La strada del formaggio Santorso - Gustolocale
La strada del formaggio Santorso - Gustolocale
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<strong>La</strong> <strong>strada</strong> <strong>del</strong> <strong>formaggio</strong><br />
<strong>Santorso</strong><br />
<strong>La</strong> leggenda di <strong>Santorso</strong><br />
"Orso nacque da una nobile famiglia di Franchi. Mentre era ancora in<br />
fasce un indovino predisse alla madre ch'egli avrebbe ucciso il padre. In<br />
giovane età fu inviato alla corte di Carlo Magno per essere educato<br />
all’arte <strong>del</strong>la cavalleria. Durante questo periodo Orso dimostrò tale<br />
valore da essere eletto al rango di uno dei dodici conti palatini di Carlo<br />
Magno. Unica grande sofferenza per Orso era, quando se ne tornava a<br />
casa, trovare la madre, memore <strong>del</strong>la profezia, in pianto. Per cui più<br />
volte domandatole la ragione di tale pianto Orso venne a conoscenza <strong>del</strong><br />
suo destino di parricida. Egli, per evitare che la profezia si compisse, con<br />
un compagno dal nome Cliento, decise di abbandonare la Francia. Arrivò<br />
in Dalmazia e qui affrontò l’esercito pagano <strong>del</strong> re riuscendo a vincerlo<br />
e ad attirare su di sè l’attenzione <strong>del</strong>la figlia <strong>del</strong> re, colpita da tanto<br />
valore guerriero e da tanta fede. Il re quindi su richiesta <strong>del</strong>la figlia<br />
Abitanti: 5.234; superficie: 13,25 kmq; altitudine: 240 m. s.l.m.;<br />
dista da Vicenza: 28 km. Frazioni: Timonchio.<br />
invitò a corte Orso e Cliento i quali mostrarono la forza <strong>del</strong>la loro<br />
religione e il loro valore di cavalieri al punto tale che il re di Dalmazia<br />
decise di convertirsi al cristianesimo assieme al suo popolo e di<br />
concedere in matrimonio ad Orso la propria figlia. Alla morte <strong>del</strong> re,<br />
Orso divenne pertanto re di Dalmazia.<br />
Il padre di re Orso, nonostante fosse a conoscenza <strong>del</strong>la profezia,<br />
venuto a sapere <strong>del</strong> successo <strong>del</strong> figlio decise di andarlo a trovare in<br />
Dalmazia. Giunto in quella terra venne accolto dalla nuora mentre Re<br />
Orso era a caccia, e fu invitato a riposarsi al fianco di lei e <strong>del</strong> figlio. Un<br />
cameriere di Orso, sotto le cui spoglie, si dice, si nascondesse il demonio<br />
stesso, raccontò a Orso, mentre era ancora a caccia, che un uomo si era<br />
coricato con la moglie. Orso allora si precipitò alla reggia e vedendo la<br />
moglie coricata con un altro uomo s’infuriò e uccise il padre, il figlio e la
moglie.<br />
Resosi poi conto <strong>del</strong> misfatto e immediatamente pentitosi di ciò che<br />
aveva compiuto, decise di andare a Roma per chiedere al Papa Adriano<br />
I di espiare il suo peccato. Il Pontefice impose ad Orso che, in abito da<br />
pellegrino, con la testa rivolta verso il basso e senza domandare mai<br />
a nessuno dove si trovasse, visitasse la chiesa di S.Maria in Monte<br />
Summano. Orso se ne partì per il suo viaggio penitenziale. Visitò<br />
Gerusalemme e Santiago de Compostela, e il 3 maggio, dopo dodici<br />
anni di pellegrinaggio, giunse al monte Summano. Nei pressi <strong>del</strong><br />
monte udì dei pastori che dicevano: "...presto, andiamo con l'armenti<br />
e gregi à casa perché munte Suman fà con la nebula capelo, et presto<br />
come è usanza pioverà."<br />
<strong>La</strong>tteria Santa Maria <strong>del</strong> Summano di <strong>Santorso</strong><br />
<strong>La</strong> <strong>strada</strong> <strong>del</strong> <strong>formaggio</strong><br />
Capì allora di essere arrivato alla fine <strong>del</strong> suo viaggio penitenziale. Si<br />
incamminò verso il castello <strong>del</strong> borgo allora chiamato di Salzena. Sulla<br />
via incontrò una fantesca di nome Oralda a cui domandò ripetutamente<br />
da bere, e non avendo risposta, spirò. In quell’attimo le<br />
campane si misero a suonare da sole. <strong>La</strong> gente <strong>del</strong> luogo accorse e<br />
trovò il Santo con il bastone fiorito. Così riconosciuta la sua santità gli<br />
venne eretta una chiesa. Carlo Magno venuto a conoscenza <strong>del</strong>la storia<br />
giunse a <strong>Santorso</strong> per portare via il corpo <strong>del</strong> santo cavaliere. Ma non<br />
riuscì a smuoverlo da quel sito; se ne tornò in Francia solo con il<br />
braccio e il bastone fiorito. <strong>La</strong> festa di sant’Orso si celebra tutt’oggi il<br />
