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Fathi Hassan

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Anno 3 - N. 6 (#65) Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano - Supplemento al «Corriere della Sera» del 10 febbraio 2013, non può essere distribuito separatamente<br />

Si gira il mondo,<br />

e per ogni persona<br />

c’è una madre.<br />

#65<br />

Domenica<br />

10 febbraio 2013<br />

<strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />

per il Corriere della Sera


2 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

RRR<br />

Sommario<br />

corriere.it/lalettura<br />

L’inserto continua online<br />

con il «Club della Lettura»:<br />

una community esclusiva<br />

per condividere idee e opinioni<br />

4 Il dibattito delle idee<br />

«Il nucleare aiuta la natura»<br />

di STEFANO GATTEI<br />

5 Mettiamo una tassa<br />

sulle citazioni facili<br />

di GUIDO VITIELLO<br />

Orizzonti<br />

6 Società<br />

Il ritorno dei barbari<br />

di GIUSEPPE SARCINA<br />

e ALESSANDRO ZIRONI<br />

8 Società<br />

La cucina della pace<br />

e la riscossa dei carnivori<br />

di ANGELA FRENDA<br />

e VIVIANA MAZZA<br />

11 Visual data<br />

Perché Lisbona<br />

assomiglia a Honolulu<br />

di GIORGIA LUPI<br />

e SIMONE QUADRI<br />

Caratteri<br />

12 L’intervista<br />

Il canone inverso<br />

di Jonathan Lethem<br />

di ALESSANDRA FARKAS<br />

14 Narrativa italiana<br />

Una naturalista<br />

in casa Manzoni<br />

di ERMANNO PACCAGNINI<br />

17 Personaggi<br />

Il mondo della Dc<br />

raccontato da una figlia<br />

di ALDO GRASSO<br />

18 Le classifiche dei libri<br />

La pagella<br />

di ANTONIO D’ORRICO<br />

Sguardi<br />

20 Tendenze<br />

Fede nell’arte:<br />

il Vaticano alla Biennale<br />

di STEFANO BUCCI<br />

e VINCENZO TRIONE<br />

22 Riscoperte<br />

L’infanzia di Cindy Sherman<br />

di ARTURO CARLO QUINTAVALLE<br />

24 Il protagonista<br />

Timothy Greenfield-Sanders<br />

il fotografo d’America<br />

di GIANLUIGI COLIN<br />

Percorsi<br />

26 Graphic novel<br />

L’ultimo gladiatore<br />

di MICHELE PETRUCCI<br />

28 La biografia/1<br />

L’uomo che scoprì Timbuctù<br />

di ELISABETTA ROSASPINA<br />

29 La biografia/2<br />

La donna che insegna<br />

Beethoven ai sordi<br />

di PAOLA D’AMICO<br />

30 Controcopertina<br />

I malati all’ergastolo<br />

di FULVIO BUFI<br />

e LUIGI FERRARELLA<br />

Il dibattito delle idee<br />

In Europa le regole variano. Nel nostro Paese<br />

occorre aggiornare le leggi alla nuova società<br />

Ius<br />

scholae<br />

Oltre il diritto di sangue<br />

oltre il diritto del suolo<br />

Diamo la cittadinanza<br />

agli stranieri che vanno a scuola<br />

di MAURIZIO FERRERA<br />

Forse non sarà all’ordine del giorno nella prima<br />

riunione del nuovo governo (come promette<br />

il programma del Pd), ma è certo che<br />

la questione della cittadinanza agli immigrati<br />

dovrà essere seriamente affrontata nella<br />

prossima legislatura. In Italia risiedono stabilmente<br />

quasi tre milioni e mezzo di persone<br />

che provengono da Paesi non appartenenti all’Ue. Il<br />

nostro «tasso di naturalizzazione» si situa però al di sotto<br />

della media Ue ed è pari alla metà di quello francese<br />

o britannico. Siamo in altre parole fra i Paesi più avari<br />

nel concedere la cittadinanza agli immigrati, e in particolare<br />

ai loro figli, anche se nati in ospedali italiani. Si<br />

tratta di 650 mila minori in tutto, 75 mila nuove registrazioni<br />

all’anno. Questi ragazzi parlano la nostra lingua,<br />

guardano la televisione, vanno a scuola, dove studiano<br />

storia, geografia e letteratura italiana. Ma sono considerati<br />

«extracomunitari» o semplicemente «stranieri».<br />

L’acquisizione della nazionalità è attualmente disciplinata<br />

dalla legge 91 del 1992. È automaticamente cittadino<br />

chi nasce da genitori italiani o possa vantare una discendenza<br />

diretta da cittadini italiani, anche senza essere<br />

nato nel nostro Paese. Per chi non possiede questi<br />

requisiti la naturalizzazione è un percorso a ostacoli. Bisogna<br />

prima ottenere un permesso e poi una carta di<br />

soggiorno. Le norme che disciplinano queste tappe dovrebbero<br />

essere allineate a una direttiva del 2004, ma<br />

purtroppo non è così. Le procedure sono più lunghe,<br />

macchinose e restrittive di quanto previsto dalla direttiva.<br />

Dopo dieci anni di residenza legale, si può chiedere<br />

la cittadinanza. La media degli altri Paesi è di cinque<br />

anni e, paradossalmente, era così anche in Italia prima<br />

della legge del 1992. La nazionalità si può successivamente<br />

trasmettere ai figli, come un’eredità. Se ciò non<br />

avviene, questi ultimi restano stranieri residenti. Dopo i<br />

18 anni, possono, sì, chiedere la cittadinanza, ma solo se<br />

risultano nati sul suolo italiano, sono stati immediatamente<br />

registrati all’anagrafe (cosa che non avviene se i<br />

genitori sono o erano irregolari) e hanno soggiornato<br />

senza interruzioni in Italia per diciotto anni (molti figli<br />

di immigrati trascorrono lunghi periodi con i parenti<br />

nel Paese di origine). Un sistema anacronistico, che stride<br />

con le migliori pratiche internazionali, ingiustamente<br />

punitivo oltre che irragionevole sul piano economico,<br />

politico e sociale. Il nostro Paese deve urgentemente<br />

modernizzare la propria «politica della cittadinanza»:<br />

senza massimalismi, ma con coraggio e nel rispetto della<br />

cornice europea. Quali direzioni seguire?<br />

Nel corso del XX secolo, la naturalizzazione degli stranieri<br />

è stata collegata al cosiddetto ius sanguinis (presenza<br />

di genitori o antenati già «nazionali»: caso tipico<br />

RRR<br />

La naturalizzazione va vista<br />

come un processo graduale,<br />

accompagnato da incentivi<br />

e da corsie preferenziali,<br />

soprattutto per i minori<br />

i<br />

In Italia vige lo ius sanguinis:<br />

italiani i figli di italiani. La<br />

cittadinanza si può acquisire<br />

per matrimonio o dopo 10<br />

anni di residenza (5 i rifugiati,<br />

4 i cittadini Ue). I nati in Italia<br />

hanno una finestra tra i 18 e i<br />

19 anni per richiederla<br />

In Francia oltre al «diritto di<br />

sangue» è previsto un «diritto<br />

di suolo differito»: i figli di<br />

genitori stranieri diventano<br />

francesi al compimento della<br />

maggiore età. Per la<br />

naturalizzazione bastano 5<br />

anni di residenza, 2 per chi ha<br />

frequentato una Grande École<br />

Chi nasce in Germania da<br />

genitori stranieri riceve la<br />

cittadinanza se almeno uno<br />

dei genitori risiede<br />

regolarmente da 8 anni e da<br />

3 possiede un permesso di<br />

soggiorno illimitato. Ha poi<br />

tempo fino ai 23 anni per<br />

scegliere un solo passaporto<br />

Può chiedere la cittadinanza<br />

britannica lo straniero che<br />

vive nel Regno Unito da 5<br />

anni. I figli di stranieri<br />

legalmente residenti (con<br />

permesso illimitato) nati su<br />

suolo britannico hanno<br />

diritto alla cittadinanza<br />

la Germania) oppure allo<br />

ius soli (nascita nel territorio<br />

nazionale: casi tipici<br />

gli Stati Uniti e la Francia).<br />

I due criteri riflettevano<br />

concezioni filosofiche profondamente<br />

diverse di ciò<br />

che deve fondare l’appartenenza<br />

a una comunità politica:<br />

una concezione «oggettiva»,<br />

basata su sangue<br />

e stirpe, contrapposta a una «soggettiva», basata sulla<br />

condivisione di valori, diritti e doveri. Fichte contro Renan,<br />

in altre parole: nazione-popolo versus nazione-repubblica.<br />

Sulla scia degli imponenti flussi migratori degli<br />

ultimi due decenni, questi criteri non tengono più<br />

nella loro forma pura. Che senso ha concedere la cittadinanza<br />

per «legami di sangue» a chi è nato e risiede all’estero<br />

e non ha magari nessun rapporto con la madrepatria?<br />

Perché negare la nazionalità (o farla sospirare<br />

per un tempo quasi infinito) a uno straniero che non è<br />

nato in loco ma si è bene integrato nel Paese di immigrazione?<br />

Oppure concederla per «legami di suolo» a chi è<br />

nato in un dato Paese solo per caso, senza poi vivervi<br />

stabilmente?<br />

Una seria politica della cittadinanza va oggi imperniata<br />

su nuovi criteri: essenzialmente la residenza (ius domicilii),<br />

accompagnata da «filtri» che attestino la disponibilità<br />

e la misura dell’integrazione (frequenza scolastica,<br />

lavoro regolare, conoscenza della lingua e così via).<br />

La naturalizzazione non deve essere più vista come un<br />

passaggio «puntuale», un salto di status irreversibile disciplinato<br />

da criteri molto generali e automatici. Va piuttosto<br />

vista come un processo graduale, accompagnato<br />

da incentivi premiali e corsie preferenziali. Ciò vale soprattutto<br />

per i minori, ai quali dovrebbe applicarsi una<br />

combinazione di ius domicilii e ius scholae (il ministro<br />

Riccardi ha recentemente usato l’espressione di ius culturae).<br />

Nel linguaggio degli esperti, questo canale è definito<br />

socialization-based acquisition: la naturalizzazione<br />

è condizionata alla frequenza scolastica e/o ad altre<br />

esperienze formative. La giustificazione di questa posizione<br />

è quasi intuitiva. Chi è stato socializzato alla cultura<br />

e alla lingua di un dato Paese ha più alte probabilità<br />

di condividerne i valori o quanto meno di rispettare il<br />

pacchetto di diritti e doveri vigente in quel Paese. Come<br />

sosteneva Ernest Renan, dopo tutto la cittadinanza è un<br />

«plebiscito quotidiano»: ogni giorno i membri della comunità<br />

politica «scelgono» di ubbidire alla legge. D’altra<br />

parte, chi diventa cittadino ha un incentivo ulteriore<br />

a seguire le norme del proprio Paese: si origina in altre<br />

parole un vero e proprio circolo virtuoso. In Francia (dove<br />

è stato ormai abbandonato lo ius soli) un minore che<br />

abbia seguito un percorso d’istruzione per almeno cinque<br />

anni ha automaticamente diritto alla cittadinanza.<br />

In Danimarca e Finlandia il diritto scatta anch’esso automaticamente<br />

con la frequenza scolastica, a partire dai<br />

15 anni (purché non ci siano state condanne penali che<br />

prevedano il carcere).<br />

A partire dal 2009 si è finalmente aperto anche in Ita-


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

lia un dibattito sulle regole di naturalizzazione. Nel novembre<br />

2011 il presidente della Repubblica ha parlato<br />

esplicitamente delle gravi manchevolezze del vigente sistema.<br />

Nel suo discorso di fine anno, lo scorso 31 dicembre,<br />

Napolitano è tornato a denunciare la situazione dei<br />

minori extracomunitari e delle loro difficoltà di integrazione.<br />

In Parlamento giacciono diversi progetti di legge<br />

che puntano in direzione europea: rimandare ancora la<br />

riforma sarebbe un peccato grave.<br />

La cornice europea invita a riflettere non solo sui percorsi<br />

di acquisizione, ma anche sulla definizione stessa<br />

di cittadinanza. Anche qui sembra opportuno superare<br />

la giustapposizione secca cittadino/straniero e prevedere<br />

forme intermedie di «quasi-cittadinanza». I paralleli<br />

storici rischiano di essere fuorvianti. Ma ricordiamo<br />

che, per gestire la convivenza civile di un vasto impero<br />

multietnico, il diritto romano distingueva fra cives romani<br />

optimo iure (detentori di tutti i tipi di diritti, compresi<br />

quelli politici), cives latini (che potevano fruire di<br />

un pacchetto base di diritti, soprattutto di natura economico-sociale),<br />

e peregrini, ai quali si applicava unicamente<br />

lo ius gentium. Anche un impero più recente,<br />

quello britannico, introdusse forme di cittadinanza differenziata<br />

che sono in parte ancora in vigore all’interno<br />

del Commonwealth, raggruppate sotto il nome di denizenship<br />

(un termine di origine anglo-romanza: le prerogative<br />

di chi si trova «de dans», ossia «dentro»). I diritti<br />

conferiti da queste forme sono raccordati con quelli del<br />

Paese di origine (soprattutto in campo previdenziale e<br />

sanitario), promuovendo così anche forme di «migrazione<br />

pendolare» (pensiamo a un medico indiano che voglia<br />

lavorare sei mesi l’anno in un ospedale britannico).<br />

L’istituto della cittadinanza Ue (introdotto dal Trattato<br />

di Maastricht nel 1992 e via via rafforzato) può già essere<br />

considerato una forma di denizenship: si tratta infatti<br />

di uno status che conferisce ai nazionali di ciascun Paese<br />

membro alcuni diritti che possono essere esercitati<br />

entro tutto il territorio dell’Unione. Per ora la cittadinanza<br />

Ue è di «secondo ordine» rispetto a quella nazionale:<br />

può solo aggiungersi, ma non precedere o sostituire la<br />

cittadinanza di un Paese membro. Ma nulla impedisce<br />

(soprattutto dopo il trattato di Lisbona) di utilizzarla come<br />

status alternativo o preparatorio alla cittadinanza nazionale<br />

per gli immigrati extracomunitari che soddisfano<br />

certi requisiti di nascita e/o di «merito» (conoscenza<br />

della lingua, istruzione, lavoro regolare, possesso di<br />

particolari competenze e così via).<br />

All’interno di una cornice così articolata, potrebbero<br />

trovare collocazione anche la questione delle «corsie<br />

preferenziali» (soprattutto, come si è detto, per i minori)<br />

e quella ancora più delicata della possibile revoca della<br />

cittadinanza per chi commette reati gravi e ripetuti.<br />

La «buona condotta» potrebbe diventare uno dei più<br />

elementari filtri selettivi, rimanendo eventualmente<br />

operativo anche per un certo lasso di tempo dopo la piena<br />

naturalizzazione.<br />

Come ben sappiamo, l’immigrazione è oggi uno dei<br />

temi politicamente più scottanti. Secondo i sondaggi in<br />

molti Paesi la maggioranza degli elettori si dichiara preoccupata<br />

e insicura. In Italia il 51 per cento degli elettori<br />

ritiene che ci siano «troppi immigrati extracomunitari»,<br />

il doppio di Francia e Germania. L’80 per cento<br />

esprime forte preoccupazione soprattutto nei confronti<br />

dell’immigrazione clandestina: una delle percentuali<br />

più alte d’Europa. Nelle ultime elezioni europee i partiti<br />

xenofobi hanno ovunque guadagnato voti ed è prevedibile<br />

che il sostegno per tali formazioni aumenti ancora<br />

in occasione del prossimo rinnovo del Parlamento di<br />

Strasburgo, l’anno prossimo. C’è il rischio di una spirale<br />

di polarizzazione ideologica, non solo da parte dei nazionali,<br />

ma anche da parte degli «stranieri» (come sta<br />

già avvenendo in Francia).<br />

Sappiamo che le economie e i welfare europei non<br />

possono più fare a meno degli immigrati. Pensiamo per<br />

un momento alle pensioni. Come in tutti i Paesi Ue, il<br />

sistema pensionistico italiano si basa sulla cosiddetta<br />

«ripartizione»: le prestazioni in pagamento vengono finanziate<br />

dal flusso dei versamenti contributivi di chi lavora,<br />

senza accantonamenti. Come si potrebbero mantenere<br />

adeguati flussi di contribuzione se venisse a mancare<br />

anche solo una parte dei lavoratori extracomunitari<br />

regolari? Sappiamo che la grande maggioranza di questi<br />

lavoratori (con un numero crescente di figli) si sono perfettamente<br />

inseriti nella nostra società. L’integrazione è<br />

non solo possibile ma anche vantaggiosa per tutti. Una<br />

nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare<br />

ulteriormente questo processo e contenere i rischi<br />

di pericolose radicalizzazioni.<br />

RRR<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

La buona condotta deve valere<br />

come filtro. L’integrazione<br />

non è solo possibile ma anche<br />

vantaggiosa, benché l’avanzata<br />

dei populismi freni tutto<br />

ILLUSTRAZIONE<br />

DI BEPPE GIACOBBE<br />

La ricerca<br />

Marocchini e albanesi<br />

i più motivati<br />

a diventare italiani<br />

di ALESSANDRA COPPOLA<br />

Anche i numeri possono tracciare<br />

dei volti, dar loro un<br />

corpo, collocarli in uno sfondo.<br />

Un uomo passa la calce<br />

sul muro, arrampicato su un<br />

ponteggio a Milano, è arrivato dall’Albania.<br />

Un venditore ambulante s’aggira<br />

per le strade di Torino, è partito molti<br />

anni fa dal Marocco. Un terzo s’alza all’alba<br />

per mungere vacche nella Bassa<br />

Bresciana, è nato in India. Un profilo di<br />

donna, impiegata come badante, vive a<br />

Napoli, è ucraina. Oppure una colf, intenta<br />

a rifare i letti in un appartamento<br />

veneto, probabile che sia moldava.<br />

Ci sono i dati della presenza straniera<br />

in Italia (4.570.317 al primo gennaio<br />

2011 per l’Istat), le cifre che raccontano<br />

di che nazionalità sono (primi i romeni,<br />

968 mila), quanti minori (1.038.275),<br />

quanto lavorano e con che stipendio,<br />

tutto scritto nell’ultimo Rapporto sull’economia<br />

dell’immigrazione della Fondazione<br />

Leone Moressa di Venezia, specializzata<br />

sul tema. E poi c’è un modo<br />

diverso di leggere le tabelle, scomponendole<br />

e aggregandole di nuovo per<br />

comunità, e tirando fuori per le prime<br />

dieci più numerose un identikit dei nuovi<br />

abitanti d’Italia. È il lavoro che ha appena<br />

concluso Marta Cordini, giovane ricercatrice<br />

della Fondazione Moressa,<br />

che da questo gioco delle carte d’identità<br />

ha capito molte cose. Anche sul desiderio<br />

di ottenere la cittadinanza italiana,<br />

che resta comunque meta per pochi<br />

(0,8 per cento).<br />

«Tra le comunità emergono differenze<br />

interessanti — spiega Cordini — che<br />

derivano non solo da ragioni economiche,<br />

ma soprattutto dai tratti culturali,<br />

dai progetti migratori, dalle reti etniche».<br />

La distribuzione territoriale, per<br />

cominciare. I cinesi che prendono casa<br />

a Milano, a Firenze, a Prato, ma anche a<br />

Treviso e Reggio Emilia. Per ragioni di<br />

ricerca del lavoro, certo, che resta la<br />

spinta principale: «È il motivo per cui<br />

gli immigrati continuano a essere più<br />

numerosi al Centro e al Nord e nelle<br />

grandi città». Ma rimane fondamentale<br />

per orientare i percorsi la presenza di reti<br />

di connazionali, meglio ancora se parenti,<br />

che hanno già una storia di insediamento<br />

nei Comuni italiani. La maggior<br />

parte dei tunisini si è stabilita nel<br />

Ragusano, per esempio: si spiega con<br />

gli storici scambi tra le due coste del Mediterraneo<br />

e con gli ultimi sbarchi sull’onda<br />

delle primavere arabe. Ma una<br />

forte presenza si registra anche a Modena<br />

più che a Milano, o a Parma più che a<br />

Roma.<br />

La comparazione tra gli identikit racconta<br />

anche di una disparità tra le retribuzioni.<br />

Le comunità arrivate per prime<br />

hanno maturato maggiori capacità contrattuali,<br />

riescono a far valere meglio i<br />

propri diritti. I filippini, invece, per la<br />

maggior parte impiegati part time o comunque<br />

a orari ridotti in attività domestiche,<br />

spesso anche in nero, fanno registrare<br />

salari più bassi. Trasversale è, invece,<br />

la differenza tra le paghe di uomini<br />

e donne. Vale per gli italiani come<br />

per gli stranieri, «un po’ più lieve tra i<br />

cinesi, che spesso hanno attività commerciali<br />

a conduzione familiare — continua<br />

Cordini —, raggiunge punte molto<br />

alte tra i marocchini, con una differenza<br />

anche di 380 euro al mese».<br />

Le donne provenienti dall’ex blocco<br />

sovietico, in particolare, «soffrono di<br />

sotto inquadramento: svolgono mansioni<br />

inadeguate al titolo di studio, che<br />

spesso è superiore a quello dei connazionali<br />

maschi». Sono laureate, ma lavorano<br />

come domestiche o portinaie. A<br />

volte, arrivate in Italia, cercano di riscat-<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

La Fondazione Moressa<br />

analizza flussi e ambizioni<br />

tarsi, frequentano corsi di specializzazione,<br />

conquistano diplomi da operatrice<br />

sanitaria, per esempio. Così, se il<br />

37,5 per cento delle romene è impiegato<br />

nella cura alle persone, si scopre che<br />

l’11,2 lo fa in maniera qualificata. Magra<br />

consolazione per le lavoratrici: la crisi<br />

ha colpito di più gli uomini, e tra questi<br />

soprattutto est-europei e africani, perché<br />

ha bersagliato maggiormente il settore<br />

delle costruzioni e della manifattura,<br />

risparmiando, in parte, il lavoro domestico.<br />

Tenuto conto che la disoccupazione<br />

tra gli stranieri ha registrato nel<br />

complesso un incremento di quattro<br />

punti: dall’8 al 12-13 per cento.<br />

Il desiderio di diventare cittadini italiani<br />

è un altro tratto che descrive il profilo<br />

dei nuovi abitanti: la comunità più<br />

numerosa è quella romena, ma in cima<br />

alla lista di chi ha chiesto e ottenuto la<br />

cittadinanza ci sono i marocchini (6.952<br />

nel 2010) e gli albanesi (5.628). Perché<br />

sono arrivati da più tempo in Italia, e<br />

quindi hanno raggiunto per primi i requisiti<br />

per presentare la domanda (innanzitutto<br />

i dieci anni di residenza). E<br />

anche perché sono più motivati a diventare<br />

cittadini europei e a conquistare<br />

mobilità all’interno delle frontiere dell’Unione,<br />

rispetto a chi viene dalla Romania<br />

che dal 2007 è nella Ue. Ancora,<br />

più spesso presentano i documenti i sudamericani<br />

(i peruviani sono quarti, seguiti<br />

dai brasiliani) perché in alcuni casi<br />

riescono a risalire ad avi italiani e a be-<br />

neficiare dello ius sanguinis (italiano<br />

chi è discendente di italiani).<br />

Per le seconde generazioni, invece,<br />

qualunque formula di ius soli (italiano<br />

chi nasce in Italia) venga introdotta nel<br />

nostro ordinamento, già si segnalano<br />

delle diversità interessanti. A fare più<br />

bambini sono ancora marocchini, tunisini<br />

e indiani. Pochi, invece, i figli per le<br />

ucraine, le moldave e le polacche. «Perché<br />

i modelli migratori sono diversi»,<br />

spiega la ricercatrice. Africani e asiatici<br />

chiamano spesso in Italia mogli e bimbi<br />

con i ricongiungimenti e si insediano<br />

qui con tutta la famiglia. Le donne dell’Est<br />

arrivano spesso da sole, in età più<br />

matura, mariti e figli rimasti in patria,<br />

anni e anni di fatica e di soldi accumulati<br />

con l’idea poi di tornare indietro. Tra<br />

la crisi e i nuovi modelli culturali, però,<br />

asiatiche e africane stanno cominciando<br />

a fare meno bambini, e in stagioni<br />

sempre più avanzate, come le italiane.<br />

Alla fine, in tempi lunghi, i profili sono<br />

destinati a sovrapporsi.<br />

http://nuovitaliani.corriere.it<br />

@terrastraniera<br />

3<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


4 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Il dibattito delle idee<br />

di STEFANO GATTEI<br />

dispiace quando mi<br />

dicono che il mio pessimismo<br />

scoraggia<br />

quelli che avrebbero «Mi<br />

ridotto la loro quota<br />

di emissione di carbonio, ma d’altra parte<br />

per me questi sforzi sono, nella migliore delle<br />

ipotesi, una romantica assurdità e, nella<br />

peggiore, un’ipocrisia». E alle molte agenzie<br />

che consentono oggi ai viaggiatori di piantare<br />

alberi per controbilanciare il biossido di<br />

carbonio prodotto dal loro aereo, risponde<br />

che tali atti «assomigliano alle indulgenze<br />

che una volta venivano vendute dalla Chiesa<br />

cattolica ai peccatori benestanti per compensare<br />

il tempo che altrimenti avrebbero<br />

passato in Purgatorio».<br />

Non scrive certo per compiacere, James<br />

Lovelock, neppure coloro che (come lui)<br />

hanno a cuore il nostro pianeta e cercano di<br />

prendersene cura. Svincolato da legami con<br />

l’industria o l’accademia, Lovelock è da sempre<br />

uno scienziato indipendente, che non<br />

ha paura di dire ciò che pensa, suffragando<br />

le proprie affermazioni dati alla mano.<br />

Nel 1979 propone la sua teoria più celebre,<br />

l’«ipotesi Gaia», secondo cui tutte le<br />

componenti del pianeta Terra, viventi e non<br />

viventi, formano un gigantesco sistema, interagendo<br />

fra loro come se appartenessero<br />

a un unico organismo vivente. Considerata<br />

all’inizio come un tipico prodotto della New<br />

Age, la teoria acquista negli anni sempre<br />

più credibilità, anche grazie a una quantità<br />

crescente di dati empirici che la supportano.<br />

Nei decenni successivi Lovelock ribadisce<br />

la propria tesi in vari libri, il più recente<br />

dei quali è Gaia, ultimo atto, ora tradotto in<br />

italiano per Pacini Editore, all’interno della<br />

collana «Filosofia ambientale».<br />

«Uno degli errori più gravi commessi dagli<br />

scienziati nel XX secolo — dice Lovelock<br />

alla "Lettura" in una pausa dalla scrittura del<br />

suo nuovo libro — è stato quello di dare per<br />

scontato che tutto ciò che dovevamo sapere<br />

sul cambiamento climatico potesse essere<br />

dedotto da alcuni modelli fisico-chimici relativi<br />

all’atmosfera, sviluppati con computer<br />

sempre più potenti. La biosfera (e gli oceani<br />

in particolare) è stata considerata un elemento<br />

passivo, quando invece gioca un ruo-<br />

RRR<br />

Prospettive<br />

«Gaia ha impiegato miliardi<br />

di anni per produrre l’uomo.<br />

Ma l’uomo non è necessario<br />

al suo equilibrio: quello<br />

che fa, lo fa a suo rischio»<br />

lo centrale». Tali modelli si sono rivelati inadeguati:<br />

sono infatti gli oceani ad assorbire<br />

la maggior quantità di calore, che rimane in<br />

profondità, sotto uno strato sottile (termoclino)<br />

nel quale la temperatura subisce una<br />

marcata variazione. «Non sappiamo quando<br />

accadrà, ma prima o poi quel calore verrà rilasciato<br />

e porterà a un brusco cambiamento<br />

climatico nell’intero sistema».<br />

Se con il suo primo libro Gaia (Bollati Boringhieri),<br />

Lovelock intendeva invitare la comunità<br />

scientifica ad affrontare il problema<br />

del riscaldamento globale in una prospettiva<br />

diversa, ora (a quasi 94 anni) il suo suona<br />

come un ultimo tentativo di spronare i<br />

membri della comunità scientifica ad abbandonare<br />

un vecchio modo di pensare e a guardare<br />

all’ambiente con occhi nuovi. Il suo è<br />

un invito ad abbandonare conformismi,<br />

ideologie e modelli astratti e a osservare<br />

con maggiore obiettività le trasformazioni<br />

ambientali in corso: in altre parole, «un invito<br />

a lasciare il sentimento per un uso critico<br />

della ragione».<br />

Le ricette proposte dallo scienziato britannico<br />

sono tanto controverse quanto sgrade-<br />

La voce dei Radiohead<br />

di SANDRO MODEO<br />

In una lunga intervista a Elena Raugei sul<br />

«Mucchio» di febbraio, Thom Yorke —<br />

voce-mente dei Radiohead e ora degli Atoms<br />

for Peace — concentra i cardini della sua visione<br />

estetico-morale. Tra sottili osservazioni su ritmo<br />

e melodia e spietatezza autocritica (la diffidenza<br />

«per gli apprezzamenti»), tra l’allergia al<br />

compromesso (a non produrre mai «musica<br />

dozzinale») e quella alle sirene<br />

mediatico-politiche (il rifiuto di incontrare Tony<br />

Blair: «Più vai vicino al potere, più è facile essere<br />

usato»), colpiscono le ascendenze letterarie. Tra<br />

attrazioni prevedibili se non inevitabili (Philip<br />

Dick, il David Mitchell di Cloud Atlas, le fiabe di<br />

Andersen) spicca quella, mediata dalla moglie<br />

Rachel, per la Commedia di Dante, di cui del resto<br />

i Radiohead hanno ripreso diverse sequenze<br />

(Lucifero in «Ok Computer», gli ignavi in «Hail to<br />

the Thief»). Di colpo, le fenditure profonde tra<br />

linguaggi e generazioni, classicità e avanguardia<br />

sembrano svanire come allucinazioni<br />

sociologiche, suturarsi come ferite immaginarie.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Mostarda<br />

di Renato Franco<br />

Incontri Il padre dell’ipotesi «Gaia» contro i luoghi comuni dell’ambientalismo<br />

{<br />

Verdi e Wagner gratis a Sanremo<br />

Che Sanremo che fa. Ovvero il Festival<br />

di Raitre declinato per Raiuno ma con più<br />

soldi. Non troppi però, perché, in tempo<br />

di spending review, anche Fabio Fazio<br />

deve fare i conti con i tagli: meno 10%<br />

«Il nucleare aiuta la Terra»<br />

Lo scienziato James Lovelock controcorrente<br />

Dalle emissioni dei gas serra i rischi peggiori<br />

E Thom Yorke<br />

dirotta su Dante<br />

James Lovelock<br />

e, in alto, una<br />

sequenza tratta<br />

da «Atomic Ivan»<br />

(2011) di Vasily<br />

Barkhatov, girato<br />

nelle centrali<br />

nucleari di Kalinin e<br />

di San Pietroburgo<br />

voli sono le sue previsioni:<br />

sostenitore del ricorso<br />

all’energia nucleare,<br />

Lovelock ha spesso<br />

insistito sulla necessità<br />

di abbandonare le energie<br />

rinnovabili, in quanto<br />

scarsamente efficaci<br />

e dispendiose. «Molto<br />

spesso si ignora che i<br />

luoghi più contaminati<br />

dalla radioattività sono<br />

diventati, col tempo, i<br />

più ricchi di vita: è il caso<br />

dei terreni nei pressi<br />

di Cernobyl, o dei luoghi<br />

di sperimentazione<br />

degli ordigni nucleari<br />

nell’Oceano Pacifico.<br />

Gli animali e le piante<br />

non percepiscono la radiazione come pericolosa,<br />

e la riduzione delle loro vite che essa<br />

potrebbe causare costituisce una minaccia<br />

molto minore della presenza di esseri umani.<br />

Imponenti apparati burocratici si occupano<br />

dello smaltimento delle scorie e dello<br />

smantellamento degli impianti nucleari, ma<br />

nulla di paragonabile si interessa di quella<br />

che costituisce davvero la più diffusa fonte<br />

di inquinamento: l’anidride carbonica».<br />

E i maggiori produttori di anidride carbonica<br />

siamo noi stessi. Il nostro è un pianeta<br />

sovrappopolato, in cui sempre più persone<br />

ricorrono a quantità crescenti di energia e<br />

di risorse. «Gaia ha impiegato miliardi di anni<br />

per produrre esseri intelligenti, ma noi<br />

non costituiamo che una tappa di un lungo<br />

processo di evoluzione che potrà portare, in<br />

un lontano futuro, alla nostra estinzione e<br />

alla nascita di organismi più adatti a un nuovo<br />

ambiente».<br />

Ciò conduce a una seria riconsiderazione<br />

del nostro ruolo all’interno del sistema terrestre:<br />

«La Terra non si è evoluta unicamente<br />

a nostro vantaggio e qualsiasi cambiamento<br />

che le apportiamo è a nostro rischio. Non<br />

possediamo alcun diritto speciale: siamo<br />

soltanto una tra le tante specie viventi che<br />

contribuiscono a Gaia. È probabile che la<br />

Terra sia ormai avviata verso un’era calda, in<br />

cui potrà sopravvivere, sebbene in una condizione<br />

peggiore e meno abitabile per noi.<br />

Le prove che le cose stiano effettivamente<br />

così sono evidenti, e il processo è irreversibile».<br />

Fondamentale, dunque, è comprendere<br />

che la Terra costituisce un sistema vivente,<br />

«capace sia di resistere al cambiamento climatico<br />

sia di aumentarlo. È superbo, da parte<br />

nostra, pensare di sapere come salvare la<br />

Terra. Il nostro pianeta sa bene come badare<br />

a sé: tutto ciò che possiamo fare è provare<br />

a salvare noi stessi».<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

RRR<br />

rispetto al 2012. E così ecco gli inviti a chi<br />

ha un disco o un film in promozione,<br />

fino al colpo a sorpresa, i superospiti<br />

protagonisti di due serate: sul palco<br />

Verdi e Wagner, due giganti, e pure gratis.<br />

L’incursione<br />

di Stefano Piedimonte<br />

IL GRANDE GUAGLIONE<br />

TIC E SOMIGLIANZE<br />

TRA REALITY E CAMORRA<br />

Niente reality. Niente Grande Fratello,<br />

perlomeno. Blackout nel 2012 e forse nel<br />

2013. Per arrivare alla conclusione che<br />

era meglio passare la mano, i dirigenti di<br />

rete hanno sbattuto il naso contro dati<br />

d’ascolto tutt’altro che confortanti. Anche se<br />

difficilmente si resisterà alla tentazione di tornare<br />

al reality o almeno — in qualche modo — al<br />

pubblico che fu numericamente clamoroso e ora è<br />

orfano di queste narrazioni. Ma visto che è tutto<br />

fermo, forse, vale la pena capire dove l’avevamo già<br />

visto, il mondo dei reality. E perché sarebbe un<br />

bene che non tornasse. O almeno non come è stato<br />

finora. Dove l’abbiamo visto? Al Sud, nelle cronache<br />

nere di ogni giorno. Nell’estetica disperata, nei<br />

sogni effimeri, nei comportamenti, negli<br />

atteggiamenti, nel concetto stesso di successo dei<br />

«guaglioni». Troppo azzardato parlare di gieffini e<br />

«guaglioni»? Reality e camorra?<br />

Il successo. Il gieffino tipo, quello da ultime<br />

edizioni del reality, uscito dalla Casa si rimette a<br />

fare il pizzaiolo. Scompare, si volatilizza, se ne<br />

perde ogni traccia. Di tanto in tanto, con una serata<br />

in discoteca o un’ospitata nelle tv locali, riesce a<br />

pagarsi l’assicurazione (semestrale) per il motorino.<br />

Il guaglione pure ha una vita breve. Lo arrestano<br />

prima che abbia il tempo di farsi ammazzare. O lo<br />

ammazzano, addirittura. O diventa latitante. Il<br />

successo (soldi, rispetto, qualche donnina) svanisce<br />

in un lampo, pari pari, così com’è arrivato. Il<br />

giochetto dura poco. In men che non si dica, il<br />

gieffino triste e il guaglione incarcerato si ritrovano<br />

RRR<br />

Sistemi a confronto<br />

Dopo un anno senza Grande Fratello<br />

è bene ripensare a certi format<br />

con l’occhio di chi segue la cronaca<br />

nera al Sud. Così si può sperare che<br />

non tornino più come prima<br />

a girare in tondo guardandosi le scarpe.<br />

Quale background? Il gieffino non è che la sappia<br />

lunga. Si getta nella mischia andando ai provini e<br />

rispondendo ai selezionatori che lo interrogano sul<br />

suo tallone d’Achille: «Il mio tallone da killer?»<br />

(episodio reale). Il gieffino non è che abbia studiato<br />

per andare al GF. Non è che abbia tutta questa<br />

preparazione tecnica. Il guaglione del clan, dal<br />

canto suo, si mette in testa di far secco qualcuno.<br />

Va lì pistola in pugno, dà prova del suo background<br />

criminale tenendo l’arma di sbieco, sparando colpi<br />

alla bell’e meglio (a tutto e a tutti, tranne che al suo<br />

bersaglio), incassando rimproveri e calci dai suoi<br />

capibastone. Nel suo caso, più che in qualunque<br />

altro, si può parlare di «tallone da killer».<br />

La delazione. Il gieffino si chiude nel confessionale.<br />

Per ingraziarsi il favore del pubblico dice peste e<br />

corna dei suoi compagni, racconta cose che voi<br />

umani... Poi esce con un sorriso, dice «amici!» e li<br />

abbraccia tutti. Senza sapere che il suo migliore<br />

«amico», appena entrato nel confessionale, gli sta<br />

giusto restituendo il favore. Il guaglione, invece, per<br />

ingraziarsi il favore di un poliziotto, gli dice nome,<br />

cognome e indirizzo di quello che ha aperto uno<br />

spaccio al minuto. Senza sapere che il pusher, alla<br />

prima occasione, ricambierà scientificamente la<br />

cortesia. Gli affari sono affari, nell’uno e nell’altro<br />

caso.<br />

Il look. Ne vogliamo parlare? Volti bruciati dalle<br />

lampade abbronzanti, «sopracciglia di gabbiano»<br />

(curve studiate e disegnate col rasoio che ricordano<br />

ali di gabbiano), acconciature da pappagallo<br />

esotico, scarpe e vestiti dalle tinte lunari. Di chi<br />

stavamo parlando? Di gieffini o di guaglioni? A volte<br />

è facile perdere il filo.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

STEFANO PIEDIMONTE Napoli, 1980. Laureato all’Università<br />

L’Orientale, ha seguito la cronaca nera per quotidiani e settimanali.<br />

Per Guanda ha pubblicato il racconto «Siete tutti morti» (collana<br />

Guanda.bit) e il romanzo «Nel nome dello Zio» (2012), storia<br />

di un boss che infiltra, per fanatismo, un suo affiliato in un reality.


