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Anno 3 - N. 6 (#65) Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano - Supplemento al «Corriere della Sera» del 10 febbraio 2013, non può essere distribuito separatamente<br />
Si gira il mondo,<br />
e per ogni persona<br />
c’è una madre.<br />
#65<br />
Domenica<br />
10 febbraio 2013<br />
<strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />
per il Corriere della Sera
2 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
RRR<br />
Sommario<br />
corriere.it/lalettura<br />
L’inserto continua online<br />
con il «Club della Lettura»:<br />
una community esclusiva<br />
per condividere idee e opinioni<br />
4 Il dibattito delle idee<br />
«Il nucleare aiuta la natura»<br />
di STEFANO GATTEI<br />
5 Mettiamo una tassa<br />
sulle citazioni facili<br />
di GUIDO VITIELLO<br />
Orizzonti<br />
6 Società<br />
Il ritorno dei barbari<br />
di GIUSEPPE SARCINA<br />
e ALESSANDRO ZIRONI<br />
8 Società<br />
La cucina della pace<br />
e la riscossa dei carnivori<br />
di ANGELA FRENDA<br />
e VIVIANA MAZZA<br />
11 Visual data<br />
Perché Lisbona<br />
assomiglia a Honolulu<br />
di GIORGIA LUPI<br />
e SIMONE QUADRI<br />
Caratteri<br />
12 L’intervista<br />
Il canone inverso<br />
di Jonathan Lethem<br />
di ALESSANDRA FARKAS<br />
14 Narrativa italiana<br />
Una naturalista<br />
in casa Manzoni<br />
di ERMANNO PACCAGNINI<br />
17 Personaggi<br />
Il mondo della Dc<br />
raccontato da una figlia<br />
di ALDO GRASSO<br />
18 Le classifiche dei libri<br />
La pagella<br />
di ANTONIO D’ORRICO<br />
Sguardi<br />
20 Tendenze<br />
Fede nell’arte:<br />
il Vaticano alla Biennale<br />
di STEFANO BUCCI<br />
e VINCENZO TRIONE<br />
22 Riscoperte<br />
L’infanzia di Cindy Sherman<br />
di ARTURO CARLO QUINTAVALLE<br />
24 Il protagonista<br />
Timothy Greenfield-Sanders<br />
il fotografo d’America<br />
di GIANLUIGI COLIN<br />
Percorsi<br />
26 Graphic novel<br />
L’ultimo gladiatore<br />
di MICHELE PETRUCCI<br />
28 La biografia/1<br />
L’uomo che scoprì Timbuctù<br />
di ELISABETTA ROSASPINA<br />
29 La biografia/2<br />
La donna che insegna<br />
Beethoven ai sordi<br />
di PAOLA D’AMICO<br />
30 Controcopertina<br />
I malati all’ergastolo<br />
di FULVIO BUFI<br />
e LUIGI FERRARELLA<br />
Il dibattito delle idee<br />
In Europa le regole variano. Nel nostro Paese<br />
occorre aggiornare le leggi alla nuova società<br />
Ius<br />
scholae<br />
Oltre il diritto di sangue<br />
oltre il diritto del suolo<br />
Diamo la cittadinanza<br />
agli stranieri che vanno a scuola<br />
di MAURIZIO FERRERA<br />
Forse non sarà all’ordine del giorno nella prima<br />
riunione del nuovo governo (come promette<br />
il programma del Pd), ma è certo che<br />
la questione della cittadinanza agli immigrati<br />
dovrà essere seriamente affrontata nella<br />
prossima legislatura. In Italia risiedono stabilmente<br />
quasi tre milioni e mezzo di persone<br />
che provengono da Paesi non appartenenti all’Ue. Il<br />
nostro «tasso di naturalizzazione» si situa però al di sotto<br />
della media Ue ed è pari alla metà di quello francese<br />
o britannico. Siamo in altre parole fra i Paesi più avari<br />
nel concedere la cittadinanza agli immigrati, e in particolare<br />
ai loro figli, anche se nati in ospedali italiani. Si<br />
tratta di 650 mila minori in tutto, 75 mila nuove registrazioni<br />
all’anno. Questi ragazzi parlano la nostra lingua,<br />
guardano la televisione, vanno a scuola, dove studiano<br />
storia, geografia e letteratura italiana. Ma sono considerati<br />
«extracomunitari» o semplicemente «stranieri».<br />
L’acquisizione della nazionalità è attualmente disciplinata<br />
dalla legge 91 del 1992. È automaticamente cittadino<br />
chi nasce da genitori italiani o possa vantare una discendenza<br />
diretta da cittadini italiani, anche senza essere<br />
nato nel nostro Paese. Per chi non possiede questi<br />
requisiti la naturalizzazione è un percorso a ostacoli. Bisogna<br />
prima ottenere un permesso e poi una carta di<br />
soggiorno. Le norme che disciplinano queste tappe dovrebbero<br />
essere allineate a una direttiva del 2004, ma<br />
purtroppo non è così. Le procedure sono più lunghe,<br />
macchinose e restrittive di quanto previsto dalla direttiva.<br />
Dopo dieci anni di residenza legale, si può chiedere<br />
la cittadinanza. La media degli altri Paesi è di cinque<br />
anni e, paradossalmente, era così anche in Italia prima<br />
della legge del 1992. La nazionalità si può successivamente<br />
trasmettere ai figli, come un’eredità. Se ciò non<br />
avviene, questi ultimi restano stranieri residenti. Dopo i<br />
18 anni, possono, sì, chiedere la cittadinanza, ma solo se<br />
risultano nati sul suolo italiano, sono stati immediatamente<br />
registrati all’anagrafe (cosa che non avviene se i<br />
genitori sono o erano irregolari) e hanno soggiornato<br />
senza interruzioni in Italia per diciotto anni (molti figli<br />
di immigrati trascorrono lunghi periodi con i parenti<br />
nel Paese di origine). Un sistema anacronistico, che stride<br />
con le migliori pratiche internazionali, ingiustamente<br />
punitivo oltre che irragionevole sul piano economico,<br />
politico e sociale. Il nostro Paese deve urgentemente<br />
modernizzare la propria «politica della cittadinanza»:<br />
senza massimalismi, ma con coraggio e nel rispetto della<br />
cornice europea. Quali direzioni seguire?<br />
Nel corso del XX secolo, la naturalizzazione degli stranieri<br />
è stata collegata al cosiddetto ius sanguinis (presenza<br />
di genitori o antenati già «nazionali»: caso tipico<br />
RRR<br />
La naturalizzazione va vista<br />
come un processo graduale,<br />
accompagnato da incentivi<br />
e da corsie preferenziali,<br />
soprattutto per i minori<br />
i<br />
In Italia vige lo ius sanguinis:<br />
italiani i figli di italiani. La<br />
cittadinanza si può acquisire<br />
per matrimonio o dopo 10<br />
anni di residenza (5 i rifugiati,<br />
4 i cittadini Ue). I nati in Italia<br />
hanno una finestra tra i 18 e i<br />
19 anni per richiederla<br />
In Francia oltre al «diritto di<br />
sangue» è previsto un «diritto<br />
di suolo differito»: i figli di<br />
genitori stranieri diventano<br />
francesi al compimento della<br />
maggiore età. Per la<br />
naturalizzazione bastano 5<br />
anni di residenza, 2 per chi ha<br />
frequentato una Grande École<br />
Chi nasce in Germania da<br />
genitori stranieri riceve la<br />
cittadinanza se almeno uno<br />
dei genitori risiede<br />
regolarmente da 8 anni e da<br />
3 possiede un permesso di<br />
soggiorno illimitato. Ha poi<br />
tempo fino ai 23 anni per<br />
scegliere un solo passaporto<br />
Può chiedere la cittadinanza<br />
britannica lo straniero che<br />
vive nel Regno Unito da 5<br />
anni. I figli di stranieri<br />
legalmente residenti (con<br />
permesso illimitato) nati su<br />
suolo britannico hanno<br />
diritto alla cittadinanza<br />
la Germania) oppure allo<br />
ius soli (nascita nel territorio<br />
nazionale: casi tipici<br />
gli Stati Uniti e la Francia).<br />
I due criteri riflettevano<br />
concezioni filosofiche profondamente<br />
diverse di ciò<br />
che deve fondare l’appartenenza<br />
a una comunità politica:<br />
una concezione «oggettiva»,<br />
basata su sangue<br />
e stirpe, contrapposta a una «soggettiva», basata sulla<br />
condivisione di valori, diritti e doveri. Fichte contro Renan,<br />
in altre parole: nazione-popolo versus nazione-repubblica.<br />
Sulla scia degli imponenti flussi migratori degli<br />
ultimi due decenni, questi criteri non tengono più<br />
nella loro forma pura. Che senso ha concedere la cittadinanza<br />
per «legami di sangue» a chi è nato e risiede all’estero<br />
e non ha magari nessun rapporto con la madrepatria?<br />
Perché negare la nazionalità (o farla sospirare<br />
per un tempo quasi infinito) a uno straniero che non è<br />
nato in loco ma si è bene integrato nel Paese di immigrazione?<br />
Oppure concederla per «legami di suolo» a chi è<br />
nato in un dato Paese solo per caso, senza poi vivervi<br />
stabilmente?<br />
Una seria politica della cittadinanza va oggi imperniata<br />
su nuovi criteri: essenzialmente la residenza (ius domicilii),<br />
accompagnata da «filtri» che attestino la disponibilità<br />
e la misura dell’integrazione (frequenza scolastica,<br />
lavoro regolare, conoscenza della lingua e così via).<br />
La naturalizzazione non deve essere più vista come un<br />
passaggio «puntuale», un salto di status irreversibile disciplinato<br />
da criteri molto generali e automatici. Va piuttosto<br />
vista come un processo graduale, accompagnato<br />
da incentivi premiali e corsie preferenziali. Ciò vale soprattutto<br />
per i minori, ai quali dovrebbe applicarsi una<br />
combinazione di ius domicilii e ius scholae (il ministro<br />
Riccardi ha recentemente usato l’espressione di ius culturae).<br />
Nel linguaggio degli esperti, questo canale è definito<br />
socialization-based acquisition: la naturalizzazione<br />
è condizionata alla frequenza scolastica e/o ad altre<br />
esperienze formative. La giustificazione di questa posizione<br />
è quasi intuitiva. Chi è stato socializzato alla cultura<br />
e alla lingua di un dato Paese ha più alte probabilità<br />
di condividerne i valori o quanto meno di rispettare il<br />
pacchetto di diritti e doveri vigente in quel Paese. Come<br />
sosteneva Ernest Renan, dopo tutto la cittadinanza è un<br />
«plebiscito quotidiano»: ogni giorno i membri della comunità<br />
politica «scelgono» di ubbidire alla legge. D’altra<br />
parte, chi diventa cittadino ha un incentivo ulteriore<br />
a seguire le norme del proprio Paese: si origina in altre<br />
parole un vero e proprio circolo virtuoso. In Francia (dove<br />
è stato ormai abbandonato lo ius soli) un minore che<br />
abbia seguito un percorso d’istruzione per almeno cinque<br />
anni ha automaticamente diritto alla cittadinanza.<br />
In Danimarca e Finlandia il diritto scatta anch’esso automaticamente<br />
con la frequenza scolastica, a partire dai<br />
15 anni (purché non ci siano state condanne penali che<br />
prevedano il carcere).<br />
A partire dal 2009 si è finalmente aperto anche in Ita-
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
lia un dibattito sulle regole di naturalizzazione. Nel novembre<br />
2011 il presidente della Repubblica ha parlato<br />
esplicitamente delle gravi manchevolezze del vigente sistema.<br />
Nel suo discorso di fine anno, lo scorso 31 dicembre,<br />
Napolitano è tornato a denunciare la situazione dei<br />
minori extracomunitari e delle loro difficoltà di integrazione.<br />
In Parlamento giacciono diversi progetti di legge<br />
che puntano in direzione europea: rimandare ancora la<br />
riforma sarebbe un peccato grave.<br />
La cornice europea invita a riflettere non solo sui percorsi<br />
di acquisizione, ma anche sulla definizione stessa<br />
di cittadinanza. Anche qui sembra opportuno superare<br />
la giustapposizione secca cittadino/straniero e prevedere<br />
forme intermedie di «quasi-cittadinanza». I paralleli<br />
storici rischiano di essere fuorvianti. Ma ricordiamo<br />
che, per gestire la convivenza civile di un vasto impero<br />
multietnico, il diritto romano distingueva fra cives romani<br />
optimo iure (detentori di tutti i tipi di diritti, compresi<br />
quelli politici), cives latini (che potevano fruire di<br />
un pacchetto base di diritti, soprattutto di natura economico-sociale),<br />
e peregrini, ai quali si applicava unicamente<br />
lo ius gentium. Anche un impero più recente,<br />
quello britannico, introdusse forme di cittadinanza differenziata<br />
che sono in parte ancora in vigore all’interno<br />
del Commonwealth, raggruppate sotto il nome di denizenship<br />
(un termine di origine anglo-romanza: le prerogative<br />
di chi si trova «de dans», ossia «dentro»). I diritti<br />
conferiti da queste forme sono raccordati con quelli del<br />
Paese di origine (soprattutto in campo previdenziale e<br />
sanitario), promuovendo così anche forme di «migrazione<br />
pendolare» (pensiamo a un medico indiano che voglia<br />
lavorare sei mesi l’anno in un ospedale britannico).<br />
L’istituto della cittadinanza Ue (introdotto dal Trattato<br />
di Maastricht nel 1992 e via via rafforzato) può già essere<br />
considerato una forma di denizenship: si tratta infatti<br />
di uno status che conferisce ai nazionali di ciascun Paese<br />
membro alcuni diritti che possono essere esercitati<br />
entro tutto il territorio dell’Unione. Per ora la cittadinanza<br />
Ue è di «secondo ordine» rispetto a quella nazionale:<br />
può solo aggiungersi, ma non precedere o sostituire la<br />
cittadinanza di un Paese membro. Ma nulla impedisce<br />
(soprattutto dopo il trattato di Lisbona) di utilizzarla come<br />
status alternativo o preparatorio alla cittadinanza nazionale<br />
per gli immigrati extracomunitari che soddisfano<br />
certi requisiti di nascita e/o di «merito» (conoscenza<br />
della lingua, istruzione, lavoro regolare, possesso di<br />
particolari competenze e così via).<br />
All’interno di una cornice così articolata, potrebbero<br />
trovare collocazione anche la questione delle «corsie<br />
preferenziali» (soprattutto, come si è detto, per i minori)<br />
e quella ancora più delicata della possibile revoca della<br />
cittadinanza per chi commette reati gravi e ripetuti.<br />
La «buona condotta» potrebbe diventare uno dei più<br />
elementari filtri selettivi, rimanendo eventualmente<br />
operativo anche per un certo lasso di tempo dopo la piena<br />
naturalizzazione.<br />
Come ben sappiamo, l’immigrazione è oggi uno dei<br />
temi politicamente più scottanti. Secondo i sondaggi in<br />
molti Paesi la maggioranza degli elettori si dichiara preoccupata<br />
e insicura. In Italia il 51 per cento degli elettori<br />
ritiene che ci siano «troppi immigrati extracomunitari»,<br />
il doppio di Francia e Germania. L’80 per cento<br />
esprime forte preoccupazione soprattutto nei confronti<br />
dell’immigrazione clandestina: una delle percentuali<br />
più alte d’Europa. Nelle ultime elezioni europee i partiti<br />
xenofobi hanno ovunque guadagnato voti ed è prevedibile<br />
che il sostegno per tali formazioni aumenti ancora<br />
in occasione del prossimo rinnovo del Parlamento di<br />
Strasburgo, l’anno prossimo. C’è il rischio di una spirale<br />
di polarizzazione ideologica, non solo da parte dei nazionali,<br />
ma anche da parte degli «stranieri» (come sta<br />
già avvenendo in Francia).<br />
Sappiamo che le economie e i welfare europei non<br />
possono più fare a meno degli immigrati. Pensiamo per<br />
un momento alle pensioni. Come in tutti i Paesi Ue, il<br />
sistema pensionistico italiano si basa sulla cosiddetta<br />
«ripartizione»: le prestazioni in pagamento vengono finanziate<br />
dal flusso dei versamenti contributivi di chi lavora,<br />
senza accantonamenti. Come si potrebbero mantenere<br />
adeguati flussi di contribuzione se venisse a mancare<br />
anche solo una parte dei lavoratori extracomunitari<br />
regolari? Sappiamo che la grande maggioranza di questi<br />
lavoratori (con un numero crescente di figli) si sono perfettamente<br />
inseriti nella nostra società. L’integrazione è<br />
non solo possibile ma anche vantaggiosa per tutti. Una<br />
nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare<br />
ulteriormente questo processo e contenere i rischi<br />
di pericolose radicalizzazioni.<br />
RRR<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
La buona condotta deve valere<br />
come filtro. L’integrazione<br />
non è solo possibile ma anche<br />
vantaggiosa, benché l’avanzata<br />
dei populismi freni tutto<br />
ILLUSTRAZIONE<br />
DI BEPPE GIACOBBE<br />
La ricerca<br />
Marocchini e albanesi<br />
i più motivati<br />
a diventare italiani<br />
di ALESSANDRA COPPOLA<br />
Anche i numeri possono tracciare<br />
dei volti, dar loro un<br />
corpo, collocarli in uno sfondo.<br />
Un uomo passa la calce<br />
sul muro, arrampicato su un<br />
ponteggio a Milano, è arrivato dall’Albania.<br />
Un venditore ambulante s’aggira<br />
per le strade di Torino, è partito molti<br />
anni fa dal Marocco. Un terzo s’alza all’alba<br />
per mungere vacche nella Bassa<br />
Bresciana, è nato in India. Un profilo di<br />
donna, impiegata come badante, vive a<br />
Napoli, è ucraina. Oppure una colf, intenta<br />
a rifare i letti in un appartamento<br />
veneto, probabile che sia moldava.<br />
Ci sono i dati della presenza straniera<br />
in Italia (4.570.317 al primo gennaio<br />
2011 per l’Istat), le cifre che raccontano<br />
di che nazionalità sono (primi i romeni,<br />
968 mila), quanti minori (1.038.275),<br />
quanto lavorano e con che stipendio,<br />
tutto scritto nell’ultimo Rapporto sull’economia<br />
dell’immigrazione della Fondazione<br />
Leone Moressa di Venezia, specializzata<br />
sul tema. E poi c’è un modo<br />
diverso di leggere le tabelle, scomponendole<br />
e aggregandole di nuovo per<br />
comunità, e tirando fuori per le prime<br />
dieci più numerose un identikit dei nuovi<br />
abitanti d’Italia. È il lavoro che ha appena<br />
concluso Marta Cordini, giovane ricercatrice<br />
della Fondazione Moressa,<br />
che da questo gioco delle carte d’identità<br />
ha capito molte cose. Anche sul desiderio<br />
di ottenere la cittadinanza italiana,<br />
che resta comunque meta per pochi<br />
(0,8 per cento).<br />
«Tra le comunità emergono differenze<br />
interessanti — spiega Cordini — che<br />
derivano non solo da ragioni economiche,<br />
ma soprattutto dai tratti culturali,<br />
dai progetti migratori, dalle reti etniche».<br />
La distribuzione territoriale, per<br />
cominciare. I cinesi che prendono casa<br />
a Milano, a Firenze, a Prato, ma anche a<br />
Treviso e Reggio Emilia. Per ragioni di<br />
ricerca del lavoro, certo, che resta la<br />
spinta principale: «È il motivo per cui<br />
gli immigrati continuano a essere più<br />
numerosi al Centro e al Nord e nelle<br />
grandi città». Ma rimane fondamentale<br />
per orientare i percorsi la presenza di reti<br />
di connazionali, meglio ancora se parenti,<br />
che hanno già una storia di insediamento<br />
nei Comuni italiani. La maggior<br />
parte dei tunisini si è stabilita nel<br />
Ragusano, per esempio: si spiega con<br />
gli storici scambi tra le due coste del Mediterraneo<br />
e con gli ultimi sbarchi sull’onda<br />
delle primavere arabe. Ma una<br />
forte presenza si registra anche a Modena<br />
più che a Milano, o a Parma più che a<br />
Roma.<br />
La comparazione tra gli identikit racconta<br />
anche di una disparità tra le retribuzioni.<br />
Le comunità arrivate per prime<br />
hanno maturato maggiori capacità contrattuali,<br />
riescono a far valere meglio i<br />
propri diritti. I filippini, invece, per la<br />
maggior parte impiegati part time o comunque<br />
a orari ridotti in attività domestiche,<br />
spesso anche in nero, fanno registrare<br />
salari più bassi. Trasversale è, invece,<br />
la differenza tra le paghe di uomini<br />
e donne. Vale per gli italiani come<br />
per gli stranieri, «un po’ più lieve tra i<br />
cinesi, che spesso hanno attività commerciali<br />
a conduzione familiare — continua<br />
Cordini —, raggiunge punte molto<br />
alte tra i marocchini, con una differenza<br />
anche di 380 euro al mese».<br />
Le donne provenienti dall’ex blocco<br />
sovietico, in particolare, «soffrono di<br />
sotto inquadramento: svolgono mansioni<br />
inadeguate al titolo di studio, che<br />
spesso è superiore a quello dei connazionali<br />
maschi». Sono laureate, ma lavorano<br />
come domestiche o portinaie. A<br />
volte, arrivate in Italia, cercano di riscat-<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
La Fondazione Moressa<br />
analizza flussi e ambizioni<br />
tarsi, frequentano corsi di specializzazione,<br />
conquistano diplomi da operatrice<br />
sanitaria, per esempio. Così, se il<br />
37,5 per cento delle romene è impiegato<br />
nella cura alle persone, si scopre che<br />
l’11,2 lo fa in maniera qualificata. Magra<br />
consolazione per le lavoratrici: la crisi<br />
ha colpito di più gli uomini, e tra questi<br />
soprattutto est-europei e africani, perché<br />
ha bersagliato maggiormente il settore<br />
delle costruzioni e della manifattura,<br />
risparmiando, in parte, il lavoro domestico.<br />
Tenuto conto che la disoccupazione<br />
tra gli stranieri ha registrato nel<br />
complesso un incremento di quattro<br />
punti: dall’8 al 12-13 per cento.<br />
Il desiderio di diventare cittadini italiani<br />
è un altro tratto che descrive il profilo<br />
dei nuovi abitanti: la comunità più<br />
numerosa è quella romena, ma in cima<br />
alla lista di chi ha chiesto e ottenuto la<br />
cittadinanza ci sono i marocchini (6.952<br />
nel 2010) e gli albanesi (5.628). Perché<br />
sono arrivati da più tempo in Italia, e<br />
quindi hanno raggiunto per primi i requisiti<br />
per presentare la domanda (innanzitutto<br />
i dieci anni di residenza). E<br />
anche perché sono più motivati a diventare<br />
cittadini europei e a conquistare<br />
mobilità all’interno delle frontiere dell’Unione,<br />
rispetto a chi viene dalla Romania<br />
che dal 2007 è nella Ue. Ancora,<br />
più spesso presentano i documenti i sudamericani<br />
(i peruviani sono quarti, seguiti<br />
dai brasiliani) perché in alcuni casi<br />
riescono a risalire ad avi italiani e a be-<br />
neficiare dello ius sanguinis (italiano<br />
chi è discendente di italiani).<br />
Per le seconde generazioni, invece,<br />
qualunque formula di ius soli (italiano<br />
chi nasce in Italia) venga introdotta nel<br />
nostro ordinamento, già si segnalano<br />
delle diversità interessanti. A fare più<br />
bambini sono ancora marocchini, tunisini<br />
e indiani. Pochi, invece, i figli per le<br />
ucraine, le moldave e le polacche. «Perché<br />
i modelli migratori sono diversi»,<br />
spiega la ricercatrice. Africani e asiatici<br />
chiamano spesso in Italia mogli e bimbi<br />
con i ricongiungimenti e si insediano<br />
qui con tutta la famiglia. Le donne dell’Est<br />
arrivano spesso da sole, in età più<br />
matura, mariti e figli rimasti in patria,<br />
anni e anni di fatica e di soldi accumulati<br />
con l’idea poi di tornare indietro. Tra<br />
la crisi e i nuovi modelli culturali, però,<br />
asiatiche e africane stanno cominciando<br />
a fare meno bambini, e in stagioni<br />
sempre più avanzate, come le italiane.<br />
Alla fine, in tempi lunghi, i profili sono<br />
destinati a sovrapporsi.<br />
http://nuovitaliani.corriere.it<br />
@terrastraniera<br />
3<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
4 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Il dibattito delle idee<br />
di STEFANO GATTEI<br />
dispiace quando mi<br />
dicono che il mio pessimismo<br />
scoraggia<br />
quelli che avrebbero «Mi<br />
ridotto la loro quota<br />
di emissione di carbonio, ma d’altra parte<br />
per me questi sforzi sono, nella migliore delle<br />
ipotesi, una romantica assurdità e, nella<br />
peggiore, un’ipocrisia». E alle molte agenzie<br />
che consentono oggi ai viaggiatori di piantare<br />
alberi per controbilanciare il biossido di<br />
carbonio prodotto dal loro aereo, risponde<br />
che tali atti «assomigliano alle indulgenze<br />
che una volta venivano vendute dalla Chiesa<br />
cattolica ai peccatori benestanti per compensare<br />
il tempo che altrimenti avrebbero<br />
passato in Purgatorio».<br />
Non scrive certo per compiacere, James<br />
Lovelock, neppure coloro che (come lui)<br />
hanno a cuore il nostro pianeta e cercano di<br />
prendersene cura. Svincolato da legami con<br />
l’industria o l’accademia, Lovelock è da sempre<br />
uno scienziato indipendente, che non<br />
ha paura di dire ciò che pensa, suffragando<br />
le proprie affermazioni dati alla mano.<br />
Nel 1979 propone la sua teoria più celebre,<br />
l’«ipotesi Gaia», secondo cui tutte le<br />
componenti del pianeta Terra, viventi e non<br />
viventi, formano un gigantesco sistema, interagendo<br />
fra loro come se appartenessero<br />
a un unico organismo vivente. Considerata<br />
all’inizio come un tipico prodotto della New<br />
Age, la teoria acquista negli anni sempre<br />
più credibilità, anche grazie a una quantità<br />
crescente di dati empirici che la supportano.<br />
Nei decenni successivi Lovelock ribadisce<br />
la propria tesi in vari libri, il più recente<br />
dei quali è Gaia, ultimo atto, ora tradotto in<br />
italiano per Pacini Editore, all’interno della<br />
collana «Filosofia ambientale».<br />
«Uno degli errori più gravi commessi dagli<br />
scienziati nel XX secolo — dice Lovelock<br />
alla "Lettura" in una pausa dalla scrittura del<br />
suo nuovo libro — è stato quello di dare per<br />
scontato che tutto ciò che dovevamo sapere<br />
sul cambiamento climatico potesse essere<br />
dedotto da alcuni modelli fisico-chimici relativi<br />
all’atmosfera, sviluppati con computer<br />
sempre più potenti. La biosfera (e gli oceani<br />
in particolare) è stata considerata un elemento<br />
passivo, quando invece gioca un ruo-<br />
RRR<br />
Prospettive<br />
«Gaia ha impiegato miliardi<br />
di anni per produrre l’uomo.<br />
Ma l’uomo non è necessario<br />
al suo equilibrio: quello<br />
che fa, lo fa a suo rischio»<br />
lo centrale». Tali modelli si sono rivelati inadeguati:<br />
sono infatti gli oceani ad assorbire<br />
la maggior quantità di calore, che rimane in<br />
profondità, sotto uno strato sottile (termoclino)<br />
nel quale la temperatura subisce una<br />
marcata variazione. «Non sappiamo quando<br />
accadrà, ma prima o poi quel calore verrà rilasciato<br />
e porterà a un brusco cambiamento<br />
climatico nell’intero sistema».<br />
Se con il suo primo libro Gaia (Bollati Boringhieri),<br />
Lovelock intendeva invitare la comunità<br />
scientifica ad affrontare il problema<br />
del riscaldamento globale in una prospettiva<br />
diversa, ora (a quasi 94 anni) il suo suona<br />
come un ultimo tentativo di spronare i<br />
membri della comunità scientifica ad abbandonare<br />
un vecchio modo di pensare e a guardare<br />
all’ambiente con occhi nuovi. Il suo è<br />
un invito ad abbandonare conformismi,<br />
ideologie e modelli astratti e a osservare<br />
con maggiore obiettività le trasformazioni<br />
ambientali in corso: in altre parole, «un invito<br />
a lasciare il sentimento per un uso critico<br />
della ragione».<br />
Le ricette proposte dallo scienziato britannico<br />
sono tanto controverse quanto sgrade-<br />
La voce dei Radiohead<br />
di SANDRO MODEO<br />
In una lunga intervista a Elena Raugei sul<br />
«Mucchio» di febbraio, Thom Yorke —<br />
voce-mente dei Radiohead e ora degli Atoms<br />
for Peace — concentra i cardini della sua visione<br />
estetico-morale. Tra sottili osservazioni su ritmo<br />
e melodia e spietatezza autocritica (la diffidenza<br />
«per gli apprezzamenti»), tra l’allergia al<br />
compromesso (a non produrre mai «musica<br />
dozzinale») e quella alle sirene<br />
mediatico-politiche (il rifiuto di incontrare Tony<br />
Blair: «Più vai vicino al potere, più è facile essere<br />
usato»), colpiscono le ascendenze letterarie. Tra<br />
attrazioni prevedibili se non inevitabili (Philip<br />
Dick, il David Mitchell di Cloud Atlas, le fiabe di<br />
Andersen) spicca quella, mediata dalla moglie<br />
Rachel, per la Commedia di Dante, di cui del resto<br />
i Radiohead hanno ripreso diverse sequenze<br />
(Lucifero in «Ok Computer», gli ignavi in «Hail to<br />
the Thief»). Di colpo, le fenditure profonde tra<br />
linguaggi e generazioni, classicità e avanguardia<br />
sembrano svanire come allucinazioni<br />
sociologiche, suturarsi come ferite immaginarie.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Mostarda<br />
di Renato Franco<br />
Incontri Il padre dell’ipotesi «Gaia» contro i luoghi comuni dell’ambientalismo<br />
{<br />
Verdi e Wagner gratis a Sanremo<br />
Che Sanremo che fa. Ovvero il Festival<br />
di Raitre declinato per Raiuno ma con più<br />
soldi. Non troppi però, perché, in tempo<br />
di spending review, anche Fabio Fazio<br />
deve fare i conti con i tagli: meno 10%<br />
«Il nucleare aiuta la Terra»<br />
Lo scienziato James Lovelock controcorrente<br />
Dalle emissioni dei gas serra i rischi peggiori<br />
E Thom Yorke<br />
dirotta su Dante<br />
James Lovelock<br />
e, in alto, una<br />
sequenza tratta<br />
da «Atomic Ivan»<br />
(2011) di Vasily<br />
Barkhatov, girato<br />
nelle centrali<br />
nucleari di Kalinin e<br />
di San Pietroburgo<br />
voli sono le sue previsioni:<br />
sostenitore del ricorso<br />
all’energia nucleare,<br />
Lovelock ha spesso<br />
insistito sulla necessità<br />
di abbandonare le energie<br />
rinnovabili, in quanto<br />
scarsamente efficaci<br />
e dispendiose. «Molto<br />
spesso si ignora che i<br />
luoghi più contaminati<br />
dalla radioattività sono<br />
diventati, col tempo, i<br />
più ricchi di vita: è il caso<br />
dei terreni nei pressi<br />
di Cernobyl, o dei luoghi<br />
di sperimentazione<br />
degli ordigni nucleari<br />
nell’Oceano Pacifico.<br />
Gli animali e le piante<br />
non percepiscono la radiazione come pericolosa,<br />
e la riduzione delle loro vite che essa<br />
potrebbe causare costituisce una minaccia<br />
molto minore della presenza di esseri umani.<br />
Imponenti apparati burocratici si occupano<br />
dello smaltimento delle scorie e dello<br />
smantellamento degli impianti nucleari, ma<br />
nulla di paragonabile si interessa di quella<br />
che costituisce davvero la più diffusa fonte<br />
di inquinamento: l’anidride carbonica».<br />
E i maggiori produttori di anidride carbonica<br />
siamo noi stessi. Il nostro è un pianeta<br />
sovrappopolato, in cui sempre più persone<br />
ricorrono a quantità crescenti di energia e<br />
di risorse. «Gaia ha impiegato miliardi di anni<br />
per produrre esseri intelligenti, ma noi<br />
non costituiamo che una tappa di un lungo<br />
processo di evoluzione che potrà portare, in<br />
un lontano futuro, alla nostra estinzione e<br />
alla nascita di organismi più adatti a un nuovo<br />
ambiente».<br />
Ciò conduce a una seria riconsiderazione<br />
del nostro ruolo all’interno del sistema terrestre:<br />
«La Terra non si è evoluta unicamente<br />
a nostro vantaggio e qualsiasi cambiamento<br />
che le apportiamo è a nostro rischio. Non<br />
possediamo alcun diritto speciale: siamo<br />
soltanto una tra le tante specie viventi che<br />
contribuiscono a Gaia. È probabile che la<br />
Terra sia ormai avviata verso un’era calda, in<br />
cui potrà sopravvivere, sebbene in una condizione<br />
peggiore e meno abitabile per noi.<br />
Le prove che le cose stiano effettivamente<br />
così sono evidenti, e il processo è irreversibile».<br />
Fondamentale, dunque, è comprendere<br />
che la Terra costituisce un sistema vivente,<br />
«capace sia di resistere al cambiamento climatico<br />
sia di aumentarlo. È superbo, da parte<br />
nostra, pensare di sapere come salvare la<br />
Terra. Il nostro pianeta sa bene come badare<br />
a sé: tutto ciò che possiamo fare è provare<br />
a salvare noi stessi».<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
RRR<br />
rispetto al 2012. E così ecco gli inviti a chi<br />
ha un disco o un film in promozione,<br />
fino al colpo a sorpresa, i superospiti<br />
protagonisti di due serate: sul palco<br />
Verdi e Wagner, due giganti, e pure gratis.<br />
L’incursione<br />
di Stefano Piedimonte<br />
IL GRANDE GUAGLIONE<br />
TIC E SOMIGLIANZE<br />
TRA REALITY E CAMORRA<br />
Niente reality. Niente Grande Fratello,<br />
perlomeno. Blackout nel 2012 e forse nel<br />
2013. Per arrivare alla conclusione che<br />
era meglio passare la mano, i dirigenti di<br />
rete hanno sbattuto il naso contro dati<br />
d’ascolto tutt’altro che confortanti. Anche se<br />
difficilmente si resisterà alla tentazione di tornare<br />
al reality o almeno — in qualche modo — al<br />
pubblico che fu numericamente clamoroso e ora è<br />
orfano di queste narrazioni. Ma visto che è tutto<br />
fermo, forse, vale la pena capire dove l’avevamo già<br />
visto, il mondo dei reality. E perché sarebbe un<br />
bene che non tornasse. O almeno non come è stato<br />
finora. Dove l’abbiamo visto? Al Sud, nelle cronache<br />
nere di ogni giorno. Nell’estetica disperata, nei<br />
sogni effimeri, nei comportamenti, negli<br />
atteggiamenti, nel concetto stesso di successo dei<br />
«guaglioni». Troppo azzardato parlare di gieffini e<br />
«guaglioni»? Reality e camorra?<br />
Il successo. Il gieffino tipo, quello da ultime<br />
edizioni del reality, uscito dalla Casa si rimette a<br />
fare il pizzaiolo. Scompare, si volatilizza, se ne<br />
perde ogni traccia. Di tanto in tanto, con una serata<br />
in discoteca o un’ospitata nelle tv locali, riesce a<br />
pagarsi l’assicurazione (semestrale) per il motorino.<br />
Il guaglione pure ha una vita breve. Lo arrestano<br />
prima che abbia il tempo di farsi ammazzare. O lo<br />
ammazzano, addirittura. O diventa latitante. Il<br />
successo (soldi, rispetto, qualche donnina) svanisce<br />
in un lampo, pari pari, così com’è arrivato. Il<br />
giochetto dura poco. In men che non si dica, il<br />
gieffino triste e il guaglione incarcerato si ritrovano<br />
RRR<br />
Sistemi a confronto<br />
Dopo un anno senza Grande Fratello<br />
è bene ripensare a certi format<br />
con l’occhio di chi segue la cronaca<br />
nera al Sud. Così si può sperare che<br />
non tornino più come prima<br />
a girare in tondo guardandosi le scarpe.<br />
Quale background? Il gieffino non è che la sappia<br />
lunga. Si getta nella mischia andando ai provini e<br />
rispondendo ai selezionatori che lo interrogano sul<br />
suo tallone d’Achille: «Il mio tallone da killer?»<br />
(episodio reale). Il gieffino non è che abbia studiato<br />
per andare al GF. Non è che abbia tutta questa<br />
preparazione tecnica. Il guaglione del clan, dal<br />
canto suo, si mette in testa di far secco qualcuno.<br />
Va lì pistola in pugno, dà prova del suo background<br />
criminale tenendo l’arma di sbieco, sparando colpi<br />
alla bell’e meglio (a tutto e a tutti, tranne che al suo<br />
bersaglio), incassando rimproveri e calci dai suoi<br />
capibastone. Nel suo caso, più che in qualunque<br />
altro, si può parlare di «tallone da killer».<br />
La delazione. Il gieffino si chiude nel confessionale.<br />
Per ingraziarsi il favore del pubblico dice peste e<br />
corna dei suoi compagni, racconta cose che voi<br />
umani... Poi esce con un sorriso, dice «amici!» e li<br />
abbraccia tutti. Senza sapere che il suo migliore<br />
«amico», appena entrato nel confessionale, gli sta<br />
giusto restituendo il favore. Il guaglione, invece, per<br />
ingraziarsi il favore di un poliziotto, gli dice nome,<br />
cognome e indirizzo di quello che ha aperto uno<br />
spaccio al minuto. Senza sapere che il pusher, alla<br />
prima occasione, ricambierà scientificamente la<br />
cortesia. Gli affari sono affari, nell’uno e nell’altro<br />
caso.<br />
Il look. Ne vogliamo parlare? Volti bruciati dalle<br />
lampade abbronzanti, «sopracciglia di gabbiano»<br />
(curve studiate e disegnate col rasoio che ricordano<br />
ali di gabbiano), acconciature da pappagallo<br />
esotico, scarpe e vestiti dalle tinte lunari. Di chi<br />
stavamo parlando? Di gieffini o di guaglioni? A volte<br />
è facile perdere il filo.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
STEFANO PIEDIMONTE Napoli, 1980. Laureato all’Università<br />
L’Orientale, ha seguito la cronaca nera per quotidiani e settimanali.<br />
Per Guanda ha pubblicato il racconto «Siete tutti morti» (collana<br />
Guanda.bit) e il romanzo «Nel nome dello Zio» (2012), storia<br />
di un boss che infiltra, per fanatismo, un suo affiliato in un reality.
