia al cibo,<br />

l’eccesso di alcool, di uomini. Conduceva una vita sregolata. Andava<br />

a letto tardi e quasi mai sola, saltava la cena e lasciava lo stomaco<br />

brontolare, si abbandonava sul divano e sentiva tutto cadere e lei<br />

stessa scivolava indietro, poi di lato e in avanti e ancora indietro. Alcune<br />

volte le mancava il respiro, cercava l’aria ma non la trovava ed<br />

il vento la portava via. Era una persona sottile, incapace totalmente<br />

di occuparsi di sé, confusa e disordinata. La sua vita era come la sua<br />

camera da letto: roba sparsa ovunque.<br />

L’irregolarità di Giulia era contagiosa quando non riuscivo a risolvere<br />

i problemi della vita.<br />

Se il lavoro mi annoiava, se non trovavo un uomo o se sentivo litigare<br />

i miei genitori nella camera a fianco mi assaliva il desiderio di<br />

addormentarmi e di non svegliarmi mai più. In quei momenti Giulia<br />

diventava un traino nelle “cattive compagnie”, diventava l’aiuto a<br />

realizzare il disastro. Ma la verità era che la cattiva compagnia ero io,<br />

quando mi comportavo così, esattamente come durante il weekend<br />

che passammo a Roma alcuni anni prima.<br />

Due giorni a Roma<br />

“Lui è Paolo. Te ne avevo parlato, ricordi?”<br />

Giulia tacque e porse la mano: “Io sono Giulia. Non è che mi presteresti<br />

la tua felpa che ho freddo?” Non faceva freddo, ma Giulia<br />

sentiva allo stomaco la morsa delle strade e delle persone che non si<br />

conoscono. Voleva coprirsi.<br />

Paolo non la guardava molto e a Giulia non importava, sapeva che<br />

157


Paolo faceva parte delle “mie cose” e che non lo doveva toccare.<br />

Giulia aveva fame, anche se era tardi ed era quasi tutto chiuso. Eravamo<br />

nel quartiere di S. Lorenzo a Roma e per le strade deserte faceva<br />

caldo. Quasi tutti i locali erano chiusi, solo qualche punk si aggirava<br />

in cerca di una birra o di qualcosa da fumare nei vicoletti più bui.<br />

Paolo mi arrivò da dietro e mi rigirò la testa in basso. Gridai per il<br />

fastidio, ma quell’attenzione non mi dispiaceva.<br />

Entravamo e uscivamo da bar vuoti facendo almeno un giro di rum e<br />

pera in ogni stanzetta blu e rossa che ci capitava d’incontrare.<br />

Giulia ed io ballavamo strette nei bar che stavano per chiudere, ballavamo<br />

anche al ritmo di suoni debolissimi perché quando ci staccavamo<br />

dalla nostra città ci sentivamo sole e toccarci permetteva di<br />

sentirci in un luogo familiare ovunque fossimo.<br />

La luce blu di un locale notturno mezzo vuoto rendeva metafisici e<br />

surreali i movimenti del corpo e della mente.<br />

Chiesi al dj di alzare la musica, ma lui mi squadrò allucinato e mi<br />

chiese perché avessi bisogno di rintronarmi per divertirmi. Aggiunse<br />

che i suoni dei bassi facevano già troppo rumore e che mancava<br />

solo qualche decibel e sarebbero arrivati i carabinieri a far chiudere<br />

tutto.<br />

Mi sedetti così, delusa, su alcuni cuscini che creavano una morbida<br />

rientranza nel muro.<br />

Giulia mi raggiunse dopo poco e anche Paolo e il suo amico Stefano<br />

non si fecero attendere. Ci avvolgevamo l’uno sull’altro. Ognuno di<br />

noi cercava qualcosa.<br />

Paolo mi prendeva la faccia e fingeva di baciarmi. Appoggiava le<br />

sue labbra sul palmo della mano e me la premeva sulla bocca, poi si<br />

staccava e mi chiedeva:<br />

“Cosa sei venuta a cercare a Roma?”<br />

Io abbassavo lo sguardo e non sapevo che rispondere. Tutti noi cerchiamo<br />

qualcosa, ma il difficile è descrivere, individuare questo qualcosa.<br />

158


Dopo qualche vano tentativo di rimanere composti nel locale capimmo<br />

che era meglio uscire perché c’erano troppe lingue che s’infilavano<br />

nelle orecchie l’un l’altro per non farci sbattere fuori di lì a breve.<br />

Preferimmo uscire.<br />

Comprai un cestino di ciliege e cominciai a parlare di vacanze: di<br />

quelle che avrei voluto fare e di quelle che già mi avevano vissuta.<br />

Parlavo dell’India e della Tailandia e mi figuravo su qualche spiaggia<br />

esotica e caraibica. Paolo mi spostò la testa indietro quasi spezzandomi<br />

il collo e dissi:<br />

“Sono triste”.<br />

Stefano mi strinse il polso, come un campanello d’allarme ribattè:<br />

“Chi, tu? Triste? Come fai ad essere triste tu che parli di viaggi e<br />

mangi ciliege?”<br />

Rimasi male di quella risposta e non avevo argomenti per controbattere,<br />

a parte proporre il mio viso in una versione distaccata ed<br />

artistica come una maschera fantasma, così mi limitai a sedermi sui<br />

primi gradini di una scalinata lunghissima.<br />

Si erano fatte le due di notte e noi ancora vagabondavamo per le<br />

strade di Roma con i riflessi rallentati dall’alcool e l’incertezza su<br />

come continuare la serata. Forse i dubbi però erano solo miei. Sono<br />

sempre stata un po’ ingenua su certe cose. Senza malizia.<br />

Paolo propose di fare una partita a carte nella discoteca più in voga<br />

della capitale: casa sua. Qualche breve consultazione e fummo lì a<br />

giocare. Sedevamo a gambe incrociate sul grande letto in camera di<br />

Paolo. Tra Giulia e Stefano era scattato il feeling, mentre tra me e<br />

Paolo c’era stata una relazione l’estate precedente, prima di quella<br />

notte, e quindi macinavamo un certo imbarazzo, o forse, ero ancora<br />

una volta solo io a provarlo.<br />

Non so come, ma mi trovai a perdere la partita a carte e la penalità fu<br />

quella di togliermi la maglietta.<br />

Poi accadde qualcosa di diverso. Non stavamo più giocando e mi ritrovai<br />

a sussurrare nell’orecchio di Giulia: “Che dici, lo facciamo?”<br />

159


Erano finiti gli ostacoli e i moralisti preamboli. A Giulia uscì un capezzolo<br />

dal reggiseno, ma nessuno se ne fece un problema.<br />

Ci prendemmo per la gola, ci accarezzammo e ci solleticammo gli<br />

istinti. Il primo momento fu sensuale, ma poi il resto fu solamente<br />

sessuale. Tutto accadde in una gran confusione di corpi, di carne, di<br />

odori. L’alcool ci disinibiva e ci spingeva alla ricerca della masturbazione<br />

mentale dell’amore di gruppo. Consumammo un piacere egoistico<br />

e fisico. Io non ero io. La Miriam che parlava di filosofia, che si<br />

dilungava con la amiche sulla concezione che l’uomo ha dell’infinito,<br />

che sorrideva a 360 gradi interrogandosi sul ruolo di Dio nell’universo<br />

non era presente nella camera da notte sulla Tiburtina. Invece<br />

quella notte mi trasformai in un essere dotato solo di vita e istinto.<br />

Quella notte, mentre traducevo sesso per amore, vendevo me stessa<br />

ad un basso prezzo, non mi rispettavo molto nell’orgia collettiva.<br />

Era solo un gioco, ma non mi andava veramente di giocare. Era solo<br />

un modo di affievolire le voci di quello che davvero nella vita non<br />

mi andava. Era un modo di chiudere gli occhi e di distrarmi dalle<br />

preoccupazioni su un futuro incerto dopo la laurea. Facevo scivolare<br />

la lingua vicino al ventre di un uomo o di una donna, ormai non<br />

sentivo più la differenza e volevo coprire con un po’ di saliva l’orrore<br />

di quelle mani che mi toccavano per il solo gusto di masturbarsi con<br />

un corpo che viveva, invece che solo con una mano. Giulia godeva e<br />

non si preoccupava di nulla ed anche Paolo e Stefano contorcevano<br />

le facce nel piacere. In realtà non era amore di gruppo, ma era sesso<br />

solitario fatto in compagnia. Mi staccai prima che l’incontro finisse e<br />

osservai ciò che succedeva. Mi sentii sollevata non appena me ne tirai<br />

fuori e presi ad osservare con curiosità l’evolversi degli eventi.<br />

All’amore spirituale veniva contrapposto l’amore sensuale, alla donna-angelo<br />

dantesca la donna volgare aggressiva cecco-angioliana, alla<br />

celebrazione delle virtù morali l’elogio dei piaceri della vita. Scapestrati<br />

a causa di una incommensurabile cupidigia lottavamo in nome<br />

di uno stile nuovo ben rappresentato dagli ansimi che ci sussurra-<br />

160


vamo nelle orecchie, ma forse non sussurravamo nemmeno troppo<br />

piano.<br />

Eravamo frivoli, disordinati, spensierati e dissipatori. Lontani da<br />

ogni idea aulica ci prendevamo tutti quanti in giro tra le lenzuola,<br />

quasi come se le uniche cose che contassero in quel momento fossero<br />

il gioco e la commedia comico-surrealista che stavamo inscenando.<br />

Come prostitute inquiete, ladri dissipati, sudici giocatori d’azzardo<br />

e frequentatori di squallidi locali eravamo indebitati con la vita ed<br />

appartenevamo ad un universo di ribellione e di abiezione morale.<br />

Forse eravamo sazi ed infastiditi da una realtà che appariva sempre<br />

troppo dilettantistica, troppo falsa-romantico-perbenista e volevamo<br />

scherzare con quello che è per l’uomo l’atto più naturale.<br />

Era un tempo per noi in cui potevamo ridiventare dialettali, quotidiani,<br />

giocosi, ma soprattutto semplici.<br />

Quella però non era la semplicità che cercavo io. Sono sempre stata<br />

molto gelosa delle mie cose e Paolo era una cosa mia, dividerlo con<br />

Giulia non mi piaceva. Anche Giulia era roba mia per certi aspetti e<br />

anche di lei ero gelosa. La gelosia dentro un letto che si sta condividendo<br />

con molte persone fa male.<br />

Mi appoggiai un cuscino sulla pancia per coprire quello che tutti<br />

avevano visto e leccato, eppure sapevo che se l’in<strong>domani</strong> avessi incontrato<br />

i volti dei protagonisti di quella notte di povertà amorosa<br />

non sarei arrossita, ma forse ci avrei anche scherzato sopra.<br />

Il mio corpo cominciava ad essere provato, erano molte ore che non<br />

dormivo. Il sonno stava per cogliermi in una posizione imprecisata<br />

quando sentii una goccia di sudore che mi colava dalla fronte. Le<br />

nebbie dell’alcool erano passate e realizzai quanto accaduto. Rabbrividivo,<br />

mentre le prime luci dell’alba filtravano dalla finestra. Paolo<br />

provò ad abbracciarmi un paio di volte, ma io mi voltai. Si avvicinò<br />

al mio orecchio e disse:<br />

“Miriam, cos’hai?”<br />

161


“Niente… solo mi sento una… puttana. Per quello che ho fatto,<br />

quello che abbiamo fatto. Un vero insulto al bisogno d’amore che<br />

ho”.<br />

Paolo abbassò ancora la voce, appiccicò la sua pancia alla mia e guardandomi<br />

fisso negli occhi mi disse:<br />

“Adesso ti racconto una storia. Ci sono due giovani donne. Una di<br />

loro ha molti amanti. Ogni volta insegue il cuore e s’innamora nonostante<br />

le malelingue, nonostante la maleducazione amorosa che<br />

molti le affibbiano a causa delle sue facilità del cuore. Lei ama e ama<br />

ancora. Si getta nel letto del suo amore e ci crede ogni volta.<br />

L’altra giovane donna non ha mai avuto un amante, non le interessa.<br />

A lei interessa solo avere una vita agiata. È vergine, aspetta quello<br />

“giusto”. Un giorno incontra un uomo molto ricco e di gran lunga<br />

più vecchio di lei, quasi il doppio dei suoi anni. Lo sposa. È l’unico<br />

uomo con il quale lei sia mai andata. Lei non ha mai conosciuto né l’<br />

amore né la passione.<br />

Ora Miriam, quale delle due è una puttana?”<br />

Staccai la mia pancia dalla sua e gli voltai la schiena.<br />

Paolo mi prese la mano e me la strinse in un gesto di mutua complicità.<br />

Si addormentò subito accoccolato accanto a me. Ricambiai<br />

la stretta, ma cercai un lembo di lenzuolo o altro per ripararmi dal<br />

freddo, dal vento che entrava dalla finestra semiaperta. Mi sentivo a<br />

disagio. Paolo socchiuse le labbra e ancora aggiunse:<br />

“Miriam, sai qual è il tuo problema? Che non sai reggere la tua profondità.<br />