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Il dibattito delle idee<br />

di GUIDO VITIELLO<br />

Ripianare il debito pubblico sarebbe<br />

una sciocchezza, se solo<br />

ci decidessimo a prendere<br />

alcuni provvedimenti dolorosi<br />

ma risolutivi: una tassa sui<br />

luoghi comuni e sulle frasi fatte, per<br />

esempio, e ancor prima una tassa sulle<br />

citazioni abusate. Cinquanta centesimi<br />

ogni volta che ci si azzarda a riproporre<br />

il monito di Bertolt Brecht, «Sventurato<br />

il paese che ha bisogno di eroi». Almeno<br />

un euro per gli usi illeciti del motto<br />

filosofico di Ludwig Wittgenstein, «Su<br />

ciò di cui non si può parlare si deve tacere».<br />

Cinque euro per il George Santayana<br />

di «Chi non ricorda il passato è<br />

condannato a ripeterlo». Una gabella<br />

molto più onerosa per guadagnarsi il diritto<br />

a ripetere impunemente il tormentone<br />

del Gattopardo, «Se vogliamo che<br />

tutto rimanga come è, bisogna che tutto<br />

cambi». La confisca dei beni (e una<br />

quarantina di scudisciate sulla pubblica<br />

piazza, già che ci siamo) per chi ha<br />

ancora il coraggio o l’impudenza di annunciare,<br />

con Goya, che «Il sonno della<br />

ragione genera mostri».<br />

Pensateci bene, un meccanismo di<br />

tassazione di questo genere non solo risanerebbe<br />

in tempi rapidissimi i conti<br />

dello Stato, ma porterebbe sicuri benefici<br />

anche in quel piccolo sistema valutario<br />

che è il dibattito pubblico e giornalistico,<br />

dove le parole sono monete e il<br />

citazionismo compulsivo innesca spaventosi<br />

fenomeni inflattivi. A furia di ripetizioni,<br />

quanto vale ormai sul mercato<br />

delle idee uno dei preziosissimi aforismi<br />

di Ennio Flaiano, o di Leo Longanesi?<br />

Non molto più di un marco nella<br />

Germania di Weimar, quando un chilo<br />

di banconote non bastava a comprare<br />

un chilo di pane.<br />

Ci sono autori così saccheggiati che<br />

non si può fare a meno di immaginarli<br />

come le mappe anatomiche dei bovini<br />

che si vedono alle pareti di qualche macelleria,<br />

suddivise per tagli da linee tratteggiate<br />

(lombata, girello, tracoscio,<br />

sottospalla). Il cliente sceglie una delle<br />

cinque o sei formule per cui sono noti,<br />

se la fa incartare, un ciuffo di rosmarino<br />

e via, è pronta per il banchetto del<br />

proprio discorso, con grande soddisfazione<br />

dei convitati. Per la macelleria citazionista,<br />

per esempio, Walter Benjamin<br />

si divide pressappoco così: angelo<br />

della storia (è il taglio più pregiato, diciamo<br />

pure il filetto), perdita dell’aura,<br />

riproducibilità tecnica dell’opera d’arte,<br />

sex-appeal dell’inorganico e un po’ di<br />

frattaglie sui passages parigini; Michel<br />

Foucault, diviso in aree contrassegnate<br />

da un numeretto, si presenta come segue:<br />

sorvegliare e punire, panopticon,<br />

cura di sé, dispositivo, eterotopia e soprattutto<br />

biopolitica (che ormai si dà<br />

via come il macinato, e serve a preparare<br />

i polpettoni più immasticabili).<br />

Pier Paolo Pasolini offre anche lui ottimi<br />

tagli, che non possono mancare in<br />

un buffet apparecchiato come si deve:<br />

scomparsa delle lucciole, omologazione,<br />

i poliziotti di Valle Giulia, «Il romanzo<br />

delle stragi», il discorso dei capelli,<br />

mutazione antropologica, scandalo del<br />

contraddirsi e via fino all’indigestione.<br />

Beninteso, vedersi ridotti a un pugno<br />

di frasi o a una sola formula è un destino<br />

a cui non sfuggono neppure i migliori,<br />

è il corso normale della decomposizione<br />

dei grandi organismi letterari.<br />

Nelle prime pagine della sua popolare<br />

Storia della filosofia greca Luciano De<br />

Crescenzo rievocava i suoi appunti<br />

iper-bignamizzati di liceale dove Talete<br />

diventava, brutalmente, «quello dell’acqua».<br />

Qualcosa di simile sta avvenen-<br />

{Safranski e l’illusionista Karl Kraus<br />

La differenza è: ci sono giovanotti scrittori<br />

Risate al buio i cui capelli cominciano a sbiancare<br />

che citano sempre se stessi: e poi ci sono<br />

di Francesco Cevasco<br />

i grandi della letteratura. Tipo Rüdiger<br />

Safranski: ci ha insegnato a conoscere<br />

L’Imu? No, tassiamo le citazioni facili<br />

Frasi e concetti sono sempre gli stessi: dal liquido Bauman allo scandaloso Pasolini<br />

Tra i più usati, gli aforismi erroneamente attribuiti a Voltaire, Goebbels e Allen<br />

RRR<br />

Macelleria culturale<br />

Ci sono autori così saccheggiati<br />

che non si può fare a meno di<br />

immaginarli come mappe<br />

anatomiche dei bovini che si vedono<br />

alle pareti, suddivise per tagli<br />

RRR<br />

Ricomincio da tre<br />

Nel film Lello Arena spaccia<br />

per propria una frase di Montaigne<br />

Troisi la ricicla e alla ragazza<br />

che gli obietta di parlare con frasi<br />

di altri ribatte: «Conosci Lello?»<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger.<br />

Mica cita se stesso: cita quell’illusionista<br />

di Karl Kraus: «La psicoanalisi è quella<br />

malattia mentale di cui ritiene di essere<br />

la cura». Finalmente.<br />

Proposta Solo una gabella intellettuale può salvarci dal logorio del sapere post-moderno<br />

Illustrazione<br />

di FRANCESCA<br />

CAPELLINI<br />

LA LETTURA<br />

do, mentre è ancora in<br />

vita, al citatissimo Zygmunt<br />

Bauman, che è<br />

ormai «quello del li-<br />

quido».<br />

Ma se proprio si deve esser ridotti a<br />

una sola parola, a una sola frase, che almeno<br />

sia una frase che abbiano pronunciato<br />

davvero. Tutti ricordano la nobile<br />

e cavalleresca sortita di Voltaire: «Non<br />

sono d’accordo con le tue idee, ma mi<br />

batterei fino alla morte perché tu possa<br />

esprimerle». Tutti, tranne Voltaire, che<br />

quando fu scritta era morto da più di<br />

un secolo: a mettergliela in bocca fu infatti<br />

Evelyn Beatrice Hall, nel libro biografico<br />

The Friends of Voltaire (1906).<br />

Già, direte voi, ma Voltaire ha pur sempre<br />

detto che «Il grado di civiltà di una<br />

nazione si misura visitando le sue carceri».<br />

Dragate pure la sua opera omnia:<br />

non ne troverete traccia. E certo, sostiene<br />

un’altra scuola, quella lì è di Dostoevskij.<br />

Ma niente da fare, pare che tra i<br />

milioni di parole dell’autore dei Karamazov<br />

l’aforisma sulle carceri manchi<br />

all’appello. Il caso più desolante (e spudorato)<br />

è quello di Primo Levi, brandito<br />

a ogni occasione dagli antisionisti arrabbiati<br />

per una frase («Ognuno è<br />

ebreo di qualcuno, oggi i palestinesi sono<br />

gli ebrei di Israele») che non solo<br />

non disse mai, ma che non si sarebbe<br />

mai sognato di dire.<br />

Woody Allen ha inventato centinaia<br />

di battute memorabili, ma forse sarà ricordato<br />

per l’’unica che non ha mai detto:<br />

«Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io<br />

mi sento molto bene». Chi è stato,<br />

allora? Groucho Marx, come sostiene<br />

qualcuno? Neppure. Eugène Ionesco?<br />

Ma Ionesco a sua volta citava una scritta<br />

murale sessantottina. Non se ne<br />

esce.<br />

Più ci addentriamo nel labirinto delle<br />

citazioni, più siamo costretti a mettere<br />

in dubbio le poche certezze nozionistiche<br />

di cui avevamo tappezzato il nostro<br />

cervello negli anni di scuola. Due<br />

professori americani, Paul F. Boller e<br />

John H. George, si sono divertiti anni fa<br />

a compilare un dizionario commentato<br />

di false citazioni, They Never Said It<br />

(Oxford University Press). Ne vien fuori<br />

che Goebbels non ha mai detto «Quando<br />

sento la parola cultura metto mano<br />

alla pistola» (la frase è del drammaturgo<br />

Hanns Johst), Lenin non ha mai parlato<br />

di «utili idioti», e Maria Antonietta<br />

non ha mai suggerito di dare brioches<br />

al popolo affamato di pane, perché la<br />

stessa frase compare molti anni prima<br />

nelle Confessioni di Rousseau. Ma —<br />

questo è il punto — la regina avrebbe<br />

potuto dirla, suona plausibile, e tanto<br />

basta.<br />

Tutto sta a convincersi che il nome<br />

in calce a una citazione non è il riconoscimento<br />

di una paternità, o almeno<br />

non principalmente. È prima di tutto<br />

un colpo di gong, che conferisce solennità<br />

o perfino un tremito di fatalità alle<br />

parole appena pronunciate. Dunque,<br />

un autore vale l’altro. Non c’è frase abbastanza<br />

stupida che non possa riscattarsi<br />

se in coda ci si appende, a casaccio,<br />

un «Winston Churchill» o un<br />

«Oscar Wilde».<br />

Ma, con tutto il rispetto per i falsari e<br />

gli spacciatori di citazioni taroccate, c’è<br />

un esempio ancora più goliardico a cui<br />

dovremmo ispirarci. È il Lello Arena di<br />

Ricomincio da tre, che per darsi arie di<br />

persona profonda contrabbanda come<br />

propria una frase di Montaigne. L’ignaro<br />

Troisi, a sua volta, la ricicla per far<br />

colpo su una ragazza. E quando si sente<br />

obiettare «Ma che fai, parli con le frasi<br />

degli altri?», non gli resta che chiederle:<br />

«Perché, conosci Lello?».<br />

5<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


6 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

RRR<br />

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Innovazione, conti ok, welfare<br />

Trionfa il modello scandinavo<br />

di GIUSEPPE SARCINA<br />

TREND DE VIE<br />

di CRISTIANA RAFFA<br />

Orizzonti<br />

Nuovi linguaggi, scienze, religioni, filosofie<br />

Sfide I successi di Finlandia,<br />

Danimarca, Svezia e Norvegia<br />

Hanno vinto<br />

i vichinghi<br />

Negli anni Novanta i funzionari<br />

del governo norvegese spiegavano<br />

così agli ospiti europei<br />

che cosa fosse la Scandinavia:<br />

«Gli svedesi sono come i tedeschi;<br />

i finlandesi somigliano ai francesi e i<br />

norvegesi agli italiani». Allora il blocco del<br />

Nord viveva la peggiore crisi del dopoguerra.<br />

Economica, certo: il reddito dei cittadini<br />

svedesi, per esempio, era inferiore a<br />

quello degli inglesi e degli italiani. E poi<br />

politica, culturale, perfino esistenziale. Il<br />

modello socialdemocratico scandinavo,<br />

che aveva brillantemente retto agli anni<br />

della contestazione, sembrava pronto a farsi<br />

spazzare via dal ciclone liberista, reaganiano-thatcheriano.<br />

Lo scrittore finlandese<br />

Arto Paasilinna aveva anticipato, ridendoci<br />

sopra, quest’atmosfera di disincanto,<br />

raccontando storie di fuga, di isolamento<br />

(per tutti, L’anno della lepre, 1975, pubblicato<br />

in Italia da Iperborea nel 1994). Oggi,<br />

nessuno si offenda, molti italiani farebbero<br />

carte false per vivere come i norvegesi e<br />

molti francesi come i finlandesi (i tedeschi<br />

fanno storia a parte). Sono loro i primi<br />

della classe. Per cominciare, Finlandia,<br />

Danimarca e Svezia (la Norvegia non fa<br />

parte della Ue) hanno preso sul serio<br />

l’«Agenda di Lisbona», il piano pomposamente<br />

lanciato nel 2000 che avrebbe dovuto<br />

trasformare il Vecchio Continente nell’area<br />

più competitiva del mondo. Per tutti<br />

gli altri, con l’eccezione della Germania, si<br />

è visto come è andata a finire. Gli scandinavi,<br />

invece, hanno raggiunto, spesso con largo<br />

anticipo, gli obiettivi legati alla ricerca,<br />

all’innovazione, alla formazione. E ora costituiscono<br />

il «prossimo super modello»,<br />

come ha titolato due settimane fa l’«Economist»,<br />

mettendo in copertina l’immagine<br />

di un «vichingo» con tanto di corna e<br />

dedicando ai «Paesi nordici» uno speciale<br />

di 14 pagine.<br />

Come hanno fatto? Detto in una parola,<br />

sono corsi incontro al futuro (e i giovani<br />

prima di tutti) senza aspettarlo seduti su<br />

venerabili, ma ormai logore, concezioni e<br />

strutture politico-istituzionali. Hanno cominciato<br />

smontando e rimontando il modello<br />

di welfare, proprio come se fosse un<br />

mobile Ikea, il concentrato della nuova<br />

»<br />

Il giovane Ghost è l’unico<br />

sopravvissuto di una banda<br />

di vichinghi alla ricerca di<br />

una nuova terra in Nord<br />

America; sarà allevato da<br />

una famiglia indigena. È la<br />

trama di «Pathfinder - La<br />

leggenda del guerriero<br />

vichingo» (2007), film<br />

d'azione diretto da Marcus<br />

Nispel. Il tema dell’arrivo<br />

dei vichinghi in America è<br />

affrontato anche in<br />

«Severed Ways: The Norse<br />

Discovery of America»<br />

(2009; nella foto), film<br />

d’esordio di Tony Stone<br />

molto apprezzato dalla<br />

critica: girato solo con la<br />

camera a mano e<br />

sfruttando la luce naturale, i<br />

pochi dialoghi sono in<br />

lingue antiche e la colonna<br />

sonora è heavy metal. «Erik<br />

il vichingo» (1964) è una<br />

pellicola italiana diretta da<br />

Mario Caiano e interpretata<br />

da Giuliano Gemma.<br />

Tra i documentari:<br />

«Viking visitors to North<br />

America» (1979)<br />

di Tony Ianzelo<br />

L’identità online che passa dallo shopping<br />

Èfrutto di un investimento di 600 mila dollari affidato al<br />

miglior gruppo ingegneristico del vivaio creativo di<br />

Palo Alto, in California. Si chiama «Mine» e descrive chi<br />

siamo attraverso ciò che compriamo. La nuova app<br />

consente di costruire un profilo personale fatto di prodotti<br />

che acquistiamo online, un tracciato commerciale della<br />

nostra identità pubblica. Funziona così: quando arriva via<br />

email una ricevuta d’acquisto, «Mine» la inserisce nel nostro<br />

profilo e offre la possibilità di accostare la notizia a<br />

un’immagine del prodotto, di condividerla sulla bacheca<br />

pubblica dell’applicazione e sui social network. Un modo per<br />

rendere semplice, immediata, e soprattutto «dedicata» la<br />

condivisione con i nostri amici o follower dell’ultimo paio di<br />

Obiettivi Hanno attuato l’Agenda<br />

di Lisbona e hanno avuto ragione<br />

La scoperta<br />

dell’America<br />

Svezia, il Paese che ha ridotto in vent’anni<br />

la percentuale della spesa pubblica sul prodotto<br />

interno lordo dal 67% al 49%. Da Stoccolma<br />

lo Stato vegliava sui cittadini, proteggendoli,<br />

anzi accudendoli «dalla culla<br />

alla tomba». Era il piccolo paradiso in terra<br />

di Olof Palme, leader socialdemocratico<br />

epocale (assassinato il 28 febbraio 1986).<br />

Ora, più pragmaticamente, il governo conservatore<br />

guidato da Frederik Reinfeldt, salito<br />

al potere nel 2006 (dopo 65 anni di egemonia<br />

socialdemocratica) sostiene ancora<br />

i disoccupati, ma, per esempio, non si sobbarca<br />

interamente la gestione del sistema<br />

scolastico. Le famiglie possono scegliere liberamente<br />

in quale scuola mandare i figli.<br />

Lo Stato si occupa di quella pubblica e fornisce<br />

dei «voucher», dei buoni, per pagare<br />

l’iscrizione negli istituti privati. Anche la<br />

Danimarca adotta lo stesso metodo, che<br />

nasce da un’idea dell’economista americano<br />

Milton Friedman, il padre del monetarismo,<br />

premio Nobel nel 1976 e autore di volumi<br />

come Capitalismo e libertà, nei quali<br />

si raccomanda il ridimensionamento del<br />

ruolo pubblico nella società.<br />

Chiaro, non sempre le cose vanno bene:<br />

l’esperienza universale ha dimostrato che<br />

la privatizzazione, sia pure parziale, non<br />

garantisce, di per sé, risultati efficienti. Secondo<br />

uno studio di Anders Bohlmark e<br />

Mikael Lindahl, in Svezia le scuole pubbliche<br />

continuano a funzionare meglio di<br />

quelle private. Sembrerebbe confermarlo<br />

anche la variante finlandese: obbligo scolastico<br />

e corsi statali uguali per tutti fino a 16<br />

anni. Poi si sceglie se prepararsi per l’università<br />

o per un lavoro. I maestri e i professori<br />

finnici non sono pagati molto, ma godono<br />

di larga autonomia e di un prestigio<br />

RRR<br />

Il meccanismo<br />

Gli Stati nordici hanno<br />

smontato e rimontato il<br />

modello di protezioni<br />

sociali aggiungendo<br />

elementi di privatizzazione<br />

Keynes e Hayek<br />

Cercare una sintesi<br />

tra i grandi rivali<br />

scarpe, della giacca nuova, delle unghie appena laccate col<br />

colore del momento. Un altro passo avanti nel percorso di<br />

avvicinamento tra le due dimensioni, sociale e commerciale,<br />

che si annusano sul web. Se Instagram mostra immagini di<br />

vita e Pinterest liste dei desideri, Mine punta direttamente<br />

sul piacere di dichiarare il possesso degli oggetti in una<br />

versione 2.0 del marxiano feticismo delle merci e<br />

sull’innesco dell’effetto a catena «Lo voglio anch’io». Intanto<br />

i grandi marchi stanno cominciando a sperimentare l’utilizzo<br />

promozionale di Vine, l’app per editare e condividere video<br />

di 6 secondi su Twitter. Comincia l’era del social commerce.<br />

@cristianaraffa<br />

{<br />

Forse il rilancio del modello<br />

scandinavo deriva anche dalla<br />

capacità che quei Paesi hanno<br />

dimostrato nel cercare una sintesi tra<br />

le idee dei due grandi capiscuola della<br />

scienza economica moderna: John M.<br />

Keynes (foto a sinistra) e Friedrich<br />

von Hayek (foto a destra). Da una<br />

parte i nordici non hanno rinunciato a<br />

un elevato livello di protezione<br />

sociale, cui corrisponde una forte<br />

pressione fiscale, ma dall’altra hanno<br />

saputo valorizzare l’apporto dei<br />

privati riducendo in modo incisivo<br />

deficit e debito pubblico. Del resto,<br />

narra Nicholas Wapshott nel libro<br />

Keynes e Hayek (traduzione di<br />

Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, pp. 334,<br />

e 23), il duello intellettuale tra i due<br />

studiosi resta aperto. Nel dopoguerra<br />

il pensiero interventista di Keynes ha<br />

dominato fino agli anni Settanta,<br />

mentre poi il liberista Hayek ha preso<br />

il sopravvento per un trentennio. La<br />

crisi del 2008 ha rilanciato il<br />

keynesismo, pur suscitando anche<br />

reazioni di segno opposto (tipo Tea<br />

Party). Difficile dire se una sintesi<br />

virtuosa sia davvero possibile.<br />

Antonio Carioti<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

sociale indiscusso. Risultato: i quindicenni<br />

finlandesi sono in testa nella graduatoria<br />

mondiale dei test Pisa (Programme for international<br />

student assessment, promosso<br />

dall’Ocse), davanti ai «mostri» sud coreani,<br />

agli australiani e ai tedeschi (Italia praticamente<br />

non pervenuta).<br />

Certo, tutto è più facile quando si governa<br />

una popolazione che, tra Svezia, Norvegia,<br />

Finlandia e Danimarca arriva a 26 milioni<br />

di abitanti: neanche la metà degli italiani.<br />

Anche se dentro ci trovi tre sovrani,<br />

quattro monete (solo la Finlandia ha l’euro)<br />

e un dubbio irrisolto: la Scandinavia è<br />

parte integrante dell’Europa o, come la<br />

Gran Bretagna, si prepara a un futuro da<br />

battitore libero, dentro o fuori secondo<br />

convenienza?<br />

Ma è il dinamismo dell’economia che<br />

spinge i nordici a ragionare su scala mondiale.<br />

Più che i grandi gruppi del passato<br />

— la svedese Ericsson, la danese Danisco,<br />

la finlandese Nokia — ora sono le medie<br />

imprese a guidare. Alcuni casi: in Danimarca<br />

operano la Novo, azienda farmaceutica<br />

che produce metà del fabbisogno mondiale<br />

di insulina, e la Oticon, leader globale<br />

degli apparecchi acustici. Sono danesi anche<br />

le 200 società che forniscono più di un<br />

terzo del mercato planetario di turbine eoliche.<br />

Ma la cosa più interessante è che la<br />

rinascita economica è trainata dai giovani.<br />

La Svezia e la Finlandia, in particolare, stanno<br />

vivendo una «rivoluzione dei talenti»,<br />

una sorta di contestazione al vecchio establishment<br />

economico che, anziché produrre<br />

marce di protesta, si traduce in una fre-<br />

RRR<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Maurizio Porro nuovo twitterguest<br />

Il prossimo #twitterguest della Lettura è<br />

Maurizio Porro. Nato il 10 luglio, giorno di<br />

Proust, è stato mammone, è un lunare amante<br />

insaziabile di spettacolo. Tra Fellini e Strehler<br />

si butterebbe giù dalla torre lui. Laureato in<br />

filosofia, ha nel cuore la «Recherche», Balzac e<br />

«8 e mezzo». Al «Corriere» dal 14 giugno ’74,<br />

giorno della prima del «Giardino dei ciliegi».<br />

Da oggi a sabato consiglierà un libro al giorno<br />

dall’account de @laLettura.<br />

Miti aggiornati<br />

Nelle camerette dei ragazzi<br />

i poster dell’economista<br />

Milton Friedman<br />

hanno sostituito<br />

quelli di Che Guevara


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

i<br />

ARTO PAASILINNA<br />

L’anno della lepre<br />

Traduzione Ernesto Boella<br />

IPERBOREA<br />

Pagine 204, e 13<br />

MILTON FRIEDMAN<br />

Capitalismo e libertà<br />

Traduzione David Perazzoni<br />

IBL LIBRI, pagine 298, e 24<br />

STEFANO GASPARRI<br />

CRISTINA LA ROCCA<br />

Tempi barbarici<br />

CAROCCI<br />

Pagine 357, e 29<br />

netica attività imprenditoriale. Sono ragazzi,<br />

racconta l’«Economist», che appendono<br />

in camera il poster di Friedman con lo<br />

stesso entusiasmo con cui i padri attaccavano<br />

l’immagine di Che Guevara. Sono<br />

«giovani-vecchi»? Può darsi. Tuttavia in<br />

questa atmosfera vagamente californiana<br />

sono nate miriadi di imprese. Solo che al<br />

posto dell’isolato e disadorno garage di<br />

Bill Gates, qui ci sono laboratori finanziati<br />

dal governo, frequentati da professori universitari,<br />

finanzieri e soprattutto giovani talenti<br />

formati dalle scuole di design, informatica,<br />

robotica e così via. Un esempio è la<br />

«Start-up Sauna», creata dagli studenti della<br />

Aalto University, appena fuori Helsinki.<br />

I risultati sono visibili. In Svezia, a fianco<br />

di Ikea e Tetra Pak o delle antiche dinastie<br />

industriali, non si può prescindere da facce<br />

nuove come Niklas Zennstrom, cofondatore<br />

di Skype. In Finlandia la Rovio Entertainment<br />

è diventata un fenomeno<br />

mondiale, dopo che 600 milioni di clienti<br />

hanno scaricato il video «Angry birds»,<br />

versione moderna della batracomiomachia,<br />

solo che non si scontrano rane e topi,<br />

ma uccelli e maiali.<br />

Il segreto del Nord, dunque, si chiama<br />

lavoro e valorizzazione (non emarginazione)<br />

dei giovani talenti, ragazzi e ragazze<br />

con pari opportunità. Questa è la base, poi<br />

viene la cura ossessiva dei conti pubblici e<br />

dell’efficienza dei servizi ereditati dalla socialdemocrazia.<br />

Ovviamente esistono anche<br />

contraddizioni. La Svezia è il Paese più<br />

investito dall’immigrazione. Nel 2012 Stoccolma<br />

ha ricevuto 44 mila richieste d’asilo:<br />

un’enormità se paragonate alle 60 mila della<br />

Francia e alle 64 mila della Germania.<br />

L’integrazione è lenta, difficile. I nuovi arrivati<br />

si insediano, o meglio si barricano,<br />

nei vecchi quartieri operai. Così le palazzine<br />

di Rosenborg, costruite per i lavoratori<br />

delle industrie di Malmoe sono passate<br />

agli immigrati, esattamente come accaduto<br />

a Feyenoord, dove vivevano i portuali di<br />

Rotterdam o, per venire a noi, nelle periferie<br />

di Torino e, in parte, di Milano. Da questo<br />

punto di vista non c’è molta differenza<br />

rispetto al resto d’Europa. E ai vichinghi,<br />

naturalmente, non piace.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO<br />

Intersezioni<br />

La zuppa e il «pagan metal»<br />

Le nostre radici barbariche<br />

di ALESSANDRO ZIRONI<br />

Tanto si è discusso e si discute<br />

sulle possibili radici cristiane<br />

o greco-latine dell’Europa. A<br />

nessuno si è palesato il dubbio<br />

che le nostre radici siano<br />

invece barbariche? Questo suggeriva<br />

provocatoriamente Jean-Jacques Aillagon<br />

aprendo il catalogo della mostra veneziana<br />

Roma e i barbari (Skira, 2008).<br />

Gli europei sono ascrivibili d’ufficio al<br />

gruppo dei «balbuzienti» (tanto, significa,<br />

in greco, barbaroi) o, ancor peggio,<br />

vanno annoverati tra le fila dei selvaggi<br />

e primitivi, come vuole l’ampliamento<br />

semantico del termine?<br />

L’accezione negativa della parola barbaro<br />

è quella corrente. Gettiamo un rapido<br />

sguardo al suo uso contemporaneo:<br />

si scopre che in un talk-show televisivo<br />

si conducono «interviste barbariche»,<br />

cioè provocatorie, disinibite, al di fuori<br />

delle regole usuali del giornalismo. Oppure<br />

si pensi al film Le invasioni barbariche<br />

(regia di Denys Arcand, 2003), in<br />

cui si rappresenta la fine di un’epoca<br />

nei suoi valori portanti, schiacciati dal<br />

caos emotivo ed etico in cui la vita dell’individuo<br />

precipita. Solo qualche<br />

giorno fa, il presidente francese<br />

François Hollande denunciava a<br />

Timbuctù la «barbarie» perpetrata<br />

sui beni culturali del Mali.<br />

In altra direzione si muovono<br />

invece gli studi storiografici:<br />

quelli più avveduti, fra i quali<br />

ricordo i lavori di Walter<br />

Pohl, stanno infatti spostando<br />

il baricentro semantico del termine<br />

«barbaro» da una connotazione<br />

profondamente e tradizionalmente<br />

negativa a un uso più<br />

neutrale, ove con barbarico si intende<br />

definire un periodo della storia<br />

d’Europa, quello tardo-antico ed alto<br />

medievale. Tempi barbarici (Carocci,<br />

2012), è il titolo di un recente volume di<br />

Stefano Gasparri e Cristina La Rocca: in<br />

esso il confine fra civiltà e barbarie, fra<br />

dominatore e dominato non è poi così<br />

netto. Queste recenti indagini storiche<br />

sfumano anche il concetto di assimilazione<br />

con cui un tempo si intendeva l’assorbimento<br />

delle masnade barbariche<br />

all’interno della civilitas romana (e bizantina)<br />

ereditata e salvaguardata poi<br />

dalla Chiesa. In definitiva, barbari, alle<br />

soglie dell’età medievale, lo sono un po’<br />

tutti, al di là di denominazioni etniche<br />

spesso fasulle alle quali una tradizione<br />

storica di matrice ottocentesca nazionalista<br />

ci ha abituati: Goti, Longobardi,<br />

Burgundi, Franchi, Suebi e, ovviamente,<br />

non possono mancare loro, i barbari<br />

per antonomasia, i Vandali. Queste genti,<br />

però, si muovono attraverso l’Europa<br />

non come corpi etnici impenetrabili a<br />

influenze esterne, ma raccolgono e accolgono<br />

individui e gruppi nei quali di<br />

volta in volta si imbattono: Greci, Romani,<br />

Celti, popoli delle steppe, in una parola<br />

quel melting pot che darà poi vita<br />

agli europei.<br />

In Italia tutti parliamo un po’ in longobardo<br />

o in gotico. Molto spesso non<br />

lo sappiamo neppure. Chi non pronuncia,<br />

almeno una volta al giorno, la parola<br />

schiena, oppure guancia o, piuttosto,<br />

pensa che occorrerebbe arredare nuovamente<br />

la cucina in cui mangiare una<br />

zuppa magari riscaldata nel microonde?<br />

Parliamo ostrogoto? Finalmente<br />

possiamo rispondere: «Sì!». Per non dire<br />

dei Longobardi e Franchi in cui ci imbattiamo<br />

scorrendo i campanelli di<br />

ogni condominio: tutti coloro che hanno<br />

il cognome che termina in -ardi, possono<br />

intraprendere una bella ricerca ge-<br />

L’eredità linguistica<br />

Parole come schiena<br />

e guancia vengono dal<br />

vocabolario gotico (per<br />

non parlare dei cognomi<br />

franchi e longobardi)<br />

Inutile inseguire l’Ultima Thule incontaminata<br />

L’identità dell’Europa ha un carattere ibrido<br />

nealogica e sperare di arrivare a Carlo<br />

Magno; chi, invece, all’anagrafe, è registrato<br />

come Sighinolfi o Alderissi, può<br />

invece immaginare di essere parente di<br />

re Alboino.<br />

Peccato, però, che l’indagine genealogico-etnica<br />

naufragherà, scoprendo<br />

ben presto che la discendenza non sempre<br />

può vantare antenati di pura schiatta<br />

romana o barbarica. Valga qualche<br />

esempio: a Varsi (Parma), nel 735 vive il<br />

soldato e vir honestus Berto (quanto<br />

mai longobardo) il cui figlio prende però<br />

il nome latino di Antonino; a Lucca,<br />

di contro, nel 764, un babbo Vincentius,<br />

ha un figlio dall’altisonante nome<br />

longobardo Sichipert. Viene da pensare<br />

allora che l’idea di barbaro sia più una<br />

costruzione culturale moderna, anche<br />

un po’ ammuffita, piuttosto che una realtà<br />

dei fatti.<br />

Se, allora, dal barbaro non possiamo<br />

più smarcarci etnicamente e linguisticamente,<br />

probabilmente tutta la questione<br />

va addebitata allo stereotipo che si<br />

associa alla sua immagine. Come in tutti<br />

i clichés si raccolgono anche qui rifiuti<br />

e pulsioni, inconfessabili adesioni,<br />

convinte appartenenze. Già lo storico<br />

romano Tacito, alla fine del I secolo<br />

d.C., raffigura le genti che abitano al di<br />

là del Reno come uomini e donne che<br />

prediligono il bosco alla città, la casa<br />

isolata all’agglomerato, che vivono casti<br />

sino al matrimonio: un’idea di purezza<br />

di costumi a contatto con una natura<br />

primigenia che tanto infatuerà l’immaginario<br />

europeo.<br />

L’europeo si innamora dell’Ultima<br />

Thule, dell’Islanda, isola di ghiacci e<br />

fuoco in cui andare ad alimentare il sogno<br />

delle origini, ultimo, incontaminato<br />

luogo in cui recuperare ciò che di sano<br />

vi era nell’età dei barbari. È la ricerca<br />

dell’estremo, magari da percorrere col<br />

fuoristrada, addentrandosi nei tratturi<br />

più interni e accidentati dell’isola. I sogni<br />

di molti viaggiatori alla ricerca della<br />

terra dei vichinghi si appagano anche<br />

così, sentendo una giovane donna, ai<br />

piedi della collina sacra di Helgafell —<br />

come è capitato al sottoscritto — vantarsi<br />

di discendere da Guðrún<br />

Ósvífrsdóttir, tremenda virago protagonista<br />

della Laxdæla Saga, forse vissuta<br />

alla fine del X secolo.<br />

Tanta fortuna, anche letteraria, del<br />

Nord è probabilmente legata a questa vi-<br />

RRR RRR<br />

sione così radicata nel nostro immagi-<br />

nario di un mondo ancora intatto, arcaico,<br />

scevro dalle corruzioni della società<br />

industriale e dunque barbarico perché<br />

ancora puro e incontaminato. Con barbarie,<br />

perciò, non si intende più la distruzione<br />

della civiltà, ma piuttosto la<br />

volontà di recuperare il primigenio.<br />

Non siamo molto distanti dalle speculazioni<br />

romantiche, che nelle genti ger-<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