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Il dibattito delle idee<br />
di GUIDO VITIELLO<br />
Ripianare il debito pubblico sarebbe<br />
una sciocchezza, se solo<br />
ci decidessimo a prendere<br />
alcuni provvedimenti dolorosi<br />
ma risolutivi: una tassa sui<br />
luoghi comuni e sulle frasi fatte, per<br />
esempio, e ancor prima una tassa sulle<br />
citazioni abusate. Cinquanta centesimi<br />
ogni volta che ci si azzarda a riproporre<br />
il monito di Bertolt Brecht, «Sventurato<br />
il paese che ha bisogno di eroi». Almeno<br />
un euro per gli usi illeciti del motto<br />
filosofico di Ludwig Wittgenstein, «Su<br />
ciò di cui non si può parlare si deve tacere».<br />
Cinque euro per il George Santayana<br />
di «Chi non ricorda il passato è<br />
condannato a ripeterlo». Una gabella<br />
molto più onerosa per guadagnarsi il diritto<br />
a ripetere impunemente il tormentone<br />
del Gattopardo, «Se vogliamo che<br />
tutto rimanga come è, bisogna che tutto<br />
cambi». La confisca dei beni (e una<br />
quarantina di scudisciate sulla pubblica<br />
piazza, già che ci siamo) per chi ha<br />
ancora il coraggio o l’impudenza di annunciare,<br />
con Goya, che «Il sonno della<br />
ragione genera mostri».<br />
Pensateci bene, un meccanismo di<br />
tassazione di questo genere non solo risanerebbe<br />
in tempi rapidissimi i conti<br />
dello Stato, ma porterebbe sicuri benefici<br />
anche in quel piccolo sistema valutario<br />
che è il dibattito pubblico e giornalistico,<br />
dove le parole sono monete e il<br />
citazionismo compulsivo innesca spaventosi<br />
fenomeni inflattivi. A furia di ripetizioni,<br />
quanto vale ormai sul mercato<br />
delle idee uno dei preziosissimi aforismi<br />
di Ennio Flaiano, o di Leo Longanesi?<br />
Non molto più di un marco nella<br />
Germania di Weimar, quando un chilo<br />
di banconote non bastava a comprare<br />
un chilo di pane.<br />
Ci sono autori così saccheggiati che<br />
non si può fare a meno di immaginarli<br />
come le mappe anatomiche dei bovini<br />
che si vedono alle pareti di qualche macelleria,<br />
suddivise per tagli da linee tratteggiate<br />
(lombata, girello, tracoscio,<br />
sottospalla). Il cliente sceglie una delle<br />
cinque o sei formule per cui sono noti,<br />
se la fa incartare, un ciuffo di rosmarino<br />
e via, è pronta per il banchetto del<br />
proprio discorso, con grande soddisfazione<br />
dei convitati. Per la macelleria citazionista,<br />
per esempio, Walter Benjamin<br />
si divide pressappoco così: angelo<br />
della storia (è il taglio più pregiato, diciamo<br />
pure il filetto), perdita dell’aura,<br />
riproducibilità tecnica dell’opera d’arte,<br />
sex-appeal dell’inorganico e un po’ di<br />
frattaglie sui passages parigini; Michel<br />
Foucault, diviso in aree contrassegnate<br />
da un numeretto, si presenta come segue:<br />
sorvegliare e punire, panopticon,<br />
cura di sé, dispositivo, eterotopia e soprattutto<br />
biopolitica (che ormai si dà<br />
via come il macinato, e serve a preparare<br />
i polpettoni più immasticabili).<br />
Pier Paolo Pasolini offre anche lui ottimi<br />
tagli, che non possono mancare in<br />
un buffet apparecchiato come si deve:<br />
scomparsa delle lucciole, omologazione,<br />
i poliziotti di Valle Giulia, «Il romanzo<br />
delle stragi», il discorso dei capelli,<br />
mutazione antropologica, scandalo del<br />
contraddirsi e via fino all’indigestione.<br />
Beninteso, vedersi ridotti a un pugno<br />
di frasi o a una sola formula è un destino<br />
a cui non sfuggono neppure i migliori,<br />
è il corso normale della decomposizione<br />
dei grandi organismi letterari.<br />
Nelle prime pagine della sua popolare<br />
Storia della filosofia greca Luciano De<br />
Crescenzo rievocava i suoi appunti<br />
iper-bignamizzati di liceale dove Talete<br />
diventava, brutalmente, «quello dell’acqua».<br />
Qualcosa di simile sta avvenen-<br />
{Safranski e l’illusionista Karl Kraus<br />
La differenza è: ci sono giovanotti scrittori<br />
Risate al buio i cui capelli cominciano a sbiancare<br />
che citano sempre se stessi: e poi ci sono<br />
di Francesco Cevasco<br />
i grandi della letteratura. Tipo Rüdiger<br />
Safranski: ci ha insegnato a conoscere<br />
L’Imu? No, tassiamo le citazioni facili<br />
Frasi e concetti sono sempre gli stessi: dal liquido Bauman allo scandaloso Pasolini<br />
Tra i più usati, gli aforismi erroneamente attribuiti a Voltaire, Goebbels e Allen<br />
RRR<br />
Macelleria culturale<br />
Ci sono autori così saccheggiati<br />
che non si può fare a meno di<br />
immaginarli come mappe<br />
anatomiche dei bovini che si vedono<br />
alle pareti, suddivise per tagli<br />
RRR<br />
Ricomincio da tre<br />
Nel film Lello Arena spaccia<br />
per propria una frase di Montaigne<br />
Troisi la ricicla e alla ragazza<br />
che gli obietta di parlare con frasi<br />
di altri ribatte: «Conosci Lello?»<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger.<br />
Mica cita se stesso: cita quell’illusionista<br />
di Karl Kraus: «La psicoanalisi è quella<br />
malattia mentale di cui ritiene di essere<br />
la cura». Finalmente.<br />
Proposta Solo una gabella intellettuale può salvarci dal logorio del sapere post-moderno<br />
Illustrazione<br />
di FRANCESCA<br />
CAPELLINI<br />
LA LETTURA<br />
do, mentre è ancora in<br />
vita, al citatissimo Zygmunt<br />
Bauman, che è<br />
ormai «quello del li-<br />
quido».<br />
Ma se proprio si deve esser ridotti a<br />
una sola parola, a una sola frase, che almeno<br />
sia una frase che abbiano pronunciato<br />
davvero. Tutti ricordano la nobile<br />
e cavalleresca sortita di Voltaire: «Non<br />
sono d’accordo con le tue idee, ma mi<br />
batterei fino alla morte perché tu possa<br />
esprimerle». Tutti, tranne Voltaire, che<br />
quando fu scritta era morto da più di<br />
un secolo: a mettergliela in bocca fu infatti<br />
Evelyn Beatrice Hall, nel libro biografico<br />
The Friends of Voltaire (1906).<br />
Già, direte voi, ma Voltaire ha pur sempre<br />
detto che «Il grado di civiltà di una<br />
nazione si misura visitando le sue carceri».<br />
Dragate pure la sua opera omnia:<br />
non ne troverete traccia. E certo, sostiene<br />
un’altra scuola, quella lì è di Dostoevskij.<br />
Ma niente da fare, pare che tra i<br />
milioni di parole dell’autore dei Karamazov<br />
l’aforisma sulle carceri manchi<br />
all’appello. Il caso più desolante (e spudorato)<br />
è quello di Primo Levi, brandito<br />
a ogni occasione dagli antisionisti arrabbiati<br />
per una frase («Ognuno è<br />
ebreo di qualcuno, oggi i palestinesi sono<br />
gli ebrei di Israele») che non solo<br />
non disse mai, ma che non si sarebbe<br />
mai sognato di dire.<br />
Woody Allen ha inventato centinaia<br />
di battute memorabili, ma forse sarà ricordato<br />
per l’’unica che non ha mai detto:<br />
«Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io<br />
mi sento molto bene». Chi è stato,<br />
allora? Groucho Marx, come sostiene<br />
qualcuno? Neppure. Eugène Ionesco?<br />
Ma Ionesco a sua volta citava una scritta<br />
murale sessantottina. Non se ne<br />
esce.<br />
Più ci addentriamo nel labirinto delle<br />
citazioni, più siamo costretti a mettere<br />
in dubbio le poche certezze nozionistiche<br />
di cui avevamo tappezzato il nostro<br />
cervello negli anni di scuola. Due<br />
professori americani, Paul F. Boller e<br />
John H. George, si sono divertiti anni fa<br />
a compilare un dizionario commentato<br />
di false citazioni, They Never Said It<br />
(Oxford University Press). Ne vien fuori<br />
che Goebbels non ha mai detto «Quando<br />
sento la parola cultura metto mano<br />
alla pistola» (la frase è del drammaturgo<br />
Hanns Johst), Lenin non ha mai parlato<br />
di «utili idioti», e Maria Antonietta<br />
non ha mai suggerito di dare brioches<br />
al popolo affamato di pane, perché la<br />
stessa frase compare molti anni prima<br />
nelle Confessioni di Rousseau. Ma —<br />
questo è il punto — la regina avrebbe<br />
potuto dirla, suona plausibile, e tanto<br />
basta.<br />
Tutto sta a convincersi che il nome<br />
in calce a una citazione non è il riconoscimento<br />
di una paternità, o almeno<br />
non principalmente. È prima di tutto<br />
un colpo di gong, che conferisce solennità<br />
o perfino un tremito di fatalità alle<br />
parole appena pronunciate. Dunque,<br />
un autore vale l’altro. Non c’è frase abbastanza<br />
stupida che non possa riscattarsi<br />
se in coda ci si appende, a casaccio,<br />
un «Winston Churchill» o un<br />
«Oscar Wilde».<br />
Ma, con tutto il rispetto per i falsari e<br />
gli spacciatori di citazioni taroccate, c’è<br />
un esempio ancora più goliardico a cui<br />
dovremmo ispirarci. È il Lello Arena di<br />
Ricomincio da tre, che per darsi arie di<br />
persona profonda contrabbanda come<br />
propria una frase di Montaigne. L’ignaro<br />
Troisi, a sua volta, la ricicla per far<br />
colpo su una ragazza. E quando si sente<br />
obiettare «Ma che fai, parli con le frasi<br />
degli altri?», non gli resta che chiederle:<br />
«Perché, conosci Lello?».<br />
5<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
6 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
RRR<br />
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Innovazione, conti ok, welfare<br />
Trionfa il modello scandinavo<br />
di GIUSEPPE SARCINA<br />
TREND DE VIE<br />
di CRISTIANA RAFFA<br />
Orizzonti<br />
Nuovi linguaggi, scienze, religioni, filosofie<br />
Sfide I successi di Finlandia,<br />
Danimarca, Svezia e Norvegia<br />
Hanno vinto<br />
i vichinghi<br />
Negli anni Novanta i funzionari<br />
del governo norvegese spiegavano<br />
così agli ospiti europei<br />
che cosa fosse la Scandinavia:<br />
«Gli svedesi sono come i tedeschi;<br />
i finlandesi somigliano ai francesi e i<br />
norvegesi agli italiani». Allora il blocco del<br />
Nord viveva la peggiore crisi del dopoguerra.<br />
Economica, certo: il reddito dei cittadini<br />
svedesi, per esempio, era inferiore a<br />
quello degli inglesi e degli italiani. E poi<br />
politica, culturale, perfino esistenziale. Il<br />
modello socialdemocratico scandinavo,<br />
che aveva brillantemente retto agli anni<br />
della contestazione, sembrava pronto a farsi<br />
spazzare via dal ciclone liberista, reaganiano-thatcheriano.<br />
Lo scrittore finlandese<br />
Arto Paasilinna aveva anticipato, ridendoci<br />
sopra, quest’atmosfera di disincanto,<br />
raccontando storie di fuga, di isolamento<br />
(per tutti, L’anno della lepre, 1975, pubblicato<br />
in Italia da Iperborea nel 1994). Oggi,<br />
nessuno si offenda, molti italiani farebbero<br />
carte false per vivere come i norvegesi e<br />
molti francesi come i finlandesi (i tedeschi<br />
fanno storia a parte). Sono loro i primi<br />
della classe. Per cominciare, Finlandia,<br />
Danimarca e Svezia (la Norvegia non fa<br />
parte della Ue) hanno preso sul serio<br />
l’«Agenda di Lisbona», il piano pomposamente<br />
lanciato nel 2000 che avrebbe dovuto<br />
trasformare il Vecchio Continente nell’area<br />
più competitiva del mondo. Per tutti<br />
gli altri, con l’eccezione della Germania, si<br />
è visto come è andata a finire. Gli scandinavi,<br />
invece, hanno raggiunto, spesso con largo<br />
anticipo, gli obiettivi legati alla ricerca,<br />
all’innovazione, alla formazione. E ora costituiscono<br />
il «prossimo super modello»,<br />
come ha titolato due settimane fa l’«Economist»,<br />
mettendo in copertina l’immagine<br />
di un «vichingo» con tanto di corna e<br />
dedicando ai «Paesi nordici» uno speciale<br />
di 14 pagine.<br />
Come hanno fatto? Detto in una parola,<br />
sono corsi incontro al futuro (e i giovani<br />
prima di tutti) senza aspettarlo seduti su<br />
venerabili, ma ormai logore, concezioni e<br />
strutture politico-istituzionali. Hanno cominciato<br />
smontando e rimontando il modello<br />
di welfare, proprio come se fosse un<br />
mobile Ikea, il concentrato della nuova<br />
»<br />
Il giovane Ghost è l’unico<br />
sopravvissuto di una banda<br />
di vichinghi alla ricerca di<br />
una nuova terra in Nord<br />
America; sarà allevato da<br />
una famiglia indigena. È la<br />
trama di «Pathfinder - La<br />
leggenda del guerriero<br />
vichingo» (2007), film<br />
d'azione diretto da Marcus<br />
Nispel. Il tema dell’arrivo<br />
dei vichinghi in America è<br />
affrontato anche in<br />
«Severed Ways: The Norse<br />
Discovery of America»<br />
(2009; nella foto), film<br />
d’esordio di Tony Stone<br />
molto apprezzato dalla<br />
critica: girato solo con la<br />
camera a mano e<br />
sfruttando la luce naturale, i<br />
pochi dialoghi sono in<br />
lingue antiche e la colonna<br />
sonora è heavy metal. «Erik<br />
il vichingo» (1964) è una<br />
pellicola italiana diretta da<br />
Mario Caiano e interpretata<br />
da Giuliano Gemma.<br />
Tra i documentari:<br />
«Viking visitors to North<br />
America» (1979)<br />
di Tony Ianzelo<br />
L’identità online che passa dallo shopping<br />
Èfrutto di un investimento di 600 mila dollari affidato al<br />
miglior gruppo ingegneristico del vivaio creativo di<br />
Palo Alto, in California. Si chiama «Mine» e descrive chi<br />
siamo attraverso ciò che compriamo. La nuova app<br />
consente di costruire un profilo personale fatto di prodotti<br />
che acquistiamo online, un tracciato commerciale della<br />
nostra identità pubblica. Funziona così: quando arriva via<br />
email una ricevuta d’acquisto, «Mine» la inserisce nel nostro<br />
profilo e offre la possibilità di accostare la notizia a<br />
un’immagine del prodotto, di condividerla sulla bacheca<br />
pubblica dell’applicazione e sui social network. Un modo per<br />
rendere semplice, immediata, e soprattutto «dedicata» la<br />
condivisione con i nostri amici o follower dell’ultimo paio di<br />
Obiettivi Hanno attuato l’Agenda<br />
di Lisbona e hanno avuto ragione<br />
La scoperta<br />
dell’America<br />
Svezia, il Paese che ha ridotto in vent’anni<br />
la percentuale della spesa pubblica sul prodotto<br />
interno lordo dal 67% al 49%. Da Stoccolma<br />
lo Stato vegliava sui cittadini, proteggendoli,<br />
anzi accudendoli «dalla culla<br />
alla tomba». Era il piccolo paradiso in terra<br />
di Olof Palme, leader socialdemocratico<br />
epocale (assassinato il 28 febbraio 1986).<br />
Ora, più pragmaticamente, il governo conservatore<br />
guidato da Frederik Reinfeldt, salito<br />
al potere nel 2006 (dopo 65 anni di egemonia<br />
socialdemocratica) sostiene ancora<br />
i disoccupati, ma, per esempio, non si sobbarca<br />
interamente la gestione del sistema<br />
scolastico. Le famiglie possono scegliere liberamente<br />
in quale scuola mandare i figli.<br />
Lo Stato si occupa di quella pubblica e fornisce<br />
dei «voucher», dei buoni, per pagare<br />
l’iscrizione negli istituti privati. Anche la<br />
Danimarca adotta lo stesso metodo, che<br />
nasce da un’idea dell’economista americano<br />
Milton Friedman, il padre del monetarismo,<br />
premio Nobel nel 1976 e autore di volumi<br />
come Capitalismo e libertà, nei quali<br />
si raccomanda il ridimensionamento del<br />
ruolo pubblico nella società.<br />
Chiaro, non sempre le cose vanno bene:<br />
l’esperienza universale ha dimostrato che<br />
la privatizzazione, sia pure parziale, non<br />
garantisce, di per sé, risultati efficienti. Secondo<br />
uno studio di Anders Bohlmark e<br />
Mikael Lindahl, in Svezia le scuole pubbliche<br />
continuano a funzionare meglio di<br />
quelle private. Sembrerebbe confermarlo<br />
anche la variante finlandese: obbligo scolastico<br />
e corsi statali uguali per tutti fino a 16<br />
anni. Poi si sceglie se prepararsi per l’università<br />
o per un lavoro. I maestri e i professori<br />
finnici non sono pagati molto, ma godono<br />
di larga autonomia e di un prestigio<br />
RRR<br />
Il meccanismo<br />
Gli Stati nordici hanno<br />
smontato e rimontato il<br />
modello di protezioni<br />
sociali aggiungendo<br />
elementi di privatizzazione<br />
Keynes e Hayek<br />
Cercare una sintesi<br />
tra i grandi rivali<br />
scarpe, della giacca nuova, delle unghie appena laccate col<br />
colore del momento. Un altro passo avanti nel percorso di<br />
avvicinamento tra le due dimensioni, sociale e commerciale,<br />
che si annusano sul web. Se Instagram mostra immagini di<br />
vita e Pinterest liste dei desideri, Mine punta direttamente<br />
sul piacere di dichiarare il possesso degli oggetti in una<br />
versione 2.0 del marxiano feticismo delle merci e<br />
sull’innesco dell’effetto a catena «Lo voglio anch’io». Intanto<br />
i grandi marchi stanno cominciando a sperimentare l’utilizzo<br />
promozionale di Vine, l’app per editare e condividere video<br />
di 6 secondi su Twitter. Comincia l’era del social commerce.<br />
@cristianaraffa<br />
{<br />
Forse il rilancio del modello<br />
scandinavo deriva anche dalla<br />
capacità che quei Paesi hanno<br />
dimostrato nel cercare una sintesi tra<br />
le idee dei due grandi capiscuola della<br />
scienza economica moderna: John M.<br />
Keynes (foto a sinistra) e Friedrich<br />
von Hayek (foto a destra). Da una<br />
parte i nordici non hanno rinunciato a<br />
un elevato livello di protezione<br />
sociale, cui corrisponde una forte<br />
pressione fiscale, ma dall’altra hanno<br />
saputo valorizzare l’apporto dei<br />
privati riducendo in modo incisivo<br />
deficit e debito pubblico. Del resto,<br />
narra Nicholas Wapshott nel libro<br />
Keynes e Hayek (traduzione di<br />
Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, pp. 334,<br />
e 23), il duello intellettuale tra i due<br />
studiosi resta aperto. Nel dopoguerra<br />
il pensiero interventista di Keynes ha<br />
dominato fino agli anni Settanta,<br />
mentre poi il liberista Hayek ha preso<br />
il sopravvento per un trentennio. La<br />
crisi del 2008 ha rilanciato il<br />
keynesismo, pur suscitando anche<br />
reazioni di segno opposto (tipo Tea<br />
Party). Difficile dire se una sintesi<br />
virtuosa sia davvero possibile.<br />
Antonio Carioti<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
sociale indiscusso. Risultato: i quindicenni<br />
finlandesi sono in testa nella graduatoria<br />
mondiale dei test Pisa (Programme for international<br />
student assessment, promosso<br />
dall’Ocse), davanti ai «mostri» sud coreani,<br />
agli australiani e ai tedeschi (Italia praticamente<br />
non pervenuta).<br />
Certo, tutto è più facile quando si governa<br />
una popolazione che, tra Svezia, Norvegia,<br />
Finlandia e Danimarca arriva a 26 milioni<br />
di abitanti: neanche la metà degli italiani.<br />
Anche se dentro ci trovi tre sovrani,<br />
quattro monete (solo la Finlandia ha l’euro)<br />
e un dubbio irrisolto: la Scandinavia è<br />
parte integrante dell’Europa o, come la<br />
Gran Bretagna, si prepara a un futuro da<br />
battitore libero, dentro o fuori secondo<br />
convenienza?<br />
Ma è il dinamismo dell’economia che<br />
spinge i nordici a ragionare su scala mondiale.<br />
Più che i grandi gruppi del passato<br />
— la svedese Ericsson, la danese Danisco,<br />
la finlandese Nokia — ora sono le medie<br />
imprese a guidare. Alcuni casi: in Danimarca<br />
operano la Novo, azienda farmaceutica<br />
che produce metà del fabbisogno mondiale<br />
di insulina, e la Oticon, leader globale<br />
degli apparecchi acustici. Sono danesi anche<br />
le 200 società che forniscono più di un<br />
terzo del mercato planetario di turbine eoliche.<br />
Ma la cosa più interessante è che la<br />
rinascita economica è trainata dai giovani.<br />
La Svezia e la Finlandia, in particolare, stanno<br />
vivendo una «rivoluzione dei talenti»,<br />
una sorta di contestazione al vecchio establishment<br />
economico che, anziché produrre<br />
marce di protesta, si traduce in una fre-<br />
RRR<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Maurizio Porro nuovo twitterguest<br />
Il prossimo #twitterguest della Lettura è<br />
Maurizio Porro. Nato il 10 luglio, giorno di<br />
Proust, è stato mammone, è un lunare amante<br />
insaziabile di spettacolo. Tra Fellini e Strehler<br />
si butterebbe giù dalla torre lui. Laureato in<br />
filosofia, ha nel cuore la «Recherche», Balzac e<br />
«8 e mezzo». Al «Corriere» dal 14 giugno ’74,<br />
giorno della prima del «Giardino dei ciliegi».<br />
Da oggi a sabato consiglierà un libro al giorno<br />
dall’account de @laLettura.<br />
Miti aggiornati<br />
Nelle camerette dei ragazzi<br />
i poster dell’economista<br />
Milton Friedman<br />
hanno sostituito<br />
quelli di Che Guevara
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
i<br />
ARTO PAASILINNA<br />
L’anno della lepre<br />
Traduzione Ernesto Boella<br />
IPERBOREA<br />
Pagine 204, e 13<br />
MILTON FRIEDMAN<br />
Capitalismo e libertà<br />
Traduzione David Perazzoni<br />
IBL LIBRI, pagine 298, e 24<br />
STEFANO GASPARRI<br />
CRISTINA LA ROCCA<br />
Tempi barbarici<br />
CAROCCI<br />
Pagine 357, e 29<br />
netica attività imprenditoriale. Sono ragazzi,<br />
racconta l’«Economist», che appendono<br />
in camera il poster di Friedman con lo<br />
stesso entusiasmo con cui i padri attaccavano<br />
l’immagine di Che Guevara. Sono<br />
«giovani-vecchi»? Può darsi. Tuttavia in<br />
questa atmosfera vagamente californiana<br />
sono nate miriadi di imprese. Solo che al<br />
posto dell’isolato e disadorno garage di<br />
Bill Gates, qui ci sono laboratori finanziati<br />
dal governo, frequentati da professori universitari,<br />
finanzieri e soprattutto giovani talenti<br />
formati dalle scuole di design, informatica,<br />
robotica e così via. Un esempio è la<br />
«Start-up Sauna», creata dagli studenti della<br />
Aalto University, appena fuori Helsinki.<br />
I risultati sono visibili. In Svezia, a fianco<br />
di Ikea e Tetra Pak o delle antiche dinastie<br />
industriali, non si può prescindere da facce<br />
nuove come Niklas Zennstrom, cofondatore<br />
di Skype. In Finlandia la Rovio Entertainment<br />
è diventata un fenomeno<br />
mondiale, dopo che 600 milioni di clienti<br />
hanno scaricato il video «Angry birds»,<br />
versione moderna della batracomiomachia,<br />
solo che non si scontrano rane e topi,<br />
ma uccelli e maiali.<br />
Il segreto del Nord, dunque, si chiama<br />
lavoro e valorizzazione (non emarginazione)<br />
dei giovani talenti, ragazzi e ragazze<br />
con pari opportunità. Questa è la base, poi<br />
viene la cura ossessiva dei conti pubblici e<br />
dell’efficienza dei servizi ereditati dalla socialdemocrazia.<br />
Ovviamente esistono anche<br />
contraddizioni. La Svezia è il Paese più<br />
investito dall’immigrazione. Nel 2012 Stoccolma<br />
ha ricevuto 44 mila richieste d’asilo:<br />
un’enormità se paragonate alle 60 mila della<br />
Francia e alle 64 mila della Germania.<br />
L’integrazione è lenta, difficile. I nuovi arrivati<br />
si insediano, o meglio si barricano,<br />
nei vecchi quartieri operai. Così le palazzine<br />
di Rosenborg, costruite per i lavoratori<br />
delle industrie di Malmoe sono passate<br />
agli immigrati, esattamente come accaduto<br />
a Feyenoord, dove vivevano i portuali di<br />
Rotterdam o, per venire a noi, nelle periferie<br />
di Torino e, in parte, di Milano. Da questo<br />
punto di vista non c’è molta differenza<br />
rispetto al resto d’Europa. E ai vichinghi,<br />
naturalmente, non piace.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO<br />
Intersezioni<br />
La zuppa e il «pagan metal»<br />
Le nostre radici barbariche<br />
di ALESSANDRO ZIRONI<br />
Tanto si è discusso e si discute<br />
sulle possibili radici cristiane<br />
o greco-latine dell’Europa. A<br />
nessuno si è palesato il dubbio<br />
che le nostre radici siano<br />
invece barbariche? Questo suggeriva<br />
provocatoriamente Jean-Jacques Aillagon<br />
aprendo il catalogo della mostra veneziana<br />
Roma e i barbari (Skira, 2008).<br />
Gli europei sono ascrivibili d’ufficio al<br />
gruppo dei «balbuzienti» (tanto, significa,<br />
in greco, barbaroi) o, ancor peggio,<br />
vanno annoverati tra le fila dei selvaggi<br />
e primitivi, come vuole l’ampliamento<br />
semantico del termine?<br />
L’accezione negativa della parola barbaro<br />
è quella corrente. Gettiamo un rapido<br />
sguardo al suo uso contemporaneo:<br />
si scopre che in un talk-show televisivo<br />
si conducono «interviste barbariche»,<br />
cioè provocatorie, disinibite, al di fuori<br />
delle regole usuali del giornalismo. Oppure<br />
si pensi al film Le invasioni barbariche<br />
(regia di Denys Arcand, 2003), in<br />
cui si rappresenta la fine di un’epoca<br />
nei suoi valori portanti, schiacciati dal<br />
caos emotivo ed etico in cui la vita dell’individuo<br />
precipita. Solo qualche<br />
giorno fa, il presidente francese<br />
François Hollande denunciava a<br />
Timbuctù la «barbarie» perpetrata<br />
sui beni culturali del Mali.<br />
In altra direzione si muovono<br />
invece gli studi storiografici:<br />
quelli più avveduti, fra i quali<br />
ricordo i lavori di Walter<br />
Pohl, stanno infatti spostando<br />
il baricentro semantico del termine<br />
«barbaro» da una connotazione<br />
profondamente e tradizionalmente<br />
negativa a un uso più<br />
neutrale, ove con barbarico si intende<br />
definire un periodo della storia<br />
d’Europa, quello tardo-antico ed alto<br />
medievale. Tempi barbarici (Carocci,<br />
2012), è il titolo di un recente volume di<br />
Stefano Gasparri e Cristina La Rocca: in<br />
esso il confine fra civiltà e barbarie, fra<br />
dominatore e dominato non è poi così<br />
netto. Queste recenti indagini storiche<br />
sfumano anche il concetto di assimilazione<br />
con cui un tempo si intendeva l’assorbimento<br />
delle masnade barbariche<br />
all’interno della civilitas romana (e bizantina)<br />
ereditata e salvaguardata poi<br />
dalla Chiesa. In definitiva, barbari, alle<br />
soglie dell’età medievale, lo sono un po’<br />
tutti, al di là di denominazioni etniche<br />
spesso fasulle alle quali una tradizione<br />
storica di matrice ottocentesca nazionalista<br />
ci ha abituati: Goti, Longobardi,<br />
Burgundi, Franchi, Suebi e, ovviamente,<br />
non possono mancare loro, i barbari<br />
per antonomasia, i Vandali. Queste genti,<br />
però, si muovono attraverso l’Europa<br />
non come corpi etnici impenetrabili a<br />
influenze esterne, ma raccolgono e accolgono<br />
individui e gruppi nei quali di<br />
volta in volta si imbattono: Greci, Romani,<br />
Celti, popoli delle steppe, in una parola<br />
quel melting pot che darà poi vita<br />
agli europei.<br />
In Italia tutti parliamo un po’ in longobardo<br />
o in gotico. Molto spesso non<br />
lo sappiamo neppure. Chi non pronuncia,<br />
almeno una volta al giorno, la parola<br />
schiena, oppure guancia o, piuttosto,<br />
pensa che occorrerebbe arredare nuovamente<br />
la cucina in cui mangiare una<br />
zuppa magari riscaldata nel microonde?<br />
Parliamo ostrogoto? Finalmente<br />
possiamo rispondere: «Sì!». Per non dire<br />
dei Longobardi e Franchi in cui ci imbattiamo<br />
scorrendo i campanelli di<br />
ogni condominio: tutti coloro che hanno<br />
il cognome che termina in -ardi, possono<br />
intraprendere una bella ricerca ge-<br />
L’eredità linguistica<br />
Parole come schiena<br />
e guancia vengono dal<br />
vocabolario gotico (per<br />
non parlare dei cognomi<br />
franchi e longobardi)<br />
Inutile inseguire l’Ultima Thule incontaminata<br />
L’identità dell’Europa ha un carattere ibrido<br />
nealogica e sperare di arrivare a Carlo<br />
Magno; chi, invece, all’anagrafe, è registrato<br />
come Sighinolfi o Alderissi, può<br />
invece immaginare di essere parente di<br />
re Alboino.<br />
Peccato, però, che l’indagine genealogico-etnica<br />
naufragherà, scoprendo<br />
ben presto che la discendenza non sempre<br />
può vantare antenati di pura schiatta<br />
romana o barbarica. Valga qualche<br />
esempio: a Varsi (Parma), nel 735 vive il<br />
soldato e vir honestus Berto (quanto<br />
mai longobardo) il cui figlio prende però<br />
il nome latino di Antonino; a Lucca,<br />
di contro, nel 764, un babbo Vincentius,<br />
ha un figlio dall’altisonante nome<br />
longobardo Sichipert. Viene da pensare<br />
allora che l’idea di barbaro sia più una<br />
costruzione culturale moderna, anche<br />
un po’ ammuffita, piuttosto che una realtà<br />
dei fatti.<br />
Se, allora, dal barbaro non possiamo<br />
più smarcarci etnicamente e linguisticamente,<br />
probabilmente tutta la questione<br />
va addebitata allo stereotipo che si<br />
associa alla sua immagine. Come in tutti<br />
i clichés si raccolgono anche qui rifiuti<br />
e pulsioni, inconfessabili adesioni,<br />
convinte appartenenze. Già lo storico<br />
romano Tacito, alla fine del I secolo<br />
d.C., raffigura le genti che abitano al di<br />
là del Reno come uomini e donne che<br />
prediligono il bosco alla città, la casa<br />
isolata all’agglomerato, che vivono casti<br />
sino al matrimonio: un’idea di purezza<br />
di costumi a contatto con una natura<br />
primigenia che tanto infatuerà l’immaginario<br />
europeo.<br />
L’europeo si innamora dell’Ultima<br />
Thule, dell’Islanda, isola di ghiacci e<br />
fuoco in cui andare ad alimentare il sogno<br />
delle origini, ultimo, incontaminato<br />
luogo in cui recuperare ciò che di sano<br />
vi era nell’età dei barbari. È la ricerca<br />
dell’estremo, magari da percorrere col<br />
fuoristrada, addentrandosi nei tratturi<br />
più interni e accidentati dell’isola. I sogni<br />
di molti viaggiatori alla ricerca della<br />
terra dei vichinghi si appagano anche<br />
così, sentendo una giovane donna, ai<br />
piedi della collina sacra di Helgafell —<br />
come è capitato al sottoscritto — vantarsi<br />
di discendere da Guðrún<br />
Ósvífrsdóttir, tremenda virago protagonista<br />
della Laxdæla Saga, forse vissuta<br />
alla fine del X secolo.<br />
Tanta fortuna, anche letteraria, del<br />
Nord è probabilmente legata a questa vi-<br />
RRR RRR<br />
sione così radicata nel nostro immagi-<br />
nario di un mondo ancora intatto, arcaico,<br />
scevro dalle corruzioni della società<br />
industriale e dunque barbarico perché<br />
ancora puro e incontaminato. Con barbarie,<br />
perciò, non si intende più la distruzione<br />
della civiltà, ma piuttosto la<br />
volontà di recuperare il primigenio.<br />
Non siamo molto distanti dalle speculazioni<br />
romantiche, che nelle genti ger-<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
maniche, celtiche o slave cercavano di<br />
individuare i popoli fondanti del proprio<br />
ethnos, anche se, va detto, il legame<br />
terra-ethnos è ben più antico e si ritrova<br />
già in alcuni testi medievali. Molto<br />
del recente folclore a uso turistico<br />
(talvolta politico) che si spende nella vana<br />
ricerca delle origini approda al cosiddetto<br />
mondo barbarico. In esso si sfoggiano<br />
fittizie ricostruzioni che poco però<br />
hanno a che vedere con quello che<br />
gli archeologi medievali pazientemente<br />
portano alla luce.<br />
Un buon viatico in questo percorso<br />
fra gli stereotipi barbarici può essere<br />
raccolto anche nelle evidenti affinità riscontrabili<br />
fra molti raduni e fiere in costume,<br />
più o meno casarecci — di cui<br />
anche l’Italia si sta popolando — e la<br />
rappresentazione che dei barbari propone<br />
una certa produzione fumettistica,<br />
che restituisce graficamente ciò che<br />
l’immaginario collettivo si aspetta da<br />
quella terra barbarica: natura estrema,<br />
una mascolinità esibita da uomini virili,<br />
spesso villosi e muscolosi, dei quali si<br />
intuiscono i successi sessuali e la<br />
consuetudine alle grandi bevute.<br />
La donna è, di contro, figura servile,<br />
a uso e consumo del maschio,<br />
una Barbie impiantata<br />
nel corpo barbarico del medioevo<br />
nordico. Se non è accondiscendente<br />
e devota ai<br />
suoi doveri muliebri, diviene<br />
elemento di disturbo nell’ordine<br />
cosmico, spesso strega,<br />
talvolta femme fatale, comunque<br />
da eliminare.<br />
Lo stesso avviene nei numerosi<br />
videoclip di brani musicali<br />
connessi al cosiddetto pagan metal<br />
o viking metal, in cui sono proposti<br />
i medesimi ruoli sociali: l’uomo<br />
combatte, la donna venera il maschio e<br />
custodisce la comunità. Basti prendere<br />
visione di qualche filmato dei Týr, gruppo<br />
di buon successo e capacità musicali,<br />
o dei Menhir, anch’esso di notevole<br />
diffusione e discreta bravura. Entrambe<br />
le band mettono in musica testi medievali,<br />
in lingua originale: ballate delle isole<br />
Fær Øer i Týr; il Carme di Ildebrando<br />
di età carolingia i Menhir. Il mondo barbarico<br />
si recupera anche attraverso<br />
l’uso della lingua antica, quasi a suggellare<br />
un passato culturale che nulla ha<br />
da patire nel confronto con la tradizione<br />
musicale in lingua latina. Infatuazioni<br />
della musica gregoriana e dell’ars antiqua<br />
invadono anche gli arrangiamenti<br />
delle compilation metal, ove tutto si<br />
mescola e si confonde. Un’assimilazione<br />
senza vincitori né vinti in cui la differenza<br />
è ricchezza.<br />
Che, in fondo, questa sia la barbarie<br />
dell’Europa? Sapere di essere uguali,<br />
ma allo stesso tempo diversi, uniti ma<br />
pure divisi, fusi ma distinti? Probabilmente<br />
l’immagine più vera della barbaritas<br />
è il medaglione d’oro di Teoderico<br />
(nella foto), re degli Ostrogoti, rinvenuto<br />
nei pressi di Senigallia nel 1894. Il re<br />
goto, che parlava greco e latino, sceglie<br />
di farsi rappresentare alla maniera romana<br />
con la tradizionale vittoria alata,<br />
senza rinunciare tuttavia al lungo crine<br />
e al baffo germanico: non si sa più dove<br />
finisca la romanitas e inizi la barbaritas.<br />
Che sia questa l’icona più efficace<br />
per rappresentare la nostra ibrida<br />
«europeità»?<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
R Alessandro Zironi (Carpi, 1964) insegna<br />
Filologia germanica e Letterature<br />
nordiche all’Università di Bologna<br />
Stereotipi da fumetto<br />
La mascolinità esibita dei<br />
guerrieri muscolosi<br />
e la visione di una donna<br />
sospesa fra la strega<br />
e una Barbie medievale<br />
7
8 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Orizzonti Società<br />
Gastropolitica Due ristoranti, tre negozi<br />
di specialità e una storia di dialogo<br />
di VIVIANA MAZZA<br />
Q<br />
uando Yotam e Sami uscivano<br />
da scuola, sapevano bene che<br />
cosa non avrebbero dovuto fare:<br />
comprare e divorare una pita<br />
zeppa di felafel cinque minuti<br />
prima di pranzo. Ma la tentazione era<br />
troppo forte e, immancabilmente, arrivavano<br />
a casa con la maglietta macchiata di salsa<br />
tahina e così pieni da non poter più<br />
mangiare a tavola. Il ricordo è lo stesso, inclusa<br />
la mamma arrabbiata. Identica la città,<br />
Gerusalemme, dove entrambi sono nati<br />
nel 1968, l’anno dopo la guerra dei Sei Giorni<br />
in cui Israele occupò Gerusalemme Est,<br />
insieme con la Cisgiordania, Gaza, il Sinai<br />
e le Alture del Golan. Yotam Ottolenghi e<br />
Sami Tamimi però non si conoscevano a<br />
quei tempi. L’uno ebreo di origini italiane<br />
e tedesche, l’altro palestinese, vivevano rispettivamente<br />
nella zona occidentale di Ramat<br />
Denya e nel quartiere musulmano della<br />
Città Vecchia, due realtà geograficamente<br />
prossime ma culturalmente lontane. Eppure,<br />
nell’inconscio infantile di entrambi,<br />
non sono le divisioni religiose e politiche a<br />
prevalere ma le memorie di un Giardino<br />
dell’Eden culinario, con pile infinite di verdure,<br />
di dolci, di spezie esposte nei mercati,<br />
quasi a compensare l’incertezza e le paure.<br />
Era un mondo di meraviglie come il polpettone<br />
di nonna Luciana Ottolenghi o la<br />
