Il cercatore di funghi nel mondo - Gustolocale

Per monti e per funghi
Il prodotto della Montagna
pag.16
La storia proibita del Fico
pag.20
Macrillo anno zero
pag.2
Intervista a Roberto Cipresso
pag.8
pag.38
Sommario
settembre
2007
Per monti e per funghi 2
Il cercatore di funghi nel mondo 4
I funghi nel piatto 6
Roberto Cipresso: l’uomo che sussurrava alla vite 8
L’uva. Il frutto autunnale per antonomasia 10
Ristoratori Valchiampo 12
Formaggio Asiago: il prodotto della montagna 16
Il miele: un meraviglioso mondo da scoprire 18
La storia proibita del fico 20
Prosciuttando sui Colli Berici 22
ABC di Amedeo Sandri: a tutto vapore 24
Dolci tradizionali caduti in disuso 26
Arte in tavola: anguilla al tartufo 28
La sopressa e la sua etichetta 30
L’opinione di Terenzio Panozzo 32
L’unione fa la forza: le Perle dei Colli Berici 34
La gastronomia africana 36
Il cocktail del mese 38
Macrillo anno zero 38
Lo sai che... L’aragosta 40
Dalla libreria: una sinfonia gastronomica 41
La Chaine Des Rotisseurs 42
Annunci 44
Appuntamenti del mese 45
A tavola con le stelle 46
La rubrica del Ristor-Attore 48
Da una idea di Roberto Gasparin:
Il mensile www.gustolocale.it
di Vicenza
n° 13 – Settembre - 2007
Ai soli fini fiscali € 0,10 a copia
Abbonamento singolo Italia € 12,00
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Paolo Gasparin
Redazione – amministrazione – pubblicità:
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Contributo grafico:
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Luca Dal Maso
Alessia Manni
Consuelo Cappellari
Michele Zanetello
Ermanno Fabris
Giampiero Pozza
Hanno collaborato:
Roberto Gasparin
Paolo Gasparin
Alfredo Pelle
Giuliano Francesconi
Piergiorgio Casara
Cristina Borin
Amedeo Sandri
Paolo Terragin
Luciano Rizzi
Matteo Baldini
Terenzio Panozzo
Carlo Augusto Martelli
Vittoria Bicego
Filippo Ferreri
Michele Cisco
Mario Plazio
Mauro Pasquali
Romolo Cacciatori
Alice Franceschi
Francesca Filippi
Sarina Vaccarella
Cristian Piccinetti
Antonio Dal Lago
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giornale sono ad uso esclusivo di Pierregi di Paolo
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2
Per monti e per funghi
Un ingrediente umile,
ma preziosissimo.
Da imparare a riconoscere
e gustare
Porcino
Tra poco arriva l’autunno, quella che è, tradizionalmente, la stagione dei funghi e
sarà festa. Durante le vacanze di agosto i monti sono stati percorsi come ogni
anno da cercatori accaniti (non sempre “acculturati” quanto si dovrebbe per
rispettare l’habitat), ma anche noi “cittadini”, con sempre più facilità, troveremo
funghi ovunque. Fruttivendoli, supermarket, bancarelle (famosa e stupenda la
“nostra” per eccellenza, quella della Lina e di sua figlia Mary sotto la Basilica) ci
permetteranno di comprare sia quelli che sono considerati funghi di serie A
(porcini ed ovuli, finferli), sia gli altri che, in realtà costituiscono un cocktail, il
“misto”, che meravigliosamente è equilibrio di profumi e sapori.
Così, questo squisito complemento a menu importanti, pregiato piatto di mezzo,
ricercato contorno si presenta in tavola nel mentre l’autunno mostra i suoi colori,
fra il giallo ed il rosso delle vigne e dei boschi. Ed ecco, fra i tanti miracoli della
natura, proprio quando ci si sta preparando all’inverno, l’abbondanza dei funghi,
questa “carne del bosco”, ricchissima di proteine, dieteticamente eccezionale per
le pochissime calorie, che ignora completamente i grassi.
Funghi preziosi ed umili, che tendono ad occultarsi, a vivere nel silenzio magico
del bosco, che quasi impaurisce con le sue ombre ed i suoi fruscii, o sui verdi prati
al confine del verde, a mostrarsi solo all’ultimo istante, a dare il senso di una
conquista che è insostituibile.
Prezioso ed umile, dicevamo: si presta ad una gamma sconfinata di usi e
consumi. Profuma le salse ed i condimenti, gli intingoli di tutte le preparazioni, si
unisce ai piatti di alta aristocrazia o a quelli popolari come zuppe e minestre,

frittate o arrosti. Ma c’è di più: lo secchi, lo riduci in polvere che potrai
usare in un mare di piatti, lo metti sott’olio, lo sposi con aglio e
prezzemolo senza danneggiarlo. A volte non devi neppure cuocerlo,
basta affettarlo e sposarlo con scaglie sottili di grana padano, adagiarlo
lieve su un carpaccio di carne. L’importante è che vi sia un filino d’olio,
un pizzico di sale ed un’avarissima presa di pepe bianco appena
macinato. Null’altro.
I funghi riempiono, ogni anno, scaffali di librerie perché, nonostante vi
sia già una sterminata moltitudine di libri sull’argomento, non si è mai
giunti alla fine. Così dalle riviste di settore, di gastronomia, ai testi di
cuochi importanti, da “luminari” della
micologia a dilettanti, gli scaffali delle
librerie sono piene di testi che
forniscono le più diverse informazioni.
Ed una ragione più che valida esiste:
non c’è altro modo di stare sicuri circa
la velenosità dei funghi che
conoscerli.
Non c’è cucchiaio d’argento o d’oro
che annerisca, non serve a nulla
mettere un oggetto di ferro durante la
cottura, non serve mettere un pezzo
di pane o aglio (secondo le usanze
francesi) durante la cottura, per
determinarne la velenosità. Bisogna
conoscere, fra le tremila specie
presenti in Europa, quella sessantina
che dona solo piacere e non mal di
pancia, o peggio. Così quelli che sono
considerati i testi “sacri”, quelli di
Fernando Raris, del Cetto, della
stupenda associazione del Bresadola,
assurgono a veri “vangeli” di
sicurezza.
Ed in autunno i funghi diventano gli
interpreti anche di manifestazioni gastronomiche importanti: il
trevigiano Cocofungo è fra le più note. Ma ve n’è un’altra, in primavera,
che ha ancora più fascino ed è condotta da un grande del settore, Guido
Stecchi, che si definisce, a ragione, “micogastronomo” La rassegna si
chiama “A tavola con i funghi dei Re e dei Papi”, cioè con i funghi di
primavera e vi partecipa, nella nostra provincia, il Casin del Gamba,
meta obbligata per chi vuole godere di piatti di elevata concezione e di
squisita fattura.
Sembra strano ma dal Rinascimento all’Unità d’Italia a farla da padroni
sulle mense regali e pontificie furono i funghi di primavera, più che gli
autunnali: spugnole, prugnoli, marzuoli erano i grandi funghi da cucina.
E c’è, in questa stagione, la poesia della ricerca sui dolci declivi coperti
di fiori, fra prati e boschi ricchi di colori, che accresce il senso della
conquista. Poi la cucina reclama il tocco giusto, l’eleganza della
semplicità delle tagliatelle con le spugnole o di una frittata.
E questo nostro paese, benedetto per la presenza di tanta biodiversità,
ha diversi luoghi ove si “reclama” il
meglio della produzione fungina: chi
trova migliori sopra ogni altro i funghi
della Sila, chi del toscano
Pratomagno, chi afferma che i porcini
di Borgotaro, nel parmense, sono
imbattibili e chi, dall’altra parte del
monte, a Pontremoli, sta
combattendo una profumatissima
guerra per fare una secessione e
liberarsi da una sgradita compagnia
che sembra opprimente e reclamare
la palma del migliore ai propri porcini.
Questo perché dal 1993 è stato
insignito del marchio IGP il “fungo
porcino di Albareto, Borgo Val di Taro
e Pontremoli”!
E i nostri dell’Altopiano? Niente da
invidiare a nessuno: polenta di
Marano e funghi sono un mangiare da
re che rimanda alla bontà delle cose
semplici, conosciute, ritrovate
secondo quell’indicatore eccezionale
che è “l’orologio biologico” che è in
ciascuno di noi.
L’antica saggezza contadina dava tanto valore ai funghi da far pensare
all’intelligenza di uno scritto, trovato ai primi dell’Ottocento, in un
ricettario regalato ad un convento di Schio, che recita: “Coi fonghi mori
(i porcini) anche i poareti gà magnar da siori”.
Quanto è vero….
Alfredo Pelle
Ovulo Morchella
Finferli Pioppini
3

4
Il cercatore di funghi nel mondo
Michele Reniero della Green di Schio racconta come una passione
può diventare un business globale
Settembre. Tempo di funghi. Il bosco è quiete. Nei castagni secolari dai tronchi
cavi si riparano piccoli mammiferi e uccelli notturni ed i faggi che si ergono su
tutti gli altri alberi alimentano il sottobosco, habitat ideale per la nascita dei
porcini. Ma il bosco è anche severo. È lo specchio della vita. Ci puoi trovare
l’eccellente boletus aereus e l’ottimo boletus edulis ma anche la velenosa e
mortale amanita phalloides.
Ti dà tanta solitudine il bosco. Una solitudine tenera, quasi malinconica, che ti
isola dal mare di rumore delle giornate cittadine suscitando una profonda
meditazione. Ed è da questo lento ma intenso processo intimo, che si manifesta
non appena entri tra gli alberi, che scaturisce la tua parte migliore. Ed è grazie
a questa profonda e sentimentale passione che Michele Reniero, vero fungaiolo,
uomo di bosco da sempre abituato a stupire tutti (è quasi sempre il primo a
trovare i primi porcini dell'anno) ha saputo cogliere l’occasione della sua vita.
Michele é un vero personaggio: un uomo di quella specie di vicentini, forse di
montanari, ormai in via d’estinzione, che è riuscito a trasformare la sua
passione in una rigogliosa attività che lo vede cercatore di funghi nel mondo.
Quell’idea maturata nel silenzio del bosco, grazie alla sua esperienza di
venditore agroalimentare, si è consolidata in pochi anni: così, dai primi 200 kg
di funghi importati dall’ex Jugoslavia, si è arrivati a 1200 tonnellate di prodotto
trattato; divenendo una delle più importanti società italiane d’importazione e
trasformazione di funghi. Racconta: “non sono un semplice importatore, mi
considero un cercatore di funghi nel Mondo! L’idea è stata quella di scovare i
migliori funghi delle migliori qualità negli angoli più remoti del pianeta, per
offrire alla mia clientela i loro sublimi sapori e profumi per un periodo più lungo
possibile: ecco allora i funghi secchi, surgelati o in salamoia, a fette, granulati
o semplicemente interi, per soddisfare ogni esigenza in cucina o di lavorazione”.
Michele Raniero con la figlia Giorgia
e il socio Massimo Pietribiasi

Com’è organizzato il suo lavoro?
Con le mie figlie Sara e Giorgia e il mio socio Massimo Pietribiasi
abbiamo costituito da più di 25 anni la Green, società con sede a Schio.
Ci avvaliamo di oltre 200 collaboratori sparsi in giro per il mondo: tutto
ciò viene fatto per poter raccogliere e trasformare in tempi brevissimi
i funghi di giornata, così da garantire la massima qualità e salubrità.
Ci faccia capire, Voi avete tanti fungaioli sparsi per il mondo?
Sì, sin dall’inizio della mia attività ho organizzato aziende di proprietà
nei vari paesi, ed ognuna è seguita direttamente da noi sin dal
momento della raccolta, sia questa in ex Jugoslavia, Romania,
Bulgaria, Turchia, Macedonia o Cina, presenti fisicamente per tutta la
durata della lavorazione. Lì abbiamo centinaia di fungaioli che ci
riforniscono giornalmente dei tesori della natura, tutto analizzato e
controllato da noi grazie ad esperti periti micologi certificati, lavorato
in tempi strettissimi nel rigoroso rispetto igienico sanitario nelle sedi di
nostra proprietà. Poi tutto viene analizzato e certificato dalle autorità
competenti sia in fase d’esportazione che d’importazione, questo vuol
dire che i nostri prodotti sono controllati per ben tre volte a garanzia
unica di qualità.
Ma scusi e i funghi Italiani?
Si, certo, lavoriamo anche funghi nostrani, ma nei Balcani, in Turchia o
Cina, per esempio, è rigoglioso un fungo di qualità pari alla nostra, con
costi notevolmente più bassi; e poi non penserà che la Cina sia su un
altro pianeta no?
Si ha ragione ma quando si parla di Cina…
La Cina è un continente vastissimo, per gran parte ancora incontaminato,
e per qualità di prodotto di certo non è seconda a nessuno. Poi come le
dicevo tutto avviene sotto il nostro diretto controllo, in sedi di nostra
proprietà, e questo ci tengo a sottolinearlo. È come se lo lavorassi io
personalmente, questo lo abbiamo voluto da sempre perché ogni fungo
deve essere una garanzia al di là delle dovute analisi.
Come si è evoluto il mercato in questi anni?
Inizialmente si lavorava quasi esclusivamente secco, oggi in particolare
la ristorazione predilige il surgelato, mentre la massaia cerca un
prodotto finito pronto all’uso, ecco quindi la salamoia o i tanti prodotti
semilavorati dell’industria. Sino a qualche anno fa erano impensabili i
risotti ai funghi pronti o i tanti sughi confezionati, per non parlare dei
piatti pronti surgelati, ecco che per noi la grande industria è diventata
un cliente importantissimo e per questo segmento elaboriamo una
serie di granulati specificatamente studiati.
Il futuro?
Il futuro? Sarei un mago se lo conoscessi… attenzione ai mercati, alle
esigenze… alla trasformazione. Siamo presenti in tutta Europa ed
esportiamo anche in Giappone, Canada, Stati Uniti e Brasile, dove non
si parla di solo porcino, finferlo o morchella. Le tantissime varietà che
la natura ci offre faranno sì che il fungo sia sempre il Re della tavola
dei buoni ristoranti. Oggi si sa sempre meno fare da mangiare, e l’arte
del cuoco sarà sempre più importante nel mondo dell’alimentazione.
Nel futuro della ristorazione mi aspetto che s’incominci guardare più in
la… tante sono le varietà di funghi che ogni cuoco ha il dovere di
conoscere e proporre.
Certo il bosco le ha regalato un’idea vincente.
Si, un dono meraviglioso che si rinnova ogni giorno, in tutto il mondo,
ogni giorno un fungo mi aspetta…
Michele è uno che, seppur gioviale con tutti, si trova meglio, si trova
più a suo agio, da solo, con un bastone in mano e un sestélo da riempire
con i frutti del bosco. E che dopo una giornata passata a cercare, adora
gustare a tavola quanto la natura gli ha donato: quale miglior
squisitezza di un risotto ai porcini o di due tagliatelle con le morchelle,
accompagnati con un buon bicchiere di vino?
Roberto Gasparin
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Lasagnette con porcini, trottella di torrente
e peperoni arrostiti con timo
ricetta dello Chef Antonio Dal Lago
del Ristorante “Casin del gamba” di Altissimo
Dosi per 4 persone :
350 g di lasagnette all'uovo
500 g circa di filetto di trotella di torrente
400 g di porcini
4 cucchiai di olio extra vergine di oliva
1 peperone rosso
1 spicchio d'aglio
1 rametto di timo
sale, pepe
Pulire con un panno umido i porcini, scottare il peperone alla griglia
per poi pelarlo, preparare i filetti di trotella. Tagliare i tre ingredienti
a listarelle separatamente.
Scottare i porcini in olio, aglio e timo per 3 minuti circa, aggiungere
le listarelle di trota e proseguire la cottura per altri 2 minuti.
Aggiungere a questo punto i peperoni che hanno solo bisogno di
essere scaldati. Salare e pepare.
Cuocere le lasagnette e spadellare il tutto aggiungendo un po’ di
acqua di cottura per mantenere morbida la pasta.

