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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA Volume II LA RIVOLUZIONE ...

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<strong>LE</strong> <strong>RAGIONI</strong> <strong>DEL<strong>LA</strong></strong> <strong>FILOSOFIA</strong><br />

<strong>Volume</strong> <strong>II</strong><br />

<strong>LA</strong> <strong>RIVOLUZIONE</strong> SCIENTIFICA<br />

Sommario. 1. Che cos’è la rivoluzione scientifica. 2. La rivoluzione copernicana e i<br />

due sistemi del mondo. Il moto della Terra. Il sistema tolemaico. Il sistema copernicano.<br />

La disputa sul De revolutionibus. 2. Il compromesso di Tycho Brahe. 3. Keplero:<br />

verso una moderna fisica dei cieli. Il Mysterium cosmographicum. La Nuova astronomia.<br />

e le prime due leggi planetarie. L’Armonia del mondo e la terza legge. La fortuna di<br />

Keplero. 4. Galileo e la nascita della “scienza moderna”. Il Sidereus Nuncius. Lo studio<br />

sperimentale e matematico dei moti terreni. Scienza, filosofia e fede (1): dal richiamo del<br />

cardinale Bellarmino alla teoria della conoscenza del Saggiatore. Scienza, filosofia e fede<br />

(2): il Dialogo, la condanna e l’abiura. 5. Bacone e il metodo scientifico. Gli errori della<br />

tradizione. La teoria degli idoli. Il metodo della scienza. La conoscenza delle forme.<br />

Scienza e tecnica.<br />

1. Che cos’è la rivoluzione scientifica<br />

Fra il Cinque e il Seicento avviene un cambiamento nel pensiero<br />

filosofico e scientifico europeo che è stato giudicato “epocale” e a proposito<br />

del quale gli storici della scienza si sono trovati d’accordo nel parlare di<br />

“rivoluzione scientifica”. Tra la pubblicazione del De revolutionibus orbium<br />

caelesium di Copernico nel 1543 e la pubblicazione dei Philosophiae<br />

Naturalis Principia Mathematica di Newton nel 1687, si assiste non solo<br />

alla nascita della “scienza moderna”, ma anche a un mutamento radicale<br />

nell’ “immagine” stessa della scienza e della figura del “filosofo naturale”,<br />

cioè di colui che si occupa della conoscenza e del dominio del mondo<br />

naturale. Attraverso i contributi di personaggi come Copernico, Tycho<br />

Brahe, Keplero, Galileo e infine Newton, si verifica una vera e propria<br />

“mutazione” che porta all’immagine della scienza descritta nel seguente<br />

modo da Paolo Rossi:<br />

Quella nuova immagine della scienza […] era l’atto di nascita di<br />

un nuovo tipo di sapere inteso come una costruzione perfettibile, che<br />

nasce dalla collaborazione degli ingegni, che necessita di un linguaggio<br />

specifico e rigoroso, che ha bisogno, per sopravvivere e crescere su se<br />

stesso, di proprie specifiche istituzioni: un tipo di sapere che tende a<br />

elaborare proposizioni “vere” e a formulare asserzioni “vere” intorno<br />

al mondo e che concepisce questa “verità” come qualcosa che va<br />

sottoposto alla prova degli esperimenti e al confronto con teorie<br />

alternative. Un tipo di sapere, ancora, che crede nella capacità di<br />

crescita della conoscenza, che non si fonda sul puro e semplice rifiuto<br />

delle teorie precedenti, ma sulla loro sostituzione con teorie più<br />

“larghe”, che siano logicamente più “forti”, che abbiano maggior potere<br />

esplicativo e predittivo, maggior contenuto di controllabilità (P. Rossi,


2<br />

Introduzione in Id. a cura di, La rivoluzione scientifica da Copernico a<br />

Newton, Loescher, Torino, 1973, p. X<strong>II</strong>I).<br />

Corrispondentemente, la figura dell’“uomo di scienza” diventa del<br />

tutto diversa da quella dell’antico “sapiente”. Colui che si occupa di scienza<br />

non è più solo il “dotto” detentore di un sapere indiscutibile, basato<br />

sull’autorità degli antichi e per pochi eletti, ma è invece il portatore di un<br />

sapere da sottoporre continuamente al giudizio dell’esperienza, da<br />

comunicare il più possibile e quindi formulare in un linguaggio<br />

comprensibile. La nuova scienza si costituisce come un’impresa comune,<br />

come un “sapere universale”, dove più studiosi sono portati a collaborare e a<br />

interagire nello sforzo intersoggettivo di comprensione della natura. Il<br />

nuovo “uomo di scienza” può appartenere alle categorie più diverse e il<br />

nuovo processo culturale si svolge, in gran parte, al di fuori delle università<br />

e dei luoghi tradizionali del sapere. Come rileva ancora Rossi,<br />

Non si sottolineerà mai abbastanza il carattere fortemente<br />

composito dei gruppi intellettuali che contribuirono allo sviluppo del<br />

sapere scientifico nella seconda metà del Cinquecento e nel corso del<br />

secolo XV<strong>II</strong>: professori di matematica, astronomia e medicina nelle<br />

università; insegnanti di queste stesse discipline, in specie la<br />

matematica, fuori dalle università; medici, agrimensori, navigatori,<br />

ingegneri, costruttori di strumenti, farmacisti, ottici, chirurghi,<br />

viaggiatori. […] Per diventare “scienziati” non erano necessari, in<br />

quell’età, né il latino, né la matematica, né un’ampia conoscenza di<br />

libri, né una cattedra universitaria. La pubblicazione sugli atti delle<br />

accademie e l’appartenenza alle società scientifiche erano aperte a tutti,<br />

professori, sperimentatori, artigiani, curiosi, dilettanti (P. Rossi, La<br />

rivoluzione scientifica, cit., p. X<strong>II</strong>).<br />

Oltre che a una nuova immagine della scienza e dell’uomo di<br />

scienza, le scoperte effettuate, le nuove teorie elaborate, i nuovi strumenti e<br />

metodi proposti in questo periodo “rivoluzionario” concorrono tutti<br />

all’affermarsi anche di una nuova immagine sia del mondo naturale sia della<br />

posizione dell’uomo in questo mondo.<br />

L’immagine tradizionale della natura era derivata dalla tradizione<br />

filosofica aristotelica, riletta nel medioevo in chiave cristiana. La natura era<br />

concepita come ordinata da Dio in senso teleologico: ogni cosa era supposta<br />

avere un proprio fine a cui tendere, una propria “causa finale”, che ne<br />

indicava la propria natura essenziale. Con i risultati della nuova scienza<br />

questa immagine viene progressivamente messa in discussione: l’ordine<br />

della natura diventa da teleologico a causale. Non è più tanto la “causa<br />

finale’” lo strumento che consente di cogliere il funzionamento della natura<br />

quanto la “causa efficiente”: la struttura della natura è retta da relazioni di<br />

causa ed effetto, dove “causa” è l’evento il cui accadere comporta l’accadere<br />

dell’effetto. Come scrive Galileo, “quella […] si debba propriamente stimar<br />

causa, la qual, posta, segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove”.<br />