Vivila fino in fondo. Questa notte è stata un episodio della<br />

tua esperienza. È comunque un pezzo di vita. Non sei una sgualdrina<br />

per questo”.<br />

Già non sopportavo più Paolo e tutta quella situazione. Non mi interessavano<br />

i suoi discorsi, a quell’ora poi c’erano decisamente troppi<br />

corpi nel letto per poter realizzare il mio desiderio di una coperta,<br />

così mi alzai di scatto. In pochi secondi rintracciai la mappa dei miei<br />

abiti accartocciati a terra. In un attimo riacquistai l’aspetto di una<br />

162


persona vestita e ordinata, anche se gli occhi cerchiati non potevano<br />

mentire sulla notte trascorsa. Sbattei la testa contro l’anta aperta<br />

dell’armadio mentre tentavo di trovare il mio orecchino, ma nessuno<br />

si svegliò. Paolo si era già addormentato. Socchiusi la porta, lanciai<br />

un ultimo sguardo alla stanza ed ai corpi sconosciuti che vi riposavano<br />

e presi la porta. Giulia aveva il polpaccio che cascava dal letto<br />

e teneva la mano a Stefano. Il trucco le era colato completamente.<br />

Presi l’uscita.<br />

Il sole era già alto e chiudendomi la porta alle spalle scappai come<br />

una principessa delusa verso la metropolitana e verso una lunghissima<br />

doccia per lavarmi di dosso tutto ciò che non era mio, quello che<br />

non mi apparteneva e che non volevo mi appartenesse.<br />

Sapevo che quello che era accaduto non sarebbe dovuto accadere,<br />

che quelli altro non erano che i vili piaceri della carne e che io non<br />

li bramavo. Giulia viveva per essi e li inseguiva, ma io volevo di più.<br />

Eppure davanti alla possibilità di dire no mi ero buttata anche io a<br />

precipizio nell’oblio dei sensi. Vissi il dilemma di chi sa che si dovrebbe<br />

comportare in un certo modo, ma non riesce a farlo. Desideravo<br />

essere una persona profonda occupata a costruire se stessa ed<br />

invece mi lasciai tentare dalle seduzioni primordiali e animalesche<br />

dei sensi. Insieme odiavo la fisicità ed insieme mi ero lasciata quasi<br />

passivamente dominare dalla stessa.<br />

Che cosa era “giusto”? Giusto, una parola che non mi piace molto.<br />

Giusto deriva dal latino ius: regola. Forse per questo facevo fatica a<br />

comportarmi secondo ciò che era giusto. Perché spesso ciò che è giusto,<br />

lo è solo in quanto riflette una particolare regola comportamentale<br />

proposta dalla società esterna, ma estranea alla natura umana.<br />

Seduta in metropolitana, mentre la gente mi fissava, quasi a leggere<br />

sul mio viso incrostato dal trucco del giorno prima i peccati da me<br />

compiuti, mi venne alla mente una frase di S. Agostino: “Se non rinunci<br />

alle tue catene non potrai mai essere libero”. Già nel medioevo,<br />

molto prima della notte trascorsa con la mia migliore amica e due<br />

163


amanti di fortuna, i grandi pensatori si arrovellavano a scorgere il<br />

perché la parte razionale dell’uomo fosse sempre in lotta con la parte<br />

istintiva guidata dal desiderio. Nella frase di S. Agostino colsi una<br />

profonda verità che si sradicava dal tempo, dalle culture, dalle religioni,<br />

dalle monete usate e dalle lingue adottate e cioè che l’uomo era<br />

certamente incatenato ai suoi istinti, alle bassezze ed alle mediocrità,<br />

ma l’uomo aveva anche una importantissima capacità: liberarsi dei<br />

vincoli materiali e terreni per realizzare la propria persona nell’arte,<br />

nella poesia, nella scienza, nella matematica, nella fisica, nella medicina,<br />

nell’economia e in generale in tutto ciò che presuppone la<br />

valorizzazione del nostro intelletto.<br />

In metropolitana mi scese qualche lacrima sul viso e mi accorsi che<br />

non ero l’unica sfatta dal giorno prima. Un ragazzo sui venti con un<br />

piercing al labbro si appoggiava al vetro dietro di lui. Non stava più<br />

in piedi, non riusciva a tenere gli occhi aperti e a giudicare dall’abbigliamento<br />

e dallo sguardo quello che aveva fatto la notte prima non<br />

era una semplice bevuta. Era un ragazzino piuttosto bello dietro la<br />

pelle slavata ed i vestiti consunti. Lo guardai per un po’, poi lui si accorse.<br />

Distolsi lo sguardo e ricominciai a sognare la doccia che di lì a<br />

poco mi sarei fatta. La metropolitana sfregiava le rotaie e una letargia<br />

insolita m’imbrigliava: stanchezza e sonno richiamavano accidia. Io<br />

desideravo un letargo prolungato e silente.<br />

Giulia forse dormiva ancora nelle braccia disperate del mondo,<br />

mentre io sfrecciavo lontano, con l’aiuto di una metropolitana che<br />

deragliava pensieri incavati e frammentati. Mi allontanavo dalla notte,<br />

dalle stelle sulla Tiburtina, dai “sanpietrini” nel quartiere di S.<br />

Lorenzo e dal naso camuso di Paolo vicino alla mia spalla. Mi distanziavo<br />

dalle distanze tra le persone, e dalle urla dei bambini che<br />

giocavano nel cortile sottostante il settimo piano del palazzo di via<br />

Meda sulla Tiburtina.<br />

Infilai una mano sotto la mia maglietta e mi accorsi che nella fretta<br />

164


mi ero scordata una catenina che portavo nel passante dei pantaloni.<br />

Era un oggetto di bigiotteria senza alcun valore, ma l’avevo comprata<br />

a Rimini quando a 15 anni trascorsi la mia prima vacanza da sola. Era<br />

un ricordo ed io l’avevo perso, probabilmente sotto il letto su cui si<br />

era svolta la commedia, o meglio, la parodia dell’amore. Paolo forse<br />

l’avrebbe ritrovato, ma chissà quando e chissà se l’avrebbe ricollegato<br />

a me. In quella stanza passavano talmente tanti corpi, talmente<br />

tanti vestiti, orecchini, cinture, borsette, che forse si sarebbe limitato<br />

a metterla in un cassetto o forse a gettarla via senza porsi troppe<br />

domande.<br />

Finalmente ero arrivata: Roma Termini. In hotel un getto d’acqua<br />

mi avrebbe pulita dal sudore di corpi diversi dal mio e poi avrei<br />

preso il treno e sarei tornata a casa. Sarei ripartita dalla stazione e<br />

avrei lasciato dietro di me lo sgommare dei motorini della capitale,<br />

le gambe scoperte delle ragazze romane, la piazza di S.Pietro e il risvolto<br />

dei fiori che pendevano vicino dove era seduto il ragazzo con<br />

gli occhiali e l’accento siciliano, che all’albergo mi aveva confermato<br />

la prenotazione.<br />

Tutto questo era accaduto prima di Los Angeles, prima di aver compiuto<br />

30 anni, prima dell’aereo su cui io e Giulia c’imbarcammo a<br />

Milano e prima che gli odori di S. Monica e Venice Beach mischiassero<br />

nelle nostre narici gli aromi di fritto misto dei fast food ai profumi<br />

provenienti dai negozi etnici sulla passeggiata tra l’oceano e la<br />

strada.<br />

Il cielo si apriva sopra una riga di terra californiana, ma a Giulia<br />

e a me succedeva tutto molto prima di tenere in mano una birra e<br />

guardare Jam giocare a basket, accadeva prima che gli occhi tristi di<br />

Giulia, ma forse anche i miei, fossero portati via dal tempo. Accadeva<br />

prima che lei mi sussurrasse:<br />

“Miriam, andiamo a casa? Ho solo bisogno di andare a casa. Ti prego,<br />

dormi con me stasera?”<br />

165


Il mio cuore si crepò un poco, cercai le parole adatte dentro i libri<br />

che avevo letto, cercai la citazione mirata, l’antidoto per la felicità.<br />

Mi tornò alla mente un’idea e cioè che lei fosse “come un giorno di<br />

sole a Febbraio” 4 , ma non glielo dissi. L’abbracciai, appoggiammo la<br />

birra in terra ed andammo a casa.<br />

Dimenticai di salutare Jam.<br />

4 M.Proust<br />

166


XIX<br />

Mia sorella aveva vinto il suo primo concorso letterario. Me lo comunicò<br />

mia madre per telefono e sentii la gioia nelle sue parole.<br />

Marta, ragazza originale dagli occhi ombrosi e dal viso leggermente<br />

allungato, aveva chiare tendenze artistiche. Non amava molto studiare<br />

ed anzi, se poteva evitarlo, si rinchiudeva in camera a suonare la<br />

chitarra con il suo sguardo da bella e maledetta.<br />

Tutti la definivano un po’ strana, molto atipica. Sfuggiva ciò che era<br />

comunemente definito normale per la sua età. Lo scuola la opprimeva.<br />

Era un vero supplizio per lei passare le ore seduta ad un banco<br />

senza poter esaltare la sua immaginazione.<br />

Marta, silenziosa ed introversa, apriva il cuore a poche persone e<br />

poche erano quelle che potevano dire di averle realmente parlato, di<br />

averla guardata dentro. Marta non sapeva rompere il muro emozionale<br />

davanti alla gente. A me capitò di oltrepassare le sue barriere.<br />

Un inverno, quando io avevo già superato i turbamenti in cui si è<br />

affaccendati durante l’adolescenza, mentre lei stava diventando una<br />

ragazzina, partimmo con tutta la famiglia per le vacanze al mare su<br />

un’isola tropicale. I miei genitori le permettevano di stare fuori fino<br />

a mezzanotte, ma noi eravamo in camera insieme e io ero molto più<br />

permissiva, in fondo mia madre e mio padre lo sapevano e lo permettevano<br />

tacitamente.<br />

Una notte, dopo aver danzato in una discoteca dal soffitto color del<br />

167


cielo, ci trascinammo in spiaggia. Era molto tardi, forse le tre, che<br />

per una bimbetta come lei consistevano in una grande trasgressione.<br />

Guardavamo le stelle con altri ragazzi più della sua età che della mia.<br />

In realtà mi sentivo stanca e volevo tornare a casa, ma non potevo<br />

andarmene rubandole i suoi primi momenti di crescita. Marta si avvicinò<br />

a me, sdraiata su un lettino per prendere il sole, e mi disse:<br />

“Miriam, fammi posto”.<br />

Divaricai le gambe e lei appoggiò la sua testa stracolma di capelli sulla<br />

mia coscia. Guardammo le stelle, mentre lei attraverso i suoi stretti<br />

occhi osservava le luci del bar sulla spiaggia spegnersi e le coppie un<br />

po’ ubriache cercare un riparo da occhi indiscreti. Marta studiava<br />

quel nuovo mondo, una delle prime volte, con la testa appoggiata<br />

sulla mia gamba. Nessuno mai può capire cosa si senta a far parte dei<br />

primi sguardi sul mondo di qualcun altro, se non lo prova. È come<br />

una cascata di emozioni calde e fortissime, come poter guardare il<br />

mondo noi stessi per la prima volta, dopo la scia di buio lasciata da<br />

un tramonto, attraverso i fori stellati del cielo.<br />

Marta ed io eravamo lì ferme e immobili, mentre altri ragazzi intorno<br />

a noi, come ombre appena accennate sullo sfondo di un palcoscenico,<br />

si muovevano tremolanti. Alzavamo la testa e guardavamo in alto,<br />

mentre tutti i riflettori, tutte le luci del teatro del mondo si fissavano<br />

sui nostri sguardi. Era un’emozione simile a quando si balla per la<br />

prima volta un lento con un ragazzo ad un ballo di paese. Non si<br />

sa dove mettere le mani, come appoggiare la testa, come muovere i<br />

piedi. Poi ci si appoggia l’un l’altro e la natura e la musica fanno il<br />

resto. Tutto diviene regolare, i passi si coordinano, le labbra s’incontrano,<br />

il cuore scricchiola leggermente e come in un giro di valzer<br />

i frammenti si ricompongono, le distanze si riducono, gli spazi si<br />

assottigliano e lo show della nostra vita prosegue nel vortice delle<br />

esperienze fatte di alti e bassi, maree del cuore, sovrapposizioni dei<br />

nostri io davanti a rossi tramonti che lasciano spazi a notti oscure,<br />

affascinanti e misteriose, ma anche notti che prefigurano nuove albe<br />

168


e… nuovi sogni.<br />

Marta avrebbe ricordato quella vacanza, tappezzata di cotte per ragazzi<br />

di altre città, tutta la vita ed io c’ero stata in quel suo primo<br />

ricordo.<br />

Marta era anche fatta di altre cose, crescendo spesso si blindava in<br />

stanza e tutti si chiedevano che stesse facendo. Sicuramente non<br />

studiava dati i suoi scarsi risultati scolastici. Qualcosa nel “sistema<br />

scuola” non le andava. Forse la costrizione in merito alle tematiche<br />

da affrontare, forse la fatica nel doversi necessariamente integrare<br />

nel gruppo “classe”.<br />

Marta aveva capito fin da subito che non era affatto necessario essere<br />

accettati né condivisi da tutti per sopravvivere o per sentirsi bene.<br />

Così si isolava e scriveva poesie. Esprimeva con le parole il suo dolore.<br />

Il suo era un male che spesso non ha una chiara origine, un male<br />

difficile da identificare e da spiegare. Un male che porta il nome del<br />

silenzio e della solitudine. Il male di chi non riesce a capire il senso<br />

assurdo di questo mondo. Il male dei poeti e degli artisti. Il male dei<br />

diversi.<br />

Marta scriveva e suonava la chitarra. Imparava in poche settimane<br />

i versi di Montale, ma ci metteva mesi per ricordarsi come si era<br />

sviluppato il settore terziario in Italia. Imparava in fretta, ma solo<br />

quello che amava. Rimaneva indifferente a tutto ciò che veniva imposto<br />

dall’alto. Si sentiva libera e triste, ma anche forte grazie alla<br />

sua giovane età.<br />

L’ispirazione le rendeva flessibili le membra. Alcune volte cercavo di<br />

aprire il sipario dei suoi pensieri e leggevo i fogli sulla sua scrivania.<br />

I fogli sulla scrivania di Marta<br />

“Il pallore della luna mi attraversa l’anima, mi costringe qui la sua<br />

169


ellezza, mi costringe a guardarmi dentro adesso. Adesso che a diciassette<br />

anni per la prima volta mi vedo davvero e riesco a scorgere<br />

il dolore che provo, che mi taglia l’anima, che mi fa perdere il senso<br />

della ricerca continua della mia identità per il disperato bisogno di<br />

vedermi tra qualche anno avvolta, incatenata, rassicurata nella mia<br />

ricerca, mentre ora quella stessa mi graffia il cuore.<br />

Perché questa malattia, che mi ha fatto piombare nell’agonia del volersi<br />

male non l’ho mai cercata, mentre il suo veleno violentemente,<br />

ferocemente mi ha colpita.<br />

E mi chiedo ancora perché, perché non riesco a seguire quell’angelo<br />

che vorrebbe portarmi via, per dimenticare finalmente il <strong>domani</strong>, per<br />

rinascere lontano dagli occhi del disordine. E invece mi batte il cuore<br />

per questo continuo vuoto, per la sensazione che la mia anima venga<br />

stritolata dalla realtà. Ma in che gioco sono finita? Mi alzo ogni mattina<br />

eppure mi sembra di essere assente, in questo deserto di angosce<br />

ho solo paura, non so cosa aspettarmi da tutto questo rumore in cui<br />

spicca solo il mio silenzio.<br />

Non ho più voglia di parlare per sentirmi dire che sono sbagliata,<br />

perché nascondo la mia tenerezza e la custodisco come un diamante<br />

raro.<br />

Non mostro i miei sentimenti perché sono l’unica cosa che mi potrebbe<br />

far crollare, rendere fragile, vulnerabile. Non voglio far sentire<br />

il mio pianto disperato a persone che dicono:<br />

“Ci rivedremo quando sarai una donna, quando saprai aprire da sola<br />

le pesanti porte degli inverni che hai dentro”.<br />

Vorrei poter credere di vincere tutto, di sanare la mia ferita profonda,<br />

nonostante mi si spacchi il cuore a metà quando mi rendo conto<br />

di non avere niente, di non sapere né chi sono né dove sia la mia<br />

vita. Trovarla è il mio obiettivo, per penetrare il mio io, per capire<br />

me stessa e sconfiggere la noia che invece vorrebbero impormi. Sarà<br />

una ricerca difficile. Lo so. Ogni giorno mi sentirò morire un po’ di<br />

più per la nostalgia dei posti che non conosco. Ogni giorno tenterò<br />

170


di aprire la tenda buia che oscura il mio sorriso per cancellare l’ansia<br />

ed il tempo che va via, per sentire dentro prendere voce la mia gioia<br />

triste. Quando piangerò vorrò che le lacrime fermino le battaglie che<br />

sono in me. Quando non squillerà il telefono e non riuscirò ad accontentarmi<br />