Porcini brasati al muller thurghau
su battuta di pane croccante al profumo di rosmarino
Collocazione: Antipasto
RRiicceettttaa ppeerr 44 ppeerrssoonnee
500 gr di porcini di media grandezza
50 cl di vino Muller Thurgau
100 gr di crosta di pane
50 gr di burro
50 gr di olio extra vergine di oliva
1 ciuffo di rosmarino
1 ciuffo di prezzemolo
30 gr di parmigiano
Sale e pepe a piacere
Pulire i porcini e tagliarli a dadini, in una padella calda con olio far
evaporare e ridurre il vino Muller Thurgau, a riduzione avvenuta
padellare i porcini per pochi minuti, aggiungere il burro per legarli, sale e
pepe. Sgretolare le croste di pane e padellare in padella con il rosmarino e
il parmigiano, anche questo per pochi minuti.
Servire sul piatto i porcini, spolverare con il pane aromatico e decorare con
prezzemolo tritato.
Vino abbinato: Bianco di Breganze
i frutti più buoni della natura...
ricetta dello Chef Enzo Giannello
del Ristorante “L’altro Penacio” di Altavilla
GREEN
natura & sapori
GREEN SRL Schio (VI) Via Lago di Trasimeno 48/e Tel 0445-575120 green.com@tin.it

Roberto Cipresso:
l’uomo che sussurrava alla vite
Il miglior enologo d’Italia all’Oscar del vino 2006 e autore del best seller “Il Romanzo del Vino”
lancia un appello: basta annoiare i consumatori
Il dialetto lo parla ancora fluentemente, anche se con qualche inflessione toscana, qua e
là. Disponibile e cordiale nonostante i tanti impegni, incontriamo Roberto Cipresso nella
sua Bassano. È la città in cui è nato 44 anni fa e che ha lasciato nel 1986 alla volta di
Montalcino, nei tempi in cui si sta ancora costruendo il mito del Brunello. Gli chiediamo se
è in vacanza. “Ma quale vacanza – risponde con fare sornione – sono qui per vedere come
procede il lavoro in vigna delle due aziende mie clienti in zona [Gastaldia e Diesel Farm,
ndr]. Domani sono in Sicilia, dopodomani in Puglia, quindi un salto in Toscana e poi parto
per l’Argentina”.
La valigia è sempre pronta per uno dei più grandi
enologi italiani, e forse del mondo. Segue la
produzione di una trentina di aziende sparse in tutta
Italia, insieme ad una squadra di sei tecnici, tutti
agronomi, come lui. Dopo le prime esperienze nelle
aziende più importanti di Montalcino, fra cui Case
Basse, Poggio Antico e Ciacci Piccolomini d’Aragona, la
sua intuizione è quella di fondare nel 1999 la
Winemaking, la prima società per la consulenza
globale del vino che segue tutti gli aspetti tecnici,
dalla vigna all’enoteca.
Una vita tutta dedicata al vino che è finita in un libro:
“Il Romanzo del Vino”, pubblicato da Piemme a
settembre dell’anno scorso, che ha già venduto
20.000 copie diventando il maggior best seller di
sempre sul vino.

Cosa c’è di Lei in questo libro?
C’è tutto il mio percorso professionale. Un percorso che parte da
queste terre per farvi ritorno. Per me iniziare ad occuparmi di alcune
aziende vicentine è stata un’esperienza molto bella.
E dal suo punto di osservazione, come vede l’enologia di
casa nostra?
Manca consapevolezza, non c’è in realtà convinzione di
poter avere le carte in regola per competere con gli altri
territori. A parte pochissime eccezioni, non vedo delle
figure che profondano quella passione, quella sete di
ricerca e quella determinazione che sono indispensabili
per raggiungere obiettivi di eccellenza. Prendiamo ad
esempio i Colli Berici, hanno un’opportunità fantastica
con il Tocai Rosso, ma in pochi ci credono.
Ultimamente il solo fatto di possedere un vitigno
autoctono viene ritenuto un argomento
sufficiente, non crede?
Ed è sbagliato. Perché la molla verso gli autoctoni è
innescata dalla curiosità di provare un’esperienza nuova.
Una volta soddisfatta, il consumatore si orienta verso
altre novità. A Vicenza siamo troppo legati alle Doc, le
tipicità il più delle volte sono costruite su degli errori del
passato e rispettarle significa perseverare con questi errori. Non mi
piace il termine “tipico”, è un concetto immobile ed è spesso anche un
grande alibi. Bisogna saper sperimentare, rinnovare, osare, prendere
il meglio della storia per farne tesoro. Non si deve fare tutto ad occhi
chiusi, si deve avere la capacità di interpretare con buon senso.
A volte però si bevono delle grandi castronerie, frutto di
sperimentazioni…
Più il lavoro si compie in cantina più tende ad appiattire, a piallare il
livello dei vini. Ma se la ricerca si compie in vigna si riesce a dare
espressione ad un vitigno, a ritrovarne il suo carattere. Il bravo
winemaker è quello che meglio degli altri sa dove e come piantare un
vigneto.
Cosa intende con “dare espressione al carattere”?
Rendere un vino unico, inimitabile. Diceva Madame Le Roi: “Il miglior
Pinot Nero è quello che non sa di Pinot Nero”. Significa che il terroir
deve avere una predominanza assoluta sulla varietà, significa che se il
mio prodotto si differenzia da tutti gli altri non è più possibile
La copertina del libro
di Roberto Cipresso
paragonarlo con nessuno. Quando il vino esprime una sua unicità
assoluta, lo avverti. Senti un brivido.
Un’emozione?
Si, proprio così. Vorrei lanciare un messaggio chiaro: basta discorsi
tecnici, annoiano la gente. Non ci si può appassionare di
una scheda tecnica, quella deve essere il punto di arrivo
per chi vuole un approfondimento. Il punto di partenza
deve essere il mondo che circonda il vino, la storia di un
territorio, la storia personale di un vignaiolo, l’arte e la
musica con cui il vino deve mescolarsi. Sono queste le
cose che fanno innamorare di un vino e che lo rendono
unico. E quando è unico, come ho detto, non è più
paragonabile a nessun altro. Lo si sceglie con il cuore.
Storia, arte, musica. E i prodotti del territorio?
È il legame più importante. Il vino e la cucina insieme
diventano un pezzo di territorio, un’esperienza da
provare in viaggio, da portarsi a casa e da ricercare nel
mondo. Se si riesce a trasmettere un’idea unica tra il
vino e il territorio, fatto di cucina, arte e storia, allora il
gioco è fatto.
Matteo Baldini
WINESTATION:
LA DISNEYLAND DEL VINO
Winestation è l’ultimo ambizioso progetto di Roberto
Cipresso. Nella vecchia stazione di Montalcino sta infatti
nascendo un parco ludico-didattico tutto dedicato al
vino. Primo al mondo nel suo genere, avrà al suo interno
un centro congressi, diverse sale mostra e laboratori
interattivi sulla vite e la vinificazione, un giardino
botanico e un winebar. “Sarà una sorta di Disneyland del
vino – spiega il suo ideatore – a cui si arriverà da tutta
Italia a bordo del Treno del Vino, che già di per sé sarà
un’esperienza enogastronomia”. L’apertura è prevista a
fine 2008.
9

10
L’uva
Il frutto autunnale per antonomasia
Tra i filari carichi dell’asprigno profumo dell’uva matura, tinta dal sole ancora estivo, presto
comparirà un’allegra e scherzosa brigata, armata di tini e mastelli alla raccolta dei succosi
grappoli. Settembre è il mese della vendemmia, il cerimoniale in cui il lavoro manuale del
vignaiolo si trasforma in rito sacrale, a coronamento di un anno di lavoro e di preoccupazioni.
L’uva, diffusa in più di 40 Paesi al mondo, vede più della metà della produzione mondiale in
Europa. I vitigni italiani sono un patrimonio d’uve unico al mondo con ben 300 varietà di vitigni
per una superficie vitata di 730.000 ettari. Ricchezza che non ha eguali: basti pensare che la
Francia conta poco più di 40 varietà di vitigni. “L’uva altro non é - diceva Gioacchino Rossini -
che vino in pillole”.
Da bevanda degli dei a sangue Divino
La vite è una pianta arborea rampicante antichissima, radicata nelle zone temperate del nostro
pianeta dalla notte dei tempi. Comparsa milioni di anni fa, la Vitis vinifera, nota come vite
europea, muove i suoi primi passi in oriente, da dove si è diffusa in tutto il bacino Mediterraneo.
Pare che la viticoltura vera e propria sia nata in Mesopotamia, nel territorio dell'antica Persia,
ove sono stati rinvenuti orci di terracotta datati 7.000 anni prima di Cristo, contenenti tracce
di vino.
Per i Sumeri la vite ed il vino erano simboli di immortalità. Ma è nella Bibbia che troviamo la
testimonianza scritta del più antico viticoltore e vinificatore esistito: Noè. Dopo aver affrontato
il Diluvio, è lui il primo a piantare la vite, “uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re), a cogliere
l'uva e ricavarne del vino, per poi prendersi una sbronza solenne. Nella Bibbia troviamo anche
numerosi brani che citano il vino e le vigne, e si capisce chiaramente che per i popoli antichi il
vino era sì una bevanda, ma anche un vero e proprio alimento, con proprietà capaci di
trasformarlo in un autentico medicinale, che dà sollievo al corpo e allo spirito. Senza
dimenticare che dai primi cristiani ad oggi, il derivato dell'uva rappresenta niente meno che il
sangue di Dio. Gli Egizi, rinomati per la birra, allietavano i loro faraoni con il dolce nettare d’uva
a bacche rosse, già allora coltivate “a pergola”. Ma non solo, conservavano il vino in anfore
chiuse con impresso l’annata e il produttore, forse per una sorta di rudimentale pratica d’invecchiamento
o più probabilmente di rintracciabilità del prodotto.
Anche il mondo greco conosceva e praticava la vinificazione, i poemi omerici testimoniano ampiamente
la presenza e l'importanza del vino: a Polifemo, ad esempio, viene propinato allo stato puro un vino che
secondo le usanze dell'epoca andava diluito con 16 parti di acqua! Ma è grazie all’Iliade che possiamo
affermare che si coltivava della vite con ceppo basso, così raffigurata sullo scudo di Achille: “…una vigna
stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento…”.

La sua comparsa in Italia è avvenuta venti secoli prima di
Cristo per opera dei Fenici, che iniziarono a coltivarla in
Sicilia da dove si diffuse a tal punto che la nostra penisola
fu chiamata Enotria (terra del vino). Con l’evento
dell’Impero Romano la viticoltura e la vinificazione si
affermarono in tutta Europa raggiungendo Francia, Spagna
e persino l’Europa settentrionale. Moltissimi erano i vini
prodotti nel bacino del Mediterraneo: bianchi, rossi, secchi,
abboccati, leggeri e pesanti a bassa e ad alta gradazione
alcolica; nella Roma Imperiale se ne contavano ben 140,
provenienti da tutte le province.
Con la caduta dell'Impero, nei secoli duri e bui del
Medioevo, la vite subì una forte involuzione e fu confinata
quasi esclusivamente all'interno dei monasteri: delle
piccole oasi di pace dove si continuò a coltivarla. Fu così
che i monaci Benedettini divennero i maggiori produttori (e
consumatori) di vino. In seguito, grazie a Carlo Magno, suo
grande estimatore, il vino conobbe una nuova fortuna. Alla
fine del diciannovesimo secolo la coltivazione della vite
venne segnata profondamente dalla filossera, il micidiale
parassita proveniente dall’America che flagellò gran parte
dei vitigni europei. La soluzione, apparentemente semplice,
fu quella di innestare i vitigni europei nelle radici di viti
americane, che sono immuni a questo parassita. Per
arrivare ad un giusto equilibrio ci sono voluti anni di studi
e, purtroppo, anche molte rinunce: la mappa dei vitigni in
Europa è mutata completamente, e molti vitigni “prefilossera”
sono scomparsi.
Non solo vino: l’uva da tavola
Dalla notte dei tempi fino alla metà dell'800, il consumo di
quella che oggi definiamo “uva da tavola” si confonde con
l'uva da vinificazione. Nera o bianca la troviamo nelle
pitture mesopotamiche, egizie e greche; fu durante il
fiorire di queste due ultime civiltà che l’uva divenne uno
“status symbol”, immancabile sulle tavole aristocratiche del
tempo, non più un semplice alimento, ma corona per dei,
ninfe ed eroi. Nel 1887 il nostro Paese è stato fra i primi al
mondo a porre una distinzione fra le uve “da vino” e quelle
“da tavola”, ed oggi, a distanza di oltre un secolo, ne siamo
i maggiori produttori.
L'uva non é protagonista solo in cantina, ma influenzerà le
scelte gastronomiche per l’intero autunno e non solo.
Sposa in cucina, sia fresca che appassita, dagli antipasti ai
primi piatti (risotti, insalate di riso e pasta), ottima con
secondi di carne (cacciagione, manzo, ecc.), è molto
apprezzata nella preparazione di dolci, focacce, sorbetti,
marmellate e macedonie.
Il consumo di uva da tavola è molto importante per la
nutrizione umana, grazie all’elevata presenza di zuccheri
solubili (attorno al 18%) e l’alta digeribilità. Questo frutto,
ricco di potassio e povero di sodio, ha un’azione lassativa e
depurativa. Contribuisce a ridurre il livello del colesterolo
“cattivo” alzando quello “buono”, elimina l'acido urico ed è
ricca di antiossidanti, mentre la presenza di flavonoidi gli
conferisce spiccate proprietà antitumorali.
Paolo Gasparin
Il 2006 non si può che
definire un anno felice
per il settore vino
italiano poiché la
produzione vinicola è
cresciuta del 3.3%.
Così, con i suoi 52
milioni di ettolitri,
l’Italia è divenuta il
primo Paese
produttore al mondo,
spodestando i cugini
d’oltralpe. Anche
l’esportazione ha
subito un’impennata
e, grazie ai 17 milioni
di ettolitri esportati ha
conquistato il titolo di
maggiore Paese
esportatore.

12
ALLA SCOPERTA DE “IL FRANCESE” DI CHIAMPO
L’ultimo appuntamento della rassegna dei Ristoratori
della Valle del Chiampo prima di una meritata pausa estiva
Erica Zarantonello, Romolo Cacciatori e il patron Renato Pellizzari
La brigata de “Dal Francese” al completo
Fra poco saranno cinquant’anni da quando nonna Adelia ed il marito, tornati in
patria dopo essere emigrati in Francia ed in Belgio, fondarono il loro locale.
Prima una trattoria, ora un bel ristorante che si sta facendo spazio nell’affollato
mondo della ristorazione con proposte sempre più interessanti. Oggi, con i
preziosi consigli di nonna Adelia, “Dal Francese” è condotto dal figlio Renato in
cucina e la moglie Caterina in sala. Il menù ambizioso testimonia la voglia di
crescere e questo sta avvenendo da qualche tempo, sempre nel solco della
tradizione.
Spicchi di fichi freschi, formaggio morlacco e miele, Crudo di Parma sedano ed
ananas, bocconcini di zucchine grigliate con gorgonzola, pomodori secchi e
basilico ci accolgono allegramente con un Brut Toari di Cavazza - Selva di
Montebello. Tante cose appetitose, i francesi direbbero Mise en Bouche per
indicare che si possono portare direttamente in bocca senza l’ausilio di
forchette, ne tanto meno di coltelli. Pare sia stata proprio Caterina de’ Medici
che, andata in sposa a Re di Francia Enrico II, portò fra il corredo delle forchette,
strumenti già in uso a Firenze assieme alle salse poi adottate a dismisura dai
francesi. L’influenza della cucina italiana su quella francese è stata innegabile,
ed ancora oggi solo i francesi colti ed i e meno nazionalisti nel campo dell’arte
culinaria lo ammettono a denti stretti.
Tra i primi si è distinto un Doppio Risotto: alle “bollicine” ed al nero di seppia.
Un delizioso abbinamento ove il sapore dolce della seppia e del suo nero
s’incontrano con il contrasto leggermente frizzante ed acidulo delle “bollicine”;
un allettante piatto da provare ed assaporare con gli occhi e con la bocca.
Mentre il succulento fagottino di piccione alla mantenga su ristretto di vino, una
delle pietanze riscoperte per le celebrazioni del sommo artista padovano Andrea

