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Tito Perlini - Walter Benjamin 0.2

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di Adorno che ha esortato <strong>Benjamin</strong> a non indulgere a motivi estrinseci e ad attenersi alle<br />

proprie peculiari e migliori inclinazioni di scrittore.<br />

Ciò che Adorno sostiene a proposito delle due stesure ci sembra in ultima istanza<br />

ineccepibile (quali che siano i dati cronachistici spiccioli della controversa questione).<br />

Adorno afferma che la prima stesura fu abbandonata da <strong>Benjamin</strong> medesimo per la scelta<br />

dettata dalla presa di visione di un’impossibilità. Egli pone l’accento sul «disfattismo» di<br />

<strong>Benjamin</strong> nei riguardi del proprio pensiero e su una sfiducia radicale nella filosofia (il<br />

progetto su Parigi poteva a suo avviso tollerare solo una formulazione poetica). In tale<br />

sfiducia Adorno ravvisa il salutare rifiuto di un filosofare imbevuto di illusorie certezze, ma<br />

insieme anche un residuo di positività adialettica che va tolto, nel momento in cui si vuol<br />

portare avanti la ricerca benjaminiana.<br />

In <strong>Benjamin</strong> – in ciò Adorno ha perfettamente ragione – è ravvisabile una carenza di<br />

mediazione dialettica. L’utopismo benjaminiano contrappone rigidamente la speranza<br />

messianica alla figura presente del mondo su cui cade la sua inappellabile condanna di<br />

stampo biblico-profetico. Essere e dover essere appaiono in <strong>Benjamin</strong> irrelati. La sua<br />

dialettica, impigliatasi nella lacerazione, si chiude inesorabilmente alla sintesi. <strong>Benjamin</strong><br />

resta ancorato ad una dialettica diadica qualitativa di stampo kierkegaardiano. Utopia e<br />

realtà, ben lungi dal mediarsi reciprocamente, si situano, come estremi inconciliabili, ai poli<br />

opposti e si irrigidiscono in essi, fronteggiandosi in un atteggiamento di mutua esclusione.<br />

La speranza in <strong>Benjamin</strong> è una disperata impossibile speranza che afferma se stessa<br />

come rifiuto integrale della sfera del mondano. Accortosi di perdere il contatto con la realtà<br />

storico-sociale, lo sradicato <strong>Benjamin</strong>, diffidando del suo stesso misticismo, tende a<br />

correggere l’utopismo catastrofico che gli è proprio con iniezioni di illuminismo ingenuo<br />

che lo porta addirittura a tratti, nella smania di approdare ai fatti da cui si sente escluso, ad<br />

indulgere ad una impostazione quasi potisivistica dei problemi concernenti la sfera sociale.<br />

Isolando l’Utopia in una sfera rarefatta, trascendente la datità positiva, è logico che questa<br />

venga sottratta alla dialettica e finisca per irrigidirsi nello spessore duro e non mediabile<br />

dei fatti da intendere come morti fenomeni privati della loro essenza, non risultati, ma<br />

entità positive tendenti a porsi in termini di definitività e non permeabili dal pensiero. In<br />

certo <strong>Benjamin</strong> il culto dei fatti come entità chiuse a sé stanti convive paradossalmente<br />

con un utopismo selvatico ed intransigente. Mosso da suggestioni, oscure a lui stesso,<br />

<strong>Benjamin</strong> cerca in un marxismo ingenuo ciò che gli sembra potrebbe consentirgli di<br />

conciliare fra di loro utopia e positività.

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