3 Maggio'.<br />
Nell’anno 1911 alcuni agricoltori di Lesina acquistarono un terreno dalla famiglia Zaltron e costruirono uno stabile da<br />
dedicare a caseificio.<br />
“… Società Anonima denominata Caseificio Sociale Lesina con lo scopo di agevolare l’economia <strong>del</strong>le famiglie dei soci<br />
col ritirare giornalmente il latte che ogni uno di essi poteva ricavare dalle manze di sua proprietà per lavorarlo e<br />
produrre burro, <strong>formaggio</strong>, ricotta e altro; nello stesso tempo poteva occuparsi per la somministrazione ai soci di altri<br />
generi alimentari….”<br />
Nel 1978 il <strong>formaggio</strong> prodotto nella latteria rispecchiando la tecnologia di produzione regolamentata dalla D.O.C.<br />
Asiago si avvalse <strong>del</strong>la denominazione Asiago nelle due tipologie.<br />
Ma nell’epoca <strong>del</strong>la omogeneizzazione e <strong>del</strong>la globalizzazione i soci <strong>del</strong>la cooperativa nel luglio<br />
<strong>del</strong> 2003 decisero di dare una svolta alla produzione ritornando alle origini: il <strong>formaggio</strong> non venne più denominato<br />
Asiago ma riceve il marchio depositato “Lesina” il primo nome <strong>del</strong>la latteria.<br />
Gli altri prodotti <strong>del</strong> caseificio rispecchiano la tradizione di tutti i caseifici <strong>del</strong>la zona:<br />
burro, ricotta, tosella, caciotte.<br />
<strong>Santorso</strong><br />
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<strong>La</strong> <strong>strada</strong> <strong>del</strong> <strong>formaggio</strong><br />
Valdastico<br />
Abitanti: 1.490; superficie: 24,41 kmq;<br />
altitudine: 405 metri s.l.m.; dista da Vicenza: 45 km.<br />
Comuni limitrofi: Rotzo, Roana, Cogollo <strong>del</strong> Cengio, Arsiero, Tonezza <strong>del</strong> Cimone,<br />
<strong>La</strong>stebasse, Pedemonte, Lucerna (TN).<br />
Nella stretta gola che l’Astico ha formato a dividere l’Altopiano dei Sette Comuni dal Cimone, dal Toraro, dalla valle dei Fiorentini, sorge<br />
Valdastico, un comune nato con questo nome nel 1940 a riunire in una unica amministrativa autonoma Casotto, Barcarola, Forni, Pedescala,<br />
Valpegara e San Pietro Valdastico, dove si trova la sede municipale.<br />
<strong>La</strong> storia <strong>del</strong> Comune è recente e non solo per la sua aggregazione amministrativa ma per le stesse caratteristiche <strong>del</strong> suo sviluppo.<br />
<strong>La</strong> Storia d’Italia arrivò quassù con la Grande Guerra. A Casotto passava il confine Austro-Ungarico.<br />
Sul finire <strong>del</strong> 1916 si fronteggiarono su questi monti gli Austro-Ungarici e gli Italiani.<br />
<strong>La</strong> popolazione si ritirò verso la vallata e alla fine <strong>del</strong>la guerra pochi ritornarono al paese natio perché la via <strong>del</strong>l’emigrazione era diventata<br />
triste consuetudine di sopravvivenza.<br />
Azienda Agricola Lucca Marianna - Agriturismo al Cucco<br />
L’azienda ha origini nell’anno 2000 per l’innata passione di Marianna per i formaggi e vista la natura<br />
<strong>del</strong> terreno circostante alla casa è stato d’obbligo intraprendere l’allevamento <strong>del</strong>le capre.<br />
25 animali di razza camosciata alpina.<br />
Il marito Fabio, cuoco diplomato alla scuola alberghiera di Tonezza <strong>del</strong> Cimone, si occupa <strong>del</strong>l’allevamento<br />
<strong>del</strong>le capre e <strong>del</strong>la cucina; Marianna invece dedica il suo tempo alla produzione <strong>del</strong><br />
<strong>formaggio</strong> e <strong>del</strong> ricevimento dei clienti <strong>del</strong>l’agriturismo.<br />
I Formaggi prodotti dall’Azienda.<br />
I classici caprini freschi di forma cilindrica a coagulazione acida, naturali o con aggiunta di erbe<br />
aromatiche.<br />
Ricotta di capra; caciotte fresche e stagionate; erborinato stagionato e un <strong>formaggio</strong> dal gusto<br />
molto particolare a crosta lavata.<br />
Una particolare attenzione merita un <strong>formaggio</strong> di piccole dimensioni (300 grammi circa) le cui<br />
caratteristiche gusto olfattive e la particolare tecnica di produzione ricordano quelle <strong>del</strong><br />
Castelmagno.<br />
L’azienda produce anche salumi; mentre l’Agriturismo offre prodotti <strong>del</strong>l’orto, conigli e altri animali<br />
di bassa corte.<br />
<strong>La</strong> produzione è di circa 25 forme di piccola pezzatura al giorno destinati alla vendita in azienda o<br />
a ristoranti ed enoteche <strong>del</strong>le zona.