Mantenga, ha stupito per la sua squisitezza: ragù di piccione con
spezie, mandorle tostate e pinoli, dei sapori forti e delicati che
rispecchiano la voglia d’esotico di un tempo, celati in una pasta
rigorosamente fatta in casa, servita su una salsa “tirata” di vino.
Con questa portata si è presentato un piccolo giochino enologico: si
è riproposto il Pinot Grigio - Solarente 2006 Azienda Le Pignole -
Brendola, che ha accompagnato il Doppio Risotto, proponendo
anche il rosso Aglianico del Vulture DOC - Terre di fuoco 2005 -
Azienda Carbone del secondo piatto, servito ad una temperatura più
bassa. Due vini profondamente diversi che ci hanno accompagnato
sino alla Tonnata di Agnello in salsa al limone, pomodoro in gratin e
patate saporite della Vallata. Un piatto del centro-sud, delicato e
saporito, che annuncia l’Insalata “Rosa” di frutta e verdura. Una
sferzata di freschezza e di sapore mediterraneo che pulisce la bocca.
Per finire in bellezza con un Budino alla Vaniglia con frutta di
stagione guarnita, accompagnato da un Recioto rosso della
Valpolicella 2003 - Ca’ Del Monte - Negrar. Il medesimo uvaggio e
procedimento d’appassimento dell’uva dell’Amarone, ne fanno un
dolce vino da meditazione! Una sinfonia di frutta che riempie il
palato e fa sognare spazi e luoghi ameni, che fanno lasciare con
dispiacere “il Francese”.
Menù curato ed illustrato dall’enogastronomo Romolo Cacciatori
Il prossimo appuntamento de “I Ristoratori della Valle del Chiampo”
sarà venerdì 21 settembre 2007: Serata delle 3T presso il Rist. Ponte
Nuovo di Molino di Altissimo, con la collaborazione del Ristorante Al
Torcio e del Ristorante Dal Francese.

pagina curata da
Cantina Giuseppe Bonollo
Se il Barolo ama definirsi il vino dei Re e il re dei vini, Breganze risponde con un
vino da Papi. Lo ha fornito nel corso di numerosi anni al soggiorno valdostano di
Giovanni Paolo II la cantina Giuseppe Bonollo. E pensare che gli inizi dell’attività
risalgono appena al 1980, quando Giuseppe si accorse che il vino che produceva
per passione trovava sempre più riscontri, tanto da indurlo a farla diventare una
professione. Vennero quindi sistemati i vigneti, e si attrezzò una cantina semplice
ma adatta alle esigenze aziendali. Come in molte altre realtà poi, cresce la
sensibilità verso il prodotto, si aumenta la produzione e i risultati portano le prime
soddisfazioni. Senza troppi clamori Bonollo si fa conoscere piazzando molti suoi vini
ai primi posti dei concorsi enologici. La dimensione rimane tuttavia quella
famigliare. Le bottiglie sono circa 30.000, diffuse in tutta Italia, anche se il Veneto
rimane il mercato principale. La forza aziendale risiede nel patrimonio di 5 ettari siti tutti in collina, tra Fara e
S.Giorgio, nel punto più elevato della DOC Breganze. Il terreno prevalentemente vulcanico garantisce un ottimo
drenaggio in caso di piogge, e viene coltivato con pratiche che si avvicinano all’agricoltura biologica. In cantina
si cerca di lavorare riducendo al minimo l’uso di solforosa. Da alcuni anni il figlio Matteo ha modo di mettere in
pratica la conoscenze enologiche maturate tra S. Michele all’Adige e Milano, e sicuramente si vedranno dei
cambiamenti nel prossimo futuro. Da segnalare infine come sia in corso di ottenimento la prestigiosa certifi-
La famiglia Bonollo
cazione ambientale ISO 14001. I vini
prodotti sono quelli tipici della zona di
Breganze, ma accanto a questi trovano spazio anche uno chardonnay, un riesling, un
pinot grigio e un pinot nero. Il tratto distintivo delle etichette di Bonollo è la freschezza,
derivata dalla posizione dei vigneti, che si traduce in sensazioni di acidità e sapidità
non disgiunte da una buona maturità generale del frutto.
IL VINO
Breganze Cabernet 2006
La giovane età si percepisce fin dal colore rubino brillante. Il naso porge un frutto
croccante e diretto, in cui si intuiscono i frutti di bosco accanto ad una nota
gradevolmente floreale. Col tempo poi scorrono anche componenti meno immediate,
ma di interessante complessità, come i ricordi terrosi e minerali. La beva è elegante,
mai forzata nei tannini o dalla concentrazione eccessiva. In sostanza un vino
quotidiano che dietro una apparente semplicità nasconde doti non comuni e una
grande versatilità nei confronti del cibo.
Mario Plazio
Giuseppe Bonollo
14

Pagina a cura di Gianni Lievore
Cotture Sottovuoto
Per “sottovuoto” si intende il metodo di cottura dove il
prodotto allo stato naturale viene confezionato in
sottovuoto e poi sottoposto al processo di cottura a
bassa temperatura.
Il sottovuoto rappresenta l’evoluzione dei sistemi sino
ad oggi utilizzati, poco conosciuto in Italia, è stato
importato dai paesi europei, tra cui Francia ed
Inghilterra, in cui si riesce meglio apprezzare e
sfruttare gli innumerevoli vantaggi che questa tecnica
offre.
Gli alimenti infatti, non essendo a contatto diretto con
l’ambiente esterno, non risentendo alcuna aggressione
da parte del calore e mantengono inalterati tutti gli
aromi ed i sapori, aumentando le qualità organolettiche
e nutrizionali dei cibi. La bassa temperatura è
fondamentale nel procedimento: agendo in modo lento
e dolce, permette di ottenere risultati sorprendenti in
termini di morbidezza e succosità, soprattutto nelle
carni bianche e asciutte, con un calo peso del 5%
contro il 20-30% dei sistemi tradizionali.
L’uso quasi nullo delle spezie e dei condimenti fa
della cottura sottovuoto il sistema ideale per
realizzare una cucina dietetica e a basso contenuto
calorico. La cottura e la conservazione sottovuoto,
eseguita nel rispetto delle norme igieniche,
svolgendo tutti i passaggi tecnici adeguati, consente
di mantenere l’igienica freschezza dei prodotti.
I cibi cotti, sigillati nelle buste, abbattuti di
temperatura e conservati permettono un’elasticità
notevole sia nello stoccaggio che nel risparmio
economico e consentono di concentrare gli acquisti e
prolungare i tempi di conservazione.
Vantaggi del Sottovuoto
• Mantenimento delle qualità organolettiche
• Mantenimento delle qualità nutrizionali
• Esaltazione dell’aroma e del gusto
• Nessuna degradazione da alte temperature
• Elasticità del sistema
• Risparmio sulle materie prime
• Programmazione del menù
• Semplicità dello stoccaggio
• Prolungamento dei tempi di conservazione
• Facile rigenerazione
Le nuove macchine sottovuoto si caratterizzano per
la facilità di pulizia, con camere a vuoto aventi angoli
arrotondati e barre saldanti facilmente estraibili,
sistema di impressione a caldo sul bordo di ogni
busta con la possibilità di stampare la data della
confezione e il numero di lotto del prodotto; camere
a vuoto verticali per poter mettere in sottovuoto i
liquidi senza che questi vengano aspirati, sistema a
gas inerte per confezionare i prodotti senza che
questi vengano schiacciati.

16
FORMAGGIO ASIAGO: IL PRODOTTO DELLA MONTAGNA
Dalle stalle di pianura alle malghe di montagna. Mano a mano che lo sviluppo della
vegetazione spontanea lo consente, le bovine vengono portate al pascolo
sull'Altopiano di Asiago. Un lussureggiante serbatoio di biodiversità, probabilmente
il più grande distretto di monticazione d'Europa.
Con agosto si è conclusa la settima edizione delle “malghe aperte”, l’oramai
consueto appuntamento estivo organizzato dalla Coldiretti di Vicenza che
riscuote una sempre maggiore risposta da parte del pubblico. Un’occasione
preziosa, per turisti e appassionati della buona tavola, per scoprire le malghe
dell’Altopiano di Asiago, conoscerne i pascoli, i boschi, l’antico mestiere del
casaro, ma soprattutto i formaggi freschi e stagionati prodotti nel più
suggestivo degli altopiani italiani.
Per il formaggio Asiago il 2007 è un anno particolarmente importante, perché
vede aumentare ad otto il numero delle malghe che aderiscono al progetto di
marchiatura del formaggio. Ma le novità sono molte: da quest’anno infatti si
può iniziare a degustare il formaggio Asiago d'Allevo Vecchio di malga “Prodotto
della Montagna”, realizzato l'estate scorsa secondo le nuove regole inserite nel
disciplinare DOP. La menzione aggiuntiva di “Prodotto della montagna”,
impressa su ogni singola forma, rappresenta un’ulteriore garanzia per l'identificazione
del prodotto, che prevede severe norme di alimentazione delle vacche
e un rigido sistema di tracciabilità dell’intera filiera. Un’iniziativa con cui il
Consorzio di Tutela e la Comunità Montana Spettabile Reggenza dei 7 Comuni
intendono contribuire al mantenimento in vita di un’attività tanto difficile quanto
affascinante e preziosa, come la conduzione delle malghe.

Il Consorzio di Tutela vigila costantemente sulle fasi produttive,
controlla, certifica e garantisce le forme marchiate, tracciando tutta
la filiera dalla mungitura fino al consumatore finale. “Il nostro
ringraziamento - dichiara il presidente del Consorzio per la Tutela
del Formaggio Asiago, Roberto Gasparini - va alla Comunità
Montana dell’Altopiano, Spettabile Reggenza dei 7 Comuni, per
essersi fatta interprete con le malghe del territorio della necessità
di elevare al massimo la tutela del prodotto, a maggior garanzia dei
consumatori e dei produttori stessi”. Gasparini conclude evidenziando
come la certificazione DOP sia in grado di tutelare e
valorizzare anche le produzioni tradizionali più piccole. “Siamo a
fianco del Consorzio Tutela Formaggio Asiago - gli ha fatto eco
Giancarlo Bortoli, presidente della Comunità Montana Spettabile
Reggenza dei 7 Comuni - e crediamo che l'Asiago di malga trovi la
sua collocazione migliore nella tutela derivante dalla
Denominazione di Origine Protetta. Vogliamo riconoscere al
Consorzio la capacità di ascolto e di risposta prestata alle
produzioni più piccole, come quelle di malga, che ha permesso di
rinnovare una collaborazione leale e costante che ci auguriamo si
possa estendere ad un numero sempre maggiore di alpeggi”.
La produzione dell'Asiago di Montagna è iniziata nell'estate 2006 e
quest’anno quei formaggi “d’allevo”, ossia del tipo Asiago
Stagionato, avranno l'età giusta per definirsi “Asiago Vecchio”. Dal
prossimo anno, gratificati anche da un marchio a fuoco del
Consorzio di Tutela, potranno assumere la denominazione di
“Asiago Stravecchio”, tanto cara ai malghesi. Anche il formaggio
Asiago Fresco che risponda ai requisiti necessari può fregiarsi del
titolo di “Prodotto della Montagna”.
UN DELICATO EQUILIBRIO
Tradizione vuole che sull'Altopiano l'epoca del “carico” delle malghe
vada dal 1° giugno al 21 settembre, ma queste sono solo delle date
indicative, dettate più dall’andamento meteorologico che dal
calendario. La monticazione, o “carico della malga”, è per queste
montagne un’usanza arcaica, di cui il tempo è riuscito a celare le
origini, basti pensare che l'etimologia della parola “malga” risale ad
una lingua “prelatina” o “paleoeuropea”. Ancor oggi, l'alpeggio
sull'Altopiano fornisce quantità limitate di latte, ma formaggi di
qualità eccezionale. Qui infatti, il carico di bestiame e la
conseguente produzione lattiera, è oggetto da sempre di regolamentazioni
pubbliche molto severe, che ne impediscono l'aumento.
Limitazioni dovute dalle caratteristiche morfologiche e botaniche
della zona, caratterizzata da doline, inghiottitoi e da un terreno
calcareo ed estremamente permeabile, che rappresenta un’area di
ricarica dell'acquifero che alimenta buona parte della pianura
veneta. L’aumento del bestiame provocherebbe un diradamento
incontrollato della vegetazione ed un’eccedenza di immissioni di
azoto organico rispetto alla capacità naturale di assorbimento del
terreno, ad opera della vegetazione. Esiste perciò l'assoluta
necessità di non soggiogare ad alcun interesse particolare
l'ecosistema, tanto lussureggiante quanto vulnerabile sotto il
profilo idrogeologico ed ambientale. È evidente come la produzione
casearia altopianese, testimonianza di tradizioni antichissime e
fonte di prodotti straordinari, contribuisca quindi in modo significativo
al mantenimento del delicato equilibro naturale del territorio.
E poi l’Asiago, con la sua squisita semplicità, è un alimento
eccezionale a cui Madre Natura e la millenaria tradizione casearia
dell'Altopiano forniscono un corredo di principi nutritivi che lo
rendono un alimento dalle caratteristiche difficilmente riscontrabili
anche nei prodotti di ingegneria alimentare.
Paolo Gasparin

18
Il miele:
un meraviglioso mondo da scoprire
La leggenda vuole che sia nato dalle lacrime del sole.
Un alimento ricco di proprietà salutistiche, delizioso se abbinato con fantasia
Secondo gli antichi Egizi, il miele nacque dalle lacrime del dio Ra,
il sole. Forse c’è un po’ di vero in questa leggenda: il miele infatti
ha lo stesso colore del sole, confortante e dolce.
Una dolcezza particolarmente apprezzata fin dai tempi in cui
ancora non si conosceva l’esistenza dello zucchero, di canna
prima, e di barbabietola poi. Impasti di farina, uova e miele erano
conosciuti nell’antica Grecia, dove ogni famiglia teneva nell’orto
un’arnia personale. E questo perché disporre di miele, per chi ha
un po’ di tempo e di interesse per la casa, non è difficilissimo. Lo
sanno bene le migliaia di apicoltori per hobby che esistono anche
oggi in Italia, e a cui si deve circa la metà del prodotto consumato
nel nostro Paese. Nel miele i valori gastronomici e di gusto vanno
di pari passo con le virtù salutari: esso infatti è composto di
zuccheri (una miscela di fruttosio e glucosio) per l’80% e di acqua
(17%). Quel due, tre percento che resta è una miscela di elementi
diversi, che ne fanno la particolarità benefica: oligoelementi, un
po’ di vitamine, enzimi e tracce di un antibiotico (l’inibina).
Secondo alcuni nutrizionisti sono 180 le sostanze diverse presenti
nel miele. Ma in realtà mangiare del miele significa spesso
premiarsi con una “chicca” naturale, quasi un miracolo, se si
osserva come le api trasformano il nettare in miele.
In primavera le api sciamano dove il nettare è più dolce e
abbondante e lo succhiano avidamente, al punto che alcune di loro
si riempiono tanto da non riuscire più a volare. Rientrate
disciplinate nell’arnia danno inizio alla più straordinaria catena
della solidarietà: l’una passa all’altra il carico della sua borsa
melaria dove si accumulano il nettare e gli zuccheri della frutta.
Nel corso di questi passaggi il raccolto perde acqua e si arricchisce
delle secrezioni ghiandolari che trasformeranno il nettare in miele.
Quando poi il contenuto d’acqua è ridotto alla quantità ritenuta
istintivamente ottimale, le api coprono con cera la cella in cui
hanno depositato il futuro miele, per evitare che l’umidità esterna
passi, e lo lasciano maturare. Una volta che il miele è maturo è
l’apicoltore a sottrarre la parte che eccede la loro provvista
invernale.
Sarà così miele “mille fiori”, ma anche di lavanda, di tiglio, di
salvia, di rosmarino o di rododendro, in una deliziosa varietà di
gusto e di colore, dove spiccano le qualità più rare e quindi più
preziose.