ricorrerò alla pioggia salata sul mio viso.<br />

Non sono sicura che riuscirò a sopportare la vita, soprattutto se mi<br />

negherà le esperienze in cui voglio affogare, se mi imporrà di spegnere<br />

la luce del mio entusiasmo per la disperazione di qualcun altro.<br />

Vorrei tanto potermi tuffare nelle stelle del mio cuore per capire un<br />

po’ di più quello che sento, per conoscere l’unica persona che non<br />

posso rischiare di perdere: me stessa, anche se a volte mi fa paura lo<br />

sguardo con cui osservo il mondo, mentre cammino per strada cercando<br />

di difendermi dall’allergia dei giorni qualunque. In quei giorni<br />

cerco di volermi un po’ più bene, ma non è facile.<br />

Adesso i ghiacciai dell’esistenza mi paralizzano il cuore, ma vorrei<br />

che il fuoco che è in me riuscisse a scioglierli ora che a diciassette anni<br />

ho ancora la forza di non sparire, di non perdermi da qualche parte<br />

nelle corsie intricate dell’essere, del voler ad ogni costo oltrepassare<br />

i limiti imposti per superare un’umanità che non vuole capire. Non<br />

tutta l’umanità però è uguale. Ci sono sguardi che mi fanno fermare<br />

le parole in gola, mi fanno venire voglia di imparare ad amarla un po’<br />

questa realtà perché qualcosa che vale ci deve essere. Nonostante io<br />

pretenda di avere il diritto di prenderla tra le mani e strapparla la mia<br />

anima, ci deve essere dell’altro. Spesso mi dico che potrei suicidarmi.<br />

Fermarmi. Tanto a chi importerebbe? Forse, però, a qualcuno sì.<br />

Intendo le persone che saldano i debiti con una vita invisibile, ma<br />

che sanno trasformare i debiti in sogni e sanno essere forti e vedere i<br />

miracoli meravigliosi dell’uomo.<br />

Sono fortunata perché in fondo, dentro la mia malinconia, sono<br />

felice.<br />

La luna ancora mi rischiara e forse è proprio lì che dovrei soffermarmi,<br />

dovrei nascondermi nel suo pallore rassicurante anche se mi<br />

171


fa sentire piccola, perché la luna sa essermi amica quando la notte<br />

urlando mi sveglio, sobbalzo sul letto e corro alla finestra per vedere<br />

se c’è ancora, se il sangue scorre ancora nelle mie vene, quasi a farmi<br />

dispetto.<br />

Ora un vento freddissimo mi fa rabbrividire, cerco di combatterlo ed<br />

ho voglia di naufragare per ottenere un po’ di pace e non combattere<br />

contro chi mi dice sempre no. No al mio male, no alla mia diversità,<br />

no al mio desiderio di vedere un po’ più in là.<br />

Non voglio perdermi per la via, non voglio chiudermi nelle mie profondità,<br />

anche se qualcuno mi tratterà male voglio andare avanti liberandomi<br />

dei legacci che stringono, che fermano il sangue. Non<br />

accetto l’idea di vedermi sfumare davanti le domande ed i perché.<br />

Se solo qualcuno rallentasse e si volgesse verso la mia pena invisibile,<br />

se qualcuno si avvicinasse a me e mi aiutasse a uscire dalla confusione,<br />

forse troverei il bagliore in fondo al tunnel.<br />

Come è amaro, invece, rendersi conto di fallire continuamente, di essere<br />

una ribelle solo perché cerco di scrivere il dolore, per far capire<br />

come ho fatto fino ad adesso ad imparare la vita cercando di essere<br />

sempre un po’ più me stessa per abbandonare del tutto una maschera<br />

che non voglio portare.<br />

In realtà sto solo cercando di capire che cosa è vero ed importante a<br />

questo mondo e continuerò nella mia ricerca anche se questo a volte<br />

mi farà considerare una perdente”.<br />

Quando lessi questo mini saggio capii che Marta era davvero mia sorella.<br />

Anche io condividevo il senso della ricerca ed anche io speravo<br />

di trovare una mia strada tra le mille avversità della vita.<br />

Quello che forse mi era mancato nell’attività d’insegnante era che<br />

non ci avevo mai creduto fino in fondo. Non ero adatta a stare dietro<br />

una cattedra e non mi riusciva bene trasmettere la conoscenza alle<br />

giovani menti.<br />

Mi ero trovata a fare un lavoro che non mi soddisfaceva, non mi<br />

172


ealizzava e così lo svolgevo svogliatamente. Il mio modo di fare non<br />

mi portava da nessuna parte perché da un lato facevo qualcosa in cui<br />

non credevo, dall’altro mi sotterravo nella convinzione che lo stipendio<br />

sicuro avrebbe reso la mia vita migliore. Nutrivo rispetto per gli<br />

insegnanti, ma io non mi sentivo tale.<br />

Scelsi di fare l’insegnante per compiacere la mia famiglia, perché<br />

loro mi avevano fatto studiare ed avevano fatto tanti sacrifici nella<br />

speranza che io mi sistemassi, ma le cose erano andate diversamente.<br />

Ero spesso nervosa e piangevo convulsamente prima di addormentarmi.<br />

Però avevo uno stipendio a fine mese. Non rischiavo nulla,<br />

ma non mettevo niente di mio, non era il mio lavoro. Semplicemente<br />

correggevo i compiti il pomeriggio e la mattina svolgevo qualche interrogazione,<br />

ma senza il cuore, senza la voglia.<br />

Ogni giorno rivivevo la stessa vita uguale a quella del giorno prima e<br />

del giorno antecedente ancora. Non sentivo dentro quel lavoro.<br />

Sognavo una vita diversa, che fosse venuta da me da una mia personale<br />

scelta. Cercavo il coraggio di vivermi la vita che sognavo, ma<br />

non ci riuscivo. Rimandai sempre, fino a quando non partii per L.A.<br />

In realtà la mia fu solo una transizione, non un traguardo né una<br />

meta raggiunta. Atterrare a L.A. era, come scriveva mia sorella, un<br />

cercare di capire, snodata da ciò che già avevo assaggiato, da ciò che<br />

mi era stato proposto e che in un certo modo avevo subito. Ma non<br />

si può subire per sempre.<br />

Quando vidi le luci di L.A. sentii che la mia volontà poteva realizzarsi.<br />

In un certo modo mi sentii più libera rispetto alle stanze dei<br />

palazzi della mia città, del mio Paese e forse era semplicemente questo<br />

il senso del mio viaggio. Una piccola libertà sganciata dal vero<br />

e dal falso predefinito verso un vero ed un falso più soggettivo, più<br />

proprio.<br />

In tutto questo però Marta aveva vinto un concorso letterario, mentre<br />

io ero lontana, ma Marta era con me con i suoi buchi nei calzoni e<br />

la musica di Kurt Cobain che risuonava nella stanza. Gli occhi come<br />

173


fessure nere nel viso di mia sorella mi guardavano attraverso l’oceano<br />

e mi giudicavano per le mie scelte, ma soprattutto mi tenevano<br />

compagnia e mi davano affetto. Un affetto che attraversava ogni tipo<br />

di distanza e che mi faceva sentire parte di qualcosa di importante.<br />

La penna di Marta scriveva sul mio cuore il disagio, padre dell’arte.<br />

Ed io pensavo che vincere il concorso letterario rappresentasse una<br />

tappa importante nella sua vita, una tappa che forse l’avrebbe resa<br />

meno dura e più sicura di sé. Una tappa che le avrebbe dato coraggio<br />

e che le avrebbe permesso di credere in qualcosa, quel qualcosa che<br />

a me era mancato. Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente<br />

sentii che io non ero vicino fisicamente a Marta per congratularmi<br />

con lei, per sorriderle o per aprire le imposte la mattina e svegliarla<br />

per andare a scuola. Ero lontana. Anzi ero molto lontana. Forse ero<br />

troppo lontana per farle sapere che ero orgogliosa di lei, per dirle che<br />

aveva scritto la sua anima per vincere il concorso, ma aveva scritto<br />

inconsapevolmente anche la mia, che l’amavo perché era mia sorella<br />

ed era come me.<br />

Volevo dirle di continuare a scrivere perché aveva del talento, perché<br />

aveva stile, ma soprattutto perché sapevo che lei ci credeva davvero<br />

in questa cosa. Avrei voluto fare questo e forse l’avrei fatto se non<br />

fossi stata tanto lontana dalla mia casa, dalla mia famiglia, dalla mia<br />

Terra. Forse sarei irrotta in salotto, mentre Marta si annoiava davanti<br />

al televisore, e avrei abbassato dapprima le palpebre e le ciglia rigonfie<br />

di rimmel e poi avrei sgranato gli occhi e ci saremmo studiate, come<br />

due animali della stessa razza che ancora non sanno se sono complici<br />

o nemici. Poi avremmo scoperto di appartenere allo stesso branco e<br />

avremmo iniziato a lavorare insieme. Se fossi stata in Italia le cose sarebbero<br />

andate così, ma ero in California e Jam mi stava aspettando,<br />

Giulia attraversava le sue crisi ed io dovevo finire di fare le consegne a<br />

Downtown per il bar. Marta, così, non seppe mai quanto, ma quanto<br />

io fui orgogliosa di lei, del suo grido e del suo piccolo passo che rendeva<br />

ai miei occhi questo mondo un pochino migliore.<br />

174


XX<br />

Io e Jam c’incontravamo spesso davanti ai dormitori dell’Università<br />

e lui tentava di saccheggiare i miei ricordi. Ogni volta inventava un<br />

nuovo modo per estrarre cascate di memoria dalla mia mente. Mi<br />

portava dove la schiuma di S. Monica si annebbia sugli scogli e con<br />

le dita nodose tesseva l’anello di luce che si addormentava nell’oceano.<br />

Poi cercava di imbrattare con i suoi modi le mie braccia nude.<br />

Si avvicinava e si allontanava. Mi segnava il corpo con morsi decisi a<br />

lasciarmi addosso il suo passaggio.<br />

In quei giorni non avevo idea di quale fosse il mondo da cui veniva.<br />

Mi occupavo del suo modo di accavallare le gambe, della forma degli<br />

occhiali da sole che gli inforcavano il viso. Non vedevo nulla oltre la<br />

camicia a righe che esaltava la carnagione scura.<br />

Mi disinteressavo completamente dei suoi sordidi labirinti, quando<br />

con aria contemplativa lo inseguivo sulle spiagge californiane perdendo<br />

pezzi di vestiti che rimanevano tra la polvere e la sabbia come<br />

perle prodotte da madre natura.<br />

C’era un senso di unicità nei nostri incontri, quasi come se i templi<br />

delle produzioni in serie non ci potessero sciupare un solo momento,<br />

quasi come se la società cui appartenevamo in realtà si scindesse da<br />

noi nell’istante in cui ci guardavamo negli occhi alle sei del mattino<br />

mangiando un panino da Mel’s sul Sunset.<br />

175


Da quando Jam era entrato nella mia vita non avevo più smesso di<br />

saltargli tra le braccia ogni volta che lo vedevo. Addirittura da Mel’s<br />

alle sei del mattino cercavo il suo piede sotto il tavolino e se non lo<br />

trovavo provavo la stessa sensazione di una lettera che si aspetta che<br />

arrivi, ma non lo fa. La stessa delusione. Eravamo diventati anche<br />

amici. Fumavamo insieme, bevavamo litri di Martini e poi, parlavamo,<br />

parlavamo, parlavamo per ore.<br />

Jam mi piaceva ed insieme mi faceva paura. Alcune volte alzavo il<br />

muro dell’“indipendenza”, ma lui riusciva sempre ad aprire la mia<br />

scatola segreta.<br />

Il fatto era che mi rendeva felice e che quando pensavo a lui sorridevo.<br />

Mi pareva che tutte le poesie scritte prima dell’avvento dei suoi occhi<br />

fossero mediocri giochi linguistici.<br />

Quando lo guardavo pensavo di non avere mai amato nessuno come<br />

amavo lui: era una piccola bugia che dicevo a me stessa, ma credo<br />

che quella sia la bugia che ci diciamo tutti ogni volta che ci innamoriamo<br />

di nuovo.<br />

Quindi lui era bellissimo. Quando da Mel’s si girava verso la ragazza<br />

delle ordinazioni sgranava gli occhi, sembrava più grande della sua<br />

età e quindi m’ingannava con il suo aspetto da uomo saggio. Faceva<br />

ragionamenti che mi sorprendevano e anche a letto era lui ad<br />

insegnare. Da lui imparavo. Non mi portava fuori a cena e non mi<br />

riempiva di fiori, ma quando stavo con lui era come essere sempre<br />

in estate, la mia stagione preferita. Mi completava lo spirito, riempiva<br />

gli spazi della vita, era fuori dalle banalità dell’ovvio e diventava<br />

ogni giorno di più un’abitudine di cui non riuscivo a stancarmi. Avrei<br />

anche potuto amare qualcun altro, ma non mi sarei mai stancata di<br />

lui. In realtà non mi aveva mai chiesto di essere la sua fidanzata, ma<br />

in fondo che importanza poteva avere una parola? Quanto contava<br />

stringere un accordo quando vivevamo ogni momento in modo semplice<br />

ed emozionalmente diretto?<br />

176


Non ero la sua ragazza, ma lui mi cercava sempre al momento giusto,<br />

condivideva con me il sorgere del sole sempre nei giorni in cui ne<br />

avevo bisogno e mi sentivo la sua donna.<br />

Un venerdì l’avevo incrociato per caso davanti al cinema Fox, quando<br />

mi aveva vista mi aveva baciato la fronte... una piccola cosa, ma<br />

sentivo che gli volevo bene, che ci volevamo bene.<br />

Ci godevamo ogni istante come se fosse un miracolo irripetibile, attraverso<br />