pasta al forno che il papà di Yotam riscalda-<br />
Punto d’incontro «Quella pasta di ceci<br />
è amatissima da tutti, ebrei e arabi»<br />
Ricette di pace in cucina<br />
Il piatto di Gerusalemme<br />
Stessa educazione al cibo, con l’hummus nel cuore<br />
Così uno chef israeliano e uno palestinese<br />
hanno conquistato Londra (e qualcosa di più)<br />
va ricoprendola con uno strato extra di<br />
mozzarella. Come le angurie che il padre di<br />
Sami metteva nel torrente a raffreddare o i<br />
fichi sul tetto a seccare dalla madre del suo<br />
amico Jabbar e che i bambini rubavano.<br />
Quarantaquattro anni dopo, Yotam Ottolenghi<br />
e Sami Tamimi sono due chef famosi<br />
a Londra. Gestiscono insieme due ristoranti<br />
e tre negozi di specialità gastronomiche<br />
frequentati da clienti chic e adorati dai<br />
critici avidi di sapori e colori mediterranei.<br />
Marchio: «Ottolenghi», anche se Tamimi è<br />
co-fondatore e capocuoco. Ma è Yotam<br />
quello più a suo agio sotto i riflettori: da<br />
poco conduce un programma in tv e scrive<br />
dal 2006 una rubrica sul «Guardian». Intri-<br />
Illustrazione di Stefania<br />
Cavatorta. Nella foto, da<br />
sinistra: Yotam Ottolenghi,<br />
ebreo israeliano di origini<br />
italiane e tedesche, e Sami<br />
Tamimi, palestinese<br />
gato dalla loro armonia in cucina, un reporter<br />
del «Telegraph» s’è informato pure sulla<br />
loro vita sentimentale, scoprendo che<br />
non stanno insieme ma entrambi hanno relazioni<br />
stabili con altri uomini.<br />
Dall’anno scorso, però, quando hanno<br />
pubblicato un libro di ricette israeliane e<br />
palestinesi (sia autentiche che «rivisitate»)<br />
intitolato Jerusalem, i due chef non vengono<br />
più interrogati solo sull’onnipresenza<br />
di limone, melograno, aglio e za’atar nei
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
loro piatti. Un reverendo anglicano li ha citati<br />
come esempio di dialogo interreligioso<br />
durante un popolare programma radio della<br />
Bbc, la rivista «New Yorker» li ha ritratti<br />
con il titolo «Lo chef filosofo», un tabloid<br />
inglese ha perfino strillato «Date una chance<br />
ai ceci» cioè l’ingrediente base dell’hummus<br />
(a riprova di quanto sia disperato lo<br />
stallo del processo di pace). E così quella di<br />
Yotam e Sami è diventata la «storia di due<br />
hummus», la salsa che accomuna israeliani<br />
e palestinesi e li divide, perché ciascuno<br />
ne rivendica l’origine. E benché gli chef insistano<br />
di volere solo «condividere il cibo<br />
che adoriamo», sanno bene che nella loro<br />
terra anche l’alimentazione è politica.<br />
È a Londra che si sono conosciuti, dopo<br />
esservi arrivati (separatamente) alla fine degli<br />
anni Novanta, passando per Tel Aviv.<br />
Per il palestinese Sami Tamimi diventare<br />
chef è stato naturale: da bambino ammirava<br />
i genitori tra i fornelli, ha cominciato come<br />
tuttofare all’hotel Mount Zion («il lavoro<br />
più umile e più duro in cucina») e si è<br />
fatto strada fino a diventare il capocuoco<br />
(dai capelli tinti di rosa) di Lilith, uno dei<br />
migliori ristoranti di Tel Aviv negli anni Novanta.<br />
Tamimi parla poco, ma tra le righe<br />
si legge che con Israele e con la sua stessa<br />
famiglia ha avuto un rapporto complicato.<br />
«Ho sempre vissuto al confine tra arabi ed<br />
ebrei. Diciamo che abitare a Londra è più<br />
facile». Invece, benché la prima parola del<br />
piccolo Ottolenghi sia stata ma, enonè<br />
chiaro se si riferisse alla mamma (ima in<br />
ebraico) o alla zuppa (marak), ci ha messo<br />
30 anni per scoprire la sua vocazione. Prima<br />
ha studiato filosofia, lavorando di notte<br />
come correttore al quotidiano «Haaretz» a<br />
Tel Aviv. Innamoratosi di un compagno<br />
d’università, l’ha seguito ad Amsterdam<br />
completando lì il master in letterature comparate.<br />
L’accademia era il mondo dei suoi<br />
genitori, sionisti laici giunti in Israele nel<br />
1938: il padre professore di chimica, la madre<br />
insegnante e poi responsabile delle<br />
scuole superiori al ministero dell’Istruzione<br />
nonché nipote dell’architetto Julius Posener.<br />
Ma alla fine, nello spedire ai suoi<br />
una copia della tesi sull’ontologia dell’immagine<br />
fotografica, Yotam ha inserito un<br />
biglietto in cui annunciava che avrebbe studiato<br />
cucina da Le Cordon Bleu, a Londra.<br />
Un giorno, mentre girava in scooter per<br />
la capitale inglese, capitò nell’elegante gastronomia<br />
Baker & Spice: ammirò le verdure<br />
fresche, il pollame arrosto, trovò lavoro.<br />
E incontrò la star delle insalate, Sami Tamimi.<br />
Spezzando e impastando il pane, hanno<br />
iniziato a parlare in inglese mettendoci<br />
più di 10 minuti a decifrarsi a vicenda e passare<br />
all’ebraico. Nel 2002 hanno aperto la<br />
loro catena di ristoranti e negozi e, alla fine,<br />
con la stessa inevitabilità di quel felafel<br />
all’uscita della scuola, sono tornati a Gerusalemme<br />
alla ricerca della loro identità.<br />
«Gerusalemme ha un così pesante bagaglio<br />
di storia, emozioni, gente folle, religioni<br />
— ha spiegato Ottolenghi —. È il primo<br />
posto che vuoi lasciare quando sei giovane,<br />
non è il tipo di realtà in cui vuoi immer-<br />
gerti. Gerusalemme non guarda avanti,<br />
guarda indietro». Per due anni vi si sono<br />
immersi, trovando una città più divisa di<br />
quanto ricordassero, prendendosi il tempo<br />
per capire «la complessità della coesistenza<br />
e la mancanza di coesistenza».<br />
A muoverli è stata la ricerca del cibo, come<br />
forza unitaria in una città che abbraccia<br />
di tutto, dai monaci copti agli ebrei ultraortodossi,<br />
dove ognuno cucina le specialità<br />
etniche in modo così autentico, dove «tutto<br />
è ripieno». Tutti — ashkenaziti, sefarditi,<br />
palestinesi — riempiono le verdure di<br />
carne, di erbe, di spezie, osserva Ottolenghi.<br />
Per Tamimi, che ha perso la mamma<br />
Na’ama a 7 anni, Jerusalem è un viaggio colmo<br />
di nostalgia nel couscous che lei gli preparava<br />
con cipolle e pomodori, nella sua insalata<br />
fattoush, nella maqluba con la carne,<br />
le melanzane... sapori dell’infanzia impossibili<br />
da replicare. E se nel libro Ottolenghi<br />
rende omaggio al suo retaggio ashkenazita,<br />
non nasconde la preferenza per la scoperta<br />
delle tradizioni levantine di Gerusalemme.<br />
Lui che, una volta, ha ipotizzato di<br />
poter scrivere una tesi di dottorato su come<br />
si sciolgono i diversi formaggi (il suo<br />
preferito è il taleggio), si dice incantato dalla<br />
combinazione di ricotta dolce e caprino<br />
RRR<br />
Racconto<br />
«Entrambi vorremmo<br />
vedere la città divisa in<br />
modo più equo, in modo<br />
che la storia non sia<br />
narrata come avviene ora»<br />
nelle sfoglie di muttabaq. «Entrambi vorremmo<br />
vedere la città divisa in modo più<br />
equo, in modo che non sia una storia raccontata<br />
da un solo punto di vista com’è attualmente»,<br />
ha spiegato. E così si ritorna<br />
all’hummus, quella pasta di ceci che costa<br />
poco ma riempie, pasto principale ma anche<br />
snack, che si mangia nei polverosi campi<br />
profughi della Cisgiordania come nei locali<br />
trendy di Tel Aviv. E se gli scavi archeologici<br />
provano che i ceci venivano coltivati<br />
già nel VII secolo a.C. a Gerico nell’attuale<br />
Cisgiordania, lo scrittore israeliano Meir<br />
Shalev ne traccia origini bibliche nel Libro<br />
di Rut. «L’hummus è il cibo preferito di tutti<br />
a Gerusalemme, e quando parli di qualcosa<br />
che è comune a tutti in un luogo che è<br />
così diviso, hai gli ingredienti per un’esplosione<br />
— spiega Ottolenghi —. Tutti rivendicano<br />
la proprietà di quel piatto di hummus,<br />
sia gli ebrei che gli arabi. È una discussione<br />
che, iniziata, non ha più fine». Yotam<br />
e Sami giungono a un compromesso,<br />
nel libro, su un «hummus di base» ricco di<br />
quella salsa tahina con cui si sporcavano<br />
da bambini. Non sarà la ricetta per la pace,<br />
ma è un appello a riflettere.<br />
@viviana_mazza<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Post it<br />
di Stefano Righi<br />
IImondo di April Bloomfield è<br />
in un grande maiale rosa che<br />
lei appoggia (morto) sulle<br />
spalle da cuoca esperta. È la<br />
copertina del suo ultimo libro,<br />
e anche il titolo non lascia spazio<br />
a equivoci: A girl and her pig<br />
(«Una ragazza e il suo maiale»). Un<br />
provocatorio (ma involontario)<br />
schiaffo culinario a vegetariani e vegani,<br />
sempre più numerosi. Allo<br />
stesso tempo, una potenziale bandiera<br />
per la riscossa degli onnivori.<br />
Bloomfield, chef 39enne di Birmingham<br />
che da piccola voleva diventare<br />
poliziotta, ha dedicato questo<br />
suo primo lavoro editoriale a<br />
una serie di ricette rigorosamente a<br />
base di carne. C’è la sezione vitello,<br />
quella manzo, quella maiale, quella<br />
volatili e quella scarti… Un racconto<br />
gastronomico, nel quale però traspare<br />
qualcosa di pericolosamente<br />
rivoluzionario: esce in un momento<br />
storico in cui mangiare carne e<br />
dichiarare di essere onnivori senza<br />
nascondersi non è una scelta politicamente<br />
corretta, ma un tentativo<br />
di suicidio davanti al tribunale dell’opinione<br />
pubblica occidentale.<br />
Nel sentire comune, infatti, pensare<br />
alla carne come cibo è diventato<br />
un atto di dubbia moralità, almeno<br />
per chi dovrebbe riflettere sulle sue<br />
azioni. Ma Bloomfield, che oggi dirige<br />
un suo ristorante nel Greenwich<br />
Village, The Spotted Pig, ed<br />
è pluriosannata dai colleghi (Mario<br />
Batali, Fergus Henderson, Jamie Olivier),<br />
rivendica la bontà del progetto<br />
con l’aiuto dei suoi ricordi: «Da<br />
bambina amavo le domeniche.<br />
Quelle mattine in cui nell’aria si diffondeva<br />
il profumo di bruciato perché<br />
mia nonna preparava in giardino<br />
il barbecue e metteva ad arrostire<br />
il maiale comprato dal macellaio<br />
di fiducia. Le verdure; il burro, tanto.<br />
Ci mangiavamo due giorni, due<br />
giorni di felicità. Cosa c’è di male?».<br />
Nel suo libro si trovano ricette<br />
come l’adobo di pollo alla filippina<br />
e le scaloppe di vitello con il chimichurri.<br />
O anche le interiora alle cipolle…<br />
«Mio nonno, anche quando<br />
partivamo per vacanze brevi, si portava<br />
dietro i rognoni in una borsa<br />
frigo. Ce li friggeva per colazione...<br />
Una delizia».<br />
Leggerla è come fare un’enorme<br />
indigestione di proteine animali<br />
(stile dieta Dukan), senza però sentirsi<br />
in colpa. Senza riflettere, tormentarsi,<br />
affrontare dilemmi etici.<br />
Esattamente la sensazione che una<br />
sempre più agguerrita falange di<br />
carnivori ricerca negli ultimi tempi.<br />
Ne è prova l’enorme successo ottenuto<br />
dal «concorso» lanciato sul<br />
{Trieste, l’allegro frastuono della vita<br />
«Trieste è la città del frastuono delle voci.<br />
Si parla tanto ma ci si capisce appena.<br />
C’è una stratificazione di mentalità diverse<br />
che è come la pasta sfoglia, i cui strati<br />
non si uniscono in un tutto omogeneo».<br />
«New York Times» la scorsa estate:<br />
Ariel Kaminer, titolare della rubrica<br />
«The Ethicist», ha chiamato a raccolta<br />
tutti gli onnivori ponendo loro<br />
la domanda delle domande:<br />
«Perché è etico mangiare carne?».<br />
Un modo, ha spiegato l’editorialista,<br />
per incoraggiarli a produrre teorie<br />
altrettanto forti di quelle che vegetariani<br />
e vegani diffondono da anni.<br />
Si potevano usare al massimo<br />
600 parole. A scegliere i vincitori<br />
cinque giudici d’eccezione: Mark<br />
Bittman, Jonathan Safran Foer, Andrew<br />
Light, Michael Pollan e Peter<br />
Singer. Oltre 70 mila messaggi arrivati.<br />
I più originali? Eccone alcuni<br />
stralci: «Il leone mangia carne. Volete<br />
accusarlo di essere poco etico?».<br />
«Lo squalo divora pesci da<br />
una vita. E allora?». «La Bibbia dice<br />
che è ok». «Siamo in una nazione<br />
libera». Ma il vincitore è stato Jay<br />
Bost, 36 enne docente di agronomia<br />
e vegetariano pentito, che ha<br />
scritto: «Per me mangiare carne è<br />
etico quando fai tre cose. Primo: accetti<br />
che la morte produce la vita e<br />
che tutta la vita (inclusa la nostra) è<br />
solo energia solare in una forma<br />
temporaneamente stabile. Secondo:<br />
scegli vegetali, grano e carne<br />
prodotti eticamente. Terzo: ringrazi».<br />
Insomma, la vendetta degli onnivori<br />
è cominciata, però con giudizio.<br />
In questa strana guerra, dove il<br />
desiderio e il piacere combattono<br />
per affermare i propri diritti mentre<br />
l’etica, il principio di responsabilità,<br />
la cura per il mondo, provano<br />
tenacemente a negarglieli, gli schieramenti<br />
hanno un nome: i soldati<br />
del primo esercito si chiamano specisti,<br />
quelli del secondo antispecisti.<br />
Gli specisti sostengono la superiorità<br />
della specie umana; gli antispecisti,<br />
cioè i vegetariani e i vegani,<br />
la negano sfidando i rivali a fornire<br />
prove chiare e inequivocabili. Lo<br />
scrittore sudafricano J. M. Coetzee,<br />
a proposito delle teorie animaliste,<br />
ha detto testualmente: «Se hanno<br />
ragione loro, allora sotto i nostri oc-<br />
Per capire questa città, «Trieste» di Günther<br />
Schatzdorfer (Gaffi) è il consiglio giusto<br />
della libreria Lovat, utile per fuggire<br />
alla conformistica visione mitteleuropea<br />
e scavare tra Freud e Franco Basaglia.<br />
Costumi La cuoca April Bloomfield guida i fan delle proteine<br />
Riscossa dei carnivori<br />
«È una scelta etica»<br />
La copertina del libro<br />
di April Bloomfield<br />
e, a destra, «La bottega<br />
del macellaio»<br />
di Annibale Carracci<br />
(1560-1609), olio su tela,<br />
cm 185 x 266, Oxford<br />
di ANGELA FRENDA<br />
RRR<br />
Lo show<br />
Sherie Rene Scott dopo<br />
26 anni da vegetariana<br />
è tornata onnivora:<br />
lo racconta con gran<br />
successo a Broadway<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
chi ogni giorno avviene un crimine<br />
di proporzioni stupefacenti».<br />
D’altra parte, provate a mangiare<br />
una bistecca leggendo Liberazione<br />
animale del filosofo australiano Peter<br />
Singer. Lo ha fatto il critico del<br />
«Nyt» Michael Pollan. Il risultato è<br />
il capitolo «Il problema etico di<br />
mangiare carne» inserito nel suo<br />
bestseller Il dilemma dell’onnivoro.<br />
Una riflessione sul perché un atto<br />
fino a pochi anni fa considerato<br />
banale sia sempre più visto come<br />
una barbarie. Ma la lettura del pamphlet<br />
di Singer, racconta Pollan, pone<br />
di fronte a una scelta netta: «Per<br />
decidere se sia giusto uccidere gli<br />
animali per mangiarli non dobbiamo<br />
chiederci: possono ragionare?<br />
Ma: possono soffrire? La risposta è<br />
sì, e dunque essere vegetariani è<br />
un obbligo». Pollan ci ragiona su a<br />
lungo, prova persino per qualche<br />
settimana a osservare una dieta<br />
senza carne, e approda a quella che<br />
è la nuova tesi degli onnivori, con<br />
presunta riscossa etica incorporata:<br />
«È nella sofferenza inflitta agli<br />
animali dall’allevamento industriale<br />
moderno la non moralità del<br />
mangiare carne. Se troveremo una<br />
terza via, che riconosca loro i diritti<br />
di soggetto capace di provare dolore<br />
e piacere, allora riusciremo a<br />
nutrirci con consapevolezza. E per<br />
farlo, basterebbe imporre con una<br />
legge il diritto di vedere anche la loro<br />
morte, rendendo i macelli trasparenti,<br />
controllabili dall’opinione<br />
pubblica».<br />
Gli onnivori, insomma, provano<br />
a uscire dall’angolo. A testa alta,<br />
senza arrossire: arrivano persino a<br />
metterlo in scena, il loro desiderio<br />
di carne. Sherie Rene Scott, attrice<br />
teatrale di successo, dopo 26 anni<br />
da convinta vegetariana, a 44 si è<br />
riconvertita alla scelta onnivora e<br />
ha deciso di raccontare la propria<br />
metamorfosi culinaria ed etica in<br />
uno spettacolo che sta sbancando i<br />
botteghini di Broadway: A piece of<br />
meat. Racconta: «È successo tutto<br />
all’improvviso. Una mattina ero a<br />
casa da sola. Qualcuno stava cucinando<br />
una bistecca nel cortile. Ho<br />
aperto la porta come in trance e ho<br />
seguito la scia. Mi sono ritrovata a<br />
bussare a casa dei miei vicini e chiedere<br />
di assaggiare un pezzo di carne.<br />
Il mio spettacolo parla di questo,<br />
del desiderio. Ma anche di<br />
quello che mi disse il mio dottore:<br />
"Il tuo corpo ha bisogno di ferro. O<br />
mangi carne o diventi anemica".<br />
Non è stato facile. Ho sofferto. E<br />
probabilmente, ora, non potrò più<br />
dormire con Paul McCartney».<br />
9<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
10 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Orizzonti Nuovi linguaggi<br />
Diritti e Rete<br />
di FEDERICA COLONNA<br />
scontro titanico».<br />
Così Barry Steinhardt,<br />
presidente dell’associazioneinternaziona-<br />
«Uno<br />
le per la tutela degli<br />
utenti «Friend of Privacy», definisce il dialogo<br />
— difficile — tra Europa e Usa in tema<br />
di e-privacy. Un conflitto appena cominciato,<br />
con l’arrivo a Bruxelles dei lobbisti<br />
delle maggiori tech company d’Oltreoceano,<br />
al lavoro per ammorbidire il Data<br />
Protection Regulation, il nuovo regolamento<br />
europeo sulla protezione dei dati<br />
personali previsto per il 2014. E, spiega il<br />
«New York Times», per impedire ai netizen<br />
europei di cambiare la storia del web:<br />
niente più pubblicità mirata su Google e<br />
nessuna cattiva sorpresa stile Max<br />
Schrems, lo studente austriaco che, quando<br />
ha chiesto a Facebook di avere accesso<br />
a tutti i dati che lo riguardavano, si è visto<br />
recapitare ben 1.222 pagine Pdf e 23 mail<br />
di foto e status. Alcuni dei quali, a suo dire,<br />
cancellati da tempo.<br />
È alla storia di Schrems che ha fatto riferimento<br />
Viviane Reding, la commissaria<br />
Ue per la Giustizia, i Diritti fondamentali e<br />
la Cittadinanza — che propone il nuovo<br />
regolamento — per descrivere lo spirito<br />
della normativa: «Servirà a rinforzare la<br />
privacy dei cittadini e ad aumentare la fiducia<br />
nel business online». Come? Attraverso<br />
i 91 articoli della riforma, relativa solo<br />
all’uso professionale e commerciale dei<br />
dati personali, presentata il 25 gennaio<br />
2012 e ora in discussione al Parlamento.<br />
Quattro, ha sottolineato Reding pochi<br />
giorni fa all’Informal Justice Council di Dublino,<br />
i provvedimenti principali: il rafforzamento<br />
del diritto all’oblio; la data portability<br />
(il diritto, cioè, al trasporto dei dati<br />
personali da un fornitore di servizi a un<br />
altro); l’introduzione del privacy officer,<br />
una nuova figura di garanzia presente nelle<br />
grandi aziende e nella pubblica amministrazione;<br />
l’inversione dell’onere probatorio<br />
per l’illiceità del trattamento; e, infine,<br />
l’articolo 20 in base al quale gli utenti dovranno<br />
fornire alle imprese «consenso<br />
specifico, informato ed esplicito» al trattamento<br />
dei dati personali, e possono opporsi<br />
preventivamente a ogni misura di<br />
profilazione online. «Si tratta — spiega<br />
Luca Bolognini, presidente dell’Istituto italiano<br />
per la Privacy — di un pesante freno<br />
al behavioral advertising, la pubblicità<br />
comportamentale, la più usata e efficace.<br />
Avviene quando il browser, per esempio,<br />
installando dei cookie nel pc o nello smartphone<br />
di chi naviga lo segue e ottiene informazioni<br />
preziose per calibrare i messaggi.<br />
Con il regolamento sarà chiesto<br />
esplicito consenso preventivo all’utente.<br />
Idem con la geolocalizzazione».<br />
Se da un lato, quindi, l’obiettivo del Data<br />
Protection Regulation è rafforzare i diritti<br />
dei cittadini, dall’altro «si prepara —<br />
continua Bolognini — ad abbattere su tutti<br />
i titolari del trattamento, quindi sulle<br />
aziende e sugli enti, una montagna di<br />
adempimenti nuovi, di "compiti a casa",<br />
mentre le sanzioni diventeranno mostruose,<br />
fino al 2% del fatturato globale annuo<br />
di una impresa». Ecco perché i lobbisti sono<br />
atterrati a Bruxelles: «Il sistema Usa —<br />
spiega Morena Ragone, giurista, vice presidente<br />
dell’associazione Wikitalia — si<br />
basa su un regime di autoregolamentazione<br />
che consente alle aziende di raccogliere<br />
i dati degli utenti». E, quindi, di sviluppare<br />
servizi con maggiore libertà, come<br />
ha avuto modo di sottolineare il 28 gennaio,<br />
in occasione della Giornata internazionale<br />
per la Privacy, anche l’Icdp (Industry<br />
Coalition for Data Protection): «Proprio<br />
nel momento in cui il settore Ict è uno<br />
dei pochi in grado di stimolare la crescita<br />
in Europa, la proposta della Commissione<br />
minaccia di compromettere l’ecosistema<br />
digitale e, potenzialmente, di soffocare<br />
la capacità dell’Europa di innovare».<br />
Eppure la Commissione ha stimato<br />
che il Pil del continente potrebbe crescere<br />
del 4% entro il 2020 se l’Unione riuscisse<br />
a creare, come conseguenza dell’applicazione<br />
del regolamento, un mercato unico<br />
digitale. Grazie, soprattutto, alla rinnovata<br />
fiducia degli europei nelle aziende<br />
web. Sentimento che, rivela Eurobarometro<br />
— servizio statistico dell’Ue, autore<br />
dell’indagine Attitudes on data protection<br />
and electronic identity in the European<br />
Union, allegata al progetto di legge —<br />
solo il 26% degli utenti dei social<br />
network e il 18% di chi fa acquisti online<br />
si sente nel pieno controllo dei propri dati.<br />
Mentre Facebook e Yahoo! escono dalla<br />
top ten delle società online ritenute<br />
più sicure dagli utenti — americani, stavolta<br />
— secondo la recente classifica del<br />
Ponemon Institute.<br />
Non è, però, attraverso la proliferazione<br />
burocratica che l’ambiente digitale diventa<br />
più sicuro. «Serve una visione globale<br />
comune, almeno sui principi chiave delle<br />
leggi», spiega Daniel Cooper, firma di<br />
{<br />
di Giuseppe Remuzzi<br />
Privacy, la battaglia dell’Atlantico<br />
RRR<br />
I provvedimenti<br />
Rafforzati il diritto all’oblio<br />
e il diritto di opporsi<br />
preventivamente alla<br />
profilazione online. Nasce<br />
un nuovo garante<br />
Sopra le righe<br />
Il codice<br />
Il Data Protection<br />
Regulation europeo<br />
dovrebbe sostituire<br />
la direttiva madre<br />
in materia di privacy, la<br />
95/46. Presentato il 25<br />
gennaio 2012, si compone<br />
di 91 articoli, e per l’online<br />
si limita ad aggiungere<br />
singole norme. Si tratta<br />
di regole, però, in grado<br />
di incidere su temi centrali,<br />
come la «profilazione»<br />
degli utenti web, i quali<br />
dovranno fornire alle<br />
imprese «consenso<br />
specifico, informato<br />
ed esplicito» al trattamento<br />
dei dati. Il progetto è in fase<br />
di revisione parlamentare:<br />
gli emendamenti<br />
sono stati presentati<br />
il 17 dicembre scorso nella<br />
bozza (draft report)<br />
coordinata dallo special<br />
rapporteur Jan Philipp<br />
Albrecht, membro del<br />
gruppo Verde/Alleanza<br />
libera europea. Le<br />
modifiche proposte<br />
prevedono un<br />
rafforzamento ulteriore<br />
della tutela del cittadino e<br />
maggiori responsabilità e<br />
trasparenza (accountability)<br />
delle imprese. Il voto finale<br />
agli emendamenti, presso la<br />
commissione parlamentare<br />
Libe (libertà civili, giustizia e<br />
affari interni) è previsto per<br />
il prossimo aprile.<br />
L’adozione del regolamento<br />
è, invece, prevista per il<br />
2014, ma entrerà in vigore<br />
solo due anni dopo<br />
Quando chiedere non è lecito<br />
Un ex presidente del Royal College of<br />
Physicians — associazione medica di grande<br />
prestigio nel Regno Unito — ha chiesto a un<br />
po’ di amici di aiutarlo ad avere un seggio<br />
alla Camera dei Lord. Gli hanno risposto che<br />
punta dello studio legale Convington &<br />
Burling. E continua: «La giurisprudenza<br />
americana riconosce un grande peso ai<br />
principi di notice and choice, notifica e<br />
scelta. Le regole europee, invece, tendono<br />
a essere più paternalistiche, ma non è detto<br />
che questo approccio, che nel campo<br />
della privacy riconosce al principio del<br />
consenso un grande peso, sia davvero più<br />
favorevole per i cittadini». Insomma, se alcuni<br />
pregi del Data Protection Regulation<br />
sono innegabili — «Finora abbiamo trattato<br />
la privacy con una visione analogica,<br />
stavolta non è così» spiega Ragone — il<br />
regolamento potrebbe trasformarsi in<br />
un’occasione mancata.<br />
Viktor Mayer-Schönberger, docente di<br />
Internet Governance and Regulation presso<br />
l’Oxford Internet Institute, ne evidenzia<br />
un grande limite: «Avrei sperato ci fosse<br />
più attenzione alle sfide poste dai big data.<br />
In ogni caso il regolamento sarà incisivo<br />
un po’ come la legge della California<br />
che ha innalzato il livello di emissioni<br />
standard per le auto e ha costretto le industrie<br />
a fabbricare più veicoli ibridi. Così<br />
l’inasprimento degli standard europei potrà<br />
migliorare la privacy mondiale».<br />
Una prospettiva sulla quale Reding<br />
sembra puntare, tanto che il faccia-a-faccia<br />
con gli Usa è soprattutto politico. Chi<br />
detterà, infatti, le regole del web determinerà<br />
la forma mentis del pianeta. Per questo<br />
l’articolo 3 della riforma è il più controverso:<br />
stabilisce che le norme si applicheranno<br />
anche alle imprese extra Ue se<br />
sono residenti europei a usufruire dei servizi.<br />
«Non possiamo, però, essere troppo<br />
eurocentrici — conclude Bolognini —.<br />
Quasi ogni articolo del regolamento finisce<br />
con un comma che conferisce alla<br />
Commissione il potere di adottare atti delegati<br />
per l’attuazione delle disposizioni.<br />
La Commissione può fare e disfare le regole».<br />
Un tema spinoso, «tanto che —<br />
continua Cooper — molti stakeholder<br />
hanno espresso preoccupazione, perché<br />
tanta discrezione è riconosciuta a un organo<br />
europeo non-eletto». Senza contare<br />
che i tempi dell’attuazione del regolamento<br />
potrebbero così diventare lunghissimi.<br />
È in dubbio, infatti, se sarà davvero il<br />
2014 l’anno della nuova legge sulla privacy.<br />
Sia per questioni interne, come il<br />
mal di pancia di Gran Bretagna e Germania<br />
che preferirebbero una direttiva al regolamento<br />
(ma che, conclude Cooper, «lascerebbe<br />
l’Europa come già è: frammentata»),<br />
sia per le difficoltà burocratiche. Un<br />
rischio, insomma, c’è. Proprio la legge sul<br />
diritto all’oblio può finire nel dimenticatoio.<br />
@fedecolonna<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
se uno lo chiede non è la persona giusta<br />
per la Camera Alta. E se facessimo così<br />
anche noi? Chi si propone per un posto<br />
di responsabilità e si fa raccomandare<br />
per arrivarci, forse non lo dovrebbe avere.<br />
Bruxelles avvia la discussione sul Data Protection Regulation<br />
Dietro c’è lo scontro tra due idee di web e progresso: Europa e Usa L’operaio<br />
fa un iPad<br />
e lo porta<br />
al museo<br />
i<br />
ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO<br />
Cina Il caso Foxconn<br />
di MARCO DEL CORONA<br />
Alla fine Li Liao chiude il cerchio.<br />
Dopo aver lavorato in incognito<br />
un mese e mezzo come operaio<br />
in uno stabilimento della famigerata<br />
Foxconn, con i salari percepiti ha<br />
acquistato un iPad, ovvero l’oggetto che<br />
aveva contribuito ad assemblare. Il<br />
cerchio chiuso è per Li un’opera d’arte.<br />
E, come tale, Consumption è approdata<br />
all’Ullens Center for Contemporary Art<br />
di Pechino (Ucca), che ha<br />
commissionato 50 opere a 50 artisti<br />
della nuovissima wave cinese per la<br />
collettiva On/Off. Li è nato in Hubei<br />
nell’82, ha spiegato nel 2011 di aver<br />
cancellato i suoi studi accademici dal<br />
curriculum per «preservare la propria<br />
libertà» e si è fatto assumere a<br />
Shenzhen, città simbolo dell’«apertura»<br />
di Deng. Dunque, con decine di milioni<br />
di lavoratori migranti ha condiviso<br />
anche il destino di venire da lontano<br />
(«e in fabbrica non tornerò», ha<br />
confidato in un’intervista). La sua opera<br />
«Consumption»: il camice e il tesserino<br />
Foxconn di Li Liao, artista nato nell’82<br />
WWW.NEWYORKER.COM<br />
condensa la prestazione professionale e<br />
l’esperienza esistenziale, senza<br />
dichiarati scopi politici: oltre al lavoro<br />
nel campus di Longhua — 10 ore al<br />
giorno più due per i pasti — ecco l’iPad<br />
stesso, il camice, i tesserini, il contratto<br />
d’assunzione incorniciato. Più<br />
dell’originalità, vale la tempestività<br />
dell’operazione. Vale, naturalmente, il<br />
fatto che Consumption sia nata in Cina,<br />
dove i temi del lavoro alimentano le<br />
aspettative popolari. Vale che l’iPad sul<br />
piedistallo rimandi all’azienda<br />
(taiwanese) eletta a simbolo negativo<br />
delle pratiche industriali. Vale infine<br />
che proprio ora si parli dell’ipotesi di<br />
consentire alla Foxconn delegati dei<br />
lavoratori più rappresentativi di quanto<br />
accada con il sindacato ufficiale. E il<br />
cerchio di Li Liao si chiude una seconda<br />
volta entrando in risonanza con il titolo<br />
della mostra: On/Off evoca l’attivazione,<br />
o meno, di una vpn (virtual private<br />
network), un software che aggira il<br />
Great Firewall, la censura online. In<br />
Cina, senza vpn anche un iPad resta<br />
zoppo.<br />
http://leviedellasia.corriere.it<br />
@marcodelcorona<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Orizzonti Mappe<br />
Visual data<br />
di GIORGIA LUPI<br />
e SIMONE QUADRI<br />
Lo studio di questa settimana<br />
esplora i caratteri distintivi di<br />
25 tra le più importanti città<br />
del pianeta. Ogni insediamento<br />
urbano è stato analizzato<br />
secondo differenti parametri (ambientali,<br />
territoriali, architettonici, demografici,<br />
economici) al fine di individuare<br />
identità e ricorrenze geografiche.<br />
Ogni metropoli è visualizzata in base<br />
alla sua latitudine, con un raggruppamento<br />
per zone climatiche (tempera-<br />
te e tropicale). L’identità di ciascuna<br />
città è composta visivamente da un poligono,<br />
la cui forma e dimensione restituiscono<br />
la correlazione tra la superficie<br />
e quattro parametri accessori: il<br />
numero di abitanti, il numero di turisti,<br />
l’altezza dell’edificio più alto e il<br />
prezzo medio di una certa tipologia di<br />
immobili nelle zone centrali; i parametri<br />
sono facilmente confrontabili nel<br />
totale delle metropoli grazie al colore<br />
pieno dell’asse principale.<br />
Queste bizzarre carte di identità urbane<br />
sono arricchite da ulteriori informazioni<br />
che chiariscono ancora di più<br />
Make up<br />
di Gianna Fregonara<br />
il quadro generale: quanto è vecchia la<br />
città? Quali sono i valori di temperatura<br />
media e precipitazioni? Si scopre così<br />
che latitudine e longitudine non determinano<br />
esclusivamente precipitazioni<br />
piovose e temperature medie,<br />
ma al contrario influenzano molti<br />
aspetti di tipo urbano.<br />
Nonostante condizioni economiche<br />
e climatiche profondamente diverse<br />
(un immobile a Londra costa 11 volte<br />
più che a Lisbona e la differenza media<br />
di temperatura tra le due capitali è<br />
di 7 gradi), le città europee presentano<br />
elementi comuni: lunga storia alle<br />
{<br />
Musei, il prezzo dei biglietti<br />
Secondo il sondaggio via Internet del<br />
ministero dei Beni Culturali tre visitatori di<br />
musei italiani su quattro sarebbero disposti a<br />
pagare anche un biglietto più costoso se<br />
questo fosse un contributo «alla salvaguardia<br />
Venticinque tra le città più importanti del pianeta<br />
sono analizzate per individuare ricorrenze geografiche<br />
Carte d’identità urbane che rivelano qualche sorpresa<br />
Lisbona è uguale a Honolulu<br />
spalle, estensione spaziale ridotta, sviluppo<br />
verticale limitato, capacità di attrarre<br />
un numero di visitatori e di turisti<br />
superiore a quello degli abitanti. Se<br />
la parte orientale del pianeta si con-<br />
Gli autori<br />
La visualizzazione e l'analisi dei dati<br />
sono a cura di Accurat<br />
(www.accurat.it) società di<br />
information design e consulenza<br />
progettuale diretta da Giorgia Lupi,<br />
Simone Quadri, Gabriele Rossi.<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
del patrimonio culturale». Cosa vorrebbero<br />
dai musei che visitano: opere d’arte di alto<br />
interesse, il materiale informativo di corredo,<br />
orari di apertura più comodi e percorsi<br />
mirati. Difficile controbattere.<br />
11<br />
traddistingue in modo abbastanza generalizzato<br />
per i grandi volumi (in superfici,<br />
altezze degli edifici, aspetti demografici),<br />
le Americhe presentano<br />
forti contraddizioni. È infatti la longitudine,<br />
più che la latitudine, a determinare<br />
l’identità di una città. Non è un<br />
caso che, nella visualizzazione, Buenos<br />
Aires sembri una piccola New<br />
York e la forma di Los Angeles non si<br />
discosti molto da quella di Città del<br />
Messico. Ma il record di somiglianza è<br />
altrove: Honolulu e Lisbona sembrano<br />
fotocopie.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
12 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
RRR<br />
Scrittore, nato a Roma<br />
nel 1953. Per l’editore<br />
il Saggiatore è tornato<br />
in libreria il romanzo<br />
«Ultimo parallelo»<br />
con cui vinse nel 2007<br />
il Premio Viareggio<br />
L’INEDITO<br />
Un romanzo<br />
di cento parole<br />
di Filippo Tuena<br />
Caratteri di<br />
Narrativa, ragazzi, saggistica, classifiche<br />
dal nostro corrispondente a New York<br />
ALESSANDRA FARKAS<br />
Marlon Brando e Bob Dylan.<br />
Philip K. Dick e Italo Calvino.<br />
Batman e l’11 settembre.<br />
Film, fumetti, graffiti,<br />
gruppi musicali e scrittori:<br />
famosi o sconosciuti, poco importa. Mille<br />
tasselli compongono il mosaico di<br />
L’estasi dell’influenza — in uscita in Italia<br />
da Bompiani con la traduzione di<br />
Gianni Pannofino — una raccolta di storie,<br />
saggi, meditazioni e interviste, in cui<br />
il 48enne Jonathan Lethem celebra le tante<br />
influenze — letterarie e non — della<br />
sua vita.<br />
Il libro rovescia la tesi de L’angoscia<br />
dell’influenza, il classico di Harold<br />
Bloom del 1973, secondo cui gli scrittori<br />
vanno compresi in rapporto agli scrittori<br />
precedenti, ossia gli autori che li hanno<br />
influenzati e ai quali hanno reagito in vari<br />
modi. «Più che ripudiare la tesi di<br />
La donna che sedeva, completamente nuda,<br />
sulla spiaggia di ciottoli di un’isola greca,<br />
in una splendida mattinata d’agosto,<br />
assieme ad altri compagni, scambiò con<br />
me più d’uno sguardo.<br />
Ecco, poteva dire a me che l’osservavo da<br />
lontano: sono esperta nella seduzione delle ore<br />
che seguono l’amore. Converserei con te, nella<br />
mia nudità, sorridendo, per nulla incupita dai<br />
minuti che seguono l’orgasmo. Ti sedurrei<br />
nuovamente, con un sorriso, se fossimo nel mio<br />
letto, di notte, dopo l’amore. Ecco, potrei farlo<br />
con la semplice arte del mio essere. So che potrei<br />
farlo.<br />
Ma non qui, non ora e non con te.<br />
{<br />
Tributi<br />
