NOTIZIARIO DELL'ARCHIVIO OSVALDO PIACENTINI - CAIRE
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europei, così come le critiche di oggi – non sono in<br />
genere positivi, anche se a volte eccessivamente<br />
ingiusti. La fine di questa fase lascia comunque<br />
un vuoto, certamente determinante per la<br />
“questione abitativa”, ma che dovrebbe far<br />
riflettere anche sulla “questione urbanistica”, o<br />
almeno sui contenuti, e magari sulle “forme” dei<br />
piani urbanistici.<br />
Dai residui passivi del fondo ex-Gescal, già amministrato<br />
dal Cer – e anticipati da un paio di<br />
leggi regionali – nascono anche i primi di quelli<br />
in seguito definiti stabilmente “programmi complessi”,<br />
visti dapprima con scandalo, in quanto<br />
tendenzialmente strumenti “in variante” dei<br />
piani regolatori, per di più con modalità accelerate<br />
e/o semplificate (almeno in teoria), e di<br />
fatto basati sulla contrattazione tra pubblico (ovvero<br />
il comune) e privato, ovvero le imprese.<br />
Nonostante gli arcigni disgusti degli urbanisti<br />
più “trinariciuti”, e mettendo a parte le<br />
retoriche, questi programmi hanno avuto<br />
un iniziale successo, suscitando addirittura<br />
qualche entusiasmo; in qualche caso hanno<br />
perfino prodotto trasformazioni di qualche<br />
rilievo. Ho visto però, e più spesso, procedure<br />
“accelerate e semplificate” protrarsi per anni, tra<br />
mille contenziosi, e spesso, alla fine, partorire<br />
“topolini” (la ristrutturazione di un isolato o<br />
poco più) o, peggio, banalissimi insediamenti<br />
di espansione urbana, per i quali una “vecchia”<br />
lottizzazione convenzionata sarebbe stata anche<br />
troppo.<br />
Nella maggior parte dei casi, comunque, restano<br />
evidenti le difficoltà, le inerzie e gli attriti che si<br />
verificano tra la rigidità “senza tempo” delle<br />
prassi amministrative, e quindi anche dei piani<br />
urbanistici, che sono comunque anche strumenti<br />
sulla riforma urbnistica<br />
dell’amministrazione, e quella che dovrebbe<br />
essere una “nuova cultura (ovviamente non solo<br />
urbanistica) del fare”.<br />
In sostanza, i tentativi fino ad ora compiuti per<br />
rinnovare l’urbanistica italiana – dalle leggi regionali<br />
ai “nuovi” piani comunali che (più o<br />
meno) ne sono conseguiti, dalle pianificazioni<br />
territoriali alla sperimentazione dei “programmi<br />
complessi”, è affogata in buona parte – non<br />
tutta, per fortuna – nel totale disinteresse centrale/statale,<br />
nell’insipienza della politica (anche<br />
locale) – o almeno nella sua incapacità di modificare<br />
comportamenti e clientele – e, soprattutto,<br />
nell’inerzia culturale di tecnici e professionisti,<br />
interni ed esterni alle amministrazioni, che<br />
quando pure non espressamente ostili all’innovazione<br />
(per la verità non molti), hanno mostrato<br />
comunque, almeno, poca voglia di imparare,<br />
di aggiornarsi e di sperimentare; manovrando<br />
piuttosto per riassorbire le innovazioni nelle<br />
pratiche consuetudinarie, evidentemente più<br />
confortevoli.<br />
Fermo restando quindi l’obbligo morale di<br />
insistere, mettendo in atto ogni possibile<br />
pressione – e resistendo all’insopportabile<br />
silenzio politico – per una riforma nazionale<br />
del “governo del territorio” che sia davvero<br />
tale, e non si limiti a ridefinire le modalità della<br />
pianificazione locale/comunale, altrettanto e<br />
maggiore impegno bisognerebbe profondere<br />
per promuovere, a livello nazionale e locale, ma<br />
anche presso il piccolo popolo degli “addetti<br />
ai lavori”, una cultura urbanistica adeguata<br />
alle sfide di questo secolo, ovvero capace di<br />
affrontare e risolvere i problemi già emersi e<br />
quelli emergenti, per “produrre città” migliori,<br />
in maniera più efficiente e più equa.<br />
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