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UN PRETE<br />
CHE SA<strong>PE</strong>VA<br />
“INCARNARSI”<br />
NEGLI ALTRI<br />
Nell’occasione della<br />
beatificazione di don<br />
Carlo Gnocchi, ho riletto<br />
Cristo con gli alpini,<br />
un suo libro, ristampato<br />
in anastatica, nel<br />
centenario della nascita,<br />
in numero limitato di copie: 1000. La mia<br />
è la numero 0860. La conservo come memoria<br />
dolcissima di un grande Educatore, che dentro<br />
aveva un pizzico di Don Bosco. Non solo<br />
perché aveva frequentato la seconda ginnasiale<br />
a Milano dai salesiani di via Copernico −<br />
una splendida pagella con un due in latino nel<br />
primo trimestre e un sette e mezzo finale (vedere<br />
“Presenza Educativa” n.16, giugno 2009,<br />
p. 17) − ma perché di don Bosco, ottimo traduttore<br />
del Vangelo in campo educativo, aveva<br />
appreso quel principio dell’incarnazione che<br />
gli ha permesso di essere prossimo ai suoi ragazzi,<br />
ai suoi alpini negli anni della guerra.<br />
Leggendo l’introduzione di Cristo tra gli alpini,<br />
firmata nel 1942 da Innocenzo Cappa, appare<br />
la figura del Cappellano, di don Carlo,<br />
proprio nel suo “incarnarsi” nella vita dei<br />
suoi giovani alpini: «Il Cappellano che non sale<br />
sugli autocarri per risparmiarsi la fatica, che<br />
non abbassa il capo per non esporsi alle armi<br />
nemiche, che non mormora in fretta le sue preci<br />
per diminuire a sé medesimo il tempo del più<br />
L’esempio dei padri<br />
grave rischio, che fisicamente patisce con il più<br />
anonimo degli scarponi, che cade con lui, che si<br />
infanga come lui, diventa per l’anima rude ed<br />
eroica dell’alpino l’ambasciatore del Cielo fra<br />
gli spasimi della terra».<br />
E’ per questo suo mettersi nei panni dell’altro<br />
che «a lui, l’alpino si confida e gli sorride benché<br />
per natura sia avaro di sorriso, a lui chiede<br />
consiglio ed aiuto per le lettere che deve scrivere<br />
e per comprendere l’altro significato delle<br />
lettere che riceve».<br />
Don Carlo non era isolato dai suoi giovani,<br />
ma accomunato alla loro sorte: «Questo mangiare<br />
lo stesso pane (com’è bello, in linea,<br />
quando arriva la spesa mettersi in fila con gli<br />
altri a ricevere la razione!), questo dormire accanto<br />
agli altri, distesi per terra, nell’uguaglianza<br />
macerante della stanchezza e del sonno,<br />
questo marciare con il Battaglione incorporati<br />
nel reparto, polverosi come gli altri, col sacco in<br />
spalla come tutti, cantando a piena voce le canzoni<br />
alpine, dà il senso vivo di una comunione<br />
così intima e così eroica che ogni cosa, anche la<br />
più umile e ordinaria, si trasfigura nello spirito<br />
all’altezza e alla solennità di un rito e di un sacerdozio<br />
nuovo».<br />
Per don Carlo, insomma, non solo compartecipazione<br />
di vita, ma vera e propria incarnazione.<br />
Così dovrebbe essere per tutti coloro<br />
che si sentono responsabili di altre persone:<br />
preti e suore, educatori, genitori in famiglia,<br />
insegnanti nella scuola.<br />
don Vittorio Chiari<br />
direttore dell’Opera Salesiana S.Domenico Savio<br />
e del Collegio Universitario Paolo VI - Milano<br />
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