maniche, celtiche o slave cercavano di<br />

individuare i popoli fondanti del proprio<br />

ethnos, anche se, va detto, il legame<br />

terra-ethnos è ben più antico e si ritrova<br />

già in alcuni testi medievali. Molto<br />

del recente folclore a uso turistico<br />

(talvolta politico) che si spende nella vana<br />

ricerca delle origini approda al cosiddetto<br />

mondo barbarico. In esso si sfoggiano<br />

fittizie ricostruzioni che poco però<br />

hanno a che vedere con quello che<br />

gli archeologi medievali pazientemente<br />

portano alla luce.<br />

Un buon viatico in questo percorso<br />

fra gli stereotipi barbarici può essere<br />

raccolto anche nelle evidenti affinità riscontrabili<br />

fra molti raduni e fiere in costume,<br />

più o meno casarecci — di cui<br />

anche l’Italia si sta popolando — e la<br />

rappresentazione che dei barbari propone<br />

una certa produzione fumettistica,<br />

che restituisce graficamente ciò che<br />

l’immaginario collettivo si aspetta da<br />

quella terra barbarica: natura estrema,<br />

una mascolinità esibita da uomini virili,<br />

spesso villosi e muscolosi, dei quali si<br />

intuiscono i successi sessuali e la<br />

consuetudine alle grandi bevute.<br />

La donna è, di contro, figura servile,<br />

a uso e consumo del maschio,<br />

una Barbie impiantata<br />

nel corpo barbarico del medioevo<br />

nordico. Se non è accondiscendente<br />

e devota ai<br />

suoi doveri muliebri, diviene<br />

elemento di disturbo nell’ordine<br />

cosmico, spesso strega,<br />

talvolta femme fatale, comunque<br />

da eliminare.<br />

Lo stesso avviene nei numerosi<br />

videoclip di brani musicali<br />

connessi al cosiddetto pagan metal<br />

o viking metal, in cui sono proposti<br />

i medesimi ruoli sociali: l’uomo<br />

combatte, la donna venera il maschio e<br />

custodisce la comunità. Basti prendere<br />

visione di qualche filmato dei Týr, gruppo<br />

di buon successo e capacità musicali,<br />

o dei Menhir, anch’esso di notevole<br />

diffusione e discreta bravura. Entrambe<br />

le band mettono in musica testi medievali,<br />

in lingua originale: ballate delle isole<br />

Fær Øer i Týr; il Carme di Ildebrando<br />

di età carolingia i Menhir. Il mondo barbarico<br />

si recupera anche attraverso<br />

l’uso della lingua antica, quasi a suggellare<br />

un passato culturale che nulla ha<br />

da patire nel confronto con la tradizione<br />

musicale in lingua latina. Infatuazioni<br />

della musica gregoriana e dell’ars antiqua<br />

invadono anche gli arrangiamenti<br />

delle compilation metal, ove tutto si<br />

mescola e si confonde. Un’assimilazione<br />

senza vincitori né vinti in cui la differenza<br />

è ricchezza.<br />

Che, in fondo, questa sia la barbarie<br />

dell’Europa? Sapere di essere uguali,<br />

ma allo stesso tempo diversi, uniti ma<br />

pure divisi, fusi ma distinti? Probabilmente<br />

l’immagine più vera della barbaritas<br />

è il medaglione d’oro di Teoderico<br />

(nella foto), re degli Ostrogoti, rinvenuto<br />

nei pressi di Senigallia nel 1894. Il re<br />

goto, che parlava greco e latino, sceglie<br />

di farsi rappresentare alla maniera romana<br />

con la tradizionale vittoria alata,<br />

senza rinunciare tuttavia al lungo crine<br />

e al baffo germanico: non si sa più dove<br />

finisca la romanitas e inizi la barbaritas.<br />

Che sia questa l’icona più efficace<br />

per rappresentare la nostra ibrida<br />

«europeità»?<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

R Alessandro Zironi (Carpi, 1964) insegna<br />

Filologia germanica e Letterature<br />

nordiche all’Università di Bologna<br />

Stereotipi da fumetto<br />

La mascolinità esibita dei<br />

guerrieri muscolosi<br />

e la visione di una donna<br />

sospesa fra la strega<br />

e una Barbie medievale<br />

7


8 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Orizzonti Società<br />

Gastropolitica Due ristoranti, tre negozi<br />

di specialità e una storia di dialogo<br />

di VIVIANA MAZZA<br />

Q<br />

uando Yotam e Sami uscivano<br />

da scuola, sapevano bene che<br />

cosa non avrebbero dovuto fare:<br />

comprare e divorare una pita<br />

zeppa di felafel cinque minuti<br />

prima di pranzo. Ma la tentazione era<br />

troppo forte e, immancabilmente, arrivavano<br />

a casa con la maglietta macchiata di salsa<br />

tahina e così pieni da non poter più<br />

mangiare a tavola. Il ricordo è lo stesso, inclusa<br />

la mamma arrabbiata. Identica la città,<br />

Gerusalemme, dove entrambi sono nati<br />

nel 1968, l’anno dopo la guerra dei Sei Giorni<br />

in cui Israele occupò Gerusalemme Est,<br />

insieme con la Cisgiordania, Gaza, il Sinai<br />

e le Alture del Golan. Yotam Ottolenghi e<br />

Sami Tamimi però non si conoscevano a<br />

quei tempi. L’uno ebreo di origini italiane<br />

e tedesche, l’altro palestinese, vivevano rispettivamente<br />

nella zona occidentale di Ramat<br />

Denya e nel quartiere musulmano della<br />

Città Vecchia, due realtà geograficamente<br />

prossime ma culturalmente lontane. Eppure,<br />

nell’inconscio infantile di entrambi,<br />

non sono le divisioni religiose e politiche a<br />

prevalere ma le memorie di un Giardino<br />

dell’Eden culinario, con pile infinite di verdure,<br />

di dolci, di spezie esposte nei mercati,<br />

quasi a compensare l’incertezza e le paure.<br />

Era un mondo di meraviglie come il polpettone<br />

di nonna Luciana Ottolenghi o la<br />

pasta al forno che il papà di Yotam riscalda-<br />

Punto d’incontro «Quella pasta di ceci<br />

è amatissima da tutti, ebrei e arabi»<br />

Ricette di pace in cucina<br />

Il piatto di Gerusalemme<br />

Stessa educazione al cibo, con l’hummus nel cuore<br />

Così uno chef israeliano e uno palestinese<br />

hanno conquistato Londra (e qualcosa di più)<br />

va ricoprendola con uno strato extra di<br />

mozzarella. Come le angurie che il padre di<br />

Sami metteva nel torrente a raffreddare o i<br />

fichi sul tetto a seccare dalla madre del suo<br />

amico Jabbar e che i bambini rubavano.<br />

Quarantaquattro anni dopo, Yotam Ottolenghi<br />

e Sami Tamimi sono due chef famosi<br />

a Londra. Gestiscono insieme due ristoranti<br />

e tre negozi di specialità gastronomiche<br />

frequentati da clienti chic e adorati dai<br />

critici avidi di sapori e colori mediterranei.<br />

Marchio: «Ottolenghi», anche se Tamimi è<br />

co-fondatore e capocuoco. Ma è Yotam<br />

quello più a suo agio sotto i riflettori: da<br />

poco conduce un programma in tv e scrive<br />

dal 2006 una rubrica sul «Guardian». Intri-<br />

Illustrazione di Stefania<br />

Cavatorta. Nella foto, da<br />

sinistra: Yotam Ottolenghi,<br />

ebreo israeliano di origini<br />

italiane e tedesche, e Sami<br />

Tamimi, palestinese<br />

gato dalla loro armonia in cucina, un reporter<br />

del «Telegraph» s’è informato pure sulla<br />

loro vita sentimentale, scoprendo che<br />

non stanno insieme ma entrambi hanno relazioni<br />

stabili con altri uomini.<br />

Dall’anno scorso, però, quando hanno<br />

pubblicato un libro di ricette israeliane e<br />

palestinesi (sia autentiche che «rivisitate»)<br />

intitolato Jerusalem, i due chef non vengono<br />

più interrogati solo sull’onnipresenza<br />

di limone, melograno, aglio e za’atar nei


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

loro piatti. Un reverendo anglicano li ha citati<br />

come esempio di dialogo interreligioso<br />

durante un popolare programma radio della<br />

Bbc, la rivista «New Yorker» li ha ritratti<br />

con il titolo «Lo chef filosofo», un tabloid<br />

inglese ha perfino strillato «Date una chance<br />

ai ceci» cioè l’ingrediente base dell’hummus<br />

(a riprova di quanto sia disperato lo<br />

stallo del processo di pace). E così quella di<br />

Yotam e Sami è diventata la «storia di due<br />

hummus», la salsa che accomuna israeliani<br />

e palestinesi e li divide, perché ciascuno<br />

ne rivendica l’origine. E benché gli chef insistano<br />

di volere solo «condividere il cibo<br />

che adoriamo», sanno bene che nella loro<br />

terra anche l’alimentazione è politica.<br />

È a Londra che si sono conosciuti, dopo<br />

esservi arrivati (separatamente) alla fine degli<br />

anni Novanta, passando per Tel Aviv.<br />

Per il palestinese Sami Tamimi diventare<br />

chef è stato naturale: da bambino ammirava<br />

i genitori tra i fornelli, ha cominciato come<br />

tuttofare all’hotel Mount Zion («il lavoro<br />

più umile e più duro in cucina») e si è<br />

fatto strada fino a diventare il capocuoco<br />

(dai capelli tinti di rosa) di Lilith, uno dei<br />

migliori ristoranti di Tel Aviv negli anni Novanta.<br />

Tamimi parla poco, ma tra le righe<br />

si legge che con Israele e con la sua stessa<br />

famiglia ha avuto un rapporto complicato.<br />

«Ho sempre vissuto al confine tra arabi ed<br />

ebrei. Diciamo che abitare a Londra è più<br />

facile». Invece, benché la prima parola del<br />

piccolo Ottolenghi sia stata ma, enonè<br />

chiaro se si riferisse alla mamma (ima in<br />

ebraico) o alla zuppa (marak), ci ha messo<br />

30 anni per scoprire la sua vocazione. Prima<br />

ha studiato filosofia, lavorando di notte<br />

come correttore al quotidiano «Haaretz» a<br />

Tel Aviv. Innamoratosi di un compagno<br />

d’università, l’ha seguito ad Amsterdam<br />

completando lì il master in letterature comparate.<br />

L’accademia era il mondo dei suoi<br />

genitori, sionisti laici giunti in Israele nel<br />

1938: il padre professore di chimica, la madre<br />

insegnante e poi responsabile delle<br />

scuole superiori al ministero dell’Istruzione<br />

nonché nipote dell’architetto Julius Posener.<br />

Ma alla fine, nello spedire ai suoi<br />

una copia della tesi sull’ontologia dell’immagine<br />

fotografica, Yotam ha inserito un<br />

biglietto in cui annunciava che avrebbe studiato<br />

cucina da Le Cordon Bleu, a Londra.<br />

Un giorno, mentre girava in scooter per<br />

la capitale inglese, capitò nell’elegante gastronomia<br />

Baker & Spice: ammirò le verdure<br />

fresche, il pollame arrosto, trovò lavoro.<br />

E incontrò la star delle insalate, Sami Tamimi.<br />

Spezzando e impastando il pane, hanno<br />

iniziato a parlare in inglese mettendoci<br />

più di 10 minuti a decifrarsi a vicenda e passare<br />

all’ebraico. Nel 2002 hanno aperto la<br />

loro catena di ristoranti e negozi e, alla fine,<br />

con la stessa inevitabilità di quel felafel<br />

all’uscita della scuola, sono tornati a Gerusalemme<br />

alla ricerca della loro identità.<br />

«Gerusalemme ha un così pesante bagaglio<br />

di storia, emozioni, gente folle, religioni<br />

— ha spiegato Ottolenghi —. È il primo<br />

posto che vuoi lasciare quando sei giovane,<br />

non è il tipo di realtà in cui vuoi immer-<br />

gerti. Gerusalemme non guarda avanti,<br />

guarda indietro». Per due anni vi si sono<br />

immersi, trovando una città più divisa di<br />

quanto ricordassero, prendendosi il tempo<br />

per capire «la complessità della coesistenza<br />

e la mancanza di coesistenza».<br />

A muoverli è stata la ricerca del cibo, come<br />

forza unitaria in una città che abbraccia<br />

di tutto, dai monaci copti agli ebrei ultraortodossi,<br />

dove ognuno cucina le specialità<br />

etniche in modo così autentico, dove «tutto<br />

è ripieno». Tutti — ashkenaziti, sefarditi,<br />

palestinesi — riempiono le verdure di<br />

carne, di erbe, di spezie, osserva Ottolenghi.<br />

Per Tamimi, che ha perso la mamma<br />

Na’ama a 7 anni, Jerusalem è un viaggio colmo<br />

di nostalgia nel couscous che lei gli preparava<br />

con cipolle e pomodori, nella sua insalata<br />

fattoush, nella maqluba con la carne,<br />

le melanzane... sapori dell’infanzia impossibili<br />

da replicare. E se nel libro Ottolenghi<br />

rende omaggio al suo retaggio ashkenazita,<br />

non nasconde la preferenza per la scoperta<br />

delle tradizioni levantine di Gerusalemme.<br />

Lui che, una volta, ha ipotizzato di<br />

poter scrivere una tesi di dottorato su come<br />

si sciolgono i diversi formaggi (il suo<br />

preferito è il taleggio), si dice incantato dalla<br />

combinazione di ricotta dolce e caprino<br />

RRR<br />

Racconto<br />

«Entrambi vorremmo<br />

vedere la città divisa in<br />

modo più equo, in modo<br />

che la storia non sia<br />

narrata come avviene ora»<br />

nelle sfoglie di muttabaq. «Entrambi vorremmo<br />

vedere la città divisa in modo più<br />

equo, in modo che non sia una storia raccontata<br />

da un solo punto di vista com’è attualmente»,<br />

ha spiegato. E così si ritorna<br />

all’hummus, quella pasta di ceci che costa<br />

poco ma riempie, pasto principale ma anche<br />

snack, che si mangia nei polverosi campi<br />

profughi della Cisgiordania come nei locali<br />

trendy di Tel Aviv. E se gli scavi archeologici<br />

provano che i ceci venivano coltivati<br />

già nel VII secolo a.C. a Gerico nell’attuale<br />

Cisgiordania, lo scrittore israeliano Meir<br />

Shalev ne traccia origini bibliche nel Libro<br />

di Rut. «L’hummus è il cibo preferito di tutti<br />

a Gerusalemme, e quando parli di qualcosa<br />

che è comune a tutti in un luogo che è<br />

così diviso, hai gli ingredienti per un’esplosione<br />

— spiega Ottolenghi —. Tutti rivendicano<br />

la proprietà di quel piatto di hummus,<br />

sia gli ebrei che gli arabi. È una discussione<br />

che, iniziata, non ha più fine». Yotam<br />

e Sami giungono a un compromesso,<br />

nel libro, su un «hummus di base» ricco di<br />

quella salsa tahina con cui si sporcavano<br />

da bambini. Non sarà la ricetta per la pace,<br />

ma è un appello a riflettere.<br />

@viviana_mazza<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Post it<br />

di Stefano Righi<br />

IImondo di April Bloomfield è<br />

in un grande maiale rosa che<br />

lei appoggia (morto) sulle<br />

spalle da cuoca esperta. È la<br />

copertina del suo ultimo libro,<br />

e anche il titolo non lascia spazio<br />

a equivoci: A girl and her pig<br />

(«Una ragazza e il suo maiale»). Un<br />

provocatorio (ma involontario)<br />

schiaffo culinario a vegetariani e vegani,<br />

sempre più numerosi. Allo<br />

stesso tempo, una potenziale bandiera<br />

per la riscossa degli onnivori.<br />

Bloomfield, chef 39enne di Birmingham<br />

che da piccola voleva diventare<br />

poliziotta, ha dedicato questo<br />

suo primo lavoro editoriale a<br />

una serie di ricette rigorosamente a<br />

base di carne. C’è la sezione vitello,<br />

quella manzo, quella maiale, quella<br />

volatili e quella scarti… Un racconto<br />

gastronomico, nel quale però traspare<br />

qualcosa di pericolosamente<br />

rivoluzionario: esce in un momento<br />

storico in cui mangiare carne e<br />

dichiarare di essere onnivori senza<br />

nascondersi non è una scelta politicamente<br />

corretta, ma un tentativo<br />

di suicidio davanti al tribunale dell’opinione<br />

pubblica occidentale.<br />

Nel sentire comune, infatti, pensare<br />

alla carne come cibo è diventato<br />

un atto di dubbia moralità, almeno<br />

per chi dovrebbe riflettere sulle sue<br />

azioni. Ma Bloomfield, che oggi dirige<br />

un suo ristorante nel Greenwich<br />

Village, The Spotted Pig, ed<br />

è pluriosannata dai colleghi (Mario<br />

Batali, Fergus Henderson, Jamie Olivier),<br />

rivendica la bontà del progetto<br />

con l’aiuto dei suoi ricordi: «Da<br />

bambina amavo le domeniche.<br />

Quelle mattine in cui nell’aria si diffondeva<br />

il profumo di bruciato perché<br />

mia nonna preparava in giardino<br />

il barbecue e metteva ad arrostire<br />

il maiale comprato dal macellaio<br />

di fiducia. Le verdure; il burro, tanto.<br />

Ci mangiavamo due giorni, due<br />

giorni di felicità. Cosa c’è di male?».<br />

Nel suo libro si trovano ricette<br />

come l’adobo di pollo alla filippina<br />

e le scaloppe di vitello con il chimichurri.<br />

O anche le interiora alle cipolle…<br />

«Mio nonno, anche quando<br />

partivamo per vacanze brevi, si portava<br />

dietro i rognoni in una borsa<br />

frigo. Ce li friggeva per colazione...<br />

Una delizia».<br />

Leggerla è come fare un’enorme<br />

indigestione di proteine animali<br />

(stile dieta Dukan), senza però sentirsi<br />

in colpa. Senza riflettere, tormentarsi,<br />

affrontare dilemmi etici.<br />

Esattamente la sensazione che una<br />

sempre più agguerrita falange di<br />

carnivori ricerca negli ultimi tempi.<br />

Ne è prova l’enorme successo ottenuto<br />

dal «concorso» lanciato sul<br />

{Trieste, l’allegro frastuono della vita<br />

«Trieste è la città del frastuono delle voci.<br />

Si parla tanto ma ci si capisce appena.<br />

C’è una stratificazione di mentalità diverse<br />

che è come la pasta sfoglia, i cui strati<br />

non si uniscono in un tutto omogeneo».<br />

«New York Times» la scorsa estate:<br />

Ariel Kaminer, titolare della rubrica<br />

«The Ethicist», ha chiamato a raccolta<br />

tutti gli onnivori ponendo loro<br />

la domanda delle domande:<br />

«Perché è etico mangiare carne?».<br />

Un modo, ha spiegato l’editorialista,<br />

per incoraggiarli a produrre teorie<br />

altrettanto forti di quelle che vegetariani<br />

e vegani diffondono da anni.<br />

Si potevano usare al massimo<br />

600 parole. A scegliere i vincitori<br />

cinque giudici d’eccezione: Mark<br />

Bittman, Jonathan Safran Foer, Andrew<br />

Light, Michael Pollan e Peter<br />

Singer. Oltre 70 mila messaggi arrivati.<br />

I più originali? Eccone alcuni<br />

stralci: «Il leone mangia carne. Volete<br />

accusarlo di essere poco etico?».<br />

«Lo squalo divora pesci da<br />

una vita. E allora?». «La Bibbia dice<br />

che è ok». «Siamo in una nazione<br />

libera». Ma il vincitore è stato Jay<br />

Bost, 36 enne docente di agronomia<br />

e vegetariano pentito, che ha<br />

scritto: «Per me mangiare carne è<br />

etico quando fai tre cose. Primo: accetti<br />

che la morte produce la vita e<br />

che tutta la vita (inclusa la nostra) è<br />

solo energia solare in una forma<br />

temporaneamente stabile. Secondo:<br />

scegli vegetali, grano e carne<br />

prodotti eticamente. Terzo: ringrazi».<br />

Insomma, la vendetta degli onnivori<br />

è cominciata, però con giudizio.<br />

In questa strana guerra, dove il<br />

desiderio e il piacere combattono<br />

per affermare i propri diritti mentre<br />

l’etica, il principio di responsabilità,<br />

la cura per il mondo, provano<br />

tenacemente a negarglieli, gli schieramenti<br />

hanno un nome: i soldati<br />

del primo esercito si chiamano specisti,<br />

quelli del secondo antispecisti.<br />

Gli specisti sostengono la superiorità<br />

della specie umana; gli antispecisti,<br />

cioè i vegetariani e i vegani,<br />

la negano sfidando i rivali a fornire<br />

prove chiare e inequivocabili. Lo<br />

scrittore sudafricano J. M. Coetzee,<br />

a proposito delle teorie animaliste,<br />

ha detto testualmente: «Se hanno<br />

ragione loro, allora sotto i nostri oc-<br />

Per capire questa città, «Trieste» di Günther<br />

Schatzdorfer (Gaffi) è il consiglio giusto<br />

della libreria Lovat, utile per fuggire<br />

alla conformistica visione mitteleuropea<br />

e scavare tra Freud e Franco Basaglia.<br />

Costumi La cuoca April Bloomfield guida i fan delle proteine<br />

Riscossa dei carnivori<br />

«È una scelta etica»<br />

La copertina del libro<br />

di April Bloomfield<br />

e, a destra, «La bottega<br />

del macellaio»<br />

di Annibale Carracci<br />

(1560-1609), olio su tela,<br />

cm 185 x 266, Oxford<br />

di ANGELA FRENDA<br />

RRR<br />

Lo show<br />

Sherie Rene Scott dopo<br />

26 anni da vegetariana<br />

è tornata onnivora:<br />

lo racconta con gran<br />

successo a Broadway<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

chi ogni giorno avviene un crimine<br />

di proporzioni stupefacenti».<br />

D’altra parte, provate a mangiare<br />

una bistecca leggendo Liberazione<br />

animale del filosofo australiano Peter<br />

Singer. Lo ha fatto il critico del<br />

«Nyt» Michael Pollan. Il risultato è<br />

il capitolo «Il problema etico di<br />

mangiare carne» inserito nel suo<br />

bestseller Il dilemma dell’onnivoro.<br />

Una riflessione sul perché un atto<br />

fino a pochi anni fa considerato<br />

banale sia sempre più visto come<br />

una barbarie. Ma la lettura del pamphlet<br />

di Singer, racconta Pollan, pone<br />

di fronte a una scelta netta: «Per<br />

decidere se sia giusto uccidere gli<br />

animali per mangiarli non dobbiamo<br />

chiederci: possono ragionare?<br />

Ma: possono soffrire? La risposta è<br />

sì, e dunque essere vegetariani è<br />

un obbligo». Pollan ci ragiona su a<br />

lungo, prova persino per qualche<br />

settimana a osservare una dieta<br />

senza carne, e approda a quella che<br />

è la nuova tesi degli onnivori, con<br />

presunta riscossa etica incorporata:<br />

«È nella sofferenza inflitta agli<br />

animali dall’allevamento industriale<br />

moderno la non moralità del<br />

mangiare carne. Se troveremo una<br />

terza via, che riconosca loro i diritti<br />

di soggetto capace di provare dolore<br />

e piacere, allora riusciremo a<br />

nutrirci con consapevolezza. E per<br />

farlo, basterebbe imporre con una<br />

legge il diritto di vedere anche la loro<br />

morte, rendendo i macelli trasparenti,<br />

controllabili dall’opinione<br />

pubblica».<br />

Gli onnivori, insomma, provano<br />

a uscire dall’angolo. A testa alta,<br />

senza arrossire: arrivano persino a<br />

metterlo in scena, il loro desiderio<br />

di carne. Sherie Rene Scott, attrice<br />

teatrale di successo, dopo 26 anni<br />

da convinta vegetariana, a 44 si è<br />

riconvertita alla scelta onnivora e<br />

ha deciso di raccontare la propria<br />

metamorfosi culinaria ed etica in<br />

uno spettacolo che sta sbancando i<br />

botteghini di Broadway: A piece of<br />

meat. Racconta: «È successo tutto<br />

all’improvviso. Una mattina ero a<br />

casa da sola. Qualcuno stava cucinando<br />

una bistecca nel cortile. Ho<br />

aperto la porta come in trance e ho<br />

seguito la scia. Mi sono ritrovata a<br />

bussare a casa dei miei vicini e chiedere<br />

di assaggiare un pezzo di carne.<br />

Il mio spettacolo parla di questo,<br />

del desiderio. Ma anche di<br />

quello che mi disse il mio dottore:<br />

"Il tuo corpo ha bisogno di ferro. O<br />

mangi carne o diventi anemica".<br />

Non è stato facile. Ho sofferto. E<br />

probabilmente, ora, non potrò più<br />

dormire con Paul McCartney».<br />

9<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


10 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Orizzonti Nuovi linguaggi<br />

Diritti e Rete<br />

di FEDERICA COLONNA<br />

scontro titanico».<br />

Così Barry Steinhardt,<br />

presidente dell’associazioneinternaziona-<br />

«Uno<br />

le per la tutela degli<br />

utenti «Friend of Privacy», definisce il dialogo<br />

— difficile — tra Europa e Usa in tema<br />

di e-privacy. Un conflitto appena cominciato,<br />

con l’arrivo a Bruxelles dei lobbisti<br />

delle maggiori tech company d’Oltreoceano,<br />

al lavoro per ammorbidire il Data<br />

Protection Regulation, il nuovo regolamento<br />

europeo sulla protezione dei dati<br />

personali previsto per il 2014. E, spiega il<br />

«New York Times», per impedire ai netizen<br />

europei di cambiare la storia del web:<br />

niente più pubblicità mirata su Google e<br />

nessuna cattiva sorpresa stile Max<br />

Schrems, lo studente austriaco che, quando<br />

ha chiesto a Facebook di avere accesso<br />

a tutti i dati che lo riguardavano, si è visto<br />

recapitare ben 1.222 pagine Pdf e 23 mail<br />

di foto e status. Alcuni dei quali, a suo dire,<br />

cancellati da tempo.<br />

È alla storia di Schrems che ha fatto riferimento<br />

Viviane Reding, la commissaria<br />

Ue per la Giustizia, i Diritti fondamentali e<br />

la Cittadinanza — che propone il nuovo<br />

regolamento — per descrivere lo spirito<br />

della normativa: «Servirà a rinforzare la<br />

privacy dei cittadini e ad aumentare la fiducia<br />

nel business online». Come? Attraverso<br />

i 91 articoli della riforma, relativa solo<br />

all’uso professionale e commerciale dei<br />

dati personali, presentata il 25 gennaio<br />

2012 e ora in discussione al Parlamento.<br />

Quattro, ha sottolineato Reding pochi<br />

giorni fa all’Informal Justice Council di Dublino,<br />

i provvedimenti principali: il rafforzamento<br />

del diritto all’oblio; la data portability<br />

(il diritto, cioè, al trasporto dei dati<br />

personali da un fornitore di servizi a un<br />

altro); l’introduzione del privacy officer,<br />

una nuova figura di garanzia presente nelle<br />

grandi aziende e nella pubblica amministrazione;<br />

l’inversione dell’onere probatorio<br />

per l’illiceità del trattamento; e, infine,<br />

l’articolo 20 in base al quale gli utenti dovranno<br />

fornire alle imprese «consenso<br />

specifico, informato ed esplicito» al trattamento<br />

dei dati personali, e possono opporsi<br />

preventivamente a ogni misura di<br />

profilazione online. «Si tratta — spiega<br />

Luca Bolognini, presidente dell’Istituto italiano<br />

per la Privacy — di un pesante freno<br />

al behavioral advertising, la pubblicità<br />

comportamentale, la più usata e efficace.<br />

Avviene quando il browser, per esempio,<br />

installando dei cookie nel pc o nello smartphone<br />

di chi naviga lo segue e ottiene informazioni<br />

preziose per calibrare i messaggi.<br />

Con il regolamento sarà chiesto<br />

esplicito consenso preventivo all’utente.<br />

Idem con la geolocalizzazione».<br />

Se da un lato, quindi, l’obiettivo del Data<br />

Protection Regulation è rafforzare i diritti<br />

dei cittadini, dall’altro «si prepara —<br />

continua Bolognini — ad abbattere su tutti<br />

i titolari del trattamento, quindi sulle<br />

aziende e sugli enti, una montagna di<br />

adempimenti nuovi, di "compiti a casa",<br />

mentre le sanzioni diventeranno mostruose,<br />

fino al 2% del fatturato globale annuo<br />

di una impresa». Ecco perché i lobbisti sono<br />

atterrati a Bruxelles: «Il sistema Usa —<br />

spiega Morena Ragone, giurista, vice presidente<br />

dell’associazione Wikitalia — si<br />

basa su un regime di autoregolamentazione<br />

che consente alle aziende di raccogliere<br />

i dati degli utenti». E, quindi, di sviluppare<br />

servizi con maggiore libertà, come<br />

ha avuto modo di sottolineare il 28 gennaio,<br />

in occasione della Giornata internazionale<br />

per la Privacy, anche l’Icdp (Industry<br />

Coalition for Data Protection): «Proprio<br />

nel momento in cui il settore Ict è uno<br />

dei pochi in grado di stimolare la crescita<br />

in Europa, la proposta della Commissione<br />

minaccia di compromettere l’ecosistema<br />

digitale e, potenzialmente, di soffocare<br />

la capacità dell’Europa di innovare».<br />

Eppure la Commissione ha stimato<br />

che il Pil del continente potrebbe crescere<br />

del 4% entro il 2020 se l’Unione riuscisse<br />

a creare, come conseguenza dell’applicazione<br />

del regolamento, un mercato unico<br />

digitale. Grazie, soprattutto, alla rinnovata<br />

fiducia degli europei nelle aziende<br />

web. Sentimento che, rivela Eurobarometro<br />

— servizio statistico dell’Ue, autore<br />

dell’indagine Attitudes on data protection<br />

and electronic identity in the European<br />

Union, allegata al progetto di legge —<br />

solo il 26% degli utenti dei social<br />

network e il 18% di chi fa acquisti online<br />

si sente nel pieno controllo dei propri dati.<br />

Mentre Facebook e Yahoo! escono dalla<br />

top ten delle società online ritenute<br />

più sicure dagli utenti — americani, stavolta<br />

— secondo la recente classifica del<br />

Ponemon Institute.<br />

Non è, però, attraverso la proliferazione<br />

burocratica che l’ambiente digitale diventa<br />

più sicuro. «Serve una visione globale<br />

comune, almeno sui principi chiave delle<br />

leggi», spiega Daniel Cooper, firma di<br />

{<br />

di Giuseppe Remuzzi<br />

Privacy, la battaglia dell’Atlantico<br />

RRR<br />

I provvedimenti<br />

Rafforzati il diritto all’oblio<br />

e il diritto di opporsi<br />

preventivamente alla<br />

profilazione online. Nasce<br />

un nuovo garante<br />

Sopra le righe<br />

Il codice<br />

Il Data Protection<br />

Regulation europeo<br />

dovrebbe sostituire<br />

la direttiva madre<br />

in materia di privacy, la<br />

95/46. Presentato il 25<br />

gennaio 2012, si compone<br />

di 91 articoli, e per l’online<br />

si limita ad aggiungere<br />

singole norme. Si tratta<br />

di regole, però, in grado<br />

di incidere su temi centrali,<br />

come la «profilazione»<br />

degli utenti web, i quali<br />

dovranno fornire alle<br />

imprese «consenso<br />

specifico, informato<br />

ed esplicito» al trattamento<br />

dei dati. Il progetto è in fase<br />

di revisione parlamentare:<br />

gli emendamenti<br />

sono stati presentati<br />

il 17 dicembre scorso nella<br />

bozza (draft report)<br />

coordinata dallo special<br />

rapporteur Jan Philipp<br />

Albrecht, membro del<br />

gruppo Verde/Alleanza<br />

libera europea. Le<br />

modifiche proposte<br />

prevedono un<br />

rafforzamento ulteriore<br />

della tutela del cittadino e<br />

maggiori responsabilità e<br />

trasparenza (accountability)<br />

delle imprese. Il voto finale<br />

agli emendamenti, presso la<br />

commissione parlamentare<br />

Libe (libertà civili, giustizia e<br />

affari interni) è previsto per<br />

il prossimo aprile.<br />

L’adozione del regolamento<br />

è, invece, prevista per il<br />

2014, ma entrerà in vigore<br />

solo due anni dopo<br />

Quando chiedere non è lecito<br />

Un ex presidente del Royal College of<br />

Physicians — associazione medica di grande<br />

prestigio nel Regno Unito — ha chiesto a un<br />

po’ di amici di aiutarlo ad avere un seggio<br />

alla Camera dei Lord. Gli hanno risposto che<br />

punta dello studio legale Convington &<br />

Burling. E continua: «La giurisprudenza<br />

americana riconosce un grande peso ai<br />

principi di notice and choice, notifica e<br />

scelta. Le regole europee, invece, tendono<br />

a essere più paternalistiche, ma non è detto<br />

che questo approccio, che nel campo<br />

della privacy riconosce al principio del<br />

consenso un grande peso, sia davvero più<br />

favorevole per i cittadini». Insomma, se alcuni<br />

pregi del Data Protection Regulation<br />

sono innegabili — «Finora abbiamo trattato<br />

la privacy con una visione analogica,<br />

stavolta non è così» spiega Ragone — il<br />

regolamento potrebbe trasformarsi in<br />

un’occasione mancata.<br />

Viktor Mayer-Schönberger, docente di<br />

Internet Governance and Regulation presso<br />

l’Oxford Internet Institute, ne evidenzia<br />

un grande limite: «Avrei sperato ci fosse<br />

più attenzione alle sfide poste dai big data.<br />

In ogni caso il regolamento sarà incisivo<br />

un po’ come la legge della California<br />

che ha innalzato il livello di emissioni<br />

standard per le auto e ha costretto le industrie<br />

a fabbricare più veicoli ibridi. Così<br />

l’inasprimento degli standard europei potrà<br />

migliorare la privacy mondiale».<br />

Una prospettiva sulla quale Reding<br />

sembra puntare, tanto che il faccia-a-faccia<br />

con gli Usa è soprattutto politico. Chi<br />

detterà, infatti, le regole del web determinerà<br />

la forma mentis del pianeta. Per questo<br />

l’articolo 3 della riforma è il più controverso:<br />

stabilisce che le norme si applicheranno<br />

anche alle imprese extra Ue se<br />

sono residenti europei a usufruire dei servizi.<br />

«Non possiamo, però, essere troppo<br />

eurocentrici — conclude Bolognini —.<br />

Quasi ogni articolo del regolamento finisce<br />

con un comma che conferisce alla<br />

Commissione il potere di adottare atti delegati<br />

per l’attuazione delle disposizioni.<br />

La Commissione può fare e disfare le regole».<br />

Un tema spinoso, «tanto che —<br />

continua Cooper — molti stakeholder<br />

hanno espresso preoccupazione, perché<br />

tanta discrezione è riconosciuta a un organo<br />

europeo non-eletto». Senza contare<br />

che i tempi dell’attuazione del regolamento<br />

potrebbero così diventare lunghissimi.<br />

È in dubbio, infatti, se sarà davvero il<br />

2014 l’anno della nuova legge sulla privacy.<br />

Sia per questioni interne, come il<br />

mal di pancia di Gran Bretagna e Germania<br />

che preferirebbero una direttiva al regolamento<br />

(ma che, conclude Cooper, «lascerebbe<br />

l’Europa come già è: frammentata»),<br />

sia per le difficoltà burocratiche. Un<br />

rischio, insomma, c’è. Proprio la legge sul<br />

diritto all’oblio può finire nel dimenticatoio.<br />

@fedecolonna<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

se uno lo chiede non è la persona giusta<br />

per la Camera Alta. E se facessimo così<br />

anche noi? Chi si propone per un posto<br />

di responsabilità e si fa raccomandare<br />

per arrivarci, forse non lo dovrebbe avere.<br />

Bruxelles avvia la discussione sul Data Protection Regulation<br />

Dietro c’è lo scontro tra due idee di web e progresso: Europa e Usa L’operaio<br />

fa un iPad<br />

e lo porta<br />

al museo<br />

i<br />

ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO<br />

Cina Il caso Foxconn<br />

di MARCO DEL CORONA<br />

Alla fine Li Liao chiude il cerchio.<br />

Dopo aver lavorato in incognito<br />

un mese e mezzo come operaio<br />

in uno stabilimento della famigerata<br />

Foxconn, con i salari percepiti ha<br />

acquistato un iPad, ovvero l’oggetto che<br />

aveva contribuito ad assemblare. Il<br />

cerchio chiuso è per Li un’opera d’arte.<br />

E, come tale, Consumption è approdata<br />

all’Ullens Center for Contemporary Art<br />

di Pechino (Ucca), che ha<br />

commissionato 50 opere a 50 artisti<br />

della nuovissima wave cinese per la<br />

collettiva On/Off. Li è nato in Hubei<br />

nell’82, ha spiegato nel 2011 di aver<br />

cancellato i suoi studi accademici dal<br />

curriculum per «preservare la propria<br />

libertà» e si è fatto assumere a<br />

Shenzhen, città simbolo dell’«apertura»<br />

di Deng. Dunque, con decine di milioni<br />

di lavoratori migranti ha condiviso<br />

anche il destino di venire da lontano<br />

(«e in fabbrica non tornerò», ha<br />

confidato in un’intervista). La sua opera<br />

«Consumption»: il camice e il tesserino<br />

Foxconn di Li Liao, artista nato nell’82<br />

WWW.NEWYORKER.COM<br />

condensa la prestazione professionale e<br />

l’esperienza esistenziale, senza<br />

dichiarati scopi politici: oltre al lavoro<br />

nel campus di Longhua — 10 ore al<br />

giorno più due per i pasti — ecco l’iPad<br />

stesso, il camice, i tesserini, il contratto<br />

d’assunzione incorniciato. Più<br />

dell’originalità, vale la tempestività<br />

dell’operazione. Vale, naturalmente, il<br />

fatto che Consumption sia nata in Cina,<br />

dove i temi del lavoro alimentano le<br />

aspettative popolari. Vale che l’iPad sul<br />

piedistallo rimandi all’azienda<br />

(taiwanese) eletta a simbolo negativo<br />

delle pratiche industriali. Vale infine<br />

che proprio ora si parli dell’ipotesi di<br />

consentire alla Foxconn delegati dei<br />

lavoratori più rappresentativi di quanto<br />

accada con il sindacato ufficiale. E il<br />

cerchio di Li Liao si chiude una seconda<br />

volta entrando in risonanza con il titolo<br />

della mostra: On/Off evoca l’attivazione,<br />

o meno, di una vpn (virtual private<br />

network), un software che aggira il<br />

Great Firewall, la censura online. In<br />

Cina, senza vpn anche un iPad resta<br />

zoppo.<br />

http://leviedellasia.corriere.it<br />

@marcodelcorona<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Orizzonti Mappe<br />

Visual data<br />

di GIORGIA LUPI<br />

e SIMONE QUADRI<br />

Lo studio di questa settimana<br />

esplora i caratteri distintivi di<br />

25 tra le più importanti città<br />

del pianeta. Ogni insediamento<br />

urbano è stato analizzato<br />

secondo differenti parametri (ambientali,<br />

territoriali, architettonici, demografici,<br />

economici) al fine di individuare<br />

identità e ricorrenze geografiche.<br />

Ogni metropoli è visualizzata in base<br />

alla sua latitudine, con un raggruppamento<br />

per zone climatiche (tempera-<br />

te e tropicale). L’identità di ciascuna<br />

città è composta visivamente da un poligono,<br />

la cui forma e dimensione restituiscono<br />

la correlazione tra la superficie<br />

e quattro parametri accessori: il<br />

numero di abitanti, il numero di turisti,<br />

l’altezza dell’edificio più alto e il<br />

prezzo medio di una certa tipologia di<br />

immobili nelle zone centrali; i parametri<br />

sono facilmente confrontabili nel<br />

totale delle metropoli grazie al colore<br />

pieno dell’asse principale.<br />

Queste bizzarre carte di identità urbane<br />

sono arricchite da ulteriori informazioni<br />

che chiariscono ancora di più<br />

Make up<br />

di Gianna Fregonara<br />

il quadro generale: quanto è vecchia la<br />

città? Quali sono i valori di temperatura<br />

media e precipitazioni? Si scopre così<br />

che latitudine e longitudine non determinano<br />

esclusivamente precipitazioni<br />

piovose e temperature medie,<br />

ma al contrario influenzano molti<br />

aspetti di tipo urbano.<br />

Nonostante condizioni economiche<br />

e climatiche profondamente diverse<br />

(un immobile a Londra costa 11 volte<br />

più che a Lisbona e la differenza media<br />

di temperatura tra le due capitali è<br />

di 7 gradi), le città europee presentano<br />

elementi comuni: lunga storia alle<br />

{<br />

Musei, il prezzo dei biglietti<br />

Secondo il sondaggio via Internet del<br />

ministero dei Beni Culturali tre visitatori di<br />

musei italiani su quattro sarebbero disposti a<br />

pagare anche un biglietto più costoso se<br />

questo fosse un contributo «alla salvaguardia<br />

Venticinque tra le città più importanti del pianeta<br />

sono analizzate per individuare ricorrenze geografiche<br />

Carte d’identità urbane che rivelano qualche sorpresa<br />

Lisbona è uguale a Honolulu<br />

spalle, estensione spaziale ridotta, sviluppo<br />

verticale limitato, capacità di attrarre<br />

un numero di visitatori e di turisti<br />

superiore a quello degli abitanti. Se<br />

la parte orientale del pianeta si con-<br />

Gli autori<br />

La visualizzazione e l'analisi dei dati<br />

sono a cura di Accurat<br />

(www.accurat.it) società di<br />

information design e consulenza<br />

progettuale diretta da Giorgia Lupi,<br />

Simone Quadri, Gabriele Rossi.<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

del patrimonio culturale». Cosa vorrebbero<br />

dai musei che visitano: opere d’arte di alto<br />

interesse, il materiale informativo di corredo,<br />

orari di apertura più comodi e percorsi<br />

mirati. Difficile controbattere.<br />

11<br />

traddistingue in modo abbastanza generalizzato<br />

per i grandi volumi (in superfici,<br />

altezze degli edifici, aspetti demografici),<br />

le Americhe presentano<br />

forti contraddizioni. È infatti la longitudine,<br />

più che la latitudine, a determinare<br />

l’identità di una città. Non è un<br />

caso che, nella visualizzazione, Buenos<br />

Aires sembri una piccola New<br />

York e la forma di Los Angeles non si<br />

discosti molto da quella di Città del<br />

Messico. Ma il record di somiglianza è<br />

altrove: Honolulu e Lisbona sembrano<br />

fotocopie.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


12 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

RRR<br />

Scrittore, nato a Roma<br />

nel 1953. Per l’editore<br />

il Saggiatore è tornato<br />

in libreria il romanzo<br />

«Ultimo parallelo»<br />

con cui vinse nel 2007<br />

il Premio Viareggio<br />

L’INEDITO<br />

Un romanzo<br />

di cento parole<br />

di Filippo Tuena<br />

Caratteri di<br />

Narrativa, ragazzi, saggistica, classifiche<br />

dal nostro corrispondente a New York<br />

ALESSANDRA FARKAS<br />

Marlon Brando e Bob Dylan.<br />

Philip K. Dick e Italo Calvino.<br />

Batman e l’11 settembre.<br />

Film, fumetti, graffiti,<br />

gruppi musicali e scrittori:<br />

famosi o sconosciuti, poco importa. Mille<br />

tasselli compongono il mosaico di<br />

L’estasi dell’influenza — in uscita in Italia<br />

da Bompiani con la traduzione di<br />

Gianni Pannofino — una raccolta di storie,<br />

saggi, meditazioni e interviste, in cui<br />

il 48enne Jonathan Lethem celebra le tante<br />

influenze — letterarie e non — della<br />

sua vita.<br />

Il libro rovescia la tesi de L’angoscia<br />

dell’influenza, il classico di Harold<br />

Bloom del 1973, secondo cui gli scrittori<br />

vanno compresi in rapporto agli scrittori<br />

precedenti, ossia gli autori che li hanno<br />

influenzati e ai quali hanno reagito in vari<br />

modi. «Più che ripudiare la tesi di<br />

La donna che sedeva, completamente nuda,<br />

sulla spiaggia di ciottoli di un’isola greca,<br />

in una splendida mattinata d’agosto,<br />

assieme ad altri compagni, scambiò con<br />

me più d’uno sguardo.<br />

Ecco, poteva dire a me che l’osservavo da<br />

lontano: sono esperta nella seduzione delle ore<br />

che seguono l’amore. Converserei con te, nella<br />

mia nudità, sorridendo, per nulla incupita dai<br />

minuti che seguono l’orgasmo. Ti sedurrei<br />

nuovamente, con un sorriso, se fossimo nel mio<br />

letto, di notte, dopo l’amore. Ecco, potrei farlo<br />

con la semplice arte del mio essere. So che potrei<br />

farlo.<br />

Ma non qui, non ora e non con te.<br />

{<br />

Tributi<br />

Donne ostili. Una<br />

Il canone inverso di Lethem<br />

Bloom, che considero parte organica del<br />

mio approccio alla letteratura, intendevo<br />

svilupparla, alleviando il senso di ansietà<br />

inerente al processo creativo», spiega<br />

l’autore di bestseller come Brooklyn senza<br />

madre (Il Saggiatore) e La fortezza della<br />

solitudine (Tropea). Oggi vive con la<br />

terza moglie e i due figli in California, dove<br />

dal 2011 ricopre la cattedra di Scrittura<br />

creativa all’Università di Pomona, un<br />

tempo appartenuta a David Foster Wallace.<br />

«Io sono la prova vivente che è possibile<br />

essere d’accordo con Bloom, senza tormentarsi<br />

— incalza l’autore — credo nell’appropriazione<br />

esuberante al posto di<br />

quella ansiogena; nell’approccio egalitario<br />

invece che elitario. Non ho inventato<br />

nulla: è stata la mia generazione ad abolire<br />

la distinzione tra cultura alta e cultura<br />

bassa, sostituendo la percezione soggettiva<br />

ai canoni assolutisti calati dall’alto».<br />

Ha ragione dunque il «New York Times»<br />

quando scrive che il motore della<br />

sua arte è l’impeto antiautoritario?<br />

«Sono cresciuto con nonni comunisti<br />

e genitori bohémien che mi hanno istillato<br />

l’amore per la strada, per gli outsider<br />

e la letteratura underground, insieme all’istinto<br />

per individuare i bulli e i tipi autoritari<br />

e intimidatori. Il mio problema,<br />

semmai, è dar loro troppa importanza,<br />

come faccio nel saggio contro il critico<br />

del "New Yorker" James Wood».<br />

Perché se l’è presa con uno dei critici<br />

più influenti d’America? Non temeva<br />

ripercussioni?<br />

«Lo rifarei, perché credo che quell’arti-<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

