sulla riforma urbanistica 5 Le tesi sono pubblicate in un supplemento allegato al n. 108, novembre-dicembre 1989, della rivista Urbanistica informazioni. 6 Si veda P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993. 7 Le tesi alternative sono pubblicate in eddyburg.it, al seguente indirizzo: http://eddyburg.it/article/ 8 articleview/10649/0/15/ Le ragioni sono espresse nell’editoriale di “Commiato” che pubblicai nell’ultimo numero di Urbanistica informazioni che uscì sotto la mia direzione (n. 125-126, settembre-dicembre 1992). 9 Convegno nazionale “1942-1992: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana”, Venezia, 8-9 ottobre 1992. Ora in: Cinquant’anni dalla legge urbanistica italiana 1942-92, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma, 1993. 10 Il Piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna fu adottato il 29 dicembre 1986. 11 “Nota sulle proposte di riforma urbanistica dell’INU -1995”, in: XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995, Atti, Volume secondo - I contributi al congresso. 12 Nel mio Fondamenti di urbanistica (Laterza, Roma-Bari, 1998) l’ho definito come quel principio per il quale “ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione; mediante atti, cioè, nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - riferite precisamente al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte”. 26
Urbanistica che fare? In molti paesi europei, e non solo, l’urbanistica è stata la leva che ha risollevato le città e le economie nazionali dalla crisi post-industriale. Anche in questi paesi l’urbanistica è in genere materia di competenza locale/regionale, ma ciò non toglie che i governi nazionali se ne occupino ugualmente, direttamente o indirettamente, con indirizzi, programmi, provvedimenti e anche finanziamenti specifici. Naturalmente anche in questi paesi l’urbanistica crea da sempre conflitti; e anzi più di sempre, da quando l’urbanistica si è rivolta, in buona misura, alla trasformazione di parti di città già costruite (e magari abitate), inutilizzate (es. are industriali dismesse) e/o variamente degradate. E naturalmente anche in questi paesi l’urbanistica produce ricchezza, il che però non suscita particolare scandalo. Anzi, proprio questo è considerato l’interessante dell’urbanistica, il che contribuisce per altro anche a un’immagine positiva dell’urbanistica; più o meno, a seconda della capacità delle amministrazioni di recuperare una parte di questa ricchezza e, specialmente, di reinvestirla in miglioramenti ambientali e della qualità urbana in genere. Il convertire “direttamente” una parte del plus valore (o della “rendita”, se si vuole) delle trasformazioni urbane in “beni pubblici”, attraverso la mediazione dell’ente di governo locale, sembra per altro trasgredire una delle regole auree dell’economia classica (Einaudi, per esempio), che vorrebbe a monte (e a livello “centrale”) tasse generiche e generalizzate (possibilmente proporzionate ai redditi) e a valle macroscelte di spesa (sempre a livello “centrale”), più o meno adeguatamente ripartite, secondo necessità e opportunità, tra re-distribuzione sociale (assistenza, servizi pubblici, sicurezza,, housing sociale, etc.), comunque più o meno equa, e investimenti, comunque più o meno oculati. Questa seconda scelta è con tutta evidenza più sulla riforma urbnistica di Paolo Avarello difficile, dal punto di vista “politico”, perché necessariamente più determinata, più selettiva, e spesso anche meno immediatamente “spendibile” come immagine, soprattutto per opere che comportino tempi lunghi di realizzazione. Tuttavia, se nell’immediato questa scelta favorisce inevitabilmente una o più categorie (es. le imprese che realizzano infrastrutture), a medio/lungo termine anch’essa va a favore di tutti, perché sostiene comunque l’economia “reale”, e inoltre produce “beni collettivi”. E va detto che questa regola, già incrinata dal “modello keynesiano”, è stata comunque messa in crisi ovunque dagli sviluppi economici e sociali della seconda metà del secolo scorso. In particolare, con il mutamento di ruolo degli “stati centrali”, prodotto in buona parte appunto dalla crisi della “società industriale”, poi dalla fase di ristrutturazione dei sistemi produttivi, infine dalla tendenziale crescita delle autonomie regionali/locali, variamente perseguita, interpretata e più o meno organizzata nei diversi paesi. Questa fase critica della nostra storia recente ha significato per altro anche la fine, in Europa, e comunque la crisi, ovunque, dell’alternativa statalista di tipo socialista. In questo processo “inevitabile” un ruolo significativo, per i paesi europei, è stato svolto dalla Comunità, e poi dalla Unione Europea, non tanto come attenuazione dei poteri formali dei singoli stati nazionali – comunque gelosi della “materia urbanistica”, e non a caso – quanto in termini di controllo economico e finanziario (es. indebitamento, inflazione), di tendenziale omogeneizzazione di alcune regole e procedure (es. riguardo l’ambiente, ancora la finanza, i sistemi di valutazione, le certificazioni, etc.); infine, in parte, e in qualche modo, anche sulla concezione stessa dello “sviluppo” (più o meno “sostenibile/durevole”) e sulle modalità del suo perseguimento, soprattutto a livello locale. 27