L’isola <strong>del</strong> tesoro…Bowmore<br />
<strong>La</strong> forza tempestosa <strong>del</strong>l’Oceano Atlantico infrange ogni giorno le coste <strong>del</strong>l’isola di Islay sulla costa est <strong>del</strong>la Scozia.<br />
Il vento freddo <strong>del</strong> nord qualche volta dirada le nuvole, permettendo ai raggi solari di colorare d’oro la piccola isola<br />
e far splendere come un faro la banchina. In quest’isola dove il tempo si è fermato, c’è un tesoro che si rinnova<br />
da oltre 200 anni conservando tutte le sue peculiarità. È Bowmore, un whisky soave finemente torbato, dai profumi<br />
gentili ed equilibrati, aroma preciso e caratteristico con sfumature piacevoli e coinvolgenti.<br />
Un’esperienza rara quella che Peter Gibson, insieme a Patricia e Renzo <strong>del</strong> Patty Bar di Valli <strong>del</strong> Pasubio, ci hanno<br />
fatto provare con una serata di degustazione guidata di alcuni dei migliori whisky Scozzesi. Si parte, tra storia e<br />
leggenda, dalla presentazione <strong>del</strong>la particolare distilleria che ci introduce alla serata. Successivamente a questa<br />
parte teorica, la degustazione non fa altro che confermare quanto detto, coinvolgendo i tanti ospiti presenti in un<br />
viaggio unico, quasi fantastico, nel mondo <strong>del</strong> pregiato oro.<br />
Un viaggio tra profumi, sapori, colori e sensazioni diverse tra il sorso di uno o <strong>del</strong>l’altro; in ognuno dei cinque<br />
distillati si riconosce un carattere preciso, mai banale, un sapore attento<br />
anche nelle sfumature, che conferma la grande abilità nel millesimare<br />
perfettamente di questi distillatori.<br />
Tanta storia e abilità dentro ogni bottiglia di questi maestri, che<br />
producono il distillato più venduto al mondo. Il perché di tanto successo<br />
si comprende in cinque sorsi…<br />
Poi a <strong>del</strong>iziare lo stomaco, oltre che il palato, ci ha pensato Claudio<br />
Ballardin <strong>del</strong> Ristorante da Beppino, convenuto per l’occasione, con un<br />
prelibato Tortino di Sfoglia con Carciofi e Fonduta al Tartufo, un gustoso<br />
Risotto al Radicchio di Treviso e Salamela, ed un <strong>del</strong>icatissimo Filetto alle<br />
erbe. Piatti abbinati inconsuetamente con <strong>del</strong> verdicchio Fazi e Battaglia,<br />
che a sorpresa ha ben retto l’abbinamento.<br />
Come in ogni concerto che si rispetti non poteva mancare la dolce nota<br />
finale, a questo ci ha pensato Roberto Agosti <strong>del</strong>la Pasticceria Dolci<br />
Pensieri di Schio, proponendo un armonioso semifreddo di Castagne e<br />
Cioccolato. A concludere, <strong>del</strong>iziosi Cioccolatini elaborati con una ganache<br />
al whisky Bowmore.<br />
Ogni qualvolta avremo occasione di riassaporare questi whisky sarà<br />
come ritornare su quell’isola dove il tempo si è fermato, dove il mare ogni<br />
giorno si misura con la sua forza e di rado il sole illumina la banchina:<br />
qui c’è quel tesoro che per sempre si rinnoverà mantenendo inalterato il<br />
tempo. Non poteva essere acqua… quel che ha bevuto: era vita.<br />
Roberto Gasparin<br />
“E’ più puro <strong>del</strong>le acque di tutti i pozzi. Quando è freddo, a toccarlo è più freddo <strong>del</strong> ghiaccio…<br />
Ma nella bocca cosa accade?<br />
Le gengive fremono, la gola brucia, nello stomaco passa come fuoco, e da li fino alla punta <strong>del</strong>le<br />
dita, fino ai piedi, poi in testa… non poteva essere acqua: Era vita!”<br />
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Il sapore <strong>del</strong><br />
tipico Nordest<br />
Non si vende solo design o tecnologia, ma la cultura<br />
di un territorio e di un popolo.<br />
Ecco perché promuovere i prodotti tipici è così importante<br />
Che gli affari migliori si facciano a tavola è una convinzione diffusa ormai<br />
da parecchio tempo. Che la scelta dei piatti giusti possa aiutare a<br />
concluderne anche di migliori, è una questione <strong>del</strong> marketing più raffinato.<br />
Eppure l’abbinamento tra i prodotti agroalimentari vicentini con le<br />
produzioni meccaniche, tecnologiche, orafe e quant’altro è una consuetudine<br />