Anche se non necessariamente indirizzata verso un fine, la natura,<br />

grazie a questo insieme di relazioni causali, conserva un proprio ordine. In<br />

essa possono essere rintracciate relazioni costanti che regolano il<br />

2


3<br />

comportamento dei fenomeni. La natura è quindi retta da regole uniformi,<br />

che lo scienziato cerca di formulare in proposizioni di carattere generale,<br />

cioè in “leggi”, e possibilmente in linguaggio matematico. La matematica,<br />

che nell’antichità e nel medioevo era considerata per lo più una costruzione<br />

intellettuale astratta, viene ora applicata allo studio della natura e diventa lo<br />

strumento principale che accompagna il sorgere della nuova scienza. Come<br />

aveva osservato già Leonardo da Vinci, che per alcuni aspetti può essere<br />

considerato un precursore della mentalità alla base della rivoluzione<br />

scientifica, “nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza,<br />

s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni”.<br />

Alla concezione tradizionale del mondo corrispondeva una<br />

determinata immagine della posizione dell’uomo. Ogni cosa era concepita<br />

in funzione dell’uomo. L’uomo era il centro della Terra e la terra il centro<br />

dell’Universo. L’organizzazione del mondo era posta da Dio in relazione<br />

all’uomo, aveva influenza sul suo carattere e sul suo destino. Con la nuova<br />

scienza, la Terra perde la sua posizione centrale nell’universo e la natura<br />

viene progressivamente spersonalizzata. Questi risultati si pongono in forte<br />

contrasto con gli assunti della filosofia del tempo e con le Sacre Scritture, da<br />

cui era derivata l’immagine tradizionale del mondo. Per affermare la nuova<br />

immagine, la scienza dovrà mettere in discussione queste autorità, rendersi<br />

autonoma dalle dottrine dei filosofi del passato e dalla lettera delle Scritture:<br />

“i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un<br />

mondo di carta”, dirà Galileo. Si tratta di un processo lungo e travagliato, di<br />

cui illustreremo qui di seguito le tappe più significative.<br />

2. La rivoluzione copernicana e i due sistemi del mondo<br />

Il processo di cambiamento scientifico e concettuale chiamato<br />

“rivoluzione scientifica”, che nell’arco di circa un secolo e mezzo porta sia<br />

alla nascita della scienza moderna sia a una nuova visione del “mondo” e<br />

della “posizione dell’uomo nel mondo”, ha ufficialmente inizio con la<br />

pubblicazione nel 1543 del De revolutionibus orbium caelestium<br />

dell’astronomo polacco Niklas Koppernigk o, usando il nome italianizzato,<br />

Niccolò Copernico.<br />

L’opera di Copernico segna propriamento l’avvio di quella che è<br />

stata denominata “rivoluzione astronomica” o anche “rivoluzione<br />

copernicana”: una trasformazione che inizialmente avviene solo nel campo<br />

dell’astronomia, ma che, per le conseguenze che ne risulteranno, si rivelerà,<br />

come scrive lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn:<br />

una rivoluzione di idee, una trasformazione della concezione che<br />

l’uomo aveva dell’universo e del suo particolare rapporto con esso (T.<br />

Kuhn, La rivoluzione copernicana, Torino, Einaudi 1972, p. 3).<br />

Il moto della Terra<br />

In che cosa consiste, dunque, la rivoluzione astronomica a cui<br />

Copernico dà inizio con la sua opera, e in che senso il suo contributo ha un<br />

carattere “rivoluzionario”? Copernico compie di fatto un “rivolgimento”:<br />

3


4<br />

sovverte le posizioni tradizionalmente assegnate alla Terra e al Sole<br />

nell’universo, attribuendo alla Terra un moto di rotazione intorno al Sole<br />

invece che l’inverso. Un rivolgimento che, sottolinea Copernico, non<br />

comporta nessun contrasto con i dati delle osservazioni compiute fino<br />

allora:<br />

La maggioranza degli autori considera pacifico che la Terra stia<br />

immobile al centro del mondo e stimerebbe inconcepibile, se non<br />

addirittura ridicola, la tesi contraria.[…] Se si ammette che il cielo non<br />

sia affatto in movimento e che sia invece la Terra a girare da occidente<br />

a oriente, e se – accogliendo questa ipotesi – si esamina ciò che<br />

apparirebbe della nascita e del tramonto del Sole, della Luna e delle<br />

stelle, si troverà che queste cose si comporterebbero proprio come<br />

avviene nella realtà. Il cielo contiene e abbraccia tutti gli astri, è il luogo<br />

comune di tutte le cose: perché non si deve attribuire il movimento al<br />

contenuto invece che al contenente, al locato piuttosto che al locante?<br />

(N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium libri sex [1543], in P.<br />

Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton,<br />

Loescher, Torino, 1973, p. 154-5)<br />

Copernico non è certo il primo, nella storia del pensiero scientifico, a<br />

ipotizzare che la Terra si muova. Perché dunque il suo contributo assume un<br />

carattere così rivoluzionario? Per comprenderlo, occorre considerare chi era<br />