Un’accoppiata sublime:
mieli e formaggi
Si è ormai consolidato in questi anni l’uso di abbinare
i mieli ai formaggi, poiché essendo il formaggio un
alimento praticamente privo di zuccheri, questo trova
nel miele il suo naturale alimento complementare. Un
connubio di gusti e sapori straordinario, tutto da
esplorare. Un viaggio alla scoperta delle numerose
varietà di mieli e formaggi, dove i possibili
abbinamenti sono limitati unicamente dalla fantasia e
dalla propria cultura gastronomica. Il primo che
ovviamente viene in mente è quello di abbinare un
miele “amaro” su un formaggio poco sapido oppure
un miele “dolce” ad un formaggio “piccante”,
giocando con la propria creatività. Non tutti i mieli
possono però essere proposti in abbinamento ad un
particolare formaggio, ma ognuno ha caratteristiche
che lo rendono abbinabile solo con alcune tipologie.
Non di sola acacia…
Spesso è utilizzato indiscriminatamente il miele di acacia
semplicemente per il fatto che si presenta sempre liquido e
quindi facilmente gestibile, a differenza di altri mieli che
normalmente cristallizzano e sono quindi allo stato solido. La
cristallizzazione è un fenomeno fisico del tutto naturale: è il
naturale passaggio del miele dallo stato liquido a quello
solido, che avviene generalmente a distanza di settimane o
mesi dalla smielatura. Solo il miele d’acacia, dato il
particolare rapporto glucosio-fruttosio, cristallizza raramente.
Nel momento in cui si preparano i vari formaggi per il servizio
conviene preparare anche i vari mieli da abbinare,
immergendo i barattoli a bagnomaria in acqua tiepida, per
permettere così la liquefazione di quei mieli normalmente
cristallizzati.
Vittoria Bicego
Le regole basilari possono
essere riassunte in tre
regole base:
• il miele è tale quando non è
manipolato da lavorazioni
industriali
• il miele offre il meglio di sé
quando è dosato con
attenzione
• il miele è generoso nel gusto
quando è scelto per la
specificità che lo caratterizza

20
La storia proibita del fico
Una pianta antichissima e generosa.
Un frutto dolce e intrigante.
Da sempre il fico è simbolo di fertilità e trasgressione
Non è più il momento dei “fiori” (o
“primaticci” o “fioroni”) prodotti da gemme
dell'anno precedente, maturati in giugnoluglio:
ora è il tempo dei “forniti”, nati da
gemme dell'annata, che maturano da agosto
a settembre. E tra poco, in autunno, sarà la
volta dei “tardivi”.
Non ci capite un fico? Beh, non ci siete
lontani, perché proprio di fichi si tratta. Sono
tutti nomi delle infruttescenze dell’albero del
Ficus, che giungono a maturazione in distinti
periodi dell'anno. Esistono ben 700 varietà di
fichi che vanno dalla verde, alla nera, alla
violacea. La più comune in Italia è la Ficus
carica, che produce frutti di dimensioni
diverse e colore dal giallo al verde al nero.
Diversamente dagli altri tipi di frutta, in cui
la parte commestibile è quella “femminile”
del fiore, quella del fico è contenuta nel
tessuto del gambo. Il frutto del fico è un fiore
“invertito” con entrambe le parti maschili e
femminili racchiuse nello stelo.
Simboli e miti legati al fico
Il fico è uno degli alberi più noti e diffusi, soprattutto nel bacino del
Mediterraneo e nel Medio e Vicino Oriente, vanta una storia plurisecolare,
arricchita da un vero e proprio florilegio di citazioni che vanno
dalla Genesi a Virgilio, passando per la mitologia greca. Noto e
apprezzato non solo per il gusto particolare, ma anche per il valore
simbolico che gli si attribuiva, stuzzicando la fantasia di molti artisti.
La Genesi racconta come Adamo ed Eva dopo la disobbedienza
all’ordine Divino, si rifugiarono sotto un fico e, cacciati in seguito
dall’Eden, si coprirono con le sue foglie. Nell’Antico Testamento il fico,
assieme alla vite, è il simbolo della fertilità ma anche della vita gioiosa
nel regno messianico. In India è un albero sacro, simbolo dell’illuminazione:
pare che Buddha raggiunse il Nirvana ai suoi piedi e che lì

accogliesse le moltitudini dei suoi discepoli per
meditare. Anche Maometto, nel suo giuramento a
Dio, prese il fico come testimone, mentre Gesù
entrando in Gerusalemme lo trattò come traditore e
lo disseccò. Per i Romani il fico era simbolo di fertilità,
albero sacro all’origine della città di Roma; portatore
di morte invece fu il cesto di fichi maturi posto a
Cleopatra, poiché conteneva il serpente con cui si
uccise. I Greci ne fanno il protagonista di molti miti,
spesso a sfondo erotico: era la pianta sacra a Dioniso,
i suoi frutti rappresentavano simbolicamente gli
attributi della divinità mentre il bianco lattice era il
simbolo del nutrimento che Dioniso dava al mondo.
Ancora oggi nelle culture popolari di molte parti del
mondo il fico simboleggia la fertilità maschile per la
grande quantità di semi racchiusa nel frutto che è
paragonabile, per la forma, ai testicoli.
La prima pianta coltivata della storia
Una recente scoperta ha smentito chi riteneva che gli
uomini preistorici si fossero cimentati nell’agricoltura
con grano, orzo e legumi, circa 10mila anni fa. A
seguito di alcuni ritrovamenti in Cisgiordania, alcuni
ricercatori israeliani ritengono possibile che già 1.000
anni prima gli abitanti di Gerico fossero in grado di
piantare alberi di fico, che sarebbe dunque il primo
albero piantato da mani umane. La facilità nella
coltivazione e i miglioramenti notevoli nel gusto del
frutto dovuti a ulteriori mutazioni potrebbero
spiegare il perché il fico iniziò a essere coltivato
cinque millenni prima di altri alberi, come ad esempio
l'ulivo. Un fondamentale passo in avanti, che portò
l'uomo a cambiare in modo attivo l'ambiente e a
trasformarsi da cacciatore e raccoglitore in
agricoltore.
Una coltura che però inizialmente non interessava la
Roma repubblicana: i fichi infatti venivano importati
dalle coste africane e probabilmente furono introdotti
gli alberi nella penisola per non dover pagare il tributo
del trasporto ai Fenici ed ai Cartaginesi. È celebre
l’episodio di cui fu protagonista Catone, che
mostrando al senato dei fichi colti tre giorni prima
sulle mura di Cartagine fece toccare con mano la
breve distanza dei nemici di Roma: secondo la
tradizione quindi, fu un fico la causa dell’assedio e
della distruzione di Cartagine.
Nutrienti e versatili: le virtù del fico
Dolcissimi, verdi e ricchi di sapori, questi frutti
ermafroditi sono amati da grandi e piccini, deliziosi
appena colti dall’albero, ancora gocciolanti del loro
latte appiccicoso. Oltre ad essere gustosissimi i fichi
sono dei frutti completi, ricchi di vitamine, ferro,
potassio e fibre, in particolar modo se sono secchi.
Un frutto mineralizzante, energetico e ricostituente,
dallo spiccato sapore dolce. Secondo Plinio “aumenta
la forza dei giovani, migliora la salute dei vecchi e
riduce le rughe”. È un fatto che erano alimento di
atleti e convalescenti in quanto altamente calorici e di
facile digeribilità. Platone li raccomandava per
“rinvigorire l’intelligenza”, utili alleati nel combattere
l’astenia nervosa. La scienza ne ha recentemente
confermato le virtù anticancerogene che la tradizione
popolare gli attribuisce da sempre. Anche il suo latte
(il lattice del fico immaturo) è un prodigio della
natura: ricco di enzimi, veniva usato anticamente per
rendere più digeribile la selvaggina e per far cagliare
il latte nella preparazione dei formaggi. I fichi, un
tempo, costituivano spesso la base di merende e
spuntini, ma li ritroviamo impiegati anche in
numerose ricette antiche e pasti frugali, per lo più
composti di pane d’orzo, formaggio di capra e fichi.
Paolo Gasparin

22
PROSCIUTTANDO SUI COLLI BERICI
Protagonisti il prosciutto, l’olio d’oliva e il tartufo: tre sapori semplici che hanno incantato Nanto
Tre prodotti tipici dell’Area Berica sono stati i protagonisti della 24°
edizione della manifestazione “Prosciuttando”, svoltasi a Nanto dal 30
giugno all’8 luglio scorso: il prosciutto, l’olio d’oliva ed il tartufo. Tre
prodotti che si sono intersecati in una serie di proposte culinarie dal
sapore tradizionale e al tempo stesso ricercato. Un incontro gastronomico
che ha trovato degna espressione e valorizzazione nei piatti
preparati dall’ “Equipe Cuochi Veneti”, presieduta dall’esperto Tino
Savio, in occasione della serata gastronomica di qualità “Gran Galà degli
Chefs”, a cui hanno partecipato autorità a livello provinciale e regionale.
“Quest’anno – ha spiegato Savio – si è cercato di puntare su piatti
semplici, che riscoprissero le vecchie ricette di una volta, successivamente
arricchiti ed elaborati con scaglie di tartufo, un filo d’olio o del
prosciutto a seconda delle esigenze, in modo da prediligere più il profilo
gustativo che l’aspetto estetico”. Con questo spirito, sono stati
presentati gli “gnocchi con la fioreta”, piatto tipico della Lessinia e delle
alte valli vicentine (la fioreta è una ricotta semiliquida prodotta dal siero
del burro) che sono stati insaporiti dall’aggiunta di tartufo; piuttosto che
un’insalatina di verdure bollite di stagione, semplicemente condita con
olio d’oliva ed il cosciotto per secondo. Per non parlare, poi del dessert:
un tortino a base di riso, ricotta ed uvetta accompagnato da gelato
all’olio d’oliva e salsa di marasche, opera del pasticcere campione del
mondo, Diego Crosara. Nel corso della serata, è stato proclamato,
inoltre, come nuovo confratello della Confraternita dell’Olio e del Tartufo
dei Berici, il cuoco di prestigio nazionale Amedeo Sandri.
NUOVE IDEE PER GUSTARE IL PROSCIUTTO
La rassegna gastonomica ha raggiunto però il suo culmine nella giornata
dell’8 luglio presso il prosciuttificio “King” di Sossano, dove si è svolta
l’ottava edizione del concorso culinario per piatti innovativi
“Prosciuttando – Nuove idee per gustare il prosciutto: l’arte culinaria
incontra il re della salumeria italiana”, da quest’anno in edizione
nazionale e organizzato in collaborazione con la Federazione Nazionale
Cuochi. L’iniziativa, nata per stimolare la creatività degli chef e favorire
lo sviluppo di una cultura del prosciutto, ha portato alla premiazione
delle migliori ricette a base di prosciutto, tra cui “la ricetta del
Centenario: un piatto da re” che è stata assegnata a Franco Rubino,
cuoco dell’Hotel Savoi di Paestum, in provincia di Salerno, che ha
proposto: “branzino con zucchine grigliate e saltinbocca con coda di
rospo”.
Il concorso, suddiviso nelle categorie “Under 23” e “Professionisti”, si è
articolato in diverse tipologie di programma (il programma A e B per gli
“Under 23” e i “Professionisti”, il programma C solo per i
“Professionisti”). È stato premiato, come primo classificato, per la
categoria unica su presentazione di tutti e tre i programmi, Fabrizio
Bicego, mentre il secondo posto è andato a Sergio Trevisan. Nella
categoria “Under 23”, il programma A (idee da paninoteca) ha visto la
vittoria di Chiara Toffoli, mentre il programma B (menù composto da tre
portate) di Matteo Sberze. Nella categoria “Professionisti”, si sono
distinti Claudio Ballardin per il programma B e Franco Rubino, appunto,
per il programma C (ricetta del centenario: piatto festivo per quattro
persone).
Alice Franceschi
Lo Chef Tino Savio Il Presidente della Pro Loco di Nanto Lucio Penzo

Pagina a cura della Cantina Beato Bartolomeo
PROSECCO-MARZEMINO: INTRIGANTI BOLLICINE ROSA
Oscar Fontana di “Casa Lidia” presenta il nuovo
spumante Beato Bartolomeo
abbinandolo ad un raffinato petto d’anitra marinato
Casa Lidia è un’enoteca con cucina. Un locale diverso da tutti gli altri che
nasce da una domanda che si è posto Oscar Fontana, il figlio più giovane
del compianto Francesco: “Che locale piacerebbe a me? Un posto
informale, in cui degustare prodotti del territorio abbinandoli ai vini che,
se mi piacciono, posso anche portarmi via”.
Da qui è nata l’idea di Casa Lidia, in cui Oscar e la moglie preparano
cicchetti, taglieri di affettati e formaggi con le confetture fatte in casa, un
piccolo e ricercato menu con primi e secondi piatti. Il tutto in abbinata ad
Oscar Fontana
una carta con 150 etichette. “La nostra attenzione – prosegue – è principalmente
sul territorio: abbiamo tutte le aziende del Consorzio di Breganze”. A Casa Lidia un enoturista
o un viaggiatore di passaggio può trovare così una panoramica di tutti i vini della zona doc. Una formula
che sta incontrando sempre più il favore del pubblico.
Un posto di primo piano spetta naturalmente alla Cantina Beato Bartolomeo. “Abbiamo – spiega Oscar
– tutte le referenze delle linee Savardo e Bosco Grande: sono conosciute e stimate dai nostri clienti e
quindi si vendono bene anche da asporto. Poi lavoriamo molto con i frizzanti, in particolare le versioni
frizzante e spumante del Vespaiolo. Ora questo nuovo Prosecco-Marzemino Rosé è davvero un prodotto
interessante: profumato e di buon corpo, un vino che ci lascia ampio spazio alla fantasia negli
abbinamenti”.
Petto d’anitra marinato con arancia e melissa
e caponatina di verdure
Ingredienti per 4 persone:
1 petto d’anitra
1/2 bicchiere di Brandy
un’arancia
un ramoscello di melissa
melanzana, un peperone giallo, un peperone rosso,
una carota, due zucchine,
un porro
aglio, olio
Mettere il petto d’anitra in una teglia antiaderente, cospargerlo con il brandy e il succo dell’arancia. Cuocerlo in
forno a 200° per 15 minuti, affinché resti rosato al suo interno. Scalopparlo a fette fine, quindi aggiungere la buccia
dell’arancia tagliata alla julien e le foglie di melissa. Cospargere il tutto con olio d’oliva e lasciare marinare per 2 o
3 ore. Tagliare a cubetti le verdure e farle saltare in padella tipo per tipo con filo d’olio e uno spicchio d’aglio.
Metterle in uno stampino, lasciare raffreddare e comporre il piatto con le fette d’anitra come nella foto.
Il Prosecco-Marzemino spumante
extra-dry è l’ultimo nato in casa Beato
Bartolomeo. Nasce dall’esigenza di
dare una risposta “di territorio” alla
crescente domanda di vini rosé con
l’unione di due vitigni coltivati da
sempre sulle colline breganzesi.
Presenta una spuma soffice ed
evanescente, perlage fine e
persistente. Il colore è rosa brillante,
con una tonalità che ricorda quella del
salmone. I profumi sono complessi,
con predominanza di frutta fresca,
note marcate di frutti di bosco, ciliegia
e pesca.
In bocca è piacevolmente equilibrato,
fresco e vellutato, con leggero
retrogusto di mandorla.
Ottimo come aperitivo, ben si abbina
ai piatti di pesce, crostacei e
molluschi.
L’accostamento con l’Anitra marinata
proposta da Casa Lidia esalta le sue
doti: i profumi di arancia e melissa
incontrano quelli del suo bouquet, il
residuo di amabilità proprio dell’extra
dry concorda con il dolce dell’arancio,
mentre la bollicina fine ben deterge
dal grasso dell’anitra.
23