i continenti, le città, le culture ed i linguaggi.<br />

In realtà, invece, Jam ed io eravamo molto diversi l’uno dall’altro.<br />

Lui era cresciuto con l’idea fissa dell’obbedienza, dell’umiltà e della<br />

remissione. Suo padre gli aveva insegnato che ci sarebbe sempre stato<br />

qualcuno pronto ad impartire ordini, che esisteva sempre un capo<br />

da odiare e a cui imputare tutte le ingiustizie della vita.<br />

Io ero stata allevata a pane e libertà. Sentivo di poter fare qualsiasi<br />

cosa, potevo cambiare ciò che non mi andava e potevo vivere la vita<br />

come volevo, anche se prima di L.A. non l’avevo messo in pratica.<br />

Potevo amare chi volevo e prendere il sole a S. Monica a Settembre<br />

perché mi era stato detto che non dovevo temere di farlo.<br />

Nei nostri sguardi estatici Los Angeles si rifletteva in modi del tutto<br />

diversi. Io vivevo una pagina di crescita interiore, lui scopriva la sua<br />

umanità, l’individualità e le sue possibilità.<br />

Forse proprio queste possibilità non mi erano del tutto chiare quando<br />

lasciavo che le sue ginocchia si volgessero verso le mie in autobus.<br />

Forse queste possibilità che lui non conosceva ed aveva diritto di<br />

esplorare io non le vedevo pienamente.<br />

Jam era un uomo cresciuto nella cieca obbedienza, figlio di un padre<br />

bigotto che non avrebbe mai accettato una relazione con un’italiana<br />

cattolica. Jam poteva vivere negli States. Poteva dividere l’insalata<br />

con me, ma il laidume del passato compromette sempre in<br />

177


qualche modo il futuro.<br />

Fu per questo che una sera, quando trovai la porta del suo appartamento<br />

socchiusa, la spinsi con il timore di vedere quello che albergava<br />

i miei incubi e che in fondo ogni amante teme. Per Jam amore e<br />

fedeltà erano due concetti distinti.<br />

Dietro la porta lei sul letto teneva una gamba alzata e volgeva le pagine<br />

di una rivista. Vedendomi si stupì, ma meno di quanto si possa<br />

immaginare.<br />

“Chi sei?”<br />

Indietreggiai di qualche passo al suono dell’accento turco, contraddistinto<br />

da uno strano modo di mangiare la lettera “W”, e alla visione<br />

degli occhi neri che non mi lasciavano speranze mi cedette un<br />

poco la gamba sinistra.<br />

Si spezzava la mia visione onirica e beata. Tutta la lirica del mio amore<br />

sfumava e cadeva a picco in fondo al mare di S. Monica. Non<br />

restava nulla davanti ai jeans attillati di lei.<br />

“Io sono Miriam…”<br />

Attendevo una risposta fatta di spiegazioni, ma non arrivò.<br />

Lei si tirò un po’ su, mi sorrise. “Sei amica di Jam?”<br />

Sì, ero amica di Jam.<br />

Sì, ero stata amica di Jam.<br />

Sì, avevo camminato per la Melrose Ave ed ero entrata a provarmi i<br />

vestiti vintage uscendo ogni tre minuti per chiedere a Jam se calzavano<br />

alla mia anima inquieta.<br />

Sì, ero stata amica di Jam quando mi dimenticavo i libri che tentavo<br />

di tradurre su quello stesso letto su cui ora quegli occhi anneriti si<br />

sgranavano alla mia vista.<br />

“Sì, sono amica di Jam”.<br />

“Devo dirgli che sei stata qui?”<br />

Volevo dapprima strapparle tutti i capelli e impedirle di vivere ancora,<br />

impedirle di essere turca, impedirle di portarmi via il senso<br />

della vita. Volevo contorcerle la faccia, sfigurarla, ucciderla. Volevo<br />

178


portare il tempo indietro a quei cinque minuti in cui avevo deciso<br />

di fare una sorpresa a Jam e cambiare idea. Non volevo sapere che<br />

comunque io per Jam non sarei stata mai adatta, non sarei mai stata<br />

turca, né mussulmana. Il mio Dio ci divideva, ma nella scelta tra il<br />

mio uomo e il mio Dio non avevo dubbi. Il mio Dio era anche la mia<br />

persona, la mia educazione, la mia prospettiva del mondo. La donna<br />

si alzò sul letto. Si sedette.<br />

Quale pena avrei potuto infliggere a colei che non rispettava il mio<br />

intelletto d’amore, a colei che mi rendeva un’isola deserta inabitabile<br />

da essere vivente. Che potevo fare a chi mi rendeva pietra, a chi ignorava<br />

le maree che avevo ammirato negli occhi di Jam? Lei.<br />

L’acqua amara dall’oceano rendeva la lingua salata. Tempeste improvvise<br />

colpivano il mare. I pesci si mangiavano l’un l’altro nella<br />

catena della vita, nella guerra per la sopravvivenza. Non esistevano<br />

più carezze d’alba, né baci accesi di oro giallo e rosso.<br />

C’era al posto di tutto questo lo sporco della realtà, lo squallido degli<br />

esseri umani e dell’incontinenza delle passioni.<br />

Mi ritrassi a proteggere il corpo dal nuovo continente che si apriva a<br />

Jam. La nostra isola era ormai lontana e le spade di luce tra il verdeggiare<br />

delle foglie non sarebbero più state insinuate da noi.<br />

“Digli che Miriam è stata qui… Oppure non dire niente… Oppure<br />

come vuoi. Non fa alcuna differenza”.<br />

Lei schiuse le palpebre. Mi guardò a fondo. Capì. Abbassò lo guardo<br />

e iniziò:<br />

“L’amicizia è molto importante. Gli dirò di te. Che sei stata qui. Che<br />

mi hai vista. Che sei stata qui”.<br />

Ripetè “che sei stata qui” due volte quasi a rimarcare che io lì ci ero<br />

stata davvero. Che io su quel letto nella casa di un altro avevo scoperto<br />

parti di me che nella mia casa non avevo mai colto.<br />

In quella stanzetta ero stata chi ero davvero, ma forse ero stata anche<br />

un po’ chi mi sarebbe piaciuto essere. Ero stata una Miriam riflessiva<br />

e umile, una Miriam capace di parlare di sé e di lasciare bigliettini<br />

179


verdi con scritto la traduzione di una poesia di Raboni. Ero stata una<br />

Miriam chiara e pulita, ma ero stata anche ripugnante e sudicia. Ero<br />

stata tutto quello che si poteva essere e questo era accaduto grazie<br />

alle finestre opache attraverso cui lo stesso sole di allora ora illuminava<br />

la collana arancione sul collo della turca. Era turca lo sapevo. La<br />

stessa luce che si propagava orizzontalmente sul mio ombelico ora<br />

circondava il braccialetto corallo di lei.<br />

Lei ad un tratto rivestiva tutti i colori, le razze e le religioni del<br />

mondo, lei rappresentava tutti i mondi che io non ero e non sarei<br />

mai stata. Lei era la luce di un mattino che mi risultava inesplorato<br />

ed inesplorabile. Non avrei avuto modo in nessun caso di capire, di<br />

condividere, di appartenere a quello che lei era. A quello che lei e<br />

Jam erano. Alla lingua che parlavano, alle canzoni che canticchiavano<br />

insieme.<br />

Il dolore, la frustrazione, la delusione si sostituirono dapprima alla<br />

rabbia, ma quando me ne andai e dopo essere scesa in strada, mi fermai<br />

ad aspettare l’autobus e rimase solo indifferenza. E quell’indifferenza<br />

era il male più grande che avessi mai provato in tutta la vita.<br />

Quel senso di continuità verso il futuro, quel mio guardare avanti,<br />

quella mia silenziosa accettazione dei fatti altro non era che una<br />

guerra che avevo perso. Altro non era che l’alito della salsedine che<br />

fuggiva via. La salsedine è amara e brucia, ma rende il mare quello<br />

che è. Il mio cuore stava diventando una radura arida e secca, che<br />

non voleva più abbeverarsi. Stavo perdendo non tanto il “se”, ma il<br />

“che cosa”. Stavo perdendo, cioè, la descrizione di me stessa, nell’attesa<br />

di un pullman che mi avrebbe ricondotto a casa in un ventilata<br />

notte di fine estate nel centro di Los Angeles.<br />

180


Fanciulle gravide<br />

Tornata a casa trovai Giulia. Le fossette sulle guance.<br />

“Miriam, sai qual è il mio più grande problema?”<br />

Mi avviluppai al divano e guardai Giulia che si frapponeva tra me e<br />

la classifica musicale su MTV.<br />

“Giulia spostati”. Non volevo raccontare. Non volevo parlare. Volevo<br />

solo ignorare e dimenticare.<br />

Il suo sguardo si sbriciolò davanti al mio. Spensi la televisione e lei<br />

iniziò a sfogliare i suoi sentimenti:<br />

“Il mio momento vuoto è arrivato. Vivo frammentate emozioni, vacui<br />

istanti. Quasi come se fossi null’altro che uno dei miei profili già<br />

vissuti”.<br />

Giulia era ingabbiata come in una rete sottile illuminata da lanterne<br />

giapponesi.<br />

Cominciammo a girare e girare. A muovere i discorsi. A trattenerli e<br />

poi lasciali andare. Ad ogni passo ci allontanavamo e ci rincorrevamo<br />

l’un l’altra. Poi ci avvicinavamo provando a costruire un’individualità<br />

meno mediocre di quella che pensavamo di possedere.<br />

Giulia era un prodotto di se stessa. Si era costruita una forza che non<br />

aveva. Fingeva fermezza, ma mimava solo la rottura del suo personaggio.<br />

Provavamo a stratificare i nostri piani emozionali illudendoci che la<br />

vita corresse in cerchio e che tutto sarebbe tornato. Bastava girare<br />

più forte.<br />

Pensavamo che la California ci avrebbe restituito la forza fisica che<br />

avevamo a vent’anni, quando dormire quattro ore a notte non era<br />

un problema. Pensavamo che ci saremmo di nuovo divertite come<br />

matte, che ci saremmo ancora innamorate ad ogni angolo o, semplicemente,<br />

che avremmo amato ancora.<br />

“Miriam, cosa succede quando scopri quello che stai cercando,<br />

181


quando individui il tuo punto di arrivo? So quello che voglio, ma<br />

non lo trovo. So di volere un’ emozione filtrata alla quotidianità,<br />

un’estetica raffinata oltre gli squilibri rotolanti della carne. Oltre il<br />

corpo la mente. Oltre la violazione delle barriere fisiche cerco i colli<br />

delle speranze da cui si può sentire ancora l’odore del tempo perso e<br />

ritrovato. L’odore del tempo privilegiato dei sogni”.<br />

Giulia come un vulcano emozionale esprimeva liberamente i suoi<br />

reali, banali e quotidiani desideri. Per una volta.<br />

Cercava una luce che irradiasse da un capo all’altro del mondo le<br />

sue pazze e visionarie idee dell’amore. Si aspettava nuovi modi di<br />

comunicare che bandissero per sempre i falsi eroi di cui si era servita<br />

per sopravvivere.<br />

Voleva, volevamo un nuovo quadro da guardare che catturasse la<br />

memoria e permettesse la costruzione di un modello di giovinezza<br />

eterea.<br />

Socchiusi gli occhi, incrociai le braccia sul petto, mi strinsi un po’.<br />

“Giulia, e se questo fosse il momento di abbandonare l’idea del vento<br />

che ti avvolge le gambe come quando salti su una motocicletta<br />

alla volta del mare in primavera? Se fosse il momento di smetterla di<br />

inseguire l’idea di un amore fatto di amore, amori, umori e parole?<br />

E se invece fosse questo il momento del compromesso? Se dopo tanto<br />

girare questa altro non fosse che una strada con una larga scritta a<br />

lato che dice: “benvenuti nel compromesso”.<br />

Se questa altro non fosse che un modo diverso, forse solo più originale<br />

di giungere a patti con la realtà? Forse il senso che cercavamo<br />

era ottenere una panoramica più ampia, più completa, ma da quel<br />

punto stiamo scorgendo null’altro che lo scorrere degli anni? Intendo,<br />

se in fondo l’unica reale certezza a cui possiamo giungere fosse<br />

il folgorante correre del tempo? Allora forse sarebbe l’ora del compromesso.<br />