oramai consolidata per Vicenza Qualità, azienda speciale <strong>del</strong>la<br />
Camera di Commercio che si occupa di promuovere in Italia e nel mondo<br />
il meglio <strong>del</strong>la produzione di casa nostra. E così partendo per Hong Kong<br />
o per <strong>La</strong>s Vegas il personale <strong>del</strong>l’azienda non dimentica mai di mettere in<br />
valigia bottiglie di vino, grappa, <strong>formaggio</strong> Asiago e dolci da far assaporare<br />
al termine di una sfilata di gioielli o dopo la presentazione di sofisticate<br />
macchine elettroniche.<br />
“<strong>La</strong> nostra idea – spiega Germaine Barretto, direttore di Vicenza Qualità –<br />
è quella di presentare il sistema Vicenza nel suo complesso. Attraverso il<br />
cibo si può capire molto di un popolo e una cultura; noi crediamo che per<br />
vendere i prodotti <strong>del</strong>l’oreficeria, <strong>del</strong>l’abbigliamento, <strong>del</strong>la ceramica o <strong>del</strong>la<br />
meccatronica si deve far capire quale territorio li ha generati”.
Tanto più che la qualità <strong>del</strong>la cucina, probabilmente insieme al design, è l’aspetto<br />
più apprezzato <strong>del</strong>l’Italia nel mondo. “Privilegiamo i prodotti che si possono<br />
reperire anche all’estero – prosegue la Barretto – per dare un sostegno alla loro<br />
diffusione, ma usiamo anche ingredienti che si incontrano più raramente fuori dai<br />
confini. Negli Stati Uniti, ad esempio, abbiamo proposto un risotto con gli Asparagi<br />
di Bassano: sono difficilmente esportabili, ma ci permettono di far conoscere un<br />
pezzo importante di cultura gastronomica <strong>del</strong> nostro territorio”.<br />
Se la nostra cucina è un ottimo biglietto da visita oltralpe, ancor più importante<br />
diventa l’accoglienza eno-gastronomica in patria. “Quando riceviamo le <strong>del</strong>egazioni<br />
di giornalisti per le fiere qui a Vicenza – spiega – li portiamo a pranzo nei ristoranti<br />
che utilizzano prodotti tipici vicentini, spesso gli facciamo assaggiare il baccalà.<br />
Comunque è importante che in menu ci siano piatti preparati con ingredienti locali<br />
e che vengano serviti vini, grappe e olio tutti rigorosamente vicentini”.<br />
Se il motivo <strong>del</strong> viaggio era la fiera orafa, o qualche altra ragione legata al<br />
business, c’è da scommettere che nei racconti di questi signori al ritorno in Cina,<br />
Corea o Australia, ci sarà prima di tutto qualcosa di legato al cibo. “Succede così<br />
anche per noi, no? Che cose buone ho assaggiato lì, quanto male si mangia là…”<br />
Altra tappa d’obbligo per le <strong>del</strong>egazioni ospiti di Vicenza Qualità è una capatina in<br />
una <strong>del</strong>le ville venete, l’elemento architettonico più caratterizzante <strong>del</strong> territorio.<br />
“È importante offrire uno spaccato di ciò che siamo – conclude – I ristoratori in<br />
questo senso si sono sempre dimostrati sensibili, inserendo nei loro menu i<br />
prodotti vicentini ogniqualvolta abbiamo organizzato qualche iniziativa particolare”.<br />
Come si dice in questi casi, fare squadra conviene a tutti.<br />
Vicenza nel mondo<br />
Vicenza qualità è stata creata nel 1989 con lo scopo di promuovere i prodotti di<br />
punta <strong>del</strong> “Made in Vicenza”. Attualmente è tra le quattro maggiori aziende speciali<br />
<strong>del</strong>le camere di commercio, insieme a quelle di Milano, Firenze e Modena. Il<br />
presidente è Sergio Rebecca, a dirigerla dal 2002 è stata chiamata Germaine<br />
Barretto, già console economica <strong>del</strong>l’Uruguay in Italia.<br />
Ha attivato, in collaborazione con le camere di commercio di altre province, setti<br />
sedi sparse in Asia, Africa e Centro America. Il comparto agroalimentare<br />
rappresenta il 37% <strong>del</strong>le proprie attività di promozione.<br />
Michele Bertuzzo<br />
Germaine Barretto<br />
Direttore di Vicenza Qualità<br />
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abc<br />
Il rame in cucina: lusso o esigenza?<br />
Una volta tutte le cucine,<br />
anche le più misere, avevano<br />