Donne ostili. Una<br />
Il canone inverso di Lethem<br />
Bloom, che considero parte organica del<br />
mio approccio alla letteratura, intendevo<br />
svilupparla, alleviando il senso di ansietà<br />
inerente al processo creativo», spiega<br />
l’autore di bestseller come Brooklyn senza<br />
madre (Il Saggiatore) e La fortezza della<br />
solitudine (Tropea). Oggi vive con la<br />
terza moglie e i due figli in California, dove<br />
dal 2011 ricopre la cattedra di Scrittura<br />
creativa all’Università di Pomona, un<br />
tempo appartenuta a David Foster Wallace.<br />
«Io sono la prova vivente che è possibile<br />
essere d’accordo con Bloom, senza tormentarsi<br />
— incalza l’autore — credo nell’appropriazione<br />
esuberante al posto di<br />
quella ansiogena; nell’approccio egalitario<br />
invece che elitario. Non ho inventato<br />
nulla: è stata la mia generazione ad abolire<br />
la distinzione tra cultura alta e cultura<br />
bassa, sostituendo la percezione soggettiva<br />
ai canoni assolutisti calati dall’alto».<br />
Ha ragione dunque il «New York Times»<br />
quando scrive che il motore della<br />
sua arte è l’impeto antiautoritario?<br />
«Sono cresciuto con nonni comunisti<br />
e genitori bohémien che mi hanno istillato<br />
l’amore per la strada, per gli outsider<br />
e la letteratura underground, insieme all’istinto<br />
per individuare i bulli e i tipi autoritari<br />
e intimidatori. Il mio problema,<br />
semmai, è dar loro troppa importanza,<br />
come faccio nel saggio contro il critico<br />
del "New Yorker" James Wood».<br />
Perché se l’è presa con uno dei critici<br />
più influenti d’America? Non temeva<br />
ripercussioni?<br />
«Lo rifarei, perché credo che quell’arti-<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
L’uomo invisibile della letteratura<br />
Thomas Kunkel, già biografo del direttore<br />
del «New Yorker» dell’età dell’oro letterario<br />
Harold Ross, sta scrivendo un libro su un<br />
altro giornalista della rivista: Joseph Mitchell,<br />
l’uomo invisibile della letteratura americana<br />
morto nel 1996, reporter di immensa classe<br />
e scrittore, che dal 1964 continuò a andare<br />
al lavoro ogni giorno per 32 anni senza più<br />
pubblicare nulla paralizzato da un caso<br />
da manuale di blocco creativo.<br />
L’intervista Le riflessioni dell’autore che siede sulla cattedra di Foster Wallace e con il nuovo libro prende di mira Harold Bloom<br />
Non è più tempo di precetti. Si fanno letture eterogenee:<br />
il fantasy e Jennifer Egan, l’horror e il grande Saunders<br />
»<br />
Tutti i generi<br />
del mondo<br />
Jonathn Lethem è nato a<br />
Brooklyn nel 1964. Insegna a<br />
Pomona sulla cattedra di<br />
Foster Wallace. A Philip K.<br />
Dick si ispira il suo primo<br />
romanzo, «Concerto per archi<br />
e canguro» (Tropea, 2002),<br />
da allora attinge a registri<br />
diversi, dall’hard boiled alla<br />
fantascienza, dal western<br />
all’avantpop, dando voce agli<br />
aspetti della realtà americana<br />
post-apocalisse. Ha scritto<br />
otto romanzi, tra i quali:<br />
«Brooklyn senza madre» (Il<br />
Saggiatore, 2007) e<br />
«Fortezza della solitudine»<br />
(Tropea, 2003) 600 pagine<br />
che hanno per orizzonte il<br />
grande romanzo americano.<br />
L’ultimo dei suoi lavori<br />
narrativi è «Chronic city»<br />
(Il Saggiatore, 2010)<br />
colo abbia creato un dibattito molto utile<br />
nel nostro ambiente. Volevo smascherare<br />
due aspetti del mestiere che nessuno<br />
vuole discutere: quanto prendiamo a<br />
prestito da altri e quanto teniamo alla nostra<br />
reputazione pubblica».<br />
A proposito di immagine pubblica,<br />
qualcuno ha suggerito che lei è il Norman<br />
Mailer della nostra era.<br />
«Non oserei mai paragonarmi a un gigante<br />
del suo calibro, con cui ogni scrittore<br />
della sua generazione ha dovuto fare<br />
i conti — e con gran riluttanza — perché<br />
Mailer era un artista ingombrante,<br />
occupava tantissimo spazio. Se mai uno<br />
di noi potrà mai aspirare a emularne il<br />
ruolo di pubblico intellettuale, quello è<br />
Dave Eggers. Mi dispiace molto, però,<br />
che oggi Mailer sembri quasi dimenticato».<br />
Come lo spiega?<br />
«Sta entrando in una sorta di "fase alla<br />
Hemingway", in cui l’immagine resta ma<br />
soltanto un paio di sue opere sono ancora<br />
lette: Il canto del boia e Le armate della<br />
notte. Oggi persino Il nudo e il morto è<br />
finito nel dimenticatoio. Accademici come<br />
Michael Szalay lo stanno riscoprendo<br />
ma tra i giovani scrittori americani prevale<br />
il pregiudizio femminista: lo vedono<br />
come membro del club dei dinosauri maschilisti<br />
alla Saul Bellow e John Updike».<br />
Matteo Persivale<br />
Philip Roth non fa parte di quel<br />
club?<br />
«Oltre ad essere più giovane, Roth ha<br />
avuto la fortuna di continuare a scrivere<br />
in maniera brillante anche in età avanzata.<br />
Sfidando ogni statistica, è l’unico che<br />
ha sfornato capolavori fino al meritato ritiro».<br />
Quali sono gli autori preferiti dai<br />
suoi studenti a Pomona?<br />
«David Foster Wallace è l’incontrastata<br />
musa di ogni giovane scrittore americano<br />
e Infinite Jest il capolavoro con cui<br />
tutti vogliono misurarsi. Ma i loro gusti<br />
sono molto più eterogenei e aperti di<br />
quelli delle generazioni precedenti. Passano<br />
tranquillamente da Jennifer Egan al<br />
fantasy e dall’horror al grande George<br />
Saunders, il cui nuovo libro, Tenth of December:<br />
Stories è stato definito il miglio-<br />
RRR<br />
Confronti<br />
«Io come Mailer? Macché.<br />
L’unico che può emularne il<br />
ruolo è Eggers. Ma Mailer è<br />
ormai associato a dinosauri<br />
come Bellow e Updike»<br />
re dell’anno dal "New York Times"».<br />
Le è piaciuto «Il re pallido» di Foster<br />
Wallace?<br />
«È un’opera mozzafiato e insieme tragica<br />
perché capisci presto che non è un<br />
libro finito ma un insieme di possibilità,<br />
senza un nucleo unificante. Comunque<br />
sono felice di avere avuto l’onore di leggerlo<br />
e penso che sia sempre giusto pubblicare<br />
i lavori postumi dei grandi. Non<br />
mi è piaciuto invece il saggio voyeuristico<br />
che Jonathan Franzen ha dedicato alla<br />
cerimonia di aspersione delle ceneri di<br />
Foster Wallace. Franzen, di cui ho letto<br />
soltanto Le correzioni, è un grande scrittore<br />
ma contesto il ruolo pubblico che si<br />
è dato».<br />
E Michael Chabon?<br />
«Siamo molto amici e stimo enormemente<br />
il suo lavoro. È uno scrittore ele-<br />
RRR<br />
Giudizi<br />
«Non mi è piaciuto il saggio<br />
di Franzen su Foster<br />
Wallace. È un grande<br />
scrittore ma contesto il<br />
ruolo pubblico che s’è dato»
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
gante, lirico, empatico e originalissimo.<br />
Penso soprattutto a I misteri di Pittsburgh<br />
eaIl sindacato dei poliziotti yiddish».<br />
Lei è stato uno dei pochi fortunati<br />
ad aver potuto intervistare Bob Dylan<br />
in una celebre conversazione apparsa<br />
su «Rolling Stone» nel 2006.<br />
«Dylan è un uomo generoso e incredibilmente<br />
divertente. Incontrandolo ho<br />
capito che il suo segreto — e la chiave<br />
per decifrare le sue tante contraddizioni<br />
— è lo humour. Perché gli piace far ridere<br />
il suo interlocutore e ha lo stesso umorismo<br />
bizzarro e fuori dalle righe dei fratelli<br />
Coen, anche loro del Minnesota».<br />
Nell’«Estasi dell’influenza» rivela<br />
che la mattina dell’11 settembre non si<br />
accorse di nulla perché stava smaltendo<br />
la sbornia dopo una notte di bagordi<br />
con Bret Easton Ellis.<br />
«Bret è uno scrittore sottovalutato a<br />
causa delle sue posizioni misogine, nonostante<br />
Lunar park e Glamorama siano<br />
capolavori. Siamo amici dai tempi del<br />
Bennington College, quando, con Donna<br />
Tartt, eravamo compagni di corso. Al secondo<br />
anno capii di essere troppo povero<br />
per quel posto di snob ricchi, e fuggii<br />
a Berkeley attraversando il Paese con 40<br />
dollari in tasca, per poi andare lavorare<br />
come commesso in una libreria di testi<br />
usati».<br />
Nei suoi libri lei definisce spesso la<br />
morte di sua madre come un’esperienza<br />
che ha cambiato la sua vita.<br />
«La sua morte mi ha distrutto, costringendomi<br />
a rinascere e a diventare ciò<br />
che sono oggi. Avevo 14 anni e dopo il<br />
trauma per la sua scomparsa, mamma è<br />
diventata la mia stella polare: quella sempre<br />
visibile a occhio nudo che ti guida come<br />
un faro».<br />
Si sente ebreo come sua madre?<br />
«Quello dell’identità è per me un tema<br />
molto spinoso, fatto di ambivalenza e ri-<br />
i<br />
JONATHAN LETHEM<br />
L’estasi dell’influenza<br />
Traduzione<br />
di Gianni Pannofino<br />
BOMPIANI<br />
Pagine 610, e 23<br />
In libreria dal 13 febbraio<br />
Nella pagina a fianco:<br />
Jonathan Lethem a New<br />
York nel 2010<br />
(dal sito buzzbox.com).<br />
In alto: un’immagine<br />
dal servizio firmato<br />
da John Baldessari (1931)<br />
con il fotografo italiano<br />
Mario Sorrenti (1971)<br />
per «W Magazine»<br />
(novembre 2007)<br />
pudio. Mio padre è quacchero e mamma<br />
era uno spirito libero della generazione<br />
di Woodstock. Non mi sono mai sentito<br />
ebreo nel senso classico del termine.<br />
Non ho fatto il Bar Mitzvah e sono andato<br />
in sinagoga tre volte in vita mia. Il mio<br />
tifo per l’outsider viene più dai miei nonni<br />
comunisti che non dalla morale ebraica.<br />
Affronto la mia ebraicità nel mio nuovo<br />
libro Dissident Gardens, un romanzo<br />
storico ambientato a New York dagli anni<br />
30 a oggi sulla fine del comunismo<br />
americano e la nascita della New Left».<br />
Al di là delle etichette che le hanno<br />
assegnato i critici, che tipo di scrittore<br />
si definirebbe?<br />
«Pur considerandomi uno scrittore<br />
americano, penso che le mie influenze<br />
più formative vengano da scrittori internazionali<br />
come Calvino, Borges, Kobo<br />
Abe, Pirandello, Stanislaw Lem e Kafka.<br />
Bolaño e Musil mi hanno cambiato la vita.<br />
Amo Le cosmicomiche e Se una notte<br />
d’inverno un viaggiatore, Primo Levi e<br />
Sciascia. Il primo libro che mi ha toccato<br />
il cuore è stato Alice nel paese delle meraviglie<br />
di Lewis Carroll, che come tutti i<br />
libri importanti della mia infanzia mi è<br />
stato regalato da mia madre».<br />
Come ha reagito suo padre quando<br />
nel 1984 l’ha informato che aveva cambiato<br />
idea: non sarebbe più diventato<br />
un pittore come lui?<br />
«Dapprima fu deluso perché gli sembrava<br />
bellissimo che volessi seguire le<br />
sue orme. Ma poi ha capito che la mia<br />
scelta di diventare scrittore non era una<br />
rottura, ma solo una deviazione che mi<br />
avrebbe consentito di applicare ciò che<br />
lui mi aveva insegnato quando ero piccolo<br />
nel suo studio. Devo a lui la curiosità<br />
vorace per tutte le arti e la mia smania di<br />
miscelare sacro e profano. È un padre e<br />
un artista meraviglioso, il mio miglior<br />
amico».<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Icone<br />
Perché la «vita matta»<br />
di Isadora Duncan<br />
spaventa Giménez Bartlett<br />
di SEVERINO COLOMBO<br />
Chi ha paura di Isadora Duncan?<br />
Chi teme che la vita<br />
estrema e travagliata della<br />
«danzatrice dai piedi nudi»<br />
possa essere un cattivo<br />
esempio per le ragazzine di oggi? La<br />
risposta richiede innanzitutto una premessa.<br />
Nell’ultimo romanzo di Alicia<br />
Giménez Bartlett, Gli onori di casa<br />
(Sellerio), da due settimane in vetta alla<br />
classifica dei libri più venduti in Italia,<br />
l’ispettore Petra Delicado è alle prese<br />
con il compleanno — nove anni —<br />
della figliastra Marina.<br />
Quando già stavo per avviarmi alla<br />
cassa, mi cadde l’occhio su un libro<br />
nella sezione biografie: «Isadora Duncan.<br />
Pioniera della danza moderna».<br />
Perché no? mi dissi.<br />
Un libro da grandi. Che racconta la<br />
vita matta ed estrema della ballerina<br />
americana nata nel 1877 e scomparsa<br />
tragicamente cinquant’anni dopo. «La<br />
Duncan era per l’epoca una donna assolutamente<br />
trasgressiva — come<br />
spiega Eugenia Casini Ropa, che ha insegnato<br />
per quarant’anni Storia della<br />
danza al Dams di Bologna, autrice della<br />
prefazione a La mia vita, autobiografia<br />
della ballerina uscita nel 2003<br />
per Dino Audino Editore —. Conduceva<br />
una vita libera, sregolata e licenziosa,<br />
ebbe moltissimi amanti». E gli uomini<br />
erano disposti a tutto per lei: Paris<br />
Singer (figlio del magnate delle<br />
macchine da cucire) arrivò a comprarle<br />
un intero palazzo, per aprirci una<br />
scuola di danza. Allo scoppio della Prima<br />
guerra mondiale, lei non esitò a regalarlo<br />
perché fosse usato come ospedale.<br />
Non solo aveva un comportamento<br />
contrario alla morale vigente ma arrivò<br />
a teorizzarlo. Spiega la studiosa:<br />
«Odiava il matrimonio e riteneva lecito<br />
avere figli al di fuori di esso. Ebbe<br />
tre figli da tre uomini diversi». E se è<br />
vero che si sposò, alla fine, non fu per<br />
un ripensamento tardivo ma l’espletamento<br />
di un atto burocratico. «In Russia<br />
sposò il poeta Sergej Esenin: era il<br />
solo modo perché il consorte potesse<br />
lasciare il Paese; e comunque il matrimonio<br />
non durò a lungo».<br />
Il regalo di Petra a Marina è all’origine<br />
di un incidente diplomatico con la<br />
madre della bambina e innesca in Petra<br />
una serie di dubbi sulle conseguenze<br />
che una lettura inadatta avrebbe potuto<br />
avere sulla giovane lettrice.<br />
E se fosse diventata passionale e<br />
mezza matta per aver letto il libro sulla<br />
Duncan? Quell’esempio avrebbe potuto<br />
essere nefasto per la sua formazione?<br />
Sarei stata io la colpevole di<br />
una gioventù traviata? Sua madre mi<br />
avrebbe inseguita per i secoli dei secoli<br />
con una mazza da baseball?<br />
Accanto alla condotta privata, Casini<br />
Ropa sottolinea un altro aspetto in<br />
cui la modernità della Duncan risultava<br />
per quegli anni scandalosa: «A livello<br />
di opinione pubblica pesava la scelta<br />
di voler essere una donna indipendente<br />
dal dominio maschile. Niente<br />
impresari che la legassero; non aveva<br />
coreografi, curava da sé i suoi spettacoli.<br />
Era una che rompeva gli schemi».<br />
Dal punto di vista artistico divise<br />
pubblico e critica: «Nella sua danza<br />
non c’era nulla di licenzioso, usava tu-<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
La danzatrice americana<br />
finita nel nuovo romanzo<br />
13<br />
A fianco:<br />
Isadora Duncan<br />
(1877-1927)<br />
in «Mazurka,<br />
Chopin Opus 17,<br />
N. 4» del 1915.<br />
Ballare le opere<br />
dei grandi autori<br />
fu una delle sue<br />
rivoluzioni.<br />
Sotto: da sinistra,<br />
la scrittrice<br />
spagnola Alicia<br />
Giménez Bartlett<br />
e un primo piano<br />
della ballerina<br />
niche leggere, i piedi erano sempre<br />
nudi. Talvolta lasciava scoperte braccia<br />
e gambe». Bastava questo a turbare<br />
la morale americana di allora. Quanto<br />
allo stile «l’idea di grecità che per<br />
lei coincideva con la purezza della natura,<br />
si traduceva in movimenti semplici,<br />
piccole corse, salti. L’assenza di<br />
virtuosismi, gesti artefatti e rigidità allora<br />
tipiche del balletto erano rivoluzionari.<br />
Fece scandalo quando ballò<br />
sulle musiche di Beethoven, Chopin e<br />
Liszt. Sapeva dare al corpo una pienezza<br />
espressiva. L’ossimoro "abbandono<br />
controllato" descrive il modo in cui rovesciava<br />
la testa all’indietro in un dionisiaco<br />
abbandono dei sensi senza<br />
perdere grazia nel gesto».<br />
Il bilanciamento, se così si può dire,<br />
di queste trasgressioni furono i molti<br />
eventi tragici della sua vita: la morte<br />
di due figli, annegati in un incidente<br />
d’auto; la scomparsa di un terzo figlio,<br />
RRR<br />
Fiction<br />
L’ispettrice Petra<br />
Delicado «censura» la<br />
biografia della ballerina<br />
che la figliastra di nove<br />
anni vuole leggere<br />
appena nato; e il suicidio del marito.<br />
Ce n’è abbastanza per rendere la lettura<br />
inadatta a una ragazzina. O forse<br />
no. La biografia ottiene il gradimento<br />
di Marina ma non l’approvazione del<br />
genitore che gliela confisca.<br />
Le esuberanze delle star di oggi sono<br />
roba da educande al confronto con<br />
gli eccessi della Duncan: «Le sue scelte<br />
le viveva fino in fondo sulla propria<br />
pelle. L’idea che la sua vicenda biografica<br />
sia inadatta alle bambine suona<br />
un po’ ridicola, piuttosto ritengo sia<br />
raccontabile in una biografia ad hoc,<br />
adatta alle lettrici più giovani» commenta<br />
Casini Ropa che dirige la collana<br />
«I libri dell’icosaedro» dell’editrice<br />
Ephemeria di Macerata (premio Mario<br />
Pasi per l’editoria di danza).<br />
A nulla valgono i pianti e le ragioni<br />
di Marina (Ero arrivata quasi a metà e<br />
mi stava piacendo tantissimo), il libro<br />
finisce in un cassetto. Non prima che<br />
la ragazza riesca a soddisfare — grazie<br />
a Petra — un’ultima curiosità.<br />
— Raccontami almeno come va a finire.<br />
— Era così matta che è morta strozzata<br />
da una delle sue sciarpe. Si era<br />
impigliata in una ruota della macchina<br />
decappottabile su cui viaggiava.<br />
— Mi sono persa il meglio! — esclamò<br />
in tono di protesta.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
14 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Caratteri Narrativa italiana<br />
Educazioni sentimentali<br />
di ERMANNO PACCAGNINI<br />
Per certi aspetti lo spunto per il romanzo<br />
Tentativi di botanica degli<br />
affetti che Beatrice Masini dichiara<br />
nella Nota conclusiva, ossia<br />
vicende da brefotrofio lievitate<br />
dalla consultazione archivistica, finisce<br />
persino per sviluppare un effetto frenante<br />
quando si dà come vicenda a sé. E questo a<br />
differenza di quando invece quelle vicende<br />
di orfananza propongono persone su<br />
cui far lievitare una storia. Di qui un romanzo<br />
dal titolo affascinante, che si dipana<br />
tra due toni, due temi, due contrapposte<br />
modalità stilistiche. E la riprova sta nel<br />
fatto che lo stesso prologo da abbandono<br />
di neonati è subito dimenticato quando entri<br />
nella più propria invenzione narrativa<br />
della Masini, che ha quale protagonista la<br />
ventenne Bianca Pietra assunta da un poeta<br />
di chiara fama perché con la sua abilità<br />
di acquarellista ritragga il ricco patrimonio<br />
botanico del suo giardino. Entrano così<br />
in scena luoghi, personaggi e tempi ben<br />
riconoscibili: perché, negli abitanti della<br />
villa di Brusuglio e della casa milanese di<br />
via Morone, rivedi in donna Clara Giulia<br />
Beccaria, in donna Julie Enrichetta Blondel,<br />
in don Titta, il Poeta, Alessandro Manzoni,<br />
circondati da un Tommaso Reda (ossia<br />
Grossi) e dai figli della celebre coppia<br />
coi nomi reali.<br />
Quanto al tempo, anche se si parla d’un<br />
romanzo di prossima stampa (il che suggerirebbe<br />
i mesi tra 1824-25), il riferimento a<br />
una visita del bel personaggio di Innes,<br />
londinese amico di famiglia, a Silvio Pellico,<br />
in Pavia, riporta la vicenda al biennio<br />
1819-20. Una vaghezza temporale, questa<br />
dell’anno o poco più in cui si sviluppa la<br />
Debutti<br />
di IDA BOZZI<br />
La tentazione, davanti a un romanzo<br />
dedicato al calcio, è quella<br />
di rintracciare vicinanze in altri<br />
autori che hanno cantato<br />
l’epica sportiva: il tifo popolare<br />
di Febbre a 90 di Nick Hornby, ma anche<br />
le mitologie di Gianni Brera, le occasioni<br />
di critica sociale e politica di Manuel<br />
Vázquez Montalbán, o ancora la metafora<br />
esistenziale di Osvaldo Soriano, o infine<br />
il romanzo di formazione dei piccoli<br />
sportivi nella provincia di Spinato o nei<br />
quartieri metropolitani di Roth. La felice<br />
prova d’esordio di Marco Marsullo, Atletico<br />
Minaccia Football Club, in ogni caso,<br />
non è un romanzo «di calcio e niente<br />
altro» (sebbene parli di calcio dalla prima<br />
all’ultima riga), ma un testo letterario<br />
di buona compattezza che ritrae senza<br />
parere il territorio, i linguaggi, le vite<br />
di un’ultraprovincia bisognosa di sogni.<br />
In breve un accenno di trama. L’allenatore<br />
Vanni Cascione, reduce da annate di<br />
disastri a fondo classifica che non hanno<br />
spento la sua fede nell’avventura sportiva<br />
— complice una venerazione per José<br />
Mourinho che lo assiste nei momenti di<br />
sconforto e lo indurrà, entro la fine del<br />
romanzo, a brizzolarsi i capelli come lui<br />
— è chiamato ad allenare una squadra<br />
ad appena un mese dall’inizio del campionato.<br />
Anzi la squadra del girone d’Eccellenza,<br />
l’Atletico Minaccia, è tutta da fare.<br />
Ed ecco che a partire dal precampionato,<br />
in strutture, campi di allenamento,<br />
i<br />
BEATRICE MASINI<br />
Tentativi<br />
di botanica degli affetti<br />
BOMPIANI<br />
Pagine 324, e 17,50<br />
i<br />
MARCO MARSULLO<br />
Atletico Minaccia<br />
Football Club<br />
EINAUDI STILE LIBERO<br />
Pagine 224, € 17<br />
Soglie<br />
di Franco Manzoni<br />
L’abisso in una stanza<br />
{Come fosse un’azione teatrale in forma di<br />
dialogo tra l’Ego e un tu ignoto e cangiante,<br />
sull’orlo dell’abisso dei sensi si sviluppa la<br />
silloge «Ultima stagione» di Letizia<br />
Dimartino (Giuliano Ladolfi editore,<br />
pp. 174, € 15). Nel dolore dell’assenza, in<br />
una tormentata eppur dolcissima solitudine,<br />
l’autrice si libra nella prigione di una stanza<br />
verso un esausto eterno, che a tratti ricorda<br />
la tensione di Rebora e della Dickinson.<br />
Le classificazioni naturalistiche non funzionano con la vita degli esseri umani. Lo mostra<br />
la prova di Beatrice Masini, costruita alludendo alla cerchia del grande letterato<br />
Oltre il giardino (di casa Manzoni)<br />
storia, che ben si sposa col cambio dei nomi:<br />
perché, pur se donna Clara e donna Julie<br />
rispecchiano la propria realtà storica,<br />
non si tratta d’un romanzo sulla «famiglia<br />
Manzoni», come dicono annotazioni su<br />
don Titta, ora burbero e introverso, come<br />
dalle cronache; ora disposto alla danza e a<br />
giocare coi bambini o alla rivoluzione.<br />
Un universo umano nel quale si muovono<br />
anche Minna e Pia, due orfane assunte<br />
con compiti diversi: più da serva la prima,<br />
circondata da particolari riguardi la seconda.<br />
Ciò che insospettisce Bianca, che inizia<br />
a immaginare una paternità extraconiugale<br />
di don Titta, indagando in questa direzione.<br />
È questo (pagina 187) il punto di<br />
svolta del romanzo: ossia il passaggio da<br />
un racconto in punta di lapis, verrebbe da<br />
dire «in acquerello», a un romanzo dai<br />
tratti appendicistici e più melodrammatici,<br />
che ne attenuano il fascino. Pur nella<br />
ville di padroncini che sorgono qua e là<br />
in un Cilento di cui nessun aspetto prefabbricato<br />
e pacchiano viene taciuto, lo<br />
scrittore Marsullo ci accompagna nella<br />
campagna acquisti: conosciamo Mimì, il<br />
factotum monumentale la cui parlata via<br />
via più incomprensibile si fa capire benissimo;<br />
il cialtronesco (sembra un «venditore<br />
di pentole») dirigente sportivo Lucio<br />
Magia con «i capelli unticci color petrolio<br />
tutti tirati all’indietro»; il colitico<br />
attaccante Ciro Pallina, il centravanti quarantenne<br />
Peppe Sogliola che all’ingaggio<br />
risponde «ma manco se mi uccidete!» (e<br />
poi accetta), l’anziano capitano Antonio<br />
Pisapia, «più che navigato, naufrago», il<br />
traslocatore Mario Busta, il meccanico<br />
Giovanni Bazzallo, e gli altri improbabili<br />
e assai verosimili eroi di quest’epica del<br />
suburbio.<br />
La commedia sportiva però non cade<br />
Marie McKenzie,<br />
«Garden»,<br />
installazione<br />
con 500 fiori<br />
in ceramica<br />
(particolare,<br />
Toronto, 2009)<br />
coscienza che tale seconda<br />
parte è l’altra<br />
faccia del senso del romanzo,<br />
incarnata in<br />
quella Bianca che<br />
«prova un immenso,<br />
inesausto piacere nella<br />
classificazione siste-<br />
matica di inclinazioni e sentimenti altrui;<br />
difficile dire se ciò le discenda dall’abitudine<br />
a considerare la vita vegetale nel suo ordine<br />
complesso, a sentirsi rassicurata dalle<br />
divisioni in famiglie e sotto famiglie che<br />
rendono tutto evidente all’occhio, o se sia<br />
invece un capriccio dell’età, un pezzo di<br />
fanciulla che crede di saperla lunga sul<br />
mondo e invece non sa nemmeno riconoscersi<br />
allo specchio. Fatto sta che la botanica<br />
degli affetti è la scienza inesatta che le è<br />
più cara al momento». Ed è nel primo lemma<br />
del titolo che il romanzo trova il pro-<br />
nei toni della farsa,<br />
perché l’autore tiene<br />
serrati i ranghi della<br />
scrittura: mentre si ride,<br />
si attraversano descrizioni<br />
e momenti<br />
d’azione manovrati<br />
con abilità dal giova-<br />
ne Marsullo, classe 1985, bravo a rendere<br />
l’intreccio linguistico e a far scorrere sullo<br />
sfondo un degrado territoriale e sociale<br />
che richiama gli orizzonti di Niccolò<br />
Ammaniti, o le periferie del primo Hornby<br />
con il loro slang popolare, dialettale<br />
e politicamente scorretto.<br />
Cascione e Magia scovano a uno a uno<br />
i calciatori dell’Atletico Minaccia (le altre<br />
squadre si chiamano Pianura United,<br />
Cuzzone Scampia, Robur Marcianise)<br />
mentre palleggiano nei parcheggi («aveva<br />
trovato un’ammaccatura disumana<br />
prio significato: perché quella Bianca insieme<br />
forte e delicata, che aspira a sentirsi ed<br />
essere una «creatura libera e completa»,<br />
tutta tesa a divenire una donna indipendente,<br />
pur nel dubbio che qualcosa le sfugga,<br />
continuamente interrogante quanto la<br />
circonda, si tratti di persone, natura, la città<br />
stessa di Milano, deve alfine prender atto<br />
che quei «tentativi» di penetrare le interiorità<br />
altrui cozzano con le certezze classificatorie<br />
botaniche. Perché non tutto si<br />
può classificare: e ancor meno sentimenti<br />
ed emozioni.<br />
È però proprio questo puntare sull’interiorità<br />
di Bianca che investe anche gli altri<br />
personaggi, grandi e piccini, sui quali il<br />
suo sguardo si riflette. È l’incontro con<br />
quella «materia sconosciuta» che è la vita;<br />
è l’affrontare le voci del mondo che la fa<br />
crescere anche artisticamente e professionalmente.<br />
Grazie a Pia, cui sente a questo<br />
punto di dover rendere una vita diversa, riscoprendole<br />
i suoi genitori. Ma è quando<br />
sguardo e pensieri di Bianca divengono<br />
azione che il romanzo conosce un abbassamento<br />
di tono, cade nel mélo (indagini sui<br />
genitori; schiaffo di Bianca alla presunta<br />
madre di Pia; Bianca violata e incinta). Risentendone<br />
anche la scrittura, che cede il<br />
tono evocativo di felice leggerezza a una dimensione<br />
più narrativa e cronachistica.<br />
Non ne risentono fortunatamente i personaggi,<br />
in particolare femminili, si tratti delle<br />
figure storiche e ancor più delle fanciulle<br />
(Minna e Pia). Quanto al versante maschile,<br />
risalta soprattutto Innes, rispetto a<br />
un altalenante don Titta, allo sfocatamente<br />
antipatico Tommaso, al manierato, quasi<br />
pariniano, contino Bernocchi, il cui ruolo<br />
nel romanzo resta al lettore da scoprire.<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
Marco Marsullo pone un improbabile allenatore di calcio al centro della fiction<br />
ambientata nel Cilento. Avventure picaresche e una riuscita galleria di personaggi<br />
Epica di un Mourinho di periferia<br />
James Boswell,<br />
«Football» (1953,<br />
particolare).<br />
L’artista inglese<br />
era originario della<br />
Nuova Zelanda<br />
(1906-1971)<br />
sulla fiancata») o mentre si nascondono<br />
perché stranieri senza permesso di soggiorno,<br />
o mentre sono a fine contratto<br />
presso qualche altra squadra, o tra gli<br />
amici e i conoscenti (il meccanico promette<br />
«assistenza gratuita in cambio di<br />
questa opportunità»), in una serie di capitoli<br />
che fanno ricordare l’esilarante<br />
The Commitments di Roddy Doyle, con<br />
una squadra al posto della band.<br />
Il libro è lieve, divertente, velocissimo,<br />
e la struttura della storia è quella inossidabile<br />
del romanzo d’avventura, con Cascione<br />
e Magia al posto di eroe e picaro.<br />
Tanto più che a fronteggiare il Bene, in<br />
campo, ci si mette pure il Male, non l’avversario,<br />
cioè, ma la camorra, che pare<br />
minacciare fino all’ultimo l’entusiasmo<br />
degli Atletici. Perfino a non masticare di<br />
calcio, o magari a detestarlo, il lettore arriva<br />
pieno di attesa alle partite dell’Atletico<br />
Minaccia, che riservano alcune delle<br />
pagine migliori del romanzo: non si tratta<br />
di telecronache stereotipate ma di lotte<br />
individuali, in cui spunta la nostalgia<br />
di un’epica antica. E con l’epica anche il<br />
mito, sgangherato anch’esso; poiché i<br />
giocatori, secondo l’iperbolica visione di<br />
Cascione, sono «portatori di un messaggio<br />
sacro, da tramandare nei secoli».<br />
Così si comprende anche l’icona resa<br />
comica di Mou, che scruta il povero Cascione<br />
dalla fotografia ritagliata e appiccicata<br />
allo specchio, e parrà quasi voler<br />
intervenire in campo, a regalare un miracolo.<br />
Calcistico e comico, ma pur sempre<br />
miracolo.<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Caratteri Narrativa straniera<br />
Psicologico<br />
di CINZIA FIORI<br />
Hemda, nel letto di una lunga<br />
agonia, percepisce il risentimento<br />
dei due figli, la loro<br />
insofferenza, mentre si chiede<br />
di che cosa si siano riempiti<br />
i giorni che l’hanno portata fino a lì.<br />
Dina, la primogenita, 46 anni, rigira in<br />
bocca il sasso antico della rabbia per la<br />
madre che non l’ha amata abbastanza.<br />
Annichilita dai sintomi della menopausa<br />
e dall’invecchiamento repentino, parla<br />
col figlio perso in un aborto perché torni<br />
a riempirla d’affetto, ora che la sua Nitzan,<br />
adolescente, si allontana. Avner, 44<br />
anni, avvocato dei diritti civili a Gerusalemme,<br />
rinnova l’imbarazzo per il troppo<br />
amore materno, che lo faceva vergognare,<br />
mentre rimugina su quanto poco<br />
ce ne sia adesso nella sua vita. Il disagio<br />
che prova di fronte alle carni vizze della<br />
madre non è molto diverso da quello<br />
che contraddistingue le sue giornate in<br />
crisi, a casa con la moglie e i figli, come<br />
al lavoro. Così, preso da una pulsione, abbandona<br />
in un corridoio d’ospedale la<br />
madre incosciente per una caduta, e si<br />
lancia all’inseguimento di una coppia<br />
che incarna il suo miraggio d’amore. Perché<br />
senza amore, ha deciso, non vuole<br />
morire.<br />
Nasce da un groviglio di emozioni che<br />
pian piano si dipana in trama il quarto<br />
libro dell’israeliana Zeruya Shalev. Massimalista<br />
dei sentimenti, che nessuno come<br />
lei sa rivelare, non ha certo paura che<br />
il romanzo psicologico sia fuori mainstream.<br />
Anzi, rilancia, rielaborando il<br />
flusso di coscienza e usando alla bisogna<br />
il monologo interiore in una prosa articolata,<br />
fatta di frasi lunghissime, scandite<br />
dalle virgole che includono emozioni,<br />
sentimenti, ricordi, riflessioni, dialoghi<br />
indiretti, cambi di soggetto, azioni.<br />
È il mondo visto dalla prospettiva della<br />
coscienza, da lì si arriva alla realtà, al<br />
contrario di quanto normalmente si legge.<br />
Non ci sono descrizioni d’ambiente o<br />
dei personaggi: si delineano nella mente<br />
del lettore come riflesso dei pensieri dei<br />
protagonisti. Tutti prigionieri, peraltro,<br />
dei loro rancori, delle aspettative mancate,<br />
dei sensi di colpa, delle idee che tornano<br />
come mulinelli a tenerli fermi, trascinandoli<br />
verso il fondo.<br />
In un falso movimento, Avner si ritroverà<br />
al funerale di uno sconosciuto, dopo<br />
aver fatto le condoglianze alla moglie<br />
che sorprendentemente non è la donna<br />
della coppia inseguita all’ospedale. Dina<br />
assomma attimi di smarrimento totale al-<br />
l’umiliazione di appellarsi a cuori che<br />
non rispondono, considera l’ipotesi della<br />
propria pazzia, finché inizia a farsi largo<br />
in lei il proposito di adottare un figlio.<br />
La sola idea, però, è un attentato alla<br />
famiglia che ha costruito.<br />
Intanto, Hemda, di nuovo a casa, giace<br />
con gli occhi chiusi e la mente affollata<br />
di ricordi, ragiona e discute col passato<br />
che emerge per associazione. L’ex<br />
bambina trasognata, incapace di inserirsi<br />
nella vita del Kibbutz, con gran disdoro<br />
del padre pioniere, ora sa che l’infanzia<br />
dura per tutta la vita. La realtà svapora,<br />
si confonde coi pensieri. La cognata<br />
le allunga un cucchiaino di tè e lei crede<br />
Thriller L’abile esordio di Chris Pavone tra la Cia e «La donna che visse due volte»<br />
Sfogli il giallo e trovi l’analisi esistenziale<br />
di ANTONIO DEBENEDETTI<br />
Paghi uno e compri due. Sta<br />
nascendo, complice<br />
l’industria editoriale, una<br />
narrativa «double face».<br />
All’esterno un thriller, all’interno<br />
quale fodera pensosa un<br />
romanzo d’analisi esistenziale.<br />
Cosi Il sospetto dell’esordiente<br />
Chris Pavone, definito<br />
perentoriamente da John<br />
Grisham «astuto nella suspense,<br />
abile nell’intreccio: geniale», fa<br />
spazio a inquietudini, descrive<br />
stati d’animo degni d’una<br />
coinvolgente vicenda<br />
matrimoniale anni Duemila.<br />
ZERUYA SHALEV<br />
Quel che resta della vita<br />
Traduzione<br />
di Elena Löwenthal<br />
FELTRINELLI<br />
Pagine 374, e 17<br />
Sicario per caso<br />
sotto le stelle<br />
del Messico<br />
Sentimenti al loro minimo<br />
storico, senso morale sotto<br />
sedazione, tenerezza in sciopero.<br />
A pagina 174 si legge della<br />
protagonista: «... se (lui) l’avesse<br />
scopata più spesso, o in modo<br />
più appassionato, o più<br />
creativo...» tutto sarebbe forse<br />
andato diversamente. L’azione<br />
inizia a Washington, prosegue in<br />
Lussemburgo con frequenti<br />
viaggi a Parigi e in Germania.<br />
Protagonisti sono appunto un<br />
marito e una moglie, Dexter e<br />
Kate, che hanno più profilattici<br />
nel cassetto che desideri nel<br />
Sushi style<br />
di Annachiara Sacchi<br />
Il mercato costringe a impacchettare temi di sostanza in testi di genere<br />
cuore. Quarantenni, d’aspetto<br />
più che rassicurante, conducono<br />
però, all’insaputa l’uno dell’altra,<br />
esistenze deplorevoli. «Occhiali<br />
di plastica scelti a caso, capelli<br />
arruffati, vestiti spiegazzati»,<br />
Dexter nasconde dietro l’aria da<br />
sognatore una mente pratica.<br />
Lavora in banca e non solo!<br />
Kate, che Patricia Cornwell ha<br />
definito «indimenticabile», è<br />
quanto rimane in questi nostri<br />
tempi senza fantasia della<br />
Donna che visse due volte. Si<br />
presenta ai lettori come<br />
impiegata e massaia tuttofare.<br />
{<br />
Nel giardino di un Giappone perduto<br />
Il tintinnio malinconico delle campanelle<br />
(«furin») appese a un filo, il volo di un<br />
insetto, la pioggia sui tetti di Tokyo. Nagai<br />
Kafu (1879-1959), autore di «Al giardino<br />
delle peonie» (Marsilio, pp. 308, € 19 ), nei<br />
Amori difficili. E senza descrizioni<br />
per un po’ di bere il lago che tanto amava,<br />
così come un paio di volte prende il<br />