L’uomo invisibile della letteratura<br />

Thomas Kunkel, già biografo del direttore<br />

del «New Yorker» dell’età dell’oro letterario<br />

Harold Ross, sta scrivendo un libro su un<br />

altro giornalista della rivista: Joseph Mitchell,<br />

l’uomo invisibile della letteratura americana<br />

morto nel 1996, reporter di immensa classe<br />

e scrittore, che dal 1964 continuò a andare<br />

al lavoro ogni giorno per 32 anni senza più<br />

pubblicare nulla paralizzato da un caso<br />

da manuale di blocco creativo.<br />

L’intervista Le riflessioni dell’autore che siede sulla cattedra di Foster Wallace e con il nuovo libro prende di mira Harold Bloom<br />

Non è più tempo di precetti. Si fanno letture eterogenee:<br />

il fantasy e Jennifer Egan, l’horror e il grande Saunders<br />

»<br />

Tutti i generi<br />

del mondo<br />

Jonathn Lethem è nato a<br />

Brooklyn nel 1964. Insegna a<br />

Pomona sulla cattedra di<br />

Foster Wallace. A Philip K.<br />

Dick si ispira il suo primo<br />

romanzo, «Concerto per archi<br />

e canguro» (Tropea, 2002),<br />

da allora attinge a registri<br />

diversi, dall’hard boiled alla<br />

fantascienza, dal western<br />

all’avantpop, dando voce agli<br />

aspetti della realtà americana<br />

post-apocalisse. Ha scritto<br />

otto romanzi, tra i quali:<br />

«Brooklyn senza madre» (Il<br />

Saggiatore, 2007) e<br />

«Fortezza della solitudine»<br />

(Tropea, 2003) 600 pagine<br />

che hanno per orizzonte il<br />

grande romanzo americano.<br />

L’ultimo dei suoi lavori<br />

narrativi è «Chronic city»<br />

(Il Saggiatore, 2010)<br />

colo abbia creato un dibattito molto utile<br />

nel nostro ambiente. Volevo smascherare<br />

due aspetti del mestiere che nessuno<br />

vuole discutere: quanto prendiamo a<br />

prestito da altri e quanto teniamo alla nostra<br />

reputazione pubblica».<br />

A proposito di immagine pubblica,<br />

qualcuno ha suggerito che lei è il Norman<br />

Mailer della nostra era.<br />

«Non oserei mai paragonarmi a un gigante<br />

del suo calibro, con cui ogni scrittore<br />

della sua generazione ha dovuto fare<br />

i conti — e con gran riluttanza — perché<br />

Mailer era un artista ingombrante,<br />

occupava tantissimo spazio. Se mai uno<br />

di noi potrà mai aspirare a emularne il<br />

ruolo di pubblico intellettuale, quello è<br />

Dave Eggers. Mi dispiace molto, però,<br />

che oggi Mailer sembri quasi dimenticato».<br />

Come lo spiega?<br />

«Sta entrando in una sorta di "fase alla<br />

Hemingway", in cui l’immagine resta ma<br />

soltanto un paio di sue opere sono ancora<br />

lette: Il canto del boia e Le armate della<br />

notte. Oggi persino Il nudo e il morto è<br />

finito nel dimenticatoio. Accademici come<br />

Michael Szalay lo stanno riscoprendo<br />

ma tra i giovani scrittori americani prevale<br />

il pregiudizio femminista: lo vedono<br />

come membro del club dei dinosauri maschilisti<br />

alla Saul Bellow e John Updike».<br />

Matteo Persivale<br />

Philip Roth non fa parte di quel<br />

club?<br />

«Oltre ad essere più giovane, Roth ha<br />

avuto la fortuna di continuare a scrivere<br />

in maniera brillante anche in età avanzata.<br />

Sfidando ogni statistica, è l’unico che<br />

ha sfornato capolavori fino al meritato ritiro».<br />

Quali sono gli autori preferiti dai<br />

suoi studenti a Pomona?<br />

«David Foster Wallace è l’incontrastata<br />

musa di ogni giovane scrittore americano<br />

e Infinite Jest il capolavoro con cui<br />

tutti vogliono misurarsi. Ma i loro gusti<br />

sono molto più eterogenei e aperti di<br />

quelli delle generazioni precedenti. Passano<br />

tranquillamente da Jennifer Egan al<br />

fantasy e dall’horror al grande George<br />

Saunders, il cui nuovo libro, Tenth of December:<br />

Stories è stato definito il miglio-<br />

RRR<br />

Confronti<br />

«Io come Mailer? Macché.<br />

L’unico che può emularne il<br />

ruolo è Eggers. Ma Mailer è<br />

ormai associato a dinosauri<br />

come Bellow e Updike»<br />

re dell’anno dal "New York Times"».<br />

Le è piaciuto «Il re pallido» di Foster<br />

Wallace?<br />

«È un’opera mozzafiato e insieme tragica<br />

perché capisci presto che non è un<br />

libro finito ma un insieme di possibilità,<br />

senza un nucleo unificante. Comunque<br />

sono felice di avere avuto l’onore di leggerlo<br />

e penso che sia sempre giusto pubblicare<br />

i lavori postumi dei grandi. Non<br />

mi è piaciuto invece il saggio voyeuristico<br />

che Jonathan Franzen ha dedicato alla<br />

cerimonia di aspersione delle ceneri di<br />

Foster Wallace. Franzen, di cui ho letto<br />

soltanto Le correzioni, è un grande scrittore<br />

ma contesto il ruolo pubblico che si<br />

è dato».<br />

E Michael Chabon?<br />

«Siamo molto amici e stimo enormemente<br />

il suo lavoro. È uno scrittore ele-<br />

RRR<br />

Giudizi<br />

«Non mi è piaciuto il saggio<br />

di Franzen su Foster<br />

Wallace. È un grande<br />

scrittore ma contesto il<br />

ruolo pubblico che s’è dato»


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

gante, lirico, empatico e originalissimo.<br />

Penso soprattutto a I misteri di Pittsburgh<br />

eaIl sindacato dei poliziotti yiddish».<br />

Lei è stato uno dei pochi fortunati<br />

ad aver potuto intervistare Bob Dylan<br />

in una celebre conversazione apparsa<br />

su «Rolling Stone» nel 2006.<br />

«Dylan è un uomo generoso e incredibilmente<br />

divertente. Incontrandolo ho<br />

capito che il suo segreto — e la chiave<br />

per decifrare le sue tante contraddizioni<br />

— è lo humour. Perché gli piace far ridere<br />

il suo interlocutore e ha lo stesso umorismo<br />

bizzarro e fuori dalle righe dei fratelli<br />

Coen, anche loro del Minnesota».<br />

Nell’«Estasi dell’influenza» rivela<br />

che la mattina dell’11 settembre non si<br />

accorse di nulla perché stava smaltendo<br />

la sbornia dopo una notte di bagordi<br />

con Bret Easton Ellis.<br />

«Bret è uno scrittore sottovalutato a<br />

causa delle sue posizioni misogine, nonostante<br />

Lunar park e Glamorama siano<br />

capolavori. Siamo amici dai tempi del<br />

Bennington College, quando, con Donna<br />

Tartt, eravamo compagni di corso. Al secondo<br />

anno capii di essere troppo povero<br />

per quel posto di snob ricchi, e fuggii<br />

a Berkeley attraversando il Paese con 40<br />

dollari in tasca, per poi andare lavorare<br />

come commesso in una libreria di testi<br />

usati».<br />

Nei suoi libri lei definisce spesso la<br />

morte di sua madre come un’esperienza<br />

che ha cambiato la sua vita.<br />

«La sua morte mi ha distrutto, costringendomi<br />

a rinascere e a diventare ciò<br />

che sono oggi. Avevo 14 anni e dopo il<br />

trauma per la sua scomparsa, mamma è<br />

diventata la mia stella polare: quella sempre<br />

visibile a occhio nudo che ti guida come<br />

un faro».<br />

Si sente ebreo come sua madre?<br />

«Quello dell’identità è per me un tema<br />

molto spinoso, fatto di ambivalenza e ri-<br />

i<br />

JONATHAN LETHEM<br />

L’estasi dell’influenza<br />

Traduzione<br />

di Gianni Pannofino<br />

BOMPIANI<br />

Pagine 610, e 23<br />

In libreria dal 13 febbraio<br />

Nella pagina a fianco:<br />

Jonathan Lethem a New<br />

York nel 2010<br />

(dal sito buzzbox.com).<br />

In alto: un’immagine<br />

dal servizio firmato<br />

da John Baldessari (1931)<br />

con il fotografo italiano<br />

Mario Sorrenti (1971)<br />

per «W Magazine»<br />

(novembre 2007)<br />

pudio. Mio padre è quacchero e mamma<br />

era uno spirito libero della generazione<br />

di Woodstock. Non mi sono mai sentito<br />

ebreo nel senso classico del termine.<br />

Non ho fatto il Bar Mitzvah e sono andato<br />

in sinagoga tre volte in vita mia. Il mio<br />

tifo per l’outsider viene più dai miei nonni<br />

comunisti che non dalla morale ebraica.<br />

Affronto la mia ebraicità nel mio nuovo<br />

libro Dissident Gardens, un romanzo<br />

storico ambientato a New York dagli anni<br />

30 a oggi sulla fine del comunismo<br />

americano e la nascita della New Left».<br />

Al di là delle etichette che le hanno<br />

assegnato i critici, che tipo di scrittore<br />

si definirebbe?<br />

«Pur considerandomi uno scrittore<br />

americano, penso che le mie influenze<br />

più formative vengano da scrittori internazionali<br />

come Calvino, Borges, Kobo<br />

Abe, Pirandello, Stanislaw Lem e Kafka.<br />

Bolaño e Musil mi hanno cambiato la vita.<br />

Amo Le cosmicomiche e Se una notte<br />

d’inverno un viaggiatore, Primo Levi e<br />

Sciascia. Il primo libro che mi ha toccato<br />

il cuore è stato Alice nel paese delle meraviglie<br />

di Lewis Carroll, che come tutti i<br />

libri importanti della mia infanzia mi è<br />

stato regalato da mia madre».<br />

Come ha reagito suo padre quando<br />

nel 1984 l’ha informato che aveva cambiato<br />

idea: non sarebbe più diventato<br />

un pittore come lui?<br />

«Dapprima fu deluso perché gli sembrava<br />

bellissimo che volessi seguire le<br />

sue orme. Ma poi ha capito che la mia<br />

scelta di diventare scrittore non era una<br />

rottura, ma solo una deviazione che mi<br />

avrebbe consentito di applicare ciò che<br />

lui mi aveva insegnato quando ero piccolo<br />

nel suo studio. Devo a lui la curiosità<br />

vorace per tutte le arti e la mia smania di<br />

miscelare sacro e profano. È un padre e<br />

un artista meraviglioso, il mio miglior<br />

amico».<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Icone<br />

Perché la «vita matta»<br />

di Isadora Duncan<br />

spaventa Giménez Bartlett<br />

di SEVERINO COLOMBO<br />

Chi ha paura di Isadora Duncan?<br />

Chi teme che la vita<br />

estrema e travagliata della<br />

«danzatrice dai piedi nudi»<br />

possa essere un cattivo<br />

esempio per le ragazzine di oggi? La<br />

risposta richiede innanzitutto una premessa.<br />

Nell’ultimo romanzo di Alicia<br />

Giménez Bartlett, Gli onori di casa<br />

(Sellerio), da due settimane in vetta alla<br />

classifica dei libri più venduti in Italia,<br />

l’ispettore Petra Delicado è alle prese<br />

con il compleanno — nove anni —<br />

della figliastra Marina.<br />

Quando già stavo per avviarmi alla<br />

cassa, mi cadde l’occhio su un libro<br />

nella sezione biografie: «Isadora Duncan.<br />

Pioniera della danza moderna».<br />

Perché no? mi dissi.<br />

Un libro da grandi. Che racconta la<br />

vita matta ed estrema della ballerina<br />

americana nata nel 1877 e scomparsa<br />

tragicamente cinquant’anni dopo. «La<br />

Duncan era per l’epoca una donna assolutamente<br />

trasgressiva — come<br />

spiega Eugenia Casini Ropa, che ha insegnato<br />

per quarant’anni Storia della<br />

danza al Dams di Bologna, autrice della<br />

prefazione a La mia vita, autobiografia<br />

della ballerina uscita nel 2003<br />

per Dino Audino Editore —. Conduceva<br />

una vita libera, sregolata e licenziosa,<br />

ebbe moltissimi amanti». E gli uomini<br />

erano disposti a tutto per lei: Paris<br />

Singer (figlio del magnate delle<br />

macchine da cucire) arrivò a comprarle<br />

un intero palazzo, per aprirci una<br />

scuola di danza. Allo scoppio della Prima<br />

guerra mondiale, lei non esitò a regalarlo<br />

perché fosse usato come ospedale.<br />

Non solo aveva un comportamento<br />

contrario alla morale vigente ma arrivò<br />

a teorizzarlo. Spiega la studiosa:<br />

«Odiava il matrimonio e riteneva lecito<br />

avere figli al di fuori di esso. Ebbe<br />

tre figli da tre uomini diversi». E se è<br />

vero che si sposò, alla fine, non fu per<br />

un ripensamento tardivo ma l’espletamento<br />

di un atto burocratico. «In Russia<br />

sposò il poeta Sergej Esenin: era il<br />

solo modo perché il consorte potesse<br />

lasciare il Paese; e comunque il matrimonio<br />

non durò a lungo».<br />

Il regalo di Petra a Marina è all’origine<br />

di un incidente diplomatico con la<br />

madre della bambina e innesca in Petra<br />

una serie di dubbi sulle conseguenze<br />

che una lettura inadatta avrebbe potuto<br />

avere sulla giovane lettrice.<br />

E se fosse diventata passionale e<br />

mezza matta per aver letto il libro sulla<br />

Duncan? Quell’esempio avrebbe potuto<br />

essere nefasto per la sua formazione?<br />

Sarei stata io la colpevole di<br />

una gioventù traviata? Sua madre mi<br />

avrebbe inseguita per i secoli dei secoli<br />

con una mazza da baseball?<br />

Accanto alla condotta privata, Casini<br />

Ropa sottolinea un altro aspetto in<br />

cui la modernità della Duncan risultava<br />

per quegli anni scandalosa: «A livello<br />

di opinione pubblica pesava la scelta<br />

di voler essere una donna indipendente<br />

dal dominio maschile. Niente<br />

impresari che la legassero; non aveva<br />

coreografi, curava da sé i suoi spettacoli.<br />

Era una che rompeva gli schemi».<br />

Dal punto di vista artistico divise<br />

pubblico e critica: «Nella sua danza<br />

non c’era nulla di licenzioso, usava tu-<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

La danzatrice americana<br />

finita nel nuovo romanzo<br />

13<br />

A fianco:<br />

Isadora Duncan<br />

(1877-1927)<br />

in «Mazurka,<br />

Chopin Opus 17,<br />

N. 4» del 1915.<br />

Ballare le opere<br />

dei grandi autori<br />

fu una delle sue<br />

rivoluzioni.<br />

Sotto: da sinistra,<br />

la scrittrice<br />

spagnola Alicia<br />

Giménez Bartlett<br />

e un primo piano<br />

della ballerina<br />

niche leggere, i piedi erano sempre<br />

nudi. Talvolta lasciava scoperte braccia<br />

e gambe». Bastava questo a turbare<br />

la morale americana di allora. Quanto<br />

allo stile «l’idea di grecità che per<br />

lei coincideva con la purezza della natura,<br />

si traduceva in movimenti semplici,<br />

piccole corse, salti. L’assenza di<br />

virtuosismi, gesti artefatti e rigidità allora<br />

tipiche del balletto erano rivoluzionari.<br />

Fece scandalo quando ballò<br />

sulle musiche di Beethoven, Chopin e<br />

Liszt. Sapeva dare al corpo una pienezza<br />

espressiva. L’ossimoro "abbandono<br />

controllato" descrive il modo in cui rovesciava<br />

la testa all’indietro in un dionisiaco<br />

abbandono dei sensi senza<br />

perdere grazia nel gesto».<br />

Il bilanciamento, se così si può dire,<br />

di queste trasgressioni furono i molti<br />

eventi tragici della sua vita: la morte<br />

di due figli, annegati in un incidente<br />

d’auto; la scomparsa di un terzo figlio,<br />

RRR<br />

Fiction<br />

L’ispettrice Petra<br />

Delicado «censura» la<br />

biografia della ballerina<br />

che la figliastra di nove<br />

anni vuole leggere<br />

appena nato; e il suicidio del marito.<br />

Ce n’è abbastanza per rendere la lettura<br />

inadatta a una ragazzina. O forse<br />

no. La biografia ottiene il gradimento<br />

di Marina ma non l’approvazione del<br />

genitore che gliela confisca.<br />

Le esuberanze delle star di oggi sono<br />

roba da educande al confronto con<br />

gli eccessi della Duncan: «Le sue scelte<br />

le viveva fino in fondo sulla propria<br />

pelle. L’idea che la sua vicenda biografica<br />

sia inadatta alle bambine suona<br />

un po’ ridicola, piuttosto ritengo sia<br />

raccontabile in una biografia ad hoc,<br />

adatta alle lettrici più giovani» commenta<br />

Casini Ropa che dirige la collana<br />

«I libri dell’icosaedro» dell’editrice<br />

Ephemeria di Macerata (premio Mario<br />

Pasi per l’editoria di danza).<br />

A nulla valgono i pianti e le ragioni<br />

di Marina (Ero arrivata quasi a metà e<br />

mi stava piacendo tantissimo), il libro<br />

finisce in un cassetto. Non prima che<br />

la ragazza riesca a soddisfare — grazie<br />

a Petra — un’ultima curiosità.<br />

— Raccontami almeno come va a finire.<br />

— Era così matta che è morta strozzata<br />

da una delle sue sciarpe. Si era<br />

impigliata in una ruota della macchina<br />

decappottabile su cui viaggiava.<br />

— Mi sono persa il meglio! — esclamò<br />

in tono di protesta.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


14 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Caratteri Narrativa italiana<br />

Educazioni sentimentali<br />

di ERMANNO PACCAGNINI<br />

Per certi aspetti lo spunto per il romanzo<br />

Tentativi di botanica degli<br />

affetti che Beatrice Masini dichiara<br />

nella Nota conclusiva, ossia<br />

vicende da brefotrofio lievitate<br />

dalla consultazione archivistica, finisce<br />

persino per sviluppare un effetto frenante<br />

quando si dà come vicenda a sé. E questo a<br />

differenza di quando invece quelle vicende<br />

di orfananza propongono persone su<br />

cui far lievitare una storia. Di qui un romanzo<br />

dal titolo affascinante, che si dipana<br />

tra due toni, due temi, due contrapposte<br />

modalità stilistiche. E la riprova sta nel<br />

fatto che lo stesso prologo da abbandono<br />

di neonati è subito dimenticato quando entri<br />

nella più propria invenzione narrativa<br />

della Masini, che ha quale protagonista la<br />

ventenne Bianca Pietra assunta da un poeta<br />

di chiara fama perché con la sua abilità<br />

di acquarellista ritragga il ricco patrimonio<br />

botanico del suo giardino. Entrano così<br />

in scena luoghi, personaggi e tempi ben<br />

riconoscibili: perché, negli abitanti della<br />

villa di Brusuglio e della casa milanese di<br />

via Morone, rivedi in donna Clara Giulia<br />

Beccaria, in donna Julie Enrichetta Blondel,<br />

in don Titta, il Poeta, Alessandro Manzoni,<br />

circondati da un Tommaso Reda (ossia<br />

Grossi) e dai figli della celebre coppia<br />

coi nomi reali.<br />

Quanto al tempo, anche se si parla d’un<br />

romanzo di prossima stampa (il che suggerirebbe<br />

i mesi tra 1824-25), il riferimento a<br />

una visita del bel personaggio di Innes,<br />

londinese amico di famiglia, a Silvio Pellico,<br />

in Pavia, riporta la vicenda al biennio<br />

1819-20. Una vaghezza temporale, questa<br />

dell’anno o poco più in cui si sviluppa la<br />

Debutti<br />

di IDA BOZZI<br />

La tentazione, davanti a un romanzo<br />

dedicato al calcio, è quella<br />

di rintracciare vicinanze in altri<br />

autori che hanno cantato<br />

l’epica sportiva: il tifo popolare<br />

di Febbre a 90 di Nick Hornby, ma anche<br />

le mitologie di Gianni Brera, le occasioni<br />

di critica sociale e politica di Manuel<br />

Vázquez Montalbán, o ancora la metafora<br />

esistenziale di Osvaldo Soriano, o infine<br />

il romanzo di formazione dei piccoli<br />

sportivi nella provincia di Spinato o nei<br />

quartieri metropolitani di Roth. La felice<br />

prova d’esordio di Marco Marsullo, Atletico<br />

Minaccia Football Club, in ogni caso,<br />

non è un romanzo «di calcio e niente<br />

altro» (sebbene parli di calcio dalla prima<br />

all’ultima riga), ma un testo letterario<br />

di buona compattezza che ritrae senza<br />

parere il territorio, i linguaggi, le vite<br />

di un’ultraprovincia bisognosa di sogni.<br />

In breve un accenno di trama. L’allenatore<br />

Vanni Cascione, reduce da annate di<br />

disastri a fondo classifica che non hanno<br />

spento la sua fede nell’avventura sportiva<br />

— complice una venerazione per José<br />

Mourinho che lo assiste nei momenti di<br />

sconforto e lo indurrà, entro la fine del<br />

romanzo, a brizzolarsi i capelli come lui<br />

— è chiamato ad allenare una squadra<br />

ad appena un mese dall’inizio del campionato.<br />

Anzi la squadra del girone d’Eccellenza,<br />

l’Atletico Minaccia, è tutta da fare.<br />

Ed ecco che a partire dal precampionato,<br />

in strutture, campi di allenamento,<br />

i<br />

BEATRICE MASINI<br />

Tentativi<br />

di botanica degli affetti<br />

BOMPIANI<br />

Pagine 324, e 17,50<br />

i<br />

MARCO MARSULLO<br />

Atletico Minaccia<br />

Football Club<br />

EINAUDI STILE LIBERO<br />

Pagine 224, € 17<br />

Soglie<br />

di Franco Manzoni<br />

L’abisso in una stanza<br />

{Come fosse un’azione teatrale in forma di<br />

dialogo tra l’Ego e un tu ignoto e cangiante,<br />

sull’orlo dell’abisso dei sensi si sviluppa la<br />

silloge «Ultima stagione» di Letizia<br />

Dimartino (Giuliano Ladolfi editore,<br />

pp. 174, € 15). Nel dolore dell’assenza, in<br />

una tormentata eppur dolcissima solitudine,<br />

l’autrice si libra nella prigione di una stanza<br />

verso un esausto eterno, che a tratti ricorda<br />

la tensione di Rebora e della Dickinson.<br />

Le classificazioni naturalistiche non funzionano con la vita degli esseri umani. Lo mostra<br />

la prova di Beatrice Masini, costruita alludendo alla cerchia del grande letterato<br />

Oltre il giardino (di casa Manzoni)<br />

storia, che ben si sposa col cambio dei nomi:<br />

perché, pur se donna Clara e donna Julie<br />

rispecchiano la propria realtà storica,<br />

non si tratta d’un romanzo sulla «famiglia<br />

Manzoni», come dicono annotazioni su<br />

don Titta, ora burbero e introverso, come<br />

dalle cronache; ora disposto alla danza e a<br />

giocare coi bambini o alla rivoluzione.<br />

Un universo umano nel quale si muovono<br />

anche Minna e Pia, due orfane assunte<br />

con compiti diversi: più da serva la prima,<br />

circondata da particolari riguardi la seconda.<br />

Ciò che insospettisce Bianca, che inizia<br />

a immaginare una paternità extraconiugale<br />

di don Titta, indagando in questa direzione.<br />

È questo (pagina 187) il punto di<br />

svolta del romanzo: ossia il passaggio da<br />

un racconto in punta di lapis, verrebbe da<br />

dire «in acquerello», a un romanzo dai<br />

tratti appendicistici e più melodrammatici,<br />

che ne attenuano il fascino. Pur nella<br />

ville di padroncini che sorgono qua e là<br />

in un Cilento di cui nessun aspetto prefabbricato<br />

e pacchiano viene taciuto, lo<br />

scrittore Marsullo ci accompagna nella<br />

campagna acquisti: conosciamo Mimì, il<br />

factotum monumentale la cui parlata via<br />

via più incomprensibile si fa capire benissimo;<br />

il cialtronesco (sembra un «venditore<br />

di pentole») dirigente sportivo Lucio<br />

Magia con «i capelli unticci color petrolio<br />

tutti tirati all’indietro»; il colitico<br />

attaccante Ciro Pallina, il centravanti quarantenne<br />

Peppe Sogliola che all’ingaggio<br />

risponde «ma manco se mi uccidete!» (e<br />

poi accetta), l’anziano capitano Antonio<br />

Pisapia, «più che navigato, naufrago», il<br />

traslocatore Mario Busta, il meccanico<br />

Giovanni Bazzallo, e gli altri improbabili<br />

e assai verosimili eroi di quest’epica del<br />

suburbio.<br />

La commedia sportiva però non cade<br />

Marie McKenzie,<br />

«Garden»,<br />

installazione<br />

con 500 fiori<br />

in ceramica<br />

(particolare,<br />

Toronto, 2009)<br />

coscienza che tale seconda<br />

parte è l’altra<br />

faccia del senso del romanzo,<br />

incarnata in<br />

quella Bianca che<br />

«prova un immenso,<br />

inesausto piacere nella<br />

classificazione siste-<br />

matica di inclinazioni e sentimenti altrui;<br />

difficile dire se ciò le discenda dall’abitudine<br />

a considerare la vita vegetale nel suo ordine<br />

complesso, a sentirsi rassicurata dalle<br />

divisioni in famiglie e sotto famiglie che<br />

rendono tutto evidente all’occhio, o se sia<br />

invece un capriccio dell’età, un pezzo di<br />

fanciulla che crede di saperla lunga sul<br />

mondo e invece non sa nemmeno riconoscersi<br />

allo specchio. Fatto sta che la botanica<br />

degli affetti è la scienza inesatta che le è<br />

più cara al momento». Ed è nel primo lemma<br />

del titolo che il romanzo trova il pro-<br />

nei toni della farsa,<br />

perché l’autore tiene<br />

serrati i ranghi della<br />

scrittura: mentre si ride,<br />

si attraversano descrizioni<br />

e momenti<br />

d’azione manovrati<br />

con abilità dal giova-<br />

ne Marsullo, classe 1985, bravo a rendere<br />

l’intreccio linguistico e a far scorrere sullo<br />

sfondo un degrado territoriale e sociale<br />

che richiama gli orizzonti di Niccolò<br />

Ammaniti, o le periferie del primo Hornby<br />

con il loro slang popolare, dialettale<br />

e politicamente scorretto.<br />

Cascione e Magia scovano a uno a uno<br />

i calciatori dell’Atletico Minaccia (le altre<br />

squadre si chiamano Pianura United,<br />

Cuzzone Scampia, Robur Marcianise)<br />

mentre palleggiano nei parcheggi («aveva<br />

trovato un’ammaccatura disumana<br />

prio significato: perché quella Bianca insieme<br />

forte e delicata, che aspira a sentirsi ed<br />

essere una «creatura libera e completa»,<br />

tutta tesa a divenire una donna indipendente,<br />

pur nel dubbio che qualcosa le sfugga,<br />

continuamente interrogante quanto la<br />

circonda, si tratti di persone, natura, la città<br />

stessa di Milano, deve alfine prender atto<br />

che quei «tentativi» di penetrare le interiorità<br />

altrui cozzano con le certezze classificatorie<br />

botaniche. Perché non tutto si<br />

può classificare: e ancor meno sentimenti<br />

ed emozioni.<br />

È però proprio questo puntare sull’interiorità<br />

di Bianca che investe anche gli altri<br />

personaggi, grandi e piccini, sui quali il<br />

suo sguardo si riflette. È l’incontro con<br />

quella «materia sconosciuta» che è la vita;<br />

è l’affrontare le voci del mondo che la fa<br />

crescere anche artisticamente e professionalmente.<br />

Grazie a Pia, cui sente a questo<br />

punto di dover rendere una vita diversa, riscoprendole<br />

i suoi genitori. Ma è quando<br />

sguardo e pensieri di Bianca divengono<br />

azione che il romanzo conosce un abbassamento<br />

di tono, cade nel mélo (indagini sui<br />

genitori; schiaffo di Bianca alla presunta<br />

madre di Pia; Bianca violata e incinta). Risentendone<br />

anche la scrittura, che cede il<br />

tono evocativo di felice leggerezza a una dimensione<br />

più narrativa e cronachistica.<br />

Non ne risentono fortunatamente i personaggi,<br />

in particolare femminili, si tratti delle<br />

figure storiche e ancor più delle fanciulle<br />

(Minna e Pia). Quanto al versante maschile,<br />

risalta soprattutto Innes, rispetto a<br />

un altalenante don Titta, allo sfocatamente<br />

antipatico Tommaso, al manierato, quasi<br />

pariniano, contino Bernocchi, il cui ruolo<br />

nel romanzo resta al lettore da scoprire.<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

Marco Marsullo pone un improbabile allenatore di calcio al centro della fiction<br />

ambientata nel Cilento. Avventure picaresche e una riuscita galleria di personaggi<br />

Epica di un Mourinho di periferia<br />

James Boswell,<br />

«Football» (1953,<br />

particolare).<br />

L’artista inglese<br />

era originario della<br />

Nuova Zelanda<br />

(1906-1971)<br />

sulla fiancata») o mentre si nascondono<br />

perché stranieri senza permesso di soggiorno,<br />

o mentre sono a fine contratto<br />

presso qualche altra squadra, o tra gli<br />

amici e i conoscenti (il meccanico promette<br />

«assistenza gratuita in cambio di<br />

questa opportunità»), in una serie di capitoli<br />

che fanno ricordare l’esilarante<br />

The Commitments di Roddy Doyle, con<br />

una squadra al posto della band.<br />

Il libro è lieve, divertente, velocissimo,<br />

e la struttura della storia è quella inossidabile<br />

del romanzo d’avventura, con Cascione<br />

e Magia al posto di eroe e picaro.<br />

Tanto più che a fronteggiare il Bene, in<br />

campo, ci si mette pure il Male, non l’avversario,<br />

cioè, ma la camorra, che pare<br />

minacciare fino all’ultimo l’entusiasmo<br />

degli Atletici. Perfino a non masticare di<br />

calcio, o magari a detestarlo, il lettore arriva<br />

pieno di attesa alle partite dell’Atletico<br />

Minaccia, che riservano alcune delle<br />

pagine migliori del romanzo: non si tratta<br />

di telecronache stereotipate ma di lotte<br />

individuali, in cui spunta la nostalgia<br />

di un’epica antica. E con l’epica anche il<br />

mito, sgangherato anch’esso; poiché i<br />

giocatori, secondo l’iperbolica visione di<br />

Cascione, sono «portatori di un messaggio<br />

sacro, da tramandare nei secoli».<br />

Così si comprende anche l’icona resa<br />

comica di Mou, che scruta il povero Cascione<br />

dalla fotografia ritagliata e appiccicata<br />

allo specchio, e parrà quasi voler<br />

intervenire in campo, a regalare un miracolo.<br />

Calcistico e comico, ma pur sempre<br />

miracolo.<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Caratteri Narrativa straniera<br />

Psicologico<br />

di CINZIA FIORI<br />

Hemda, nel letto di una lunga<br />

agonia, percepisce il risentimento<br />

dei due figli, la loro<br />

insofferenza, mentre si chiede<br />

di che cosa si siano riempiti<br />

i giorni che l’hanno portata fino a lì.<br />

Dina, la primogenita, 46 anni, rigira in<br />

bocca il sasso antico della rabbia per la<br />

madre che non l’ha amata abbastanza.<br />

Annichilita dai sintomi della menopausa<br />

e dall’invecchiamento repentino, parla<br />

col figlio perso in un aborto perché torni<br />

a riempirla d’affetto, ora che la sua Nitzan,<br />

adolescente, si allontana. Avner, 44<br />

anni, avvocato dei diritti civili a Gerusalemme,<br />

rinnova l’imbarazzo per il troppo<br />

amore materno, che lo faceva vergognare,<br />

mentre rimugina su quanto poco<br />

ce ne sia adesso nella sua vita. Il disagio<br />

che prova di fronte alle carni vizze della<br />

madre non è molto diverso da quello<br />

che contraddistingue le sue giornate in<br />

crisi, a casa con la moglie e i figli, come<br />

al lavoro. Così, preso da una pulsione, abbandona<br />

in un corridoio d’ospedale la<br />

madre incosciente per una caduta, e si<br />

lancia all’inseguimento di una coppia<br />

che incarna il suo miraggio d’amore. Perché<br />

senza amore, ha deciso, non vuole<br />

morire.<br />

Nasce da un groviglio di emozioni che<br />

pian piano si dipana in trama il quarto<br />

libro dell’israeliana Zeruya Shalev. Massimalista<br />

dei sentimenti, che nessuno come<br />

lei sa rivelare, non ha certo paura che<br />

il romanzo psicologico sia fuori mainstream.<br />

Anzi, rilancia, rielaborando il<br />

flusso di coscienza e usando alla bisogna<br />

il monologo interiore in una prosa articolata,<br />

fatta di frasi lunghissime, scandite<br />

dalle virgole che includono emozioni,<br />

sentimenti, ricordi, riflessioni, dialoghi<br />

indiretti, cambi di soggetto, azioni.<br />

È il mondo visto dalla prospettiva della<br />

coscienza, da lì si arriva alla realtà, al<br />

contrario di quanto normalmente si legge.<br />

Non ci sono descrizioni d’ambiente o<br />

dei personaggi: si delineano nella mente<br />

del lettore come riflesso dei pensieri dei<br />

protagonisti. Tutti prigionieri, peraltro,<br />

dei loro rancori, delle aspettative mancate,<br />

dei sensi di colpa, delle idee che tornano<br />

come mulinelli a tenerli fermi, trascinandoli<br />

verso il fondo.<br />

In un falso movimento, Avner si ritroverà<br />

al funerale di uno sconosciuto, dopo<br />

aver fatto le condoglianze alla moglie<br />

che sorprendentemente non è la donna<br />

della coppia inseguita all’ospedale. Dina<br />

assomma attimi di smarrimento totale al-<br />

l’umiliazione di appellarsi a cuori che<br />

non rispondono, considera l’ipotesi della<br />

propria pazzia, finché inizia a farsi largo<br />

in lei il proposito di adottare un figlio.<br />

La sola idea, però, è un attentato alla<br />

famiglia che ha costruito.<br />

Intanto, Hemda, di nuovo a casa, giace<br />

con gli occhi chiusi e la mente affollata<br />

di ricordi, ragiona e discute col passato<br />

che emerge per associazione. L’ex<br />

bambina trasognata, incapace di inserirsi<br />

nella vita del Kibbutz, con gran disdoro<br />

del padre pioniere, ora sa che l’infanzia<br />

dura per tutta la vita. La realtà svapora,<br />

si confonde coi pensieri. La cognata<br />

le allunga un cucchiaino di tè e lei crede<br />

Thriller L’abile esordio di Chris Pavone tra la Cia e «La donna che visse due volte»<br />