in dotazione utensili di rame.<br />
Le donne appendevano i<br />
secchi di rame al bigòlo e<br />
andavano alla fontana,<br />
arrostivano carni <strong>del</strong>icate in<br />
testi, sempre di rame, e non<br />
facevano la polenta se non<br />
possedevano il caliéro.<br />
Oggi le pentole in rame<br />
sembrano un lusso. Tant’è che<br />
si usano per abbellire le<br />
pareti, quando non finiscono<br />
per diventare fioriere.<br />
Ma i recipienti in rame sono<br />
davvero un lusso per la<br />
cucina?<br />
di Amedeo Sandri<br />
Il rame è un ottimo conduttore <strong>del</strong> calore: ogni eccesso di calore si propaga rapidamente<br />
verso il resto <strong>del</strong>l’utensile. Una casseruola in rame reagisce dunque in maniera assai rapida<br />
alle variazioni di temperatura, cosa che assicura una cottura uniforme sull’intera superficie<br />
<strong>del</strong> recipiente, fondo e bordi, senza “punti caldi” o punti di surriscaldamento che intrappolerebbero<br />
le molecole, le carbonizzerebbero, finendo col dare un gusto di bruciato a tutto il<br />
piatto. Il caliéro appeso alla catena <strong>del</strong> camino e tenuto fermo col sóco nel momento <strong>del</strong><br />
rimestamento, riceveva fiamma diretta solo sul fondo, ma la polenta all’interno “borbottava<br />
a pieni polmoni” in ogni sua parte e, alla fine, sapeva da brustolìn, ma non da bruciato. Con<br />
il rame infatti, sembra che ci sia un miglior controllo sulla temperatura, con la possibilità di<br />
farla variare a volontà senza troppa inerzia, cosa assolutamente indispensabile per le salse<br />
più <strong>del</strong>icate, per la cottura <strong>del</strong>lo zucchero e per i piatti che vanno fatti sobbollire a lungo. In<br />
quest’ultimo caso, per evitare il contatto tossico con il verderame, si usa rivestire l‘interno<br />
degli utensili di rame con uno strato di stagno puro (rame stagnato), ottenuto oggi per<br />
elettrolisi. Questa “stagnatura” deve essere rinnovata con una certa regolarità. Non si<br />
stagnano pero le “bastar<strong>del</strong>le” per montare i bianchi a neve e nemmeno i “polsonetti”<br />
utilizzati per lo zabaione, per il semplice<br />
motivo che la fusta gratterebbe e righerebbe il<br />
fondo di stagno che, come il piombo, è un<br />
materiale assai tenero. E si deve evitare di<br />
scaldare troppo una casseruola di rame<br />
stagnato, per non correre il rischio di far<br />
fondere lo stagno.<br />
È altresì giusto, per essere corretti fino in<br />
fondo, mantenere qualche esitazione nel fare<br />
l’elogio fisico <strong>del</strong> rame. Infatti, da un punto di
vista strettamente chimico, può esservi il sospetto che lo stato <strong>del</strong>la superficie <strong>del</strong> materiale <strong>del</strong>le casseruole<br />
intervenga più <strong>del</strong>la natura <strong>del</strong> metallo in sé: è indubbio che un rame poroso sarebbe indubbiamente un disastro.<br />
Rimane comunque il fatto che il rame è bello, soprattutto quando è lucido. Caro, anche: lo si può sostituire benissimo<br />
con un altro metallo conduttore, come l’alluminio, ma in questo caso bisogna assolutamente ricordare di acquistare<br />
recipienti di un certo spessore, piuttosto pesanti, al fine di evitare i “colpi di fuoco”.<br />
Non si può parlare di rame e di alluminio senza fare un cenno sui mestoli più adatti per questi metalli, ottimi conduttori<br />
di calore. Questi mestoli sono i cucchiai di legno, presenti in tutte le cucine, nonché oggetto di bollenti diatribe fra<br />
igienisti e tradizionalisti. Benedetti da coloro che fanno <strong>del</strong> “naturale” una ragione di vita, si impongono comunque in<br />
cucina rispetto a simili utensili metallici, perché non conducono calore (anche se, spesso, portano i “luttuosi” segni<br />
<strong>del</strong>la fiamma troppo alta, figlia <strong>del</strong>l’incuria, ma anche <strong>del</strong>la frenesia <strong>del</strong> servizio). <strong>La</strong>sciati all’interno <strong>del</strong>le preparazioni<br />
che stanno cuocendo, si possono prendere in mano in qualsiasi momento, senza correre i rischio di bruciature. Certo,<br />