L’ora in cui ci si sveglia dal limbo delle vocazioni artistiche<br />

dell’amore e si smette di credere che tutte le canzoni siano state scritte<br />

per la nostra storia, che tutte le poesie siano state pensate guar-<br />

182


dando i baci dati e ricevuti, mentre il nostro incarnato arrossiva sotto<br />

le foglie verdi e gialle d’autunno. Sarebbe forse questo il momento<br />

in cui si comincia, si smette di vedere le figure allungate dagli umori<br />

e dalle impressioni per vederli nella loro reale drammaticità fatta di<br />

esatte proporzioni e assenza di stratificazioni e movimento.<br />

Giulia credo esistano tanti tipi di persone, ma esistono almeno tre<br />

categorie di donne: quelle che cercano il principe azzurro, quelle che<br />

si affiancano al compromesso ed accettano quello che offre loro con<br />

serenità ed infine quelle che vivono con il compromesso e raccontano<br />

a se stesse che hanno trovato il principe azzurro.<br />

Le donne della prima categoria spesso a quarant’anni stanno ancora<br />

aspettando e forse aspetteranno tutta la vita. Quelle che accettano<br />

il compromesso sono quelle che stanno “meglio”, nel senso che in<br />

fondo tra le due cose, solitudine e convivenza, preferiscono la compagnia<br />

che riempie di linee colorate la loro tela. Sono donne che la<br />

domenica mattina si svegliano, fanno colazione e anche se hanno un<br />

malumore cresciuto sulla gota destra si potranno sedere a fianco del<br />

loro fidanzato perché lui le accetta esattamente per quello che sono.<br />

Sono donne vestite di pace, sobrietà e valori tradizionali al pari di<br />

una ninfa botticelliana. È una parte di mondo consapevole di aver<br />

rinunciato al vento, al luogo ed al tempo inspiegabile delle malattie<br />

d’amore. Queste non sono la peggiore specie.<br />

Il tipo più triste sono quelle che conducono una vita come quella<br />

delle precedenti, ma insieme si raccontano l’illusione di aver trovato<br />

il principe azzurro. Si guardano allo specchio e sorridono. Si aggiustano<br />

i capelli e sorridono. S’infilano i vestiti e sorridono. Vanno al<br />

lavoro, pranzano con i colleghi, si toccano i fianchi, ruotano la testa,<br />

parlano, scherzano, ridono e sorridono. Sorridono con i bordi delle<br />

labbra tirati. Non è un sorriso a mezza luna, ma somiglia piuttosto<br />

ad una cerniera tirata, una chiusura ermetica dalla quale non esce il<br />

suono della loro anima. Sono donne che fingono che il loro amore le<br />

migliori. Si raccontano una favola che non esiste”.<br />

183


Giulia cercava un rifugio accessibile alla vertigine delle mie parole:<br />

“E gli uomini? Magari hai qualche teoria anche su loro”.<br />

La geometria dell’universo maschile era diversa, forse più semplice:<br />

“Gli uomini dicono quello che pensano, fanno quello che sentono.<br />

Un uomo che non ti chiama per sei mesi è un uomo che in quei sei<br />

mesi non ti ha pensata o l’ha fatto pochissimo e quando finalmente<br />

ha preso il telefono probabilmente è perché gli sei venuta in mente<br />

mezz’ora prima. È tutto semplice. Ma gli uomini sono diversi anche<br />

per altre ragioni: si abituano molto presto alla solitudine che segue<br />

la voglia di sesso”.<br />

Giulia prese lo smalto per le unghie e smise di ascoltarmi, credeva<br />

nelle verità romantiche contro ogni realtà effettiva, contro ogni fatto<br />

evidente. Ripudiava le subdole forme di felicità fasulla e preferiva,<br />

preferivamo appenderci ai fili di feste solitarie. Ci mettevamo in cerchio<br />

e roteavamo, roteavamo contro l’insofferenza, l’indifferenza,<br />

contro i tradimenti. A volte contro l’evidenza. Passavamo di illusione<br />

in illusione costruendo miraggi di luce, confusi raggi di vita. Ad ogni<br />

giro eravamo un po’ più in là, un po’ più in movimento, un po’ più<br />

lontane, un po’ più ferme.<br />

Fanciulle gravide di luoghi inesistenti.<br />

184


XXI<br />

Alcuni giorni dopo Jam mi chiamò. Provò a cercarmi, ma non risposi<br />

ai suoi appelli. Mi sentivo svuotata, svilita, logorata, avvilita e<br />

avvilente mi ero impoverita in una porzione di mondo sconosciuta.<br />

Volevo tornare a galla, lo desideravo molto, ma era come se tutto il<br />

male avesse incrostato la pianta dei miei piedi e m’impedisse di correre<br />

di nuovo sulla spiaggia di Long Beach abbandonando i vestiti<br />

prima del mare.<br />

Ruotavo intorno a me stessa nella speranza di trovare la delusione e<br />

di poterla manovrare a mio vantaggio, ma era come se ogni sensazione<br />

fosse inesistente.<br />

Come un cane randagio vagabondavo ai confini di una vita che<br />

mi aveva privata di Mattia prima e di Jam dopo. L’interezza di cui<br />

credevo aver fatto parte sciaguattava via insieme all’aria salmastra<br />

dell’Oceano Pacifico che stingeva l’oblio dei miei capelli.<br />

Andavo a S. Monica, entravo nei negozi di dischi, m’infilavo le cuffie<br />

e ascoltavo Beck, mentre il tempo passava. Aspettavo un nuovo Dio<br />

a cui confidare ogni segreto. Attendevo una minuziosa e feroce vendetta<br />

contro la causa che avevo perso.<br />

Jam mi aveva gettato nella povertà del cuore ed io lo odiavo. Odio:<br />

passaggio obbligato prima dell’indifferenza.<br />

Le spiagge di Venice Beach erano diventate per me soltanto luoghi<br />

troppo affollati da frequentare. La domenica pomeriggio preferivo<br />

185


chiudermi a casa e arrendermi alla solitudine misantropica dell’uomo<br />

individualista. Preferivo ovviare alle mediocri personalità di cui ci si<br />

nutre a volte, per superare il disgregarsi del corpo e della mente.<br />

La notte fissavo il soffitto. Mi appoggiavo sul fianco sinistro, poi<br />

quello destro, poi a pancia in giù, poi mi alzavo. Aprivo il frigorifero,<br />

bevevo un succo di frutta dietetico, poi mi affogavo in una tazza di<br />

gelato. Contraddizioni. Poi piangevo. Non dormivo e non mangiavo<br />

per lunghe ore. Mi sentivo debole ed ogni giorno per me era come<br />

un piovoso lunedì di Novembre nella pianura padana, quando le<br />

goccioline della nebbia diventano un’abitudine sotto la pelle.<br />

La patologia non si esauriva con Jam ed il suo abbandono. Forse i<br />

primi momenti fu così, però poi la ragione per cui sobbalzavo nel<br />

cuore della notte cambiò. Mi attanagliava l’estrema facilità con cui<br />

ne stavo uscendo. Soffrivo di non soffrire abbastanza, di non essere<br />

capace a drammatizzare quello che era davanti ai miei occhi.<br />

Volevo dimagrire, volevo le occhiaie da alcolizzata e che tutto il corpo<br />

parlasse di quello che era successo ed invece più ci pensavo e più<br />

trovavo ragioni razionali per il mio triste epilogo.<br />

Mi rassicuravo con la scusa che la conciliazione di due mondi opposti<br />

non era possibile, nemmeno nel cuore di quello che molti considerano<br />

il Paese della libertà: l’America. Forse sarebbe comunque<br />

finita prima o poi e magari sarei stata proprio io a prendere quella<br />

decisione. Dietro a queste banali constatazioni l’aria però non era<br />

più leggera ed io faticavo anche a respirare. Dimenticavo in fretta,<br />

voltavo pagina e non m’importava più di nulla. Guardavo i tre quadri<br />

di fotografie che mi ero appesa in salotto: uno conteneva le foto dei<br />

miei genitori da giovani, quando andati al mare insieme si baciavano<br />

sulla spiaggia. Mia madre, vent’anni con un libro in mano, la macchina<br />

fotografica era riuscita a riprendere la quarta dimensione nel suo<br />

sguardo: l’amore che allora provava. Io venivo da lì: da quell’amore,<br />

da quel sogno.<br />

Un altro quadro era la mia vita cosparsa di momenti qua e là impor-<br />

186


tanti: la prima vacanza in Grecia con le amiche, dopo la maturità,<br />

Mattia ed io a Lisbona, Giulia con un bicchierone di birra in mano<br />

in una discoteca a Milano, un tramonto bellissimo rubato ad una via<br />

di Amsterdam qualche inverno precedente.<br />

Mancava un quadro: quello che sarebbe stata o dovuta essere la mia<br />

vita. Quello non c’era. Come per Jam c’era solo una foto bianca,<br />

un quadro bianco. Pensavo però di riempirlo con immagini di me<br />

e Giulia vicino al cinema Fox, oppure sotto la scritta “Hollywood”,<br />

con il sorriso di Jam vicino a casa sua o con noi ritratti in qualche<br />

contesto del Sunset Blvd. Pensavo prima, perché ora non pensavo<br />

più. Pensavo solo al fatto che quel quadro non c’era e che, in fondo,<br />

non sapevo assolutamente chi sarei stata o chi avrebbe fatto parte<br />

della mia vita a venire. Quella parete rimaneva bianca, come una tela<br />

su cui ancora l’artista non trova il soggetto, non coglie le linee e le<br />

prospettive giuste.<br />

Momenti<br />

Ci sono momenti in cui capita qualcosa a cui noi non diamo molto<br />

peso, ma che segnano drammaticamente tutto il nostro essere. Il primo<br />

amore ci tradisce, la migliore amica preferisce andare in vacanza<br />

con un’altra invece che con noi, dobbiamo lavorare tutta l’estate per<br />

rimediare ai debiti formativi in pagella, oppure smettiamo di ascoltare<br />

la musica. Tutti piccoli avvenimenti che al momento non sembrano<br />

importanti, ma ci cambiano. C’induriscono ed accentuano il<br />

nostro lato adulto, responsabile e forte.<br />

La fine dell’amore con Jam la vivevo da persona adulta e razionale.<br />

Avrei voluto soffrire, ma non ne ero capace, quasi che in fondo<br />

sapessi fin dall’inizio che sarebbe finita. O meglio, era come se io<br />

fossi vissuta con la consapevolezza che i fatti bellissimi mimano una<br />

scioccante fine fin dal principio. Non credevo cioè nell’eternità del<br />

momento. Non ci credevo più.<br />

187


Da ragazzina era tutto diverso. La mia pelle giovane si accartocciava<br />

nelle espressioni di delusione quando chiusa in camera mia ascoltavo<br />

Came as you are e mi dilaniavo al pensiero che il compagno di banco<br />

per cui avevo una cotta non mi si filava per nulla, oppure mi si filava,<br />

ma solo quando gli andava.<br />

Affondavo il viso nel cuscino, ascoltavo la musica e mi disperavo. La<br />

mia disperazione incontrollata era sincera, giovane e illusa. Ma ci si<br />

disillude pian piano. Ogni pianto in più è un pianto in meno. Ogni<br />

colpo al cuore in più è uno scudo più resistente che ci si costruisce.<br />

Alcuni potrebbero dire che è un normale percorso. La giusta evoluzione<br />

che attende tutti è quella di accettare che le cose accadano<br />

senza rimanerne sviliti, senza diventare un caso patologico davanti<br />

ad un sentimento infranto.<br />

La mia reazione, quindi, era corretta per innumerevoli ragioni, per il<br />

mio passato e per la mia età.<br />

A trent’anni si suppone tu sappia spiegare perché le cose vadano in<br />

un certo modo e che tu agisca compiendo solo azioni con senso.<br />

A trent’anni non t’importa più di un altro cuore rotto. Forse. Eppure.<br />

Eppure ...Eppure a trent’anni potresti ancora avere voglia di fare la<br />

zingara. Di legarti, ma non troppo. A trent’anni le oasi nel deserto<br />

sono sempre più rare, ma ti capita, qualche volta, di non parlare, di<br />

prendere uno strappo di carta e scrivere. In quei momenti vedi le<br />

voci e senti i silenzi del mondo.<br />

Qualche volta a trent’anni ti va ancora di andare lontano, ma anche<br />

tornare per annusare la torta di mele che solo tua madre sa fare e ti<br />

ritrovi a pensare nel parco di fronte casa tua.<br />

Qualche volta ti capita di nuovo di giocare con la vita illudendoti di<br />

avere tutto il tempo del mondo, poi invece ascolti il vento che passa.<br />

E senti che la vita passa in fretta, ma c’è ancora un <strong>domani</strong>. Il vento<br />

continua a soffiare e tu gli chiedi incuriosita cosa ti riserva per il fu-<br />

188


turo. A me aveva sempre rifiutato di rispondere. Il vento diceva che<br />

gli piaceva vedere il mio volto sorpreso.<br />

Segni che la luce esiste ancora.<br />

Basta crederci.<br />

189


SECONDA PARTE


I<br />

Oggi sono passata al Bonway in fondo a Venice Beach per comprarmi<br />

l’ultimo cd dei Coldplay. Voglio ascoltare “Speed of Sound”, voglio<br />

farlo mangiando l’ultima pesca dell’estate a Settembre. Voglio<br />

assaporare il sapore di quello che se ne va e che non potrò sentire<br />

per un po’. Voglio il sapore della pesca. Il sapore dell’estate. Voglio<br />

ricordare la fragilità del mio amore e della notte appena trascorsa.<br />

L’ultima notte dell’estate, l’ultima notte di un amore tra due sconosciuti<br />

come tanti.<br />

Jam ed io. Cosa vuoi sapere di me? Cosa vuoi scoprire di me? Sembrava<br />

domandare da dentro la sua polo rosa. Cosa non ti quadra?<br />

Cosa non va in me? Dove finisce la finzione del nostro amore ed inizia<br />

l’intelligenza di noi e di questo racconto? A che punto smettiamo<br />

di guardarci fissi negli occhi nello specchio di una squallida toilette<br />

sul Sunset dopo una sbornia? Quando smettiamo di dire che <strong>domani</strong><br />

