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F47 PE febbraio 2010 INTERNO

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UN PRETE<br />

CHE SA<strong>PE</strong>VA<br />

“INCARNARSI”<br />

NEGLI ALTRI<br />

Nell’occasione della<br />

beatificazione di don<br />

Carlo Gnocchi, ho riletto<br />

Cristo con gli alpini,<br />

un suo libro, ristampato<br />

in anastatica, nel<br />

centenario della nascita,<br />

in numero limitato di copie: 1000. La mia<br />

è la numero 0860. La conservo come memoria<br />

dolcissima di un grande Educatore, che dentro<br />

aveva un pizzico di Don Bosco. Non solo<br />

perché aveva frequentato la seconda ginnasiale<br />

a Milano dai salesiani di via Copernico −<br />

una splendida pagella con un due in latino nel<br />

primo trimestre e un sette e mezzo finale (vedere<br />

“Presenza Educativa” n.16, giugno 2009,<br />

p. 17) − ma perché di don Bosco, ottimo traduttore<br />

del Vangelo in campo educativo, aveva<br />

appreso quel principio dell’incarnazione che<br />

gli ha permesso di essere prossimo ai suoi ragazzi,<br />

ai suoi alpini negli anni della guerra.<br />

Leggendo l’introduzione di Cristo tra gli alpini,<br />

firmata nel 1942 da Innocenzo Cappa, appare<br />

la figura del Cappellano, di don Carlo,<br />

proprio nel suo “incarnarsi” nella vita dei<br />

suoi giovani alpini: «Il Cappellano che non sale<br />

sugli autocarri per risparmiarsi la fatica, che<br />

non abbassa il capo per non esporsi alle armi<br />

nemiche, che non mormora in fretta le sue preci<br />

per diminuire a sé medesimo il tempo del più<br />

L’esempio dei padri<br />

grave rischio, che fisicamente patisce con il più<br />

anonimo degli scarponi, che cade con lui, che si<br />

infanga come lui, diventa per l’anima rude ed<br />

eroica dell’alpino l’ambasciatore del Cielo fra<br />

gli spasimi della terra».<br />

E’ per questo suo mettersi nei panni dell’altro<br />

che «a lui, l’alpino si confida e gli sorride benché<br />

per natura sia avaro di sorriso, a lui chiede<br />

consiglio ed aiuto per le lettere che deve scrivere<br />

e per comprendere l’altro significato delle<br />

lettere che riceve».<br />

Don Carlo non era isolato dai suoi giovani,<br />

ma accomunato alla loro sorte: «Questo mangiare<br />

lo stesso pane (com’è bello, in linea,<br />

quando arriva la spesa mettersi in fila con gli<br />

altri a ricevere la razione!), questo dormire accanto<br />

agli altri, distesi per terra, nell’uguaglianza<br />

macerante della stanchezza e del sonno,<br />

questo marciare con il Battaglione incorporati<br />

nel reparto, polverosi come gli altri, col sacco in<br />

spalla come tutti, cantando a piena voce le canzoni<br />

alpine, dà il senso vivo di una comunione<br />

così intima e così eroica che ogni cosa, anche la<br />

più umile e ordinaria, si trasfigura nello spirito<br />

all’altezza e alla solennità di un rito e di un sacerdozio<br />

nuovo».<br />

Per don Carlo, insomma, non solo compartecipazione<br />

di vita, ma vera e propria incarnazione.<br />

Così dovrebbe essere per tutti coloro<br />

che si sentono responsabili di altre persone:<br />

preti e suore, educatori, genitori in famiglia,<br />

insegnanti nella scuola.<br />

don Vittorio Chiari<br />

direttore dell’Opera Salesiana S.Domenico Savio<br />

e del Collegio Universitario Paolo VI - Milano<br />

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