se usati per preparazioni diverse, devono essere di volta in volta lavati e sciacquati con cura, magari dividendo<br />
fisicamente quelli utilizzati per preparazioni salate e dolci e, all’interno di quelle salate, i cucchiai usati generalmente<br />
per il pesce. Quale benedizione questi modesti utensili il cui materiale, il naturale e mite legno, non riga lo stagno che<br />
riveste l’interno <strong>del</strong>le casseruole di rame,<br />
ma, con le sue “rotondità” arriva anche al<br />
bordo <strong>del</strong> fondo dei recipienti d’alluminio,<br />
senza in alcun modo “ferirli”. E poi, non<br />
esiste da che mondo è mondo, una<br />
polenta cotta rigorosamente nel caliéro<br />
di rame, che, una volta “sfarinata”, non<br />
venga rimescolata ritmicamente per 40<br />
minuti con la mescola, naturalmente di<br />
legno, magari di “cornolaro”. Una volta<br />
girata d’un solo colpo sul panàro, sempre<br />
di legno, questo “sole” scalda la casa e la<br />
famiglia anche grazie a questo naturale<br />
materiale che, in cucina, sembra essere<br />
in molti casi la continuazione <strong>del</strong>le mani<br />
che lo impugnano, trasferendo alle<br />
stesse, quasi per magia, quelle<br />
sensazioni tattili che distinguono un<br />
cuoco da un gourmet.<br />
Amedeo Sandri<br />
Il rame in cucina: lusso o esigenza?
32<br />
Deliziose pietanze e un buon bicchiere di vino non sono tutto a tavola:<br />
certo sono importanti, ma quale tristezza mangiare da soli… Già, il<br />
piacere di stare assieme è un’occasione per relazionare e socializzare,<br />
traendo piacere dal cibo e dalla compagnia, che riporta ai tempi in cui<br />
le famiglie facevano Filò. Nei mesi invernali nelle fredde e spoglie case<br />
di campagna il dispendioso focolare si utilizzava esclusivamente per<br />
cuocere il poco cibo, per questo le famiglie trascorrevano la maggior<br />
parte <strong>del</strong> tempo nella stalla, l’unico ambiente <strong>del</strong>la casa dove non si<br />
pativa il freddo. Terminata la cena, spento il fuoco che ardeva libero sul<br />
fogolàre, mentre il vento penetrava ululando dal camino, la numerosa<br />
famiglia patriarcale si rifugiavano nella stalla. Questa, dopo essere stata<br />
aperta e ventilata per tutta l’estate, con l’arrivo dei primi freddi veniva<br />
chiusa e si provvedeva a sigillare gli spifferi. Il calore <strong>del</strong>le vacche<br />
donava un impagabile tepore, rendendola un’oasi sicura nella notte<br />
fredda e tenebrosa. <strong>La</strong> stalla diventava un locale pubblico, dove tutti si<br />
sentivano come a casa loro; disposti in cerchio sotto il lume appeso con<br />
una stanga ai travi gli uomini sbrigavano i lavori stagionali, mentre le<br />
donne rammendavano i capi sgualciti o filavano ai ferri (da qui il nome<br />
Filò). I bambini facevano i compiti svogliati, bramosi di giocare, e di<br />
ascoltare favole e leggende narrate dagli anziani. Tra lavori e giochi,<br />
favole e momenti di riposo, erano le parole a caratterizzare il Filò, si<br />
parlava di tutto: dei fatti recenti e remoti, vicini o lontani.<br />
Man mano che le ore passavano, tra un pipata e qualche raro bicchiere<br />
di graspìa, la vivacità si andava smorzando. Il Filò stringeva assieme i<br />
membri <strong>del</strong>la famiglia e i vicini, creando solidarietà tra le famiglie,<br />
diventando patrimonio di tutti.<br />
Una tradizione che negli anni ha visto le famiglie abbandonare la stalla<br />
per ritrovarsi attorno al fogolàre <strong>del</strong>la cucina, simbolo di solidità e di<br />
Il piacere di stare insieme<br />
calore, ancora oggi collegato a momenti lontani dallo stress e dagli<br />
obblighi quotidiani. Quello stesso piacere di stare assieme che si può<br />
ritrovare a tavola.<br />
Un buon pranzo, una buona cena, sono senz’altro il modo per passare<br />
alcune ore in completo relax e in totale distensione. <strong>La</strong> gioia <strong>del</strong>lo stare<br />
assieme per gustare, con i sapori <strong>del</strong> cibo, anche una dimensione<br />
d’autenticità che i ritmi <strong>del</strong>la vita moderna hanno posto in secondo<br />
piano. <strong>La</strong> tavola è un momento di socializzazione importante, a cui,<br />