figlio per il padre, in una percezione alterata<br />
ottimamente ricostruita.<br />
Ma, pian piano, quel corpo quasi inerte<br />
si trasforma in un polo gravitazionale<br />
affettivo. Dina alza le coperte e s’infila<br />
nel suo letto («mi sei rimasta solo tu,<br />
proprio tu che non sei mai stata mia»),<br />
Nitzan fa lo stesso e ottiene persino risposte<br />
dalla nonna, mentre Avner torna<br />
a vivere dalla mamma. Da quel momento<br />
di svolta, i due fratelli si sposteranno<br />
dal versante dell’inazione a quello dell’azione.<br />
Il grande tema del libro è l’amore,<br />
Chris Pavone<br />
Il sospetto<br />
Traduzione di Alfredo Colitto<br />
PIEMME<br />
Pagine 447, e 19<br />
Alleva due frugoli, stende il<br />
bucato, prepara il sugo...<br />
Quando però ci si accinge ad<br />
archiviare questa ennesima<br />
incarnazione d’una mesta<br />
routine esistenziale, a pagina 36,<br />
il colpo di scena: vediamo Kate<br />
adescare un giovanotto e farlo<br />
secco con tre revolverate. È la<br />
Cia ad averglielo ordinato!<br />
Madame è infatti un agente<br />
segreto. Chris Pavone gioca<br />
abilmente con questa<br />
protagonista dalla doppia<br />
identità: ora la trucca da<br />
casalinga demotivata ora ce la fa<br />
ritrovare «impepata» dal brivido<br />
dell’azione mentre cammina su<br />
un cornicione. Un momento ci<br />
appare come la classica moglie<br />
da corna e un attimo dopo<br />
scopriamo che ha gambe niente<br />
male e un misterioso sex appeal.<br />
La verità? Scaltro nello sfruttare<br />
le prospettive, che si aprono<br />
suoi racconti dipinge un mondo nitido ed<br />
etereo, in cui la descrizione sovrasta la<br />
narrazione. E offre, con la sua prosa,<br />
l’estetica più raffinata e nostalgica di un<br />
Giappone sognato, rimpianto, perduto.<br />
Al quarto romanzo, l’israeliana Zeruya Shalev non arretra: incurante delle mode, narra<br />
famiglia, relazioni e caducità aggiornando flusso di coscienza e monologo interiore<br />
i<br />
A destra: un’installazione<br />
di Mario Ceroli per l’antologica<br />
«Faccia a faccia» al Mambo<br />
di Bologna, fino al 1 aprile<br />
(foto di Aurelio Amendola)<br />
Eduardo Antonio Parra<br />
di MARCO OSTONI<br />
Ramiro uccide per sfuggire alla<br />
paura. Dispensa morte per<br />
vincere l'orrore della propria<br />
morte, intravista per la prima volta<br />
— ineluttabile — a dieci anni di età,<br />
nelle pupille senza più luce di un<br />
uomo accoltellato per strada e<br />
spirato proprio davanti al giardino di<br />
casa. Poco importa che ciò avvenga<br />
a Monterrey, città infernale, per<br />
clima e violenza sociale, del Messico<br />
nordorientale. Potrebbe capitare<br />
ovunque. Perché Nostalgia<br />
dell’ombra, ottimo romanzo del<br />
quarantasettenne messicano<br />
Eduardo Antonio Parra, edito in Italia<br />
a dieci anni dalla sua uscita in patria<br />
per merito delle Edizioni La Linea<br />
(nella traduzione di Angela Masotti,<br />
pp. 344, € 16,50), non è un libro<br />
politico, pur affrescando con dovizia<br />
di colori il quadro del controverso,<br />
grande Paese latino del continente<br />
nordamericano. Qui è il ritratto<br />
psicologico del protagonista a<br />
tenere insieme la trama, a cucire in<br />
un abito di pregiata fattura, per stile,<br />
lingua, tensione narrativa, le tappe<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
un’interrogazione inesausta nasce dal<br />
confronto tra l’altezza assoluta attribuita<br />
alla parola e i patimenti che la accompagnano.<br />
L’amore è come la fede, si<br />
chiede Hemda, superiore alle insulsaggini<br />
del quotidiano o son proprio quelle<br />
che lo tengono insieme? Di fatto, per<br />
dirla ancora con l’anziana signora, sono<br />
tutti seduti intorno al fuoco dell’amore<br />
e non fanno altro che misurare<br />
l’altezza della fiamma. C’è poi, tra le tematiche,<br />
il rapporto dei due fratelli<br />
adulti con la caducità: la morte imminente<br />
della madre, le circostanze che finiscono,<br />
l’età matura come prova spiazzante.<br />
Anche Israele è un tema, con la<br />
difficoltà di abitarci raccontata in soggettiva<br />
da un narratore esterno capace<br />
di illuminare le catene di pensieri che<br />
nella vita normale spesso scorrono sotto<br />
coscienza.<br />
L’autrice crea un tono discorsivo alto,<br />
una sorta di oralità lirica all’interno<br />
di periodi molto densi, che di frequente<br />
potrebbero essere presi come racconti<br />
compiuti. Si misura così coi drammi<br />
delle vite «ordinarie» in un romanzo di<br />
grande tenuta per più di tre quarti del<br />
racconto, imperfetto, invece, nelle pagine<br />
finali, perché la catarsi finale non necessitava<br />
del tocco di magia e perché<br />
non riesce a risolvere narrativamente<br />
tutte le domande che pone. Eppure, tra<br />
i suoi numerosi pregi, c’è proprio quello<br />
di porle.<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
della vita di un uomo divenuto<br />
sicario quasi per caso, dopo essere<br />
stato un cittadino per bene (reporter<br />
trentenne sposato con due figli), un<br />
mendicante, un galeotto. Quattro<br />
«ritratti» per altrettanti nomi —<br />
Bernardo, el Chato, Genaro, Ramiro<br />
— ma con una sola maledizione:<br />
quella di ammazzare, di togliere la<br />
vita altrui per alimentare la propria.<br />
Prima per pura disperazione, quindi<br />
per danaro. Quello che non servirà,<br />
però, a salvarlo.<br />
osservando i personaggi dal<br />
buco d’una serratura, Pavone<br />
arriva a dirci come stanno le<br />
cose per gradi, sfruttando a<br />
fondo le risorse della narrativa<br />
d’azione. Tanto che, per far<br />
lievitare la suspense, non esita a<br />
chiamare in causa una<br />
fumettistica signora dagli<br />
enormi occhiali neri e il suo lui.<br />
La tecnica espositiva è tutt’altro<br />
che ingenua. L’autore, dopo aver<br />
strappato le pagine del<br />
calendario e annullato l’ordine<br />
temporale degli eventi, li<br />
ricostituisce mescolando passato<br />
e presente in un vero e proprio<br />
gioco di prestigio.<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
LA LETTURA<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
15<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
16 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Caratteri Ragazzi<br />
Adolescenti<br />
di CRISTINA TAGLIETTI<br />
Sono passati vent’anni da quando<br />
Lois Lowry sconvolse la narrativa<br />
per ragazzi americana con un<br />
romanzo, The Giver (Il donatore),<br />
che anticipava quel genere<br />
distopico che poi sarebbe diventato una<br />
moda. Il romanzo, vincitore della Newbery<br />
Medal nel 1994 (Giunti l’ha pubblicato<br />
in Italia nel 2010), è diventato uno dei libri<br />
per ragazzi più venduti (cinque milioni<br />
di copie nel mondo) prima che si imponessero<br />
il marketing selvaggio e il passaparola<br />
«social», oltre ad essere da anni<br />
tra i venticinque libri più censurati nelle<br />
scuole degli Stati Uniti.<br />
Il quarto volume della serie esce nelle<br />
librerie italiane mercoledì e riprende da<br />
dove era finito il primo, ricucendo con<br />
punti sottili, attraverso alcuni personaggi<br />
ricorrenti, i fili con gli altri tre romanzi<br />
(oltre a Il donatore, La rivincita e Il Messaggero)<br />
ambientati in tre mondi diversi.<br />
La scrittrice li ripercorre attraverso il tema<br />
del viaggio, della ricerca, riuscendo a<br />
dare un’unità e un senso al progetto iniziato<br />
quando gli Hunger Games non avevano<br />
ancora sdoganato temi come morti<br />
violente, eutanasia, suicidio, inseminazione<br />
artificiale in un libro per ragazzi (o meglio<br />
qualcuno l’aveva fatto ma il grande<br />
pubblico non se n’era accorto).<br />
Il donatore finiva con il protagonista, il<br />
dodicenne Jonas, in fuga dalla perfetta Comunità<br />
dove vive e dove non esistono<br />
i<br />
{<br />
di Nicola Saldutti<br />
Il figlio perduto della bambina<br />
Tutte le cose<br />
del mondo<br />
(illustrate)<br />
Cambusa<br />
guerre, sofferenze, differenze sociali (ma<br />
neppure sentimenti, pulsioni sessuali, colori,<br />
stagioni, animali), con un neonato di<br />
nome Gabriel tra le braccia. Un finale ambiguo<br />
che lasciava aperte molte domande.<br />
Lowry ha scelto di rispondere a una di<br />
esse: chi è la madre di quel bambino? La<br />
prima parte de Il figlio è ambienta nello<br />
stesso villaggio de Il donatore. Claire è<br />
una ragazzina di 14 anni, la Comunità ha<br />
deciso che debba essere un’Anfora, una<br />
specie di madre surrogata destinata a venire<br />
inseminata, a partorire un figlio, il<br />
Prodotto, che non vedrà mai e che, come<br />
Il confine marino tra legalità e illegalità<br />
Il giurista Domenico Alberto Azuni (Sassari,<br />
1749-1827) descrive così il pirata: corre «il<br />
mare contro chicchessia, nemico di tutti,<br />
sprezzante d’ogni legge, dannato al<br />
capestro». Il corsaro, invece è capitano «di<br />
tutti gli altri bambini, verrà dato a una<br />
coppia (le famiglie sono composte da due<br />
genitori, un figlio e una figlia che vengono<br />
assegnati durante una cerimonia). Ma<br />
qualcosa non funziona durante il parto,<br />
Claire subisce il primo cesareo del villaggio,<br />
perde la certificazione di Anfora e viene<br />
indirizzata a un nuovo lavoro. Ma comincia<br />
a sentire un interesse per quel<br />
bambino, un senso di perdita, un bisogno<br />
di vederlo che prima non conosceva<br />
(anche perché i medici si sono dimenticati<br />
di somministrarle i farmaci che dovrebbero<br />
impedire di provare emozioni).<br />
bastimenti privati che, in tempo di guerra,<br />
per patente lettera sovrana, scorre il mare<br />
a suo rischio, contro navi, merci e persone<br />
del nemico». Spiegazione chiara chiara<br />
sul confine tra l’illegalità e la quasi-illegalità.<br />
Il baratto con il diavolo di una madre surrogata a cui è stato sottratto il neonato<br />
Lois Lowry conclude la serie del «Donatore» con il suo testo più autobiografico<br />
LOIS LOWRY<br />
Il figlio<br />
Traduzione Sara Congregati<br />
GIUNTI<br />
Pagine 384, e 9.90<br />
Quando il bambino viene portato via da<br />
Jonas (con l’intento di salvarlo), Claire si<br />
getta in acqua per seguirlo, cambiando<br />
completamente la natura del romanzo,<br />
trasformandolo da una distopia in un<br />
viaggio di ricerca. Come tutti i romanzi incentrati<br />
su una quest, anche qui la protagonista<br />
deve affrontare molte prove, pericoli<br />
e sacrifici, deve scalare, letteralmente,<br />
una montagna e, alla fine, stringere un<br />
patto con il diavolo che qui viene chiamato<br />
il Direttore del Baratto. La risposta alla<br />
domanda «che cosa è disposta a fare una<br />
madre per il figlio?» è naturalmente scontata<br />
ma lo svolgimento di Lowry non lo è<br />
affatto, anche se l’amore è, come sempre,<br />
l’unica forza che ci può salvare, anche<br />
quando minaccia di distruggerci.<br />
Il romanzo è certamente il più autobiografico<br />
tra quelli della scrittrice settantacinquenne<br />
che nel 1995 ha perso il figlio,<br />
pilota dell’Air Force, in un’esercitazione<br />
militare: il calore della materia forse spiega<br />
un certo sbilanciamento che, di fatto,<br />
relega la paternità a un inutile accessorio.<br />
Il figlio forse non raggiunge la perfezione<br />
del Donatore. A volte, si intravedono crepe<br />
nella struttura, qualche lentezza (soprattutto<br />
nella parte centrale), ma è benedetto<br />
dalla stessa semplice, affilata prosa<br />
che non conosce sprechi, dalla capacità<br />
di andare avanti e indietro nel tempo senza<br />
appesantire la trama, dalla capacità di<br />
costruire microcosmi coerenti e da un climax<br />
asciutto che aggira la retorica.<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
L’albo di Marchon e Robin Le favole di Edith Nesbit<br />
I capelli<br />
di Melisenda<br />
e altre storie<br />
di VIVIAN LAMARQUE di GIULIA ZIINO<br />
DaBenoit Marchon, l’autore di Ma<br />
che maniere! Un libro per<br />
imparare a vivere con gli altri,<br />
ecco un’altra felice uscita, Nel mondo<br />
ci sono (Giralangolo, pp. 48, e 13.50).<br />
Nel mondo ci sono, c’è, che cosa?<br />
Come riuscire a infilare in una<br />
cinquantina di pagine l’intero pianeta<br />
con i suoi «milioni di meraviglie e<br />
milioni di miserie?». Non facile, ma<br />
Benoit fa centro, e con somma<br />
leggerezza, e se il formato albo, più<br />
figure che testo, è solito parlare<br />
soprattutto ai piccoli, che qui saranno<br />
catturati dalle sapienti e anche<br />
divertenti illustrazioni di Robin, questa<br />
volta anche il fratellino maggiore potrà<br />
essere coinvolto per una lettura a un<br />
livello più profondo che lo aiuterà nelle<br />
prime riflessioni: perché sotto l’incanto<br />
del cielo stellato il bene e il male?<br />
Persone che fanno la guerra e persone<br />
che fanno la pace? Perché bambini<br />
piegati dal lavoro e bambini che<br />
cantano, che giocano? Libere nuvole a<br />
forma di animali e animali prigionieri di<br />
gabbie? Perché nell’aria le danze del<br />
vento e velenosi fumi neri? Messaggi<br />
lanciati come coriandoli, non c’è<br />
ombra di retorica o di prediche, anzi<br />
anche si ride, e dunque come meglio di<br />
così educare i bambini a pensare e<br />
soprattutto a «sentire»? Fossi<br />
un’insegnante li inviterei a continuare<br />
l’elenco del bene e del male che già<br />
hanno conosciuto, ad aggiungere loro<br />
personali colorate tavole. Nelle ultime<br />
pagine poi, la sorpresa: nel mondo ci<br />
sei anche tu, bambino che stai<br />
leggendo, e cosa costruirai, tu, un<br />
giorno, sotto il grande cielo stellato?<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Un’illustrazione<br />
di Lisa Evans<br />
(da «Le immagini<br />
della fantasia», Sarmede,<br />
Palazzo Municipale, 2007)<br />
SARANNO PRESENTI:<br />
STORICO E CRITICO D’ARTE<br />
DOTT. GIORGIO GRASSO<br />
PROFESSORE / EDITORE MELOGRANO<br />
PROFESSORE WALTER MORO<br />
PRESIDENTE FONDAZIONE ARTE’<br />
PROFESSORE CARMELO CALDERONE<br />
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
DALLE ORE 16.00<br />
PRESSO VILLA FORNO LA FONDAZIONE ARTE’<br />
PRESENTA<br />
IL LIBRO DEL MAESTRO SANTI SINDONI<br />
SARA’ PRESENTE IL MAESTRO SANTI SINDONI<br />
VILLA FORNO<br />
VIA CARLO MARTINELLI 23<br />
CINISELLO BALSAMO (MI)<br />
Storie di armadi che si aprono su<br />
mondi favolosi, di bambini che<br />
trovano oggetti magici e parlano<br />
con fenici rosso fiamma. Non siamo a<br />
Narnia né ad Hogwarts ma nei libri di<br />
Edith Nesbit. C’era lei prima di C. S.<br />
Lewis e prima di J. K. Rowling. E c’era<br />
lei anche «dopo»: «Dopo Lewis Caroll<br />
— scriveva Gore Vidal nel 1965 sulla<br />
New York Review of Books — Nesbit è<br />
la migliore favolista inglese ad aver<br />
scritto di bambini (nessuno dei due<br />
scrisse per bambini)». E in effetti le<br />
storie della Nesbit sono (anche) una<br />
lettura da grandi. Per gli inglesi sono<br />
state per anni quello che Harry Potter<br />
è oggi per i bambini del mondo:<br />
compagni di avventure che, a un certo<br />
punto, voltano l’angolo e finiscono in<br />
universi altri. Agli esordi si firmava E.<br />
Nesbit per lasciare il dubbio sulla sua<br />
identità femminile. Il successo le<br />
permise di trasferirsi col marito nel<br />
Kent, in una casa frequentata da<br />
Oscar Wilde e George Bernard Shaw. E<br />
lei sarà tra i fondatori della Fabian<br />
Society, movimento precursore dei<br />
moderni laburisti. Di Edith Nesbit<br />
Donzelli pubblica Melisenda e altre<br />
storie da non credere (illustrazioni di<br />
Lindsey Yankey, traduzione di R. V.<br />
Merletti e S. Barellonove, pp. 244, e<br />
25), storie uscite per la prima volta nel<br />
1901. Dalla principessa Melisenda a<br />
cui la fata madrina fa il dono di capelli<br />
che crescono a dismisura al<br />
dispettoso Tucangallo, che quando<br />
ride trasforma i ministri in lattanti e i<br />
re in villette bifamiliari, le «storie da<br />
non credere» della Nesbit sono piccoli<br />
gioielli di ironia e fantasia.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Caratteri Personaggi<br />
Prima Repubblica<br />
di ALDO GRASSO<br />
America Latina Antonio Moscato mette a confronto le icone della rivoluzione cubana<br />
Castro e Guevara, gemelli diversi<br />
di MARCO GERVASONI<br />
{Se l’atea vola più in alto<br />
Anatomia del potere e storia familiare<br />
Un romanzo esorcizza i fantasmi della Dc<br />
troppo caldo persino<br />
in chiesa quel giorno. Un’afa<br />
immobile che le signore giocavano<br />
a rimbalzarsi con i<br />
«Faceva<br />
ventagli. I fumi dell’incenso<br />
fuoriuscivano pesanti dal turibolo per posarsi<br />
come coltre compatta sulle centinaia di<br />
giacche scure. Parole, molte. Preghiere, poche.<br />
Impazienza e sudore. Ai funerali degli illustri,<br />
ai primi banchi il potere si amalgama<br />
al dolore, le facce compite alle lacrime vere e<br />
non è sulla bara che si concentrano gli sguardi.<br />
Arrivato in ritardo, occupavo una posizione<br />
relativamente defilata da cui si godeva di<br />
una visuale privilegiata». A parlare è Claudio<br />
Bucci, uomo politico della Prima Repubblica.<br />
Viene da Fiano Romano, ha intrapreso la strada<br />
della politica per fare carriera, per vincere<br />
un malinteso senso di inferiorità sociale, e<br />
anche un po’ per missione.<br />
Che in politica contassero più il carattere,<br />
la determinazione, la dura e opaca volontà<br />
che l’onestà o il coraggio lo sapevamo da un<br />
pezzo. L’importante è durare, come suggeriva<br />
Ennio Flaiano: seguendo il gregge, tenendosi<br />
al corrente dei cambiamenti, sempre<br />
spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione,<br />
impassibili davanti a ogni rifiuto,<br />
feroci nella vittoria, supplichevoli nella<br />
sconfitta. Da veri italiani.<br />
Ma ci mancava ancora qualcosa: una descrizione<br />
dal di dentro, una sorta di anatomia<br />
del potere, della miseria del potere, l’eutanasia<br />
di una classe politica disposta a tutto<br />
ma sfinita più dal compromesso che dal sotterfugio.<br />
Adesso c’è, sotto forma di romanzo,<br />
si chiama Il cielo è dei potenti, ed è scritto da<br />
Alessandra Fiori, figlia di quel Publio Fiori,<br />
democristiano di lungo corso, passato poi<br />
nelle file di Alleanza Nazionale, per vagheggiare<br />
infine un polo di centro di ispirazione<br />
democristiana.<br />
Alessandra Fiori ha avuto un bel coraggio:<br />
ha virato la lunga avventura politica del padre<br />
in narrazione, l’ha trasfigurata in romanzo.<br />
Il che, dal punto di vista psicologico, non<br />
dev’essere stato facile: abbandonare certi pudori,<br />
uccidere simbolicamente il padre per<br />
trarne nuova vita, subordinare il proprio destino<br />
a un fardello di cui non si possono prevedere<br />
le conseguenze. L’unico rimedio è la<br />
scrittura, l’unica possibilità per uscire da un<br />
azzardo così ferale è comprimere il reale nella<br />
indecifrabilità della narrativa, l’unica salvezza<br />
è ricercare un senso in mezzo a una<br />
quotidianità dove i protagonisti sono sballottati<br />
ora dall’ostinazione ora dal caso.<br />
L’errore da non commettere di fronte a Il<br />
cielo è dei potenti è quello di leggerlo come<br />
un romanzo a chiave, cercare di scrostare la<br />
Niente di meglio, si sa, che<br />
morire giovani e magari<br />
non nel proprio letto, per<br />
entrare nel mito. Lo dimostrano le<br />
vite di Che Guevara e di Fidel<br />
Castro: il primo icona (e santino)<br />
dell’estrema sinistra mondiale,<br />
anche dell’ultimissima; il<br />
secondo, una sorta di Brežnev<br />
caraibico, dal lento declino fisico<br />
parallelo a quello del suo regime.<br />
Che Castro e Guevara fossero due<br />
personalità distanti era noto da<br />
tempo, fino ad alimentare le<br />
leggende di un Che «libertario»<br />
contro un Fidel «autoritario». In<br />
realtà, negli anni in cui fu a Cuba,<br />
Guevara contribuì<br />
all’instaurazione della dittatura e<br />
fu responsabile come e forse più<br />
di Castro dell’eliminazione fisica<br />
di numerosi oppositori politici.<br />
Gli stessi scritti del Che del resto<br />
sono una costante esaltazione<br />
della violenza. Una lettura, la<br />
nostra, non certo condivisa da<br />
Antonio Moscato, storico di<br />
formazione e di militanza<br />
trotzkista, autore di numerosi<br />
libri su Cuba, piuttosto restio a<br />
considerare Castro e Guevara<br />
come fondatori di un regime<br />
i<br />
ALESSANDRA FIORI<br />
Il cielo è dei potenti<br />
E/O<br />
Pagine 304, e 18<br />
Due parole in croce<br />
di Luigi Accattoli<br />
Il Che non era molto più libertario di Fidel, ma certamente assai meno realista<br />
autoritario. La lettura del suo<br />
ultimo libro Fidel e il Che<br />
(Alegre), nel mettere a confronto i<br />
profili biografici dei due, è<br />
nondimeno stimolante. Anche se<br />
le simpatie dell’autore vanno<br />
certamente a Guevara, egli si<br />
sforza infatti di esaminare<br />
criticamente sia le leggende nere<br />
su Castro che quelle «bianche»<br />
sul Che. Così anche il luogo<br />
comune di un Castro diventato<br />
filosovietico che avrebbe<br />
abbandonato al suo destino<br />
Guevara, prima in Congo, poi<br />
definitivamente in Bolivia, viene<br />
«Siamo terra» ha detto il Papa mercoledì<br />
scorso e il prossimo mercoledì ascolteremo<br />
il monito delle Ceneri: «Polvere siete».<br />
L’astronoma atea Margherita Hack rettifica:<br />
«Siamo fatti di stelle». Altri dettagliano:<br />
Alessandra Fiori rielabora narrativamente il mondo del padre, Publio<br />
Ma più dei riscontri reali, conta l’aver reso bene lo spirito di quei tempi<br />
finzione per scorgervi solo la realtà. Certo,<br />
per chi ha vissuto quell’epoca, la prima tentazione<br />
è di ritrovare i volti dei politici — una<br />
trascurabile maggioranza di democristiani<br />
che ha dominato per più di trent’anni l’Italia<br />
fingendo di servirla — che a Roma incarnavano<br />
il potere: Franco Evangelisti, quello di «A<br />
Fra’ che te serve?», Vittorio Sbardella, detto<br />
«lo squalo», Amerigo Petrucci, Emilio Colombo,<br />
Dario Antoniozzi, Alfredo Antoniozzi, Carlo<br />
Donat-Cattin e tanti altri. Su tutti, l’ombra<br />
di Agostino De Santis, «che non si poteva<br />
sfottere», il Divo Giulio: «Alla base c’è il consenso,<br />
e se la società è merda, per ripulire le<br />
fogne bisogna sporcarsi».<br />
Non interessano i singoli, ovviamente, ma<br />
ciò che i loro fantasmi distillano; non interessano<br />
le carte d’identità e la toponomastica<br />
del potere quanto piuttosto il clima in cui le<br />
cose avvenivano e le forme di quelle stesse<br />
Sislej Xhafa<br />
(1970),<br />
«Giuseppe»<br />
(2003, statua<br />
in terracotta,<br />
Collezione<br />
Tullio Leggeri)<br />
Stile<br />
Storia<br />
Copertina<br />
Antonio Moscato<br />
Fidel e il Che<br />
ALEGRE<br />
Pagine 188, e 14<br />
decisamente ridimensionato.<br />
Semmai, secondo l’autore, la<br />
svolta filosovietica di Fidel<br />
cominciò dopo la morte di<br />
Guevara, e in particolare dopo<br />
l’invasione di Praga del ’68, anche<br />
se già in precedenza era possibile<br />
vedere un Guevara seguace<br />
dell’esportazione della rivoluzione<br />
e un Castro più vicino al modello<br />
del socialismo in un solo Paese. Il<br />
fatto è che Castro era un politico e<br />
come tale doveva muoversi con<br />
senso del realismo, indispensabile<br />
anche ai rivoluzionari, mentre al<br />
Che questa qualità, la prima<br />
necessaria a un politico, mancava<br />
del tutto.<br />
Stile<br />
Rigore<br />
Copertina<br />
cose: il sacco di Roma, l’abusivismo,<br />
le fumose sezioni<br />
di partito, l’accaparramento<br />
dei voti, le inaugurazioni,<br />
le sagre di paese,<br />
i circoli regionali, i piccoli<br />
e grandi impostori,<br />
gli intrighi, gli imbrogli<br />
elettorali, l’incenso delle sacrestie, le bustarelle,<br />
le false promesse, la conquista delle tessere,<br />
il fascino perverso delle correnti, i tradimenti,<br />
i congressi, i capibastone, le fughe dal<br />
ristorante per non pagare il conto. E i segni<br />
più evidenti del potere finalmente raggiunto:<br />
la villa, la barca, l’amante.<br />
Claudio Bucci è sempre combattuto fra la<br />
volontà di potenza (sia pure in versione piccolo-borghese,<br />
sotto forma di demone del comando)<br />
e il disinganno, ereditato in famiglia,<br />
un «conto con il passato» che non si<br />
chiude mai. La sua vita è quella del politicante,<br />
ne incarna alla perfezione la forma mentis,<br />
la sua pelle diventa un libro aperto dove,<br />
antropologicamente, si mescolano sudore e<br />
furbizia, odore di caciotta e schede elettorali,<br />
pianti dei figli e tessere di partito. Su ogni<br />
azione regna il compromesso, quella forza indistinta,<br />
un poco untuosa, che smussa ogni<br />
parola e ogni azione, che concilia pretese divergenti<br />
attraverso reciproche concessioni,<br />
come si fa nei mercati rionali e nelle sedi dei<br />
grandi partiti. Dal compromesso al complotto,<br />
poi, il passo è breve.<br />
A volte persino Bucci si stupisce di quanto<br />
si possa essere inclini al compromesso. Come<br />
quando appare sulla scena Camillo Signorelli,<br />
capo di una potente loggia massonica<br />
segreta, che si preoccupa delle sue scarse presenze<br />
televisive e gli fa subito telefonare da<br />
un noto conduttore che lo invita nel suo salotto.<br />
La conquista di Roma di Bucci ha senso solo<br />
perché è retta dalla scrittura di Alessandra<br />
Fiori. Che, in questa difficile catarsi familiare,<br />
avrebbe potuto lasciarsi prendere da una<br />
prosa controllata, costruita, quasi espiativa.<br />
E invece preferisce assecondare le cadenze<br />
delle cerimonie del potere, abbandonarsi a<br />
una materialità quasi mimetica (si sente il fiato<br />
dei postulanti, il brusio dei tesseramenti,<br />
il passo degli speculatori), mettere in scena<br />
un mondo semiautobiografico con la sprezzatura<br />
dell’estranea.<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
«Siamo fatti di polvere di stelle».<br />
Gli estremi pare si tocchino e di polvere<br />
comunque si tratta, che sia di stelle<br />
o di terra. Stavolta anzi l’atea sembra<br />
volare più in alto del credente.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
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LA LETTURA<br />
AlefBet<br />
di Daria Gorodisky<br />
IL PRIMO<br />
GOLEADOR<br />
POLACCO<br />
17<br />
Succede ancora oggi di<br />
sentir dire che gli<br />
ebrei cittadini di uno<br />
Stato siano «nazione a<br />
parte», non minoranza<br />
religiosa: insomma diversi,<br />
alieni. Argomento<br />
subdolo, caro ai nazisti —<br />
anche con questo<br />
motivavano i massacri — e<br />
ai loro nostalgici, oggi a<br />
volte riecheggia in<br />
ambienti che si<br />
definiscono eruditi.<br />
Magari, per «affievolire», il<br />
giudizio viene circoscritto<br />
a un luogo e/o a un<br />
tempo. Per esempio, agli<br />
ebrei polacchi alla vigilia<br />
dell’ascesa hitleriana, cioè<br />
poco prima che il 90% (tre<br />
milioni) di loro venisse<br />
sterminato. Già, la Polonia.<br />
Nel 1933 gli ebrei vi<br />
risiedevano da oltre 800<br />
anni. Anche lì avevano<br />
conservato fede e<br />
tradizioni; come nel resto<br />
dell’Europa centrale<br />
avevano sviluppato una<br />
lingua (lo yiddish). Come<br />
altrove, avevano subito a<br />
fasi alterne persecuzioni e<br />
l’imposizione di vivere in<br />
ghetti o in shtetl, ea<br />
questo proposito vale la<br />
pena consultare l’Atlante<br />
di storia ebraica di Martin<br />
Gilbert (Giuntina). Però<br />
erano polacchi a tutti gli<br />
effetti. Durante tutti gli<br />
scombussolamenti della<br />
storia e dei confini del<br />
Paese, hanno partecipato<br />
alla sua vita economica,<br />
sociale, culturale e politica,<br />
sostenendo anche il sogno<br />
indipendentista di<br />
Pilsudski. Lo storico Artur<br />
Eisenbach evidenzia che<br />
nel 1855 gli ebrei<br />
rappresentavano circa il<br />
43% del totale della<br />
popolazione urbana del<br />
regno polacco. Negli anni<br />
Trenta a Varsavia un terzo<br />
degli abitanti erano ebrei,<br />
il 28% a Cracovia, il 40 a<br />
Lvov. Appartenevano a<br />
tutte le fasce sociali,<br />
svolgevano tutti i mestieri<br />
e tutte le professioni (il<br />
53% dei medici e il 40%<br />
degli insegnanti erano di<br />
religione israelitica): il<br />
premio Nobel Isaac<br />
Bashevis Singer, ma anche<br />
suo fratello Israel Joshua in<br />
I fratelli Ashkenazi<br />
(Longanesi), ha ben<br />
descritto anche la<br />
borghesia ebraica polacca.<br />
Nei secoli la Polonia non<br />
solo ha dato vita ad alcune<br />
delle più importanti scuole<br />
di pensiero giudaico, ma la<br />
sua minoranza ebraica ha<br />
regalato al mondo un<br />
enorme tesoro letterario,<br />
artistico, musicale e<br />
scientifico. Una lista<br />
infinita di nomi grandi o<br />
meno noti, come quello di<br />
Ludwig Zamenhof,<br />
l’inventore dell’Esperanto.<br />
Oppure quello di Józef<br />
Klotz: nel 1922 fu autore<br />
del primo gol mai segnato<br />
dalla nazionale polacca.<br />
Poi fu trucidato dai nazisti.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
18 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Caratteri Le classifiche dei libri { 1<br />
5<br />
La pagella<br />
Lilli Gruber<br />
Eredità<br />
Rizzoli<br />
di Antonio D’Orrico<br />
VOTO<br />
6,5<br />
Badate al bisnonno<br />
e ai suoi baci focosi<br />
La bisnonna Rosa per sposare<br />
l’uomo che ama, si mette in rotta<br />
di collisione con il padre<br />
contrario al matrimonio.<br />
Non è una cosa comune all’alba<br />
del Novecento. La prozia Hella<br />
fieramente filotedesca e antitaliana<br />
diventa una fervente hitleriana nella<br />
speranza che il Führer si riprenda il<br />
Sudtirolo. Dopo aver intravisto Hitler a<br />
Norimberga nel 1936 scrive: «Non si<br />
finisce mai di ammirarlo, dove trova la<br />
forza di fare tutto questo, di lavorare<br />
giorno e notte senza un attimo di<br />
riposo?». Hella viene condannata a<br />
cinque anni di confino in un paesino<br />
lucano. La ragazza è un po’ esaltata e<br />
con molti pregiudizi. Sostiene<br />
l’insostenibile, che la cucina sudtirolese,<br />
ad esempio, è migliore<br />
di quella lucana (li avrà<br />
mai assaggiati i<br />
peperoni cruschi?). Per<br />
sua fortuna, la sorella<br />
Berta (la più simpatica<br />
delle donne della<br />
famiglia), interviene con<br />
il suo notevole fascino<br />
Lilli Gruber<br />
è nata a Bolzano<br />
nel 1957<br />
presso Galeazzo Ciano e<br />
Hella sconta solo sei<br />
mesi di pena.<br />
I libri dei giornalisti<br />
televisivi sono spesso<br />
deludenti (va bene, anche quelli dei<br />
giornalisti non televisivi). Ma questa saga<br />
familiare di Lilli Gruber fa eccezione. La<br />
ricostruzione (romanzata, non sempre<br />
convincentemente, per tentare di ridare<br />
il sapore dei tempi e delle psicologie) è<br />
impreziosita dalle citazioni dal diario di<br />
Rosa e dalle lettere di Hella. Nel racconto<br />
dominano le figure femminili. Eppure la<br />
lettera più bella di tutte non la scrive una<br />
donna ma il bisnonno Jakob che, dal<br />
carcere dove è finito per presunta<br />
propaganda antitaliana, augura buon<br />
onomastico alla sua Rosa: «Perciò mia<br />
cara moglie, vieni qui, sono seduto sul<br />
pagliericcio. Ti accoglierò con baci<br />
focosi». Baci focosi (heisse Küsse) alla<br />
moglie dopo 37 anni di matrimonio?<br />
Forse ai maschi della saga (dalla quale si<br />
potrebbe trarre una suggestiva, scomoda<br />
e non banale fiction tv) andava concessa<br />
una considerazione maggiore.<br />
L’incipit dei lettori<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Ti piacciono le altre. È<br />
normale. Sei un uomo.<br />
Perché non dovresti guardare<br />
le altre? Le mia amiche. Anche. Ma<br />
prenditele. Vai, che aspetti.<br />
Prenditele, che anche loro non<br />
aspettano altro, sono lì a fare le<br />
santarelline. Ma gli piaci,<br />
diventerebbero delle mignotte,<br />
anche se non glielo chiedessi. Fate<br />
figli, amatevi. Peace and Love. Io?<br />
(-)<br />
N<br />
2<br />
N<br />
3<br />
5<br />
4<br />
5<br />
(2)<br />
5<br />
6<br />
N<br />
7<br />
5<br />
(5)<br />
5<br />
5<br />
10<br />
5<br />
90<br />
73<br />
51<br />
40<br />
34<br />
Wilbur Smith<br />
Vendetta<br />
di sangue<br />
Longanesi, e 19,90<br />
Alicia Giménez<br />
Bartlett<br />
Gli onori di casa<br />
Sellerio, e 15<br />
Clara Sánchez<br />
Entra<br />
nella mia vita<br />
Garzanti, e 18,60<br />
Jeff Kinney<br />
Diario di una schiappa.<br />
Si salvi chi pùo!<br />
II Castoro, e 12<br />
Emmanuel Carrère<br />
Limonov<br />
Adelphi, e 19<br />
Massimo Gramellini<br />
Fai bei sogni<br />
Longanesi, e 14,90<br />
La classifica<br />
1 Anna Premoli<br />
Ti prego lasciati odiare<br />
Newton Compton, € 4,99<br />
ePub con DRM Fairplay<br />
2<br />
E. L. James<br />
Cinquanta sfumature di grigio<br />
Mondadori, € 6,99<br />
ePub con DRM Fairplay<br />
3<br />
Ken Follett<br />
Triplo<br />
Mondadori, € 6,99<br />
ePub con DRM Fairplay<br />
John Grisham<br />
L’ex avvocato<br />
Mondadori, € 9,99<br />
ePub con DRM Fairplay<br />
5<br />
E. L. James<br />
Cinquanta sfumature di rosso<br />
Mondadori, € 6,99<br />
ePub con DRM Fairplay<br />
Saggistica<br />
1<br />
(2) posizione precedente<br />
1(5)190<br />
Susanna Tamaro<br />
Ogni angelo<br />
è tremendo<br />
Bompiani, e 16,50<br />
Intimo e coraggioso è il ritratto, da bambina a<br />
donna, che Susanna Tamaro fa di sé nel<br />
romanzo che conquista la vetta negli Italiani e la<br />
seconda piazza in top ten. Da segnalare il ritorno<br />
dell’avventura on the road di Ervas, il passaggio,<br />
dai saggi alla narrativa, di Gruber e l’ingresso del<br />
nuovo giallo sociale del vicequestore Manzini.<br />
1Longanesi, e 19,90<br />
Hector Cross è tornato per portare a termine la<br />
sua vendetta: il personaggio creato da Wilbur<br />
Smith, già apparso ne La legge del deserto, con la<br />
nuova avventura si prende il primo posto<br />
assoluto. Si affaccia in top ten Limonov, antieroe<br />
contemporaneo raccontato da Carrère nel libro<br />
dell’anno nella classifica de «la Lettura».<br />
Gli italiani si rispecchiano nell’ottimismo ragionato<br />
di Severgnini: il suo manuale del presente, in vetta<br />
nei saggi, è da top ten. Guadagna sedici posti<br />
l’odissea di Sami Modiano, ebreo sopravvissuto<br />
ad Auschwitz, poi in fuga dall’Europa all’Africa.<br />
Concita De Gregorio e Roberto Napoletano sono<br />
firme illustri new entry della settimana.<br />
Varia<br />
(1)N100<br />
Wilbur Smith<br />
Vendetta di sangue<br />
(5)1 42<br />
Beppe Severgnini<br />
Italiani di domani.<br />
8 porte sul futuro<br />
Rizzoli, e 15<br />
1(-)N29<br />
Andrea Vitali<br />
Le tre minestre<br />
Mondadori Electa, e 14,90<br />
1(1)S40<br />
Jeff Kinney<br />
Diario di una Schiappa.<br />
Si salvi chi può!<br />
Il Castoro, e 12<br />
Stati Uniti<br />
2<br />
2<br />
S<br />
R<br />
N<br />
stabile<br />
rientro<br />
in discesa<br />
novità<br />
100 titolo più venduto (gli altri in proporzione)<br />
Soffia lo spirito d’avventura con Wilbur Smith e Limonov-Carrère<br />
Tamaro vince raccontando se stessa, Severgnini fa lezione all’Italia<br />
Top 10<br />
1<br />
(4)<br />
9<br />
35<br />
Susanna Tamaro<br />
Ogni angelo<br />
è tremendo<br />
Bompiani, e 16,50<br />
Andrea Cammilleri<br />
II tuttomio<br />
Mondadori, e 16<br />
Beppe Servegnini<br />
Italiani di domani.<br />
8 porte sul futuro<br />
Rizzoli, e 15<br />
John Grisham<br />
L’ex avvocato<br />
Mondadori, e 20<br />
Non lasciarti impressionare dall’amore<br />