Copernico, il contesto nel quale s’inserisce la sua opera, e quindi il modo in<br />

cui egli usa la sua ipotesi del moto della Terra nella costruzione del suo<br />

sistema astronomico.<br />

Copernico era uno specialista, un astronomo di grande fama, che si<br />

era dedicato in tutto il corso della sua vita professionale allo studio<br />

matematico dei moti planetari. Nato nel 1466 a Torun sulla Vistola, dopo gli<br />

studi all’Università di Cracovia e diversi soggiorni presso Università italiane<br />

tra le quali Bologna e Padova, lavorò fino alla morte (avvenuta nello stesso<br />

anno della pubblicazione del De revolutionibus) alla soluzione del problema<br />

della corretta descrizione dei moti dei pianeti: un problema che non era<br />

ancora stato risolto in modo soddisfacente. Il “sistema del mondo”<br />

dominante con cui si trovava a fare i conti era quello cosiddetto<br />

“tolemaico”:<br />

una mescolanza di fisica aristotelica e di astronomia tolemaica,<br />

inserita in una cosmologia che attingeva largamente al misticismo delle<br />

correnti neoplatoniche, alle vedute dell’astrologia e alla teologia dei<br />

Padri della Chiesa e dei filosofi della Scolastica (P. Rossi, La rivoluzione<br />

astronomica, in P. Rossi, a cura di, Storia della scienza moderna e<br />

contemporanea, Vol. 1, Milano, TEA 2000, p. 165-6).<br />

Il sistema tolemaico<br />

Il contesto scientifico in cui Copernico opera è dunque dominato, per<br />

la fisica, dall’aristotelismo, e per l’astronomia matematica -- cioè quella<br />

disciplina che si occupava esclusivamente di ottenere un modello<br />

matematico adatto per la descrizione dei moti planetari, senza preoccuparsi<br />

degli aspetti “fisici” come per esempio le “cause” di questi moti -- dalla<br />

4


5<br />

teoria fondata sull’opera dell’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo,<br />

vissuto nel <strong>II</strong> secolo d. C.<br />

I capisaldi della fisica aristotelica (e della cosmologia fondata su<br />

questa fisica), possono essere riassunti schematicamente nei seguenti punti:<br />

• la distinzione tra a) mondo terrestre, o mondo sublunare, che è il<br />

luogo dell’alterazione e del mutamento, dove i moti naturali dei<br />

corpi sono rettilinei, difformi e limitati temporalmente, e i corpi che<br />

lo compongono sono formati da combinazioni dei quattro elementi<br />

Terra, Acqua, Aria e Fuoco, e b) mondo celeste, dove tutto è<br />

inalterabile e perenne, gli unici moti ammessi sono quelli circolari<br />

(e, in quanto tali, “perfetti”) uniformi ed eterni, e i pianeti, le stelle e<br />

le sfere celesti che lo compongono sono formati da un quinto<br />

elemento, l’etere o quinta essentia, che è solido ma imponderabile e<br />

trasparente;<br />

• la distinzione tra a) moti naturali, che sono i moti dei corpi verso i<br />

loro “luoghi naturali” (i moti “verso il basso” per i corpi pesanti, i<br />

moti “verso l’alto” per i corpi leggeri), e b) moti violenti, che sono i<br />

moti dovuti all’azione di una forza esterna e quindi cessano quando<br />

cessa la forza (la “causa”);<br />

• la concezione cosmologica che vede l’universo come delimitato<br />

dalla sfera delle stelle fisse, il “primo mobile”, il cui moto circolare<br />

si trasmette per contatto alle altre sfere fino a giungere alla sfera<br />

della luna, che è il limite inferiore del mondo celeste. La Terra, che<br />

per la sua natura non celeste non può avere moto circolare, rimane<br />

ferma al centro dell’universo.<br />

La cosmologia aristotelica era, come rileva lo storico della scienza<br />

Paolo Rossi,<br />

la trasposizione, sul piano della realtà e della fisica, del modello,<br />

puramente geometrico e astratto, elaborato da Eudosso di Cnido nella<br />

prima metà del IV secolo a. C. (P. Rossi, La rivoluzione astronomica,<br />

cit., p. 165)<br />

Il modello proposto da Eudosso, che spiegava i fenomeni celesti con<br />

l’ausilio di 27 sfere omocentricihe (poi portate a 33 dall’astronomo Callippo<br />

nella seconda metà del IV secolo, e successivamente a 55 da Aristotele),<br />

aveva infatti innanzitutto lo scopo di trovare una soluzione matematica al<br />

problema del moto anomalo dei pianeti che l’osservazione mostrava non<br />

essere né circolare né uniforme. A tal fine Eudosso aveva introdotto l’idea<br />

che a ogni pianeta corrispondesse un diverso sistema di sfere omocentriche,<br />

che ruotavano di moto uniforme ma con velocità diverse e con diversa<br />

inclinazione le une rispetto alle altre. Non contava la causa di queste<br />

rotazioni né se le sfere avessero esistenza reale.<br />

Le sfere di cui aveva parlato Eudosso non erano, come poi per<br />

Aristotele, enti fisici reali, ma pure finzioni o artifici matematici capaci<br />

di dar conto, mediante una costruzione puramente intellettuale, delle<br />

5


6<br />

apparenze sensibili, capaci cioè di giustificare e spiegare il moto dei<br />

pianeti, di “salvare i fenomeni” (P. Rossi, La rivoluzione astronomica,<br />

cit., p. 165).<br />

Con l’intento di fornire una migliore aderenza del sistema di calcolo<br />

ai fenomeni osservati, Apollonio di Perge e poi Ipparco di Nicea (nel <strong>II</strong><br />

secolo a.C.) escogitarono un nuovo tipo di descrizione basato sugli<br />

“eccentrici” e sugli “epicicli”. Questa descrizione venne poi migliorata e<br />

codificata da Tolomeo nella sua Syntaxis, comunemente nota come<br />

Almagesto.<br />

Ferma restando l’ipotesi della Terra immobile al centro dell’universo<br />

e della rotazione intorno ad essa della sfera delle stelle fisse, il moto di<br />

ciascun pianeta veniva ora spiegato ricorrendo al moto uniforme del pianeta<br />

lungo la circonferenza di un cerchio (l’epiciclo) il cui centro ruotava, a sua<br />

volta uniformemente, lungo la circonferenza di un cerchio (il deferente)<br />

eccentrico rispetto al centro dell’universo (la Terra). La varietà dei moti era<br />

quindi rappresentabile introducendo un opportuno numero di epicicli, e<br />

facendo talvolta ricorso ad un altro tipo di cerchi (gli equanti), che non<br />

potevano in alcun modo essere interpretati in senso fisico, ma che servivano<br />