Sfogli il giallo e trovi l’analisi esistenziale<br />

di ANTONIO DEBENEDETTI<br />

Paghi uno e compri due. Sta<br />

nascendo, complice<br />

l’industria editoriale, una<br />

narrativa «double face».<br />

All’esterno un thriller, all’interno<br />

quale fodera pensosa un<br />

romanzo d’analisi esistenziale.<br />

Cosi Il sospetto dell’esordiente<br />

Chris Pavone, definito<br />

perentoriamente da John<br />

Grisham «astuto nella suspense,<br />

abile nell’intreccio: geniale», fa<br />

spazio a inquietudini, descrive<br />

stati d’animo degni d’una<br />

coinvolgente vicenda<br />

matrimoniale anni Duemila.<br />

ZERUYA SHALEV<br />

Quel che resta della vita<br />

Traduzione<br />

di Elena Löwenthal<br />

FELTRINELLI<br />

Pagine 374, e 17<br />

Sicario per caso<br />

sotto le stelle<br />

del Messico<br />

Sentimenti al loro minimo<br />

storico, senso morale sotto<br />

sedazione, tenerezza in sciopero.<br />

A pagina 174 si legge della<br />

protagonista: «... se (lui) l’avesse<br />

scopata più spesso, o in modo<br />

più appassionato, o più<br />

creativo...» tutto sarebbe forse<br />

andato diversamente. L’azione<br />

inizia a Washington, prosegue in<br />

Lussemburgo con frequenti<br />

viaggi a Parigi e in Germania.<br />

Protagonisti sono appunto un<br />

marito e una moglie, Dexter e<br />

Kate, che hanno più profilattici<br />

nel cassetto che desideri nel<br />

Sushi style<br />

di Annachiara Sacchi<br />

Il mercato costringe a impacchettare temi di sostanza in testi di genere<br />

cuore. Quarantenni, d’aspetto<br />

più che rassicurante, conducono<br />

però, all’insaputa l’uno dell’altra,<br />

esistenze deplorevoli. «Occhiali<br />

di plastica scelti a caso, capelli<br />

arruffati, vestiti spiegazzati»,<br />

Dexter nasconde dietro l’aria da<br />

sognatore una mente pratica.<br />

Lavora in banca e non solo!<br />

Kate, che Patricia Cornwell ha<br />

definito «indimenticabile», è<br />

quanto rimane in questi nostri<br />

tempi senza fantasia della<br />

Donna che visse due volte. Si<br />

presenta ai lettori come<br />

impiegata e massaia tuttofare.<br />

{<br />

Nel giardino di un Giappone perduto<br />

Il tintinnio malinconico delle campanelle<br />

(«furin») appese a un filo, il volo di un<br />

insetto, la pioggia sui tetti di Tokyo. Nagai<br />

Kafu (1879-1959), autore di «Al giardino<br />

delle peonie» (Marsilio, pp. 308, € 19 ), nei<br />

Amori difficili. E senza descrizioni<br />

per un po’ di bere il lago che tanto amava,<br />

così come un paio di volte prende il<br />

figlio per il padre, in una percezione alterata<br />

ottimamente ricostruita.<br />

Ma, pian piano, quel corpo quasi inerte<br />

si trasforma in un polo gravitazionale<br />

affettivo. Dina alza le coperte e s’infila<br />

nel suo letto («mi sei rimasta solo tu,<br />

proprio tu che non sei mai stata mia»),<br />

Nitzan fa lo stesso e ottiene persino risposte<br />

dalla nonna, mentre Avner torna<br />

a vivere dalla mamma. Da quel momento<br />

di svolta, i due fratelli si sposteranno<br />

dal versante dell’inazione a quello dell’azione.<br />

Il grande tema del libro è l’amore,<br />

Chris Pavone<br />

Il sospetto<br />

Traduzione di Alfredo Colitto<br />

PIEMME<br />

Pagine 447, e 19<br />

Alleva due frugoli, stende il<br />

bucato, prepara il sugo...<br />

Quando però ci si accinge ad<br />

archiviare questa ennesima<br />

incarnazione d’una mesta<br />

routine esistenziale, a pagina 36,<br />

il colpo di scena: vediamo Kate<br />

adescare un giovanotto e farlo<br />

secco con tre revolverate. È la<br />

Cia ad averglielo ordinato!<br />

Madame è infatti un agente<br />

segreto. Chris Pavone gioca<br />

abilmente con questa<br />

protagonista dalla doppia<br />

identità: ora la trucca da<br />

casalinga demotivata ora ce la fa<br />

ritrovare «impepata» dal brivido<br />

dell’azione mentre cammina su<br />

un cornicione. Un momento ci<br />

appare come la classica moglie<br />

da corna e un attimo dopo<br />

scopriamo che ha gambe niente<br />

male e un misterioso sex appeal.<br />

La verità? Scaltro nello sfruttare<br />

le prospettive, che si aprono<br />

suoi racconti dipinge un mondo nitido ed<br />

etereo, in cui la descrizione sovrasta la<br />

narrazione. E offre, con la sua prosa,<br />

l’estetica più raffinata e nostalgica di un<br />

Giappone sognato, rimpianto, perduto.<br />

Al quarto romanzo, l’israeliana Zeruya Shalev non arretra: incurante delle mode, narra<br />

famiglia, relazioni e caducità aggiornando flusso di coscienza e monologo interiore<br />

i<br />

A destra: un’installazione<br />

di Mario Ceroli per l’antologica<br />

«Faccia a faccia» al Mambo<br />

di Bologna, fino al 1 aprile<br />

(foto di Aurelio Amendola)<br />

Eduardo Antonio Parra<br />

di MARCO OSTONI<br />

Ramiro uccide per sfuggire alla<br />

paura. Dispensa morte per<br />

vincere l'orrore della propria<br />

morte, intravista per la prima volta<br />

— ineluttabile — a dieci anni di età,<br />

nelle pupille senza più luce di un<br />

uomo accoltellato per strada e<br />

spirato proprio davanti al giardino di<br />

casa. Poco importa che ciò avvenga<br />

a Monterrey, città infernale, per<br />

clima e violenza sociale, del Messico<br />

nordorientale. Potrebbe capitare<br />

ovunque. Perché Nostalgia<br />

dell’ombra, ottimo romanzo del<br />

quarantasettenne messicano<br />

Eduardo Antonio Parra, edito in Italia<br />

a dieci anni dalla sua uscita in patria<br />

per merito delle Edizioni La Linea<br />

(nella traduzione di Angela Masotti,<br />

pp. 344, € 16,50), non è un libro<br />

politico, pur affrescando con dovizia<br />

di colori il quadro del controverso,<br />

grande Paese latino del continente<br />

nordamericano. Qui è il ritratto<br />

psicologico del protagonista a<br />

tenere insieme la trama, a cucire in<br />

un abito di pregiata fattura, per stile,<br />

lingua, tensione narrativa, le tappe<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

un’interrogazione inesausta nasce dal<br />

confronto tra l’altezza assoluta attribuita<br />

alla parola e i patimenti che la accompagnano.<br />

L’amore è come la fede, si<br />

chiede Hemda, superiore alle insulsaggini<br />

del quotidiano o son proprio quelle<br />

che lo tengono insieme? Di fatto, per<br />

dirla ancora con l’anziana signora, sono<br />

tutti seduti intorno al fuoco dell’amore<br />

e non fanno altro che misurare<br />

l’altezza della fiamma. C’è poi, tra le tematiche,<br />

il rapporto dei due fratelli<br />

adulti con la caducità: la morte imminente<br />

della madre, le circostanze che finiscono,<br />

l’età matura come prova spiazzante.<br />

Anche Israele è un tema, con la<br />

difficoltà di abitarci raccontata in soggettiva<br />

da un narratore esterno capace<br />

di illuminare le catene di pensieri che<br />

nella vita normale spesso scorrono sotto<br />

coscienza.<br />

L’autrice crea un tono discorsivo alto,<br />

una sorta di oralità lirica all’interno<br />

di periodi molto densi, che di frequente<br />

potrebbero essere presi come racconti<br />

compiuti. Si misura così coi drammi<br />

delle vite «ordinarie» in un romanzo di<br />

grande tenuta per più di tre quarti del<br />

racconto, imperfetto, invece, nelle pagine<br />

finali, perché la catarsi finale non necessitava<br />

del tocco di magia e perché<br />

non riesce a risolvere narrativamente<br />

tutte le domande che pone. Eppure, tra<br />

i suoi numerosi pregi, c’è proprio quello<br />

di porle.<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

della vita di un uomo divenuto<br />

sicario quasi per caso, dopo essere<br />

stato un cittadino per bene (reporter<br />

trentenne sposato con due figli), un<br />

mendicante, un galeotto. Quattro<br />

«ritratti» per altrettanti nomi —<br />

Bernardo, el Chato, Genaro, Ramiro<br />

— ma con una sola maledizione:<br />

quella di ammazzare, di togliere la<br />

vita altrui per alimentare la propria.<br />

Prima per pura disperazione, quindi<br />

per danaro. Quello che non servirà,<br />

però, a salvarlo.<br />

osservando i personaggi dal<br />

buco d’una serratura, Pavone<br />

arriva a dirci come stanno le<br />

cose per gradi, sfruttando a<br />

fondo le risorse della narrativa<br />

d’azione. Tanto che, per far<br />

lievitare la suspense, non esita a<br />

chiamare in causa una<br />

fumettistica signora dagli<br />

enormi occhiali neri e il suo lui.<br />

La tecnica espositiva è tutt’altro<br />

che ingenua. L’autore, dopo aver<br />

strappato le pagine del<br />

calendario e annullato l’ordine<br />

temporale degli eventi, li<br />

ricostituisce mescolando passato<br />

e presente in un vero e proprio<br />

gioco di prestigio.<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

LA LETTURA<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

15<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


16 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Caratteri Ragazzi<br />

Adolescenti<br />

di CRISTINA TAGLIETTI<br />

Sono passati vent’anni da quando<br />

Lois Lowry sconvolse la narrativa<br />

per ragazzi americana con un<br />

romanzo, The Giver (Il donatore),<br />

che anticipava quel genere<br />

distopico che poi sarebbe diventato una<br />

moda. Il romanzo, vincitore della Newbery<br />

Medal nel 1994 (Giunti l’ha pubblicato<br />

in Italia nel 2010), è diventato uno dei libri<br />

per ragazzi più venduti (cinque milioni<br />

di copie nel mondo) prima che si imponessero<br />

il marketing selvaggio e il passaparola<br />

«social», oltre ad essere da anni<br />

tra i venticinque libri più censurati nelle<br />

scuole degli Stati Uniti.<br />

Il quarto volume della serie esce nelle<br />

librerie italiane mercoledì e riprende da<br />

dove era finito il primo, ricucendo con<br />

punti sottili, attraverso alcuni personaggi<br />

ricorrenti, i fili con gli altri tre romanzi<br />

(oltre a Il donatore, La rivincita e Il Messaggero)<br />

ambientati in tre mondi diversi.<br />

La scrittrice li ripercorre attraverso il tema<br />

del viaggio, della ricerca, riuscendo a<br />

dare un’unità e un senso al progetto iniziato<br />

quando gli Hunger Games non avevano<br />

ancora sdoganato temi come morti<br />

violente, eutanasia, suicidio, inseminazione<br />

artificiale in un libro per ragazzi (o meglio<br />

qualcuno l’aveva fatto ma il grande<br />

pubblico non se n’era accorto).<br />

Il donatore finiva con il protagonista, il<br />

dodicenne Jonas, in fuga dalla perfetta Comunità<br />

dove vive e dove non esistono<br />

i<br />

{<br />

di Nicola Saldutti<br />

Il figlio perduto della bambina<br />

Tutte le cose<br />

del mondo<br />

(illustrate)<br />

Cambusa<br />

guerre, sofferenze, differenze sociali (ma<br />

neppure sentimenti, pulsioni sessuali, colori,<br />

stagioni, animali), con un neonato di<br />

nome Gabriel tra le braccia. Un finale ambiguo<br />

che lasciava aperte molte domande.<br />

Lowry ha scelto di rispondere a una di<br />

esse: chi è la madre di quel bambino? La<br />

prima parte de Il figlio è ambienta nello<br />

stesso villaggio de Il donatore. Claire è<br />

una ragazzina di 14 anni, la Comunità ha<br />

deciso che debba essere un’Anfora, una<br />

specie di madre surrogata destinata a venire<br />

inseminata, a partorire un figlio, il<br />

Prodotto, che non vedrà mai e che, come<br />

Il confine marino tra legalità e illegalità<br />

Il giurista Domenico Alberto Azuni (Sassari,<br />

1749-1827) descrive così il pirata: corre «il<br />

mare contro chicchessia, nemico di tutti,<br />

sprezzante d’ogni legge, dannato al<br />

capestro». Il corsaro, invece è capitano «di<br />

tutti gli altri bambini, verrà dato a una<br />

coppia (le famiglie sono composte da due<br />

genitori, un figlio e una figlia che vengono<br />

assegnati durante una cerimonia). Ma<br />

qualcosa non funziona durante il parto,<br />

Claire subisce il primo cesareo del villaggio,<br />

perde la certificazione di Anfora e viene<br />

indirizzata a un nuovo lavoro. Ma comincia<br />

a sentire un interesse per quel<br />

bambino, un senso di perdita, un bisogno<br />

di vederlo che prima non conosceva<br />

(anche perché i medici si sono dimenticati<br />

di somministrarle i farmaci che dovrebbero<br />

impedire di provare emozioni).<br />

bastimenti privati che, in tempo di guerra,<br />

per patente lettera sovrana, scorre il mare<br />

a suo rischio, contro navi, merci e persone<br />

del nemico». Spiegazione chiara chiara<br />

sul confine tra l’illegalità e la quasi-illegalità.<br />

Il baratto con il diavolo di una madre surrogata a cui è stato sottratto il neonato<br />

Lois Lowry conclude la serie del «Donatore» con il suo testo più autobiografico<br />

LOIS LOWRY<br />

Il figlio<br />

Traduzione Sara Congregati<br />

GIUNTI<br />

Pagine 384, e 9.90<br />

Quando il bambino viene portato via da<br />

Jonas (con l’intento di salvarlo), Claire si<br />

getta in acqua per seguirlo, cambiando<br />

completamente la natura del romanzo,<br />

trasformandolo da una distopia in un<br />

viaggio di ricerca. Come tutti i romanzi incentrati<br />

su una quest, anche qui la protagonista<br />

deve affrontare molte prove, pericoli<br />

e sacrifici, deve scalare, letteralmente,<br />

una montagna e, alla fine, stringere un<br />

patto con il diavolo che qui viene chiamato<br />

il Direttore del Baratto. La risposta alla<br />

domanda «che cosa è disposta a fare una<br />

madre per il figlio?» è naturalmente scontata<br />

ma lo svolgimento di Lowry non lo è<br />

affatto, anche se l’amore è, come sempre,<br />

l’unica forza che ci può salvare, anche<br />

quando minaccia di distruggerci.<br />

Il romanzo è certamente il più autobiografico<br />

tra quelli della scrittrice settantacinquenne<br />

che nel 1995 ha perso il figlio,<br />

pilota dell’Air Force, in un’esercitazione<br />

militare: il calore della materia forse spiega<br />

un certo sbilanciamento che, di fatto,<br />

relega la paternità a un inutile accessorio.<br />

Il figlio forse non raggiunge la perfezione<br />

del Donatore. A volte, si intravedono crepe<br />

nella struttura, qualche lentezza (soprattutto<br />

nella parte centrale), ma è benedetto<br />

dalla stessa semplice, affilata prosa<br />

che non conosce sprechi, dalla capacità<br />

di andare avanti e indietro nel tempo senza<br />

appesantire la trama, dalla capacità di<br />

costruire microcosmi coerenti e da un climax<br />

asciutto che aggira la retorica.<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

L’albo di Marchon e Robin Le favole di Edith Nesbit<br />

I capelli<br />

di Melisenda<br />

e altre storie<br />

di VIVIAN LAMARQUE di GIULIA ZIINO<br />

DaBenoit Marchon, l’autore di Ma<br />

che maniere! Un libro per<br />

imparare a vivere con gli altri,<br />

ecco un’altra felice uscita, Nel mondo<br />

ci sono (Giralangolo, pp. 48, e 13.50).<br />

Nel mondo ci sono, c’è, che cosa?<br />

Come riuscire a infilare in una<br />

cinquantina di pagine l’intero pianeta<br />

con i suoi «milioni di meraviglie e<br />

milioni di miserie?». Non facile, ma<br />

Benoit fa centro, e con somma<br />

leggerezza, e se il formato albo, più<br />

figure che testo, è solito parlare<br />

soprattutto ai piccoli, che qui saranno<br />

catturati dalle sapienti e anche<br />

divertenti illustrazioni di Robin, questa<br />

volta anche il fratellino maggiore potrà<br />

essere coinvolto per una lettura a un<br />

livello più profondo che lo aiuterà nelle<br />

prime riflessioni: perché sotto l’incanto<br />

del cielo stellato il bene e il male?<br />

Persone che fanno la guerra e persone<br />

che fanno la pace? Perché bambini<br />

piegati dal lavoro e bambini che<br />

cantano, che giocano? Libere nuvole a<br />

forma di animali e animali prigionieri di<br />

gabbie? Perché nell’aria le danze del<br />

vento e velenosi fumi neri? Messaggi<br />

lanciati come coriandoli, non c’è<br />

ombra di retorica o di prediche, anzi<br />

anche si ride, e dunque come meglio di<br />

così educare i bambini a pensare e<br />

soprattutto a «sentire»? Fossi<br />

un’insegnante li inviterei a continuare<br />

l’elenco del bene e del male che già<br />

hanno conosciuto, ad aggiungere loro<br />

personali colorate tavole. Nelle ultime<br />

pagine poi, la sorpresa: nel mondo ci<br />

sei anche tu, bambino che stai<br />

leggendo, e cosa costruirai, tu, un<br />

giorno, sotto il grande cielo stellato?<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Un’illustrazione<br />

di Lisa Evans<br />

(da «Le immagini<br />

della fantasia», Sarmede,<br />

Palazzo Municipale, 2007)<br />

SARANNO PRESENTI:<br />

STORICO E CRITICO D’ARTE<br />

DOTT. GIORGIO GRASSO<br />

PROFESSORE / EDITORE MELOGRANO<br />

PROFESSORE WALTER MORO<br />

PRESIDENTE FONDAZIONE ARTE’<br />

PROFESSORE CARMELO CALDERONE<br />

DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

DALLE ORE 16.00<br />

PRESSO VILLA FORNO LA FONDAZIONE ARTE’<br />

PRESENTA<br />

IL LIBRO DEL MAESTRO SANTI SINDONI<br />

SARA’ PRESENTE IL MAESTRO SANTI SINDONI<br />

VILLA FORNO<br />

VIA CARLO MARTINELLI 23<br />

CINISELLO BALSAMO (MI)<br />

Storie di armadi che si aprono su<br />

mondi favolosi, di bambini che<br />

trovano oggetti magici e parlano<br />

con fenici rosso fiamma. Non siamo a<br />

Narnia né ad Hogwarts ma nei libri di<br />

Edith Nesbit. C’era lei prima di C. S.<br />

Lewis e prima di J. K. Rowling. E c’era<br />

lei anche «dopo»: «Dopo Lewis Caroll<br />

— scriveva Gore Vidal nel 1965 sulla<br />

New York Review of Books — Nesbit è<br />

la migliore favolista inglese ad aver<br />

scritto di bambini (nessuno dei due<br />

scrisse per bambini)». E in effetti le<br />

storie della Nesbit sono (anche) una<br />

lettura da grandi. Per gli inglesi sono<br />

state per anni quello che Harry Potter<br />

è oggi per i bambini del mondo:<br />

compagni di avventure che, a un certo<br />

punto, voltano l’angolo e finiscono in<br />

universi altri. Agli esordi si firmava E.<br />

Nesbit per lasciare il dubbio sulla sua<br />

identità femminile. Il successo le<br />

permise di trasferirsi col marito nel<br />

Kent, in una casa frequentata da<br />

Oscar Wilde e George Bernard Shaw. E<br />

lei sarà tra i fondatori della Fabian<br />

Society, movimento precursore dei<br />

moderni laburisti. Di Edith Nesbit<br />

Donzelli pubblica Melisenda e altre<br />

storie da non credere (illustrazioni di<br />

Lindsey Yankey, traduzione di R. V.<br />

Merletti e S. Barellonove, pp. 244, e<br />

25), storie uscite per la prima volta nel<br />

1901. Dalla principessa Melisenda a<br />

cui la fata madrina fa il dono di capelli<br />

che crescono a dismisura al<br />

dispettoso Tucangallo, che quando<br />

ride trasforma i ministri in lattanti e i<br />

re in villette bifamiliari, le «storie da<br />

non credere» della Nesbit sono piccoli<br />

gioielli di ironia e fantasia.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Caratteri Personaggi<br />

Prima Repubblica<br />

di ALDO GRASSO<br />

America Latina Antonio Moscato mette a confronto le icone della rivoluzione cubana<br />

Castro e Guevara, gemelli diversi<br />

di MARCO GERVASONI<br />

{Se l’atea vola più in alto<br />

Anatomia del potere e storia familiare<br />

Un romanzo esorcizza i fantasmi della Dc<br />

troppo caldo persino<br />

in chiesa quel giorno. Un’afa<br />

immobile che le signore giocavano<br />

a rimbalzarsi con i<br />

«Faceva<br />

ventagli. I fumi dell’incenso<br />

fuoriuscivano pesanti dal turibolo per posarsi<br />

come coltre compatta sulle centinaia di<br />

giacche scure. Parole, molte. Preghiere, poche.<br />

Impazienza e sudore. Ai funerali degli illustri,<br />

ai primi banchi il potere si amalgama<br />

al dolore, le facce compite alle lacrime vere e<br />

non è sulla bara che si concentrano gli sguardi.<br />

Arrivato in ritardo, occupavo una posizione<br />

relativamente defilata da cui si godeva di<br />

una visuale privilegiata». A parlare è Claudio<br />

Bucci, uomo politico della Prima Repubblica.<br />

Viene da Fiano Romano, ha intrapreso la strada<br />

della politica per fare carriera, per vincere<br />

un malinteso senso di inferiorità sociale, e<br />

anche un po’ per missione.<br />

Che in politica contassero più il carattere,<br />

la determinazione, la dura e opaca volontà<br />

che l’onestà o il coraggio lo sapevamo da un<br />

pezzo. L’importante è durare, come suggeriva<br />

Ennio Flaiano: seguendo il gregge, tenendosi<br />

al corrente dei cambiamenti, sempre<br />

spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione,<br />

impassibili davanti a ogni rifiuto,<br />

feroci nella vittoria, supplichevoli nella<br />

sconfitta. Da veri italiani.<br />

Ma ci mancava ancora qualcosa: una descrizione<br />

dal di dentro, una sorta di anatomia<br />

del potere, della miseria del potere, l’eutanasia<br />

di una classe politica disposta a tutto<br />

ma sfinita più dal compromesso che dal sotterfugio.<br />

Adesso c’è, sotto forma di romanzo,<br />

si chiama Il cielo è dei potenti, ed è scritto da<br />

Alessandra Fiori, figlia di quel Publio Fiori,<br />

democristiano di lungo corso, passato poi<br />

nelle file di Alleanza Nazionale, per vagheggiare<br />

infine un polo di centro di ispirazione<br />

democristiana.<br />

Alessandra Fiori ha avuto un bel coraggio:<br />

ha virato la lunga avventura politica del padre<br />

in narrazione, l’ha trasfigurata in romanzo.<br />

Il che, dal punto di vista psicologico, non<br />

dev’essere stato facile: abbandonare certi pudori,<br />

uccidere simbolicamente il padre per<br />

trarne nuova vita, subordinare il proprio destino<br />

a un fardello di cui non si possono prevedere<br />

le conseguenze. L’unico rimedio è la<br />

scrittura, l’unica possibilità per uscire da un<br />

azzardo così ferale è comprimere il reale nella<br />

indecifrabilità della narrativa, l’unica salvezza<br />

è ricercare un senso in mezzo a una<br />

quotidianità dove i protagonisti sono sballottati<br />

ora dall’ostinazione ora dal caso.<br />

L’errore da non commettere di fronte a Il<br />

cielo è dei potenti è quello di leggerlo come<br />

un romanzo a chiave, cercare di scrostare la<br />

Niente di meglio, si sa, che<br />

morire giovani e magari<br />

non nel proprio letto, per<br />

entrare nel mito. Lo dimostrano le<br />

vite di Che Guevara e di Fidel<br />

Castro: il primo icona (e santino)<br />

dell’estrema sinistra mondiale,<br />

anche dell’ultimissima; il<br />

secondo, una sorta di Brežnev<br />

caraibico, dal lento declino fisico<br />

parallelo a quello del suo regime.<br />

Che Castro e Guevara fossero due<br />

personalità distanti era noto da<br />

tempo, fino ad alimentare le<br />

leggende di un Che «libertario»<br />

contro un Fidel «autoritario». In<br />

realtà, negli anni in cui fu a Cuba,<br />

Guevara contribuì<br />

all’instaurazione della dittatura e<br />

fu responsabile come e forse più<br />

di Castro dell’eliminazione fisica<br />

di numerosi oppositori politici.<br />

Gli stessi scritti del Che del resto<br />

sono una costante esaltazione<br />

della violenza. Una lettura, la<br />

nostra, non certo condivisa da<br />

Antonio Moscato, storico di<br />

formazione e di militanza<br />

trotzkista, autore di numerosi<br />

libri su Cuba, piuttosto restio a<br />

considerare Castro e Guevara<br />

come fondatori di un regime<br />

i<br />

ALESSANDRA FIORI<br />

Il cielo è dei potenti<br />

E/O<br />

Pagine 304, e 18<br />

Due parole in croce<br />

di Luigi Accattoli<br />

Il Che non era molto più libertario di Fidel, ma certamente assai meno realista<br />

autoritario. La lettura del suo<br />

ultimo libro Fidel e il Che<br />

(Alegre), nel mettere a confronto i<br />

profili biografici dei due, è<br />

nondimeno stimolante. Anche se<br />

le simpatie dell’autore vanno<br />

certamente a Guevara, egli si<br />

sforza infatti di esaminare<br />

criticamente sia le leggende nere<br />

su Castro che quelle «bianche»<br />

sul Che. Così anche il luogo<br />

comune di un Castro diventato<br />

filosovietico che avrebbe<br />

abbandonato al suo destino<br />

Guevara, prima in Congo, poi<br />

definitivamente in Bolivia, viene<br />

«Siamo terra» ha detto il Papa mercoledì<br />

scorso e il prossimo mercoledì ascolteremo<br />

il monito delle Ceneri: «Polvere siete».<br />

L’astronoma atea Margherita Hack rettifica:<br />

«Siamo fatti di stelle». Altri dettagliano:<br />

Alessandra Fiori rielabora narrativamente il mondo del padre, Publio<br />

Ma più dei riscontri reali, conta l’aver reso bene lo spirito di quei tempi<br />

finzione per scorgervi solo la realtà. Certo,<br />

per chi ha vissuto quell’epoca, la prima tentazione<br />

è di ritrovare i volti dei politici — una<br />

trascurabile maggioranza di democristiani<br />

che ha dominato per più di trent’anni l’Italia<br />

fingendo di servirla — che a Roma incarnavano<br />

il potere: Franco Evangelisti, quello di «A<br />

Fra’ che te serve?», Vittorio Sbardella, detto<br />

«lo squalo», Amerigo Petrucci, Emilio Colombo,<br />

Dario Antoniozzi, Alfredo Antoniozzi, Carlo<br />

Donat-Cattin e tanti altri. Su tutti, l’ombra<br />

di Agostino De Santis, «che non si poteva<br />

sfottere», il Divo Giulio: «Alla base c’è il consenso,<br />

e se la società è merda, per ripulire le<br />

fogne bisogna sporcarsi».<br />

Non interessano i singoli, ovviamente, ma<br />

ciò che i loro fantasmi distillano; non interessano<br />

le carte d’identità e la toponomastica<br />

del potere quanto piuttosto il clima in cui le<br />

cose avvenivano e le forme di quelle stesse<br />

Sislej Xhafa<br />

(1970),<br />

«Giuseppe»<br />

(2003, statua<br />

in terracotta,<br />

Collezione<br />

Tullio Leggeri)<br />

Stile<br />

Storia<br />

Copertina<br />

Antonio Moscato<br />

Fidel e il Che<br />

ALEGRE<br />

Pagine 188, e 14<br />

decisamente ridimensionato.<br />

Semmai, secondo l’autore, la<br />

svolta filosovietica di Fidel<br />

cominciò dopo la morte di<br />

Guevara, e in particolare dopo<br />

l’invasione di Praga del ’68, anche<br />

se già in precedenza era possibile<br />

vedere un Guevara seguace<br />

dell’esportazione della rivoluzione<br />

e un Castro più vicino al modello<br />

del socialismo in un solo Paese. Il<br />

fatto è che Castro era un politico e<br />

come tale doveva muoversi con<br />

senso del realismo, indispensabile<br />

anche ai rivoluzionari, mentre al<br />

Che questa qualità, la prima<br />

necessaria a un politico, mancava<br />

del tutto.<br />

Stile<br />

Rigore<br />

Copertina<br />

cose: il sacco di Roma, l’abusivismo,<br />

le fumose sezioni<br />

di partito, l’accaparramento<br />

dei voti, le inaugurazioni,<br />

le sagre di paese,<br />

i circoli regionali, i piccoli<br />

e grandi impostori,<br />

gli intrighi, gli imbrogli<br />

elettorali, l’incenso delle sacrestie, le bustarelle,<br />

le false promesse, la conquista delle tessere,<br />

il fascino perverso delle correnti, i tradimenti,<br />

i congressi, i capibastone, le fughe dal<br />

ristorante per non pagare il conto. E i segni<br />

più evidenti del potere finalmente raggiunto:<br />

la villa, la barca, l’amante.<br />

Claudio Bucci è sempre combattuto fra la<br />

volontà di potenza (sia pure in versione piccolo-borghese,<br />

sotto forma di demone del comando)<br />

e il disinganno, ereditato in famiglia,<br />

un «conto con il passato» che non si<br />

chiude mai. La sua vita è quella del politicante,<br />

ne incarna alla perfezione la forma mentis,<br />

la sua pelle diventa un libro aperto dove,<br />

antropologicamente, si mescolano sudore e<br />

furbizia, odore di caciotta e schede elettorali,<br />

pianti dei figli e tessere di partito. Su ogni<br />

azione regna il compromesso, quella forza indistinta,<br />

un poco untuosa, che smussa ogni<br />

parola e ogni azione, che concilia pretese divergenti<br />

attraverso reciproche concessioni,<br />

come si fa nei mercati rionali e nelle sedi dei<br />

grandi partiti. Dal compromesso al complotto,<br />

poi, il passo è breve.<br />

A volte persino Bucci si stupisce di quanto<br />

si possa essere inclini al compromesso. Come<br />

quando appare sulla scena Camillo Signorelli,<br />

capo di una potente loggia massonica<br />

segreta, che si preoccupa delle sue scarse presenze<br />

televisive e gli fa subito telefonare da<br />

un noto conduttore che lo invita nel suo salotto.<br />

La conquista di Roma di Bucci ha senso solo<br />

perché è retta dalla scrittura di Alessandra<br />

Fiori. Che, in questa difficile catarsi familiare,<br />

avrebbe potuto lasciarsi prendere da una<br />

prosa controllata, costruita, quasi espiativa.<br />

E invece preferisce assecondare le cadenze<br />

delle cerimonie del potere, abbandonarsi a<br />

una materialità quasi mimetica (si sente il fiato<br />

dei postulanti, il brusio dei tesseramenti,<br />

il passo degli speculatori), mettere in scena<br />

un mondo semiautobiografico con la sprezzatura<br />

dell’estranea.<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

«Siamo fatti di polvere di stelle».<br />

Gli estremi pare si tocchino e di polvere<br />

comunque si tratta, che sia di stelle<br />

o di terra. Stavolta anzi l’atea sembra<br />

volare più in alto del credente.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

LA LETTURA<br />

AlefBet<br />

di Daria Gorodisky<br />

IL PRIMO<br />

GOLEADOR<br />

POLACCO<br />

17<br />

Succede ancora oggi di<br />

sentir dire che gli<br />

ebrei cittadini di uno<br />

Stato siano «nazione a<br />

parte», non minoranza<br />

religiosa: insomma diversi,<br />

alieni. Argomento<br />

subdolo, caro ai nazisti —<br />

anche con questo<br />

motivavano i massacri — e<br />

ai loro nostalgici, oggi a<br />

volte riecheggia in<br />

ambienti che si<br />

definiscono eruditi.<br />

Magari, per «affievolire», il<br />

giudizio viene circoscritto<br />

a un luogo e/o a un<br />

tempo. Per esempio, agli<br />

ebrei polacchi alla vigilia<br />

dell’ascesa hitleriana, cioè<br />

poco prima che il 90% (tre<br />

milioni) di loro venisse<br />

sterminato. Già, la Polonia.<br />

Nel 1933 gli ebrei vi<br />

risiedevano da oltre 800<br />

anni. Anche lì avevano<br />

conservato fede e<br />

tradizioni; come nel resto<br />

dell’Europa centrale<br />

avevano sviluppato una<br />

lingua (lo yiddish). Come<br />

altrove, avevano subito a<br />

fasi alterne persecuzioni e<br />

l’imposizione di vivere in<br />

ghetti o in shtetl, ea<br />

questo proposito vale la<br />

pena consultare l’Atlante<br />

di storia ebraica di Martin<br />

Gilbert (Giuntina). Però<br />

erano polacchi a tutti gli<br />

effetti. Durante tutti gli<br />

scombussolamenti della<br />

storia e dei confini del<br />

Paese, hanno partecipato<br />

alla sua vita economica,<br />

sociale, culturale e politica,<br />

sostenendo anche il sogno<br />

indipendentista di<br />

Pilsudski. Lo storico Artur<br />

Eisenbach evidenzia che<br />

nel 1855 gli ebrei<br />

rappresentavano circa il<br />

43% del totale della<br />

popolazione urbana del<br />

regno polacco. Negli anni<br />

Trenta a Varsavia un terzo<br />

degli abitanti erano ebrei,<br />

il 28% a Cracovia, il 40 a<br />

Lvov. Appartenevano a<br />

tutte le fasce sociali,<br />

svolgevano tutti i mestieri<br />

e tutte le professioni (il<br />

53% dei medici e il 40%<br />

degli insegnanti erano di<br />

religione israelitica): il<br />

premio Nobel Isaac<br />

Bashevis Singer, ma anche<br />

suo fratello Israel Joshua in<br />

I fratelli Ashkenazi<br />

(Longanesi), ha ben<br />

descritto anche la<br />

borghesia ebraica polacca.<br />

Nei secoli la Polonia non<br />

solo ha dato vita ad alcune<br />

delle più importanti scuole<br />

di pensiero giudaico, ma la<br />

sua minoranza ebraica ha<br />

regalato al mondo un<br />

enorme tesoro letterario,<br />

artistico, musicale e<br />

scientifico. Una lista<br />

infinita di nomi grandi o<br />

meno noti, come quello di<br />

Ludwig Zamenhof,<br />

l’inventore dell’Esperanto.<br />

Oppure quello di Józef<br />

Klotz: nel 1922 fu autore<br />

del primo gol mai segnato<br />

dalla nazionale polacca.<br />

Poi fu trucidato dai nazisti.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


18 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Caratteri Le classifiche dei libri { 1<br />

5<br />

La pagella<br />

Lilli Gruber<br />

Eredità<br />

Rizzoli<br />

di Antonio D’Orrico<br />

VOTO<br />

6,5<br />

Badate al bisnonno<br />

e ai suoi baci focosi<br />

La bisnonna Rosa per sposare<br />

l’uomo che ama, si mette in rotta<br />

di collisione con il padre<br />

contrario al matrimonio.<br />

Non è una cosa comune all’alba<br />

del Novecento. La prozia Hella<br />

fieramente filotedesca e antitaliana<br />

diventa una fervente hitleriana nella<br />

speranza che il Führer si riprenda il<br />

Sudtirolo. Dopo aver intravisto Hitler a<br />

Norimberga nel 1936 scrive: «Non si<br />

finisce mai di ammirarlo, dove trova la<br />

forza di fare tutto questo, di lavorare<br />

giorno e notte senza un attimo di<br />

riposo?». Hella viene condannata a<br />

cinque anni di confino in un paesino<br />

lucano. La ragazza è un po’ esaltata e<br />

con molti pregiudizi. Sostiene<br />

l’insostenibile, che la cucina sudtirolese,<br />

ad esempio, è migliore<br />

di quella lucana (li avrà<br />

mai assaggiati i<br />

peperoni cruschi?). Per<br />

sua fortuna, la sorella<br />

Berta (la più simpatica<br />

delle donne della<br />

famiglia), interviene con<br />

il suo notevole fascino<br />

Lilli Gruber<br />

è nata a Bolzano<br />

nel 1957<br />

presso Galeazzo Ciano e<br />

Hella sconta solo sei<br />

mesi di pena.<br />

I libri dei giornalisti<br />

televisivi sono spesso<br />

deludenti (va bene, anche quelli dei<br />

giornalisti non televisivi). Ma questa saga<br />

familiare di Lilli Gruber fa eccezione. La<br />

ricostruzione (romanzata, non sempre<br />

convincentemente, per tentare di ridare<br />

il sapore dei tempi e delle psicologie) è<br />

impreziosita dalle citazioni dal diario di<br />

Rosa e dalle lettere di Hella. Nel racconto<br />

dominano le figure femminili. Eppure la<br />

lettera più bella di tutte non la scrive una<br />

donna ma il bisnonno Jakob che, dal<br />

carcere dove è finito per presunta<br />

propaganda antitaliana, augura buon<br />

onomastico alla sua Rosa: «Perciò mia<br />

cara moglie, vieni qui, sono seduto sul<br />

pagliericcio. Ti accoglierò con baci<br />

focosi». Baci focosi (heisse Küsse) alla<br />

moglie dopo 37 anni di matrimonio?<br />

Forse ai maschi della saga (dalla quale si<br />

potrebbe trarre una suggestiva, scomoda<br />

e non banale fiction tv) andava concessa<br />

una considerazione maggiore.<br />

L’incipit dei lettori<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Ti piacciono le altre. È<br />