(-)<br />
(1)<br />
(3)<br />
5<br />
(-)<br />
8<br />
(-)<br />
(8)<br />
100<br />
50<br />
42<br />
35<br />
di Alessia Serafini<br />
23 anni, Roma, studentessa universitaria<br />
Ti aspetto. Aspetterò che hai finito.<br />
Sperando che tu voglia passare ad<br />
altro; e se ti fermassi? Fermati.<br />
Vuoi fermarti? Fallo. Io ti aspetto.<br />
Invia il tuo incipit<br />
corriere.it/lettura<br />
Insieme all’incipit — che deve essere inedito — inviate<br />
un indirizzo mail corretto e controllato con regolarità<br />
in modo da essere contattati dalla redazione in caso<br />
di scelta e pubblicazione. Verranno privilegiati gli<br />
incipit brevi (massimo 100 parole).<br />
ebook<br />
di Alessia Rastelli<br />
Dominano<br />
sentimenti<br />
(e porno-soft)<br />
I romanzi al femminile<br />
dominano la settimana<br />
digitale. Porno-soft e<br />
sentimenti conquistano<br />
sei posizioni tra i dieci titoli<br />
più venduti<br />
sull’iBookstore, il negozio<br />
di libri elettronici di Apple.<br />
Prima, si conferma Anna<br />
Premoli, la consulente<br />
finanziaria che sta<br />
scalando le classifiche con<br />
una storia di odio-amore<br />
tra colleghi. Al secondo,<br />
quinto e sesto posto<br />
(Apple non rende note le<br />
proporzioni di acquisto tra<br />
un titolo e l’altro), ancora<br />
E. L. James con la sua<br />
trilogia. Un ritorno dovuto<br />
anche all’operazione di<br />
marketing di rendere<br />
disponibili gratuitamente<br />
le Cinquanta sfumature di<br />
grigio a chi avesse<br />
acquistato un ereader<br />
Kobo o Kindle entro il 31<br />
gennaio. Seguono,<br />
settimo, A nudo per te di<br />
Sylvia Day (Mondadori, €<br />
6,99); decimo, Segreti,<br />
bugie e cioccolato (Newton<br />
Compton, € 4,99), nuova<br />
storia romantica<br />
dell’autrice di Amore,<br />
zucchero e cannella,Amy<br />
Bratley. Extra-rosa, infine,<br />
al terzo e quarto posto,<br />
Triplo di Ken Follett e L'ex<br />
avvocato di John Grisham;<br />
ottavo e nono, aiutati dal<br />
prezzo, I miserabili di Victor<br />
Hugo (Newton Compton),<br />
a 49 centesimi dopo<br />
l’uscita dell’omonimo film,<br />
e Se vuoi fare il figo usa lo<br />
scalogno (Rizzoli), edizione<br />
digitale delle ricette dello<br />
chef Cracco, per l’intera<br />
settimana a 8,99 euro<br />
anziché 11,99.<br />
@al_rastelli<br />
4<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
(28 gennaio-3 febbraio 2013)<br />
Legenda<br />
1<br />
in salita<br />
Narrativa italiana<br />
Narrativa straniera<br />
Ragazzi<br />
J. Patterson, M. Sullivan<br />
Private Berlin<br />
Little, Brown & Co., $ 27,99<br />
R. Jordan, B. Sanderson<br />
A memory of light<br />
Tor/Tom Doherty, $ 34,99<br />
2<br />
(1)550<br />
Andrea Camilleri<br />
Il tuttomio<br />
Mondadori, e 16<br />
3<br />
(3)S34<br />
Massimo Gramellini<br />
Fai bei sogni<br />
Longanesi, e 14,90<br />
2<br />
(1)573<br />
Alicia Giménez<br />
Bartlett<br />
Gli onori di casa<br />
Sellerio, e 15<br />
3<br />
(2)551<br />
Clara Sánchez<br />
Entra<br />
nella mia vita<br />
Garzanti, e 18,60<br />
2<br />
(18)1 30<br />
Sami Modiano<br />
Per questo<br />
ho vissuto<br />
Rizzoli, e 18<br />
3<br />
(2)5 25<br />
Ermanno Olmi<br />
L’apocalisse<br />
è un lieto fine<br />
Rizzoli, e 18<br />
(1)524<br />
Carlo Cracco<br />
Se vuoi fare il figo<br />
usa lo scalogno<br />
Rizzoli, e 15,90<br />
2<br />
(2)S19<br />
AA.VV.<br />
Le canzoncine<br />
di Peppa Pig.<br />
Con CD Audio<br />
Giunti Kids, e 9,90<br />
3<br />
Robert Crais<br />
Suspect<br />
Putnam, $ 27,95
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
4<br />
(2)531<br />
Anna Premoli<br />
Ti prego<br />
lasciati odiare<br />
Newton Compton, e 9,90<br />
5<br />
(4)527<br />
Diego De Silva<br />
Mancarsi<br />
Einaudi, e 10<br />
4<br />
(3)535<br />
John Grisham<br />
L’ex avvocato<br />
Mondadori, e 20<br />
5<br />
(8)135<br />
Emmanuel Carrère<br />
Limonov<br />
Adelphi, e 19<br />
4<br />
(6)1 19<br />
D. Avey, R. Broomby<br />
Auschwitz.<br />
Ero il numero<br />
220543<br />
Newton Compton, e 5,90<br />
5<br />
(11)119<br />
Maurizio Viroli<br />
Scegliere<br />
il principe<br />
Laterza, e 9<br />
Luciana Littizzetto<br />
Madama<br />
Sbatterflay<br />
Mondadori, e 18<br />
Silvia D’Achille<br />
Gioca con Peppa<br />
Pig! Con stickers<br />
Giunti Kids, e 4,90<br />
6<br />
(6)S27<br />
Simona Sparaco<br />
Nessuno sa di noi<br />
Giunti, e 12<br />
7<br />
(7)S27<br />
Primo Levi<br />
Se questo<br />
è un uomo<br />
Einaudi, e 10,50<br />
(4)533<br />
Tracy Chevalier<br />
L’ultima fuggitiva<br />
Neri Pozza, e 18<br />
7<br />
(5)532<br />
E. L. James<br />
Cinquanta<br />
sfumature di grigio<br />
Mondadori, e 14,90<br />
6<br />
(7)117<br />
Sam Pivnik<br />
L’ultimo<br />
sopravvissuto.<br />
Una storia vera<br />
Newton Compton, e 9,90<br />
7<br />
(-)N17<br />
Concita De Gregorio<br />
Io vi maledico<br />
Einaudi, e 16<br />
Silvia D’Achille<br />
Gioca e impara<br />
con Peppa Pig.<br />
Con adesivi<br />
Giunti Kids, e 5,90<br />
8<br />
(-)R26<br />
Fulvio Ervas<br />
Se ti abbraccio<br />
non aver paura<br />
Marcos y Marcos, e 17<br />
9<br />
(-)N22<br />
Lilli Gruber<br />
Eredità. Una storia<br />
della mia<br />
famiglia...<br />
Rizzoli, e 18,50<br />
8<br />
(6)529<br />
E. L. James<br />
Cinquanta<br />
sfumature di nero<br />
Mondadori, e 14,90<br />
9<br />
(9)S29<br />
Luis Sepúlveda<br />
Storia di un gatto<br />
e del topo che diventò<br />
suo amico<br />
Guanda, e 10<br />
8<br />
(3)516<br />
Joseph Ratzinger<br />
L’infanzia di Gesù<br />
Rizzoli, e 17<br />
9<br />
(4)516<br />
Philippe Daverio<br />
II secolo lungo<br />
della modernità<br />
Rizzoli, e 39<br />
(-)R13<br />
Silvia D’Achille<br />
La festa<br />
in maschera<br />
Giunti Kids, e 4,50<br />
(8)515<br />
Margaret Mazzantini<br />
Venuto al mondo<br />
Mondadori, e 14<br />
Andrea Camilleri<br />
Una voce di notte<br />
Sellerio, e 14<br />
(7)527<br />
E. L. James<br />
Cinquanta<br />
sfumature di rosso<br />
Mondadori, e 14,90<br />
Anne Frank<br />
Diario<br />
Einaudi, e 12,50<br />
Andre Agassi<br />
Open.<br />
La mia storia<br />
Einaudi, e 20<br />
(16)114<br />
Alessandro D’Avenia<br />
Bianca come<br />
il latte, rossa<br />
come il sangue<br />
Mondadori, e 13<br />
Oriana Fallaci<br />
Il mio cuore<br />
è più stanco<br />
della mia voce<br />
Rizzoli, e 15<br />
(12)513<br />
Cristina Comencini<br />
Lucy<br />
Feltrinelli, e 15<br />
15<br />
(12)59<br />
Federico Rampini<br />
Voi avete<br />
gli orologi, noi<br />
abbiamo il tempo<br />
Mondadori, e 16<br />
17<br />
11 (9)512 13 (-)N9 15 (13)59 17 (19)18 19 (-)N8<br />
Alberto Angela<br />
Amore e sesso<br />
nell’antica Roma<br />
Mondadori, e 18<br />
Silvia D’Achille<br />
Gli attacca-stacca<br />
di Peppa Pig.<br />
Con adesivi<br />
Giunti Kids, e 5,90<br />
Francia<br />
2 3 1 2<br />
Valerio M. Manfredi<br />
Il mio nome<br />
è Nessuno.<br />
Il giuramento<br />
Mondadori, e 19<br />
P. D. James<br />
Morte<br />
a Pemberley<br />
Mondadori, e 18,50<br />
J. K. Rowling<br />
Il seggio vacante<br />
Salani, e 22<br />
Roberto Napoletano<br />
Promemoria<br />
italiano<br />
Bur, e 12<br />
Silvia D’Achille<br />
A Peppa Pig<br />
piace...<br />
Premi e ascolta!<br />
Giunti Kids, e 8,90<br />
14 (13)511<br />
(15)511<br />
(-)N10<br />
(11)512<br />
Daria Bignardi<br />
L’acustica perfetta<br />
Mondadori, e 18<br />
David Mitchell<br />
Cloud Atlas.<br />
L’atlante<br />
delle nuvole<br />
Frassinelli, e 14,90<br />
(-)N17<br />
Guillaume Musso<br />
Sette anni<br />
senza di te<br />
Sperling & Kupfer, e 19,90<br />
Massimo D’Alema<br />
Controcorrente.<br />
Intervista<br />
sulla sinistra...<br />
Laterza, e 12<br />
Antoine<br />
de Saint-Exupéry<br />
Il Piccolo Principe<br />
Bompiani, e 7,90<br />
Paolo Giordano<br />
Il corpo umano<br />
Mondadori, e 19<br />
(13)517<br />
Clara Sánchez<br />
Il profumo<br />
delle foglie<br />
di limone<br />
Garzanti, e 9,90<br />
Manuel Vázquez<br />
Montalbán<br />
La bella di<br />
Buenos Aires<br />
Feltrinelli, e 10<br />
Neil Young<br />
II sogno<br />
di un hippie<br />
Feltrinelli, e 20<br />
(7)511<br />
Silvia D’Achille<br />
Una gita<br />
nel bosco<br />
Giunti Kids, e 4,50<br />
Stefano Bollani<br />
Parliamo di musica<br />
Mondadori, e 17<br />
10<br />
Germania<br />
Nicolai Lilin<br />
Educazione<br />
siberiana<br />
Einaudi, e 12,50<br />
Gillian Flynn<br />
L’amore bugiardo<br />
Rizzoli, e 18<br />
11 (16)120 13 15 17 (14)516 19<br />
Yann Martel<br />
Vita di Pi<br />
Piemme, e 17,50<br />
Silvia D’Achille<br />
Il superlibro<br />
di Peppa Pig.<br />
Con stickers<br />
Giunti Kids, e 7,90<br />
Gleen Cooper<br />
I custodi<br />
della biblioteca<br />
Nord, e 19,60<br />
(10)S13 (16)19 16 (15)59 18 (8)58 20<br />
3 (2)517 4 (4)S17 5 (3)516 6 7 (-)R8 8 (6)57 9 (8)57 10<br />
Benedetta Parodi<br />
Mettiamoci<br />
acucinare<br />
Rizzoli, e 17,90<br />
Giuseppe Mariani<br />
Il nuovo concorso<br />
a cattedra<br />
Edises, e 10<br />
Pierre Dukan<br />
La dieta Dukan<br />
Sperling & Kupfer, e 16<br />
3 (3)S13 4 5 6 7 (-)N12 8<br />
1<br />
Il numero<br />
di Giuliano Vigini<br />
6<br />
Inghilterra<br />
AA.VV.<br />
Keep Calm for Dads<br />
Summersdale, £4,99<br />
1,6<br />
A. Clerici, A. Spisni,<br />
S. Barzetti<br />
Le ricette della<br />
Prova del cuoco<br />
Mondadori, e 16,90<br />
Stuart McBride<br />
Close to the bone<br />
HarperCollins, £ 16,99<br />
Il podio del critico<br />
R. Jordan, B. Sanderson<br />
A memory of light<br />
Little, Brown, £25<br />
di Attilio Andreini<br />
Le speranze riposte nell’ebook sono tante, ma l’euforia che<br />
ha accompagnato, anche in Italia, l’avvento della «quarta<br />
rivoluzione» del libro è da ridimensionare quanto alle<br />
dimensioni del mercato a breve termine. Le fonti<br />
internazionali (Idate) prevedono infatti, per il 2014, nei<br />
10 12 16 18<br />
11<br />
13<br />
9<br />
20<br />
(Elaborazione a cura del «Corriere della Sera»)<br />
3 1 2 3<br />
Antonio Manzini<br />
Pista nera<br />
Sellerio, e 13<br />
10 12 (10)519 14 (11)517 16 18 (-)N14 20 (17)513<br />
E. L. James<br />
Cinquante nuances<br />
de Grey<br />
Lattes, e 17<br />
14 (14)58<br />
E. L. James<br />
Cinquante nuances<br />
plus sombres<br />
Lattes, e 17<br />
1<br />
Pierre Dukan<br />
La dieta Dukan<br />
illustrata<br />
Sperling & Kupfer, e 19,90<br />
2<br />
Guido Morselli<br />
Dissipatio H. G.<br />
Adelphi, e 11<br />
19<br />
(10)515 (9)513 (14)511<br />
(-)N10<br />
E. L. James<br />
Cinquante nuances<br />
plus claires<br />
Lattes, e 17<br />
Attilio Andreini (Prato, 1967) insegna Lingua cinese<br />
classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Filologo,<br />
s’interessa della trasmissione dei testi e del sapere nella<br />
Cina antica. Ha curato la traduzione del Laozi Daodejing (il<br />
testo canonico del Daoismo) e, con Micol Biondi, del Sunzi<br />
bingfa (L’arte della guerra di Sun Tzu), usciti da Einaudi.<br />
L’Europa raffredda l’euforia per il libro elettronico<br />
10<br />
12<br />
Vittorino Andreoli<br />
I segreti<br />
della mente<br />
Rizzoli, e 18<br />
Yu Hua<br />
Vivere!<br />
Feltrinelli, e 8<br />
cinque Paesi europei editorialmente più avanzati (Regno<br />
Unito, Germania, Francia, Italia, Spagna), un giro d’affari<br />
complessivo di 16 miliardi di euro per il libro a stampa e di<br />
1,6 per l’ebook. Anche per quanto riguarda il numero di<br />
«e-readers» che sarà presumibilmente venduto nel 2014<br />
Timur Vermes<br />
Er ist wieder da<br />
Eichborn, e 19,33<br />
Maurizio de Giovanni<br />
Vipera<br />
Einaudi, e 18<br />
(12)518 (15)514<br />
Sandro Luporini<br />
(con R. Luporini)<br />
G. Vi racconto<br />
Gaber<br />
Mondadori, e 18<br />
(-)N8 (-)R7<br />
Rhonda Byrne<br />
The secret<br />
Macro Edizioni, e<br />
18,60<br />
(6)113 (9)112 (5)512<br />
(-)R11<br />
Jussi Adler-Olsen<br />
Das Washington<br />
Dekret<br />
Dtv, e 19,90<br />
3<br />
Bi Feiyu<br />
I maestri di tuina<br />
Sellerio, e 16<br />
negli stessi Paesi, la cifra complessiva è di 1.423.000 unità,<br />
contro 9.602.000 degli Stati Uniti. Per quanto in crescita<br />
(da 0,1 del 2008 a 1,6 miliardi di euro del 2014),<br />
l’espansione del mercato ebook in Europa sarà dunque più<br />
lenta del previsto, ma è comunque una strada segnata.<br />
(Elaborazione a cura di Nielsen Bookscan. Dati relativi alla settimana dal 28 gennaio al 3 febbraio 2013)<br />
Lorenzo Amurri<br />
Apnea<br />
Fandango, e 16<br />
G. Lo Bianco,<br />
S. Rizza<br />
Antonio Ingroia.<br />
Io so<br />
Chiarelettere, e 12,90<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
Corrado Augias<br />
I segreti d’Italia<br />
Rizzoli, e 19<br />
Paulo Coelho<br />
Die Schriften<br />
von Accra<br />
Diogenes, e 17,90<br />
19
20 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Sguardi<br />
Arte, fotografia, architettura, design, mercato<br />
di VINCENZO TRIONE<br />
Chi ci sarà? È tra gli eventi più attesi<br />
dell’anno. Tra qualche settimana<br />
si terrà la conferenza stampa<br />
e Gianfranco Ravasi, presidente<br />
del Pontificio consiglio della cultura,<br />
annuncerà i nomi degli artisti chiamati<br />
a rappresentare la Città del Vaticano nella<br />
prossima edizione della Biennale di Venezia.<br />
Finora, non sono trapelate anticipazioni.<br />
Si sa che è in fase di realizzazione il<br />
Padiglione che ospiterà la mostra (ai Giardini).<br />
Si sa che la commissione presieduta<br />
da Ravasi, qualche giorno fa, ha completato<br />
la «short list» degli invitati. Si sa che le<br />
«consultazioni» sono durate più di un anno,<br />
nel corso del quale un ristretto gruppo<br />
di esperti si è recato negli studi di molti artisti.<br />
Qualcuno — per depistare? — ha detto<br />
che sarebbero state chiamate, secondo<br />
una logica ecumenica, cinque «voci»: una<br />
per ogni continente. Ma non sarà così.<br />
Al momento, si possono fare solo illazioni.<br />
Molti danno per certa la presenza di Bill<br />
Viola, particolarmente apprezzato per la<br />
sua capacità di coniugare nuove tecnologie<br />
e richiami storico-artistici. Alcuni ipotizzano<br />
che ci sarà anche Cecco Bonanotte, vincitore<br />
a Tokyo del prestigioso Premium Imperiale,<br />
molto vicino agli ambienti cattolici.<br />
Altri si dicono sicuri che, tra i «selezionati»,<br />
ci saranno anche Jannis Kounellis,<br />
Anish Kapoor e alcune personalità femminili.<br />
Dalle scelte della Commissione si capirà<br />
subito quale sarà la filosofia del Vaticano,<br />
che, dopo secoli di «disinteresse», torna a<br />
confrontarsi con l’arte contemporanea. Se<br />
— come molti sostengono — si imporrà<br />
un’ottica conservativa e continuistica, rispettosa<br />
di un patrimonio culturale consolidato.<br />
O se si affermerà un orientamento<br />
più aperto e «laico», in grado di cogliere<br />
anche discontinuità e passaggi talvolta<br />
scandalosi. Se, cioè, ci si muoverà all’interno<br />
di un’estetica legata alla centralità del<br />
tema classico dell’icona. O se ci si aprirà anche<br />
alla linea aniconica dell’arte moderna.<br />
Dunque, chi ci sarà? Senz’altro non i profanatori<br />
— Nitsch, Serrano, Hirst, Cattelan<br />
— i quali acquisiscono alcuni simboli divini,<br />
per deriderli e immetterli in un sistema<br />
di desacralizzazioni. Ma, come ha ricordato<br />
Camille Paglia, «schernire la religione è<br />
una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione<br />
rachitica».<br />
Più facile dire chi meriterebbe di esserci.<br />
I neo-mistici, ad esempio: come Stella,<br />
Kounellis, Kapoor, Paladino, Kiefer, Parmiggiani,<br />
Turrel, Eliasson, Laib, Spalletti e<br />
Sugimoto. Ad accomunarli è il bisogno di<br />
interrogarsi sul volto dell’invisibile, riprendendo<br />
la lezione di Kandinskij, che, nel<br />
1912, aveva osservato: «La letteratura, la<br />
musica e l’arte sono i campi più sensibili<br />
(…) che riflettono subito il fosco quadro<br />
del presente e intuiscono la presenza di<br />
qualcosa di grande, anche se a tutta prima<br />
è visibile, come un puntino, solo a pochi».<br />
Parole che potrebbero essere accostate a<br />
quel che ha detto recentemente Bill Viola:<br />
«Nel corso della storia, la maggior parte<br />
delle creazioni dell’umanità (…) è stata fatta<br />
per motivi intangibili o spirituali, è un<br />
dialogo con forze ineffabili. (…) Tutta l’arte<br />
rappresenta delle cose invisibili».<br />
L’invisibile, allora. È, questa, la figura intorno<br />
a cui ruotano le scelte poetiche di alcuni<br />
artisti di oggi, che tendono a spostare<br />
la loro attenzione dalla «religiosità» alla<br />
«spiritualità». Alcuni esempi: l’Apocalisse<br />
di Kounellis, una solenne croce racchiusa<br />
in un grande sacco appeso con una corda a<br />
una trave sospesa al soffitto; la Via Crucis<br />
di Stella, sculture monocromatiche in metallo<br />
attorcigliato; la crocifissione di Paladino,<br />
un giardino di marmi bianchi, che con-<br />
Fede<br />
Verso la Biennale Più di un anno<br />
di «consultazioni» sotto la guida<br />
del cardinale Ravasi per la<br />
manifestazione di quest’anno,<br />
mentre sono segnalati sopralluoghi<br />
della Santa Sede a Venezia in vista<br />
dell’appuntamento del 2014<br />
Padiglione vaticano, premono i neo-mistici<br />
La ricerca di Assoluto di Viola e Kounellis<br />
i<br />
2013<br />
La 55esima Biennale<br />
Internazionale d’Arte<br />
si svolgerà a Venezia<br />
dal primo giugno<br />
al 24 novembre<br />
ai Giardini e all’Arsenale<br />
(vernice 29, 30, 31 maggio).<br />
Direttore dell’edizione 2013<br />
è Massimiliano Gioni<br />
(presentazione ufficiale<br />
il 13 marzo a Roma).<br />
Il Padiglione Italiano<br />
è stato curato da<br />
Bartolomeo Pietromarchi<br />
(tra gli artisti presenti:<br />
Francesco Arena, Gianfranco<br />
Baruchello, Elisabetta<br />
Benassi, Flavio Favelli, Luigi<br />
Ghirri, Francesca Grilli, Fabio<br />
Mauri, Giulio Paolini, Marco<br />
Tirelli, Sislej Xhafa)<br />
Esordi<br />
La Santa Sede<br />
partecipa per la prima volta<br />
con un Padiglione nazionale.<br />
Commissario del Padiglione<br />
Vaticano è il cardinale<br />
Gianfranco Ravasi.<br />
L’idea era nata nel 2009,<br />
per volontà di Antonio<br />
Paolucci, oggi direttore<br />
dei Musei Vaticani.<br />
Altri otto i Paesi esordienti:<br />
Bahamas, Regno<br />
del Bahrain, Repubblica<br />
del Kosovo, Kuwait, Maldive,<br />
Costa d’Avorio,<br />
Nigeria, Paraguay<br />
vergono in un menhir occupato da una croce<br />
disegnata a matita. E, poi, le superfici di<br />
colore dentro le quali si può «cadere» con<br />
lo sguardo di Kapoor, le stanze illuminate<br />
sullo sfondo da strisce di luce intensa di<br />
Turrel, le apparizioni solari di Eliasson, le<br />
piccole montagne di colore di Laib, i giochi<br />
d’ombra di Parmiggiani, gli ambienti<br />
avvolgenti di Spalletti, gli orizzonti concreti<br />
resi astratti di Sugimoto. Senza dimenticare<br />
la controversa cattedrale di Reggio<br />
Emilia, che accoglie un altare (di Parmiggiani),<br />
un candelabro pasquale (di Spalletti)<br />
e una cattedra in ferro e legno di Kounellis<br />
(rimossa lo scorso dicembre). Tra i padri<br />
di questa sorta di tendenza segreta,<br />
Newman, autore — tra il 1958 e il 1966 —<br />
di una Via Crucis fatta di superfici omogenee<br />
tagliate da strisce bianche e nere; e Lucio<br />
Fontana, creatore, nel 1963, di un ciclo<br />
intitolato La fine di Dio, superfici di un solo<br />
colore perforate da buchi slabbrati.<br />
Pur con accenti diversi,<br />
questi artisti si<br />
fanno interpreti di<br />
un’epoca nella quale<br />
è andato progressivamente<br />
scomparendo<br />
l’Assoluto. Ma, forse,<br />
non la tensione verso<br />
l’Assoluto stesso.<br />
«Ora si tratta di riportare<br />
la spiritualità al<br />
centro e in domini<br />
aperti in cui sono possibili<br />
scoperte decisive»,<br />
ha scritto Charles<br />
Taylor. Nel riprendere<br />
una lunga tradizionestorico-artistica<br />
(documentata in una mostra tenutasi al<br />
Centre Pompidou nel 2008, «Traces du sacré»),<br />
i neo-mistici condividono il desiderio<br />
di emanciparsi da ogni riferimento contingente.<br />
Vogliono sottrarsi al tempo del di-<br />
Dall’alto: l’Apocalisse di Jannis Kounellis<br />
(2012, Milano, Galleria San Fedele); una<br />
delle stazioni della Via Crucis di Frank Stella<br />
(2009) per la Dives in Misericordia di<br />
Roma; Bill Viola, «Emergence» (2002)<br />
sincanto. Nei loro lavori, non vi sono echi<br />
di attualità. Portandosi al di là di ogni logica<br />
mediatica, non offrono testimonianze,<br />
né aderiscono al piano della<br />
riconoscibilità. Avvertono il bisogno di misurarsi<br />
con una sfera altra. Tendono verso<br />
una forma che si ponga in equilibrio tra il<br />
detto e il non-detto. Talvolta, si affidano a<br />
una figurazione che rielabora una simbolica<br />
originaria: è il caso di Kiefer, Kounellis,<br />
Paladino, Parmiggiani. Spesso, per dialogare<br />
con la trascendenza, scelgono l’astrazione<br />
e il minimalismo. Le loro opere: superfici<br />
monocrome o abitate da essenziali linee.<br />
Sulle orme di Malevic, scelgono di risiedere<br />
ai bordi del linguaggio. Si rifugiano negli<br />
spazi del silenzio. Essi sanno che il sacro<br />
non può mai essere racchiuso in un perimetro.<br />
Non si lascia nominare: traspare<br />
solo attraverso il suo essere inesprimibile.<br />
Gli eredi di Kandinskij e Malevic elaborano<br />
un’iconografia senza icone. Suggeriscono<br />
altre dimensioni. Sapienti nell’annodare<br />
il segno e l’assenza, pensano le opere come<br />
preghiere laiche. L’arte è dispositivo<br />
che consente di andare al di là della fragilità<br />
delle cose. È oltrepassamento. Esperienza<br />
metafisica, per porsi in ascolto di presenze<br />
lontane e scoprire tracce di eternità.<br />
Slancio verso quella che i greci chiamavano<br />
theía aisthesis: divino percepire.<br />
Queste necessità erano state colte da<br />
Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti<br />
del 1999: «L’arte anche al di là delle sue<br />
espressioni più tipicamente religiose,<br />
quando è autentica, ha una profonda affinità<br />
col mondo della fede; sicché, persino<br />
nelle condizioni di maggior distacco<br />
dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire<br />
una sorta d’appello al Mistero».<br />
Sarebbe auspicabile che il Padiglione della<br />
Santa Sede della Biennale 2013 partisse<br />
proprio da queste parole di Karol<br />
Wojtyla.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
nell’arte<br />
di STEFANO BUCCI<br />
Alla presentazione ufficiale della<br />
Biennale d’Architettura 2014,<br />
quella curata (e più che mai diretta)<br />
da Rem Koolhaas, tra i<br />
quaranta rappresentanti degli<br />
stati partecipanti, il Vaticano non c’era. Ma<br />
i rumors veneziani parlavano di sopralluoghi<br />
già effettuati tra l’Arsenale e i Giardini<br />
in cerca di una possibile, adeguata collocazione<br />
per un possibile Padiglione d’architettura.<br />
No comment dalle segrete stanze<br />
(d’altra parte mancano quasi due anni, tutto<br />
sembra dipendere dai «risultati» dall’ormai<br />
prossimo esordio della Santa Sede alla<br />
Biennale d’Arte), ma la «Cura Ravasi» sembra<br />
aver suscitato anche un rinnovato interesse<br />
sullo stato dell’architettura sacra (in<br />
Italia, dal Dopoguerra a oggi, sono state costruite<br />
oltre cinquemila chiese: non tutte,<br />
certo, di grande qualità progettuale).<br />
Le vele della Dives in Misericordia<br />
(1996-2003) di Richard Meier alle Tre Teste,<br />
nella profonda periferia romana, o il<br />
pluripremiato monastero di Novy Dvur<br />
(1999-2004) di John Pawson nella Repubblica<br />
Ceca, non possono essere più considerato<br />
un esempio isolato. Come interessanti<br />
sono i recenti esperimenti della St. Jakob<br />
Chapel (2012) ad Auerberg, nella campagna<br />
bavarese a sud di Monaco: una piccola<br />
cappella solo cinque metri per tre, in pietra,<br />
con una finestra che inquadra la croce<br />
esterna, unico simbolo di devozione, «per<br />
proiettare il pensiero dell’osservatore fuori,<br />
verso l’orizzonte, invitandolo alla meditazione<br />
e alla preghiera». O come la Capilla<br />
del Buen Retiro, sulle Ande cilene, di Christian<br />
Undurraga: «La mia cappella si sviluppa<br />
verso la terra, anzi dentro la terra, è più<br />
vicina alle catacombe che alle cattedrali gotiche».<br />
E intanto il quinto concorso bandito dai<br />
vescovi italiani ha da poco premiato la<br />
Dall’alto: St. Jakob Chapel ad Auerberg,<br />
Germania (Michele De Lucchi, 2012); l’interno<br />
della Dives in Misericordia a Roma (Richard<br />
Meier, 2003); la Capilla del Retiro, sulle Ande<br />
cilene (2009, Undurraga Devés Associates)<br />
RRR<br />
Dal Dopoguerra sono state costruite in Italia oltre<br />
cinquemila chiese, non tutte di grande qualità. A lungo<br />
dopo il Vaticano II si è data centralità alla liturgia;<br />
solo adesso si sta recuperando la «dimensione verticale».<br />
Il modello della ricostruzione dopo il sisma dell’Emilia<br />
L’architettura oltre i malintesi del Concilio<br />
«Le chiese tornano a testimoniare Dio»<br />
Chiesa di San Giacomo Apostolo in Ferrara<br />
di Benedetta Tagliabue, quella di San Ignazio<br />
da Laconi in Olbia di Francesca Leto, Michele<br />
Battistella e Daniele Bertoldo e quella<br />
di Santa Maria Goretti in Mormanno (Cosenza)<br />
nell’ambito di «un progetto destinato<br />
a innalzare la qualità dell’edilizia di culto,<br />
perché costruire è sicuramente un’operazione<br />
pastorale ed ecclesiale, ma anche<br />
un progetto culturale».<br />
«Troppo a lungo è mancata una tensione<br />
che potremmo definire verticale, troppo<br />
a lungo dopo il Concilio si è pensato prima<br />
alla comunità liturgica, poi al simbolo<br />
— spiega Claudia Manenti, direttore del<br />
Centro Studi per l’architettura sacra e la città<br />
della Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro<br />
di Bologna —. Un’intenzione giusta,<br />
ma che ha contribuito a costruire nuove<br />
chiese che assomigliavano più a garage<br />
che a cattedrali, edifici che finivano letteralmente<br />
per perdersi nelle periferie, spazi<br />
privi o quasi di qualsiasi<br />
segno di riconoscimento,<br />
a volte persino<br />
di una croce, che<br />
nascevano solo dalla<br />
buona volontà della<br />
committenza, a cominciare<br />
dai parroci<br />
e dai fedeli». Nessuna<br />
voglia di trionfalismo,<br />
certo, ma un recupero<br />
di una dignità<br />
progettuale guardando<br />
a modelli eccellenti<br />
come la Chiesa dell’Autostrada<br />
del Sole<br />
(1960-1964) alle porte<br />
di Firenze di Giovanni<br />
Michelucci o il semisconosciuto complesso<br />
parrocchiale di Santa Maria Riola di<br />
Vergato (1978-1980) su disegno di Alvar Aalto,<br />
non a caso «concepita come risposta alla<br />
richiesta proprio del cardinale Lercaro,<br />
i<br />
2014<br />
La 14esima Biennale<br />
Internazionale di Architettura<br />
si svolgerà a Venezia dal 7<br />
giugno al 23 novembre 2014<br />
ai Giardini e all’Arsenale<br />
(vernice 5 e 6 giugno) nonché<br />
in vari luoghi di Venezia.<br />
Curatore dell’edizione 2014<br />
(titolo «Fundamentals»)<br />
l’olandese Rem Koolhaas.<br />
Quaranta i Paesi<br />
che hanno già annunciato<br />
la loro partecipazione.<br />
La Santa Sede<br />
non ha partecipato<br />
alla prima riunione<br />
con il curatore Koolhaas,<br />
ma la presenza<br />
è data per possibile<br />
Osservatori<br />
Dies Domini-Centro studi<br />
per l’architettura sacra<br />
e la città della Fondazione<br />
Cardinale Giacomo Lercaro<br />
(diretto da Claudia Manenti)<br />
si dedica in particolare<br />
«alla formazione e ricerca<br />
sulle tematiche inerenti<br />
alla relazione<br />
tra spazio sacro e città»<br />
(www.fondazionelercaro.it).<br />
Proprio il cardinale di Bologna<br />
Giacomo Lercaro aveva dato<br />
avvio ai lavori<br />
del primo congresso<br />
di Architettura Sacra<br />
che si tenne a Bologna<br />
il 23 settembre 1955<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
21<br />
all’epoca arcivescovo di Bologna, di una<br />
chiesa, la prima, che fosse architettonicamente<br />
rispondente alla rinnovata liturgia<br />
postconciliare». Questa ritrovata attenzione<br />
verso gli edifici sacri si manifesta ormai<br />
anche in caso di emergenza: «La Diocesi di<br />
Bologna — spiega Manenti — ha seguito i<br />
progetti di cinque chiese nelle zone colpite<br />
dal terremoto del maggio scorso. Appunto<br />
per evitare di tirare su capannoni senza<br />
qualità. Crevalcore, Cento, Renazzo, Sant’Agostino,<br />
Mirabello hanno ora chiese provvisorie,<br />
in legno, ma pur sempre vere chiese;<br />
quando l’emergenza sarà finita potranno<br />
decidere di tenerle o meno».<br />
Ma la relazione tra cultura visiva contemporanea<br />
ed edifici di culto «resta ancora<br />
difficile», almeno per Vittorio Gregotti, «e<br />
investe ormai in modo generalissimo ogni<br />
culto». Sempre secondo Gregotti «le realizzazioni<br />
di alta qualità sono state davvero rare:<br />
dalla Sinagoga di Gerusalemme di<br />
Louis Kahn alla chiesa di Ronchamp di Le<br />
Corbusier, dalla chiesa protestante di Amsterdam<br />
progettata da Aldo van Eyck a quelle<br />
nordiche di Lewerentz sino alle chiese di<br />
Mario Botta; mentre se si volesse risalire all’inizio<br />
del XX secolo, si dovrebbe fare riferimento<br />
agli esempi storici di F. L. Wright,<br />
di Perret e di Schwartz». Allo stesso modo<br />
monsignor Timothy Verdon, statunitense<br />
di nascita, storico dell’arte formatosi a<br />
Yale, da 47 anni in Italia, dove a Firenze dirige<br />
l’Ufficio diocesano dell’Arte sacra e il<br />
Museo dell’Opera del Duomo: «Ci vorranno<br />
almeno due generazioni per recuperare<br />
il tempo perduto, per ritrovare un linguaggio<br />
artistico depotenziato». E se Verdon<br />
boccia certe esperienze come quella della<br />
Dives in Misericordia («Tutto questo gioco<br />
di luce e di spazio è qualcosa di già visto,<br />
niente di originale»), anche lui sembra nutrire<br />
buone speranze dalla «Cura Ravasi»<br />
(e di Benedetto XVI che nel novembre 2009<br />
aveva raccolto artisti e architetti sotto la volta<br />
della Cappella Sistina, tra loro Botta e Calatrava):<br />
«La loro è stata una svolta decisa,<br />
sono ritornati a dare grande importanza alle<br />
chiese come spazi. Stanno cercando prospettive<br />
nuove, con un dinamismo inaspettato».<br />
Per Verdon ci sarà sempre meno spazio<br />
per l’arte che rifà Beato Angelico, per<br />
chiese trionfalistiche «bellissime, ma come<br />
aeroporti» (la Chiesa di Padre Pio a San<br />
Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano,<br />
1994-2004) e per «strutture fin troppo<br />
religiosamente tradizionali» (come quelle<br />
di Mario Botta); ora è necessario «superare<br />
questa grande confusione di fondo, nata<br />
da un’estremizzazione della lezione del<br />
Concilio, che metteva al primo posto la comunità<br />
rispetto allo spazio».<br />
Qualche esempio riuscito di questa nuova<br />
via? Secondo Verdon la Transfiguration<br />
Church di Cape Code (con tanto di affreschi<br />
firmati da Silvestro Pistolesi, magari<br />
potrebbe essere lui uno degli artisti alla<br />
prossima Biennale di Venezia) «perché trovo<br />
belle le sue forme, ma perché trovo bella<br />
soprattutto l’idea di uno spazio interreligioso».<br />
Forse si potrebbe tentare una contaminazione<br />
come quella che, tra pochi<br />
giorni (domenica 17), farà riaprire al pubblico<br />
a Firenze due capolavori del Rinascimento<br />
come la Cappella Rucellai e il Tempietto<br />
del Santo Sepolcro all’interno del<br />
percorso di un’architettura moderna come<br />
il Museo Marino Marini (1988). «Non importa<br />
che l’architetto sia o meno credente,<br />
sia più o meno cattolico. Quello che conta<br />
è che metta il suo talento al servizio della<br />
fede». E poi conclude con una minaccia<br />
scherzosa: «Non a caso il Papa ha voluto incontrare<br />
artisti e architetti sotto il Giudizio<br />
Universale della Cappella Sistina. Perché<br />
ognuno deve sentirsi responsabile di quello<br />
che fa». Chiese comprese.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
22 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Sguardi Le mostre<br />
Riscoperte A Merano le prime trasgressioni dell’artista<br />
Metà degli Anni Settanta, a<br />
Buffalo, sul Lago Erie, vicino<br />
alle Niagara Falls: allo<br />
State University College<br />
una ragazza di venti anni<br />
(o poco più) rifiuta la pittura e si confronta<br />
con la ricerca di New York. Sceglie,<br />
dunque, i corsi di fotografia ma non si<br />
interessa alle tecniche della ripresa e della<br />
stampa e neppure alle arti tradizionali.<br />
Preferendo invece scoprire l’arte concettuale,<br />
la Body Art, gli happening.<br />
Cindy Sherman è questo, e molto altro,<br />
fin dalle origini, indagate per la prima<br />
volta da una bella mostra a Merano<br />
(Cindy Sherman. That’s me-That’s not<br />
me, Galleria Merano Arte, fino al 26 maggio).<br />
Gli anni della formazione fra il 1975 e<br />
il 1977 (Cindy è nata nel 1954) mostrano<br />
subito scelte nette. Scrive Allan Kaprow:<br />
«La linea fra arte e vita deve rimanere<br />
fluida e la più indistinta possibile». Per<br />
questo gli happening, gli eventi che hanno<br />
tanto pesato sulla scena di New York,<br />
sono un passaggio importante, ma Cindy<br />
non vuole quel genere di rappresentazione.<br />
Certo, la Sherman conosce bene il<br />
dibattito di Art & Language, e il problema<br />
dello scarto fra parola, realtà e foto-<br />
i<br />
La retrospettiva<br />
«Cindy Sherman:<br />
That’s me -That’s not me»,<br />
a cura di Gabriele Schor,<br />
Merano,<br />
Galleria Merano Arte,<br />
fino al 26 maggio<br />
(Info Tel. 0473 21 26 43;<br />
www.kunstmeranarte.org),<br />
Catalogo Hatje Cantz<br />
Verlag, tedesco e inglese,<br />
pp. 378, e 58<br />
La collezione<br />
La mostra propone<br />
(per la prima volta in Italia)<br />
cinquanta lavori giovanili<br />
(1975-77) dell’artista<br />
statunitense (1954)<br />
dalla Collezione<br />
Verbund di Vienna.<br />
Tre lavori giovanili<br />
della Sherman sono<br />
esposti (fino al 9 giugno)<br />
al Museo Gucci di Firenze<br />
{<br />
di Paolo Conti<br />
grafia. Come nell’opera di Joseph Kosuth<br />
One and three chairs (1965) con una sedia<br />
fotografata, la sedia reale, la definizione<br />
di sedia nel vocabolario; uno scarto<br />
ben mostrato da Magritte che aveva<br />
scritto sotto l’immagine di una pipa «ceci<br />
n’est pas une pipe».<br />
Praticare arte però vuol dire anche sperimentare<br />
l’ambiguità dei testi e delle immagini.<br />
Nel 1975 finisce, con la caduta di<br />
Saigon, il conflitto in Vietnam, ma la mitologia<br />
americana continua sulle riviste<br />
glamour, nelle pubblicità della moda,<br />
nel consumo delle immagini; sono gli ultimi<br />
anni di Warhol e dei suoi travestimenti;<br />
sono gli anni del Concettuale e di<br />
una ricerca sull’arte come vita (ancora<br />
Kaprow), ma anche del rifiuto dell’arte<br />
da appendere, dell’arte come merce.<br />
Così ecco il problema: rappresentare<br />
per Cindy Sherman vorrà sempre dire<br />
cancellare se stessa, trasformarsi: Senza<br />
titolo (1975) è una lunga sequenza di fotografie<br />
del volto dell’artista che, da studentessa<br />
acqua e sapone, diventa vamp,<br />
il volto cambia fino a essere irriconoscibile.<br />
Un’altra ricerca Air shutter release<br />
fashion (1975) mostra il corpo nudo di<br />
Cindy, senza testa e tagliato appena sopra<br />
le ginocchia, legato da una corda,<br />
«Dobbiamo riappropriarci della nostra<br />
identità, qui c’è un quarto dei beni<br />
archeologici del pianeta», assicura Luca<br />