malgrado i frenetici ritmi <strong>del</strong>la vita moderna non dovremmo mai<br />
rinunciarvi. L'ingrediente più importante è senza dubbio la voglia di<br />
stare assieme, di relazionare, davanti al cibo e al vino, parte <strong>del</strong>la nostra<br />
vita, <strong>del</strong>la quotidianità e <strong>del</strong>la nostra cultura.<br />
Valori importanti ed insostituibili, tramandati da generazioni, da non<br />
dimenticare.<br />
Paolo Gasparin
Lo sai che...<br />
Paillard era un albergatore?<br />
Quando al ristorante vogliamo fare dieta, stare leggeri, non sentirci in<br />
colpa per piatti che sono complessi, grassi, (ma anche i più gustosi)<br />
chiediamo una paillard.<br />
Da dove viene questo nome?<br />
Andiamo indietro alla fine <strong>del</strong>l’800, a Parigi, dove il bel mondo si dava<br />
appuntamento. Un locale eccelleva su tutti: il Paillard Bellevue Palace.<br />
Lì trovavi tutti i personaggi in voga <strong>del</strong> momento, da Toulouse <strong>La</strong>utrec<br />
ai Granduca russi, sempre, ovviamente, accompagnati da splendide<br />
donne e lì si mangiava egregiamente. Il proprietario <strong>del</strong> locale era<br />
Monsieur Paillard che inventò questa semplicissima pietanza, una fetta<br />
di vitello o una sottile entrêcote di manzo (mai oltre i 130-140<br />
grammi) leggermente battuta, cotta alla griglia o alla piastra senza<br />
alcun condimento, salata, pepata e servita con succo di limone.<br />
Ben più complessa un’altra sua preparazione, le “Pommes Georgettes”,<br />
cioè patate cotte al forno, svuotate e riempite con un farcia di<br />
granchio!<br />
Ma è passato alla storia per questa sua fettina adatta a chi aveva, ed<br />
ha, problemi di digestione e di dieta, e non per le ghiotte patate.<br />
Come nella vita anche in tavola non sempre il buono prevale!<br />
Frà Ghiottone
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<strong>La</strong> cucina “italiota”<br />
dei Ristoranti di New York<br />
Ho un figlio che vive e lavora a New York e, circa due volte ogni anno, vado a trovarlo ed inevitabilmente trovo e provo<br />
una serie di ristoranti italiani già dai nomi chiaramente distinguibili: Nino, Da Filippo, Nero, Zucchero e Pomodori,<br />
Mammamia (sic), Parma, Venezia, Arquà, ecc. Oltre a quelli ben più noti e conosciuti da tutti come Le Cirque, Babbo,<br />
Cipriani, Pepolino, Coco Pazzo o il Toscanaccio o il Felidia <strong>del</strong>la Lidia Bastianich, nota anche da noi. Che tipo di cucina<br />
praticano i primi, quelli “sconosciuti”? Che prodotti riescono a trovare, quale cultura di cucina li anima e che risultati<br />
ottengono?<br />
E’ necessaria una doverosa premessa: il mio giudizio sui ristoranti non<br />
internazionalmente conosciuti, è privo d’ogni tipo di “malevolenza” tipica<br />
<strong>del</strong> gastronomo che monta inevitabilmente in cattedra come depositario<br />
di un “sapere” che compiace solo lui! Guardo ciò che mi circonda ed il<br />
perché e ne traggo conclusioni. E qui bisogna evidentemente pensare<br />
che la cucina italiana è originata da emigranti, che hanno portato la<br />
cultura <strong>del</strong> loro paese, l’inevitabile semplicità dei piatti contadini, l’uso di<br />
materie che erano nella disponibilità dei loro luoghi d’origine. Si<br />
legittimano pertanto i piatti come la pasta con le meat balls (polpette), i<br />
broccoli utilizzati in modo massiccio, l’uso di prodotti in un insieme che,<br />
il più <strong>del</strong>le volte, è eccessivo. Ad esempio: fettucine all’Amatriciana (al<br />
Ristorante Marisa) condite con un sugo di gamberetti, tartufo nero e<br />
speck in una salsa di pomodoro e cipolla! Oppure i ravioli di pecorino<br />
toscano, succo (sic) di pomodoro, fave e piselli, <strong>del</strong> ristorante Lumi. Da<br />
qui una cucina che si è non solo allontanata dai canoni di certi piatti <strong>del</strong>la<br />
tradizione, ma ha trovato un “modernismo” che poco si addice al gusto<br />
nostro. Si deve anche considerare che l’inevitabile multietnicità <strong>del</strong>la<br />
clientela rende tutto più facile nel gusto: non vi sono termini di paragone.