normale. Sei un uomo.<br />

Perché non dovresti guardare<br />

le altre? Le mia amiche. Anche. Ma<br />

prenditele. Vai, che aspetti.<br />

Prenditele, che anche loro non<br />

aspettano altro, sono lì a fare le<br />

santarelline. Ma gli piaci,<br />

diventerebbero delle mignotte,<br />

anche se non glielo chiedessi. Fate<br />

figli, amatevi. Peace and Love. Io?<br />

(-)<br />

N<br />

2<br />

N<br />

3<br />

5<br />

4<br />

5<br />

(2)<br />

5<br />

6<br />

N<br />

7<br />

5<br />

(5)<br />

5<br />

5<br />

10<br />

5<br />

90<br />

73<br />

51<br />

40<br />

34<br />

Wilbur Smith<br />

Vendetta<br />

di sangue<br />

Longanesi, e 19,90<br />

Alicia Giménez<br />

Bartlett<br />

Gli onori di casa<br />

Sellerio, e 15<br />

Clara Sánchez<br />

Entra<br />

nella mia vita<br />

Garzanti, e 18,60<br />

Jeff Kinney<br />

Diario di una schiappa.<br />

Si salvi chi pùo!<br />

II Castoro, e 12<br />

Emmanuel Carrère<br />

Limonov<br />

Adelphi, e 19<br />

Massimo Gramellini<br />

Fai bei sogni<br />

Longanesi, e 14,90<br />

La classifica<br />

1 Anna Premoli<br />

Ti prego lasciati odiare<br />

Newton Compton, € 4,99<br />

ePub con DRM Fairplay<br />

2<br />

E. L. James<br />

Cinquanta sfumature di grigio<br />

Mondadori, € 6,99<br />

ePub con DRM Fairplay<br />

3<br />

Ken Follett<br />

Triplo<br />

Mondadori, € 6,99<br />

ePub con DRM Fairplay<br />

John Grisham<br />

L’ex avvocato<br />

Mondadori, € 9,99<br />

ePub con DRM Fairplay<br />

5<br />

E. L. James<br />

Cinquanta sfumature di rosso<br />

Mondadori, € 6,99<br />

ePub con DRM Fairplay<br />

Saggistica<br />

1<br />

(2) posizione precedente<br />

1(5)190<br />

Susanna Tamaro<br />

Ogni angelo<br />

è tremendo<br />

Bompiani, e 16,50<br />

Intimo e coraggioso è il ritratto, da bambina a<br />

donna, che Susanna Tamaro fa di sé nel<br />

romanzo che conquista la vetta negli Italiani e la<br />

seconda piazza in top ten. Da segnalare il ritorno<br />

dell’avventura on the road di Ervas, il passaggio,<br />

dai saggi alla narrativa, di Gruber e l’ingresso del<br />

nuovo giallo sociale del vicequestore Manzini.<br />

1Longanesi, e 19,90<br />

Hector Cross è tornato per portare a termine la<br />

sua vendetta: il personaggio creato da Wilbur<br />

Smith, già apparso ne La legge del deserto, con la<br />

nuova avventura si prende il primo posto<br />

assoluto. Si affaccia in top ten Limonov, antieroe<br />

contemporaneo raccontato da Carrère nel libro<br />

dell’anno nella classifica de «la Lettura».<br />

Gli italiani si rispecchiano nell’ottimismo ragionato<br />

di Severgnini: il suo manuale del presente, in vetta<br />

nei saggi, è da top ten. Guadagna sedici posti<br />

l’odissea di Sami Modiano, ebreo sopravvissuto<br />

ad Auschwitz, poi in fuga dall’Europa all’Africa.<br />

Concita De Gregorio e Roberto Napoletano sono<br />

firme illustri new entry della settimana.<br />

Varia<br />

(1)N100<br />

Wilbur Smith<br />

Vendetta di sangue<br />

(5)1 42<br />

Beppe Severgnini<br />

Italiani di domani.<br />

8 porte sul futuro<br />

Rizzoli, e 15<br />

1(-)N29<br />

Andrea Vitali<br />

Le tre minestre<br />

Mondadori Electa, e 14,90<br />

1(1)S40<br />

Jeff Kinney<br />

Diario di una Schiappa.<br />

Si salvi chi può!<br />

Il Castoro, e 12<br />

Stati Uniti<br />

2<br />

2<br />

S<br />

R<br />

N<br />

stabile<br />

rientro<br />

in discesa<br />

novità<br />

100 titolo più venduto (gli altri in proporzione)<br />

Soffia lo spirito d’avventura con Wilbur Smith e Limonov-Carrère<br />

Tamaro vince raccontando se stessa, Severgnini fa lezione all’Italia<br />

Top 10<br />

1<br />

(4)<br />

9<br />

35<br />

Susanna Tamaro<br />

Ogni angelo<br />

è tremendo<br />

Bompiani, e 16,50<br />

Andrea Cammilleri<br />

II tuttomio<br />

Mondadori, e 16<br />

Beppe Servegnini<br />

Italiani di domani.<br />

8 porte sul futuro<br />

Rizzoli, e 15<br />

John Grisham<br />

L’ex avvocato<br />

Mondadori, e 20<br />

Non lasciarti impressionare dall’amore<br />

(-)<br />

(1)<br />

(3)<br />

5<br />

(-)<br />

8<br />

(-)<br />

(8)<br />

100<br />

50<br />

42<br />

35<br />

di Alessia Serafini<br />

23 anni, Roma, studentessa universitaria<br />

Ti aspetto. Aspetterò che hai finito.<br />

Sperando che tu voglia passare ad<br />

altro; e se ti fermassi? Fermati.<br />

Vuoi fermarti? Fallo. Io ti aspetto.<br />

Invia il tuo incipit<br />

corriere.it/lettura<br />

Insieme all’incipit — che deve essere inedito — inviate<br />

un indirizzo mail corretto e controllato con regolarità<br />

in modo da essere contattati dalla redazione in caso<br />

di scelta e pubblicazione. Verranno privilegiati gli<br />

incipit brevi (massimo 100 parole).<br />

ebook<br />

di Alessia Rastelli<br />

Dominano<br />

sentimenti<br />

(e porno-soft)<br />

I romanzi al femminile<br />

dominano la settimana<br />

digitale. Porno-soft e<br />

sentimenti conquistano<br />

sei posizioni tra i dieci titoli<br />

più venduti<br />

sull’iBookstore, il negozio<br />

di libri elettronici di Apple.<br />

Prima, si conferma Anna<br />

Premoli, la consulente<br />

finanziaria che sta<br />

scalando le classifiche con<br />

una storia di odio-amore<br />

tra colleghi. Al secondo,<br />

quinto e sesto posto<br />

(Apple non rende note le<br />

proporzioni di acquisto tra<br />

un titolo e l’altro), ancora<br />

E. L. James con la sua<br />

trilogia. Un ritorno dovuto<br />

anche all’operazione di<br />

marketing di rendere<br />

disponibili gratuitamente<br />

le Cinquanta sfumature di<br />

grigio a chi avesse<br />

acquistato un ereader<br />

Kobo o Kindle entro il 31<br />

gennaio. Seguono,<br />

settimo, A nudo per te di<br />

Sylvia Day (Mondadori, €<br />

6,99); decimo, Segreti,<br />

bugie e cioccolato (Newton<br />

Compton, € 4,99), nuova<br />

storia romantica<br />

dell’autrice di Amore,<br />

zucchero e cannella,Amy<br />

Bratley. Extra-rosa, infine,<br />

al terzo e quarto posto,<br />

Triplo di Ken Follett e L'ex<br />

avvocato di John Grisham;<br />

ottavo e nono, aiutati dal<br />

prezzo, I miserabili di Victor<br />

Hugo (Newton Compton),<br />

a 49 centesimi dopo<br />

l’uscita dell’omonimo film,<br />

e Se vuoi fare il figo usa lo<br />

scalogno (Rizzoli), edizione<br />

digitale delle ricette dello<br />

chef Cracco, per l’intera<br />

settimana a 8,99 euro<br />

anziché 11,99.<br />

@al_rastelli<br />

4<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

(28 gennaio-3 febbraio 2013)<br />

Legenda<br />

1<br />

in salita<br />

Narrativa italiana<br />

Narrativa straniera<br />

Ragazzi<br />

J. Patterson, M. Sullivan<br />

Private Berlin<br />

Little, Brown & Co., $ 27,99<br />

R. Jordan, B. Sanderson<br />

A memory of light<br />

Tor/Tom Doherty, $ 34,99<br />

2<br />

(1)550<br />

Andrea Camilleri<br />

Il tuttomio<br />

Mondadori, e 16<br />

3<br />

(3)S34<br />

Massimo Gramellini<br />

Fai bei sogni<br />

Longanesi, e 14,90<br />

2<br />

(1)573<br />

Alicia Giménez<br />

Bartlett<br />

Gli onori di casa<br />

Sellerio, e 15<br />

3<br />

(2)551<br />

Clara Sánchez<br />

Entra<br />

nella mia vita<br />

Garzanti, e 18,60<br />

2<br />

(18)1 30<br />

Sami Modiano<br />

Per questo<br />

ho vissuto<br />

Rizzoli, e 18<br />

3<br />

(2)5 25<br />

Ermanno Olmi<br />

L’apocalisse<br />

è un lieto fine<br />

Rizzoli, e 18<br />

(1)524<br />

Carlo Cracco<br />

Se vuoi fare il figo<br />

usa lo scalogno<br />

Rizzoli, e 15,90<br />

2<br />

(2)S19<br />

AA.VV.<br />

Le canzoncine<br />

di Peppa Pig.<br />

Con CD Audio<br />

Giunti Kids, e 9,90<br />

3<br />

Robert Crais<br />

Suspect<br />

Putnam, $ 27,95


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

4<br />

(2)531<br />

Anna Premoli<br />

Ti prego<br />

lasciati odiare<br />

Newton Compton, e 9,90<br />

5<br />

(4)527<br />

Diego De Silva<br />

Mancarsi<br />

Einaudi, e 10<br />

4<br />

(3)535<br />

John Grisham<br />

L’ex avvocato<br />

Mondadori, e 20<br />

5<br />

(8)135<br />

Emmanuel Carrère<br />

Limonov<br />

Adelphi, e 19<br />

4<br />

(6)1 19<br />

D. Avey, R. Broomby<br />

Auschwitz.<br />

Ero il numero<br />

220543<br />

Newton Compton, e 5,90<br />

5<br />

(11)119<br />

Maurizio Viroli<br />

Scegliere<br />

il principe<br />

Laterza, e 9<br />

Luciana Littizzetto<br />

Madama<br />

Sbatterflay<br />

Mondadori, e 18<br />

Silvia D’Achille<br />

Gioca con Peppa<br />

Pig! Con stickers<br />

Giunti Kids, e 4,90<br />

6<br />

(6)S27<br />

Simona Sparaco<br />

Nessuno sa di noi<br />

Giunti, e 12<br />

7<br />

(7)S27<br />

Primo Levi<br />

Se questo<br />

è un uomo<br />

Einaudi, e 10,50<br />

(4)533<br />

Tracy Chevalier<br />

L’ultima fuggitiva<br />

Neri Pozza, e 18<br />

7<br />

(5)532<br />

E. L. James<br />

Cinquanta<br />

sfumature di grigio<br />

Mondadori, e 14,90<br />

6<br />

(7)117<br />

Sam Pivnik<br />

L’ultimo<br />

sopravvissuto.<br />

Una storia vera<br />

Newton Compton, e 9,90<br />

7<br />

(-)N17<br />

Concita De Gregorio<br />

Io vi maledico<br />

Einaudi, e 16<br />

Silvia D’Achille<br />

Gioca e impara<br />

con Peppa Pig.<br />

Con adesivi<br />

Giunti Kids, e 5,90<br />

8<br />

(-)R26<br />

Fulvio Ervas<br />

Se ti abbraccio<br />

non aver paura<br />

Marcos y Marcos, e 17<br />

9<br />

(-)N22<br />

Lilli Gruber<br />

Eredità. Una storia<br />

della mia<br />

famiglia...<br />

Rizzoli, e 18,50<br />

8<br />

(6)529<br />

E. L. James<br />

Cinquanta<br />

sfumature di nero<br />

Mondadori, e 14,90<br />

9<br />

(9)S29<br />

Luis Sepúlveda<br />

Storia di un gatto<br />

e del topo che diventò<br />

suo amico<br />

Guanda, e 10<br />

8<br />

(3)516<br />

Joseph Ratzinger<br />

L’infanzia di Gesù<br />

Rizzoli, e 17<br />

9<br />

(4)516<br />

Philippe Daverio<br />

II secolo lungo<br />

della modernità<br />

Rizzoli, e 39<br />

(-)R13<br />

Silvia D’Achille<br />

La festa<br />

in maschera<br />

Giunti Kids, e 4,50<br />

(8)515<br />

Margaret Mazzantini<br />

Venuto al mondo<br />

Mondadori, e 14<br />

Andrea Camilleri<br />

Una voce di notte<br />

Sellerio, e 14<br />

(7)527<br />

E. L. James<br />

Cinquanta<br />

sfumature di rosso<br />

Mondadori, e 14,90<br />

Anne Frank<br />

Diario<br />

Einaudi, e 12,50<br />

Andre Agassi<br />

Open.<br />

La mia storia<br />

Einaudi, e 20<br />

(16)114<br />

Alessandro D’Avenia<br />

Bianca come<br />

il latte, rossa<br />

come il sangue<br />

Mondadori, e 13<br />

Oriana Fallaci<br />

Il mio cuore<br />

è più stanco<br />

della mia voce<br />

Rizzoli, e 15<br />

(12)513<br />

Cristina Comencini<br />

Lucy<br />

Feltrinelli, e 15<br />

15<br />

(12)59<br />

Federico Rampini<br />

Voi avete<br />

gli orologi, noi<br />

abbiamo il tempo<br />

Mondadori, e 16<br />

17<br />

11 (9)512 13 (-)N9 15 (13)59 17 (19)18 19 (-)N8<br />

Alberto Angela<br />

Amore e sesso<br />

nell’antica Roma<br />

Mondadori, e 18<br />

Silvia D’Achille<br />

Gli attacca-stacca<br />

di Peppa Pig.<br />

Con adesivi<br />

Giunti Kids, e 5,90<br />

Francia<br />

2 3 1 2<br />

Valerio M. Manfredi<br />

Il mio nome<br />

è Nessuno.<br />

Il giuramento<br />

Mondadori, e 19<br />

P. D. James<br />

Morte<br />

a Pemberley<br />

Mondadori, e 18,50<br />

J. K. Rowling<br />

Il seggio vacante<br />

Salani, e 22<br />

Roberto Napoletano<br />

Promemoria<br />

italiano<br />

Bur, e 12<br />

Silvia D’Achille<br />

A Peppa Pig<br />

piace...<br />

Premi e ascolta!<br />

Giunti Kids, e 8,90<br />

14 (13)511<br />

(15)511<br />

(-)N10<br />

(11)512<br />

Daria Bignardi<br />

L’acustica perfetta<br />

Mondadori, e 18<br />

David Mitchell<br />

Cloud Atlas.<br />

L’atlante<br />

delle nuvole<br />

Frassinelli, e 14,90<br />

(-)N17<br />

Guillaume Musso<br />

Sette anni<br />

senza di te<br />

Sperling & Kupfer, e 19,90<br />

Massimo D’Alema<br />

Controcorrente.<br />

Intervista<br />

sulla sinistra...<br />

Laterza, e 12<br />

Antoine<br />

de Saint-Exupéry<br />

Il Piccolo Principe<br />

Bompiani, e 7,90<br />

Paolo Giordano<br />

Il corpo umano<br />

Mondadori, e 19<br />

(13)517<br />

Clara Sánchez<br />

Il profumo<br />

delle foglie<br />

di limone<br />

Garzanti, e 9,90<br />

Manuel Vázquez<br />

Montalbán<br />

La bella di<br />

Buenos Aires<br />

Feltrinelli, e 10<br />

Neil Young<br />

II sogno<br />

di un hippie<br />

Feltrinelli, e 20<br />

(7)511<br />

Silvia D’Achille<br />

Una gita<br />

nel bosco<br />

Giunti Kids, e 4,50<br />

Stefano Bollani<br />

Parliamo di musica<br />

Mondadori, e 17<br />

10<br />

Germania<br />

Nicolai Lilin<br />

Educazione<br />

siberiana<br />

Einaudi, e 12,50<br />

Gillian Flynn<br />

L’amore bugiardo<br />

Rizzoli, e 18<br />

11 (16)120 13 15 17 (14)516 19<br />

Yann Martel<br />

Vita di Pi<br />

Piemme, e 17,50<br />

Silvia D’Achille<br />

Il superlibro<br />

di Peppa Pig.<br />

Con stickers<br />

Giunti Kids, e 7,90<br />

Gleen Cooper<br />

I custodi<br />

della biblioteca<br />

Nord, e 19,60<br />

(10)S13 (16)19 16 (15)59 18 (8)58 20<br />

3 (2)517 4 (4)S17 5 (3)516 6 7 (-)R8 8 (6)57 9 (8)57 10<br />

Benedetta Parodi<br />

Mettiamoci<br />

acucinare<br />

Rizzoli, e 17,90<br />

Giuseppe Mariani<br />

Il nuovo concorso<br />

a cattedra<br />

Edises, e 10<br />

Pierre Dukan<br />

La dieta Dukan<br />

Sperling & Kupfer, e 16<br />

3 (3)S13 4 5 6 7 (-)N12 8<br />

1<br />

Il numero<br />

di Giuliano Vigini<br />

6<br />

Inghilterra<br />

AA.VV.<br />

Keep Calm for Dads<br />

Summersdale, £4,99<br />

1,6<br />

A. Clerici, A. Spisni,<br />

S. Barzetti<br />

Le ricette della<br />

Prova del cuoco<br />

Mondadori, e 16,90<br />

Stuart McBride<br />

Close to the bone<br />

HarperCollins, £ 16,99<br />

Il podio del critico<br />

R. Jordan, B. Sanderson<br />

A memory of light<br />

Little, Brown, £25<br />

di Attilio Andreini<br />

Le speranze riposte nell’ebook sono tante, ma l’euforia che<br />

ha accompagnato, anche in Italia, l’avvento della «quarta<br />

rivoluzione» del libro è da ridimensionare quanto alle<br />

dimensioni del mercato a breve termine. Le fonti<br />

internazionali (Idate) prevedono infatti, per il 2014, nei<br />

10 12 16 18<br />

11<br />

13<br />

9<br />

20<br />

(Elaborazione a cura del «Corriere della Sera»)<br />

3 1 2 3<br />

Antonio Manzini<br />

Pista nera<br />

Sellerio, e 13<br />

10 12 (10)519 14 (11)517 16 18 (-)N14 20 (17)513<br />

E. L. James<br />

Cinquante nuances<br />

de Grey<br />

Lattes, e 17<br />

14 (14)58<br />

E. L. James<br />

Cinquante nuances<br />

plus sombres<br />

Lattes, e 17<br />

1<br />

Pierre Dukan<br />

La dieta Dukan<br />

illustrata<br />

Sperling & Kupfer, e 19,90<br />

2<br />

Guido Morselli<br />

Dissipatio H. G.<br />

Adelphi, e 11<br />

19<br />

(10)515 (9)513 (14)511<br />

(-)N10<br />

E. L. James<br />

Cinquante nuances<br />

plus claires<br />

Lattes, e 17<br />

Attilio Andreini (Prato, 1967) insegna Lingua cinese<br />

classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Filologo,<br />

s’interessa della trasmissione dei testi e del sapere nella<br />

Cina antica. Ha curato la traduzione del Laozi Daodejing (il<br />

testo canonico del Daoismo) e, con Micol Biondi, del Sunzi<br />

bingfa (L’arte della guerra di Sun Tzu), usciti da Einaudi.<br />

L’Europa raffredda l’euforia per il libro elettronico<br />

10<br />

12<br />

Vittorino Andreoli<br />

I segreti<br />

della mente<br />

Rizzoli, e 18<br />

Yu Hua<br />

Vivere!<br />

Feltrinelli, e 8<br />

cinque Paesi europei editorialmente più avanzati (Regno<br />

Unito, Germania, Francia, Italia, Spagna), un giro d’affari<br />

complessivo di 16 miliardi di euro per il libro a stampa e di<br />

1,6 per l’ebook. Anche per quanto riguarda il numero di<br />

«e-readers» che sarà presumibilmente venduto nel 2014<br />

Timur Vermes<br />

Er ist wieder da<br />

Eichborn, e 19,33<br />

Maurizio de Giovanni<br />

Vipera<br />

Einaudi, e 18<br />

(12)518 (15)514<br />

Sandro Luporini<br />

(con R. Luporini)<br />

G. Vi racconto<br />

Gaber<br />

Mondadori, e 18<br />

(-)N8 (-)R7<br />

Rhonda Byrne<br />

The secret<br />

Macro Edizioni, e<br />

18,60<br />

(6)113 (9)112 (5)512<br />

(-)R11<br />

Jussi Adler-Olsen<br />

Das Washington<br />

Dekret<br />

Dtv, e 19,90<br />

3<br />

Bi Feiyu<br />

I maestri di tuina<br />

Sellerio, e 16<br />

negli stessi Paesi, la cifra complessiva è di 1.423.000 unità,<br />

contro 9.602.000 degli Stati Uniti. Per quanto in crescita<br />

(da 0,1 del 2008 a 1,6 miliardi di euro del 2014),<br />

l’espansione del mercato ebook in Europa sarà dunque più<br />

lenta del previsto, ma è comunque una strada segnata.<br />

(Elaborazione a cura di Nielsen Bookscan. Dati relativi alla settimana dal 28 gennaio al 3 febbraio 2013)<br />

Lorenzo Amurri<br />

Apnea<br />

Fandango, e 16<br />

G. Lo Bianco,<br />

S. Rizza<br />

Antonio Ingroia.<br />

Io so<br />

Chiarelettere, e 12,90<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

Corrado Augias<br />

I segreti d’Italia<br />

Rizzoli, e 19<br />

Paulo Coelho<br />

Die Schriften<br />

von Accra<br />

Diogenes, e 17,90<br />

19


20 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Sguardi<br />

Arte, fotografia, architettura, design, mercato<br />

di VINCENZO TRIONE<br />

Chi ci sarà? È tra gli eventi più attesi<br />

dell’anno. Tra qualche settimana<br />

si terrà la conferenza stampa<br />

e Gianfranco Ravasi, presidente<br />

del Pontificio consiglio della cultura,<br />

annuncerà i nomi degli artisti chiamati<br />

a rappresentare la Città del Vaticano nella<br />

prossima edizione della Biennale di Venezia.<br />

Finora, non sono trapelate anticipazioni.<br />

Si sa che è in fase di realizzazione il<br />

Padiglione che ospiterà la mostra (ai Giardini).<br />

Si sa che la commissione presieduta<br />

da Ravasi, qualche giorno fa, ha completato<br />

la «short list» degli invitati. Si sa che le<br />

«consultazioni» sono durate più di un anno,<br />

nel corso del quale un ristretto gruppo<br />

di esperti si è recato negli studi di molti artisti.<br />

Qualcuno — per depistare? — ha detto<br />

che sarebbero state chiamate, secondo<br />

una logica ecumenica, cinque «voci»: una<br />

per ogni continente. Ma non sarà così.<br />

Al momento, si possono fare solo illazioni.<br />

Molti danno per certa la presenza di Bill<br />

Viola, particolarmente apprezzato per la<br />

sua capacità di coniugare nuove tecnologie<br />

e richiami storico-artistici. Alcuni ipotizzano<br />

che ci sarà anche Cecco Bonanotte, vincitore<br />

a Tokyo del prestigioso Premium Imperiale,<br />

molto vicino agli ambienti cattolici.<br />

Altri si dicono sicuri che, tra i «selezionati»,<br />

ci saranno anche Jannis Kounellis,<br />

Anish Kapoor e alcune personalità femminili.<br />

Dalle scelte della Commissione si capirà<br />

subito quale sarà la filosofia del Vaticano,<br />

che, dopo secoli di «disinteresse», torna a<br />

confrontarsi con l’arte contemporanea. Se<br />

— come molti sostengono — si imporrà<br />

un’ottica conservativa e continuistica, rispettosa<br />

di un patrimonio culturale consolidato.<br />

O se si affermerà un orientamento<br />

più aperto e «laico», in grado di cogliere<br />

anche discontinuità e passaggi talvolta<br />

scandalosi. Se, cioè, ci si muoverà all’interno<br />

di un’estetica legata alla centralità del<br />

tema classico dell’icona. O se ci si aprirà anche<br />

alla linea aniconica dell’arte moderna.<br />

Dunque, chi ci sarà? Senz’altro non i profanatori<br />

— Nitsch, Serrano, Hirst, Cattelan<br />

— i quali acquisiscono alcuni simboli divini,<br />

per deriderli e immetterli in un sistema<br />

di desacralizzazioni. Ma, come ha ricordato<br />

Camille Paglia, «schernire la religione è<br />

una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione<br />

rachitica».<br />

Più facile dire chi meriterebbe di esserci.<br />

I neo-mistici, ad esempio: come Stella,<br />

Kounellis, Kapoor, Paladino, Kiefer, Parmiggiani,<br />

Turrel, Eliasson, Laib, Spalletti e<br />

Sugimoto. Ad accomunarli è il bisogno di<br />

interrogarsi sul volto dell’invisibile, riprendendo<br />

la lezione di Kandinskij, che, nel<br />

1912, aveva osservato: «La letteratura, la<br />

musica e l’arte sono i campi più sensibili<br />

(…) che riflettono subito il fosco quadro<br />

del presente e intuiscono la presenza di<br />

qualcosa di grande, anche se a tutta prima<br />

è visibile, come un puntino, solo a pochi».<br />

Parole che potrebbero essere accostate a<br />

quel che ha detto recentemente Bill Viola:<br />

«Nel corso della storia, la maggior parte<br />

delle creazioni dell’umanità (…) è stata fatta<br />

per motivi intangibili o spirituali, è un<br />

dialogo con forze ineffabili. (…) Tutta l’arte<br />

rappresenta delle cose invisibili».<br />

L’invisibile, allora. È, questa, la figura intorno<br />

a cui ruotano le scelte poetiche di alcuni<br />

artisti di oggi, che tendono a spostare<br />

la loro attenzione dalla «religiosità» alla<br />

«spiritualità». Alcuni esempi: l’Apocalisse<br />

di Kounellis, una solenne croce racchiusa<br />

in un grande sacco appeso con una corda a<br />

una trave sospesa al soffitto; la Via Crucis<br />

di Stella, sculture monocromatiche in metallo<br />

attorcigliato; la crocifissione di Paladino,<br />

un giardino di marmi bianchi, che con-<br />

Fede<br />

Verso la Biennale Più di un anno<br />

di «consultazioni» sotto la guida<br />

del cardinale Ravasi per la<br />

manifestazione di quest’anno,<br />

mentre sono segnalati sopralluoghi<br />

della Santa Sede a Venezia in vista<br />

dell’appuntamento del 2014<br />

Padiglione vaticano, premono i neo-mistici<br />

La ricerca di Assoluto di Viola e Kounellis<br />

i<br />

2013<br />

La 55esima Biennale<br />

Internazionale d’Arte<br />

si svolgerà a Venezia<br />

dal primo giugno<br />

al 24 novembre<br />

ai Giardini e all’Arsenale<br />

(vernice 29, 30, 31 maggio).<br />

Direttore dell’edizione 2013<br />

è Massimiliano Gioni<br />

(presentazione ufficiale<br />

il 13 marzo a Roma).<br />

Il Padiglione Italiano<br />

è stato curato da<br />

Bartolomeo Pietromarchi<br />

(tra gli artisti presenti:<br />

Francesco Arena, Gianfranco<br />

Baruchello, Elisabetta<br />

Benassi, Flavio Favelli, Luigi<br />

Ghirri, Francesca Grilli, Fabio<br />

Mauri, Giulio Paolini, Marco<br />

Tirelli, Sislej Xhafa)<br />

Esordi<br />

La Santa Sede<br />

partecipa per la prima volta<br />

con un Padiglione nazionale.<br />

Commissario del Padiglione<br />

Vaticano è il cardinale<br />

Gianfranco Ravasi.<br />

L’idea era nata nel 2009,<br />

per volontà di Antonio<br />

Paolucci, oggi direttore<br />

dei Musei Vaticani.<br />

Altri otto i Paesi esordienti:<br />

Bahamas, Regno<br />

del Bahrain, Repubblica<br />

del Kosovo, Kuwait, Maldive,<br />

Costa d’Avorio,<br />

Nigeria, Paraguay<br />

vergono in un menhir occupato da una croce<br />

disegnata a matita. E, poi, le superfici di<br />

colore dentro le quali si può «cadere» con<br />

lo sguardo di Kapoor, le stanze illuminate<br />

sullo sfondo da strisce di luce intensa di<br />

Turrel, le apparizioni solari di Eliasson, le<br />

piccole montagne di colore di Laib, i giochi<br />

d’ombra di Parmiggiani, gli ambienti<br />

avvolgenti di Spalletti, gli orizzonti concreti<br />

resi astratti di Sugimoto. Senza dimenticare<br />

la controversa cattedrale di Reggio<br />

Emilia, che accoglie un altare (di Parmiggiani),<br />

un candelabro pasquale (di Spalletti)<br />

e una cattedra in ferro e legno di Kounellis<br />

(rimossa lo scorso dicembre). Tra i padri<br />

di questa sorta di tendenza segreta,<br />

Newman, autore — tra il 1958 e il 1966 —<br />

di una Via Crucis fatta di superfici omogenee<br />

tagliate da strisce bianche e nere; e Lucio<br />

Fontana, creatore, nel 1963, di un ciclo<br />

intitolato La fine di Dio, superfici di un solo<br />

colore perforate da buchi slabbrati.<br />

Pur con accenti diversi,<br />

questi artisti si<br />

fanno interpreti di<br />

un’epoca nella quale<br />

è andato progressivamente<br />

scomparendo<br />

l’Assoluto. Ma, forse,<br />

non la tensione verso<br />

l’Assoluto stesso.<br />

«Ora si tratta di riportare<br />

la spiritualità al<br />

centro e in domini<br />

aperti in cui sono possibili<br />

scoperte decisive»,<br />

ha scritto Charles<br />

Taylor. Nel riprendere<br />

una lunga tradizionestorico-artistica<br />

(documentata in una mostra tenutasi al<br />

Centre Pompidou nel 2008, «Traces du sacré»),<br />

i neo-mistici condividono il desiderio<br />

di emanciparsi da ogni riferimento contingente.<br />

Vogliono sottrarsi al tempo del di-<br />

Dall’alto: l’Apocalisse di Jannis Kounellis<br />

(2012, Milano, Galleria San Fedele); una<br />

delle stazioni della Via Crucis di Frank Stella<br />

(2009) per la Dives in Misericordia di<br />

Roma; Bill Viola, «Emergence» (2002)<br />

sincanto. Nei loro lavori, non vi sono echi<br />

di attualità. Portandosi al di là di ogni logica<br />

mediatica, non offrono testimonianze,<br />

né aderiscono al piano della<br />

riconoscibilità. Avvertono il bisogno di misurarsi<br />

con una sfera altra. Tendono verso<br />

una forma che si ponga in equilibrio tra il<br />

detto e il non-detto. Talvolta, si affidano a<br />

una figurazione che rielabora una simbolica<br />

originaria: è il caso di Kiefer, Kounellis,<br />

Paladino, Parmiggiani. Spesso, per dialogare<br />

con la trascendenza, scelgono l’astrazione<br />

e il minimalismo. Le loro opere: superfici<br />

monocrome o abitate da essenziali linee.<br />

Sulle orme di Malevic, scelgono di risiedere<br />

ai bordi del linguaggio. Si rifugiano negli<br />

spazi del silenzio. Essi sanno che il sacro<br />

non può mai essere racchiuso in un perimetro.<br />

Non si lascia nominare: traspare<br />

solo attraverso il suo essere inesprimibile.<br />

Gli eredi di Kandinskij e Malevic elaborano<br />

un’iconografia senza icone. Suggeriscono<br />

altre dimensioni. Sapienti nell’annodare<br />

il segno e l’assenza, pensano le opere come<br />

preghiere laiche. L’arte è dispositivo<br />

che consente di andare al di là della fragilità<br />

delle cose. È oltrepassamento. Esperienza<br />

metafisica, per porsi in ascolto di presenze<br />

lontane e scoprire tracce di eternità.<br />

Slancio verso quella che i greci chiamavano<br />

theía aisthesis: divino percepire.<br />

Queste necessità erano state colte da<br />

Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti<br />

del 1999: «L’arte anche al di là delle sue<br />

espressioni più tipicamente religiose,<br />

quando è autentica, ha una profonda affinità<br />

col mondo della fede; sicché, persino<br />

nelle condizioni di maggior distacco<br />

dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire<br />

una sorta d’appello al Mistero».<br />

Sarebbe auspicabile che il Padiglione della<br />

Santa Sede della Biennale 2013 partisse<br />

proprio da queste parole di Karol<br />

Wojtyla.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

nell’arte<br />

di STEFANO BUCCI<br />

Alla presentazione ufficiale della<br />

Biennale d’Architettura 2014,<br />

quella curata (e più che mai diretta)<br />

da Rem Koolhaas, tra i<br />

quaranta rappresentanti degli<br />

stati partecipanti, il Vaticano non c’era. Ma<br />

i rumors veneziani parlavano di sopralluoghi<br />

già effettuati tra l’Arsenale e i Giardini<br />

in cerca di una possibile, adeguata collocazione<br />

per un possibile Padiglione d’architettura.<br />

No comment dalle segrete stanze<br />

(d’altra parte mancano quasi due anni, tutto<br />

sembra dipendere dai «risultati» dall’ormai<br />

prossimo esordio della Santa Sede alla<br />

Biennale d’Arte), ma la «Cura Ravasi» sembra<br />

aver suscitato anche un rinnovato interesse<br />

sullo stato dell’architettura sacra (in<br />

Italia, dal Dopoguerra a oggi, sono state costruite<br />

oltre cinquemila chiese: non tutte,<br />

certo, di grande qualità progettuale).<br />

Le vele della Dives in Misericordia<br />

(1996-2003) di Richard Meier alle Tre Teste,<br />

nella profonda periferia romana, o il<br />

pluripremiato monastero di Novy Dvur<br />

(1999-2004) di John Pawson nella Repubblica<br />

Ceca, non possono essere più considerato<br />

un esempio isolato. Come interessanti<br />

sono i recenti esperimenti della St. Jakob<br />

Chapel (2012) ad Auerberg, nella campagna<br />

bavarese a sud di Monaco: una piccola<br />

cappella solo cinque metri per tre, in pietra,<br />

con una finestra che inquadra la croce<br />

esterna, unico simbolo di devozione, «per<br />

proiettare il pensiero dell’osservatore fuori,<br />

verso l’orizzonte, invitandolo alla meditazione<br />

e alla preghiera». O come la Capilla<br />

del Buen Retiro, sulle Ande cilene, di Christian<br />

Undurraga: «La mia cappella si sviluppa<br />

verso la terra, anzi dentro la terra, è più<br />

vicina alle catacombe che alle cattedrali gotiche».<br />

E intanto il quinto concorso bandito dai<br />

vescovi italiani ha da poco premiato la<br />

Dall’alto: St. Jakob Chapel ad Auerberg,<br />

Germania (Michele De Lucchi, 2012); l’interno<br />

della Dives in Misericordia a Roma (Richard<br />

Meier, 2003); la Capilla del Retiro, sulle Ande<br />

cilene (2009, Undurraga Devés Associates)<br />

RRR<br />

Dal Dopoguerra sono state costruite in Italia oltre<br />

cinquemila chiese, non tutte di grande qualità. A lungo<br />

dopo il Vaticano II si è data centralità alla liturgia;<br />

solo adesso si sta recuperando la «dimensione verticale».<br />

Il modello della ricostruzione dopo il sisma dell’Emilia<br />

L’architettura oltre i malintesi del Concilio<br />

«Le chiese tornano a testimoniare Dio»<br />

Chiesa di San Giacomo Apostolo in Ferrara<br />

di Benedetta Tagliabue, quella di San Ignazio<br />

da Laconi in Olbia di Francesca Leto, Michele<br />

Battistella e Daniele Bertoldo e quella<br />

di Santa Maria Goretti in Mormanno (Cosenza)<br />

nell’ambito di «un progetto destinato<br />

a innalzare la qualità dell’edilizia di culto,<br />

perché costruire è sicuramente un’operazione<br />

pastorale ed ecclesiale, ma anche<br />

un progetto culturale».<br />

«Troppo a lungo è mancata una tensione<br />

che potremmo definire verticale, troppo<br />

a lungo dopo il Concilio si è pensato prima<br />

alla comunità liturgica, poi al simbolo<br />

— spiega Claudia Manenti, direttore del<br />

Centro Studi per l’architettura sacra e la città<br />

della Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro<br />

di Bologna —. Un’intenzione giusta,<br />

ma che ha contribuito a costruire nuove<br />

chiese che assomigliavano più a garage<br />

che a cattedrali, edifici che finivano letteralmente<br />

per perdersi nelle periferie, spazi<br />

privi o quasi di qualsiasi<br />

segno di riconoscimento,<br />

a volte persino<br />

di una croce, che<br />

nascevano solo dalla<br />

buona volontà della<br />

committenza, a cominciare<br />

dai parroci<br />

e dai fedeli». Nessuna<br />

voglia di trionfalismo,<br />

certo, ma un recupero<br />

di una dignità<br />

progettuale guardando<br />

a modelli eccellenti<br />

come la Chiesa dell’Autostrada<br />

del Sole<br />

(1960-1964) alle porte<br />

di Firenze di Giovanni<br />

Michelucci o il semisconosciuto complesso<br />

parrocchiale di Santa Maria Riola di<br />

Vergato (1978-1980) su disegno di Alvar Aalto,<br />

non a caso «concepita come risposta alla<br />

richiesta proprio del cardinale Lercaro,<br />

i<br />

2014<br />

La 14esima Biennale<br />

Internazionale di Architettura<br />

si svolgerà a Venezia dal 7<br />

giugno al 23 novembre 2014<br />

ai Giardini e all’Arsenale<br />

(vernice 5 e 6 giugno) nonché<br />

in vari luoghi di Venezia.<br />

Curatore dell’edizione 2014<br />

(titolo «Fundamentals»)<br />

l’olandese Rem Koolhaas.<br />

Quaranta i Paesi<br />

che hanno già annunciato<br />

la loro partecipazione.<br />

La Santa Sede<br />

non ha partecipato<br />

alla prima riunione<br />

con il curatore Koolhaas,<br />

ma la presenza<br />

è data per possibile<br />

Osservatori<br />

Dies Domini-Centro studi<br />

per l’architettura sacra<br />

e la città della Fondazione<br />

Cardinale Giacomo Lercaro<br />

(diretto da Claudia Manenti)<br />

si dedica in particolare<br />

«alla formazione e ricerca<br />

sulle tematiche inerenti<br />

alla relazione<br />

tra spazio sacro e città»<br />

(www.fondazionelercaro.it).<br />

Proprio il cardinale di Bologna<br />

Giacomo Lercaro aveva dato<br />

avvio ai lavori<br />

del primo congresso<br />

di Architettura Sacra<br />

che si tenne a Bologna<br />

il 23 settembre 1955<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

21<br />

all’epoca arcivescovo di Bologna, di una<br />

chiesa, la prima, che fosse architettonicamente<br />

rispondente alla rinnovata liturgia<br />

postconciliare». Questa ritrovata attenzione<br />

verso gli edifici sacri si manifesta ormai<br />

anche in caso di emergenza: «La Diocesi di<br />

Bologna — spiega Manenti — ha seguito i<br />

progetti di cinque chiese nelle zone colpite<br />

dal terremoto del maggio scorso. Appunto<br />

per evitare di tirare su capannoni senza<br />

qualità. Crevalcore, Cento, Renazzo, Sant’Agostino,<br />

Mirabello hanno ora chiese provvisorie,<br />

in legno, ma pur sempre vere chiese;<br />

quando l’emergenza sarà finita potranno<br />

decidere di tenerle o meno».<br />

Ma la relazione tra cultura visiva contemporanea<br />

ed edifici di culto «resta ancora<br />

difficile», almeno per Vittorio Gregotti, «e<br />

investe ormai in modo generalissimo ogni<br />

culto». Sempre secondo Gregotti «le realizzazioni<br />

di alta qualità sono state davvero rare:<br />

dalla Sinagoga di Gerusalemme di<br />

Louis Kahn alla chiesa di Ronchamp di Le<br />

Corbusier, dalla chiesa protestante di Amsterdam<br />

progettata da Aldo van Eyck a quelle<br />

nordiche di Lewerentz sino alle chiese di<br />

Mario Botta; mentre se si volesse risalire all’inizio<br />

del XX secolo, si dovrebbe fare riferimento<br />

agli esempi storici di F. L. Wright,<br />

di Perret e di Schwartz». Allo stesso modo<br />

monsignor Timothy Verdon, statunitense<br />

di nascita, storico dell’arte formatosi a<br />

Yale, da 47 anni in Italia, dove a Firenze dirige<br />

l’Ufficio diocesano dell’Arte sacra e il<br />

Museo dell’Opera del Duomo: «Ci vorranno<br />

almeno due generazioni per recuperare<br />

il tempo perduto, per ritrovare un linguaggio<br />

artistico depotenziato». E se Verdon<br />

boccia certe esperienze come quella della<br />

Dives in Misericordia («Tutto questo gioco<br />

di luce e di spazio è qualcosa di già visto,<br />

niente di originale»), anche lui sembra nutrire<br />

buone speranze dalla «Cura Ravasi»<br />

(e di Benedetto XVI che nel novembre 2009<br />

aveva raccolto artisti e architetti sotto la volta<br />

della Cappella Sistina, tra loro Botta e Calatrava):<br />

«La loro è stata una svolta decisa,<br />

sono ritornati a dare grande importanza alle<br />

chiese come spazi. Stanno cercando prospettive<br />

nuove, con un dinamismo inaspettato».<br />

Per Verdon ci sarà sempre meno spazio<br />

per l’arte che rifà Beato Angelico, per<br />

chiese trionfalistiche «bellissime, ma come<br />

aeroporti» (la Chiesa di Padre Pio a San<br />

Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano,<br />

1994-2004) e per «strutture fin troppo<br />

religiosamente tradizionali» (come quelle<br />

di Mario Botta); ora è necessario «superare<br />

questa grande confusione di fondo, nata<br />

da un’estremizzazione della lezione del<br />

Concilio, che metteva al primo posto la comunità<br />

rispetto allo spazio».<br />

Qualche esempio riuscito di questa nuova<br />

via? Secondo Verdon la Transfiguration<br />

Church di Cape Code (con tanto di affreschi<br />

firmati da Silvestro Pistolesi, magari<br />

potrebbe essere lui uno degli artisti alla<br />

prossima Biennale di Venezia) «perché trovo<br />

belle le sue forme, ma perché trovo bella<br />

soprattutto l’idea di uno spazio interreligioso».<br />

Forse si potrebbe tentare una contaminazione<br />

come quella che, tra pochi<br />

giorni (domenica 17), farà riaprire al pubblico<br />

a Firenze due capolavori del Rinascimento<br />

come la Cappella Rucellai e il Tempietto<br />

del Santo Sepolcro all’interno del<br />

percorso di un’architettura moderna come<br />

il Museo Marino Marini (1988). «Non importa<br />

che l’architetto sia o meno credente,<br />

sia più o meno cattolico. Quello che conta<br />

è che metta il suo talento al servizio della<br />

fede». E poi conclude con una minaccia<br />

scherzosa: «Non a caso il Papa ha voluto incontrare<br />

artisti e architetti sotto il Giudizio<br />

Universale della Cappella Sistina. Perché<br />

ognuno deve sentirsi responsabile di quello<br />

che fa». Chiese comprese.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


22 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Sguardi Le mostre<br />

Riscoperte A Merano le prime trasgressioni dell’artista<br />

Metà degli Anni Settanta, a<br />

Buffalo, sul Lago Erie, vicino<br />

alle Niagara Falls: allo<br />

State University College<br />

una ragazza di venti anni<br />

(o poco più) rifiuta la pittura e si confronta<br />

con la ricerca di New York. Sceglie,<br />

dunque, i corsi di fotografia ma non si<br />

interessa alle tecniche della ripresa e della<br />

stampa e neppure alle arti tradizionali.<br />

Preferendo invece scoprire l’arte concettuale,<br />

la Body Art, gli happening.<br />

Cindy Sherman è questo, e molto altro,<br />

fin dalle origini, indagate per la prima<br />

volta da una bella mostra a Merano<br />

(Cindy Sherman. That’s me-That’s not<br />

me, Galleria Merano Arte, fino al 26 maggio).<br />

Gli anni della formazione fra il 1975 e<br />

il 1977 (Cindy è nata nel 1954) mostrano<br />

subito scelte nette. Scrive Allan Kaprow:<br />

«La linea fra arte e vita deve rimanere<br />

fluida e la più indistinta possibile». Per<br />

questo gli happening, gli eventi che hanno<br />

tanto pesato sulla scena di New York,<br />

sono un passaggio importante, ma Cindy<br />

non vuole quel genere di rappresentazione.<br />

Certo, la Sherman conosce bene il<br />

dibattito di Art & Language, e il problema<br />

dello scarto fra parola, realtà e foto-<br />

i<br />

La retrospettiva<br />

«Cindy Sherman:<br />

That’s me -That’s not me»,<br />

a cura di Gabriele Schor,<br />

Merano,<br />

Galleria Merano Arte,<br />

fino al 26 maggio<br />

(Info Tel. 0473 21 26 43;<br />

www.kunstmeranarte.org),<br />

Catalogo Hatje Cantz<br />

Verlag, tedesco e inglese,<br />

pp. 378, e 58<br />

La collezione<br />

La mostra propone<br />

(per la prima volta in Italia)<br />

cinquanta lavori giovanili<br />

(1975-77) dell’artista<br />

statunitense (1954)<br />

dalla Collezione<br />

Verbund di Vienna.<br />

Tre lavori giovanili<br />

della Sherman sono<br />

esposti (fino al 9 giugno)<br />

al Museo Gucci di Firenze<br />

{<br />

di Paolo Conti<br />

grafia. Come nell’opera di Joseph Kosuth<br />

One and three chairs (1965) con una sedia<br />

fotografata, la sedia reale, la definizione<br />

di sedia nel vocabolario; uno scarto<br />

ben mostrato da Magritte che aveva<br />

scritto sotto l’immagine di una pipa «ceci<br />

n’est pas une pipe».<br />

Praticare arte però vuol dire anche sperimentare<br />

l’ambiguità dei testi e delle immagini.<br />

Nel 1975 finisce, con la caduta di<br />

Saigon, il conflitto in Vietnam, ma la mitologia<br />

americana continua sulle riviste<br />

glamour, nelle pubblicità della moda,<br />

nel consumo delle immagini; sono gli ultimi<br />

anni di Warhol e dei suoi travestimenti;<br />

sono gli anni del Concettuale e di<br />

una ricerca sull’arte come vita (ancora<br />

Kaprow), ma anche del rifiuto dell’arte<br />

da appendere, dell’arte come merce.<br />

Così ecco il problema: rappresentare<br />

per Cindy Sherman vorrà sempre dire<br />

cancellare se stessa, trasformarsi: Senza<br />

titolo (1975) è una lunga sequenza di fotografie<br />

del volto dell’artista che, da studentessa<br />

acqua e sapone, diventa vamp,<br />

il volto cambia fino a essere irriconoscibile.<br />

Un’altra ricerca Air shutter release<br />

fashion (1975) mostra il corpo nudo di<br />

Cindy, senza testa e tagliato appena sopra<br />

le ginocchia, legato da una corda,<br />

«Dobbiamo riappropriarci della nostra<br />

identità, qui c’è un quarto dei beni<br />

archeologici del pianeta», assicura Luca<br />

Zingaretti, candidato alla presidenza<br />

della Regione Lazio. Per Silvio Berlusconi<br />

Cindy, l’infanzia di una star<br />

Le provocazioni giovanili della Sherman in un diario privato tra Magritte e Warhol<br />