Zingaretti, candidato alla presidenza<br />
della Regione Lazio. Per Silvio Berlusconi<br />
Cindy, l’infanzia di una star<br />
Le provocazioni giovanili della Sherman in un diario privato tra Magritte e Warhol<br />
Cinquanta lavori che evocano (e superano) i sogni dell’avanguardia newyorkese<br />
di ARTURO CARLO QUINTAVALLE<br />
Beni confusionali<br />
Il nostro patrimonio tutelato dall’Unesco<br />
Composizioni<br />
In alto, a sinistra: Cindy Sherman, «Murder<br />
Mistery» (1976, particolare), composizione<br />
di 255 fotografie in bianco e nero con<br />
figure ritagliate. Sopra, dall’alto: due<br />
immagini da «Bus Riders II» (1976-2000),<br />
serie di 12 fotografie in bianco e nero.<br />
I lavori giovanili della Sherman fanno parte<br />
della Collezione Verbund di Vienna sin dalla<br />
nascita della stessa collezione, nel 2004<br />
(marzo 2011) l’Italia «ha regalato al mondo<br />
il 50 per cento dei beni artistici tutelati<br />
dall’Unesco». L’unica verità? In Italia<br />
si trovano 44 dei 725 siti culturali tutelati<br />
dall’Unesco. Ed è già tantissimo.<br />
omaggio a Marcel Duchamp e a Christo.<br />
«Ho iniziato a lavorare con la fotografia<br />
circa due anni fa, — scrive Cindy nel<br />
1976 — quando ho deciso di usare la<br />
macchina fotografica per esplorare la<br />
mia esperienza di donna. I miei primi<br />
tentativi sono stati col trucco del mio viso<br />
per esprimere caratteri diversi. Questo<br />
crebbe fino a trasformare tutto il mio<br />
corpo così che io potessi rappresentare<br />
un carattere dato».<br />
E qui si inserisce un’altra storia: Cindy<br />
inizia a ritagliare figure, un poco come i<br />
vestiti di carta delle bambole ottocentesche<br />
ma nella miglior tradizione della<br />
Barbie: utilizza vecchi abiti, travestimenti<br />
per trasformarsi, per rappresentare<br />
sempre nuove storie.<br />
Così dopo Doll Clothes del 1975 viene<br />
una serie di immagini di Cindy, ritagliate<br />
e parzialmente sovrapposte come nelle<br />
fotografie del movimento di Eadweard<br />
Muybridge o in quelle, che tanto hanno<br />
pesato sull’arte dai Futuristi a Duchamp,<br />
di Etienne Jules Marey. Ecco allora Series<br />
of paper doll movement (1975), Character<br />
movement series- The giant (1976)<br />
dove la sagoma di Cindy è ritratta in pose<br />
diverse.<br />
E poi, ancora, ecco il teatro e la autoanalisi:<br />
si intitola Play of selves, una recita<br />
«analitica», un complesso racconto<br />
del 1976 dove l’artista moltiplica i travestimenti<br />
e diventa donna angosciata e distrutta,<br />
ma anche donna ideale, donna<br />
giovane e frivola, donna seduttrice, e persino<br />
maschio amante, oppure uomo ideale,<br />
o donna ideale; le foto costruiscono<br />
un racconto seguendo un vero e proprio<br />
copione.<br />
Cindy si propone in molte altre ricerche,<br />
con abili fotomontaggi diventa «cover<br />
girl» per «Cosmopolitan» e per altre<br />
riviste. In Bus riders (1976-2000) espone<br />
per un mese, negli spazi pubblicitari di<br />
un autobus, figure rimpicciolite di viaggiatori<br />
sempre e comunque impersonati<br />
da lei che diventa conducente e vamp,<br />
studente e lavoratore nero: ecco un dialogo<br />
fra persone vere e immagini; si potrebbe<br />
dire, con Magritte, «questo non è<br />
un viaggiatore». La Sherman vuole evocare<br />
così gli happening e la Body Art con<br />
l’idea che il corpo deve farsi altro, deve<br />
rappresentare persone diverse, identificarsi,<br />
perdersi.<br />
Certo, le trame dei racconti di Cindy<br />
sono quelle del romanzo d’appendice ottocentesco<br />
di una lontana Parigi, ma le<br />
fotografie nascono dall’idea dell’arte<br />
moltiplicata dai media di Andy Warhol.<br />
Al tempo stesso, il teatro dei gesti di Cindy<br />
è evento fotografato, suggestione della<br />
maschera, diario in pubblico che vuole<br />
essere antagonista di un universo dominato<br />
dagli uomini. Dunque, ricerca di<br />
identità e, quindi, autoanalisi.<br />
Allestimento<br />
Rigore scientifco<br />
Catalogo<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Sguardi Le mostre<br />
di CARLO BERTELLI<br />
Sono passati cinquant’anni dal libro<br />
con cui Claude Lévi-Strauss<br />
c’introdusse al «pensiero selvaggio».<br />
La copertina dell’edizione<br />
francese recava la fotografia di<br />
una pensèe, una viola del pensiero, naturalmente<br />
selvatica. Era infatti una pensèe<br />
sauvage, emblema delle forme di pensiero<br />
dei selvaggi. Alla bellezza del fiore, il<br />
grande antropologo affidava la sostanza<br />
del libro: «Ero partito per trovare dei selvaggi<br />
e avevo trovato degli uomini». I selvaggi<br />
del Mato Grosso gli avevano rivelato<br />
sistemi di pensiero del tutto simili a<br />
quelli dei popoli più civili.<br />
Nei musei europei, da noi anche in<br />
musei di piccoli centri, le prime sale sono<br />
occupate da reperti di scavo: punte di<br />
frecce, raschiatoi d’osso, amigdale, cioè<br />
pietre a punta acuminata scolpite da altre<br />
pietre più dure. La funzionalità di<br />
questi strumenti certo stupisce, ma presto<br />
ci si rende conto di come i loro creatori<br />
ne affidassero l’efficacia a regole che<br />
non possiamo definire altrimenti che<br />
estetiche (come il principio di simmetria).<br />
La grande mostra appena aperta al<br />
British Museum vuole scandagliare in<br />
profondità le nostre prime impressioni e<br />
indagare nei cervelli degli uomini che 45<br />
MILANO<br />
I disegni (svelati) di Peterzano<br />
Se lo scorso anno il Fondo<br />
Peterzano balzò all’onore delle<br />
cronache per la tentata, e poi<br />
smentita, attribuzione a Caravaggio<br />
di cento disegni conservati nel<br />
Fondo, la mostra offre l’occasione<br />
per conoscere i preziosi fogli di<br />
Simone Peterzano (1540-1596) e<br />
di altri artisti lombardi (sopra:<br />
Giovan Battista Crespi detto il<br />
Cerano, Studio per l’Ultima cena ).<br />
Castello Sforzesco<br />
Fino al 17 marzo<br />
Tel 02 88 46 37 00<br />
i<br />
L’appuntamento<br />
«Ice Age Art:<br />
arrival<br />
of the modern mind»,<br />
a cura di Jill Cook,<br />
Londra, British Museum,<br />
fino al 26 maggio<br />
(Info: Tel.<br />
+44 20 73 23 82 99;<br />
www.britishmuseum.org),<br />
Catalogo The Brithish<br />
Museum Editions,<br />
pp. 250, £ 25<br />
I manufatti<br />
Sopra: un bisonte d’avorio<br />
scolpito 20 mila anni fa<br />
da una zanna di mammuth<br />
trovata a Zaraysk, Russia.<br />
A destra, dall’alto:<br />
Piet Mondrian (1872-1944),<br />
«New York City 1»<br />
(1944, particolare);<br />
Henry Moore (1898-1986),<br />
«Reclining Woman» (1951)<br />
mila anni or sono, ovvero prima dell’ultima<br />
glaciazione, emigrarono dall’Africa,<br />
attraverso il Vicino Oriente, poi la valle<br />
del Danubio, fino ai lidi lontani dove la<br />
terra finisce e comincia l’Oceano.<br />
Con reperti che provengono dalla<br />
Francia, dalla Germania, dalla Russia e<br />
dall’Europa centrale, l’archeologo Jill<br />
Cook ha curato la scelta secondo i criteri<br />
di una mostra d’arte, riunendo gruppi<br />
specializzati nelle varie tecniche e ordinandoli<br />
in percorsi cronologici. L’arte di<br />
modellare la creta e trasformarla col fuoco<br />
in ceramica, fu probabilmente inizialmente<br />
una prerogativa femminile, ma<br />
non fu usata solo per ottenere recipienti,<br />
ma anche per creare piccole statue, come<br />
una, da Brno, qui esposta, forse la<br />
REGGIO EMILIA<br />
La sacralità dei musei<br />
Due sedi, Palazzo San Francesco<br />
e la Galleria Parmeggiani, per la<br />
mostra fotografica di Davide<br />
Pizzigoni (Milano, 1955) che è<br />
dedicata ai custodi dei musei.<br />
Questi luoghi emanano una<br />
sacralità richiamata anche dalla<br />
musicalità del titolo Loropernoi<br />
(sopra: Installazione site-specific<br />
nella Collezione Chierici dei Musei<br />
Civici di Reggio Emilia).<br />
Palazzo San Francesco<br />
Fino al 17 marzo<br />
Tel 0522 45 68 16<br />
{<br />
di Paolo Fallai<br />
Passo falso<br />
Connessioni Un viaggio nella creatività: dalla preistoria all’astrattismo<br />
L’ultima chiamata per i musei del Lazio<br />
In confronto agli Uffizi o ai Capitolini sono<br />
piccoli. Ma nel documento firmato da 50<br />
direttori di musei del Lazio c’è l’orgoglio della<br />
funzione sociale: ricerca, valorizzazione delle<br />
risorse, didattica. Musei vicini alle persone e<br />
Quel bisonte sembra Picasso<br />
Pietre incise, statuette d’avorio, sculture di Henry Moore, tele di Mondrian:<br />
al British Museum l’evoluzione dello stile (e dell’arte) del genere umano<br />
Calendario<br />
VERONA<br />
Incanti al femminile<br />
La Galleria d’Arte Moderna<br />
presenta una selezione di opere<br />
di Angelo Dall’Oca Bianca<br />
(1858-1942). La mostra ha come<br />
protagonista la figura femminile:<br />
dai nudi inediti alle scene di<br />
genere, fino ai gruppi ritratti<br />
davanti a scorci di quella città di<br />
Verona così tanto amata dal<br />
pittore scaligero (sopra: Verona in<br />
un mattino di primavera).<br />
Casa di Giulietta<br />
Fino al 10 marzo<br />
Tel 045 80 01 903<br />
RRR<br />
Percorsi<br />
La funzionalità<br />
degli oggetti primitivi<br />
è il risultato di necessità<br />
anche estetiche<br />
come la simmetria<br />
più antica terracotta del mondo, che raffigura<br />
una donna con grandi seni pendenti<br />
e un ampio bacino. Forse non evocazione<br />
di desideri maschili, ma, se chi<br />
la modellò fu, come non è improbabile,<br />
una donna, simbolo orgoglioso della potenza<br />
creatrice femminile.<br />
Come in una mostra d’arte, la sequenza<br />
cronologica permette di percepire secoli<br />
di costanti cambiamenti. Dovunque,<br />
ma non allo stesso modo, i gruppi umani<br />
furono interessati a creare modelli interpretativi<br />
del mondo, alla ricerca della<br />
sua segreta e incombente magia, e in<br />
questo cammino incontrarono l’armonia<br />
e l’equilibro della forma. Eliminarono<br />
il terrore del mondo con le immagini<br />
di chi lo aveva compreso al punto di crearne<br />
uno parallelo, dal quale ricevere forza,<br />
provocando, con una bellezza creata<br />
dagli uomini, il turbamento che destava<br />
un mondo di cui altrimenti sarebbe sfuggito<br />
il senso.<br />
Un programma perseguito per millenni<br />
fu quello di imitare il mondo per impossessarsene.<br />
Da un osso intagliato 22<br />
mila anni or sono, a Zaraysk, a sud ovest<br />
di Mosca, un bisonte, con i ciuffi del capo<br />
sapientemente incisi, incede con la testa<br />
bassa, il passo lento e grave, mentre<br />
CATANZARO<br />
Cinema & pittura<br />
Il cinema d’artista è protagonista<br />
di un progetto composto da una<br />
mostra, una rassegna<br />
cinematografica più incontri con<br />
gli autori e workshop. Gli spazi del<br />
complesso ospitano un percorso,<br />
dal Futurismo fino all’era digitale,<br />
con opere audiovisive messe a<br />
confronto con fotografie,<br />
installazioni, disegni e dipinti<br />
(sopra: Pino Pascali, Soldatini).<br />
Complesso del San Giovanni<br />
Fino al 3 marzo<br />
Tel 0961 79 25 66<br />
BRUXELLES<br />
Musica d’artista<br />
Quindici quadri (sopra: Quartetto) e<br />
trenta disegni di Antoine Watteau<br />
(1684-1721), ma non solo, per<br />
raccontare la musica (lo stesso<br />
Watteau componeva). Nature<br />
morte con strumenti o scorci di<br />
teatrini d’opera per una mostra che<br />
ha l’ambizione (con il supporto di<br />
una serie di concerti dal vivo e di<br />
una collezione di CD) di celebrare il<br />
legame tra musica e pittura.<br />
Palais des Beaux-Arts<br />
Fino al 12 maggio<br />
Tel +32 2 507 82 00<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
completamente dimenticati, soggetti al<br />
«quasi totale azzeramento delle risorse». Una<br />
richiesta di attenzione che suona come ultima<br />
chiamata per una classe politica distratta.<br />
Il testo su www.museinelterritorio.info.<br />
apre la bocca per muggire. Una figurina<br />
di cervo (realizzata 13 mila anni fa) mostra<br />
invece l’animale che nuota nella corrente,<br />
levando il muso all’altezza dell’acqua,<br />
con le corna indietro.<br />
Questa mostra sarà ricordata come<br />
quella in cui l’antropologia tentò di farsi<br />
storia dell’arte del paleolitico, mentre finora<br />
la cronologia era stabilita più dall’analisi<br />
stratigrafica del terreno che dal<br />
riconoscimento di un’evoluzione stilistica.<br />
L’evoluzione dello stile (abilità manuale,<br />
visione sintetica, aderenza all’impressione<br />
del vero) suppone, tra le facoltà<br />
del primo uomo, un esercizio della<br />
memoria come metodo di progresso. E a<br />
questo punto le domande sono state rivolte<br />
al campo delle neuroscienze, dove<br />
da tempo si conosce il ruolo della corteccia<br />
cerebrale come centrale della memoria,<br />
del linguaggio, della conoscenza. E<br />
poiché tutti i vertebrati possiedono questa<br />
stessa struttura laminare, le ricerche<br />
si sono rivolte a esplorare le manifestazioni<br />
estetiche di altri vertebrati, dalle<br />
scimmie agli elefanti.<br />
Il risultato è stato la dimostrazione<br />
che, per quanto alcuni<br />
scimpanzé abbiano dimostrato<br />
una sensibilità cromatica,<br />
nessun animale<br />
immagina di rappresentare<br />
il mondo come altro da<br />
sé, nessuno l’ha oggettivato<br />
come fece l’uomo di 40<br />
mila anni or sono. All’alba<br />
dell’umanità, l’uomo aveva<br />
già elaborato un sistema<br />
di rapporti col mondo<br />
attraverso il suo possesso<br />
simbolico. Sapeva intuire<br />
somiglianze, come in<br />
quella pietra antropoide<br />
trovata presso il fiume<br />
Dran, in Marocco, conservata in mezzo a<br />
strumenti del Paleolitico, tali da indurre<br />
a chiederci se sia stata semplicemente<br />
scelta per la sua apparenza oppure lavorata.<br />
Ice Art, l’arte che inaugura l’età successiva<br />
all’ultima glaciazione, è quella<br />
dell’approdo della mente moderna: The<br />
arrival of the modern mind (come recita<br />
il sottotitolo della mostra londinese).<br />
E la modernità viene additata, forse<br />
con una certa forzatura didattica e in maniera<br />
troppo approssimativa, cedendo a<br />
un impulso estetico, nell’impatto che le<br />
creazioni primitive ebbero sulla creatività<br />
del secolo scorso, qui ancora sentito<br />
come moderno, a partire da Picasso, mettendo<br />
in mostra gli esempi di Matisse,<br />
Moore, Mondrian. Le loro furono scelte<br />
colte e deliberate, vere corse a ritroso<br />
nei millenni. La mostra racconta invece<br />
l’affacciarsi dell’immagine come strumento<br />
per partecipare alla sacralità aurorale<br />
del mondo.<br />
Allestimento<br />
Rigore scientifico<br />
Catalogo<br />
LA LETTURA 23<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
acuradiCHIARA PAGANI<br />
KLOSTERNEUBURG<br />
Un’opera all’anno<br />
Nella cittadina poco a nord di<br />
Vienna è ospitata l’esposizione di<br />
dipinti e sculture dell'artista<br />
tedesco Georg Baselitz (Kamenz,<br />
1938). Quarantaquattro opere,<br />
una per ogni anno di attività dal<br />
1968 al 2012 (sopra: Wir<br />
besuchen den Rhein II, 1997),<br />
costituiscono un canzoniere di<br />
una vita vissuta tra nazismo,<br />
comunismo e capitalismo.<br />
Collezione Essl<br />
Fino al 20 maggio<br />
Tel +43 2243 370 50 150
24 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Sguardi Il protagonista<br />
Nello studio di Timothy Greenfield-Sanders<br />
Lo specchio dell’America<br />
dal nostro inviato a New York<br />
GIANLUIGI COLIN<br />
Ha fotografato l’orrore della guerra in Iraq<br />
senza mostrare una goccia di sangue. Lo ha<br />
fatto con il candore dello sguardo, ritraendo<br />
un soldato in alta uniforme, non in un<br />
campo di battaglia, ma nel suo studio nel<br />
cuore di New York: fondo bianco, le medaglie al petto.<br />
Il marine è austero, orgoglioso, marziale. Ma senza<br />
gambe. Al loro posto due protesi, bene in vista, contenute<br />
in un paio di scarpe lucidissime, tirate a specchio.<br />
Timothy Greenfield-Sanders è il fotografo dell’America.<br />
Lo è nel suo senso più profondo, nella rappresentazione<br />
più vera, perché è senza artifici retorici e invenzioni<br />
estetiche. Uno sguardo rigoroso, senza sovrastrutture,<br />
apparentemente semplice, ma al contrario è uno<br />
sguardo colto, calibrato, essenziale.<br />
Non è un caso che davanti al suo obbiettivo sia passato<br />
il mondo più influente della politica (presidenti, segretari<br />
di Stato, senatori, First Ladies. Tra l’altro, curioso<br />
a dirsi, anche una giovane Hillary Clinton e Monica<br />
Lewinsky). E poi tutto lo star system che comprende i<br />
più grandi attori e registi (da Orson Welles a Spielberg,<br />
Woody Allen, Nicole Kidman, per citare solo alcuni nomi)<br />
ma anche il mondo della cultura e dell’arte. Ancora<br />
qualche esempio? Allen Ginsberg, Salman Rushdie, Robert<br />
Rauschenberg, Richard Serra, Jeff Koons (che, for-<br />
Fotografa tutti: politici, attori, eroi<br />
«Cominciai facendo irritare Welles»<br />
i<br />
Timothy Greenfield-Sanders<br />
nel suo studio di New York,<br />
accanto alla fotocamera<br />
in legno di grande formato<br />
con cui realizza<br />
i suoi celebri ritratti<br />
dello star system<br />
se era al tempo di Cicciolina, si è fatto ritrarre nudo).<br />
Non è un caso che il suo studio a East Village sia una<br />
piccola cattedrale anglicana, sventrata e trasformata<br />
nel suo personale tempio dell’immagine. Il sole entra<br />
dalle vetrate gotiche e illumina lo studio/casa dando<br />
allo spazio una dimensione mistica. All’entrata,<br />
un paio di dipinti di vecchi amici:<br />
Francesco Clemente e Peter Halley. Timothy<br />
Greenfield-Sanders è nato a Miami,<br />
nel 1952. A 18 anni studia alla Columbia.<br />
Poi, la passione per la fotografia. Ora è lui<br />
stesso una star. Come sempre, è vestito di<br />
nero, impeccabile nella sua semplicità che<br />
corrisponde a una naturale cortesia e delicatezza.<br />
Se c’è un tratto che definisce il modo di<br />
ritrarre di Greenfield-Sanders è proprio la<br />
delicatezza, anzi, il rispetto dello sguardo. Il<br />
suo modo di fotografare è molto lontano da quello di<br />
chi ha fatto, ad esempio, la foto per la copertina di un<br />
vecchio numero del «Time», abbandonato su un tavolo<br />
dello studio. Sulla cover, il volto di Mitt Romney fotografato<br />
dal tedesco Martin Schoeller: un esasperato close<br />
up: il viso appare quasi deformato, si vedono i pori<br />
della pelle. Lo stile di Schoeller colpisce, è a tratti impie-<br />
Qui accanto: il ritratto di Orson Welles<br />
realizzato da Timothy<br />
Greenfield-Sanders nel 1979. Al centro,<br />
dall’alto in basso: Michelle Obama,<br />
Isabella Rossellini e il presidente Bush<br />
in una foto per «Vanity Fair».<br />
In alto a destra: uno dei celebri scatti<br />
dedicati ai soldati della guerra in Iraq<br />
in cui ha messo insieme l’orgoglio<br />
americano e la violenza del conflitto.<br />
Sotto: il fotografo con Lou Reed, uno<br />
dei tanti artisti con cui è in amicizia<br />
toso, volutamente asettico, quasi a sconfinare in uno<br />
scandaglio dermatologico. «Non amo questo modo di<br />
raccontare le persone, trovo inutile la necessità di spettacolarizzare<br />
ed esasperare l’estetica del ritratto. Non<br />
c’è rispetto per chi si fotografa. È quasi intenzionale<br />
mettere le persone a disagio. La mia scelta è sempre<br />
quella di cogliere il positivo di una persona».<br />
Probabilmente anche per questa sua visione etica, Timothy<br />
è entrato nel gotha dei ritrattisti di fama internazionale:<br />
amico di Clinton, ha fotografato più volte Obama<br />
ed è sua l’immagine di copertina di un recente libro<br />
dedicato a Michelle. «Se vogliamo parlare di immagi-
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
ne, Obama ha avuto un ruolo importante per quanto<br />
riguarda il tema del razzismo. Lo stesso vale anche per<br />
un personaggio come Oprah. Negli Stati Uniti ci sono<br />
molte persone di colore, eppure questo è un Paese ancora<br />
molto razzista. La gente ha paura degli stranieri. E<br />
poi, con Obama c’è stato un cambiamento concreto. La<br />
gente dimentica che l’economia era terribile nel 2008.<br />
C’era una depressione simile a quella del 1929. Obama<br />
ha fatto un lavoro importante. Ho sempre creduto che i<br />
politici siano come le stelle del cinema, ma non sono<br />
così belli. Sono famosi, hanno il potere e soprattutto<br />
hanno una grande opinione di sé stessi. I politici sono<br />
le sole celebrità che la gente comune vuole incontrare.<br />
Fotografare i politici è come fotografare gli attori o le<br />
star. I politici conoscono perfettamente il lato migliore<br />
del loro volto, capiscono che essere fotografati consolida<br />
fama e potere. Proprio come gli attori. Ricordo le<br />
riprese con Michelle Obama. E venuta giù nel mio studio<br />
nell’East Village. Ci siamo seduti in cucina, abbiamo<br />
preso un tè e discusso il fatto che anche mia moglie<br />
è un avvocato. Poi abbiamo continuato i nostri discorsi<br />
in sala trucco per un’altra ora, abbiamo discusso delle<br />
sue bambine e di cosa significava essere la moglie di un<br />
senatore. Questo succedeva nel 2006. Suo marito, Barack<br />
Obama, era ancora uno sconosciuto senatore dell’Illinois.<br />
Michelle Obama allora non aveva fatto molti<br />
servizi fotografici, sul set era naturale, elegante e con<br />
molto stile. Lei è molto alta e magra... e, soprattutto, la<br />
macchina fotografica la ama».<br />
Timothy sorride e continua: «Pochi anni dopo, quando<br />
era la First Lady, l’ho vista alla festa per il centenario<br />
del "Time". Ha subito detto: "Timothy, mi ricordo il nostro<br />
meraviglioso incontro fotografico nell’East Village.<br />
A cosa stai lavorando ora?". I migliori politici hanno<br />
grande memoria».<br />
Nel 2004 Greenfield-Sanders fotografa alla Casa Bianca<br />
George Bush: «È stato un incontro interessante. Era<br />
in corsa per la rielezione. Mi piaceva la sua politica e<br />
volevo ottenere una foto che avesse un significato, che<br />
lo raccontasse. La rivista voleva un’immagine divertente.<br />
Ma Bush non è mai uscito dal personaggio. Un sorriso<br />
perfetto per tutto il tempo. Un vero professionista».<br />
Già, sul valore della rappresentazione e dell’uso dell’immagine<br />
Timothy la sa lunga. Fotografo istituzionale<br />
di «Vanity Fair», vive una poliedrica dimensione creativa:<br />
oltre a essere tra le voci piu riconosciute della fotografia<br />
americana è anche un regista con all’attivo cinque<br />
film, uno di questi premiato con il Grammy. E alla<br />
domanda se si sente più fotografo o regista risponde<br />
sorridendo, elencando percentuali precise: «Mi sento<br />
per il 40% regista e per 60% fotografo. Prima ero 0% regista<br />
e quindi andiamo per quella strada… Sto migliorando<br />
con la percentuale!».<br />
Timothy è autoironico, sorride, si muove nella casa<br />
con passi leggeri, parla quasi sottovoce, improvvisamente<br />
dice: «Andiamo giù nello studio?». Scesi alcuni<br />
scalini, si entra in uno spazio fuori dal tempo. Un’enorme<br />
macchina fotografica di legno, con lastre 20x25, accoglie<br />
il visitatore. Sembra di essere in uno studio di un<br />
fotografo degli anni Trenta. La luce viene da un ampio<br />
RRR<br />
Feste d’artista<br />
«Non è mai stato facile fare l’artista<br />
a New York: la sfida resta sempre<br />
il denaro. Devi incontrare persone,<br />
avere curiosità. E fare una cosa<br />
soprattutto: andare alle feste»<br />
La Canestra dell’Ambrosiana<br />
Le vere misure del Caravaggio<br />
di GIOVANNA POLETTI<br />
Strano ma vero. Le misure esatte di una<br />
delle opere più note di Caravaggio sono<br />
confermate solo ora in un piccolo intenso<br />
saggio che Alessandro Morandotti dedica alla<br />
Canestra dell’Ambrosiana, la natura morta che<br />
tutti i musei del mondo ci invidiano (Caravaggio e<br />
Milano, Scalpendi, pp. 80, €15). Una bibliografia<br />
secolare e centinaia di citazioni non erano mai<br />
arrivate a mettere in chiaro un elemento<br />
fondamentale che oggi ci porta ben oltre lo<br />
sconcerto per la reiterazione di un banale errore<br />
o il plauso per la restituzione dell’identità fisica<br />
di un capolavoro. Il fatto che questa tela, dipinta<br />
probabilmente a Roma alla fine del Cinquecento,<br />
non misuri cm 31x47, bensì cm 47x62, impone<br />
infatti una rilettura dell’opera stessa. Si tratta di<br />
pochi centimetri che aiutano a ribadire<br />
l’innovazione artistica del Merisi. La Canestra,<br />
che già nel 1607 si trovava nella raccolta di<br />
Federico Borromeo, si distacca infatti dagli altri<br />
eccellenti esempi di fiori e frutta da lui<br />
» Una «Blacklist»<br />
contro il razzismo<br />
L’ultima ricerca di Timothy<br />
Greenfield-Sanders<br />
(Miami, 1952) è dedicata<br />
a combattere il razzismo.<br />
Attualmente, la National<br />
Portrait Gallery<br />
di Washington espone il suo<br />
nuovo lavoro, dal titolo<br />
provocatorio, «Blacklist».<br />
Una «lista nera» nella quale<br />
ritrae i protagonisti<br />
di colore più influenti<br />
della società americana<br />
attraverso cinquanta<br />
immagini e videointerviste<br />
collezionati, proprio per le dimensioni. Se<br />
Ambrogio Figino, Fede Galizia o Brueghel dei<br />
Velluti dipingevano tavolette o smaltati rami con<br />
nature morte da Wunderkammer, sospese tra<br />
eden e testi di botanica, Caravaggio stupiva<br />
l’occhio con una fiscella quasi tridimensionale.<br />
Utilizzando un’emozionante scala di proporzione<br />
1:1, unita a un sapiente gioco di luci e ombre,<br />
era riuscito a riprodurre sulla tela della frutta più<br />
vera del vero. E così, grazie al pungente realismo<br />
di qualche fico maturo, di due grappoli di uva<br />
sporca, una mela bacata, una turgida cotogna,<br />
una foglia malata e una goccia di rugiada, il<br />
miracolo era fatto. Non è dunque un caso se<br />
Maria Cristina Terzaghi, che ha ritrovato un<br />
inventario del 1661, ci fa scoprire che un tempo<br />
la Canestra non era esposta ad altezza occhio<br />
ma più in basso, appoggiata a un tavolo. Anche<br />
senza misure esatte, non sfuggiva che un<br />
corretto cannocchiale prospettico accentuava il<br />
sorprendente effetto trompe-l’oeil cercato dal<br />
maestro.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA 25<br />
lucernaio. Ma Greenfield-Sanders solitamente chiude<br />
la luce, preferisce una sola lampada, laterale, sempre la<br />
stessa, sempre a destra.<br />
In fondo, l’uso della tradizionale pellicola, della qualità<br />
del grande formato e la ripetizione di un modello<br />
stilistico, afferma un modo di vedere, impone una meditazione<br />
che è anche una chiave per raccontare, tutela<br />
di un linguaggio. Il modo di vedere di Timothy Greenfield-Sanders<br />
è simbolicamente racchiuso in questo<br />
spazio, insieme antico e super contemporaneo. Da una<br />
parte il banco ottico di legno con grandi lastre, dall’altra,<br />
davanti all’obiettivo, la superstar di Hollywood. Tecnologie<br />
che alcuni ritengono passate in contrasto con i<br />
personaggi più alla moda. Forse per questo, qui ci si<br />
sente rassicurati. Attorno, libri, scatole di negativi, un<br />
archivio infinito che è memoria di un Paese.<br />
«Un segreto? Non saprei; certo,<br />
quando qualcuno arriva alla porta,<br />
e dice "ciao, come stai?" mi basta<br />
per farmi un’idea di chi sia quella<br />
persona. Quando poi quella persona<br />
è davanti alla macchina fotografica…<br />
tutto si svela naturalmente.<br />
Capisco le insicurezze, oppure la<br />
tranquillità. Un buon fotografo deve<br />
subito creare un rapporto empatico,<br />
entrare in sintonia emotiva.<br />
Capire, soprattutto chi hai di fronte.<br />
Per esempio, molti anni fa ho fotografato<br />
Orson Welles. Ero molto<br />
giovane e molto entusiasta. Quando il regista arrivò al<br />
set fotografico, io gli chiesi quale tra i suoi film fosse il<br />
suo preferito. Non rimase contento della mia domanda<br />
e si indispettì. Fu proprio stupido da parte mia. Avrei<br />
dovuto capire quali erano le sue necessità al momento,<br />
se voleva una tazza di tè o se si voleva accomodare. Un<br />
buon fotografo deve essere attento e allineato al suo interlocutore.<br />
Deve essere presente. Quell’esperienza è<br />
stata un’ottima lezione!».<br />
Il mondo è passato davanti allo sguardo di Timothy<br />
Greenfield-Sanders. Ma quali sono le differenze tra fotografare<br />
uno scrittore, un artista e un’attrice? «Per l’attrice<br />
la cosa più importante è essere giovane, per la modella<br />
è essere bella e per l’artista non si tratta né di immagine<br />
né di corpo. Oggi con Photoshop è facile lavorare<br />
sulle foto. C’è sempre una grande differenza tra la<br />
realtà e il risultato finale. Nessuno appare nelle foto com’è<br />
nella realtà. Questo crea grande insicurezza. È più<br />
difficile in generale quando fotografo qualcuno che<br />
non è più tanto giovane. L’immagine nella mente di<br />
ognuno è di quando si è giovani, ma la realtà è diversa».<br />
Timothy è lui stesso una star. Conosce bene i meccanismi<br />
del sistema mediatico e l’impatto sulle coscienze<br />
del potere dell’immagine: «Aveva ragione Warhol: tutti<br />
cercano la fama per almeno 15 minuti. In questo è devastante<br />
l’impatto degli show televisivi e di alcuni messaggi<br />
della moda». Ma per chi ha vissuto la grande stagione<br />
dell’arte degli anni 70, come è cambiata New York e<br />
come sono cambiati gli artisti? Timothy scuote la testa:<br />
«Non è semplice vivere a New York ed è molto più difficile<br />
oggi che nel passato. E ancora di più per un artista.<br />
La sfida resta sempre il denaro. Solo 20 artisti dei miei<br />
tempi ce l’hanno fatta. Ci vuole una grande motivazione.<br />
Forse, il segreto è questo: una grandissima motivazione.<br />
E poi avere curiosità, bisogna incontrare persone,<br />
devi creare le tue opportunità. Se sei un artista devi<br />
vedere le cose».<br />
Poi, Timothy Greenfield-Sanders si guarda intorno e<br />
ridendo dice: «Sì, se vuoi avere successo a New York<br />
devi fare soprattutto una cosa: andare alle feste!».<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
26 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Percorsi (<br />
Storie, date, biografie, reportage, inchieste<br />
Graphic novel<br />
di Michele Petrucci<br />
L’autore<br />
Michele Petrucci è nato nel 1973 nelle Marche.<br />
Come autore unico ha pubblicato «Keires»,<br />
«Sali d’argento» (Innocent Victim), tradotti<br />
anche in Francia e Usa, «Numeri» (Magic<br />
Press), «Metauro», «Il brigante Grossi...»<br />
(Tunué) e «A caccia di rane» (Topipittori). Ha<br />
anche disegnato «Il vangelo del coyote»<br />
(Guanda) e la trilogia «FactorY» (Fernandel).<br />
L’ultimo<br />
gladiatore
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
RRR<br />
I combattimenti dei gladiatori vennero proibiti da Onorio<br />
all’inizio del quinto secolo ma furono ancora praticati in<br />
semi-clandestinità. Pardus, in cerca di ingaggi, vaga<br />
assieme al suo cane molosso in un clima di decadenza: i<br />
barbari sono alle porte dell’Impero, Roma è al tramonto<br />
27
28 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Percorsi La biografia/1<br />
Non si era più visto un uomo bianco da quasi<br />
quattro secoli, a Timbuctù, quel 13 agosto del<br />
1826, quando arrivò, alla testa di una piccola<br />
carovana di cinque cammelli, lo scozzese<br />
Alexander Gordon Laing. Giovane, biondo,<br />
esausto, ferito in un attacco dei Tuareg lungo la strada, ma<br />
felice: aveva vinto la corsa del secolo. Dalla metà del ’400,<br />
cioè dai tempi del cronista viaggiatore fiorentino Benedetto<br />
Dei, Laing era il primo europeo a raggiungere «la capitale<br />
dell’oro» africana, la città perduta di cui tutti parlavano,<br />
in Occidente, e che nessuno aveva visto, così da far dubitare<br />
a molti perfino della sua esistenza. In tredici logoranti<br />
mesi, l’irriducibile esploratore aveva attraversato il Sahara<br />
da nord a sud, aprendo una rotta inedita; aveva preceduto<br />
i francesi, ma anche agguerriti connazionali, come Hugh<br />
Clapperton, lo scopritore del lago Ciad, scatenati dal governo<br />
di Londra per avere più «cavalli» sui quali puntare nell’affannata<br />
competizione con Parigi. Più possibilità che<br />
qualcuno fra loro sopravvivesse alla febbre, alla dissenteria,<br />
agli agguati dei guerrieri indigeni, ai tradimenti degli<br />
infidi uomini di scorta.<br />
Davanti agli occhi del bell’ufficiale britannico si schiudevano<br />
finalmente i segreti meglio conservati del continente<br />
nero: probabilmente Timbuctù non si rive-<br />
lò proprio quello scrigno di incalcolabili<br />
ricchezze decantato dalle leggende nei secoli<br />
precedenti, ma non deluse l’ambizioso<br />
Laing che la trovò «rispondente alle sue attese,<br />
in tutto fuorché nelle dimensioni».<br />
Era arrivato, e lo sapeva, al cuore della più<br />
fornita, enciclopedica «biblioteca di sab-<br />
{<br />
Madchester, capitale del rock<br />
Laing la scoprì nel 1826. Non tornò mai indietro<br />
Ho visto l’oro di Timbuctù<br />
di ELISABETTA ROSASPINA<br />
RRR<br />
L’esploratore<br />
Attraversò<br />
il Sahara in tredici<br />
mesi: nessun<br />
bianco ci metteva<br />
piede da quattro<br />
secoli. Ora la<br />
guerra ha di nuovo<br />
ferito l’«Atlantide<br />
dell’Africa»<br />
Esploratori<br />
di Matteo Cruccu<br />
Da sinistra: un ritratto di<br />
Alexander Gordon Laing,<br />
scozzese di Edimburgo, nato<br />
il 27 dicembre 1793 e morto<br />
verosimilmente il 26<br />
settembre 1826; un ritratto<br />
di Hugh Clapperton,<br />
scopritore del lago Ciad, nato<br />
il 18 maggio 1788 e morto il<br />
13 aprile 1827; una cartolina<br />
comprata all’asta su eBay<br />
per 4,50 euro con la<br />
raffigurazione della<br />
residenza di Timbuctù di<br />
Laing; un ritratto di Mungo<br />
Park (1771-1806): al suo<br />
nome è dedicata la Mungo<br />
Park Medal, una onorificenza<br />
istituita dalla Royal Scottish<br />
Geographical Society negli<br />
anni Trenta e riservata a chi<br />
apporta significativi<br />
contributi alle conoscenze<br />
geografiche del pianeta<br />
Solchi<br />
Se nei 60 e 70 le capitali del rock britannico<br />
sono state Liverpool e Londra, i due decenni<br />
successivi se li è presi Manchester. Anzi<br />
Madchester, la folle (mad), come venne<br />
chiamata allora. Nel volume «Manchester<br />
bia» al mondo: una miniera non di oro o diamanti, ma di<br />
centinaia di migliaia di manoscritti arabo-islamici, risalenti<br />
fino al XIII secolo. E, già allora, esposti alle razzie e alle<br />
devastazioni che hanno rischiato di disperderli per sempre,<br />
l’ultima volta, poche settimane fa.<br />
Laing guardava avanti, e sperava soprattutto di aver trovato<br />
la porta d’accesso alla scoperta che avrebbe consegnato<br />
il suo nome alla Storia: l’introvabile foce del fiume Niger.<br />
Quel delta misterioso che nemmeno il pioniere Mungo<br />
Park era riuscito a scovare, nonostante l’alto prezzo di<br />
uomini e mezzi immolati nella ricerca attraverso l’Africa<br />
occidentale.<br />
Timbuctù. Mai gloriarsi di aver conquistato Timbuctù.<br />
Affascinante e feroce, come un fiore carnivoro, non avrebbe<br />
permesso facilmente a un forestiero di tornare indietro<br />
a vantarsi d’averla espugnata. Tantomeno a un cristiano.<br />
Tantomeno a un europeo. Ma il bando di concorso aperto<br />
dalla Società geografica di Parigi era categorico: per assicurarsi<br />
il premio di 10 mila franchi e legare indissolubilmente<br />
la propria fama all’atlantide africana occorreva un dettagliato<br />
resoconto del viaggio. Insomma, occorreva uscirne<br />