come ipotesi ad hoc per salvare il paradigma dell’uniformità dei moti<br />

celesti, ivi compresa anche la distanza variabile dei pianeti dalla Terra.<br />

Questa ricchezza e versatilità del sistema di calcolo dell’astronomia<br />

tolemaica spiega la sua tenuta e il suo successo per più di mille anni.<br />

Il sistema copernicano<br />

Delle due anime rispettivamente fisica e matematica del sistema del<br />

mondo tolemaico, la fisica aristotelica e l’astronomia matematica basata<br />

sull’Almagesto di Tolomeo, è soprattutto la seconda ad essere oggetto di<br />

critica da parte di Copernico. Che cosa disturbava maggiormente Copernico<br />

nell’astronomia tolemaica? Non il fatto che non fosse in grado di rendere<br />

conto adeguatamente di tutti i fenomeni osservati: Copernico stesso non era<br />

un grande osservatore e, dal punto di vista del “salvare i fenomeni”, la sua<br />

teoria astronomica non sarebbe stata molto superiore a quella precedente. A<br />

spingere Copernico a sostenere la centralità del Sole nell’universo, e la<br />

conseguente riduzione della Terra a un pianeta ruotante insieme agli altri<br />

pianeti attorno al Sole, sono piuttosto motivi di altra natura.<br />

Innanzitutto, la divergenza che egli avvertiva tra la fisica aristotelica<br />

(che sosteneva la perfetta circolarità dei moti celesti) e l’astronomia<br />

tolemaica (i moti planetari descritti nella teoria tolemaica non erano sempre<br />

circolari uniformi):<br />

Coloro poi che sono ricorsi agli eccentrici, per quanto sembri che<br />

per mezzo di essi abbiano risolto in gran parte i moti apparenti<br />

mediante calcoli corrispondenti alle previsioni, tuttavia hanno ammesso<br />

cose che per lo più sembrano essere contrarie ai primi principi circa<br />

l’uniformità del movimento. E la cosa più importante, cioè la forma del<br />

mondo e la esatta simmetria delle sue parti, non poterono trovarla o<br />

ricostruirla mediante il ricorso agli eccentrici (N. Copernico, Dedica del<br />

De revolutionibus, in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da<br />

Copernico a Newton, cit., p. 148).<br />

6


7<br />

In secondo luogo, l’influsso sul suo pensiero del pitagorismo e del<br />

platonismo, influsso che lo porta ad attribuire un significato particolare sia<br />

alla presenza di perfette simmetrie e armonie nel suo sistema del mondo, sia<br />

al ruolo centrale del Sole, al quale assegna una dignità particolare, una<br />

natura “regale”:<br />

Al centro di tutti risiede il Sole. Chi infatti situerebbe in questo<br />

stupendo tempio una luce in altro o migliore luogo di questo, da cui<br />

illuminare ogni cosa simultaneamente? […] Così dunque il Sole, quasi<br />

come seduto sul soglio regale, governa la famiglia degli astri che gli<br />

girano intorno. […] Noi troviamo dunque in quest’ordine la mirabile<br />

armonia dell’universo e un nesso stabile tra il moto e la grandezza delle<br />

sfere, quale in altro modo non si può reperire (N. Copernico, De<br />

revolutionibus, P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da<br />

Copernico a Newton, cit., p. 153).<br />

Copernico dunque sposta la Terra (e con essa l’umanità) dal centro<br />

del mondo e ne fa un pianeta ruotante, insieme ad altri, intorno al Sole. Ma,<br />

a differenza di coloro che già nel passato avevano avanzato l’ipotesi del<br />

moto della Terra (come, nell’antichità, il pitagorico Filolao e Aristarco di<br />

Samo), sulla base di tale ipotesi Copernico costruisce un complesso sistema<br />

matematico, una vera e propria “teoria”. Le tesi centrali di questa<br />

costruzione, la completa elaborazione della quale è contenuta nel De<br />

Revolutionibus, sono chiaramente formulate già nel testo De hypothesibus<br />

motuum coelestium commentariolus (che si suppone Copernico scriva tra il<br />

1507 e il 1512) e sono le seguenti:<br />

1. Non esiste un solo centro di tutti gli orbi celesti o sfere.<br />

2. Il centro della Terra non è il centro dell’universo, ma solo<br />

della gravità e della sfera della Luna.<br />

3. Tutte le sfere ruotano intorno al Sole come al loro punto<br />

centrale […].<br />

4. Il rapporto tra la distanza della Terra dal Sole e l’altezza del<br />

firmamento è tanto più piccolo del rapporto fra il raggio<br />

terrestre e la distanza Terra-Sole che la distanza della Terra<br />

dal Sole è impercettibile in confronto all’altezza del<br />

firmamento.<br />

5. Qualunque moto appaia nel firmamento non deriva da un<br />

qualche moto del firmamento ma dal moto della Terra.<br />

Pertanto la Terra, con gli elementi a lei più vicini […] compie<br />

una completa rotazione sui suoi poli fissi in un moto diurno,<br />

mentre il firmamento e il più alto cielo imangono immobili.<br />

6. Ciò che ci appare come movimenti del Sole non deriva dal<br />

suo moto, ma dal moto della Terra e della nostra sfera con la<br />

quale ruotiamo attorno al Sole come ogni altro pianeta. La<br />

Terra ha pertanto più di un movimento.<br />

7. L’apparente moto retrogrado e diretto dei pianeti non deriva<br />

dal loro moto, ma da quello della Terra. Il moto della sola<br />

Terra è pertanto sufficiente a spiegare tutte le disuguaglianze<br />

che appaiono nel cielo (N. Copernico, Commentariolus, in P.<br />

7


8<br />

Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a<br />

Newton, cit., pp. 143-4).<br />

Il testo del Commentariolus circolò solo come manoscritto, e in<br />

questa forma ebbe una certa diffusione. Gli anni 1523-1532 sono,<br />

probabilmente, quelli in cui Copernico lavora assiduamente alla stesura del<br />