Cinquanta lavori che evocano (e superano) i sogni dell’avanguardia newyorkese<br />

di ARTURO CARLO QUINTAVALLE<br />

Beni confusionali<br />

Il nostro patrimonio tutelato dall’Unesco<br />

Composizioni<br />

In alto, a sinistra: Cindy Sherman, «Murder<br />

Mistery» (1976, particolare), composizione<br />

di 255 fotografie in bianco e nero con<br />

figure ritagliate. Sopra, dall’alto: due<br />

immagini da «Bus Riders II» (1976-2000),<br />

serie di 12 fotografie in bianco e nero.<br />

I lavori giovanili della Sherman fanno parte<br />

della Collezione Verbund di Vienna sin dalla<br />

nascita della stessa collezione, nel 2004<br />

(marzo 2011) l’Italia «ha regalato al mondo<br />

il 50 per cento dei beni artistici tutelati<br />

dall’Unesco». L’unica verità? In Italia<br />

si trovano 44 dei 725 siti culturali tutelati<br />

dall’Unesco. Ed è già tantissimo.<br />

omaggio a Marcel Duchamp e a Christo.<br />

«Ho iniziato a lavorare con la fotografia<br />

circa due anni fa, — scrive Cindy nel<br />

1976 — quando ho deciso di usare la<br />

macchina fotografica per esplorare la<br />

mia esperienza di donna. I miei primi<br />

tentativi sono stati col trucco del mio viso<br />

per esprimere caratteri diversi. Questo<br />

crebbe fino a trasformare tutto il mio<br />

corpo così che io potessi rappresentare<br />

un carattere dato».<br />

E qui si inserisce un’altra storia: Cindy<br />

inizia a ritagliare figure, un poco come i<br />

vestiti di carta delle bambole ottocentesche<br />

ma nella miglior tradizione della<br />

Barbie: utilizza vecchi abiti, travestimenti<br />

per trasformarsi, per rappresentare<br />

sempre nuove storie.<br />

Così dopo Doll Clothes del 1975 viene<br />

una serie di immagini di Cindy, ritagliate<br />

e parzialmente sovrapposte come nelle<br />

fotografie del movimento di Eadweard<br />

Muybridge o in quelle, che tanto hanno<br />

pesato sull’arte dai Futuristi a Duchamp,<br />

di Etienne Jules Marey. Ecco allora Series<br />

of paper doll movement (1975), Character<br />

movement series- The giant (1976)<br />

dove la sagoma di Cindy è ritratta in pose<br />

diverse.<br />

E poi, ancora, ecco il teatro e la autoanalisi:<br />

si intitola Play of selves, una recita<br />

«analitica», un complesso racconto<br />

del 1976 dove l’artista moltiplica i travestimenti<br />

e diventa donna angosciata e distrutta,<br />

ma anche donna ideale, donna<br />

giovane e frivola, donna seduttrice, e persino<br />

maschio amante, oppure uomo ideale,<br />

o donna ideale; le foto costruiscono<br />

un racconto seguendo un vero e proprio<br />

copione.<br />

Cindy si propone in molte altre ricerche,<br />

con abili fotomontaggi diventa «cover<br />

girl» per «Cosmopolitan» e per altre<br />

riviste. In Bus riders (1976-2000) espone<br />

per un mese, negli spazi pubblicitari di<br />

un autobus, figure rimpicciolite di viaggiatori<br />

sempre e comunque impersonati<br />

da lei che diventa conducente e vamp,<br />

studente e lavoratore nero: ecco un dialogo<br />

fra persone vere e immagini; si potrebbe<br />

dire, con Magritte, «questo non è<br />

un viaggiatore». La Sherman vuole evocare<br />

così gli happening e la Body Art con<br />

l’idea che il corpo deve farsi altro, deve<br />

rappresentare persone diverse, identificarsi,<br />

perdersi.<br />

Certo, le trame dei racconti di Cindy<br />

sono quelle del romanzo d’appendice ottocentesco<br />

di una lontana Parigi, ma le<br />

fotografie nascono dall’idea dell’arte<br />

moltiplicata dai media di Andy Warhol.<br />

Al tempo stesso, il teatro dei gesti di Cindy<br />

è evento fotografato, suggestione della<br />

maschera, diario in pubblico che vuole<br />

essere antagonista di un universo dominato<br />

dagli uomini. Dunque, ricerca di<br />

identità e, quindi, autoanalisi.<br />

Allestimento<br />

Rigore scientifco<br />

Catalogo<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Sguardi Le mostre<br />

di CARLO BERTELLI<br />

Sono passati cinquant’anni dal libro<br />

con cui Claude Lévi-Strauss<br />

c’introdusse al «pensiero selvaggio».<br />

La copertina dell’edizione<br />

francese recava la fotografia di<br />

una pensèe, una viola del pensiero, naturalmente<br />

selvatica. Era infatti una pensèe<br />

sauvage, emblema delle forme di pensiero<br />

dei selvaggi. Alla bellezza del fiore, il<br />

grande antropologo affidava la sostanza<br />

del libro: «Ero partito per trovare dei selvaggi<br />

e avevo trovato degli uomini». I selvaggi<br />

del Mato Grosso gli avevano rivelato<br />

sistemi di pensiero del tutto simili a<br />

quelli dei popoli più civili.<br />

Nei musei europei, da noi anche in<br />

musei di piccoli centri, le prime sale sono<br />

occupate da reperti di scavo: punte di<br />

frecce, raschiatoi d’osso, amigdale, cioè<br />

pietre a punta acuminata scolpite da altre<br />

pietre più dure. La funzionalità di<br />

questi strumenti certo stupisce, ma presto<br />

ci si rende conto di come i loro creatori<br />

ne affidassero l’efficacia a regole che<br />

non possiamo definire altrimenti che<br />

estetiche (come il principio di simmetria).<br />

La grande mostra appena aperta al<br />

British Museum vuole scandagliare in<br />

profondità le nostre prime impressioni e<br />

indagare nei cervelli degli uomini che 45<br />

MILANO<br />

I disegni (svelati) di Peterzano<br />

Se lo scorso anno il Fondo<br />

Peterzano balzò all’onore delle<br />

cronache per la tentata, e poi<br />

smentita, attribuzione a Caravaggio<br />

di cento disegni conservati nel<br />

Fondo, la mostra offre l’occasione<br />

per conoscere i preziosi fogli di<br />

Simone Peterzano (1540-1596) e<br />

di altri artisti lombardi (sopra:<br />

Giovan Battista Crespi detto il<br />

Cerano, Studio per l’Ultima cena ).<br />

Castello Sforzesco<br />

Fino al 17 marzo<br />

Tel 02 88 46 37 00<br />

i<br />

L’appuntamento<br />

«Ice Age Art:<br />

arrival<br />

of the modern mind»,<br />

a cura di Jill Cook,<br />

Londra, British Museum,<br />

fino al 26 maggio<br />

(Info: Tel.<br />

+44 20 73 23 82 99;<br />

www.britishmuseum.org),<br />

Catalogo The Brithish<br />

Museum Editions,<br />

pp. 250, £ 25<br />

I manufatti<br />

Sopra: un bisonte d’avorio<br />

scolpito 20 mila anni fa<br />

da una zanna di mammuth<br />

trovata a Zaraysk, Russia.<br />

A destra, dall’alto:<br />

Piet Mondrian (1872-1944),<br />

«New York City 1»<br />

(1944, particolare);<br />

Henry Moore (1898-1986),<br />

«Reclining Woman» (1951)<br />

mila anni or sono, ovvero prima dell’ultima<br />

glaciazione, emigrarono dall’Africa,<br />

attraverso il Vicino Oriente, poi la valle<br />

del Danubio, fino ai lidi lontani dove la<br />

terra finisce e comincia l’Oceano.<br />

Con reperti che provengono dalla<br />

Francia, dalla Germania, dalla Russia e<br />

dall’Europa centrale, l’archeologo Jill<br />

Cook ha curato la scelta secondo i criteri<br />

di una mostra d’arte, riunendo gruppi<br />

specializzati nelle varie tecniche e ordinandoli<br />

in percorsi cronologici. L’arte di<br />

modellare la creta e trasformarla col fuoco<br />

in ceramica, fu probabilmente inizialmente<br />

una prerogativa femminile, ma<br />

non fu usata solo per ottenere recipienti,<br />

ma anche per creare piccole statue, come<br />

una, da Brno, qui esposta, forse la<br />

REGGIO EMILIA<br />

La sacralità dei musei<br />

Due sedi, Palazzo San Francesco<br />

e la Galleria Parmeggiani, per la<br />

mostra fotografica di Davide<br />

Pizzigoni (Milano, 1955) che è<br />

dedicata ai custodi dei musei.<br />

Questi luoghi emanano una<br />

sacralità richiamata anche dalla<br />

musicalità del titolo Loropernoi<br />

(sopra: Installazione site-specific<br />

nella Collezione Chierici dei Musei<br />

Civici di Reggio Emilia).<br />

Palazzo San Francesco<br />

Fino al 17 marzo<br />

Tel 0522 45 68 16<br />

{<br />

di Paolo Fallai<br />

Passo falso<br />

Connessioni Un viaggio nella creatività: dalla preistoria all’astrattismo<br />

L’ultima chiamata per i musei del Lazio<br />

In confronto agli Uffizi o ai Capitolini sono<br />

piccoli. Ma nel documento firmato da 50<br />

direttori di musei del Lazio c’è l’orgoglio della<br />

funzione sociale: ricerca, valorizzazione delle<br />

risorse, didattica. Musei vicini alle persone e<br />

Quel bisonte sembra Picasso<br />

Pietre incise, statuette d’avorio, sculture di Henry Moore, tele di Mondrian:<br />

al British Museum l’evoluzione dello stile (e dell’arte) del genere umano<br />

Calendario<br />

VERONA<br />

Incanti al femminile<br />

La Galleria d’Arte Moderna<br />

presenta una selezione di opere<br />

di Angelo Dall’Oca Bianca<br />

(1858-1942). La mostra ha come<br />

protagonista la figura femminile:<br />

dai nudi inediti alle scene di<br />

genere, fino ai gruppi ritratti<br />

davanti a scorci di quella città di<br />

Verona così tanto amata dal<br />

pittore scaligero (sopra: Verona in<br />

un mattino di primavera).<br />

Casa di Giulietta<br />

Fino al 10 marzo<br />

Tel 045 80 01 903<br />

RRR<br />

Percorsi<br />

La funzionalità<br />

degli oggetti primitivi<br />

è il risultato di necessità<br />

anche estetiche<br />

come la simmetria<br />

più antica terracotta del mondo, che raffigura<br />

una donna con grandi seni pendenti<br />

e un ampio bacino. Forse non evocazione<br />

di desideri maschili, ma, se chi<br />

la modellò fu, come non è improbabile,<br />

una donna, simbolo orgoglioso della potenza<br />

creatrice femminile.<br />

Come in una mostra d’arte, la sequenza<br />

cronologica permette di percepire secoli<br />

di costanti cambiamenti. Dovunque,<br />

ma non allo stesso modo, i gruppi umani<br />

furono interessati a creare modelli interpretativi<br />

del mondo, alla ricerca della<br />

sua segreta e incombente magia, e in<br />

questo cammino incontrarono l’armonia<br />

e l’equilibro della forma. Eliminarono<br />

il terrore del mondo con le immagini<br />

di chi lo aveva compreso al punto di crearne<br />

uno parallelo, dal quale ricevere forza,<br />

provocando, con una bellezza creata<br />

dagli uomini, il turbamento che destava<br />

un mondo di cui altrimenti sarebbe sfuggito<br />

il senso.<br />

Un programma perseguito per millenni<br />

fu quello di imitare il mondo per impossessarsene.<br />

Da un osso intagliato 22<br />

mila anni or sono, a Zaraysk, a sud ovest<br />

di Mosca, un bisonte, con i ciuffi del capo<br />

sapientemente incisi, incede con la testa<br />

bassa, il passo lento e grave, mentre<br />

CATANZARO<br />

Cinema & pittura<br />

Il cinema d’artista è protagonista<br />

di un progetto composto da una<br />

mostra, una rassegna<br />

cinematografica più incontri con<br />

gli autori e workshop. Gli spazi del<br />

complesso ospitano un percorso,<br />

dal Futurismo fino all’era digitale,<br />

con opere audiovisive messe a<br />

confronto con fotografie,<br />

installazioni, disegni e dipinti<br />

(sopra: Pino Pascali, Soldatini).<br />

Complesso del San Giovanni<br />

Fino al 3 marzo<br />

Tel 0961 79 25 66<br />

BRUXELLES<br />

Musica d’artista<br />

Quindici quadri (sopra: Quartetto) e<br />

trenta disegni di Antoine Watteau<br />

(1684-1721), ma non solo, per<br />

raccontare la musica (lo stesso<br />

Watteau componeva). Nature<br />

morte con strumenti o scorci di<br />

teatrini d’opera per una mostra che<br />

ha l’ambizione (con il supporto di<br />

una serie di concerti dal vivo e di<br />

una collezione di CD) di celebrare il<br />

legame tra musica e pittura.<br />

Palais des Beaux-Arts<br />

Fino al 12 maggio<br />

Tel +32 2 507 82 00<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

completamente dimenticati, soggetti al<br />

«quasi totale azzeramento delle risorse». Una<br />

richiesta di attenzione che suona come ultima<br />

chiamata per una classe politica distratta.<br />

Il testo su www.museinelterritorio.info.<br />

apre la bocca per muggire. Una figurina<br />

di cervo (realizzata 13 mila anni fa) mostra<br />

invece l’animale che nuota nella corrente,<br />

levando il muso all’altezza dell’acqua,<br />

con le corna indietro.<br />

Questa mostra sarà ricordata come<br />

quella in cui l’antropologia tentò di farsi<br />

storia dell’arte del paleolitico, mentre finora<br />

la cronologia era stabilita più dall’analisi<br />

stratigrafica del terreno che dal<br />

riconoscimento di un’evoluzione stilistica.<br />

L’evoluzione dello stile (abilità manuale,<br />

visione sintetica, aderenza all’impressione<br />

del vero) suppone, tra le facoltà<br />

del primo uomo, un esercizio della<br />

memoria come metodo di progresso. E a<br />

questo punto le domande sono state rivolte<br />

al campo delle neuroscienze, dove<br />

da tempo si conosce il ruolo della corteccia<br />

cerebrale come centrale della memoria,<br />

del linguaggio, della conoscenza. E<br />

poiché tutti i vertebrati possiedono questa<br />

stessa struttura laminare, le ricerche<br />

si sono rivolte a esplorare le manifestazioni<br />

estetiche di altri vertebrati, dalle<br />

scimmie agli elefanti.<br />

Il risultato è stato la dimostrazione<br />

che, per quanto alcuni<br />

scimpanzé abbiano dimostrato<br />

una sensibilità cromatica,<br />

nessun animale<br />

immagina di rappresentare<br />

il mondo come altro da<br />

sé, nessuno l’ha oggettivato<br />

come fece l’uomo di 40<br />

mila anni or sono. All’alba<br />

dell’umanità, l’uomo aveva<br />

già elaborato un sistema<br />

di rapporti col mondo<br />

attraverso il suo possesso<br />

simbolico. Sapeva intuire<br />

somiglianze, come in<br />

quella pietra antropoide<br />

trovata presso il fiume<br />

Dran, in Marocco, conservata in mezzo a<br />

strumenti del Paleolitico, tali da indurre<br />

a chiederci se sia stata semplicemente<br />

scelta per la sua apparenza oppure lavorata.<br />

Ice Art, l’arte che inaugura l’età successiva<br />

all’ultima glaciazione, è quella<br />

dell’approdo della mente moderna: The<br />

arrival of the modern mind (come recita<br />

il sottotitolo della mostra londinese).<br />

E la modernità viene additata, forse<br />

con una certa forzatura didattica e in maniera<br />

troppo approssimativa, cedendo a<br />

un impulso estetico, nell’impatto che le<br />

creazioni primitive ebbero sulla creatività<br />

del secolo scorso, qui ancora sentito<br />

come moderno, a partire da Picasso, mettendo<br />

in mostra gli esempi di Matisse,<br />

Moore, Mondrian. Le loro furono scelte<br />

colte e deliberate, vere corse a ritroso<br />

nei millenni. La mostra racconta invece<br />

l’affacciarsi dell’immagine come strumento<br />

per partecipare alla sacralità aurorale<br />

del mondo.<br />

Allestimento<br />

Rigore scientifico<br />

Catalogo<br />

LA LETTURA 23<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

acuradiCHIARA PAGANI<br />

KLOSTERNEUBURG<br />

Un’opera all’anno<br />

Nella cittadina poco a nord di<br />

Vienna è ospitata l’esposizione di<br />

dipinti e sculture dell'artista<br />

tedesco Georg Baselitz (Kamenz,<br />

1938). Quarantaquattro opere,<br />

una per ogni anno di attività dal<br />

1968 al 2012 (sopra: Wir<br />

besuchen den Rhein II, 1997),<br />

costituiscono un canzoniere di<br />

una vita vissuta tra nazismo,<br />

comunismo e capitalismo.<br />

Collezione Essl<br />

Fino al 20 maggio<br />

Tel +43 2243 370 50 150


24 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Sguardi Il protagonista<br />

Nello studio di Timothy Greenfield-Sanders<br />

Lo specchio dell’America<br />

dal nostro inviato a New York<br />

GIANLUIGI COLIN<br />

Ha fotografato l’orrore della guerra in Iraq<br />

senza mostrare una goccia di sangue. Lo ha<br />

fatto con il candore dello sguardo, ritraendo<br />

un soldato in alta uniforme, non in un<br />

campo di battaglia, ma nel suo studio nel<br />

cuore di New York: fondo bianco, le medaglie al petto.<br />

Il marine è austero, orgoglioso, marziale. Ma senza<br />

gambe. Al loro posto due protesi, bene in vista, contenute<br />

in un paio di scarpe lucidissime, tirate a specchio.<br />

Timothy Greenfield-Sanders è il fotografo dell’America.<br />

Lo è nel suo senso più profondo, nella rappresentazione<br />

più vera, perché è senza artifici retorici e invenzioni<br />

estetiche. Uno sguardo rigoroso, senza sovrastrutture,<br />

apparentemente semplice, ma al contrario è uno<br />

sguardo colto, calibrato, essenziale.<br />

Non è un caso che davanti al suo obbiettivo sia passato<br />

il mondo più influente della politica (presidenti, segretari<br />

di Stato, senatori, First Ladies. Tra l’altro, curioso<br />

a dirsi, anche una giovane Hillary Clinton e Monica<br />

Lewinsky). E poi tutto lo star system che comprende i<br />

più grandi attori e registi (da Orson Welles a Spielberg,<br />

Woody Allen, Nicole Kidman, per citare solo alcuni nomi)<br />

ma anche il mondo della cultura e dell’arte. Ancora<br />

qualche esempio? Allen Ginsberg, Salman Rushdie, Robert<br />

Rauschenberg, Richard Serra, Jeff Koons (che, for-<br />

Fotografa tutti: politici, attori, eroi<br />

«Cominciai facendo irritare Welles»<br />

i<br />

Timothy Greenfield-Sanders<br />

nel suo studio di New York,<br />

accanto alla fotocamera<br />

in legno di grande formato<br />

con cui realizza<br />

i suoi celebri ritratti<br />

dello star system<br />

se era al tempo di Cicciolina, si è fatto ritrarre nudo).<br />

Non è un caso che il suo studio a East Village sia una<br />

piccola cattedrale anglicana, sventrata e trasformata<br />

nel suo personale tempio dell’immagine. Il sole entra<br />

dalle vetrate gotiche e illumina lo studio/casa dando<br />

allo spazio una dimensione mistica. All’entrata,<br />

un paio di dipinti di vecchi amici:<br />

Francesco Clemente e Peter Halley. Timothy<br />

Greenfield-Sanders è nato a Miami,<br />

nel 1952. A 18 anni studia alla Columbia.<br />

Poi, la passione per la fotografia. Ora è lui<br />

stesso una star. Come sempre, è vestito di<br />

nero, impeccabile nella sua semplicità che<br />

corrisponde a una naturale cortesia e delicatezza.<br />

Se c’è un tratto che definisce il modo di<br />

ritrarre di Greenfield-Sanders è proprio la<br />

delicatezza, anzi, il rispetto dello sguardo. Il<br />

suo modo di fotografare è molto lontano da quello di<br />

chi ha fatto, ad esempio, la foto per la copertina di un<br />

vecchio numero del «Time», abbandonato su un tavolo<br />

dello studio. Sulla cover, il volto di Mitt Romney fotografato<br />

dal tedesco Martin Schoeller: un esasperato close<br />

up: il viso appare quasi deformato, si vedono i pori<br />

della pelle. Lo stile di Schoeller colpisce, è a tratti impie-<br />

Qui accanto: il ritratto di Orson Welles<br />

realizzato da Timothy<br />

Greenfield-Sanders nel 1979. Al centro,<br />

dall’alto in basso: Michelle Obama,<br />

Isabella Rossellini e il presidente Bush<br />

in una foto per «Vanity Fair».<br />

In alto a destra: uno dei celebri scatti<br />

dedicati ai soldati della guerra in Iraq<br />

in cui ha messo insieme l’orgoglio<br />

americano e la violenza del conflitto.<br />

Sotto: il fotografo con Lou Reed, uno<br />

dei tanti artisti con cui è in amicizia<br />

toso, volutamente asettico, quasi a sconfinare in uno<br />

scandaglio dermatologico. «Non amo questo modo di<br />

raccontare le persone, trovo inutile la necessità di spettacolarizzare<br />

ed esasperare l’estetica del ritratto. Non<br />

c’è rispetto per chi si fotografa. È quasi intenzionale<br />

mettere le persone a disagio. La mia scelta è sempre<br />

quella di cogliere il positivo di una persona».<br />

Probabilmente anche per questa sua visione etica, Timothy<br />

è entrato nel gotha dei ritrattisti di fama internazionale:<br />

amico di Clinton, ha fotografato più volte Obama<br />

ed è sua l’immagine di copertina di un recente libro<br />

dedicato a Michelle. «Se vogliamo parlare di immagi-


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

ne, Obama ha avuto un ruolo importante per quanto<br />

riguarda il tema del razzismo. Lo stesso vale anche per<br />

un personaggio come Oprah. Negli Stati Uniti ci sono<br />

molte persone di colore, eppure questo è un Paese ancora<br />

molto razzista. La gente ha paura degli stranieri. E<br />

poi, con Obama c’è stato un cambiamento concreto. La<br />

gente dimentica che l’economia era terribile nel 2008.<br />

C’era una depressione simile a quella del 1929. Obama<br />

ha fatto un lavoro importante. Ho sempre creduto che i<br />

politici siano come le stelle del cinema, ma non sono<br />

così belli. Sono famosi, hanno il potere e soprattutto<br />

hanno una grande opinione di sé stessi. I politici sono<br />

le sole celebrità che la gente comune vuole incontrare.<br />

Fotografare i politici è come fotografare gli attori o le<br />

star. I politici conoscono perfettamente il lato migliore<br />

del loro volto, capiscono che essere fotografati consolida<br />

fama e potere. Proprio come gli attori. Ricordo le<br />

riprese con Michelle Obama. E venuta giù nel mio studio<br />

nell’East Village. Ci siamo seduti in cucina, abbiamo<br />

preso un tè e discusso il fatto che anche mia moglie<br />

è un avvocato. Poi abbiamo continuato i nostri discorsi<br />

in sala trucco per un’altra ora, abbiamo discusso delle<br />

sue bambine e di cosa significava essere la moglie di un<br />

senatore. Questo succedeva nel 2006. Suo marito, Barack<br />

Obama, era ancora uno sconosciuto senatore dell’Illinois.<br />

Michelle Obama allora non aveva fatto molti<br />

servizi fotografici, sul set era naturale, elegante e con<br />

molto stile. Lei è molto alta e magra... e, soprattutto, la<br />

macchina fotografica la ama».<br />

Timothy sorride e continua: «Pochi anni dopo, quando<br />

era la First Lady, l’ho vista alla festa per il centenario<br />

del "Time". Ha subito detto: "Timothy, mi ricordo il nostro<br />

meraviglioso incontro fotografico nell’East Village.<br />

A cosa stai lavorando ora?". I migliori politici hanno<br />

grande memoria».<br />

Nel 2004 Greenfield-Sanders fotografa alla Casa Bianca<br />

George Bush: «È stato un incontro interessante. Era<br />

in corsa per la rielezione. Mi piaceva la sua politica e<br />

volevo ottenere una foto che avesse un significato, che<br />

lo raccontasse. La rivista voleva un’immagine divertente.<br />

Ma Bush non è mai uscito dal personaggio. Un sorriso<br />

perfetto per tutto il tempo. Un vero professionista».<br />

Già, sul valore della rappresentazione e dell’uso dell’immagine<br />

Timothy la sa lunga. Fotografo istituzionale<br />

di «Vanity Fair», vive una poliedrica dimensione creativa:<br />

oltre a essere tra le voci piu riconosciute della fotografia<br />

americana è anche un regista con all’attivo cinque<br />

film, uno di questi premiato con il Grammy. E alla<br />

domanda se si sente più fotografo o regista risponde<br />

sorridendo, elencando percentuali precise: «Mi sento<br />

per il 40% regista e per 60% fotografo. Prima ero 0% regista<br />

e quindi andiamo per quella strada… Sto migliorando<br />

con la percentuale!».<br />

Timothy è autoironico, sorride, si muove nella casa<br />

con passi leggeri, parla quasi sottovoce, improvvisamente<br />

dice: «Andiamo giù nello studio?». Scesi alcuni<br />

scalini, si entra in uno spazio fuori dal tempo. Un’enorme<br />

macchina fotografica di legno, con lastre 20x25, accoglie<br />

il visitatore. Sembra di essere in uno studio di un<br />

fotografo degli anni Trenta. La luce viene da un ampio<br />

RRR<br />

Feste d’artista<br />

«Non è mai stato facile fare l’artista<br />

a New York: la sfida resta sempre<br />

il denaro. Devi incontrare persone,<br />

avere curiosità. E fare una cosa<br />

soprattutto: andare alle feste»<br />

La Canestra dell’Ambrosiana<br />

Le vere misure del Caravaggio<br />

di GIOVANNA POLETTI<br />

Strano ma vero. Le misure esatte di una<br />

delle opere più note di Caravaggio sono<br />

confermate solo ora in un piccolo intenso<br />

saggio che Alessandro Morandotti dedica alla<br />

Canestra dell’Ambrosiana, la natura morta che<br />

tutti i musei del mondo ci invidiano (Caravaggio e<br />

Milano, Scalpendi, pp. 80, €15). Una bibliografia<br />

secolare e centinaia di citazioni non erano mai<br />

arrivate a mettere in chiaro un elemento<br />

fondamentale che oggi ci porta ben oltre lo<br />

sconcerto per la reiterazione di un banale errore<br />

o il plauso per la restituzione dell’identità fisica<br />

di un capolavoro. Il fatto che questa tela, dipinta<br />

probabilmente a Roma alla fine del Cinquecento,<br />

non misuri cm 31x47, bensì cm 47x62, impone<br />

infatti una rilettura dell’opera stessa. Si tratta di<br />

pochi centimetri che aiutano a ribadire<br />

l’innovazione artistica del Merisi. La Canestra,<br />

che già nel 1607 si trovava nella raccolta di<br />

Federico Borromeo, si distacca infatti dagli altri<br />

eccellenti esempi di fiori e frutta da lui<br />

» Una «Blacklist»<br />

contro il razzismo<br />

L’ultima ricerca di Timothy<br />

Greenfield-Sanders<br />

(Miami, 1952) è dedicata<br />

a combattere il razzismo.<br />

Attualmente, la National<br />

Portrait Gallery<br />

di Washington espone il suo<br />

nuovo lavoro, dal titolo<br />

provocatorio, «Blacklist».<br />

Una «lista nera» nella quale<br />

ritrae i protagonisti<br />

di colore più influenti<br />

della società americana<br />

attraverso cinquanta<br />

immagini e videointerviste<br />

collezionati, proprio per le dimensioni. Se<br />

Ambrogio Figino, Fede Galizia o Brueghel dei<br />

Velluti dipingevano tavolette o smaltati rami con<br />

nature morte da Wunderkammer, sospese tra<br />

eden e testi di botanica, Caravaggio stupiva<br />

l’occhio con una fiscella quasi tridimensionale.<br />

Utilizzando un’emozionante scala di proporzione<br />

1:1, unita a un sapiente gioco di luci e ombre,<br />

era riuscito a riprodurre sulla tela della frutta più<br />

vera del vero. E così, grazie al pungente realismo<br />

di qualche fico maturo, di due grappoli di uva<br />

sporca, una mela bacata, una turgida cotogna,<br />

una foglia malata e una goccia di rugiada, il<br />

miracolo era fatto. Non è dunque un caso se<br />

Maria Cristina Terzaghi, che ha ritrovato un<br />

inventario del 1661, ci fa scoprire che un tempo<br />

la Canestra non era esposta ad altezza occhio<br />

ma più in basso, appoggiata a un tavolo. Anche<br />

senza misure esatte, non sfuggiva che un<br />

corretto cannocchiale prospettico accentuava il<br />

sorprendente effetto trompe-l’oeil cercato dal<br />

maestro.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA 25<br />

lucernaio. Ma Greenfield-Sanders solitamente chiude<br />

la luce, preferisce una sola lampada, laterale, sempre la<br />

stessa, sempre a destra.<br />

In fondo, l’uso della tradizionale pellicola, della qualità<br />

del grande formato e la ripetizione di un modello<br />

stilistico, afferma un modo di vedere, impone una meditazione<br />

che è anche una chiave per raccontare, tutela<br />

di un linguaggio. Il modo di vedere di Timothy Greenfield-Sanders<br />

è simbolicamente racchiuso in questo<br />

spazio, insieme antico e super contemporaneo. Da una<br />

parte il banco ottico di legno con grandi lastre, dall’altra,<br />

davanti all’obiettivo, la superstar di Hollywood. Tecnologie<br />

che alcuni ritengono passate in contrasto con i<br />

personaggi più alla moda. Forse per questo, qui ci si<br />

sente rassicurati. Attorno, libri, scatole di negativi, un<br />

archivio infinito che è memoria di un Paese.<br />

«Un segreto? Non saprei; certo,<br />

quando qualcuno arriva alla porta,<br />

e dice "ciao, come stai?" mi basta<br />

per farmi un’idea di chi sia quella<br />

persona. Quando poi quella persona<br />

è davanti alla macchina fotografica…<br />

tutto si svela naturalmente.<br />

Capisco le insicurezze, oppure la<br />

tranquillità. Un buon fotografo deve<br />

subito creare un rapporto empatico,<br />

entrare in sintonia emotiva.<br />

Capire, soprattutto chi hai di fronte.<br />

Per esempio, molti anni fa ho fotografato<br />

Orson Welles. Ero molto<br />

giovane e molto entusiasta. Quando il regista arrivò al<br />

set fotografico, io gli chiesi quale tra i suoi film fosse il<br />

suo preferito. Non rimase contento della mia domanda<br />

e si indispettì. Fu proprio stupido da parte mia. Avrei<br />

dovuto capire quali erano le sue necessità al momento,<br />

se voleva una tazza di tè o se si voleva accomodare. Un<br />

buon fotografo deve essere attento e allineato al suo interlocutore.<br />

Deve essere presente. Quell’esperienza è<br />

stata un’ottima lezione!».<br />

Il mondo è passato davanti allo sguardo di Timothy<br />

Greenfield-Sanders. Ma quali sono le differenze tra fotografare<br />

uno scrittore, un artista e un’attrice? «Per l’attrice<br />

la cosa più importante è essere giovane, per la modella<br />

è essere bella e per l’artista non si tratta né di immagine<br />

né di corpo. Oggi con Photoshop è facile lavorare<br />

sulle foto. C’è sempre una grande differenza tra la<br />

realtà e il risultato finale. Nessuno appare nelle foto com’è<br />

nella realtà. Questo crea grande insicurezza. È più<br />

difficile in generale quando fotografo qualcuno che<br />

non è più tanto giovane. L’immagine nella mente di<br />

ognuno è di quando si è giovani, ma la realtà è diversa».<br />

Timothy è lui stesso una star. Conosce bene i meccanismi<br />

del sistema mediatico e l’impatto sulle coscienze<br />

del potere dell’immagine: «Aveva ragione Warhol: tutti<br />

cercano la fama per almeno 15 minuti. In questo è devastante<br />

l’impatto degli show televisivi e di alcuni messaggi<br />

della moda». Ma per chi ha vissuto la grande stagione<br />

dell’arte degli anni 70, come è cambiata New York e<br />

come sono cambiati gli artisti? Timothy scuote la testa:<br />

«Non è semplice vivere a New York ed è molto più difficile<br />

oggi che nel passato. E ancora di più per un artista.<br />

La sfida resta sempre il denaro. Solo 20 artisti dei miei<br />

tempi ce l’hanno fatta. Ci vuole una grande motivazione.<br />

Forse, il segreto è questo: una grandissima motivazione.<br />

E poi avere curiosità, bisogna incontrare persone,<br />

devi creare le tue opportunità. Se sei un artista devi<br />

vedere le cose».<br />

Poi, Timothy Greenfield-Sanders si guarda intorno e<br />

ridendo dice: «Sì, se vuoi avere successo a New York<br />

devi fare soprattutto una cosa: andare alle feste!».<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


26 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Percorsi (<br />

Storie, date, biografie, reportage, inchieste<br />

Graphic novel<br />

di Michele Petrucci<br />

L’autore<br />

Michele Petrucci è nato nel 1973 nelle Marche.<br />

Come autore unico ha pubblicato «Keires»,<br />

«Sali d’argento» (Innocent Victim), tradotti<br />

anche in Francia e Usa, «Numeri» (Magic<br />

Press), «Metauro», «Il brigante Grossi...»<br />

(Tunué) e «A caccia di rane» (Topipittori). Ha<br />

anche disegnato «Il vangelo del coyote»<br />

(Guanda) e la trilogia «FactorY» (Fernandel).<br />

L’ultimo<br />

gladiatore


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

RRR<br />

I combattimenti dei gladiatori vennero proibiti da Onorio<br />

all’inizio del quinto secolo ma furono ancora praticati in<br />

semi-clandestinità. Pardus, in cerca di ingaggi, vaga<br />

assieme al suo cane molosso in un clima di decadenza: i<br />

barbari sono alle porte dell’Impero, Roma è al tramonto<br />

27


28 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Percorsi La biografia/1<br />