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abc
di Amedeo Sandri
A TUTTO VAPORE
Antico di millenni,
ma oggi più che mai moderno.
La storia, i vantaggi e la pratica per
un perfetto e sano metodo di cottura
Francia, inizio Ottocento. In casa di certi parenti del filosofo-gastronomo
Anthèlme Brillant Savarin si presenta un problema analogo a quello che
un paio di millenni prima aveva afflitto l’imperatore romano Domiziano
e la sua corte: come cuocere il rombo, un pesce dalla forma “scomoda”
e dalle dimensioni eccezionali. Il problema non era, ovviamente, con
quali salse o spezie accompagnarlo, ma proprio “dove” cucinarlo in
mancanza di recipienti idonei.
Mentre le notizie sulla fine del pesce imperiale sono piuttosto confuse,
pare che Brillant Savarin, per la fortuna dei suoi commensali, non
avesse dubbi. Il pesce andava presentato, e quindi cotto, intero. Venne
prontamente apprestato una sorta di enorme graticcio cosparso di erbe
e bulbi sul quale fu adagiato il gigantesco pesce, ben lavato, asciugato
e salato. Il tutto fu poi posato sulla bocca di una grande caldaia piena a
metà di acqua bollente e coperto quasi ermeticamente; il risultato fu un
pesce perfettamente cotto in breve tempo, e anche migliore del solito.
Et voilà la delicata cottura è già tutta qui. In realtà bisogna attendere il
1970 perché anche il grande pubblico cominci a conoscere e prendere
confidenza con questo metodo di cottura che nel frattempo diventava
internazionalmente noto come il vessillo della Nouvelle Cousine. Ed è
proprio la maggiore attenzione che negli ultimi decenni si è data all’alimentazione,
come elemento per una buona salute, ad aver decretato il
definitivo successo di una cottura sui cui pregi tutti si trovano d’accordo,

sia che avvenga nei classici cestelli, sia nel più recente forno a vapore.
Grazie al vapore i cibi non solo restano “morbidi”, ma nemmeno si
“attaccano” ai tegami, permettendo l’uso di meno grassi o addirittura di
eliminarli. Le proprietà nutritive vengono perfettamente conservate
(quando le verdure si lessano - per esempio - vitamine e sali minerali si
disperdono in gran parte nell’acqua), i tempi si riducono, i sapori restano
immutati.
Se in Europa si è in qualche modo tardato ad adottare questo metodo di
cottura, altri Paesi lo avevano già fatto loro da gran tempo, da millenni
addirittura. È il caso della Cina con i suoi antichissimi ed immutati cestelli
di bambù dai quali escono, cucinati perfettamente e delicatissimi, piatti
eccellenti come i Chio Tse, ineguagliabili ravioli al vapore, il pollo al
ginger, i tantissimi filetti di pesce, i crostacei, gli sformati. Il Nordafrica
non è da meno e cucina da secoli il suo piatto forte il couscous, in uno
strumento, la couscossière appunto, anch’esso a cestelli sovrapposti, di
materiale diverso, originariamente terracotta: agnello o montone,
verdure, legumi e semola fondono perfettamente i loro aromi spinti dal
vapore e insaporiti alla fine da una forte salsa al peperoncino. Ma anche
nel centro America piuttosto che in Estremo Oriente gli esempi di cucina
al vapore sono numerosissimi, dal granchio caraibico farcito, ai filetti di
pesce in foglie di banana di cambogiana memoria, tutti gli alimenti
vengono esaltati da questa cottura.
A tutto vapore
Se pesci e verdure, delicati più di altri, trovano in questo modo la loro più
grande esaltazione, anche altri cibi se ne avvantaggiano: le carni di
maiale restano più morbide, le polpette sono buone come quelle fritte e
meno... trasgressive. I dolci poi “vanno forte” a vapore: oltre all’inglesissimo
pudding, già tradizionalmente cotto in questo modo, anche budini
charlottes, creme e composte escono ancora migliori, ove possibile.
Vaporiere elettriche e da fuoco, cestelli di metallo sovrapponibili e forni a
vapore ultramoderni si trovano oggi ovunque, anche se c’è chi non
abbandona i tradizionali, esili cestelli di bambù dove tre o quattro alimenti
diversi riescono a cuocere contemporaneamente a diversi livelli.
Ragioni salutistiche a parte (ma sempre importantissime), qualche
indicazione di tempi servirà a convincere anche i più restii: un’orata di
circa 1 kg riesce a cuocere al vapore in una ventina di minuti, le costolette
di maiale in circa 10 minuti, le carotine intere in un quarto d’ora. Non ci
sono nemmeno difficili istruzioni da seguire: bastano un contenitore,
dell’acqua, dei cestini forati da sovrapporvi, un coperchio… Per finire, i più
raffinati usano insaporire con erbe, aromi e quant’altro l’acqua della
pentola, da cui si sprigionerà così un vapore “profumato” come l’alimento
da cuocere richiede o suggerisce. Ingegnoso e gustoso oltre ogni dire:
bontà e leggerezza “a tutto vapore”.
Amedeo Sandri

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Le pietanze dimenticate a cura di Luciano Rizzi
DOLCI TRADIZIONALI CADUTI IN DISUSO
Chi si ricorda dei Bigarani? Chi ha mai assaggiato Pandoli, Forti, Rufioi, Monchi e Sugoli?
Sono sicuro che se si domanda ad un vicentino cosa sono i Bigarani,
nessuno, o molto pochi, sanno rispondere. Eppure un tempo era un
biscotto assai noto ed usato, perché era considerato scaramantico.
Infatti, veniva benedetto e distribuito con l’augurio che tenesse sano
l’apparato della deglutizione, accompagnato dalla seguente
giaculatoria: “Magna pian, con devossion, che san Biasio te tegna san
e ch’el te salva el canal de la minestra”.
Si ringrazia la
Pasticceria
Dolci Pensieri di Schio
per la foto
dei Rufioi e dei Pandoli
Come detto, sono dei biscotti e si preparano impastando acqua,
farina bianca e lievito, si lavora questo impasto aggiungendovi uova,
zucchero, burro fuso e sale.
Quando è diventato bello morbido, si fanno dei bastoncini, delle
ciambelline, delle esse o altre forme a piacere. Si infornano per 15-
20 minuti, si lasciano raffreddare, si spennellano con bianco d’uovo
sbattuto affinché divengano lucidi e si rimettono in forno perchè si
biscottino. Più noti sono invece quei biscotti simili che, penso,
qualche pasticceria di Schio confezioni ancora e che sono noti col
nome di Pandoli.
Se a Vicenza c’erano i Bigarani e a Schio i Pandoli, a Bassano c’erano
invece i Forti, una specie di panpepato che, ritengo, si trovi ancora in
commercio nella città del Grappa, così come ritengo si possano
ancora trovare i cosìdetti Rufioi. Sono dei biscotti a forma di
fagottino, in pasta sfoglia con all’interno mostarda o marmellata per
accontentare sia chi preferisce il piccante oppure il dolce.
Completamente abbandonata e sconosciuta ai più, è invece una
ricetta probabilmente di origine cimbra e quindi, un tempo, molto
usata nell’alto delle nostre valli per fare una specie di gnocchetti,
chiamati Monchi.
Si procedeva facendo bollire del latte intero nel quale si versava della
farina gialla macinata grossa, si cucinava come una comune polenta
per circa 40 minuti, incorporandovi del burro, dello zucchero, uvetta,
pinoli e sale quanto basta. Della polentina così preparata si
formavano degli gnocchi, servendosi di due cucchiai, si disponevano
in un piatto unto di burro e si spolveravano con zucchero e cannella.
Abbandonata, forse per ragioni estetiche, in quanto si presentava con
un colore paonazzo non invitante, è la confezione di un altro dolce
tradizionale: i Sugoli.
Era un dolce che veniva fatto quando si folava (pigiava) l’uva perché
il componente fondamentale era proprio il mosto, notoriamente molto
dolce. Il mosto doveva essere di vino rosso (non so se si sia mai
provato a farlo con mosto di vino bianco, forse sarebbe il caso di
tentare per superare l’impatto cromatico). Si faceva bollire il mosto,
vi si lasciava cadere a pioggia farina bianca e zucchero e si lasciava
bollire per 7-8 minuti dopo di che si versava in piatti fondi e si
mangiava accompagnato da biscotti secchi.

SCHEDA VINO SANVALENTINO
SUMMAS (NOBILE)
CLASSIFICAZIONE: Vino GARGANEGA IGT VENETO
DESCRIZIONE: vino di colore giallo paglierino brillante il profumo e delicatamente
intenso con sapore sapido e vellutato. Prodotto con uve garganega
selezionate e leggermente apassite con una pre macerazione a freddo delle
vinacce che permette di estratte la nobiltà dei profumi della buccia.
Segue una fermentazione a temperatura controllata e la maturazione
in serbatoi in acciaio.
ABBINAMENTO: si presta a essere servito come aperitivo, primi piatti,
salumi, carni bianche, pesce.
PROVENIENZA: da vigneti storici di proprietà, di età media 40/50 anni.
VITIGNO: GARGANEGA - RESA Ha: 50 hl
VENDEMMIA: mese di settembre.
VINIFICAZIONE: le uve vengono raccolte ad una maturazione semi tardiva.
Vino prodotto con uve garganega selezionate e leggermente apassite
con una pre macerazione a freddo delle vinacce che permette di
estratte la nobiltà dei profumi della buccia.
La fermentazione in bianco avviene con controllo della temperatura,
segue la svinatura e la maturazione in serbatoi di acciaio. Prima di essere
posto in vendita il Summas matura in bottiglia per almeno sei mesi.
Risotto alle verdure con fiore di zucchina ripieno di capasanta
Ingredienti per 6 persone: 450gr. di riso arborio, 100gr. di piselli, 2 zucchine, 2
gambi di sedano, 2 pomodori maturi, 6 fiori di zucchina, 3 capasante, 1 cipolla,
1 calice di vino Summas cant. Sanvalentino, olio extravergine d’oliva q.b, brodo
vegetale q.b Preparazione: Preparare il soffritto di cipolla, con esso le verdure
tagliate a dadini precedentemente scottate a vapore, tostare il riso e bagnarlo
con il Summas per poi cucinarlo per 18-20 minuti con abbondante brodo. Nel
mentre gratinare al forno la capasanta avvolta nel fiore di zucchina per 8-10
minuti. Presentazione: Risotto alle verdure, con sopra il fiore di zucchina ripieno,
guarnito di dadolata di verdure e goccie d’olio-prezzemolo.
Ricetta creata da Luca Dal Lago chef del ristorante “Al Torcio” di Chiampo

A
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nguilla
al tartufo
Foto di Giuliano Francesconi
La rubrica Arte in Tavola è a cura
del Prof. Piergiorgio Casara “filosofo enogastronomo"
e della prof. Cristina Borin “docente di storia dell'arte”
La presentazione offre due possibili soluzioni, sintetizzate in un grande
piatto decorato in blu, il cui colore richiama il mare e allude alla
freschezza del pesce. La preparazione in alto a sinistra, di maggior
effetto e più appropriata per un antipasto, è giocata sulla variazione
cromatica molto decorativa del rotolino di anguilla, ricco di sapori morbidi
e grassi, perfettamente concluso nella forma circolare e bilanciato, non
solo visivamente, dal ventaglio di fettine di mela acidulate con succo di
limone, fresche e croccanti. La preparazione in basso a destra si presta
più ad un secondo piatto caldo e fragrante ed è costruita attorno allo
sformatino di polenta, che armonizza cromaticamente con l’anguilla
sfilettata e dorata a pezzetti e con le scaglie di tartufo, che servono di
guarnizione e di accompagnamento.
Significati culturali, antropologici e psicologici del colore
Bianco, nero, blu e viola rappresentano le “ultime” tonalità dello spettro
nel suo ordine naturale dei quali ci occuperemo in questo numero (dopo
rosso, arancione, giallo e verde analizzati nei n°11 e 12).
Bianco e Nero
Sono innanzitutto i colori delle farine dei cereali nobili o rustici.
Rappresentano prevalentemente la contrapposizione tra valori positivi e
valori negativi, così come il pane bianco dei ricchi si contrapponeva in
passato ai pani neri, pesanti e spesso sgradevoli dei poveri, che
disponevano solo di cereali minori come la segale, l’avena e il farro.
Inutile sottolineare come mode recenti abbiano riproposto e valorizzato
questi ultimi alimenti, fino all’affermazione come scelta di tendenza.
Rimane comunque il fatto che il nero in cucina suscita quasi sempre

diffidenza ed ostilità, tanto che la sua presenza è veramente minima:
unica eccezione, se pure ancora con cautela, l’inchiostro di seppia.
Più frequenti sono alcuni toni molto scuri del marrone, effettivamente
vicini al nero, come il colore del caviale, del tartufo, di alcune specie
di selvaggina cotte allo spiedo: si tratta evidentemente di cibi
particolari, riservati a occasioni specifiche, ben lontani dal consumo
quotidiano.
Molto più rassicurante il bianco: dalla farina si ricava la pasta; le
carni bianche di pollo e coniglio sono particolarmente delicate; il
lardo vanta un’antica tradizione di consumo; il latte è per
antonomasia il nutrimento materno e di un’infanzia ricca e felice; i
formaggi trovano infinite possibilità di impiego in ogni occasione
alimentare. Bianco è anche il colore dello zucchero e del sale,
condimenti della vita.
Blu e Viola
Il blu è difficilmente rinvenibile nei nostri alimenti: compare come
pigmento della buccia di alcuni frutti (mirtilli) o nella terminologia
che definisce alcune specie marine (pesce azzurro). Tuttavia, come
consumatori non ci soffermiamo particolarmente su questa dote
cromatica, infatti dei mirtilli apprezziamo senz’altro il succo rossoviolaceo
e delle sarde ammiriamo la livrea argentea dai bagliori
metallici. Non c’è niente da fare: nell’alimentazione il blu si associa
alla putrefazione, suscitando disgusto e repulsione; o, nella migliore
delle ipotesi, alla muffa, provocando reazioni di cautela.
Il viola, tipico della buccia delle melanzane, perde colore nella
preparazione dell’ortaggio. Altrimenti, nella colorazione violacea di
alcuni frutti (more, uva, prugne) siamo portati a valorizzare le
componenti più calde, tendenti al rosso.
In ogni caso, la nostra percezione dei colori in rapporto al cibo è
fortemente influenzata, oltre che dal patrimonio culturale del
luogo a cui apparteniamo (nel quale possono essere disponibili o
addirittura comuni dei cibi di colore del tutto particolare), da
esperienze personali più o meno felici e dalla nostra ricettività all’informazione
e alla moda. Ad esempio, il ricordo sgradevole di un’indigestione,
associato ad un colore specifico, può allontanarci da tutti i
cibi della stessa gradazione. È anche vero, però, che la partecipazione
a particolari occasioni di festa può indurci a superare alcune
remore: nel contesto di un party o di un ricevimento un po’
eccentrico, potremmo anche assaggiare un sugo di un bell’azzurro
intenso. Quanto alla moda e all’informazione, ormai sistematica su
alimenti i più esotici o di nicchia, se è vero che determina l’abuso
inflazionistico di alcuni sapori, ha però anche il merito di aiutarci a
familiarizzare con cibi a noi estranei e a vincere alcune diffidenze. Per
esempio, l’acquisizione del tartufo nero come un ingrediente
prelibato deriva sicuramente dal passaggio di informazioni, dato che
visivamente non risponde ai requisiti di appetibilità né per il colore,
nero, né per il profumo, che ricorda vistosamente l’odore del gas, né
per la consistenza materica legnosa, rugosa, filamentosa. Se non
sapessimo che è di fragranza squisita, a vederlo non lo mangeremmo
di certo. Lo stesso passaparola ha recentemente vistosamente
incrementato il consumo della “trombetta da morto”, un fungo di
colore nero, capace di tingere intensamente il risotto.
Anguilla al tartufo
Tempo di esecuzione 30 minuti
Dosi per 6/8 persone
Ingredienti
• 1 anguilla di circa un kg già spellata
• 1 spicchio d’aglio
• un mazzetto di prezzemolo
• olio extravergine di oliva
• 1/2 bicchiere di marsala
• 1/2 bicchiere d’acqua
• 1 tartufo di 20 gr
• sale e pepe
Tagliare l’anguilla a pezzi di 5/6 cm,
incidere lateralmente e togliere la
lisca. In un tegame basso e largo,
versare due o tre cucchiai d’olio,
l’aglio intero schiacciato, il
prezzemolo tritato, l’acqua e il
marsala e far insaporire per 5 minuti.
Aggiungere i pezzi di anguilla e farli
cuocere per 5/6 minuti, rigirandoli
delicatamente. Aggiustare sale e
pepe e terminare con il tartufo a
lamelle. Tenere sul fuoco per ancora 1
minuto. Servire l’anguilla su una
Arte in tavola
cucchiaiata del fondo di cottura,
guarnendo con una fettina di polenta
riscaldata in forno. Per rendere più
piacevole la presentazione, tagliare la
polenta con uno stampo da biscotti a
piacere, oppure usare stampini
monoporzione da budino.
Per i rotolini di anguilla (come si
vede nella foto)
Appiattite il più possibile la polpa del
pesce con il batticarne, quindi
salatela, pepatela e farcitela con
lamelle di tartufo (insaporendo, a
piacere, con un trito di prezzemolo ed
erba cipollina) racchiudendola poi in
un foglio bagnato di carta da forno e
quindi con uno di stagnola. Legate il
rotolo a mo’ di salame e fatelo
cuocere in forno già caldo a 180° per
una ventina di minuti, appoggiandolo
su delle coste di sedano schiacciate e
qualche foglia di alloro. Servite come
nella foto riprodotta qui accanto.
Vino consigliato: Sauvignon “Vigneto
Fostine”, Piovene Porto Godi, Villaga
(Vi)
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5
La Sopressa
e la sua etichetta…
Quando si dice sopressa… ognuno di noi conosce la più buona? Ma è
proprio vero? Ne abbiamo provate per voi cinque. Con un finale a
sorpresa.
Abbiamo sottoposto cinque sopresse commerciali e fatte degustare alla cieca ad
un panel di esperti.
1) sopressa vicentina dop di kg 2,5 tre mesi di stagionatura acquistata in un
salumificio del consorzio Sopressa vicentina dop;
2) sopressa sempre da 2,5 kg 8 mesi di stagionatura prodotta e distribuita a
livello provinciale da un agriturismo;
3) sopressa vicentina dop da 1 kg 3 mesi di stagionatura prodotta da un altro
salumificio del consorzio diverso dalla prima;
4) sopressa artigianale, di fatto è stata scartata in quanto era un prodotto non
regolarmente commercializzato e quindi non rilevante dal punto di vista
valutativo;
5) soppressa da 0,800 kg prodotta nel vicentino e distribuita nella gdo, sulla cui
etichetta, a differenza di tutte le altre, si trova tra gli ingredienti la presenza di
destrosio e acido ascorbico.
Il prezzo all’ingrosso variava da 10,00 euro sino ad un massimo di 14,00.
Abbiamo chiesto ai nostri esperti di compiere una valutazione che coinvolgesse
tutti i sensi. Ovvero:
Visivo: Aspetto esteriore, colore al taglio, omogeneità dell’impasto, dimensione
della grana.
Olfattivo: stagionatura, speziatura, odori anomali.
Gustativo: dolcezza della carne, presenza di sale, acidità, intensità del gusto.
Tattile: consistenza e solubilità delle carni alla masticazione.
Inoltre sono state inserite altre due valutazioni: la prima è l’equilibrio tra profumi
e aromi con il desiderio di assaggiarne ancora, la seconda è la corrispondenza
tra l’immagine della sopressa tipica dei ricordi con quella assaggiata. Il fine non
era quello di dare una definizione qualitativa assoluta e astratta, ma definire la
percezione di qualità, di tipicità, di buona sopressa.
Ognuno degli esperti ha avuto una scheda dove assegnare un propria valutazione
in centesimi e questa variava in percentuale all’importanza della fase
degustativa.
Finita la valutazione per ogni sopressa è stato fornito quindi peso, ph e