De revolutionibus, la cui pubblicazione non ebbe tuttavia luogo avanti la<br />

primavera del 1543 (si tramanda che il primo esemplare giunse a Copernico<br />

il 24 maggio del 1543, lo stesso giorno in cui morì). Il contenuto dell’opera<br />

era però già conosciuto da alcuni anni nel mondo dei dotti, in particolare<br />

attraverso la Narratio prima di Georg Joachim von Lauchen (detto<br />

“Rheticus”), discepolo di Copernico al quale questi aveva affidato il<br />

manoscritto della sua opera.<br />

La disputa sul De revolutionibus<br />

Il De revolutionibus venne pubblicato dall’editore Petreio di<br />

Norimberga, sotto la cura del teologo luterano Andrea Osiander. Questi<br />

aveva suggerito a Copernico, in una lettera del 20 giugno 1541, di<br />

presentare la sua teoria come un’ipotesi puramente matematica: il moto<br />

della Terra, se interpretato come moto reale, andava contro la lettura<br />

corrente delle Sacre Scritture. Come già nel 1539 era stato sottolineato da<br />

Lutero, che in uno dei Discorsi a tavola stigmatizzava l’ “astronomo da<br />

quattro soldi” che, affermando il moto della Terra, pretendeva sovvertire<br />

tutta l’astronomia contro la Scrittura, in accordo alla quale Giosuè ordinò al<br />

Sole, non alla Terra, di fermarsi.<br />

Il suggerimento di Osiander venne rifiutato da Copernico, che nella<br />

Dedica al papa Paolo <strong>II</strong>I riconferma la propria convinzione realistica (il suo<br />

sistema non è uno dei tanti, ma quello “vero”), oltre a sottolineare – come<br />

aveva fatto già Rheticus nella Narratio – la maggiore semplicità e armonia<br />

del suo sistema rispetto a quello tolemaico.<br />

Forse la Santità Vostra non si stupirà del fatto che io abbia osato<br />

dare alla luce i frutti del mio lavoro – dopo aver speso tanta fatica<br />

nell’elaborarli – e decidere di far stampare i miei pensieri sul moto<br />

della Terra; quanto piuttosto si aspetterà di udire da me come mi sia<br />

venuto in mente di osare di immaginarmi un movimento della Terra,<br />

che è contrario all’opinione ormai accettata dai matematici e che<br />

contrasta col comune modo di considerare le cose. […] E così io, dopo<br />

aver considerato che la Terra si muovesse […], trovai infine, dopo una<br />

lunga e attenta indagine, che se si rapportano al circuito della Terra i<br />

movimenti degli altri astri erranti calcolati secondo la rivoluzione di<br />

ciascuna stella, non solo ne conseguono i loro movimenti e fasi, ma<br />

anche l’ordine e la grandezza delle stelle e di tutti gli orbi e lo stesso<br />

cielo diventa un tutto così collegato che in nessuna parte di esso si può<br />

spostare qualcosa senza crear confusione delle restanti parti di tutto<br />

l’insieme (N. Copernico, Dedica del De revolutionibus, in P. Rossi, a<br />

cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, cit., p. 149-<br />

150).<br />

Il rifiuto di Copernico di presentare il moto della Terra come mera<br />

8


9<br />

ipotesi non impedì tuttavia a Osiander (che inoltre mutò arbitrariamente il<br />

titolo De revolutionibus in De revolutionibus orbium coelestium) di<br />

premettere un’anonima introduzione alla prima edizione dell’opera, nella<br />

quale veniva asserito il carattere puramente ipotetico non solo della teoria<br />

copernicana ma di qualsiasi teoria astronomica:<br />

È compito dell’astronomo infatti comporre, mediante<br />

un’osservazione diligente e abile, la storia dei movimenti celesti e quindi<br />

di cercarne le cause ovvero, poiché in nessun modo è possibile cogliere<br />

quelle vere, di immaginare e inventare delle ipotesi qualsiasi sulla cui<br />

base questi movimenti, riguardo sia al futuro sia al passato, possano<br />

essere calcolati con esattezza conformemente ai principi della<br />

geometria. E questi due compiti l’autore di quest’opera li ha assolti<br />

egregiamente. Poiché infatti non è necessario che queste ipotesi siano<br />

vere e neppure verosimili, ma basta questo soltanto: che esse offrano<br />

dei calcoli conformi all’osservazioni (A. Osiander, Praefatio, in P. Rossi,<br />

a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, cit., pp.<br />

186-7).<br />

Questa interpretazione in chiave pragmatica di Osiander – non<br />

importa che le ipotesi siano vere, basta che “salvino i fenomeni”-- trovò<br />

terreno fertile presso chi voleva servirsi dei vantaggi che indubbiamente<br />

presentava l’astronomia copernicana senza tuttavia impegnarsi sul fronte<br />

della realtà o meno delle sue tesi. Molti astronomi si servirono dei risultati<br />

del De revolutionibus pur non accettando che la Terra si muovesse. In<br />

particolare, tutti si servirono delle nuove tavole planetarie note come tavole<br />

pruteniche (in quanto dedicate al Duca di Prussia), che erano state compilate<br />

sulla base delle tecniche matematiche e dei risultati di Copernico da Erasmo<br />

Reinhold nel 1551. Lo stesso Reinhold, d’altronde, non si dichiarava<br />

seguace di Copernico.<br />

Ma la disputa sulle tesi copernicane non rimase certo limitata al<br />

mondo dell’astronomia, per quanto il De revolutionibus fosse un’opera a<br />

carattere molto tecnico (contenente, in gran parte, formule matematiche,<br />

diagrammi e tavole) e rivolta essenzialmente a un pubblico di esperti. Come<br />

già accennato, la trasformazione dell’astronomia operata da Copernico<br />

apriva le porte a radicali mutamenti anche in altri campi, dalla cosmologia e<br />

dalla fisica alla filosofia e alla religione. Alla rivoluzione astronomica messa<br />

in moto da Copernico si accompagnava di fatto un processo di<br />

trasformazione più profondo. Un processo che, come abbiamo visto, prende<br />

il nome di “rivoluzione scientifica” e in virtù del quale, per dirla con lo<br />

storico della scienza Alexandre Koyré,<br />

l’uomo ha perso il suo posto nel mondo, o forse più<br />

correttamente ha perso il mondo stesso che formava il quadro del suo<br />

pensiero e l’oggetto della sua conoscenza, e ha dovuto trasformare e<br />

sostituire non solo le sue concezioni fondamentali, ma le strutture stesse<br />

del suo pensiero (A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito,<br />