cambieremo vita, che la prossima stagione saremo persone migliori,<br />

che abbandoneremo la superficialità, la fisicità, la materialità<br />

per guardare il mondo in modo più spirituale, più sereno? Quando<br />

smetteremo di introdurre ogni genere di schifezza nel nostro corpo<br />

per sopportare la vita? Quando? Quando?<br />

Quando smetterò di ballare con gente che non ho mai visto prima,<br />

vicino alla parete di un locale affollato di solitudine? Quando smetterà<br />

di farmi paura la tua diversità? Il tuo modo di muovere le mani,<br />

193


il tuo aspetto fisico, la malattia che hai dentro?<br />

Quando smetterò di giocare con il mondo e mi accorgerò della tua<br />

mano che mi cerca sotto il tavolo in pizzeria? Quando ti vedrò per<br />

quello che sei e non tenterò di inventarti come vorrei? Quando vedrò<br />

le curve di noi nella tua porzione di mondo? Quando smetterò di<br />

avere TANTI problemi? Quando smetterò di sognare un’età che non<br />

ho, che nessuno ha mai veramente? L’età senza responsabilità perché<br />

non esiste il “senza responsabilità”. Tutti noi abbiamo sempre da<br />

rispondere a qualcuno: il professore, il capo, il cliente, il consumo,<br />

la pubblicità, la solitudine di un mondo che ride, si ubriaca e morirà<br />

solo… quando sarò capace di scollarmi dal cordone ombelicale della<br />

società che mi chiede di essere chi non sono? Indifferente e superficiale?<br />

Una volta ho visto nella serratura del mondo un papà appoggiato ad<br />

un passeggino e una mamma seduta sulla sabbia che guardavano la<br />

loro bambina dondolare su un’altalena. Non erano belli, non erano<br />

ricchi, si vedeva dalla semplicità dei vestiti che portavano. Fissavano<br />

la bimba. Loro erano completi. Felici di guardare i riccioli biondi<br />

di una vita appena nata. Loro avevano voltato le spalle alle feste in<br />

spiaggia il quattro Luglio, agli sguardi da triglia per concludere un<br />

abbordaggio. Avevano una vita da far crescere, a cui insegnare che<br />

cosa era giusto o sbagliato. Potevano farle capire già nei primi anni di<br />

vita che anche se lei fosse finita nel turbine del mondo non avrebbe<br />

mai dovuto dimenticare come il suo papà e la sua mamma la stavano<br />

guardando dondolare e che l’unico scopo della vita è guardare qualcuno<br />

in quel modo e che l’unico vero senso è la vita, l’autocoscienza<br />

di sé, la pace, il cielo dentro gli occhi di una piccola di 5 anni che<br />

impara ad andare avanti ed indietro su una seggiola instabile, che<br />

impara l’equilibrio del tempo.<br />

Ho visto passare sopra il mare una volta un aeroplano con scritto:<br />

“Carrie io ti amo, vuoi sposarmi? Con amore Ken”. Ho appoggiato<br />

il mio corpo sulla sabbia ruvida e ho immaginato una Carrie tra mille<br />

194


che gridava “sì”, che gridava al mondo la fine della sua incompletezza<br />

e l’inizio del suo senso. E ho pensato: “If you were here.. under my<br />

skin”. Se solo tu fossi qui… sotto la mia pelle. Jam.<br />

Ho immaginato una pianta grassa di quelle che crescono nel deserto.<br />

L’ho immaginata piena di spine per difendersi tra le dune buie. L’ho<br />

immaginata in solitudine a lottare contro il caldo e il secco calore<br />

dell’Africa. E poi ho immaginato anche un’altra cosa: un fiore giallo<br />

che si fa largo tra le sue spine. Un fiore soltanto che si fa spazio tra<br />

il clima inclemente e le spine rovinose. Un fiore timido che con coraggio<br />

spunta e regala a chiunque lo veda un punto di prati erbosi a<br />

Maggio. E ho immaginato che è uno soltanto, ma che c’è.<br />

Chissà se anche Jam era uno di quelli che sentono dentro quel fiore.<br />

E mentre camminavo ancora lungo Venice Beach una ragazza con<br />

una chitarra cantava un suono melodico e il ritornello faceva così:<br />

“Ma si lasciamo stare dai<br />

lasciami stare dai che tanto<br />

quel qualche cosa lì in fondo<br />

non è poi così interessante<br />

e non era nemmeno così importante”.<br />

La musica scivolava da una strofa ad un’altra e si sentiva che quella<br />

canzone era dentro di lei, nel suo profondo, in fondo alla sua anima.<br />

Ancora cantava:<br />

“Un amore finisce un altro ne inizia<br />

un viaggio che termina è solo un viaggio che inizia<br />

una copia un ricordo una corsa una storia<br />

rincorsa accesa e poi spenta<br />

t’invidio lo sai per il modo di fare che hai”.<br />

Mi voltai verso le case vicino al mare, una ragazza bionda era in cima<br />

195


ad una rampa di scale. Il viso frantumato dal pianto. Si chiuse una<br />

porta alle spalle. Sapeva che avrebbe potuto fingere che tutto sarebbe<br />

stato come prima, che niente in fondo prima e dopo aver chiuso<br />

quella porta sarebbe cambiato. Sarebbe stata di nuovo felice. Sarebbe<br />

stata di nuovo lei. No. Non era vero. Niente sarebbe stato come<br />

prima. Chiuse la porta. Appoggiò la testa contro il muro. Piegò le<br />

ginocchia e iniziò a piangere. E sapeva che non avrebbe smesso mai<br />

più.<br />

La canzone continuava:<br />

“Lasciami andare dai che ho ancora tanta strada davanti<br />

ci sono mete importanti<br />

lasciami andare dai non perdiamo più tempo<br />

passato è il momento<br />

se ti guardo lo sai cosa vedo<br />

un uomo importante un dolore che passa<br />

e poi torna sempre a due passi da me<br />

e mi urla che<br />

la tua storia e la mia sono già scivolate via.<br />

A due passi da te che cosa c’è”.<br />

La ragazza scese le scale. Eravamo a pochi metri. La potevo guardare<br />

bene. Era una giovane dai tratti vagamente nipponici. Arrivava al<br />

massimo a venticinque anni: l’età della vita in cui ancora primeggiano<br />

le insicurezze. Due treccine bionde le scivolavano sulla parte<br />

sopra del bikini. Si fermò ad ascoltare la canzone:<br />

“Ma no. Vieni ancora qui dai.<br />

Non ti lascio più andare via.<br />

E rimani ancora qui. Ancora una volta soltanto...<br />

Perché non è vero che… a te non piace quanto piace a me...<br />

Non è vero che… è stato tutto inutile tra me e te”.<br />

196


II<br />

I jeans di Giulia le tiravano la pelle sui fianchi, mentre ordinava il<br />

terzo Mango Mojto. I pezzi di ghiaccio e succo fruttato erano leggeri<br />

come l’acqua, ma gli effetti bruciavano lo stomaco.<br />

Fabio, il ragazzo napoletano che lavorava al ristorante “Nuovo Portofino”<br />

picchiava le mani sul tamburo al centro della sala camuffando<br />

l’atmosfera italo-americana con un sound tribale-africano.<br />

Giulia alzò il bicchiere davanti a me:<br />

“Perché non brindi? Non sai che porta sfortuna non guardare negli<br />

occhi chi hai in fronte, ma soprattutto porta sfortuna non bere!!!”<br />

“Giuly, sai che non mi interessa molto”. Spostai il bicchiere sulla<br />

tovaglia quadrettata.<br />

I vini ed i prosciutti appesi al soffitto oscuravano l’aria, mentre la<br />

vetrata estiva offriva un’incantevole visione dell’oceano.<br />

I camerieri che lavoravano al “Nuovo Portofino” erano tutti ragazzi<br />

tra i 18 ed i 30 anni. Avevano origini italiane, ma anche sud americane:<br />

alcuni erano argentini, venezuelani, altri brasiliani.<br />

Il “Nuovo Portofino” era uno di quei posti che ti sanno adottare<br />

in fretta, uno di quei posti dove ci si sente sempre a casa qualsiasi<br />

sia la propria provenienza. Soprattutto donne sole affollavano il<br />

bancone alla ricerca di un cocktail molto strong, ma anche di uno<br />

sguardo profondo che le avvolgesse. Quello sguardo apparteneva ai<br />

ragazzi che avevano attraversato continenti ed oceani per approda-<br />

197


e nell’America dei sogni illusori. I camerieri che servivano ai tavoli<br />

spesso avevano passato anche 15 anni, magari i 15 anni migliori della<br />

loro vita, con un tovagliolo appoggiato sul braccio per pagare l’ affitto<br />

a fine mese di un minuscolo appartamento o per mandare soldi<br />

alla madre o la sorella che vivevano nel terzo mondo.<br />

Due donne sui trent’anni puntavano Luca e Pablo, o forse Vincenzo<br />

o Ignazio. Saltellavano l’attenzione in giro. Le due bionde vestite da<br />

cheerleaders incarnavano pienamente una società stravolta nei valori<br />

e nei principi. Una società dai ruoli invertiti e confusi e dagli effetti<br />

disorientanti. Le due fissavano la preda, la sceglievano. Stavano cacciando.<br />

Donne cresciute con la convinzione che la parità sessuale<br />

implichi totale omogeneità, cancellazione dei ruoli. Erano non reali<br />

donne, ma esseri asessuati: donne-uomini. Donne che telefonavano a<br />

uomini. Donne che puntavano l’obiettivo maschile e se lo prendevano.<br />

Donne dimentiche della sensualità, ma piuttosto attente alla caccia.<br />

Donne eternamente in tensione. Eternamente infelici. Nel mondo<br />

capovolto le ragazze si spalleggiavano nella conquista, facevano<br />

commenti volgari e accorciavano la gonna per provocare reazioni.<br />

Non ho mai creduto che essere confinata in casa a servire un uomo mi<br />

avrebbe reso felice, ma nemmeno ho mai pensato alla cancellazione<br />

della complementarietà tra gli esseri. La diversità, anche tra l’uomo<br />

e la donna, va sempre mantenuta. La diversità ci rende interessanti,<br />

utili e complementari perché cerchiamo sempre qualcuno che faccia<br />

qualcosa che noi non sappiamo fare. Se sapessimo fare tutto, se potessimo<br />

fare tutto che senso avrebbe trovare compagnia?<br />

Ognuno di noi nasce per realizzare un obiettivo. Quello che conta è<br />

il percorso, ma se lo sappiamo percorrere in ogni parte da soli non<br />

necessitiamo di nulla. Così le donne non insegneranno agli uomini<br />

ad annusare i fiori, a guardare i frutti che si staccano dalle piante. Gli<br />

uomini non saranno professori di razionalità nella soluzione dei problemi<br />

dell’esistenza. Nel miscuglio delle interpretazioni, in quel sipario<br />

tra un atto e l’altro della vita la complementarietà tra diversi sessi<br />

198


spariva. O forse il destino del mondo era che nessuno si occupasse<br />

più di guardare le formiche che salgono un muro né un colibrì che<br />

si appoggia su una siepe? Di vederne insieme il senso. Di coglierne<br />

insieme la spiegazione e la soluzione.<br />

Forse il triste esito del nuovo mondo erano le due donne al bancone<br />

che in complicità cercavano una notte di sesso senza complicazioni,<br />

senza impegno, senza <strong>domani</strong>.<br />

Mentre trovavo una soluzione al disgregarsi dei rapporti e all’incapacità<br />

delle persone di comunicare realmente mi venne in mente un<br />

locale nella mia città dove il martedì sera si faceva un gioco. Tutti<br />

sedevano al tavolo e sopra ogni tavolo c’era un numero, una biro ed<br />

un blocchetto per scrivere. Le persone si mandavano bigliettini per<br />

comunicare. Nessuno era davvero capace di farlo e lo dimostrava il<br />

fatto che ogni martedì il pub si riempiva e nessun altro posto era così<br />

affollato in città. Il bello era che le persone che ci andavano erano<br />

ragazzi e ragazze normalissimi in cerca di qualcuno con cui parlare,<br />

oppure con cui tacere.<br />

Una volta anche io avevo fatto un gioco, ma fuori da quel posto dove<br />

tutto mi pareva troppo costruito, forzato e carico di alte aspettative.<br />

Proposi ad A. di misurare per quanto tempo saremmo riusciti a non<br />

parlare. Inizialmente la comicità della proposta superò le mie intenzioni,<br />

ma dopo i primi momenti di silenzio cambiò tutto.<br />

Il linguaggio dei nostri occhi, delle mani, del collo e delle labbra non<br />

necessitava di alcun suono. Se volevamo dirci “Ti amerò per sempre.<br />

Non ti dimenticherò mai”. Appoggiavamo una mano sul cuore. Se<br />

era il mondo esterno oggetto delle nostre menti lo fissavamo. Fissavamo<br />

i campanili del Duomo della città e guardavamo le piastrelle del<br />

corso. Non parlammo per alcuni minuti all’inizio. Poi non parlammo<br />

per due ore. Alla fine di quel tempo ci conoscevamo molto più di<br />

prima. Soprattutto verso la fine aveva perso di significato indicare<br />

la realtà che ci circondava, perché nel nostro momento miracoloso<br />

199


avevamo costruito una cattedrale di sensazioni che ci appartenevano<br />

e con cui c’identificavamo pienamente.<br />

La trasparenza del momento ci aveva reso più duttili e più uniti, così<br />

verso la fine non era più necessario indicare o sospirare alcunché.<br />

È strano il fatto che quando si è piccoli si gioca a fare gli adulti e<br />

quando si è adulti si gioca a fare i bambini, forse perché impaurisce<br />

l’indebolimento dei sogni.<br />

Non ricordo di preciso che età avessi, ma certo quello era un gioco<br />

per scoprire e sviluppare la sensibilità dei nostri sensi, quindi congeniale<br />

ai bambini. Eppure sono certa che io ero già adulta allora o<br />

almeno ne ero convinta.<br />

Ciò che più mi colpì della lucidità di quel momento fu che lo condivisi<br />

con uno sconosciuto. Uno con cui non protrassi alcun tipo di<br />

relazione. Avemmo solo quelle due lunghe ore tra Corso Cavour e<br />

la vista della città dalla cima del Castello, A. ed io, eppure lui vide<br />

di me più cose di quante Giulia o mia madre o mia sorella poterono<br />

mai vedere.<br />

Incuriosita dalla comunicazione senza dialogo apparente m’inventai<br />

un altro linguaggio. Un nuovo gioco da fare con A.<br />

Presi parecchi cartoncini gialli. Gialli perché il bianco era troppo<br />

neutro e puro, il rosa ridicolo e il rosso aggressivo.<br />

Infilai i cartoncini in borsa. L’idea era di non parlare con i suoni, ma<br />

usare la parola scritta. La carta e l’inchiostro sarebbero state le mie<br />

armi, i miei unici mezzi.<br />

Quando si scrive una lettera o si manda una e-mail si ha tempo di<br />

riflettere, mentre nelle discussioni i ragionamenti devono essere immediati<br />

e veloci. Volevo abbandonare l’istantaneità in nome di un<br />

ragionamento più lento, in nome di una lettura del mondo più accurata.<br />

Nella velocità c’è qualcosa di buono e qualcosa no. Come in<br />

tutte le cose. In un tempo stretto si rischia di dire ciò che si pensa, ma<br />

solo in un dato momento, che potrebbe risultare fuggevole. Capita di<br />

offendere, di mentire oppure di esaltare un’emozione, nel bene e nel<br />

200


male. In ogni caso si giunge a conseguenze pericolose.<br />

Tratta da questi pensieri presi i cartoncini e feci un esperimento:<br />

scrivere invece che parlare, osservare ed ascoltare attentamente le<br />

reazioni del mio interlocutore. I risultati che raggiunsi furono sorprendenti.<br />