temperatura di servizio,
denominazione, certificazione, lettura attenda dell’etichetta con
valutazione degli ingredienti,
produttore, distributore, prezzo. Ma tutto questo non ha influenzato i
nostri degustatori, oramai tutte le valutazioni del caso erano state
fatte e le schede ritirate.
I risultati
Come sempre accade in queste occasioni, nulla è dato per scontato e
la scoperta del produttore e della tipologia di sopressa è sempre il
momento più atteso.
Il miglior punteggio è stato realizzato dalla sopressa numero 3,
prodotta da un salumificio aderente al consorzio Dop.
Ma sul fatto dei punteggi finali non sono mancate le sorprese e questo
ci porta alle nostre considerazioni: desideriamo sottolineare che la
sopressa n° 5 (quella che conteneva destrosio e acido ascorbico) ha
avuto una importante valutazione, e questo che vuol dire? Che gli
assaggiatori non erano all’altezza? No assolutamente. Più semplicemente
che additivi e tecniche industriali riescono sempre più ad
ingannare anche il palato più attento, che per tutti i prodotti dobbiamo
imparare leggere attentamente l’etichetta informarci e conoscere i
prodotti in modo assolutamente approfondito, di valutare di volta in
volta i nostri acquisti, ritornare al buono vuol dire che bisogna
imparare riconoscere la qualità, allenare il nostro palato, ma
essenzialmente leggere attentamente l’etichetta, perché non sempre
è buono ciò che può sembrare tale.
Attenzione all’etichetta
Con questo abbiamo voluto dimostrarvi quanto importante è un’etichetta
chiara trasparente con tutte le indicazioni utili ed indispensabili
per comprendere appieno il valore del prodotto che ci accingiamo
acquistare.
Dovete sapere
Che la buona legge 204 sull’etichettatura degli alimenti, generata da
una iniziativa popolare e promossa da Coldiretti, sostenuta con
milione e mezzo di firme e approvata in modo compatto il 3 agosto
2004. In parlamento è in discussione, per un allineamento alla
comunità europea si vorrebbe l’abrogazione di alcuni articoli che
impongono la dicitura “italiano” sulle etichette di numerosi prodotti
alimentari.
Vorrebbe dire che domani un prodotto importato potrebbe facilmente
essere spacciato per italiano.
Roberto Gasparin
Difendiamo l’etichetta! Vogliamo conoscere l’origine dei
prodotti che mangiamo.
Su www.slowfood.it e su www.coldiretti.it si può firmare
questo appello.

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LL '' ooppiinniioonnee
di Terenzio Panozzo
Ci sono vitigni e relativi vini che trovano condizioni ideali di
coltivazione in quasi tutto il mondo, che danno vini di qualità, ma non
necessariamente uguali. Parlo dei vari Cabernet, dei Pinot, del Sirah
ed altri di chiare origini francesi. Nella produzione di questi vini si
assiste spesso ad un fenomeno di omologazione dei gusti, quasi una
imposizione di metodi e di materiali. Parlo dell’utilizzo della barrique
che divide schiere di detrattori ed amanti dei vini affinati in questi
legni pregiati. Non entro nel merito, che è quanto mai soggettivo.
Vorrei parlare dei nostri produttori che per affrancarsi da queste mode
o tendenze cercano di provare nuove strada sfruttando un patrimonio
tipicamente italico delle varietà di vitigni e uve autoctoni, vale a dire
che crescono solo da noi. Nella ricerca della migliore valorizzazione di
queste uve c’è sicuramente una strada percorribile per affermazioni di
mercato, difficilmente comparabili in altre zone al mondo. È
certamente una politica lodevole che presenta aspetti di novità e
quindi aperta a nuove prospettive di mercato. Come sempre però la
prudenza è d’obbligo, poiché il rischio può essere quello di una specie
di autoriconoscimento magari poco esportabile. Sono convinto che un
Merlot del Medoc sia decisamente diverso dallo stesso Merlot di Sicilia
e via discorrendo. Perciò la tipicità dei nostri vini può differenziarsi per
le caratteristiche loro date dalla terra, dal clima, e quindi in questo
senso trovare un valore autoctono. Questo si comparabile agli stessi
vini prodotti nel mondo e da questi distinguibili.
La nostra fortuna è questa: i vitigni autoctoni possono rappresentare
una ulteriore opportunità, ma per il momento non una scena primaria.

Come tutte le mattine Giacomino si svegliava presto, metteva le “braghe” di fustagno, la camicia
a quadri, scarponi, bastone e cesto alla mano e si avviava nel bosco a cercar funghi.
Ma quella mattina di maggio era mattina diversa, il cielo era terso e il bosco fresco, una brezza
accarezzava il suo viso e la luce dell’alba penetrava tra i rami, attorniata da un silenzio assoluto,
persino strano. La ricerca fino a quel momento era stata infruttuosa. Stava ormai per riprendere
la via di casa, quando il primo raggio di sole lo colpì negli occhi: un ronzio leggero attirò la sua
attenzione e con la mano sulla fronte per proteggersi dal bagliore scorse il suo futuro.
Mai vista una cosa simile: sul ramo di un ciliegio vide un meraviglioso sciame d’api, osservò bene
e ne scorge due, uno accanto all’altro. “Sono bellissimi” pensò. Giacomino ne rimase affascinato,
e incantato osservò le api che lavorano incessantemente per amore dell’ape regina. Non si sa
quanto tempo sia rimasto a guardarle, ma sicuramente tanto.
Come un fulmine a ciel sereno gli balenò una folle idea: recuperare lo sciame per portarlo a casa.
Non pensando a quanto fosse pericoloso Giacomino corse a casa e recuperò un vecchio sacco di
juta, ne fece due fori ai lati e lo indossò “sì, questo potrebbe funzionare” si disse fra sé.
Recuperata una vecchia cassetta per la frutta, ritornò velocemente nel bosco dove le api lo
attendevano. Lui, così ridicolo con quel sacco infilato a braccia e mani nude, si avvicinò. L’odore
polveroso del sacco non lo infastidiva, tanto era preso da tale bellezza. Il ronzio giunse come una
dolce melodia, toccò l’alveare e ne sentì il calore, mentre le prime api disturbate iniziavano a
pungerlo; ma il dolore è nulla dinnanzi a quell’idea meravigliosa partita dal cuore. Così, con
delicatezza e dolcezza le depose in quell’arnia di fortuna. Il dolore è grande con quelle braccia
tumefatte dalle punture, ma la gioia nel cuore prevale su tutto.
È così che è nata la passione d’apicoltore a Giacomino Marchioro. Oggi, a distanza di 30 anni le
100 arnie della sua apicoltura sono un interessante punto di riferimento. Le ha poste in collina,
a 350 metri di altitudine, in zone prive di insediamenti industriali dove non esiste agricoltura
intensiva, ma numerose sorgenti naturali. Ama le api per cui ha rischiato la vita e vuole per loro
un habitat ideale così, dopo averlo temuto e martoriato di punture ora lo amano e condividono il
suo amore. Giacomino ha un carattere forte, deciso e determinato, e nel suo cuore nutre amore
come per quelle prime api “selvatiche”. Così da aprile ad agosto estrae i favi utilizzando la forza
centrifuga e filtra e decanta il nettare nel modo più naturale possibile per riporlo in vasi pronti
alla vendita. Raccoglie mieli di ciliegio e tarassaco, acacia, tiglio, castagno o melata di bosco, ma
ricava anche pappa reale propoli e polline, tutti prodotti lavorati artigianalmente d’altissima
qualità.
APICOLTURA F.LLI MARCHIORO
Via Milano, 6 - Monte di Malo (VI)
Tel. 0445.589695
La bella storia di GIACOMINO MARCHIORO, apicoltore
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34
L’ unione fa la forza
Un itinerario eno-gastronomico a Belvedere di Villaga ha portato a scoprire
sapori e tradizioni di stagione
Le perle dei Colli Berici
Belvedere
Colli Berici
Paradiso
Sagraro
Albara
Nella collaborazione, “nell’unione che fa la forza” credono fortemente
cinque agriturismi dei Colli Berici: Belvedere, Colli Berici, Da Sagraro,
L’Albara e Paradiso. I loro gestori per ben sei mesi si sono impegnati con
entusiasmo e convinzione per la realizzazione congiunta di un Itinerario
eno-gastronomico a Belvedere di Villaga tenutosi lo scorso 28 giugno
presso l’omonimo agriturismo.
Con la complicità di una fresca serata al chiaro di luna e delle locali
bellezze agresti, i cento partecipanti soci di Slow Food hanno potuto
apprezzare le proposte gastronomiche volute e preparate dagli chef dei
cinque locali che, mirando alla promozione della tipicità e del territorio
e superando piccole gelosie professionali, si sono confrontati e hanno
condiviso un successo apprezzabile.
Tradizionali e ovviamente veneto-vicentini i piatti del menu a partire
dall’antipasto stuzzicante a base di sopressa stagionata in modo
naturale come si faceva una volta, crostini verdi e neri con paté di olive
e zucchine pastellate fritte. A seguire un’inimitabile zuppa d’orzo che,
seguendo un antico rituale dal forte valore simbolico, è stata “segnata”
con una croce di un ottimo olio berico e uno scrigno di melanzane
ripieno di tagliolini al manzo che ha fatto ricordare ai commensali un
piatto povero della cucina contadina.
E poi i piatti di carne. Accanto ad un piccolo letto di polenta al cucchiaio,
dell’ottimo polastro in tecia che, come avveniva in passato, è stato
servito volutamente in prossimità della festività dei Santi Pietro e Paolo,
secondo un’antica tradizione di campagna che seguiva la stagionalità. Il
primo pollo, infatti, veniva cucinato arrosto o in pocio proprio in questa
occasione.
Coniglio al forno con patate novelle e piccolo fascio di teneri fagiolini di
primo raccolto, stretto da una fettuccia di croccante pancetta è stato
l’altro secondo piatto importante.
Senz’altro delicato il gelato al melone e buone le crostate caserecce con
confetture di frutta e le meringhette con cuore di mandorla.
Tre dei ristoratori hanno fornito i quattro vini di accompagnamento,
prodotti con serietà e frutto di scelte professionali ben precise e che
hanno deliziato i palati di tutti: Sauvignon 2006 dell’Az. Agr. L’Albara,
Tocai 2006 dell’Az. Agr. Belvedere, Carmenere 2006 dell’Az. Agr. L’Albara
ed infine un Passito non a caso denominato Val De Dio dell’Az. Agr.
Sagrato, che ha coronato il finale di cena in modo sublime.
La soddisfazione dei soci Slow Food è stata nel riconoscere ai cuochi sia
volontà e capacità di cooperare perseguendo una finalità comune, che
abilità e sapienza nel proporre una cucina che sa risvegliare il mondo dei
ricordi. Una soddisfazione condivisa con il sindaco di Villaga, che ha
anche elogiato il desiderio crescente di Slow Food e degli agriturismi
locali di rilanciare il territorio berico con le sue bellezze naturali e il suo
ricco patrimonio culturale.
Sarina Vaccarella

Pagina a cura di Alberto Zaupa
La carta dei vini de El Tinetto
Ogni ristorante ne dovrebbe avere una, ma quanto difficile è la gestione di una carta di qualità con
un’ampia scelta di etichette. Una carta realizzata con il minimo investimento, sempre rifornita e
aggiornata, magari con etichette di ricerca fuori dai canoni comuni per far esaltare ogni piatto,
qualificando il ristorante per attenzione e professionalità.
Impossibile, direte voi o quanto meno difficile.
A questo scopo sono nate aziende specializzate che gestiscono il magazzino per voi, vi consigliano,
vi aiutano e vi accompagnano nelle scelte più bilanciate, proponendo, oltre ai soliti famosi tante
novità, prodotti che si identificano per l’alta qualità e per l’eccezionale proposta. In molti casi anche
per qualità e prezzo.
Alberto Zaupa con il progetto El Tinetto si propone proprio in questo: il vino è emozione ed è con
questa filosofia che da anni lavora come wine scout. Anni di ricerca nei quali ha saputo selezionare
oltre 300 etichette per soddisfare anche la carta del cliente più esigente.
Immaginate
El Tinetto…
Vino è emozione
El Tinetto è l’evoluzione dell’azienda di famiglia aperta dal nonno Giovanni Battista Zaupa nel 1926 che
lo ha visto come primo concessionario della Recoaro, evoluta poi con Gian Silvano sino gli anni ’90. È
stata trasformata in El Tinetto proprio da Alberto che ha voluto con passione e forza di volontà creare
una realtà di ricerca e commercializzazione di vini che si distinguono per l’alta qualità o per peculiarità
assai interessanti, esclusivi persino rari.
300 etichette, dicevamo: Castello di Ama, Viviani, Gatti, Marsuret, Silvano Follador, Venturini, Cecchin,
La Valentina, solo per citarne alcune, ma le selezioni sono innumerevoli sempre in aggiornamento,
tutte con lo stesso filo conduttore di una spiccata qualità, prodotti dai caratteri complessi, ricercati,
alcuni assolutamente sconosciuti al grande pubblico.
Ed è proprio questo che fa la differenza… facile proporre i soliti famosi… i soliti top ten. Qui sta il valore
aggiunto, poi se si valuta attentamente il servizio, un professionista che sa consigliare, abbinare e
proporre i vini più affini alla vostra cucina e alle esigenze dei vostri clienti, mettete pure in conto che
il magazzino non lo gestite più, valutate pure che non dovete riempirvi le cantine di bottiglie invendute,
tenete presente che una carta dei vini deve essere sempre rifornita ed aggiornata.
Pensate che c’è qualcuno che fa tutto questo per Voi.
Alberto Zaupa
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La gastronomia
africana
Viaggio nel Continente Nero.
Tra leggende e sopravvivenza dal Capo ad Algeri
Parlare di gastronomia africana è quantomeno arduo. È come volessimo
parlare di gastronomia europea o asiatica. Cosa hanno in comune il couscous
magrebino e il bobotie sudafricano? Hanno in comune le stesse cose
che ha la pizza napoletana e il gulash ungherese, o il nasi goreng
indonesiano e il Ciolo Kababe Kubide persiano. Cioè nulla.
L’Africa è un continente talmente vasto e differenziato dal punto di vista
della cultura e della biodiversità che risulta pressoché impossibile pensare
ad un elemento unificante dal punto di vista culinario. O meglio, cercando
bene un qualcosa in comune esiste, come esisteva un elemento unificante
della gastronomia europea del secolo XIX: si tratta di una gastronomia di
sopravvivenza, dove il principale problema non è sempre la qualità del
risultato culinario, bensì la possibilità di avere qualcosa da mangiare.
Non sto parlando, ovviamente, della cucina “occidentalizzata” dei villaggi
turistici o dei lodge dove il turista europeo o nordamericano viene
rassicurato da preparazioni che ricordano solo vagamente la cucina locale
e, viceversa, sono un concentrato di materie prime occidentali, elaborate in
modo internazionale da un cuoco spesso europeo e con un bel nome esotico
che permette al turista di poter dire di avere provato la cucina africana!
Nulla di più falso.