Milano, Feltrinelli 1970, p. 11).<br />

La posta in gioco nella disputa circa il carattere ipotetico o realistico<br />

delle tesi di Copernico era quindi molto alta. Per gli oppositori di Copernico<br />

9


10<br />

si trattava non tanto di difendere il precedente sistema astronomico, quanto<br />

di evitare la catena di conseguenze a cui l’accettazione della “verità” di<br />

quanto sosteneva Copernico poteva condurre. Come era possibile che<br />

fossero percepite le implicazioni del nuovo sistema del mondo è bene<br />

illustrato nei seguenti versi del famoso poeta John Donne (Anatomy of the<br />

world, 1611):<br />

La nuova filosofia pone in dubbio ogni cosa, | l’elemento del<br />

fuoco è tutto spento; | il Sole è perduto, e la Terra, e in nessun uomo la<br />

mente può guidarlo per dove cercarla. | E apertamente gli uomini<br />

ammettono che questo mondo è finito, | quando nei pianeti e nel<br />

firmamento | cercano così tanti il nuovo; e poi vedono che questo | si<br />

polverizza ancora nei suoi atomi. | Tutto quanto a pezzi, ogni coesione<br />

scomparsa; | ogni giusta provvidenza, e ogni relazione: | principe,<br />

suddito, padre, figlio, son cose dimenticate, | poiché ogni uomo pensa<br />

d’essere riuscito, solo | a diventare una fenice, e che quindi non ci può<br />

essere | nessun altro della sua specie all’infuori di lui.<br />

3. Il compromesso di Tycho Brahe<br />

Se a Copernico si deve la trasformazione della “teoria” astronomica,<br />

al danese Tyge (Tycho) Brahe, che nasce tre anni dopo la pubblicazione del<br />

De revolutionibus e sarà la figura dominante, in campo astronomico, degli<br />

ultimi decenni dell’astronomia cinquecentesca, si deve un contributo<br />

fondamentale all’innovazione delle tecniche e dei metodi dell’osservazione<br />

dei pianeti e delle stelle. Tycho Brahe è ritenuto il migliore degli osservatori<br />

a occhio nudo della storia dell’astronomia. Nel corso della sua vita, non solo<br />

eseguì numerosissime osservazioni delle posizioni di corpi celesti,<br />

procurandosi strumenti (come astrolabi, sestanti, e quadranti) sempre più<br />

precisi -- spesso disegnandoli, costruendoli e calibrandoli lui stesso --, ma<br />

diede anche una svolta all’osservazione dei moti planetari. Brahe promosse<br />

infatti la pratica di osservare i pianeti con regolarità durante tutto il loro<br />

moto orbitale, e non solo quando si presentavano in una configurazione<br />

particolarmente favorevole, come invece si usava fare. Questa innovazione<br />

diede subito importanti risultati, come per esempio la scoperta di numerose<br />

anomalie nelle orbite dei pianeti rispetto a quanto ottenuto o previsto con i<br />

dati e con le teorie a disposizione fino allora.<br />

Dopo avere studiato a Copenhagen e a Lipsia, e aver visitato altre<br />

università come quelle di Wittemberg e Basilea, Tycho Brahe, che era di<br />

nobili orgini, cercò di evitare la carriera politica a cui lo voleva destinare la<br />

famiglia per potere invece coltivare il proprio interesse per i fenomeni<br />

celesti. La sera dell’11 Novembre del 1572 si verificò un evento che doveva<br />

renderlo famoso: osservò un nuovo corpo celeste, luminosissimo, nella<br />

costellazione di Cassiopea. La nuova stella osservata da Brahe (oggi<br />

sappiamo che si trattava dell’esplosione di una “supernova”), suscitò subito<br />

un enorme interesse in tutta Europa e venne seguita con grande attenzione<br />

nei 18 mesi in cui rimase visibile, perdendo via via luminosità fino a<br />

scomparire agli inizi del 1574. Grazie a suoi strumenti sofisticati, Brahe<br />

riuscì a stimarne con una discreta precisione la distanza dalla Terra. In base<br />

10


11<br />

alle sue stime, di cui rende conto nello scritto De nova stella del 1573, la<br />

“nova” risultava posizionata ben al di là del sistema solare, in prossimità di<br />

quella che allora si chiamava la sfera delle stelle “fisse”: qualcosa di<br />

mutabile era quindi presente anche nei cieli ritenuti immutabili, contro la<br />

convinzione -- fondata sulla cosmologia e sulla fisica aristoteliche -- che la<br />

mutabilità fosse propria solo del mondo sublunare.<br />

Nel 1576 il re danese Federico <strong>II</strong> offre in dono a Brahe l’isoletta di<br />

Hveen, insieme a una ricca dotazione annua, per convincerlo a svolgere le<br />

proprie ricerche in Danimarca (anziché a Basilea, dove Brahe aveva<br />

manifestato l’intenzione di stabilirsi). L’offerta viene accettata e Brahe fa<br />

costruire sull’isola una specie di cittadella dell’astronomia, il castelloosservatorio<br />

di Uraniborg (“Città di Urano”). Il castello, al quale viene<br />

aggiunto anche un secondo osservatorio sotterraneo chiamato Stjoerneborg<br />

o “Città delle stelle” (sotterraneo perché formato da “nicchie” scavate nel<br />

terreno, per evitare disturbi dovuti alle eventuali vibrazioni degli edifici, e<br />

dotate di strumenti perfezionati), diventa presto il luogo privilegiato di<br />

formazione per molti giovani astronomi europei. Brahe vi resterà fino al<br />

1597, quando, in seguito a disaccordi sorti con il nuovo re di Danimarca<br />

Cristiano IV, lascerà l’isola, per andare due anni dopo a stabilirsi<br />

(rimanendovi fino alla morte, sopraggiunta nel 1601) in un altro castelloosservatorio<br />

vicino a Praga, nel ruolo di “matematico imperiale” offertogli<br />

da Rodolfo <strong>II</strong>.<br />

Negli anni successivi al suo arrivo a Hveen, Tycho Brahe conduce<br />

una sistematica osservazione delle comete, a partire dallo studio della<br />

grande cometa avvistata nel 1577. Grazie alle sue precise misure, Brahe<br />

riesce a dimostrare in modo conclusivo come le comete osservate abbiano<br />

parallassi piccolissime e siano quindi, anch’esse (come la stella nuova del<br />