Quando scrivevo ero una persona decisamente interessante.<br />

La penna mi permetteva di uscire dalla banale routine. Potevo<br />

abbandonare la realtà ed esaltare l’esteticità di ciò che mi circondava.<br />

Pensavo agli aggettivi, ai sinonimi più opportuni e diventavo<br />

“piena”… ma ahimè irreale. Quasi la realtà costituiva un vincolo<br />

insormontabile che castrava la mia vera personalità. Essa emergeva<br />

solamente fuori dal rumore e dalla velocità, ma era quella reale? Acquistavo<br />

consapevolezza del mio io se svalutavo la sensibilità della<br />

carne per dedicarmi ad aforismi e metafore. La scoperta di me si aprì<br />

allora tra foglietti di carta gialla in cui parlavo di me e dei miei libri<br />

abbandonati sul letto per vedere la nascita di stagioni sempre nuove.<br />

A. arrossava il viso: interlocutore stupito di me, ma prima ancora<br />

delle sue stesse reazioni. Della nuova prospettiva di se stesso…<br />

Il cellulare vibrò sul tavolo quadrettato del “Nuovo Portofino”. Presi<br />

il telefono. Mi si seccò la gola quando aprendo il testo lessi che<br />

proveniva da Jam. Era breve e diceva: “Troverò nuove situazioni,<br />

nuovi odori, nuove persone. Ieri, però, ho guardato sorgere il sole.<br />

Ti ho pensata. Le mie mani sulla tua faccia”.<br />

Scorsi in alcuni secondi i fotogrammi della scultura del mondo in cui<br />

avevo girato il mio film. Intravidi la bellissima pagina di vita scritta<br />

con Jam alla nascita della luce sul Long Beach Blvd tra fast food a<br />

basso costo e essenza di sapori antichi. Misi a fuoco l’acqua scura<br />

dell’oceano, il suono dei gabbiani e di musiche flautate che incorniciavano<br />

il viso di Jam nell’accendersi una sigaretta. Io e lui seduti ai<br />

bordi opposti di una panchina. Il sole coperto dalle nuvole, l’odore<br />

estraneo del tabacco in un sentiero deserto. Bandiere di pubblicità<br />

201


che svolazzavano messaggi d’impatto. Turisti in coda per prendere<br />

la nave che li avrebbe portati a trascorrere una piacevole giornata a<br />

Catalina Island. Ragazze giapponesi con l’ombrellino per il timore<br />

di vedere la loro pelle annerirsi ed invecchiare prima del tempo: la<br />

paura del tempo fa strani scherzi, rende fragili più di quanto siamo,<br />

rende anche ridicoli. Dietro le nostre spalle il Chili’s e ancora<br />

più in là palazzi altissimi. Oltre le palme, oltre il grigio del cielo californiano<br />

mattutino uomini anziani con il bastone, una signora in<br />

carrozzella, un ragazzino vestito di giallo in bicicletta, la mia felpa<br />

americana, un muffin sbocconcellato tra le mani e poi il viso di Jam:<br />

la sua maglia a righe rosa e rosse, il bracciale d’argento che gli avevo<br />

regalato, la schiuma bianca sulla superficie del mare e un sole illusorio<br />

che infastidiva un uomo sugli scalini di una barca. Long Beach. Il<br />

rumore delle ruote di un passeggino vicino al “Pier”, un quarantenne<br />

in maglia azzurra e pantaloncini impegnato a far calare la pancia<br />

e i chilogrammi di troppo accumulati da Mc Donald’s o da Denny’s.<br />

Jam guardava avanti. Fissava le rocce a picco sull’acqua. Su una di<br />

esse un micio nero e bianco si leccava le zampine, si stirava, chiudeva<br />

gli occhi e li sbarrava al passare di un insetto. Il gattino si godeva la<br />

superficie ruvida degli scogli dopo la caccia. Quando si accorse di<br />

noi si nascose nell’ombra buia dello spazio sabbioso tra la strada e<br />

l’acqua. Mi dispiacque perderlo di vista e non potermi prendere cura<br />

della sua solitudine, non potergli dare nulla alleggerendo, almeno<br />

per un giorno, la sua tensione verso la vita, la sopravvivenza. Doveva<br />

badare da solo a se stesso: come ognuno di noi.<br />

Dovevo rispondere all’sms di Jam? Guardai Giulia con il gomito appoggiato<br />

sul tavolo, gli occhi semichiusi e il viso pallido che trasudava<br />

stanchezza mista a rassegnazione. Per riflettere su quale potesse<br />

essere la reazione migliore al richiamo di Jam mi allontanai dal tavolo<br />

e uscii all’aria aperta. Giulia non se ne accorse quasi: troppo impegnata<br />

con i suoi dilemmi esistenziali ed essenziali.<br />

202


Fuori dal ristorante c’era un po’ di vento e odore d’erba. Mi ricordava<br />

l’odore delle aiuole di Pasadena. Pasadena con i suoi quartieri ricchi<br />

costellati di case dai mattoni rosa e gialli, rinchiuse dietro cancelli<br />

in ferro battuto con le più originali fantasie d’intarsio, che nascondevano<br />

paradisi terrestri incorniciati da siepi perfette in fondo alle<br />

stradine in salita che conducevano alle porte d’entrata. I tetti delle<br />

case a Pasadena affiancavano i rami degli alberi che ombreggiavano<br />

la strada su cui le grandi macchine parcheggiate dietro i cancelli del<br />

California Blvd o dell’Arden Road inforcavano l’asfalto la mattina. La<br />

quiete di Pasadena risuonava soltanto dello sventolare delle bandiere<br />

americane issate ovunque. Il silenzio di Pasadena era il silenzio che<br />

contraddistingueva le domeniche a Los Angeles: silenzio a Beverly<br />

Hills, silenzio a Long Beach, a Downtown nel quartiere giapponese<br />

prima delle dieci del mattino, quando i rami del sole cascavano sulle<br />

vetrine spente dei negozi ancora chiusi.<br />

Che cosa potevo rispondere a Jam? Forse lo dovevo chiamare e ricostruire<br />

il ponte che si era spezzato.<br />

Un ragazzo con una birra in mano sedeva vicino ad un tavolino<br />

nell’area esterna del ristorante. Mi guardò. Aveva gli occhi lucidi.<br />

Non mi avvicinai. Non parlammo e così non mi poté dire che quella<br />

sera aveva tanta voglia di piangere, perché il suo medico gli aveva<br />

diagnosticato un cancro alla tiroide dandogli ben poco da vivere.<br />

Non mi sedetti accanto a lui per ascoltare la sua mancanza: la mancanza<br />

di un futuro da scrivere, da sognare, da vivere. Voltai le spalle<br />

in direzione di voci ed emozioni lontane. Sarebbe bastato dire:<br />

“Come ti senti?” Non lo feci.<br />

Il messaggio di Jam rimbombava di solitudine e vuoti immensi. Scrissi<br />

di getto:<br />

“E se fosse semplicemente che l’uomo non può sopportare di essere<br />

203


felice tutta la vita? E se fosse che il mio colmarti i sensi ti ha fatto<br />

paura, insieme alla paura di vivere la vita e alla paura di una realtà<br />

rivelata deludente rispetto alle aspettative che ci si crea? Se fosse<br />

così io mi logorerei per accettarlo? Eppure so che c’è un’altra via<br />

per noi”.<br />

Non ebbi alcuna risposta.<br />

Cominciai a stancarmi. Miriam era stanca. Stanca degli eventi. Stanca<br />

della gente che ripete sempre le stesse cose. Stanca di credere ai<br />

“forse”, ai “ma”, ai “se”. Stanca dei baci dati sempre nello stesso<br />

modo. Stanca di credere che in fondo qualche volta può succedere<br />

che le cose vadano diversamente. Stanca perfino dell’amore. I più<br />

illustri poeti inorridirebbero al sentire la scarsa considerazione ormai<br />

di Miriam per l’amore, ma era anche vero che loro non si erano<br />

innamorati tante volte quante si era innamorata lei. Ad ogni candela<br />

che si accendeva faceva seguire un amore unico ed incontrollabile. Il<br />

problema era che questa cosa continuava da anni e le emozioni cominciano<br />

ad affievolirsi. Gli amori vissuti come pietre di quarzo rosa:<br />

erano bellissimi, ma duri, impossibili da scalfire, come il suo cuore.<br />

I “magari ci vediamo una di queste sere”, i “magari ci conosceremo”,<br />

“magari ci piaceremo…” si concludevano troppo spesso con<br />

un “Oppure no. Oppure semplicemente ci rimarrà il bacio… di una<br />

sera”.<br />

Quante volte Miriam avrebbe voluto qualcuno per una sera, ma<br />

quante volte lo avrebbe voluto di più.<br />

Miriam cominciava a sentire il bisogno di un porto, della calma, della<br />

pace.<br />

Basta inseguire sempre qualcosa.<br />

Alle volte per guardare in alto, per sporgersi si rischia di volgere lo<br />

sguardo talmente in alto da inciampare nei sassolini sulla Terra.<br />

204


III<br />

Una settimana più tardi trovai sotto la porta un foglietto leggermente<br />

bruciato volutamente. Riportava la scritta: “You are leaving but…”<br />

tu te ne stai andando, ma…<br />

Non ne decifrai la calligrafia. Il tralucere delle lettere m’induceva a<br />

pensare che Jam fosse venuto la notte precedente accanto alla mia<br />

porta, che avesse appoggiato le mani sulla vernice bianca, avesse<br />

guardato il numero del mio appartamento e avesse deciso di lasciarmi<br />

alcune parole. Cosa significasse quel “ma” finale seguito da puntini<br />

di sospensione non mi era chiaro.<br />

Un “ma” può deformarsi in innumerevoli significati.<br />

“Ma” potevamo stare insieme di più.<br />

“Di più” nel senso di un tempo maggiore, ma anche nel senso di uno<br />

spazio maggiore. Il nostro spazio è come una fitta ragnatela attraverso<br />

cui passa la dinamicità del tempo, intrecciata a volte con il caso,<br />

ma più spesso con il fato.<br />

È come se fossimo tutti dentro un universo la cui costruzione architettonica<br />

già definita c’impedisse di scegliere molte volte. Come se<br />

ogni promessa, incontro, intuizione lirica, anticipazione di entusiasmo<br />

in realtà fosse già ad attenderci, ad aspettare proprio noi in quel<br />

momento. Sentivo come se Jam ed io fossimo esistiti prima di esistere.<br />

Come se tutto si fosse già svolto. Mi ero imbarcata su un volo, ma<br />

la dimensione in cui Jam ed io ci eravamo incontrati era un teatro la<br />

205


cui commedia - o tragedia - era già stata pensata da una mente più<br />

grande e increata. Avevamo incarnato una sceneggiatura già scritta<br />

per noi e il nostro individuarci l’uno nell’altra rendeva visibile ed empirico<br />

ciò che prima era velato da un tempo ancora non realizzato.<br />

La commedia–tragedia svolta sul palcoscenico californiano era già<br />

successa, perché come nelle migliori interpretazioni gli attori si discostano<br />

difficilmente dall’eroe che li ha resi noti al grande pubblico<br />

e quindi si rivivono costantemente le medesime depressioni, si ripercorrono<br />

le stesse strade senza però poter ritrovare il successo della<br />

prima volta. È un po’ come il primo amore: si chiama primo proprio<br />

perché non ce ne sarà mai un secondo. La parola “amore” si sposa<br />

bene con “primo”. La seconda, la terza volta sceglieremo accuratamente<br />

la strada, gli eventi, gli attori, ma mancherà sempre l’inconsapevolezza<br />

della prima volta. La prima volta è come inciampare in<br />

un sogno. Poi ci diciamo, crescendo, che potrebbe ancora accadere<br />

e che forse potrebbe succedere proprio a noi, ma le speranze si affievoliscono<br />

con il passare del tempo e cominciamo a fare pensieri<br />

diversi. Non conta più davanti al tempo l’emozione di scrivere una<br />

bellissima pagina di vita, ma piuttosto contano i programmi per il<br />

nostro avvenire, conta fare calcoli su dove andremo, o meglio dove<br />

andiamo perché quello che prima era futuro si è trasformato nel presente<br />

prossimo. Il <strong>domani</strong> che sembrava una favola meravigliosa da<br />

vivere si trasforma in un presente da sindrome di burn-out.<br />

Da ragazzina mi scrivevo biglietti sotto il banco di scuola con gli<br />

amici e una volta uno di loro mi scrisse: “ti voglio un casino di bene,<br />

ma tantissimo! Per sempre!” Era strano perché io proprio non me<br />

lo aspettavo ed avrei voluto spegnere la luce allora. Non avrei voluto<br />

perdere quell’attimo mai, l’attimo in cui una frase senza fronzoli letterari,<br />

senza calcoli morali mi raggiungeva il cuore e mi faceva apparire<br />

tutto stupendo. Credevo davvero che il “per sempre” esistesse.<br />

Perché la vita minaccia spesso di portare via quei “Ti voglio bene”,<br />

quei “Su di me potrai contare per sempre”? Perché molte passioni ci<br />

206


vengono portate via senza appello? E soprattutto, perché spesso solo<br />

dopo ci tornano in mente quei momenti? Invece ne amplificheremmo<br />

il senso se riuscissimo a vederli mentre accadono. In effetti quello<br />

che il mio compagno di banco mi scrisse mi rovesciò l’anima e sentii<br />

il desiderio di scendere dal treno in corsa della vita perché ero arrivata<br />

ad un’emozione talmente forte che prefiguravo molta difficoltà<br />

nel vedere sobbalzare il mio cuore ancora a quel modo.<br />

Alcune volte sarebbe meglio spegnere un film sul bacio dei due<br />

amanti, prima che il loro universo venga costellato da pupazzi deformati<br />

che propongono false imitazioni di quel bacio. Prima che<br />

tutto il teatro si riempia di marionette senza testa, nascoste dietro<br />

la maschera del “Ti ho voluto bene. È vero, ma ora non te ne voglio<br />

più”. Prima che il tempo stringa e ci si accorga che non si ha più a<br />

disposizione il mercoledì pomeriggio per andare al cinema, per fare<br />

merenda con gli amici, ma tutt’al più si va a vedere un film la sera,<br />

quando tutto diventa più scuro, quasi velato, più breve, più fragile e<br />

purtroppo… più impuro.<br />

207


IV<br />

Los Angeles non mi apparteneva più interamente ed anche io non ero<br />

più cesellata nel suo cuore cosmopolita pulsante. L’inautenticità dei<br />

legami tra la gente m’impauriva e desolava. Dovevo spostarmi da quel<br />

mio arco di vita per spostarmi su una nuova ala di mondo. Questa volta<br />

l’avrei fatto senza Giulia, senza la sua determinazione, senza la sua<br />

voce né la sua compagnia.<br />

Tutto quello che in quei mesi mi era accaduto era fissato nel gioco<br />

della memoria. In un inseguirsi di variazioni e scoperte avevo capito<br />

che tutti noi abbiamo una storia da raccontare e quindi da vivere. Una<br />

storia impregnata di vacanze al mare con i genitori, di compleanni con<br />

gli amici e di fotografie che ingialliscono il tempo. Una storia fatta di<br />

amori adolescenziali che ci fanno prendere treni di nascosto, che ci<br />

fanno attraversare la duttilità dei paesaggi e ci trasudano di speranze.<br />

Nel tentativo di capire qualcosa di più del mondo cerchiamo le risposte<br />

attraverso prima gli altri e poi noi stessi lungo una storia fatta di<br />

strade, di esperienze, amicizie, istanti sentimentali e sorrisi infantili.<br />

Una storia fatta di mestieri e di lavori per mantenersi, fatta spesso di<br />

rinunce e sacrifici. A volte, purtroppo, fatta di ospedali in cui ci dicono<br />

che stiamo male e che ci resta poco tempo, ma a volte fatta di libertà,<br />

di vento in riva al mare, di spazi aperti, di sogni in cui crediamo. E,<br />

naturalmente, di viaggi.<br />

La mia partenza dall’Italia non era stato un incidente casuale. Ciò che<br />

208


mi era accaduto doveva avverarsi ed io assorbire il ritmo incontrollato<br />

degli eventi per impadronirmi di un percorso che non sapevo prima,<br />

che in parte ancora ignoravo. Cominciavo ad interrogarmi sullo strano<br />

differenziarsi eppur ripetersi degli eventi. La causa finale del turbine<br />

vorticoso della vita pareva essere l’interrogarsi continuo, scardinando<br />

di lì a poco le risposte appena accennate. Ciò che accadeva nella vita:<br />

i viaggi, le esperienze, le persone incontrate, le delusioni ricevute s’intrecciavano<br />