Vicentino
La vera cucina africana è difficile da provare, ha generalmente sapori molto forti che non incontrano
sovente il gusto di noi occidentali. È, come ricordato, una cucina di sopravvivenza che fa tesoro dei prodotti
della terra e degli animali commestibili (quasi tutti!) con una grande differenza rispetto a noi occidentali:
alcuni prodotti sono “tabù”. Ciò significa che non tutto può essere mangiato e ciò che si mangia può
esserlo, a volte, solo in alcuni periodi dell’anno.
Basti pensare ai pastori himba della Namibia che in occasione dei funerali di uno di loro uccidono svariati
bovini per dimostrare la ricchezza e la potenza del defunto, ma non consumano la carne di queste mucche,
in quanto è tabù. Tale carne diventa fonte di cibo delle tribù herero, più smaliziate e meno legate a
tradizioni e proibizioni. O, ancora, ai pastori masai del Kenya e della Tanzania che non uccidono le bestie
per mangiarne la carne evitando, in tal modo, il depauperamento della loro mandria, ma provocano salassi
alle bestie per raccoglierne il sangue che, bevuto, diventa fonte di proteine sostitutive.
Un altro elemento caratteristico ed unificante della cultura gastronomica africana è l’uso delle spezie e
delle erbe aromatiche. Quasi ovunque, da Algeri al Capo, le preparazioni uniscono, all’ingrediente
principale aromi, siano essi dolci o piccanti, ma con una prevalenza: il peperoncino, che pur assumendo
nomi diversi, da piri-piri, a peli-peli, a peri-peri identifica, sempre e comunque il frutto dell’African
Birdseye (o African devil o African red devil), una pianta diffusa in tutto il continente di Capsicum
frutescens, varietà del genere Capsicum a cui appartengono anche i nostri peperoni. L’uso del peperoncino
ha ovunque un utilizzo, oltre che aromatizzante, anche come antibatterico, permettendo la conservazione
a lungo dei cibi preparati. E quest'ultimo particolare è molto importante in un continente dove si
raggiungono le temperature più calde al mondo!
Terzo elemento unificante la cucina africana è che, pur nella sua identità di cucina di sopravvivenza, è al
tempo stesso cucina di “comunione”, intendendo con questo un cucina dove l'occasione di esprimere valori
e simboli della tradizione superano la semplicità o la povertà del piatto. Spesso mangiare insieme vuol dire
per gli africani celebrare la vita. Non importa se quello che si ha davanti è un ricco arrosto o un povero
piatto di tuberi: la condivisione di ciò che si ha diventa l’occasione di festa, di incontro dove anche l’ospite
occasionale è gradito ed accettato al pari dei familiari, confermando, in questo modo, la tradizionale
ospitalità africana.
Mauro Pasquali

Il Cocktail
del mese
Associazione Italiana Barman e Sostenitori Sez. di Ve.
Criss
Composto da:
Lime a pezzi
Zucchero di Canna
4 cl Southern Comfort
5 cl Ginger Ale
1 cl succo arancia
Foglie menta
Preparazione:
Decorazione fantasia
A cura di: Cristian Piccinetti
A.S. Barman A.I.B.E.S. Cocktail team
Macrillo anno
Zero
Lo storico locale di Asiago riparte con
una proposta tutta nuova
L’idea del nuovo Macrillo nasce da Jury Sellaro (già titolare del
Ristorante alla Torre di Fontanelle di Conco) e dal Barman Daniele
Strazzabosco, che hanno unito le loro forze e le loro idee a Stefania e
Maurizio Pennello per rilanciare il Macrillo. Da Asiaghesi per gli
Asiaghesi.
Un punto di riferimento per i residenti quindi, ed una gioiosa realtà per
i tanti turisti dell’altopiano.
Il Macrillo vorrà essere il locale giusto per il piacere di stare assieme
uniti dal sano divertimento e una novità: il ristò, un angolo di piacere
dove gustare le specialità che Jury propone ispirandosi al territorio e alla
ricerca. Si, perché il nuovo Macrillo è anche ristorante, dal mercoledì al
sabato cucina no stop sino alle due del mattino, con una proposta di
qualità attenta al territorio, alle specialità locali e alla tradizione con
qualche variante alla creatività. Una buona carta dei vini e l’intrattenimento
musicale studiato con due soluzioni per i diversi piani del locale
sono la giusta risposta per passare una serata romantica in dolce
compagnia o con gli amici per divertirsi.
Ricevuti dal brillante Daniele, Direttore e Capo Barman del locale, siamo
invitati per un aperitivo
elegante per poi essere
accompagnati con sobrietà al
tavolo del ristò. Il locale è
caldo, elegante ma non
sfarzoso, piacevole, con pochi
tavoli e poltroncine comode
che ci fanno sentire subito a
nostro agio. Non un menù
vastissimo, ma 3 antipasti, 3
primi e 3 secondi, giusti ed
equilibrati, che sanno
soddisfare qualunque
esigenza. La proposta anticipa
l’autunno: incominciamo con
un delicato tortino di porcini
con fonduta d’asiago e, a
seguire, delle gustose
orecchiette con code di scampi
e chiodini, per piatto forte della
serata gustiamo un rotolo di
Una dedica particolare a Gustolocale

faraona con castagne e crema di porto, mentre la
piacevole “Monella” di Braida ci accompagna con
giusto equilibrio a tutto pasto. Un classico, torrone
ghiacciato con cioccolato fondente, conclude
piacevolmente la cena.
Finalmente incontriamo Jury, artefice delle
gustose proposte, simpatico e cordiale ci racconta
com’è nata l’idea: “Dovete sapere che la mia
passione è la musica; sono stato il dj del Macrillo
per diversi anni. La musica con la cucina per me
sono un tuttuno e il piatto del dj non è diverso da
un buon piatto preparato in cucina, poiché tutte e
due rispecchiano l’abilità, la fantasia, l’elaborazione
di più ingredienti… plasmando un piacere
sensoriale. Da qui nasce l’idea: unire,
amalgamare, realizzare tutti i componenti per
allietare tutti i sensi nel corso della serata.”
Quindi cena e poi discoteca?
“Si ma non solo, la notte è lunga. Nel dopo cena
ottimi drink preparati magistralmente da Daniele
ed il suo team, dj selezionati per diverse situazioni
musicali e ospiti d’onore per intrattenere
piacevolmente le serate. Vi anticipo che questa
sera ci raggiungerà Carolina Marconi del Grande
Fratello, anche la vista è un senso raffinato che
deve essere appagato”.
Il locale è stato pensato particolarmente per
i turisti?
“Assolutamente no! Vuole essere un punto di
riferimento per tutti, in primis per i residenti
dell’Altopiano, che si meritano che il Macrillo sia
aperto e pensato anche per tutti coloro che
salgono dalla provincia per una romantica e
divertente serata. Inoltre, vuole essere un servizio
di qualità per i turisti che cercano un locale dove
tuffarsi dopo una giornata passata in questo
meraviglioso altipiano.
Il Macrillo si sta affollando e ci trasferiamo nella
sala più ampia (il locale ha una capienza di 500
posti), dove un delizioso cocktail ci aspetta.
Brillano le luci, la musica coinvolge anche il più
reticente e tutti scendono in pista per due salti; la
serata vola via piacevolmente in allegria ed ecco
che l’attenzione prevale sull’arrivo di Carolina:
bella nella sua semplicità, radiosa e seducente,
cattura l’attenzione di tutti e i tanti flash sono solo
lumini a contorno della regina della serata.
Con simpatia e grazia riceve i fans accorsi con
foto, autografi, sorrisi e dolcissimi baci per tutti.
La serata continua in questa fantastica situazione
e tra gioia ed allegria con giovani e giovanissimi,
belle ragazze ed eleganti signore giungono le 4 in
un batter d’occhio.
Il saluto del dj a conclusione di questa bella serata
è l’invito più bello per un arrivederci a presto.
La discesa del “Costo” ci attende e la percorriamo
con prudenza, mentre i nostri pensieri ritornano ai
tanti momenti belli della serata guardo lo sguardo
del mio compagno: gli occhi brillano di gioia e
serenità… sono lo specchio del Macrillo.
Francesca Filippi
Yuri Sellaro, Carolina Marconi e Daniele Strazzabosco

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Lo sai che...
dell’aragosta si mangia
solo il 30% circa?
Proprio così: si mangia solo il 30% dell’aragosta: il
resto va scartato!
Di più: le aragoste che pesano oltre i due
chilogrammi sono troppo vecchie e, di
conseguenza, stoppose.
Un’altra particolarità è che hanno l’organo
riproduttore da un lato (!) e le femmine si
riconoscono perché, sotto la coda, hanno una
doppia fila di alette che servono a trattenere le
uova. Le migliori sono quelle del Mediterraneo
(Sicilia, Sardegna, Spagna) che si riconoscono
perché hanno delle macchie chiare sul carapace che
non hanno quelle atlantiche o cubane. Vivono fino
a 200 metri di profondità mangiando pesciolini,
piccoli crostacei, erbe ed hanno due nemici giurati:
il polipo e la murena. Una femmina fecondata porta
fra le 120 mila e le 150 mila uova, vive in media 50
anni e cambia, in gioventù, la corazza anche due
volte all’anno, restandone sguarnita per circa 8
giorni. Se pesa 1 chilo ha circa 40 anni.
Una curiosità: si crede che il termine “aragosta in
bellavista” si riferisca alla elegante presentazione
del piatto (tagliata a dischetti con copertura di
gelatina e verdure), mentre in realtà prende il
nome dal Castello di Bellevue in Francia dove la
marchesa di Pompadour presentò a Luigi XIV, il Re
Sole, per la prima volta l’aragosta così preparata!
Mangiatele pure con tranquillità: hanno solo 86
calorie ogni 100 grammi!
Alfredo Pelle
Aragostina con crostino di zucchine
allo zabaione
Ingredienti :
Una aragostina rosa da 350g
Una zucchina
Due fette di pan brioches
Una noce di burro
Un rosso d’uovo
Olio d’oliva
Latte fresco
Un cucchiaino di maizena
0,5 dl di Durello Brut
Ricetta di Roberto Gasparin
Preparazione:
Bollite l’aragostina in acqua bollente,
nel tempo che cuoce, preparate due crostini rotondi di pan brioches guarniti
con rondelle di zucchina precedentemente fritte in olio d’oliva e tenete al caldo.
Preparate uno zabaione con la noce di burro, il rosso d’uovo e il Durello, in
fine cottura unite la maizena sciolta in poco latte.
Cotta l’aragostina, staccate la coda, dividetela in due tagliandola per la
lunghezza ed eliminate il carapace.
In un ampio piatto piano preriscaldato, disponete sul fondo lo zabaione, la
codina d’aragosta ed a lato il crostino di zucchine.

Dalla libreria:
Una sinfonia globale
È di recente l’uscita di un piacevolissimo volume di Roberto Iovine ed Ileana Mattion dal titolo
“Sinfonia Gastronomica” per i tipi della Viennepierre edizioni. Il volume ha partecipato al Bancarellacucina
del settembre 2006, premio nato per la volontà dell’Accademia Italiana della Cucina di
evidenziare le opere del settore, ottenendo ottime valutazioni. Il libro affronta in modo piacevole e
piano i rapporti fra musica, eros e cucina, dando, ai vari capitoli, i tempi di una sinfonia, dall’Adagio
all’Allegro con moto, dal Rondò vivace all’Adagio Finale.
La prima parte del volume è un viaggio storico fra l’arte della gastronomia e quella dei suoni dai
tempi dei Greci, attraverso i secoli, fino ai giorni nostri. Il banchetto, il salotto, il caffè, il palco
dell’opera ne sono gli scenari e quanto la musica riflette i cambiamenti della storia, tanto la cucina
ne è testimone giornaliera.
Il parallelismo fra cucina e scena è evidente ove si consideri, nell’opera, il momento culminante della
vicenda di un brindisi, di un pranzo. Pensate al Falstaff ed alle sue lodi sul vino che “sperde le tetre
folle dello sconforto,/accende l’occhio ed il pensier” o al canto, solo apparentemente giocoso di
Turiddu che canta “Viva il vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante”. Alfredo alza la coppa e
intona “Libiam ne’ lieti calici/che la bellezza infiora”.
Alcuni capitoli sono dedicati ai grandi musicisti ed al loro rapporto con la tavola: così se è ben noto
l’amore di Verdi per i
prodotti della sua
Busseto (famosa è la
spalla cotta che inviò,
Cottura
con le istruzioni per
cuocerla, a Ricordi) o
quella di Rossini,
gourmet di fama che
scrisse come “dopo il far
nulla, io non conosco
occupazione per me più
deliziosa del mangiare...” meno nota è la passione di Bach per il cibo
e per il vino. Non era raro il caso che nei suoi contratti fosse definiti
anche compensi in natura!
Il volume dedica ampio spazio ai banchetti ispirati alla cultura
romana, medievale, rinascimentale, barocca fino al futurismo di
Marinetti, che propugnava l’abolizione della italica pastasciutta, con
alcune ricette dal Medioevo all’attualità.
Una scrittura leggera, piacevole, indubbiamente istruttiva senza
Freddo
essere cattedratica: un volume che può spostarsi dalla libreria alla
cucina.
E l’eros? Fate un po’ voi: lo troverete un po’ dappertutto, d’altronde
solitamente prima o dopo aver ben mangiato è più facile che…
Bar
A. P.
Lavaggio
Pizzeria
Preparazione
Aspirazione
Lavanderia
Accessori

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LA CHAINE DES ROTISSEURS:
I “MAESTRI CUOCHI DEL RE”
Fra le associazioni Enogastronomiche presenti nel territorio
Italiano la più antica e prestigiosa è senza dubbio la Chaine,
anche se non la più diffusa e conosciuta
La data, 1248, riportata nello stemma della confraternita ci porta al medioevo,
quando le persone che svolgevano la stessa attività di arte o mestieri si univano in
corporazioni per la tutela dei propri interessi e per il conseguimento di obiettivi
comuni.
Queste confraternite divennero nel tempo centri di potere, anche in competizione fra
loro, per difendere il monopolio delle attività svolte dai propri associati: il loro potere
e prestigio era definito e riconosciuto pubblicamente. La sede era per tutti a Parigi.
Va sottolineato il ruolo svolto da queste associazioni nel formare i giovani, potenziali
futuri associati, nel trasferimento delle abilità e delle conoscenze e anche nel loro
approfondimento e nella ricerca dell’eccellenza. Addirittura si davano reciproco aiuto
in caso di malattie ed infortuni. A Venezia erano chiamate “Scuole” ed ancora adesso
si possono vedere queste iscrizioni antiche anche se hanno perduto il loro significato
originario.
La Corporation des Rotisseurs, anzi più precisamente La Corporation d’Oyeurs, fu
consacrata ufficialmente da Luigi XII re Di Francia, detto il Re Santo. La confraternita
poteva, inizialmente, passare allo spiedo solo le oche. Erano quindi chiamati gli
Oyers, poi poterono cucinare altri tipi di volatili e furono insigniti di un titolo
particolare come venditori pubblici di carne. Esistevano dei Maitre Oyeurs del re che
godevano di particolare considerazione ed erano chiamati Maitre Cusiniers du Roi.
Verso la fine del 500 il termine Oyeurs venne cambiato in Rotisseurs e quindi
poterono cucinare praticamente tutto. Nel 1610 Luigi XIII consegna ufficialmente
alla confraternita le insegne araldiche: due spiedi incrociati in campo rosso circondati
dai gigli di Francia. Gli stessi emblemi che compaiono nell’attuale simbolo della
Chaine des Rotisseurs. Sospesa come Confrerie nel 1791 da Napoleone, fu definitivamente
soppressa nel 1834 in Francia in nome delle libertà del lavoro momento in
cui furono abolite tutte le corporazioni.
La Confrerie de la Chaine des Rotisseurs risorse con atto pubblico il 29 agosto 1950.
Oggi la missione dell’attuale Confrerie non è naturalmente quella di difendere i diritti
degli associati, piuttosto quella di difendere e diffondere la cultura della tavola e
l’amore per una cucina di qualità, di genuinità, anche rispettosa della tradizione.
Romolo Cacciatori con la Famiglia Santini
del Ristorante “Al Pescatore”.
Mario Baratto del Ristorante “Da Remo”,
Jager ed Ylenia, Bruno Magnani e
Marilena, Medaro e Bagnasco; tutti
confreres del Veneto.