1572), molto più lontane dalla Terra di quanto non lo sia l’orbita della Luna:<br />

dunque le comete non si trovano nel mondo sublunare, come pensavano gli<br />

aristotelici, ma “nelle regioni eteree del mondo”, e le loro orbite possono<br />

attraversare le sfere planetarie. Questo fatto metteva decisamente in<br />

difficoltà la tesi aristotelica della realtà delle sfere celesti: come potevano<br />

essere sfere solide di cristallo, se venivano attraversate dalle orbite di corpi<br />

celesti? A tal proposito, così scrive Brahe a Keplero:<br />

Secondo la mia opinione, la realtà di tutte le sfere - comunque<br />

possano essere concepite - deve essere esclusa dai cieli. Questo ho<br />

appreso da tutte le comete che sono apparse nei cieli, fino dalla stella<br />

nuova del 1572, e che sono, in verità, fenomeni celesti. Esse non seguono<br />

infatti le leggi di nessuna delle sfere, ma agiscono piuttosto in<br />

contraddizione con esse [...]. È chiaramente provato dal moto delle<br />

comete che la macchina del cielo non è un corpo duro e impenetrabile<br />

composto di varie sfere reali, come fino ad ora è stato creduto da molti,<br />

ma è fluido e libero, aperto in tutte le direzioni, tale da non opporre<br />

assolutamente ostacolo alcuno alla libera corsa dei pianeti che è<br />

regolata, in accordo alla sapienza legislativa di Dio, senza alcun<br />

macchinario né alcun rotolamento di sfere reali [...] In tal modo non<br />

viene ammessa alcuna reale e incoerente penetrazione delle sfere: esse<br />

non esistono realmente nei cieli, ma vengono ammesse solo a beneficio<br />

dell’insegnamento e dell’apprendimento (T. Brahe a Keplero, in P.<br />

11


12<br />

Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, cit.,<br />

p. 155).<br />

Lo studio delle orbite delle comete porta Brahe, oltre alla negazione<br />

del carattere materiale delle sfere orbitali, all’abbattimento di un altro<br />

dogma dell’astronomia a lui precedente, sia tolemaica sia copernicana:<br />

quello della perfetta circolarità dei moti celesti. In base ai dati osservativi<br />

che ha raccolto, egli arriva infatti a ipotizzare che l’orbita della cometa del<br />

1577 abbia forma ovale invece che circolare. Si tratta della prima volta che,<br />

nella storia dell’astronomia, viene ipotizzato che un corpo celeste possa<br />

muoversi lungo un’orbita che non sia circolare. Sarà comunque solo con<br />

Keplero che un’ipotesi di tale natura assumerà concretezza (tanto da<br />

diventare, come vedremo, la base della prima delle tre leggi dei moti<br />

planetari formulate da Keplero).<br />

L’opera De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber<br />

secundus, stampata a Uraniborg nel 1588, in cui sono raccolti ed elaborati i<br />

risultati di questi studi di Brahe, è famosa anche per il nuovo sistema<br />

astronomico che vi viene proposto, noto come sistema ticonico del mondo.<br />

Sulla base delle numerosissime osservazioni effettuate, Tycho Brahe era<br />

infatti giunto a elaborare un proprio “sistema” della disposizione dei pianeti<br />

e delle stelle, a carattere intermedio -- o “di compromesso” -- tra quello<br />

tolemaico e quello copernicano. Del sistema tolemaico Brahe mantiene la<br />

tesi fondamentale: l’immobilità della Terra e la sua centralità nell’universo.<br />

La Terra è al centro di un universo che è racchiuso dalla sfera delle stelle, la<br />

cui rotazione giornaliera spiega i moti stellari circolari:<br />

Al di là di ogni dubbio, penso che si debba stabilire con gli<br />

antichi astronomi e i pareri ormai accettati dai fisici, con la ulteriore<br />

attestazione delle Sacre Scritture, che la Terra che noi abitiamo occupa<br />

il centro dell’universo e che non è mossa in cerchio da nessun moto<br />

annuo, come volle Copernico (T. Brahe, De mundi aetherei recentioribus<br />

phaenomenis, in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da<br />

Copernico a Newton, cit., p. 157).<br />

Le motivazioni che spingono Brahe a rifiutare l’ipotesi copernicana<br />

del moto della Terra sono di vario tipo: attribuire movimento al “corpo<br />

grosso, pigro, e inabile a muoversi della Terra” urtava “non solo contro i<br />

principi della fisica, ma anche contro l’autorità delle Sacre Scritture che<br />

confermano in vari passi la stabilità della Terra”; il fatto che non si<br />

osservasse alcun effetto di parallasse stellare non si poteva spiegare, nel<br />

sistema copernicano, se non con l’“inconveniente” di dover porre una<br />

distanza immensa (“un vastissimo spazio vuoto interposto”) tra l’orbita di<br />

Saturno e la sfera delle stelle fisse; inoltre, se la Terra fosse stata in moto,<br />

una pietra lasciata cadere da una torre avrebbe raggiunto il suolo lontano<br />

dalla sua base (qui Brahe aderisce a quella che è la credenza comune), al<br />

contrario di quanto di fatto osservato.<br />

Ma anche il sistema tolemaico non andava bene per Brahe. La<br />

“vecchia distribuzione tolemaica degli orbi celesti non era abbastanza<br />

coerente ed era superfluo il ricorso a tanto numerosi e sì grandi epicicli”,<br />

mentre “la moderna innovazione introdotta dal grande Copernico”<br />

permetteva di evitare “tutto ciò che nella disposizione tolemaica risultava<br />

12


13<br />

superfluo e incoerente, senza contravvenire ai principi della matematica”.<br />

Qual è dunque la soluzione di Brahe, l’“ipotesi” che a suo giudizio<br />

consentiva il migliore compromesso tra i due sistemi precedenti, evitando le<br />

“non piccole assurdità” contenute in entrambi? Una ipotesi che “non fosse<br />

in contrasto né con la matematica né con la fisica, e che non dovesse<br />

sfuggire di nascosto alle censure teologiche e che, nello stesso tempo,<br />

soddisfacesse in modo completo alle apparenze celesti”?<br />

Il “compromesso” a cui arriva Tycho Brahe è il seguente: come nel<br />

sistema tolemaico, la Terra è al centro delle orbite del Sole e della Luna; ma<br />