in una rete sferica che insieme ricomprendeva ed insieme<br />

superava le differenze, le individualità ed il tempo.<br />

Poco mi soddisfaceva credere che fosse stato il caso a portarmi tra le<br />

dune del Deserto del Mojave ad ascoltare “The sound of silence”con<br />

Jam quando ancora eravamo felici e accostavamo la macchina ogni<br />

poco per fare l’amore dietro un cumulo di sabbia o in fondo ad una<br />

via fantasma. Se avessi pensato che l’opera della vita fosse stata scritta<br />

da un autore assente, in Jam avrei visto soltanto un essere vivente altro<br />

da me con cui avevo dormito, guardato il tramonto, letto una poesia di<br />

Baudelaire ogni tanto.<br />

In realtà il significato del mio percorso alternativo, della mia vita “oltre”,<br />

era stato quello di capire, ma prima ancora d’interrogare il mio<br />

io sulla vita che abbandonavo in Italia, su ciò che quella vita mi dava<br />

o che io davo in essa.<br />

Saltare un fiume lasciando dietro se stessi la luce rassicurante che rischiara<br />

per avventarsi nel buio delle questioni cruciali può risultare<br />

deflagrante.<br />

Dopo quasi un anno lontano da casa e dalla mia famiglia sentivo la<br />

mancanza dei luoghi in cui tutti conoscono il tuo nome, ti hanno vista<br />

crescere e sono pronti a ricordarti il buffo grembiule rosa che portavi<br />

all’asilo, quando t’incontrano anche solo di sfuggita al supermercato.<br />

Seduta sull’autobus sgangherato che mi stava portando a S. Francisco<br />

per poi prendere un volo per Miami rivissi in pochi secondi tutto il<br />

mio prima, il salto ed il poi. Capii che un balzo in avanti si poteva fare<br />

ancora, che quello che contava era la meta, ma soprattutto il percorso,<br />

209


che nel cammino stavano il risultato e l’obiettivo. Che io sognavo, ma<br />

soprattutto agivo.<br />

Mi ero allontanata dal mondo casalingo e familiare e mi ero accorta<br />

che il mio lavoro d’insegnante non mi mancava per nulla, mentre non<br />

mi era passata attraverso gli anni la voglia di scrivere, di dire qualcosa<br />

ed ancor prima di immaginare una storia. Come mia sorella Marta ero<br />

stata creata per indagare la vita della gente e problematizzare la realtà,<br />

per rovesciare il visibile e ricercare l’invisibile. Nella deformazione<br />

della mancanza del mio mondo conosciuto, avevo colto un tempo lontano<br />

dall’oggi e dall’ieri in cui avevo posizionato la vera me. Quella che<br />

voleva esprimere ciò che l’occhio nudo non vede.<br />

Per fare ciò avevo preso un aereo su cui hostess platinate mi chiedevano<br />

dal gonfiore della loro bocca siliconata se volessi bere o mangiare<br />

qualcosa. Per fare ciò avevo dovuto vivere una storia il cui finale profilava<br />

ormai i bordi dell’oceano Pacifico da S. Monica a Venice Beach,<br />

da Marina del Rey alle corse in bicicletta a Malibù, delle sgambettanti<br />

quindicenni americane fino ad arrivare ai miei vani tentativi di imparare<br />

a surfare con Jam nel nostro cosmo labile e privo di equilibrio.<br />

L.A. rimaneva con me, ma dietro di me. Me ne andavo e lei mi abbandonava<br />

e come un triste amante solitario si accendeva l’ultima sigaretta<br />

prima di chiudere il sipario.<br />

Prima però pensai che dovevo andare da Jam. Gli avrei preso la mano.<br />

Ci saremmo seduti sulle sdraio sdrucciolevoli del suo terrazzo. L’avrei<br />

guardato negli occhi. L’avrei ringraziato della vita che mi aveva dato,<br />

della vita che ci eravamo vissuti. Ci saremmo stretti senza parlare. Forse<br />

avremmo fatto l’amore o forse semplicemente ci saremmo sfiorati le<br />

labbra imprigionando quel brivido che solo un addio sa dare.<br />

Forse una lacrima ci avrebbe fatto desiderare di tornare indietro, di ripetere<br />

l’idea iniziale o, forse, soltanto avremmo taciuto il silenzio della<br />

fine di qualcosa, che sarebbe comunque stato per sempre nostro.<br />

Jam, lo conoscevo, avrebbe allargato le labbra accompagnando al<br />

210


nostro oblio “Fix you” dei Coldplay regalandomi altre note, un’altra<br />

emozione mentre trasudavo il vento dell’addio allo sciogliersi dell’età,<br />

del tempo e della bellezza che costudivamo per riparaci dalla caducità<br />

delle tradizioni e della abitualità.<br />

Forse Jam mi avrebbe sollevato da terra, mi avrebbe preso in braccio<br />

desiderando la pelle della mia schiena ancora una volta e poi ancora<br />

una stretta intensa ed interminabile. E poi…<br />

Per me forse un nuovo aereo, un nuovo mondo, un nuovo inizio.<br />

Non sapevo cosa ne sarebbe stato del futuro, in che lenzuola avrei dormito,<br />

sotto quale cielo avrei aperto gli occhi. Non sapevo se la risposta<br />

a me stessa era un nuovo aereo o uno di ritorno.<br />

Ignoravo cosa sarebbe successo nel <strong>domani</strong>, se Jam avesse sfiorato<br />

per sbaglio di notte il mio piede, se Giulia fosse guarita delle nuvole<br />

dell’alcool. Non sapevo se avrei mai realizzato il mio sogno di diventare<br />

scrittrice, se avrei mai scritto qualcosa di vibrante. Non sapevo se<br />

avrei osservato sempre gli occhi e le storie delle persone. Non sapevo<br />

nulla del <strong>domani</strong>. Non sapevo neppure se quel <strong>domani</strong> esistesse. Non<br />

sapevo se ci sarebbero stati altri posti, magari un’altra Miriam, un’altra<br />

età, un’altra vita.<br />

Cosa sarebbe successo <strong>domani</strong>?<br />

Il <strong>domani</strong> si scioglieva davanti a me come un paesaggio intravisto in<br />

una goccia di pioggia all’alba.<br />

Mentre correvo da Jam lessi su un muro un murales gigante che diceva:<br />

“La parte più bella di te rimarrà sempre qui. Con me. Jam”. Mi tornò<br />

in mente il biglietto sbrucciacchiato che avevo deciso di conservare nel<br />

portafoglio. Lo estrassi e lessi: “Tu te ne andrai ma…” “La parte più<br />

bella di te rimarrà sempre qui. Con me. Jam”. Era la medesima grafia,<br />

gli stessi colori. Era la continuazione, la parte mancante di un pensiero<br />

scritto a metà su una carta che veniva via con me e un muro che restava<br />

nei confini della città californiana.<br />

Forse quella scritta in azzurro e verde sarebbe stata cancellata dai pro-<br />

211


prietari dello stabile dopo poco, ma difficile sarebbe stato portarmi via<br />

il sogno in cui avevo creduto.<br />

Nessuno può portarci via i nostri sogni perché, per quanto siano bizzarri,<br />

sono nostri come null’altro. Sono nostri come sono state mie<br />

queste parole in cui ho messo l’ anima per descrivere schizzi di vita che<br />

qua e là mi è capitato di vivere, di attraversare, ma soprattutto di creare.<br />

Sono state spesso malformazioni di un io puntiforme in movimento<br />

ed errante alla continua ricerca di un equilibrio insieme avvolgente ed<br />

avvolto da quello stesso io.<br />

Mi fermai. Decisi di tornare indietro, di non andare da Jam. Non avevamo<br />

più bisogno di altri momenti. Tutto ha un inizio e una fine. Decisi<br />

di restare sull’autobus che mi avrebbe portata a S. Francisco e poi…<br />

chissà. Pensavo a Miami, a un’altra sosta prima dell’Europa. Forse anche<br />

New York. Là c’era Sara, sarei potuta andare da lei.<br />

Salita sul bus sentii il mio ventre parlare, appoggiai la mano sulla pancia<br />

e sentii qualcosa di diverso che avveniva dentro di me. Strinsi il mio<br />

corpo nella muta consapevolezza che forse la crescita del mio seno non<br />

era casuale. Sentii sotto la pelle che c’era in serbo per me un cambio<br />

di stagione. Ebbi paura, ma sentii che un nuovo giorno mi attendeva,<br />

mentre la notte copriva la città alle mie spalle.<br />

Cosa sarebbe accaduto? Le persone si accalcavano sul bus. Le voci si<br />

mescolavano allo strisciare dei bagagli. Una coppia prendeva posto<br />

davanti a me.<br />

“Billie siediti qui”. E poi: “Veronica sto arrivando, lo sai che faccio<br />

sempre tardi”.<br />

Mi sedetti, avvicinai lo zaino al ventre, quasi a proteggere qualcosa,<br />

forse qualcuno.<br />

Appoggiai la fronte al finestrino. Guardai L.A., le sue luci che si perdevano<br />

da Beverly Hills alla nera Downtown. Guardai i suoi dislivelli<br />

e per un attimo tutta la gente che ci era vissuta, che ci viveva e che ci<br />

sarebbe vissuta in futuro. Chi ci era nato a L.A. e chi come me insegui-<br />

212


va sogni, oppure si faceva vincere da un momento di follia. Guardai le<br />

persone disperate e disilluse che vi avevo incontrato. Guardai il sole<br />

caldo di S. Monica, l’oceano e la natura che l’uomo ancora non aveva<br />

distrutto. Guardai chi dai Paesi del terzo mondo si dirigeva verso la<br />

terra delle possibilità e della libertà. Guardai la mia piccola parte di<br />

America, la via dove mi addormentavo, mi svegliavo, facevo colazione,<br />

accendevo lo stereo, la Kelton Ave, ma anche Wilshire BLVD, il Sunset,<br />

S. Monica.<br />

Presi tutto questo e lo chiusi in una palla di vetro. Lanciai ancora<br />

un’occhiata fugace alla fusione del tempo, alla sintesi passato-presente.<br />

Chiusi gli occhi ed aprii le finestre della mente. Entrò una folata<br />

di vento prima gelida, poi caldissima e tutta la fisicità e la materialità<br />

intorno a me sparirono. Sparirono i segnali stradali che mappavano<br />

le strade, sparirono le bussole, l’orientamento, le direzioni, i titoli dei<br />

giornali che raccontavano delle guerre ingiuste, dei corpi a terra senza<br />

vita. Spariva l’uomo con i capelli radi e le unghie lunghe che fermo al<br />

semaforo tra la quinta strada e Colorado Blvd mostrava un cartello<br />

con scritto: “Aiutatemi. Solo aiutatemi vi prego”. Spariva l’uomo di<br />

colore a S. Monica che piegato sulle proprie ginocchia non riusciva<br />

ad alzare la schiena: troppo pesante l’indifferenza del mondo. Spariva<br />

l’odore delle ingiustizie, del male, delle ipocrisie. Spariva tutto dietro<br />

le poche case in legno del countryside a nord della California.<br />

Sparivano le violenze e soprattutto sparivano le cose, gli oggetti. Rimaneva<br />

lassù l’azzurro infinito del cielo senza nuvole. Nulla oltre il blu ed<br />

il celeste ed un unico pensiero: “E <strong>domani</strong>?”Cosa succederà <strong>domani</strong>?<br />

Cercai di dormire e riuscii appena a vedere la vasta infinità della terra<br />

che si perdeva in lontananza avvolta da un senso quasi religioso. Le<br />

auto scorrevano vicino ai grattati pendii. Avrei tanto voluto portare<br />

con me quel luogo. Avrei voluto renderlo piccolo, inscatolarlo e condurlo<br />

con me, per ricordare il silenzio di quella terra color rame e<br />

paglia che univa in un’ onda brulla le città di quella parte degli Stati<br />

Uniti che mi aveva ospitata, che mi aveva adottata come una figlia<br />

213


indisciplinata. Alcuni ripetitori incastrati nella terra bruciata dal sole<br />

dello stato dorato della California accennavano segni di civiltà a lato<br />

dell’enorme strada asfaltata. Superfici gialle e verdi mi circondavano<br />

come pareti di un labirinto entro cui piccole biglie si muovevano. Avevo<br />

cercato per mesi di capire la logica, la direzione, l’anima di questa<br />

terra. Era stato impossibile, tuttavia desideravo racchiudere in me il<br />

silenzio, l’oscurità, ma anche la luce che accompagnava gli spazi tra la<br />

civiltà delle strade e il paesaggio circostante. Il paesaggio ondulato che<br />

non si lasciava civilizzare o corrompere. Un paesaggio in contrasto con<br />

le grandi metropoli prive di superfici ruvide e ghiaiose. Era quella una<br />

terra che si muoveva senza alcun margine di preavviso perché le leggi<br />

sismiche assestavano le lande senza chiedere il permesso agli uomini.<br />

Provai il desiderio di trovare un equilibrio lì in mezzo, ma temevo di<br />

rotolare malamente. Ci fermammo ad una stazione di servizio e vidi un<br />

uomo con una maglietta arcobaleno ed il simbolo della pace stampato<br />

sul davanti, mani in tasca, sguardo fisso, gambe appena divaricate,<br />

occhiali da sole, capello brizzolato e pelle abbronzata. Si appoggiava<br />

ad un’enorme Hummer nera. Aspettava la sua famiglia in sosta. Tornarono<br />

presto, lui sorrise, aprì la portiera a sua moglie e ritrovò in un<br />

attimo la pace che la seppur breve solitudine gli aveva tolto.<br />

Ripartirono in fretta ed io appoggiai la testa al sedile nel tentativo di<br />

addormentarmi gustando il caldo torrido di fine estate.<br />

Un uomo mi chiese un fazzoletto di carta e glielo porsi. Iniziammo a<br />

parlare.<br />

“Da dove vieni, il tuo accento non è di qui?” Mi voltai appena. “Sono<br />

italiana. Io sono nata in Italia”.<br />

Lui storse appena il collo, fuggì lo sguardo verso l’esterno e disse:<br />

“L’Italia? Non ne ho mai sentito parlare”.<br />

L’Italia… qualcuno non la conosceva, per qualcun altro era solo uno<br />

stivale sul mappamondo collocato in un luogo non meglio precisato.<br />

L’Italia, Terra di valori e vanità artistiche, la mia Terra, per qualcuno<br />

non era altro che un nome appena pronunciato in lontananza.<br />

214


Sommario<br />

Il sogno .................................................................................26<br />

Aura ......................................................................................57<br />

Gocce di luce grezza ............................................................70<br />

La notte di Giulia ...............................................................100<br />

La mail di Sara .................................................................... 111<br />

Venezia ................................................................................126<br />

Foto bianche ......................................................................138


Finito di stampare nel mese di marzo 2009<br />

dalla Color Art di Rodengo Saiano (Bs)

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