La struttura e l’organizzazione
La Chaine des Rotisseurs ha la sede legale a Parigi ed è retta da un Consiglio di Amministrazione guidato dal
Grand Maitre President e composto da 15 membri e da un Conseil Magistral composto da 50 membri internazionali.
I Baillages nazionali sono retti da un Consiglio di Amministrazione composto da sette membri. Il Presidente
viene nominato dal Conseil Magistral. Questo Consiglio di Amministrazione nomina a sua volta i Bailli
Territoriali e i Bailli Regionali.
L’ammissione avviene per cooptazione: ogni socio ha la possibilità di invitare alle riunioni conviviali amici o
conoscenti interessati a condividere le finalità dell’associazione e ad aderirvi. Il Consiglio del Baillage
interessato approva le adesioni di nuovi soci che vengono ammessi ufficialmente nel Chapitre annuale
(l’assemblea annuale degli iscritti) tramite la cerimonia della “Intronizzazione”.
I membri Professionales qualora si presenti nel loro locale un socio, in possesso della tessera, sono tenuti a
porgergli un cordiale benvenuto, indossando il proprio collare e, naturalmente, servirlo al meglio delle loro
capacità.
La presenza della Chaine è diffusa in molte parti del Mondo. Circa in cento Paesi. Negli Chapitre (Capitoli,
riunioni, che ogni Paese è tenuto a programmare almeno una volta all’anno) si ritrovano molto spesso e si
riuniscono Confreres e Dames provenienti da molti Paesi.
Carlo Augusto Martelli
Nadia Santini con il Bailli del Veneto e
Chargè de Missions National Romolo
Cacciatori.
Un momento del gemellaggio con la
delegazione belga.
La Chaine des Rotisseurs
in Veneto
Il Veneto ha una ottantina di Soci
disseminati nelle varie province. Anche i
Ristoranti sono bene rappresentati e si
distinguono per una cucina che trae
ispirazioni dal Territorio con evoluzioni
naturali.
Il Bailli Regionale è in questo momento
composto da:
Romolo Cacciatori (che è anche membro
del Direttivo Nazionale e responsabile ad
interim di alcune province emiliano-
Romolo Cacciatori
romagnole)
Gonella Renato, Magnani Bruno, Berton Mario, Montagnoli
Ivan, Soncini Daniela, Cella Agostino, Cardin Roberto,
Johan De jager

44
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Appuntamenti del mese
SETTEMBRE 2007
- settembre: Funghi a
tavola – Bassano del
Grappa.
Info: tel. 0424.523108
- 1 e 2 settembre:
30 a Festa della Patata -
Rotzo
Info: tel. 0424.691079 -
0424.691003
- 2 settembre:
Festa degli Gnocchi con
la Fioretta – Recoaro
Terme
Info: tel. 338.8798052
- 1-2-3 settembre: Festa
dei Ossi de Mas-cio -
Longare.
Info: tel. 0444.953399
- dal 5 al 9 settembre:
38 a Sagra del Baccalà –
Tavernelle di Altavilla
Vicentina
Info: tel. 0444.370832
- dal 7 al 9 settembre:
3^ Festa dello Gnocco –
Trissino.
Info: tel. 347.1047291
- 8 settembre:
Festa del Sedano - Loc.
Rubbio di Conco.
Info: tel. 0424.709012
- 8 settembre: Festa del
sedano – Rubbio. Info:
tel. 0424.709012
- 9 settembre: 30^
Festa dell’uva e dei
prodotti agricoli –
Bassano del Grappa
Info: tel. 0424.521345
- dall'8 al 13 settembre:
Antica Fiera del Soco e
“Profumo di pane”-
Grisignano di Zocco.
Info: tel. 0444.614891
- seconda settim. di
settembre: 13 a Festa
dell’Uva - Sarcedo
Info: tel. 0445.346504
- dal 14 al 16 settembre:
La Piazza dei Sapori -
Vicenza.
Info: tel. 0444.569933
- dal 14 al 16 settembre:
Festa del Pesce -
Costabissara
Info: tel. 0444.557046
- 16 settembre: Festa
del Sedano – Campese di
Bassano del Grappa
Informazioni: tel.
0424.80216
- dal 14 al 18 settembre:
21 a Festa del Riso –
Grumolo delle
Abbadesse
Info: tel. 0444.380147
- 15 e 16 settembre:
Festa dell’Uva e del Vino
– Barbarano Vicentino
Info: tel. 0444.788314
- 16 settembre: Festa
della Porchetta –
Zugliano (Frazione di
Centrale)
Info: tel. 0445.333322
- 21 settembre: Serata
delle "3T" – Ristorante
"Ponte Nuovo"
viale Molino 33,
Altissimo. In collaborazione
con Ristorante Al
Torcio e Ristorante Dal
Francese. Nell'ambito
della rassegna 2007 del
gruppo "I Ristoratori
della Valle del Chiampo".
Informazioni: tel.
0444.687605
- 22 e 23 settembre: 4^
Festa della Montagna –
Recoaro Terme.
Info: tel. 0445.423511
- 22-24-28 settembre e
1 ottobre: 9 a festa della
Transumanza -
Bressanvido
Info: tel. 338.1902330
- 22-23-24 settembre:
33 a Mostra Micologica e
10^ Micofilatelica
autunnale – Thiene (c/o
Padiglione Fieristico di
Via Vanzetti).
Informazioni: tel.
380.2551905
- 23 settembre: 3 a ed.
Festa dei prodotti di
montagna – Durlo di
Crespadoro.
Informazioni: tel.
0444.429377
- 23 e 30 settembre e le
domeniche di ottobre: 9 a
Festa della Patata
Tonezzana e Alto Astico
Naturali – Tonezza del
Cimone.
Info: tel. 0445.749500
- dal 20 al 23 settembre:
80 a Festa dell’Uva e del
Recioto di Gambellara e
7° Gambellara Wine
Festival - Gambellara.
Info: tel. 0444.444183
- 24-30 settembre e 1
ottobre: 19 a Festa del
Baccalà - Sandrigo
Info: tel. 0444.658148
- dal 27 al 30 settembre:
11 a Festa del “Mais
Marano” – Marano
Vicentino
Info: tel. 0445.621669
- 28-29-30 settembre:
4^ Festa della
vendemmia – Malo
Info: tel. 0445.602087
- 30 settembre: 16^
Capra e Cavoli – Bassano
del Grappa. Mostra
mercato dei prodotti
naturali e biologici. Info:
tel. 0424.559092
ASSOCIAZIONE ITALIANA
SOMMELIERS
Delegazione di Vicenza
Organizza alcuni corsi di 1° e 2°
livello
Per informazioni ed iscrizioni
contattare il: Delegato Provinciale
Mariucia Pelosato 348-1031720
1° livello - Sede:
RISTORANTE HOTEL NORIS
il martedì alle 20,30 / 23
Inizio corso: 11 Settembre
1° livello - Sede:
RISTORANTE AL FRANCESE
CHIAMPO
il lunedì alle 20,30 / 23
Inizio corso: 17 Settembre
2° livello - Sede:
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D’EZZELINO
il lunedì alle 15,30 / 18
CANTINA BARTOLOMEO BREGANZE
il lunedì alle 20,30 /23
Inizio corso: 10 settembre
2° livello – Sede:
BIBLIOTECA LA VIGNA VICENZA
il martedì alle 20,30 / 23
Inizio corso: 18 Settembre

Quant'è buono il Cacio coi Pianeti
46
A tavola con
le Stelle
Ma la Luna… sarà fatta di formaggio? - va filosofeggiando Topo Gigio.
Ecco una buona epigrafe per l'articolo che vi accingete a leggere, dove le sfere celesti s'incontrano con l'arte casearia:
riprendiamo il gioco di abbinare la gastronomia alle categorie astrologiche, nella ribadita convinzione che a tavola si
manifestino, come e più che altrove, le inclinazioni caratteriali dettateci dallo Zodiaco.
L'Italia è la patria del formaggio. Non è la prima volta che ci capita di lasciarci andare a simili sciovinistici proclami, ché
l'Italia è anche patria della pizza, degli spaghetti, del gelato, del vino e di altre leccornie… Né è la prima volta che ci
sentiamo di dire che solo la Francia può contenderci il primato; sarà che con i cugini transalpini condividiamo una nota
di edonismo, l'amore per il bello - e per il buono, in questo caso. La ricchezza e varietà di tradizioni locali della nostra
cucina non ha eguali, ed anche nella produzione dei formaggi si rivela questo strepitoso florilegio di offerte, diverse in
ogni regione, per non dire in ogni valle o altipiano; dagli irresistibili formaggi freschi, ricotte e mozzarelle, ai prestigiosi
stagionati, pecorino e parmigiano, mettiamo in campo una gamma che può ben rivaleggiare con la tavolozza dei tanto
decantati formaggi francesi.
Ci sia concessa la citazione di un detto non propriamente aulico, ma che per noi vicentini descrive la piacevole consuetudine
di accompagnare la classica "pendola" a qualsiasi menu: "La pansa no xe stracca finchè la boca no sa…" dicevano
i nostri nonni; e lasciamo a chi non conoscesse il proverbio di completare con la ovvia rima del caso, evocazione
dell'animale che fornisce ai mastri casàri la materia prima da cui traggono il delizioso alimento che in tavola non deve
mai mancare.
Occhio al colesterolo, s'intende, e dunque non abusiamone; ma, del formaggio, non trascuriamo le virtù: è alimento
ricco di proteine e di calcio, ed è versatile come nessun altro, adatto per spizzichi, antipasti e merende, per zuppe e
secondi piatti, per dessert nonché in taluni dolci, o semplicemente accompagnato dalla polenta, e perfino (ma non lo
sappia il contadino) con le pere.
FILIPPO FERRERI studia e pratica l'Astrologia da molti anni a Schio,
dove tiene regolarmente corsi presso l'associazione culturale La Corte.
Ha collaborato in passato con varie testate
e partecipato come relatore a conferenze e convegni

All'Ariete si addice un formaggio
grintoso, di gusto forte e piccante, che
pizzichi la lingua: ad esempio un
Vezzena stravecchio, che all'assaggio
sprigiona l'afrore dei rudi pastori di
malga, quasi nostrani cowboys.
Al Toro spetta il Bel Paese, che fin
dal nome evoca i sani valori
tradizionali cari a questo segno,
oppure altri prodotti che riflettano il
suo carattere solido e dolce al tempo
stesso, come la caciotta o la
mozzarella di bufala.
I Gemelli, mobili e vivaci, sono in
sintonia con le sottilette, filanti e
leggere, ideali per un toast al volo;
oppure con i formaggi in versione
mignon, da piluccare; o spalmabili,
che si prestino a connubi e
abbinamenti.
Al Cancro i formaggi, e i latticini in
genere, piacciono tutti, poiché fan
risuonare in lui il ricordo, sempre
amorevolmente coltivato, del
nutrimento materno; in primissima
fila lo stracchino, delicato, morbido e
indolente.
Al Leone, cui spetta sempre il trono
del re, assegniamo il formaggio
coronato, quel parmigiano reggiano
che tutto il mondo c'invidia, sia in
preziose scaglie e sia che sparga la
propria nobiltà sui maccheroni.
Alla Vergine, che suol scomporre e
classificare il mondo, per poi
incasellarlo e conservarlo in ordine
meticoloso e maniacale, tocca
naturalmente la perfezione
poliedrica di una bella scatola di
formaggini.
La Bilancia è votata allo stile
classico-elegante: suggeriremmo
pertanto scelte di tono aristocratico,
come un cremoso e saporito
taleggio, una profumata fontina
valdostana, o il gusto rotondo della
toma piemontese.
Per lo Scorpione, al solito, opzioni
estreme o provocatorie; se proprio
non ci si vuol misurare col temibile
formaggio coi vermi, che sia almeno
un gorgonzola con la goccia, sulla
labile frontiera dell'incipiente
ammuffire.
Al Sagittario, cui compete di diritto
la sfera dell'esotico, poniamo l'alternativa
tra il razzolar con mediocri
formaggi europei a pasta soda,
olandese o emmenthaler, e il volar
alto coi raffinati formaggi francesi.
Al Capricorno verrebbe da abbinare
per assonanza il caprino, ma il nome
è ingannatore, poiché è anch'esso di
latte vaccino; meglio allora un severo
ed asciutto stravecchio, sapido e
perentorio come i nati del segno.
Per l'Aquario, che ama nobilitare il
pasto nella convivialità, l'ideale è
sedersi attorno al desco per una
fonduta di formaggio, e dalla pentola
condivisa pescare, gustare, e intanto
amabilmente chiacchierar coi
commensali.
Anche i Pesci amano un po' tutti i
formaggi, con una predilezione per la
robiola, molle e spumosa ma dal
sapore peculiare, o per il classico
duetto, gorgonzola e mascarpone,
dal gusto che coccola e stuzzica.

Due amici, scapoli incorreggibili, sono ormai da anni ospiti fissi del
bordello locale. Un giorno uno dei due, stanco di questo modo di vivere, dice
all'amico:
- Forse è ora che ci sposiamo, eh?
- Sì, ma chi?
- Ma dai! Lo sappiamo! Le donne sono tutte uguali, una vale l'altra.
Così, qualche mese dopo, si sposano e partono per il viaggio di nozze,
sempre insieme. La prima sera, si ritirano ognuno in camera con la propria
signora; poco dopo si rincontrano nel corridoio con un'espressione poco
allegra.
- Che ti è successo?
- Eh, sapessi! La forza dell'abitudine! Appena mi sono alzato dal letto, ho
preso cento euro e li ho dati a mia moglie! E lei, mi ha tirato un ceffone
che ancora mi fa male...
- Beato te! A me ha dato venti euro di resto!
Tra gay:
- Pronto? Sono Dario, c'è Marco?
- No, Marco è a letto con gli orecchioni!
- Che stronzo! Poteva anche dirmelo che c'era una festa!
L' appuntato al maresciallo :
- Per fare un po' di spazio in archivio, possiamo bruciare i
fascicoli più vecchi di 10 anni?
Il Maresciallo:
- Ottima idea, ma per sicurezza fai prima le fotocopie!
Uno arriva a casa di sorpresa e molto arrabbiato
grida alla moglie:
- Parla sciagurata, dov'è il tuo amante? Lo so
che è in casa!
- Ma cosa dici caro, giuro che non c'è nessuno!
- Non ci credo!
Allora incomincia dalla cucina, controlla:
- Qui non c'è!
Va nel bagno:
- Qui non c'è!
Va in cantina:
- Qui non c'è!
Controlla nell'armadio della camera da letto;
aprendo la porta vede un signore alto due
metri con classica cicatrice da duro sulla
guancia che lo guarda incazzato:
- Qui ce n'è uno, ma non è lui..!!