vivi, per poter descrivere agli accademici compatrioti il<br />
porto fluviale da cui sgorgavano i tesori esportati dai Berberi<br />
e che aveva incantato il geografo arabo<br />
Leone l’Africano, nel XVI secolo.<br />
Analoga condizione aveva posto Hanmer<br />
Warrington, console britannico a Tripoli,<br />
Libia, nel luglio del 1825, quando il<br />
giovane maggiore scozzese era diventato,<br />
sulla carta, suo genero. Era stato lo stesso,<br />
potente diplomatico a celebrare le nozze<br />
1977-1996» del giornalista John Robb, in<br />
uscita il 14 febbraio per Odoya, sfilano<br />
protagonisti, luoghi e suoni (dai Joy Division<br />
agli Oasis, dalla house al leggendario club<br />
Hacienda) che hanno segnato un’epoca.<br />
Il maggiore scozzese<br />
verso la perla del deserto<br />
della figlia Emma, che Alexander aveva conosciuto durante<br />
i sei mesi di preparativi della sua spedizione all’altro capo<br />
del deserto. Fu vero amore, immediato e travolgente.<br />
Ma era destinato a rimanere platonico — stabilì il console,<br />
inesorabile — fino al rientro del maggiore Laing dalla sua<br />
missione, che iniziò appena 48 ore dopo le nozze e sarebbe<br />
durata almeno un anno. Scriveva regolarmente al suocero,<br />
riservando sempre qualche riga per Emma, e affidava<br />
le sue missive a ogni possibile messaggero che si accingesse<br />
ad attraversare il Sahara verso Tripoli. Quelle lettere sono<br />
l’unica testimonianza della sua impresa. Perché del suo<br />
diario, dei suoi schizzi, delle notizie raccolte per quello<br />
che sarebbe stato un bestseller al suo ritorno a Londra,<br />
non esiste più traccia.<br />
Il 26 settembre del 1826, a poco più di un mese dal suo<br />
ingresso a Timbuctù, il valoroso scozzese, carico di appunti,<br />
era certamente sulla via del ritorno, in fuga dalla minaccia<br />
che gli alitava sul collo: Sheku Hamadu Lobbo, sanguinario<br />
jihadista del tempo. Lo sceicco, che controllava la<br />
regione dal Volta Nero (ora nel Burkina Faso) fino a<br />
Timbuctù, voleva morto l’impudente «europeo» prima<br />
che riguadagnasse Tripoli. Prima che tornasse tra i suoi<br />
simili a raccontare ciò che aveva visto, invogliando altri<br />
«infedeli» a seguirne le orme e a contaminare le terre musulmane.<br />
«Non ho tempo ora di riferirvi di Timbuctù —<br />
scrisse Laing nella sua ultima epistola, datata 21 settembre<br />
1826, annunciando il suo precipitoso rientro — ma posso<br />
affermare che sotto ogni aspetto, eccetto la misura (che<br />
non eccede le quattro miglia di circonferenza) ha completamente<br />
incontrato le mie aspettative». E alimentava quelle<br />
del suo corrispondente: «Sono stato occupato durante<br />
la mia permanenza a cercare documenti nella città, che sono<br />
abbondanti, e nell’acquisire informazioni di ogni genere».<br />
La sua perseveranza, concludeva, era stata premiata.<br />
Le sue convinzioni sul corso del Niger ne uscivano rafforzate.<br />
Ma si rammaricava di aver trascurato la sua sposa, in<br />
quelle settimane: «La mia adorata Emma deve scusarmi:<br />
ho iniziato centinaia di lettere per lei, ma non sono stato<br />
in grado di finirne una sola. È sempre in cima ai miei pensieri<br />
e non vedo l’ora, con delizia, del nostro incontro che,<br />
a Dio piacendo, non è ormai molto lontano».<br />
Sgozzato, strangolato, accoltellato nel sonno: nessuno<br />
saprà mai come morì Alexander Gordon Laing. Ma fu probabilmente<br />
in una notte di fine settembre che Emma Warrington<br />
divenne vedova prima di essere stata moglie. Ignara,<br />
il 10 novembre successivo, scriveva ancora al marito appassionate<br />
pagine d’amore che lui non avrebbe mai letto.<br />
E quando le giunse l’ultimo manoscritto di Laing, i resti<br />
dello sfortunato maggiore erano già sepolti da un pezzo.<br />
Forse proprio sotto l’albero del villaggio di Sahab, 50 chilometri<br />
a nord di Timbuctù, dove nel 1910, l’esploratore Albert<br />
Bonnel de Mézières, su indicazione di un arabo ottuagenario,<br />
trovò effettivamente due scheletri. Appartenevano<br />
davvero a Gordon Laing e a uno dei suoi servitori? Non<br />
fu mai appurato.<br />
La ricostruzione fatta quasi un secolo dopo contrastava<br />
con le testimonianze coeve e con le informazioni raccolte<br />
sul posto, 19 mesi dopo la scomparsa del maggiore, dal<br />
francese Auguste René Caillé, che riuscì rocambolescamente<br />
ad andare e tornare da Timbuctù, sotto mentite spoglie<br />
musulmane, assicurandosi la ricca ricompensa di Parigi<br />
e la gloria. I britannici mal digerirono la sconfitta e sospettarono<br />
il barone Joseph-Louis Rousseau, potente console<br />
francese a Tripoli, di aver complottato contro Laing, e<br />
di essersi addirittura impossessato delle carte e dei libri<br />
trafugati dagli assassini. Ne seguirono anni di accuse e di<br />
indagini, ma la «perla del deserto» era ormai destinata ai<br />
francesi, il cui esercito sarebbe entrato a Timbuctù, per la<br />
prima volta, nel 1892, pur pagando agli avi degli attuali<br />
Tuareg un enorme tributo di sangue.<br />
Ed Emma Warrington? Convinta dal padre a risposarsi<br />
con il vice console britannico a Bengasi, seguì il nuovo marito<br />
in Italia e morì a Pisa sei mesi più tardi, il 2 ottobre<br />
1829. Assieme alla speranza di ricevere un’altra lettera del<br />
maggiore Laing.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Percorsi La biografia/2<br />
Giulia Cremaschi Trovesi: il corpo è musica<br />
Insegno Beethoven ai sordi<br />
di PAOLA D’AMICO<br />
Francesco ha una diagnosi di autismo, s’è diplomato<br />
a pieni voti in pianoforte. La sua esecuzione<br />
del Concerto italiano di Bach è perfetta. Anche<br />
Nicola è autistico e suona il piano e il sax.<br />
Ha le unghie consumate, perché quando non<br />
suona si tormenta le mani, che non stanno mai ferme,<br />
come un torrente in piena di emozioni inesprimibili.<br />
Giulia Mazza ha 25 anni, una laurea in biologia, è sorda<br />
bilaterale profonda e suona Schubert, Bach e Shostakovich<br />
al violoncello: rivedere cento volte il video di uno dei<br />
suoi concerti in teatro è emozionante e disarmante. L’accompagna<br />
al piano Giulia Cremaschi Trovesi, la musicoterapeuta<br />
che la segue da quando aveva 3 anni. «Come<br />
fa? Questo è il grande mistero. Non mi sono ancora abituata<br />
ai miracoli. Non cerchiamo di entrare nella testa di<br />
un altro», sdrammatizza. «Qui — aggiunge — c’è stata<br />
una mamma fantastica che ha creduto in quello che le<br />
spiegavo e cioè che la musica è dentro l’uomo, il grembo<br />
materno è la prima orchestra, il luogo dove non esiste<br />
un solo attimo di silenzio, dove la musica è pulsazione,<br />
respiro, voce».<br />
Per entrare nel mondo di Giulia Cremaschi Trovesi occorre<br />
fare tabula rasa, abbandonare stereotipi, luoghi<br />
comuni, pregiudizi e tecnicismi. La chiave di lettura che<br />
lei offre sembra semplice: «La musica è dentro di noi.<br />
Siamo corpo vibrante. Senti il tuo corpo, il respiro, la voce,<br />
ascoltati... La soluzione è dentro di te».<br />
La musicoterapeuta che insegna a suonare Beethoven<br />
a sordi e autistici, che fa cantare e danzare i ragazzi<br />
Down, che guarda con scetticismo alle diagnosi frettolose<br />
di «deficit d’attenzione e iperattività», spiazza così i<br />
suoi ospiti — grandi e piccini, per lei sono tutti uguali.<br />
Ripete: «La musica è per tutti, è un linguaggio universale».<br />
Ha 70 anni, due occhi celesti e magnetici, capelli biondo<br />
cenere mai tinti, è energica e paziente. Insegna da<br />
quando di anni ne aveva venti. Vive con i figli e i nipoti<br />
nella grande casa di famiglia in cima a un colle, a Rosciano,<br />
frazione di Ponteranica a ridosso di Bergamo, in Val<br />
Brembana. «Non insegno nulla, hanno già tutto, la musica,<br />
il ritmo. Un bimbo piccolo è già capace, io gli do soltanto<br />
l’occasione per mostrarlo».<br />
Il suo incontro con la musica è avvenuto quando aveva<br />
cinque anni. «Papà capì e mi portò da una suorina<br />
delle Canossiane, Emilia, che usava il linguaggio del corpo.<br />
Un giorno disse che ero veloce a imparare e mi dovevano<br />
cercare un altro insegnante». Gli studi, i diplomi,<br />
l’insegnamento alle scuole magistrali. Fino all’incontro<br />
con il primo bimbo autistico: «Me lo affidarono nel<br />
1975, il figlio di un collega. Dopo qualche tempo ho lascia-<br />
Dischi rotti<br />
di Andrea Laffranchi<br />
{<br />
Con questo streaming sopravvivono solo i big<br />
Con Deezer e Spotify (al debutto a Sanremo)<br />
i servizi di streaming musicale arrivano anche<br />
in Italia. Felici i consumatori, che si ritrovano<br />
20 milioni di canzoni a disposizione. E gli<br />
artisti? Negli Usa il modello di business prevede<br />
L’album<br />
In alto: una sequenza<br />
con Nicola, ragazzo autistico,<br />
che si esibisce durante un<br />
concerto. Sotto: Giulia Mazza,<br />
25 anni, sorda bilaterale<br />
profonda, mentre suona<br />
il violoncello accompagnata<br />
da Giulia Cremaschi Trovesi.<br />
Qui sopra: la professoressa<br />
nel suo studio di Rosciano<br />
(comune di Ponteranica,<br />
provincia di Bergamo).<br />
A sinistra: una foto<br />
con i tre figli e i sette nipoti<br />
e, più in basso, la<br />
musicoterapeuta durante<br />
l’udienza con Giovanni Paolo<br />
II (Servizio fotografico<br />
di Nicola Vaglia)<br />
Guarda il video<br />
di Giulia Mazza su<br />
corriere.it/lettura<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA 29<br />
0,4-0,7 centesimi di royalties ogni volta che<br />
una canzone viene ascoltata, cioè dai 4 ai 7<br />
mila dollari per milione. Con questi numeri<br />
sopravvivono solo i superbig, solo se il mercato<br />
si allarga il sistema può diventare sostenibile.<br />
La vita con i ragazzi<br />
della prof di Bergamo<br />
to la scuola per dedicarmi soltanto a questo nuovo lavoro».<br />
Nel suo ufficio austero c’è ancora il profumo della polenta<br />
che ha cucinato sulla stufa per i nipotini il giorno<br />
prima. Giulia siede alla scrivania come sul ponte di comando<br />
di una nave: tre piccoli televisori sono appesi sopra<br />
il grande desktop del computer, con la foto di famiglia<br />
a fare da sfondo. Sugli schermi scorrono le immagini<br />
dei suoi ragazzi in concerto. «Il mio lavoro è questo: capire<br />
da un dettaglio quante potenzialità ci sono in un bambino».<br />
L’incontro dei più piccoli con la magia dei suoni<br />
avviene in una stanza rivestita in legno, come la cassa armonica<br />
di uno strumento musicale: si muovono, gattonano,<br />
giocano, battono i piedi e lei li segue accompagnando<br />
ogni loro gesto con un suono. Non sono loro a dover<br />
seguire suoni e ritmi imposti. Giulia siede al piano: «Gioco<br />
con la tastiera, la uso con i bambini come fosse la buca<br />
della sabbia». In ogni gesto, movimento, azione, intonazione<br />
della voce, c’è già un ritmo, un tempo, una musica,<br />
spiega, così come i tratti del volto esprimono un’emozione.<br />
«Improvvisare alla tastiera per rispecchiare tutto<br />
questo vuol dire saper leggere (non certo interpretare) e<br />
dare voce alle note scritte nella e sulla persona».<br />
È una strada che non conosciamo, faticosa, quella intrapresa<br />
da Giulia. Quando incontrò in udienza Papa<br />
Wojtyla gli chiese: «Perché tanta fatica?». «Le cose difficili<br />
— rispose Giovanni Paolo II — fanno sempre fatica ad<br />
imporsi». Ha pubblicato libri (l’ultimo, Il grembo materno.<br />
La prima orchestra), tenuto insieme nella Federazione<br />
italiana musicoterapeuti (www.musicoterapia.it) coloro<br />
che lavorano con i suoni per riabilitare patologie molto<br />
gravi (autismo) e i casi di plurihandicap (lesioni cerebrali,<br />
sordocecità, esiti da nascite premature). Eppure, la<br />
fatica di andare controcorrente non ha mai scalfito il suo<br />
ottimismo: «Perché non dovrei essere ottimista?».<br />
Citando la filosofa e religiosa tedesca Edith Stein e i<br />
suoi studi sull’empatia ci invita a immaginare di essere<br />
«partiture viventi». Il corpo parla di noi stessi a nostra<br />
insaputa. Ecco spiegato il «miracolo» della violoncellista<br />
non udente. Noi viviamo con il nostro corpo, «non sentiamo<br />
solo con le orecchie, c’è la risonanza che investe il<br />
corpo ed è fonte di emozioni, ma di solito il corpo viene<br />
soffocato dall’educazione ricevuta a tavolino». Educazione<br />
dei tempi moderni, poco inclini ad aprirsi a una strada<br />
che impone la fatica di tornare alle radici della musica.<br />
«Non ho inventato niente. Il veronese padre Antonio<br />
Provolo, due secoli orsono, faceva già cantare in coro i<br />
RRR<br />
La premessa teorica<br />
La melodia è già dentro l’uomo,<br />
il grembo materno è la prima<br />
orchestra, il luogo dove non esiste<br />
un solo attimo di silenzio, dove il<br />
suono è pulsazione, respiro, voce<br />
sordi nell’istituto che aveva fondato per loro. Vuoi che un<br />
non udente parli? Gli fai scaturire la voce attraverso le<br />
emozioni. I bambini sordi me lo hanno insegnato. Quando<br />
suonavo, si buttavano sulla cassa armonica del pianoforte<br />
per essere investiti, compenetrati dalle onde sonore.<br />
Stavano così abbracciati al pianoforte che diedi loro il<br />
permesso di andarci sopra, si stendevano e non si muovevano<br />
più». Il pianoforte può diventare un poderoso tamburo<br />
che martella i ritmi e all’improvviso un delicato carillon.<br />
Le onde sonore si propagano attraverso l’aria e permeano<br />
il mondo attorno attraverso la risonanza.<br />
«Non sentiamo soltanto con le orecchie». Era già chiaro<br />
agli antichi. Nelle tradizioni sciamaniche dalla Mongolia<br />
al Messico, nelle tradizioni arcane cabalistiche del giudaismo<br />
e del cristianesimo, i suoni vocali e gli armonici<br />
sono stati usati per guarire e trasformare, per bilanciare i<br />
centri energetici del corpo e attivare le risonanze del cervello.<br />
E il padre della geometria aveva già svelato come<br />
un suono ne generi altri superiori (armonici): Pitagora<br />
credeva che l’universo fosse un immenso monocorde,<br />
uno strumento con una sola corda tirata tra il cielo e la<br />
terra, parlò di musica delle sfere, pensava che i movimenti<br />
dei corpi celesti che si spostano producessero un suono.<br />
Alla parete della sala di musica sono appesi dei grandi<br />
quadri: riproducono con parole e disegni la filastrocca<br />
del Girotondo, un canto gregoriano e l’Ut queant laxis<br />
con cui Guido D’Arezzo legò indissolubilmente a ogni<br />
suono della scala musicale una sillaba<br />
(ut-re-mi-fa-sol-la-si). La strada ora è in discesa e Giulia<br />
ci congeda: «Sordità e autismo sono due aspetti di un<br />
unico problema, mancando in entrambi i casi la tensione<br />
e la predisposizione del corpo che vibra all’ascolto, il sordo<br />
"si chiude alla vita" e l’autistico "diviene sordo alla comunicazione".<br />
Il musicoterapeuta coglie nelle persone la<br />
tensione emotiva che permette o non permette al corpo<br />
di vibrare».<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA
30 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
Percorsi Controcopertina<br />
La storia<br />
Una legge dello Stato<br />
ha stabilito che il 31 marzo<br />
dovrebbero chiudere i sei<br />
Opg ancora presenti in Italia<br />
Ma è probabile che non<br />
succederà. La storia di Luigi:<br />
entrato a vent’anni perché<br />
prendeva a schiaffi gli amici<br />
che lo sfottevano<br />
e dopo venti era ancora lì<br />
di FULVIO BUFI<br />
Sai quando entri, non sai se (e quando) esci:<br />
l’inferno degli Ospedali psichiatrici giudiziari<br />
Il mondo oltre le sbarre di un ospedale psichiatrico<br />
giudiziario è un mondo che ha perso<br />
il tempo. Anche lo spazio, certo, ma quello<br />
non esiste in alcun luogo di detenzione.<br />
Il tempo invece sì. In ogni cella di ogni carcere<br />
ci sono uomini o donne cui non resta<br />
molto altro che contare il tempo che li separa<br />
da quando passeranno dall’altra parte del cancello.<br />
Negli Opg non è mai stato così. Si entra per un<br />
minimo di sei mesi, un anno, due o cinque o dieci,<br />
ma il fine pena non è scritto. E certe volte non viene<br />
scritto mai.<br />
In Italia ce ne sono sei (Barcellona Pozzo di Gotto,<br />
Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio<br />
Emilia e Castiglione delle Stiviere) e stanno per<br />
chiudere. O così dovrebbe essere. La legge è stata<br />
fatta, la data fissata. Entro il 31 marzo 2013 nessuna<br />
delle strutture dovrà più essere in funzione, e gli<br />
internati dovranno essere trasferiti in parte in speciali<br />
sezioni carcerarie e in parte in case di cura e<br />
custodia da venti posti al massimo e controllate dalle<br />
Asl.<br />
Il rischio di una proroga però incombe perché,<br />
come spesso succede, quello che sta scritto non corrisponde<br />
a quello che avviene nella realtà. E, infatti,<br />
le case di cura e custodia non sono ancora pronte, e<br />
nemmeno si è ancora capito bene come e da chi<br />
sarà gestita la custodia, perché la legge non annulla<br />
il concetto di carcere, ma si limita a presumere di<br />
umanizzarlo attraverso l’istituzione di strutture dai<br />
Vita in bianco e nero<br />
A destra e in alto tre immagini scattate nell’Opg di<br />
Barcellona Pozzo di Gotto: il rito della barba tra<br />
reclusi, un lavandino in cella per lavarsi e<br />
l’ostentazione di un tatuaggio che rappresenta la<br />
bilancia della giustizia pendente da un lato. In basso<br />
due momenti di scolarità: sopra la lezione di italiano,<br />
sotto quella di matematica all’Opg di Aversa (Servizio<br />
fotografico di Franco Guardascione/Controluce)<br />
Malati d’ergastolo<br />
numeri molto più contenuti di quelli attuali.<br />
Furono il presidente della commissione d’inchiesta<br />
del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Servizio<br />
sanitario nazionale, Ignazio Marino, e due componenti<br />
dello stesso organismo, Daniele Bosone e<br />
Michele Saccomanno, a firmare il testo poi approvato<br />
in Parlamento. Cominciarono a girare per gli<br />
Opg dopo le ispezioni e i successivi allarmi della<br />
Commissione europea per la prevenzione della tortura,<br />
e scoprirono lo scempio che i giornali già raccontavano<br />
da tempo. Ne venne fuori un video agghiacciante,<br />
il sequestro parziale di quasi tutte le<br />
strutture e una legge appunto che, al di là delle buone<br />
intenzioni, risolve la questione degli Opg soprattutto<br />
dal punto di vista edilizio. Che certo rappresenta<br />
almeno il cinquanta per cento del fallimento<br />
di questa esperienza cominciata in Italia formalmente<br />
a metà degli anni Settanta, ma in realtà molto<br />
prima. Perché la legge che apriva i manicomi criminali<br />
è del febbraio 1904, poi sono cambiati i nomi:<br />
prima manicomio giudiziario e poi — con italica<br />
ipocrisia e nel pieno della battaglia di Franco Basaglia<br />
che avrebbe portato all’istituzione della legge<br />
180 e alla chiusura dei manicomi — ospedale psichiatrico<br />
giudiziario. Ma la sostanza fino a oggi<br />
non è mai cambiata: gli Opg sono posti dove vengono<br />
rinchiuse persone ritenute socialmente pericolose.<br />
I manicomi criminali avevano le celle, le sbarre,<br />
i letti di contenzione, le cinghie e tutto quell’orrore<br />
lì, e gli Opg hanno le celle, le sbarre, i letti di con-<br />
tenzione col buco al centro del materasso, perché<br />
ci si finisce legati e nudi, e quel buco serve per farla<br />
in un secchio messo sotto, e poi si resta così, immobilizzati<br />
e sporchi, umiliati anche dalla propria puzza.<br />
Qualche direttore li ha fatti eliminare, i letti di<br />
contenzione (a Napoli non li usano più), altri invece<br />
no. Qualche direttore ha scelto anche la custodia<br />
attenuata, che consiste nel tenere le celle aperte<br />
per gran parte della giornata, in modo che i reclusi<br />
possano camminare per i corridoi quando è finito<br />
il tempo dell’aria all’aperto e possano incontrarsi e<br />
stare insieme. Tentativi di umanizzare ciò che umanizzabile<br />
non è. Perché l’obbrobrio degli Opg è giuridico<br />
e si chiama ergastolo bianco. Per qualunque<br />
reato si entri lì dentro — che sia una strage o<br />
un’ubriachezza molesta — se ne esce soltanto quando<br />
una perizia psichiatrica stabilirà che non si è più<br />
socialmente pericolosi, e sempre che ci sia una<br />
struttura sanitaria pubblica cui far capo per continuare<br />
il percorso terapeutico. Altrimenti si resta<br />
dentro. Il magistrato di sorveglianza stabilisce una<br />
proroga che solitamente è di due anni e se ne<br />
riparlerà alla scadenza. Quando, con due anni in<br />
più passati in Opg, ci saranno ottime probabilità di<br />
aver accumulato frustrazioni e aggressività tali da<br />
essere ritenuti ancora socialmente pericolosi. E si<br />
può andare avanti così all’infinito.<br />
Ad Aversa c’era un recluso che era entrato a<br />
vent’anni e dopo altri venti stava ancora là. Si chia
DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013<br />
mava Luigi, un marcantonio che non faceva altro<br />
che chiedere sigarette e fumarne una dopo l’altra.<br />
Non aveva mica ammazzato nessuno, Luigi. Solo<br />
che quand’era ragazzino al suo paese gli amici lo<br />
sfottevano perché tutte le ragazze gli dicevano di<br />
no. E lui, che era già bello grosso e aveva le mani<br />
pesanti, reagiva a schiaffoni. Alla fine se lo tolsero<br />
di torno con una denuncia, e lui ormai non si ricordava<br />
più nemmeno qual era il suo paese e perché<br />
stesse all’Opg.<br />
La storia di Vito De Rosa è diventata invece un<br />
libro, Vito il recluso (Sensibili alle foglie, 2005)<br />
scritta da Francesco Maranta, ex consigliere regionale<br />
della Campania, di Rifondazione, in collaborazione<br />
con Dario Stefano Dell’Aquila, dell’associazione<br />
Antigone, uno degli operatori sociali più impegnati<br />
nel denunciare la barbarie degli Opg, su cui<br />
ha scritto una documentatissima inchiesta (Se non<br />
ti importa il colore degli occhi, edizioni Filema,<br />
2009). Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva<br />
ucciso il padre a colpi di scure. Condannato all’ergastolo,<br />
un anno dopo è sottoposto a perizia psichiatrica<br />
e trasferito in Opg, o come si chiamava all’epoca.<br />
C’è rimasto per cinquant’anni, completamente<br />
dimenticato. E mai ne sarebbe uscito vivo se nel<br />
2003 il presidente della Repubblica non gli avesse<br />
concesso la grazia. Arrestato a 24 anni, Vito De Rosa<br />
ha riottenuto la libertà a 76: nessuno in Italia ha<br />
passato tanto tempo privato della libertà.<br />
Ma pure i tre anni di reclusione di Antonio Provenzano<br />
sono emblematici. Lui non era uno abbandonato<br />
da tutto e tutti come tanti reclusi in Opg.<br />
Aveva una famiglia che gli stava accanto e che si<br />
sarebbe fatta carico di seguirlo una volta tornato a<br />
casa. E però nemmeno questo è bastato a fargli riottenere<br />
la libertà allo scadere dei sei mesi fissati dal<br />
giudice. Antonio fu denunciato perché girava arma-<br />
RRR<br />
Va pensiero<br />
di Armando Torno<br />
Le chiose di Bonaventura da Bagnoregio<br />
{Di Bonaventura da Bagnoregio (XIII secolo),<br />
santo e filosofo, è in corso da Città Nuova di<br />
Roma la pubblicazione delle opere complete<br />
con testo latino e traduzione italiana. È<br />
appena uscito il quarto volume, con cui si<br />
Pericolosità sociale<br />
Un paradosso<br />
per i giudici:<br />
murare vivi<br />
gli «innocenti»<br />
di LUIGI FERRARELLA<br />
una decisione che, più<br />
di dover infliggere l’ergastolo a un<br />
C’èsoltanto<br />
colpevole, schiaccia di<br />
responsabilità un giudice: ed è dover<br />
mandare un processato all’Ospedale<br />
psichiatrico giudiziario (Opg). Perché «è<br />
una misura di sicurezza che esce dai binari<br />
coscienza-responsabilità-sanzione»,<br />
ragiona il procuratore aggiunto di Messina,<br />
Sebastiano Ardita, fino all’anno scorso<br />
direttore generale dei detenuti al Dap<br />
(Dipartimento dell’amministrazione<br />
penitenziaria) con competenza proprio su<br />
questo settore; e perché potenzialmente<br />
può non aver mai fine, sebbene per<br />
definizione il destinatario non sia<br />
imputabile per ciò che ha commesso. In<br />
Opg, infatti, finisce la persona che il giudice<br />
ritenga abbia commesso un delitto doloso<br />
con pena superiore nel massimo a due<br />
anni, ma che una perizia psichiatrica<br />
dichiari «totalmente incapace di intendere<br />
e di volere» (cioè patologicamente non in<br />
grado di percepire il senso delle proprie<br />
azioni e di controllare i propri impulsi) e<br />
che contemporaneamente sia valutato<br />
«socialmente pericoloso», concetto non<br />
medico-legale ma giuridico, che attiene<br />
alla probabilità che il soggetto commetta<br />
nuovi reati. Quando si trova di fronte a<br />
queste condizioni, il giudice è costretto da<br />
un lato ad assolvere, tecnicamente per<br />
difetto di imputabilità, e dall’altro lato a<br />
disporre per due anni la misura di<br />
sicurezza dell’Ospedale psichiatrico<br />
giudiziario o anche (solo dal 2004 dopo<br />
una sentenza della Consulta) della meno<br />
pesante «libertà vigilata» accompagnata<br />
dalla prescrizione di un rapporto<br />
continuativo con il servizio psichiatrico<br />
territoriale. La misura è soggetta a essere<br />
periodicamente rivista ma, finché lo<br />
psichiatra ravvisa che permanga la<br />
«pericolosità sociale», di rinnovo in<br />
rinnovo il termine può non avere mai fine.<br />
È l’ibrido alla base di quello che per Ardita<br />
è «un ricorrente equivoco: l’Ospedale<br />
psichiatrico giudiziario è "ospedale" nel<br />
senso di "ospizio", cioè non di struttura<br />
sanitaria ma di luogo di accoglienza, dove,<br />
nel contenere una pericolosità sociale, con<br />
la riforma penitenziaria si è rafforzato il<br />
trattamento psichiatrico. Un posto dove si<br />
è ristretti per il fatto di essere pericolosi,<br />
non per il fatto che si è malati bisognosi di<br />
cure». Un posto, si spinge a provocare<br />
Ardita, «che a volte non può avere<br />
alternative. In base alla mia esperienza, mi<br />
sento di dire che ci sono casi nei quali, per<br />
un malato di mente socialmente<br />
pericoloso, la vita in famiglia non è di<br />
miglior qualità rispetto a quella possibile in<br />
alcuni reparti di Opg nei quali è poco nota<br />
l’abnegazione del personale».<br />
E si intuisce che Ardita, «nel bilanciamento<br />
tra il valore della dignità umana del<br />
soggetto ristretto e il valore della vita altrui<br />
che egli può mettere in pericolo», sia ora<br />
pessimista nei confronti di «una riforma<br />
che non disegna il contenuto delle nuove<br />
strutture» destinate a superare gli Opg, e<br />
«non indica quale debba essere lo<br />
standard (anche in termini di risorse<br />
economiche) dei servizi di assistenza».<br />
lferrarella@corriere.it<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva ucciso<br />
il padre: condannato all’ergastolo, un anno dopo è<br />
stato sottoposto a perizia psichiatrica e trasferito in un<br />
Opg. C’è rimasto per cinquant’anni. È uscito nel 2003<br />
soltanto dopo la grazia del presidente della Repubblica<br />
chiude il «Commento al Vangelo di San<br />
Luca» (a cura di Barbara Faes de Mottoni,<br />
pp. 224, e 50). Migliaia di chiose dettagliate,<br />
capillari, fascinose; ricche di rimandi biblici,<br />
di riflessioni teologiche ancora attuali.<br />
to di bastone (era stato aggredito e seviziato e da<br />
allora se lo portava appresso per difendersi nel caso<br />
gli fosse capitato ancora), però anziché essere<br />
lasciato libero, come chiunque venga denunciato<br />
per una cosa così, venne rinchiuso a Montelupo Fiorentino<br />
(e successivamente ad Aversa) perché in<br />
passato gli era stata diagnosticata una lieve forma<br />
di psicosi schizofrenica di tipo paranoide. Sono sei<br />
mesi duri, che però passano. Ma poi nelle pratiche<br />
burocratiche che dovrebbero rimandarlo a casa,<br />
qualcosa non funziona. Ci vuole una Asl che stili<br />
per lui un progetto terapeutico e quella di Ostia, dove<br />
Antonio abita insieme alla sorella Elisabetta, la<br />
tira per le lunghe. Tra un intoppo e l’altro passano<br />
altri due anni e mezzo ed Elisabetta deve accamparsi<br />
con una tenda sul tetto del palazzo della Asl per<br />
ottenere che la situazione si sblocchi.<br />
Ma quanti reclusi, invece, nemmeno le famiglie<br />
hanno avuto accanto. Gli ospedali psichiatrici<br />
giudiziari sono il mondo di disperati che hanno<br />
storie disperate e famiglie disperate. Oppure<br />
impaurite. Come quella di uno finito dentro per<br />
aver dato ventiquattro coltellate alla madre, senza<br />
peraltro ucciderla. Quando lo psichiatra ha stabilito<br />
che poteva uscire e il giudice ha firmato l’ordine<br />
di scarcerazione, l’avvocato è corso dal direttore<br />
a pregarlo di tenerselo ancora perché a casa erano<br />
terrorizzati dal suo ritorno.<br />
Gli Opg sono pieni di storie come quella di Luigi,<br />
di Vito o di Antonio. O come quelle degli internati<br />
provvisori, gente che vive reclusa in una dimensione<br />
giuridica al di là di ogni immaginazione.<br />
Sono quelli che in Opg fanno una sorta di custodia<br />
cautelare, senza però scadenza dei termini.<br />
Li chiamano gli improcessabili, perché una perizia<br />
psichiatrica ha stabilito che non sono in grado<br />
di comprendere nemmeno la dinamica processuale,<br />
e quello è invece un diritto che spetta a<br />
qualsiasi imputato. Così il dibattimento non viene<br />
fissato finché la diagnosi non cambia, e non<br />
c’è limite di tempo. All’Opg di Napoli — che dall’antico<br />
convento di Sant’Eframo è stato trasferito<br />
qualche anno fa nella mai aperta sezione femminile<br />
del carcere di Secondigliano — ce ne sono<br />
due. Uno da dieci anni e un altro da quattro. E la<br />
loro storia di reclusi psichiatrici — fatta di diagnosi,<br />
di terapie e di un programma di recupero —<br />
non è nemmeno cominciata.<br />
Ecco che cosa sono gli Opg e che cosa continueranno<br />
a essere fino a quando esisterà il concetto<br />
di pericolosità sociale e la relativa applicazione di<br />
misure di sicurezza. Le storie dei grandi boss che<br />
truccavano le carte per essere trasferiti dal carcere<br />
all’ospedale psichiatrico giudiziario per stare<br />
meglio e poter uscire prima sono vere ma non indicano<br />
niente. Nel suo libro Materiali dispersi<br />
(Tullio Pironti, 2010) l’ex direttore di Aversa, lo<br />
psichiatra Adolfo Ferraro, racconta, tra vari episodi,<br />
quello relativo alla reclusione di Raffaele Cutolo,<br />
e altri nomi famosi della storia criminale italiana<br />
sono passati per gli Opg, come per esempio<br />
Marcello Colafigli, della banda della Magliana,<br />
quello che nella fiction televisiva di Romanzo criminale<br />
corrispondeva al personaggio di Bufalo.<br />
Poi ci sono le tragedie emerse, quelle che la cronaca<br />
ha molto raccontato. La tragedia di Antonia<br />
Bernardini, morta bruciata nel 1975 mentre è legata<br />
a un letto di contenzione nell’allora manicomio<br />
giudiziario di Pozzuoli. I suicidi ravvicinati,<br />
nel 1978, del direttore di Aversa, Domenico Ragozzino,<br />
e di quello di Napoli, Giacomo Rosapepe, entrambi<br />
coinvolti in inchieste sulla gestione dei<br />
manicomi. E ancora la morte di Giovanni Taras<br />
(1975) militante dei Nuclei armati proletari dilaniato<br />
dall’ordigno che stava mettendo sul tetto<br />
del manicomio di Aversa per attirare l’attenzione<br />
sulle condizioni inumane dei reclusi. E poi i suicidi<br />
degli internati: 44 in dieci anni, i più recenti a<br />
Barcellona Pozzo di Gotto, l’Opg che insieme ad<br />
Aversa sconvolse maggiormente prima la Commissione<br />
europea e poi quella del Senato.<br />
Suicidi che solo letture superficiali o di comodo<br />
possono attribuire al disagio psichico di chi ha<br />
scelto la morte. In realtà atti di disperazione di<br />
uomini che, per quanto psicopatici, hanno ben<br />
chiaro di essere finiti nel luogo destinato agli ultimi<br />
degli ultimi. E, per quanto magari ignoranti di<br />
questioni giudiziarie, hanno chiaro anche che da<br />
lì non sanno, e nessun avvocato o familiare o direttore<br />
o guardia potrà dir loro, se e quando verranno<br />
mai fuori. E se ora gli Opg chiuderanno davvero,<br />
cambieranno le strutture, e sicuramente saranno<br />
più umane, ma a chi gestirà le case di cura<br />
e custodia ogni internato frutterà circa 100 euro al<br />
giorno, e quindi il rischio che la cura e custodia<br />
diventino un business non si può escludere. E allora<br />
non si può escludere nemmeno che l’ergastolo<br />
bianco, magari un po’ più bianco e meno puzzolente,<br />
continui ancora. E che per chi finisce in<br />
Opg continui a valere la logica del «fine pena forse».<br />
Ma forse anche no.<br />
© RIPRODUZIONE RISERVATA<br />
Guarda il video della commissione di inchiesta<br />
del Senato sugli Opg (16 marzo 2011)<br />
su www.corriere.it/lettura<br />
RRR<br />
Una copertina<br />
un artista<br />
La memoria di <strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />
«Si gira il mondo e per<br />
ogni persona c’è una<br />
madre»: <strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong><br />
(Cairo, 1957) è figlio di<br />
un padre sudanese e di<br />
una madre nubiana,<br />
dell’Alto Egitto. Dal 1979<br />
è in Italia, dove vive<br />
dedicandosi<br />
completamente all’arte. Questa sintetica<br />
nota biografica può aiutare a comprendere<br />
il senso della nostra copertina, omaggio<br />
dell’artista a sua madre Fatma, ma<br />
simbolicamente dedicata a un mondo di<br />
esistenze in perenne cammino, a tante vite<br />
nomadi in cerca di rifugio, spesso anche<br />
solo di un bene prezioso come la libertà.<br />
<strong>Fathi</strong> <strong>Hassan</strong> è un artista che ha dedicato<br />
tutta la sua ricerca (lavora con la pittura, la<br />
fotografia, la performance, la scrittura) alle<br />
tracce di una lontana memoria personale:<br />
la sabbia del deserto, il colore bianco, le<br />
maschere africane (simboli tipici della sua<br />
pittura) diventano frammenti di una<br />
spiritualità mai dimenticata, di una identità<br />
orgogliosamente difesa. Nello stesso<br />
modo, l’immagine di Fatma diventa<br />
simbolo universale di tutte le madri che<br />
con amore proteggono i propri figli nelle<br />
diaspore che affliggono il mondo. Ed è per<br />
questo che, nell’opera di <strong>Hassan</strong>,<br />
riconosciamo la stessa struggente verità<br />
descritta da Honoré de Balzac: «Il cuore di<br />
una madre è un abisso in fondo al quale si<br />
trova sempre un perdono».<br />
(gianluigi colin)<br />
Supplemento della testata Corriere della Sera<br />
del 10 febbraio 2013 - Anno 3 - N. 6 ( #65)<br />
Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli<br />
Condirettore<br />
Vicedirettori<br />
CORRIERE DELLA SERA<br />
LA LETTURA<br />
Luciano Fontana<br />
Antonio Macaluso<br />
Daniele Manca<br />
Giangiacomo Schiavi<br />
Barbara Stefanelli<br />
Supplemento a cura<br />
della Redazione cultura Antonio Troiano<br />
Pierenrico Ratto<br />
Stefano Bucci<br />
Antonio Carioti<br />
Serena Danna<br />
Marco Del Corona<br />
Dario Fertilio<br />
Cinzia Fiori<br />
Luca Mastrantonio<br />
Pierluigi Panza<br />
Cristina Taglietti<br />
Art director Gianluigi Colin<br />
5 2013 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani<br />
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Registrazione Tribunale di Milano n. 505 del 13 ottobre 2011<br />
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32 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013