Non si era più visto un uomo bianco da quasi<br />

quattro secoli, a Timbuctù, quel 13 agosto del<br />

1826, quando arrivò, alla testa di una piccola<br />

carovana di cinque cammelli, lo scozzese<br />

Alexander Gordon Laing. Giovane, biondo,<br />

esausto, ferito in un attacco dei Tuareg lungo la strada, ma<br />

felice: aveva vinto la corsa del secolo. Dalla metà del ’400,<br />

cioè dai tempi del cronista viaggiatore fiorentino Benedetto<br />

Dei, Laing era il primo europeo a raggiungere «la capitale<br />

dell’oro» africana, la città perduta di cui tutti parlavano,<br />

in Occidente, e che nessuno aveva visto, così da far dubitare<br />

a molti perfino della sua esistenza. In tredici logoranti<br />

mesi, l’irriducibile esploratore aveva attraversato il Sahara<br />

da nord a sud, aprendo una rotta inedita; aveva preceduto<br />

i francesi, ma anche agguerriti connazionali, come Hugh<br />

Clapperton, lo scopritore del lago Ciad, scatenati dal governo<br />

di Londra per avere più «cavalli» sui quali puntare nell’affannata<br />

competizione con Parigi. Più possibilità che<br />

qualcuno fra loro sopravvivesse alla febbre, alla dissenteria,<br />

agli agguati dei guerrieri indigeni, ai tradimenti degli<br />

infidi uomini di scorta.<br />

Davanti agli occhi del bell’ufficiale britannico si schiudevano<br />

finalmente i segreti meglio conservati del continente<br />

nero: probabilmente Timbuctù non si rive-<br />

lò proprio quello scrigno di incalcolabili<br />

ricchezze decantato dalle leggende nei secoli<br />

precedenti, ma non deluse l’ambizioso<br />

Laing che la trovò «rispondente alle sue attese,<br />

in tutto fuorché nelle dimensioni».<br />

Era arrivato, e lo sapeva, al cuore della più<br />

fornita, enciclopedica «biblioteca di sab-<br />

{<br />

Madchester, capitale del rock<br />

Laing la scoprì nel 1826. Non tornò mai indietro<br />

Ho visto l’oro di Timbuctù<br />

di ELISABETTA ROSASPINA<br />

RRR<br />

L’esploratore<br />

Attraversò<br />

il Sahara in tredici<br />

mesi: nessun<br />

bianco ci metteva<br />

piede da quattro<br />

secoli. Ora la<br />

guerra ha di nuovo<br />

ferito l’«Atlantide<br />

dell’Africa»<br />

Esploratori<br />

di Matteo Cruccu<br />

Da sinistra: un ritratto di<br />

Alexander Gordon Laing,<br />

scozzese di Edimburgo, nato<br />

il 27 dicembre 1793 e morto<br />

verosimilmente il 26<br />

settembre 1826; un ritratto<br />

di Hugh Clapperton,<br />

scopritore del lago Ciad, nato<br />

il 18 maggio 1788 e morto il<br />

13 aprile 1827; una cartolina<br />

comprata all’asta su eBay<br />

per 4,50 euro con la<br />

raffigurazione della<br />

residenza di Timbuctù di<br />

Laing; un ritratto di Mungo<br />

Park (1771-1806): al suo<br />

nome è dedicata la Mungo<br />

Park Medal, una onorificenza<br />

istituita dalla Royal Scottish<br />

Geographical Society negli<br />

anni Trenta e riservata a chi<br />

apporta significativi<br />

contributi alle conoscenze<br />

geografiche del pianeta<br />

Solchi<br />

Se nei 60 e 70 le capitali del rock britannico<br />

sono state Liverpool e Londra, i due decenni<br />

successivi se li è presi Manchester. Anzi<br />

Madchester, la folle (mad), come venne<br />

chiamata allora. Nel volume «Manchester<br />

bia» al mondo: una miniera non di oro o diamanti, ma di<br />

centinaia di migliaia di manoscritti arabo-islamici, risalenti<br />

fino al XIII secolo. E, già allora, esposti alle razzie e alle<br />

devastazioni che hanno rischiato di disperderli per sempre,<br />

l’ultima volta, poche settimane fa.<br />

Laing guardava avanti, e sperava soprattutto di aver trovato<br />

la porta d’accesso alla scoperta che avrebbe consegnato<br />

il suo nome alla Storia: l’introvabile foce del fiume Niger.<br />

Quel delta misterioso che nemmeno il pioniere Mungo<br />

Park era riuscito a scovare, nonostante l’alto prezzo di<br />

uomini e mezzi immolati nella ricerca attraverso l’Africa<br />

occidentale.<br />

Timbuctù. Mai gloriarsi di aver conquistato Timbuctù.<br />

Affascinante e feroce, come un fiore carnivoro, non avrebbe<br />

permesso facilmente a un forestiero di tornare indietro<br />

a vantarsi d’averla espugnata. Tantomeno a un cristiano.<br />

Tantomeno a un europeo. Ma il bando di concorso aperto<br />

dalla Società geografica di Parigi era categorico: per assicurarsi<br />

il premio di 10 mila franchi e legare indissolubilmente<br />

la propria fama all’atlantide africana occorreva un dettagliato<br />

resoconto del viaggio. Insomma, occorreva uscirne<br />

vivi, per poter descrivere agli accademici compatrioti il<br />

porto fluviale da cui sgorgavano i tesori esportati dai Berberi<br />

e che aveva incantato il geografo arabo<br />

Leone l’Africano, nel XVI secolo.<br />

Analoga condizione aveva posto Hanmer<br />

Warrington, console britannico a Tripoli,<br />

Libia, nel luglio del 1825, quando il<br />

giovane maggiore scozzese era diventato,<br />

sulla carta, suo genero. Era stato lo stesso,<br />

potente diplomatico a celebrare le nozze<br />

1977-1996» del giornalista John Robb, in<br />

uscita il 14 febbraio per Odoya, sfilano<br />

protagonisti, luoghi e suoni (dai Joy Division<br />

agli Oasis, dalla house al leggendario club<br />

Hacienda) che hanno segnato un’epoca.<br />

Il maggiore scozzese<br />

verso la perla del deserto<br />

della figlia Emma, che Alexander aveva conosciuto durante<br />

i sei mesi di preparativi della sua spedizione all’altro capo<br />

del deserto. Fu vero amore, immediato e travolgente.<br />

Ma era destinato a rimanere platonico — stabilì il console,<br />

inesorabile — fino al rientro del maggiore Laing dalla sua<br />

missione, che iniziò appena 48 ore dopo le nozze e sarebbe<br />

durata almeno un anno. Scriveva regolarmente al suocero,<br />

riservando sempre qualche riga per Emma, e affidava<br />

le sue missive a ogni possibile messaggero che si accingesse<br />

ad attraversare il Sahara verso Tripoli. Quelle lettere sono<br />

l’unica testimonianza della sua impresa. Perché del suo<br />

diario, dei suoi schizzi, delle notizie raccolte per quello<br />

che sarebbe stato un bestseller al suo ritorno a Londra,<br />

non esiste più traccia.<br />

Il 26 settembre del 1826, a poco più di un mese dal suo<br />

ingresso a Timbuctù, il valoroso scozzese, carico di appunti,<br />

era certamente sulla via del ritorno, in fuga dalla minaccia<br />

che gli alitava sul collo: Sheku Hamadu Lobbo, sanguinario<br />

jihadista del tempo. Lo sceicco, che controllava la<br />

regione dal Volta Nero (ora nel Burkina Faso) fino a<br />

Timbuctù, voleva morto l’impudente «europeo» prima<br />

che riguadagnasse Tripoli. Prima che tornasse tra i suoi<br />

simili a raccontare ciò che aveva visto, invogliando altri<br />

«infedeli» a seguirne le orme e a contaminare le terre musulmane.<br />

«Non ho tempo ora di riferirvi di Timbuctù —<br />

scrisse Laing nella sua ultima epistola, datata 21 settembre<br />

1826, annunciando il suo precipitoso rientro — ma posso<br />

affermare che sotto ogni aspetto, eccetto la misura (che<br />

non eccede le quattro miglia di circonferenza) ha completamente<br />

incontrato le mie aspettative». E alimentava quelle<br />

del suo corrispondente: «Sono stato occupato durante<br />

la mia permanenza a cercare documenti nella città, che sono<br />

abbondanti, e nell’acquisire informazioni di ogni genere».<br />

La sua perseveranza, concludeva, era stata premiata.<br />

Le sue convinzioni sul corso del Niger ne uscivano rafforzate.<br />

Ma si rammaricava di aver trascurato la sua sposa, in<br />

quelle settimane: «La mia adorata Emma deve scusarmi:<br />

ho iniziato centinaia di lettere per lei, ma non sono stato<br />

in grado di finirne una sola. È sempre in cima ai miei pensieri<br />

e non vedo l’ora, con delizia, del nostro incontro che,<br />

a Dio piacendo, non è ormai molto lontano».<br />

Sgozzato, strangolato, accoltellato nel sonno: nessuno<br />

saprà mai come morì Alexander Gordon Laing. Ma fu probabilmente<br />

in una notte di fine settembre che Emma Warrington<br />

divenne vedova prima di essere stata moglie. Ignara,<br />

il 10 novembre successivo, scriveva ancora al marito appassionate<br />

pagine d’amore che lui non avrebbe mai letto.<br />

E quando le giunse l’ultimo manoscritto di Laing, i resti<br />

dello sfortunato maggiore erano già sepolti da un pezzo.<br />

Forse proprio sotto l’albero del villaggio di Sahab, 50 chilometri<br />

a nord di Timbuctù, dove nel 1910, l’esploratore Albert<br />

Bonnel de Mézières, su indicazione di un arabo ottuagenario,<br />

trovò effettivamente due scheletri. Appartenevano<br />

davvero a Gordon Laing e a uno dei suoi servitori? Non<br />

fu mai appurato.<br />

La ricostruzione fatta quasi un secolo dopo contrastava<br />

con le testimonianze coeve e con le informazioni raccolte<br />

sul posto, 19 mesi dopo la scomparsa del maggiore, dal<br />

francese Auguste René Caillé, che riuscì rocambolescamente<br />

ad andare e tornare da Timbuctù, sotto mentite spoglie<br />

musulmane, assicurandosi la ricca ricompensa di Parigi<br />

e la gloria. I britannici mal digerirono la sconfitta e sospettarono<br />

il barone Joseph-Louis Rousseau, potente console<br />

francese a Tripoli, di aver complottato contro Laing, e<br />

di essersi addirittura impossessato delle carte e dei libri<br />

trafugati dagli assassini. Ne seguirono anni di accuse e di<br />

indagini, ma la «perla del deserto» era ormai destinata ai<br />

francesi, il cui esercito sarebbe entrato a Timbuctù, per la<br />

prima volta, nel 1892, pur pagando agli avi degli attuali<br />

Tuareg un enorme tributo di sangue.<br />

Ed Emma Warrington? Convinta dal padre a risposarsi<br />

con il vice console britannico a Bengasi, seguì il nuovo marito<br />

in Italia e morì a Pisa sei mesi più tardi, il 2 ottobre<br />

1829. Assieme alla speranza di ricevere un’altra lettera del<br />

maggiore Laing.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Percorsi La biografia/2<br />

Giulia Cremaschi Trovesi: il corpo è musica<br />

Insegno Beethoven ai sordi<br />

di PAOLA D’AMICO<br />

Francesco ha una diagnosi di autismo, s’è diplomato<br />

a pieni voti in pianoforte. La sua esecuzione<br />

del Concerto italiano di Bach è perfetta. Anche<br />

Nicola è autistico e suona il piano e il sax.<br />

Ha le unghie consumate, perché quando non<br />

suona si tormenta le mani, che non stanno mai ferme,<br />

come un torrente in piena di emozioni inesprimibili.<br />

Giulia Mazza ha 25 anni, una laurea in biologia, è sorda<br />

bilaterale profonda e suona Schubert, Bach e Shostakovich<br />

al violoncello: rivedere cento volte il video di uno dei<br />

suoi concerti in teatro è emozionante e disarmante. L’accompagna<br />

al piano Giulia Cremaschi Trovesi, la musicoterapeuta<br />

che la segue da quando aveva 3 anni. «Come<br />

fa? Questo è il grande mistero. Non mi sono ancora abituata<br />

ai miracoli. Non cerchiamo di entrare nella testa di<br />

un altro», sdrammatizza. «Qui — aggiunge — c’è stata<br />

una mamma fantastica che ha creduto in quello che le<br />

spiegavo e cioè che la musica è dentro l’uomo, il grembo<br />

materno è la prima orchestra, il luogo dove non esiste<br />

un solo attimo di silenzio, dove la musica è pulsazione,<br />

respiro, voce».<br />

Per entrare nel mondo di Giulia Cremaschi Trovesi occorre<br />

fare tabula rasa, abbandonare stereotipi, luoghi<br />

comuni, pregiudizi e tecnicismi. La chiave di lettura che<br />

lei offre sembra semplice: «La musica è dentro di noi.<br />

Siamo corpo vibrante. Senti il tuo corpo, il respiro, la voce,<br />

ascoltati... La soluzione è dentro di te».<br />

La musicoterapeuta che insegna a suonare Beethoven<br />

a sordi e autistici, che fa cantare e danzare i ragazzi<br />

Down, che guarda con scetticismo alle diagnosi frettolose<br />

di «deficit d’attenzione e iperattività», spiazza così i<br />

suoi ospiti — grandi e piccini, per lei sono tutti uguali.<br />

Ripete: «La musica è per tutti, è un linguaggio universale».<br />

Ha 70 anni, due occhi celesti e magnetici, capelli biondo<br />

cenere mai tinti, è energica e paziente. Insegna da<br />

quando di anni ne aveva venti. Vive con i figli e i nipoti<br />

nella grande casa di famiglia in cima a un colle, a Rosciano,<br />

frazione di Ponteranica a ridosso di Bergamo, in Val<br />

Brembana. «Non insegno nulla, hanno già tutto, la musica,<br />

il ritmo. Un bimbo piccolo è già capace, io gli do soltanto<br />

l’occasione per mostrarlo».<br />

Il suo incontro con la musica è avvenuto quando aveva<br />

cinque anni. «Papà capì e mi portò da una suorina<br />

delle Canossiane, Emilia, che usava il linguaggio del corpo.<br />

Un giorno disse che ero veloce a imparare e mi dovevano<br />

cercare un altro insegnante». Gli studi, i diplomi,<br />

l’insegnamento alle scuole magistrali. Fino all’incontro<br />

con il primo bimbo autistico: «Me lo affidarono nel<br />

1975, il figlio di un collega. Dopo qualche tempo ho lascia-<br />

Dischi rotti<br />

di Andrea Laffranchi<br />

{<br />

Con questo streaming sopravvivono solo i big<br />

Con Deezer e Spotify (al debutto a Sanremo)<br />

i servizi di streaming musicale arrivano anche<br />

in Italia. Felici i consumatori, che si ritrovano<br />

20 milioni di canzoni a disposizione. E gli<br />

artisti? Negli Usa il modello di business prevede<br />

L’album<br />

In alto: una sequenza<br />

con Nicola, ragazzo autistico,<br />

che si esibisce durante un<br />

concerto. Sotto: Giulia Mazza,<br />

25 anni, sorda bilaterale<br />

profonda, mentre suona<br />

il violoncello accompagnata<br />

da Giulia Cremaschi Trovesi.<br />

Qui sopra: la professoressa<br />

nel suo studio di Rosciano<br />

(comune di Ponteranica,<br />

provincia di Bergamo).<br />

A sinistra: una foto<br />

con i tre figli e i sette nipoti<br />

e, più in basso, la<br />

musicoterapeuta durante<br />

l’udienza con Giovanni Paolo<br />

II (Servizio fotografico<br />

di Nicola Vaglia)<br />

Guarda il video<br />

di Giulia Mazza su<br />

corriere.it/lettura<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA 29<br />

0,4-0,7 centesimi di royalties ogni volta che<br />

una canzone viene ascoltata, cioè dai 4 ai 7<br />

mila dollari per milione. Con questi numeri<br />

sopravvivono solo i superbig, solo se il mercato<br />

si allarga il sistema può diventare sostenibile.<br />

La vita con i ragazzi<br />

della prof di Bergamo<br />

to la scuola per dedicarmi soltanto a questo nuovo lavoro».<br />

Nel suo ufficio austero c’è ancora il profumo della polenta<br />

che ha cucinato sulla stufa per i nipotini il giorno<br />

prima. Giulia siede alla scrivania come sul ponte di comando<br />

di una nave: tre piccoli televisori sono appesi sopra<br />

il grande desktop del computer, con la foto di famiglia<br />

a fare da sfondo. Sugli schermi scorrono le immagini<br />

dei suoi ragazzi in concerto. «Il mio lavoro è questo: capire<br />

da un dettaglio quante potenzialità ci sono in un bambino».<br />

L’incontro dei più piccoli con la magia dei suoni<br />

avviene in una stanza rivestita in legno, come la cassa armonica<br />

di uno strumento musicale: si muovono, gattonano,<br />

giocano, battono i piedi e lei li segue accompagnando<br />

ogni loro gesto con un suono. Non sono loro a dover<br />

seguire suoni e ritmi imposti. Giulia siede al piano: «Gioco<br />

con la tastiera, la uso con i bambini come fosse la buca<br />

della sabbia». In ogni gesto, movimento, azione, intonazione<br />

della voce, c’è già un ritmo, un tempo, una musica,<br />

spiega, così come i tratti del volto esprimono un’emozione.<br />

«Improvvisare alla tastiera per rispecchiare tutto<br />

questo vuol dire saper leggere (non certo interpretare) e<br />

dare voce alle note scritte nella e sulla persona».<br />

È una strada che non conosciamo, faticosa, quella intrapresa<br />

da Giulia. Quando incontrò in udienza Papa<br />

Wojtyla gli chiese: «Perché tanta fatica?». «Le cose difficili<br />

— rispose Giovanni Paolo II — fanno sempre fatica ad<br />

imporsi». Ha pubblicato libri (l’ultimo, Il grembo materno.<br />

La prima orchestra), tenuto insieme nella Federazione<br />

italiana musicoterapeuti (www.musicoterapia.it) coloro<br />

che lavorano con i suoni per riabilitare patologie molto<br />

gravi (autismo) e i casi di plurihandicap (lesioni cerebrali,<br />

sordocecità, esiti da nascite premature). Eppure, la<br />

fatica di andare controcorrente non ha mai scalfito il suo<br />

ottimismo: «Perché non dovrei essere ottimista?».<br />

Citando la filosofa e religiosa tedesca Edith Stein e i<br />

suoi studi sull’empatia ci invita a immaginare di essere<br />

«partiture viventi». Il corpo parla di noi stessi a nostra<br />

insaputa. Ecco spiegato il «miracolo» della violoncellista<br />

non udente. Noi viviamo con il nostro corpo, «non sentiamo<br />

solo con le orecchie, c’è la risonanza che investe il<br />

corpo ed è fonte di emozioni, ma di solito il corpo viene<br />

soffocato dall’educazione ricevuta a tavolino». Educazione<br />

dei tempi moderni, poco inclini ad aprirsi a una strada<br />

che impone la fatica di tornare alle radici della musica.<br />

«Non ho inventato niente. Il veronese padre Antonio<br />

Provolo, due secoli orsono, faceva già cantare in coro i<br />

RRR<br />

La premessa teorica<br />

La melodia è già dentro l’uomo,<br />

il grembo materno è la prima<br />

orchestra, il luogo dove non esiste<br />

un solo attimo di silenzio, dove il<br />

suono è pulsazione, respiro, voce<br />

sordi nell’istituto che aveva fondato per loro. Vuoi che un<br />

non udente parli? Gli fai scaturire la voce attraverso le<br />

emozioni. I bambini sordi me lo hanno insegnato. Quando<br />

suonavo, si buttavano sulla cassa armonica del pianoforte<br />

per essere investiti, compenetrati dalle onde sonore.<br />

Stavano così abbracciati al pianoforte che diedi loro il<br />

permesso di andarci sopra, si stendevano e non si muovevano<br />

più». Il pianoforte può diventare un poderoso tamburo<br />

che martella i ritmi e all’improvviso un delicato carillon.<br />

Le onde sonore si propagano attraverso l’aria e permeano<br />

il mondo attorno attraverso la risonanza.<br />

«Non sentiamo soltanto con le orecchie». Era già chiaro<br />

agli antichi. Nelle tradizioni sciamaniche dalla Mongolia<br />

al Messico, nelle tradizioni arcane cabalistiche del giudaismo<br />

e del cristianesimo, i suoni vocali e gli armonici<br />

sono stati usati per guarire e trasformare, per bilanciare i<br />

centri energetici del corpo e attivare le risonanze del cervello.<br />

E il padre della geometria aveva già svelato come<br />

un suono ne generi altri superiori (armonici): Pitagora<br />

credeva che l’universo fosse un immenso monocorde,<br />

uno strumento con una sola corda tirata tra il cielo e la<br />

terra, parlò di musica delle sfere, pensava che i movimenti<br />

dei corpi celesti che si spostano producessero un suono.<br />

Alla parete della sala di musica sono appesi dei grandi<br />

quadri: riproducono con parole e disegni la filastrocca<br />

del Girotondo, un canto gregoriano e l’Ut queant laxis<br />

con cui Guido D’Arezzo legò indissolubilmente a ogni<br />

suono della scala musicale una sillaba<br />

(ut-re-mi-fa-sol-la-si). La strada ora è in discesa e Giulia<br />

ci congeda: «Sordità e autismo sono due aspetti di un<br />

unico problema, mancando in entrambi i casi la tensione<br />

e la predisposizione del corpo che vibra all’ascolto, il sordo<br />

"si chiude alla vita" e l’autistico "diviene sordo alla comunicazione".<br />

Il musicoterapeuta coglie nelle persone la<br />

tensione emotiva che permette o non permette al corpo<br />

di vibrare».<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA


30 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

Percorsi Controcopertina<br />

La storia<br />

Una legge dello Stato<br />

ha stabilito che il 31 marzo<br />

dovrebbero chiudere i sei<br />

Opg ancora presenti in Italia<br />

Ma è probabile che non<br />

succederà. La storia di Luigi:<br />

entrato a vent’anni perché<br />

prendeva a schiaffi gli amici<br />

che lo sfottevano<br />

e dopo venti era ancora lì<br />

di FULVIO BUFI<br />

Sai quando entri, non sai se (e quando) esci:<br />

l’inferno degli Ospedali psichiatrici giudiziari<br />

Il mondo oltre le sbarre di un ospedale psichiatrico<br />

giudiziario è un mondo che ha perso<br />

il tempo. Anche lo spazio, certo, ma quello<br />

non esiste in alcun luogo di detenzione.<br />

Il tempo invece sì. In ogni cella di ogni carcere<br />

ci sono uomini o donne cui non resta<br />

molto altro che contare il tempo che li separa<br />

da quando passeranno dall’altra parte del cancello.<br />

Negli Opg non è mai stato così. Si entra per un<br />

minimo di sei mesi, un anno, due o cinque o dieci,<br />

ma il fine pena non è scritto. E certe volte non viene<br />

scritto mai.<br />

In Italia ce ne sono sei (Barcellona Pozzo di Gotto,<br />

Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio<br />

Emilia e Castiglione delle Stiviere) e stanno per<br />

chiudere. O così dovrebbe essere. La legge è stata<br />

fatta, la data fissata. Entro il 31 marzo 2013 nessuna<br />

delle strutture dovrà più essere in funzione, e gli<br />

internati dovranno essere trasferiti in parte in speciali<br />

sezioni carcerarie e in parte in case di cura e<br />

custodia da venti posti al massimo e controllate dalle<br />

Asl.<br />

Il rischio di una proroga però incombe perché,<br />

come spesso succede, quello che sta scritto non corrisponde<br />

a quello che avviene nella realtà. E, infatti,<br />

le case di cura e custodia non sono ancora pronte, e<br />

nemmeno si è ancora capito bene come e da chi<br />

sarà gestita la custodia, perché la legge non annulla<br />

il concetto di carcere, ma si limita a presumere di<br />

umanizzarlo attraverso l’istituzione di strutture dai<br />

Vita in bianco e nero<br />

A destra e in alto tre immagini scattate nell’Opg di<br />

Barcellona Pozzo di Gotto: il rito della barba tra<br />

reclusi, un lavandino in cella per lavarsi e<br />

l’ostentazione di un tatuaggio che rappresenta la<br />

bilancia della giustizia pendente da un lato. In basso<br />

due momenti di scolarità: sopra la lezione di italiano,<br />

sotto quella di matematica all’Opg di Aversa (Servizio<br />

fotografico di Franco Guardascione/Controluce)<br />

Malati d’ergastolo<br />

numeri molto più contenuti di quelli attuali.<br />

Furono il presidente della commissione d’inchiesta<br />

del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Servizio<br />

sanitario nazionale, Ignazio Marino, e due componenti<br />

dello stesso organismo, Daniele Bosone e<br />

Michele Saccomanno, a firmare il testo poi approvato<br />

in Parlamento. Cominciarono a girare per gli<br />

Opg dopo le ispezioni e i successivi allarmi della<br />

Commissione europea per la prevenzione della tortura,<br />

e scoprirono lo scempio che i giornali già raccontavano<br />

da tempo. Ne venne fuori un video agghiacciante,<br />

il sequestro parziale di quasi tutte le<br />

strutture e una legge appunto che, al di là delle buone<br />

intenzioni, risolve la questione degli Opg soprattutto<br />

dal punto di vista edilizio. Che certo rappresenta<br />

almeno il cinquanta per cento del fallimento<br />

di questa esperienza cominciata in Italia formalmente<br />

a metà degli anni Settanta, ma in realtà molto<br />

prima. Perché la legge che apriva i manicomi criminali<br />

è del febbraio 1904, poi sono cambiati i nomi:<br />

prima manicomio giudiziario e poi — con italica<br />

ipocrisia e nel pieno della battaglia di Franco Basaglia<br />

che avrebbe portato all’istituzione della legge<br />

180 e alla chiusura dei manicomi — ospedale psichiatrico<br />

giudiziario. Ma la sostanza fino a oggi<br />

non è mai cambiata: gli Opg sono posti dove vengono<br />

rinchiuse persone ritenute socialmente pericolose.<br />

I manicomi criminali avevano le celle, le sbarre,<br />

i letti di contenzione, le cinghie e tutto quell’orrore<br />

lì, e gli Opg hanno le celle, le sbarre, i letti di con-<br />

tenzione col buco al centro del materasso, perché<br />

ci si finisce legati e nudi, e quel buco serve per farla<br />

in un secchio messo sotto, e poi si resta così, immobilizzati<br />

e sporchi, umiliati anche dalla propria puzza.<br />

Qualche direttore li ha fatti eliminare, i letti di<br />

contenzione (a Napoli non li usano più), altri invece<br />

no. Qualche direttore ha scelto anche la custodia<br />

attenuata, che consiste nel tenere le celle aperte<br />

per gran parte della giornata, in modo che i reclusi<br />

possano camminare per i corridoi quando è finito<br />

il tempo dell’aria all’aperto e possano incontrarsi e<br />

stare insieme. Tentativi di umanizzare ciò che umanizzabile<br />

non è. Perché l’obbrobrio degli Opg è giuridico<br />

e si chiama ergastolo bianco. Per qualunque<br />

reato si entri lì dentro — che sia una strage o<br />

un’ubriachezza molesta — se ne esce soltanto quando<br />

una perizia psichiatrica stabilirà che non si è più<br />

socialmente pericolosi, e sempre che ci sia una<br />

struttura sanitaria pubblica cui far capo per continuare<br />

il percorso terapeutico. Altrimenti si resta<br />

dentro. Il magistrato di sorveglianza stabilisce una<br />

proroga che solitamente è di due anni e se ne<br />

riparlerà alla scadenza. Quando, con due anni in<br />

più passati in Opg, ci saranno ottime probabilità di<br />

aver accumulato frustrazioni e aggressività tali da<br />

essere ritenuti ancora socialmente pericolosi. E si<br />

può andare avanti così all’infinito.<br />

Ad Aversa c’era un recluso che era entrato a<br />

vent’anni e dopo altri venti stava ancora là. Si chia


DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />

mava Luigi, un marcantonio che non faceva altro<br />

che chiedere sigarette e fumarne una dopo l’altra.<br />

Non aveva mica ammazzato nessuno, Luigi. Solo<br />

che quand’era ragazzino al suo paese gli amici lo<br />

sfottevano perché tutte le ragazze gli dicevano di<br />

no. E lui, che era già bello grosso e aveva le mani<br />

pesanti, reagiva a schiaffoni. Alla fine se lo tolsero<br />

di torno con una denuncia, e lui ormai non si ricordava<br />

più nemmeno qual era il suo paese e perché<br />

stesse all’Opg.<br />

La storia di Vito De Rosa è diventata invece un<br />

libro, Vito il recluso (Sensibili alle foglie, 2005)<br />

scritta da Francesco Maranta, ex consigliere regionale<br />

della Campania, di Rifondazione, in collaborazione<br />

con Dario Stefano Dell’Aquila, dell’associazione<br />

Antigone, uno degli operatori sociali più impegnati<br />

nel denunciare la barbarie degli Opg, su cui<br />

ha scritto una documentatissima inchiesta (Se non<br />

ti importa il colore degli occhi, edizioni Filema,<br />

2009). Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva<br />

ucciso il padre a colpi di scure. Condannato all’ergastolo,<br />

un anno dopo è sottoposto a perizia psichiatrica<br />

e trasferito in Opg, o come si chiamava all’epoca.<br />

C’è rimasto per cinquant’anni, completamente<br />

dimenticato. E mai ne sarebbe uscito vivo se nel<br />

2003 il presidente della Repubblica non gli avesse<br />

concesso la grazia. Arrestato a 24 anni, Vito De Rosa<br />

ha riottenuto la libertà a 76: nessuno in Italia ha<br />

passato tanto tempo privato della libertà.<br />

Ma pure i tre anni di reclusione di Antonio Provenzano<br />

sono emblematici. Lui non era uno abbandonato<br />

da tutto e tutti come tanti reclusi in Opg.<br />

Aveva una famiglia che gli stava accanto e che si<br />

sarebbe fatta carico di seguirlo una volta tornato a<br />

casa. E però nemmeno questo è bastato a fargli riottenere<br />

la libertà allo scadere dei sei mesi fissati dal<br />

giudice. Antonio fu denunciato perché girava arma-<br />

RRR<br />

Va pensiero<br />

di Armando Torno<br />

Le chiose di Bonaventura da Bagnoregio<br />

{Di Bonaventura da Bagnoregio (XIII secolo),<br />

santo e filosofo, è in corso da Città Nuova di<br />

Roma la pubblicazione delle opere complete<br />

con testo latino e traduzione italiana. È<br />

appena uscito il quarto volume, con cui si<br />

Pericolosità sociale<br />

Un paradosso<br />

per i giudici:<br />

murare vivi<br />

gli «innocenti»<br />

di LUIGI FERRARELLA<br />

una decisione che, più<br />

di dover infliggere l’ergastolo a un<br />

C’èsoltanto<br />

colpevole, schiaccia di<br />

responsabilità un giudice: ed è dover<br />

mandare un processato all’Ospedale<br />

psichiatrico giudiziario (Opg). Perché «è<br />

una misura di sicurezza che esce dai binari<br />

coscienza-responsabilità-sanzione»,<br />

ragiona il procuratore aggiunto di Messina,<br />

Sebastiano Ardita, fino all’anno scorso<br />

direttore generale dei detenuti al Dap<br />

(Dipartimento dell’amministrazione<br />

penitenziaria) con competenza proprio su<br />

questo settore; e perché potenzialmente<br />

può non aver mai fine, sebbene per<br />

definizione il destinatario non sia<br />

imputabile per ciò che ha commesso. In<br />

Opg, infatti, finisce la persona che il giudice<br />

ritenga abbia commesso un delitto doloso<br />

con pena superiore nel massimo a due<br />

anni, ma che una perizia psichiatrica<br />

dichiari «totalmente incapace di intendere<br />

e di volere» (cioè patologicamente non in<br />

grado di percepire il senso delle proprie<br />

azioni e di controllare i propri impulsi) e<br />

che contemporaneamente sia valutato<br />

«socialmente pericoloso», concetto non<br />

medico-legale ma giuridico, che attiene<br />

alla probabilità che il soggetto commetta<br />

nuovi reati. Quando si trova di fronte a<br />

queste condizioni, il giudice è costretto da<br />

un lato ad assolvere, tecnicamente per<br />

difetto di imputabilità, e dall’altro lato a<br />

disporre per due anni la misura di<br />

sicurezza dell’Ospedale psichiatrico<br />

giudiziario o anche (solo dal 2004 dopo<br />

una sentenza della Consulta) della meno<br />

pesante «libertà vigilata» accompagnata<br />

dalla prescrizione di un rapporto<br />

continuativo con il servizio psichiatrico<br />

territoriale. La misura è soggetta a essere<br />

periodicamente rivista ma, finché lo<br />

psichiatra ravvisa che permanga la<br />

«pericolosità sociale», di rinnovo in<br />

rinnovo il termine può non avere mai fine.<br />

È l’ibrido alla base di quello che per Ardita<br />

è «un ricorrente equivoco: l’Ospedale<br />

psichiatrico giudiziario è "ospedale" nel<br />

senso di "ospizio", cioè non di struttura<br />

sanitaria ma di luogo di accoglienza, dove,<br />

nel contenere una pericolosità sociale, con<br />

la riforma penitenziaria si è rafforzato il<br />

trattamento psichiatrico. Un posto dove si<br />

è ristretti per il fatto di essere pericolosi,<br />

non per il fatto che si è malati bisognosi di<br />

cure». Un posto, si spinge a provocare<br />

Ardita, «che a volte non può avere<br />

alternative. In base alla mia esperienza, mi<br />

sento di dire che ci sono casi nei quali, per<br />

un malato di mente socialmente<br />

pericoloso, la vita in famiglia non è di<br />

miglior qualità rispetto a quella possibile in<br />

alcuni reparti di Opg nei quali è poco nota<br />

l’abnegazione del personale».<br />

E si intuisce che Ardita, «nel bilanciamento<br />

tra il valore della dignità umana del<br />

soggetto ristretto e il valore della vita altrui<br />

che egli può mettere in pericolo», sia ora<br />

pessimista nei confronti di «una riforma<br />

che non disegna il contenuto delle nuove<br />

strutture» destinate a superare gli Opg, e<br />

«non indica quale debba essere lo<br />

standard (anche in termini di risorse<br />

economiche) dei servizi di assistenza».<br />

lferrarella@corriere.it<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva ucciso<br />

il padre: condannato all’ergastolo, un anno dopo è<br />

stato sottoposto a perizia psichiatrica e trasferito in un<br />

Opg. C’è rimasto per cinquant’anni. È uscito nel 2003<br />

soltanto dopo la grazia del presidente della Repubblica<br />

chiude il «Commento al Vangelo di San<br />

Luca» (a cura di Barbara Faes de Mottoni,<br />

pp. 224, e 50). Migliaia di chiose dettagliate,<br />

capillari, fascinose; ricche di rimandi biblici,<br />

di riflessioni teologiche ancora attuali.<br />

to di bastone (era stato aggredito e seviziato e da<br />

allora se lo portava appresso per difendersi nel caso<br />

gli fosse capitato ancora), però anziché essere<br />

lasciato libero, come chiunque venga denunciato<br />

per una cosa così, venne rinchiuso a Montelupo Fiorentino<br />

(e successivamente ad Aversa) perché in<br />

passato gli era stata diagnosticata una lieve forma<br />

di psicosi schizofrenica di tipo paranoide. Sono sei<br />

mesi duri, che però passano. Ma poi nelle pratiche<br />

burocratiche che dovrebbero rimandarlo a casa,<br />

qualcosa non funziona. Ci vuole una Asl che stili<br />

per lui un progetto terapeutico e quella di Ostia, dove<br />

Antonio abita insieme alla sorella Elisabetta, la<br />

tira per le lunghe. Tra un intoppo e l’altro passano<br />

altri due anni e mezzo ed Elisabetta deve accamparsi<br />

con una tenda sul tetto del palazzo della Asl per<br />

ottenere che la situazione si sblocchi.<br />

Ma quanti reclusi, invece, nemmeno le famiglie<br />

hanno avuto accanto. Gli ospedali psichiatrici<br />

giudiziari sono il mondo di disperati che hanno<br />

storie disperate e famiglie disperate. Oppure<br />

impaurite. Come quella di uno finito dentro per<br />

aver dato ventiquattro coltellate alla madre, senza<br />

peraltro ucciderla. Quando lo psichiatra ha stabilito<br />

che poteva uscire e il giudice ha firmato l’ordine<br />

di scarcerazione, l’avvocato è corso dal direttore<br />

a pregarlo di tenerselo ancora perché a casa erano<br />

terrorizzati dal suo ritorno.<br />

Gli Opg sono pieni di storie come quella di Luigi,<br />

di Vito o di Antonio. O come quelle degli internati<br />

provvisori, gente che vive reclusa in una dimensione<br />

giuridica al di là di ogni immaginazione.<br />

Sono quelli che in Opg fanno una sorta di custodia<br />

cautelare, senza però scadenza dei termini.<br />

Li chiamano gli improcessabili, perché una perizia<br />

psichiatrica ha stabilito che non sono in grado<br />

di comprendere nemmeno la dinamica processuale,<br />

e quello è invece un diritto che spetta a<br />

qualsiasi imputato. Così il dibattimento non viene<br />

fissato finché la diagnosi non cambia, e non<br />

c’è limite di tempo. All’Opg di Napoli — che dall’antico<br />

convento di Sant’Eframo è stato trasferito<br />

qualche anno fa nella mai aperta sezione femminile<br />

del carcere di Secondigliano — ce ne sono<br />

due. Uno da dieci anni e un altro da quattro. E la<br />

loro storia di reclusi psichiatrici — fatta di diagnosi,<br />

di terapie e di un programma di recupero —<br />

non è nemmeno cominciata.<br />

Ecco che cosa sono gli Opg e che cosa continueranno<br />

a essere fino a quando esisterà il concetto<br />

di pericolosità sociale e la relativa applicazione di<br />

misure di sicurezza. Le storie dei grandi boss che<br />

truccavano le carte per essere trasferiti dal carcere<br />

all’ospedale psichiatrico giudiziario per stare<br />

meglio e poter uscire prima sono vere ma non indicano<br />

niente. Nel suo libro Materiali dispersi<br />

(Tullio Pironti, 2010) l’ex direttore di Aversa, lo<br />

psichiatra Adolfo Ferraro, racconta, tra vari episodi,<br />

quello relativo alla reclusione di Raffaele Cutolo,<br />

e altri nomi famosi della storia criminale italiana<br />

sono passati per gli Opg, come per esempio<br />

Marcello Colafigli, della banda della Magliana,<br />

quello che nella fiction televisiva di Romanzo criminale<br />

corrispondeva al personaggio di Bufalo.<br />

Poi ci sono le tragedie emerse, quelle che la cronaca<br />

ha molto raccontato. La tragedia di Antonia<br />

Bernardini, morta bruciata nel 1975 mentre è legata<br />

a un letto di contenzione nell’allora manicomio<br />

giudiziario di Pozzuoli. I suicidi ravvicinati,<br />

nel 1978, del direttore di Aversa, Domenico Ragozzino,<br />

e di quello di Napoli, Giacomo Rosapepe, entrambi<br />

coinvolti in inchieste sulla gestione dei<br />

manicomi. E ancora la morte di Giovanni Taras<br />

(1975) militante dei Nuclei armati proletari dilaniato<br />

dall’ordigno che stava mettendo sul tetto<br />

del manicomio di Aversa per attirare l’attenzione<br />

sulle condizioni inumane dei reclusi. E poi i suicidi<br />

degli internati: 44 in dieci anni, i più recenti a<br />

Barcellona Pozzo di Gotto, l’Opg che insieme ad<br />

Aversa sconvolse maggiormente prima la Commissione<br />

europea e poi quella del Senato.<br />

Suicidi che solo letture superficiali o di comodo<br />

possono attribuire al disagio psichico di chi ha<br />

scelto la morte. In realtà atti di disperazione di<br />

uomini che, per quanto psicopatici, hanno ben<br />

chiaro di essere finiti nel luogo destinato agli ultimi<br />

degli ultimi. E, per quanto magari ignoranti di<br />

questioni giudiziarie, hanno chiaro anche che da<br />

lì non sanno, e nessun avvocato o familiare o direttore<br />

o guardia potrà dir loro, se e quando verranno<br />

mai fuori. E se ora gli Opg chiuderanno davvero,<br />

cambieranno le strutture, e sicuramente saranno<br />

più umane, ma a chi gestirà le case di cura<br />

e custodia ogni internato frutterà circa 100 euro al<br />

giorno, e quindi il rischio che la cura e custodia<br />

diventino un business non si può escludere. E allora<br />

non si può escludere nemmeno che l’ergastolo<br />

bianco, magari un po’ più bianco e meno puzzolente,<br />

continui ancora. E che per chi finisce in<br />

Opg continui a valere la logica del «fine pena forse».<br />

Ma forse anche no.<br />

© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />

Guarda il video della commissione di inchiesta<br />

del Senato sugli Opg (16 marzo 2011)<br />

su www.corriere.it/lettura<br />

RRR<br />

Una copertina<br />

un artista<br />

La memoria di <strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />

«Si gira il mondo e per<br />

ogni persona c’è una<br />

madre»: <strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />

(Cairo, 1957) è figlio di<br />

un padre sudanese e di<br />

una madre nubiana,<br />

dell’Alto Egitto. Dal 1979<br />

è in Italia, dove vive<br />

dedicandosi<br />

completamente all’arte. Questa sintetica<br />

nota biografica può aiutare a comprendere<br />

il senso della nostra copertina, omaggio<br />

dell’artista a sua madre Fatma, ma<br />

simbolicamente dedicata a un mondo di<br />

esistenze in perenne cammino, a tante vite<br />

nomadi in cerca di rifugio, spesso anche<br />

solo di un bene prezioso come la libertà.<br />

<strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong> è un artista che ha dedicato<br />

tutta la sua ricerca (lavora con la pittura, la<br />

fotografia, la performance, la scrittura) alle<br />

tracce di una lontana memoria personale:<br />

la sabbia del deserto, il colore bianco, le<br />

maschere africane (simboli tipici della sua<br />

pittura) diventano frammenti di una<br />

spiritualità mai dimenticata, di una identità<br />

orgogliosamente difesa. Nello stesso<br />

modo, l’immagine di Fatma diventa<br />

simbolo universale di tutte le madri che<br />

con amore proteggono i propri figli nelle<br />

diaspore che affliggono il mondo. Ed è per<br />

questo che, nell’opera di <strong>Hassan</strong>,<br />

riconosciamo la stessa struggente verità<br />

descritta da Honoré de Balzac: «Il cuore di<br />

una madre è un abisso in fondo al quale si<br />

trova sempre un perdono».<br />

(gianluigi colin)<br />

Supplemento della testata Corriere della Sera<br />

del 10 febbraio 2013 - Anno 3 - N. 6 ( #65)<br />

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli<br />

Condirettore<br />

Vicedirettori<br />

CORRIERE DELLA SERA<br />

LA LETTURA<br />

Luciano Fontana<br />

Antonio Macaluso<br />

Daniele Manca<br />

Giangiacomo Schiavi<br />

Barbara Stefanelli<br />

Supplemento a cura<br />

della Redazione cultura Antonio Troiano<br />

Pierenrico Ratto<br />

Stefano Bucci<br />

Antonio Carioti<br />

Serena Danna<br />

Marco Del Corona<br />

Dario Fertilio<br />

Cinzia Fiori<br />

Luca Mastrantonio<br />

Pierluigi Panza<br />

Cristina Taglietti<br />

Art director Gianluigi Colin<br />

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Registrazione Tribunale di Milano n. 505 del 13 ottobre 2011<br />

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32 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013

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