Non vi è, in questi locali, un obbligo di menù considerato come il nostro (antipasto,<br />
primo, secondo e dolce) ma in larghissima parte si mangia un’entrée ed un altro piatto.<br />
Il che modifica anche le quantità: sono, per il nostro gusto, piatti enormi, molto conditi,<br />
dai sapori sempre ben definiti.<br />
In questo senso si ha una cucina “italiota” (i latini direbbero absit iniuria verbis) o, se<br />
preferite, una cucina “italo-americana”, le cui radici sono legate alla nostra terra ma non<br />
hanno subito l’evoluzione <strong>del</strong> gusto che noi consideriamo ormai obbligatoria.<br />
Vi sono, a fianco di questi, locali ove tutto è più vicino al nostro gusto, alla nostra maniera<br />
di far cucina: penso ad un locale di un veneto d’Arquà Petrarca (così si chiama il suo<br />
locale: “Arquà”) ove è viva una cucina d’ottima preparazione, d’intelligente costruzione e<br />
di buon gusto: ottimi i taglierini ai frutti di mare o i ravioli di melanzana, tanto quanto il<br />
fegato alla veneziana, da manuale nella dolcezza e morbidità. Ma sono, evidentemente,<br />
i frutti di una generazione che è arrivata a New York già preparata professionalmente e<br />
non da emigrante.<br />
<strong>La</strong> cucina francese infatti, giunta qui per fare business con cuochi già preparati, è canonicamente<br />
legata ai piatti <strong>del</strong>la madre terra senza variazioni di rilievo: ho provato una<br />
zuppa di cipolle gratinata al Cafè Luxembourg che nulla aveva ad invidiare a quelle di<br />
Parigi ed il “croque Monsieur” de Le Bistrot era pari a quello che si mangia a Montmartre.<br />
Il che non vuol dire che non vi sia una cucina italiana sofisticata e colta, una cucina<br />
regionale che negli ultimi anni si è imposta sul mercato per le grandi capacità, tanto che<br />
sta per iniziare il lavoro <strong>del</strong>l’Italian Culinary Experience, una scuola professionale di<br />
cucina italiana. Scuola da costi tipici <strong>del</strong>le Università Americane (circa 37 mila euro per<br />
29 settimane di studio) si svolgerà sia a New York sia in Italia (a Colorno da Gualtiero<br />
Marchesi) e poi in giro per ristoranti italiani.<br />
Ed inoltre la cucina italiana sta vivendo un periodo bellissimo legato alla presenza di<br />
personaggi di rilievo, da Mario Batali (italiano, ma nato e cresciuto a Seattle), al<br />
fascinoso Rocco Di Spirito che è divenuto famoso con un programma televisivo “The<br />
Restaurant”, alla Giada De <strong>La</strong>urentis che, pur avendo studiato al Cordon Bleu di Parigi,<br />
propone ricette tradizionali regionali italiane con molto buon gusto.<br />
<strong>La</strong> cucina italiana è dunque in grand’evoluzione, anche se le polpette con la pasta (le<br />
meat balls) ancora imperversano nei locali di cucina italo-americana. Ed anche se si va<br />
verso il meglio è forse preferibile provare una bistecca dal mitico Peter Luger a Brooklin<br />
(si paga solo per contanti), o da Gallagher a Manhattan o da Smith e Wollensky, pietre<br />
miliari <strong>del</strong>la famose “sirloin” o “T bone”.<br />
Alfredo Pelle<br />
<strong>La</strong> cucina “italiota”<br />
dei Ristoranti di New York<br />
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