– e qui inizia la differenza con il sistema tolemaico e la vicinanza con quello<br />

copernicano – è il Sole, non la Terra, a essere al centro delle orbite degli<br />

altri cinque pianeti (Mercurio e Venere, che si muovono in orbite i cui raggi<br />

sono più piccoli di quello dell’orbita solare; Marte, Giove e Saturno, le<br />

orbite dei quali circondano invece la Terra):<br />

Asserisco inoltre che i cinque pianeti restanti volgono i propri<br />

giri intorno al Sole come propria guida e re, e che sempre lo osservano<br />

quando si situa nello spazio intermedio delle loro rivoluzioni. Cosicché<br />

rispetto al circuito di esso anche i centri delle orbite che gli descrivono<br />

intorno compiono un giro annuale. Trovai infatti che ciò non aveva<br />

luogo soltanto in Venere e Mercurio per le minori digressioni di tali<br />

pianeti dal Sole, ma anche nei tre pianeti superiori. E in tal modo<br />

[…] ogni apparente ineguaglianza di movimento che dagli antichi era<br />

spiegata con gli epicicli, per Copernico era dovuta al moto annuo della<br />

Terra, viene giustificata in modo convenientissimo mediante tale<br />

concomitanza del centro del’orbita dei pianeti stessi insieme all’annua<br />

rivoluzione del Sole […] ed esso governa tutta l’Armonia della schiera<br />

dei pianeti come Apollo (nome del quale veniva insignito dagli antichi)<br />

in mezzo alle Muse (T. Brahe, De mundi aetherei recentioribus<br />

phaenomenis, in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da<br />

Copernico a Newton, cit., p. 157-8-9).<br />

Il sistema “misto”, in parte geocentrico e in parte eliocentrico, così<br />

proposto da Tycho Brahe aveva il doppio vantaggio di essere, dal punto di<br />

vista dei calcoli delle posizioni dei pianeti, del tutto equivalente a quello<br />

copernicano, e dal punto di vista della religione e del senso comune, in<br />

accordo con le concezioni tradizionali. Fu quindi bene accolto da quanti<br />

volevano conservare i vantaggi matematici del sistema copernicano ed<br />

evitare, allo stesso tempo, gli inconvenienti fisici, cosmologici e teologici<br />

che apparentemente il moto della Terra comportava.<br />

4. Keplero: verso una moderna fisica dei cieli<br />

Nell’ultimo periodo della sua vita, Tycho Brahe ebbe un assistente<br />

d’eccezione: Johannes Kepler (o Keplero, dalla forma latinizzata Keplerus),<br />

Del giovane astronomo, convinto assertore del sistema copernicano, Brahe<br />

aveva molto apprezzato l’opera prima (pubblicata nel 1596), nota col titolo<br />

abbreviato di Mysterium cosmographicum. Dal febbraio del 1600 Keplero,<br />

su invito del grande astronomo danese, si trasferì in Boemia, e lì rimase fino<br />

13


14<br />

al 1612, sostituendo Brahe, dopo la morte di questi nell’ottobre del 1601,<br />

nel ruolo di Matematico imperiale. Keplero ebbe dunque la straordinaria<br />

opportunità di avere a disposizione il ricchissimo patrimonio di dati<br />

osservativi raccolti da Tycho Brahe. Su questo patrimonio, da lui definito<br />

“l’opera più importante di Tycho”, Keplero si sentì chiamato a costruire l’<br />

“edificio” della vera teoria astronomica, l’architettura dell’universo. Come<br />

nell’antichità Tolomeo aveva edificato il suo sistema a partire dalle<br />

osservazioni dell’astronomo Ipparco, afferma Keplero in una lettera al suo<br />

maestro Michael Maestlin scritta poco dopo la morte di Brahe, così “questo<br />

Ipparco [Tycho] aveva bisogno di un Tolomeo [Keplero] che edificasse, su<br />

quella base [le osservazioni di Tycho], le teorie degli altri cinque pianeti”.<br />

Il “Mysterium cosmographicum”<br />

Trovare una soluzione definitiva al problema della struttura del<br />

sistema planetario, e in particolare svelare le ragioni di tale struttura, il<br />

perché del numero e dei moti dei pianeti e delle dimensioni delle loro orbite,<br />

costituisce l’obiettivo di tutta l’attività scientifica di Keplero. Come scrive<br />

nel Mysterium cosmographicum, la sua opera prima dedicata appunto alla<br />

disposizione delle orbite dei pianeti, o “mistero cosmografico”,<br />

Di tre questioni ero principalmente impegnato a ricercare la<br />

ragione per la quale esse sono così e non in altro modo: il numero,<br />

l’estensione e il periodo degli orbi [le orbite] (J. Kepler, in P. Rossi, a<br />

cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, cit., p. 159).<br />

Perché i pianeti sono di quel dato numero, perché sono disposti<br />

precisamente a quelle date distanze dal sole, e perché possiedono quelle<br />

determinate velocità nel loro moto orbitale sono dunque le domande<br />

fondamentali che si pone Keplero, e alle quali risponderà, a tappe<br />

progressive, fino al completamento della sua visione cosmologica con<br />

l’Harmonices mundi (Armonie del mondo) del 1619.<br />

Quando compone il Mysterium nel corso del 1595, Keplero non ha<br />

ancora a disposizione i dati osservativi di Brahe, ma conosce bene quelli<br />

utilizzati da Copernico e la teoria di quest’ultimo. Nato nel 1571 a Weil der<br />

Stadt, cittadina vicino a Stoccarda, Keplero era stato introdotto al sistema<br />

copernicano durante gli studi all’Università di Tubinga dal suo “Maestro di<br />

Matematica” Michael Maestlin, che era un sostenitore di Copernico.<br />

Keplero viene subito talmente attratto dalla teoria copernicana da prenderne<br />

apertamente le difese, cercando al tempo stesso di svilupparla integrandone<br />

le “ragioni matematiche” con “ragioni fisiche e metafisiche”. Una prima<br />

articolazione di queste ragioni è contenuta nel Mysterium, ed è centrata sulla<br />

profonda convinzione che dominerà tutta la vita sia personale sia scientifica<br />

di Keplero: la convinzione dell’esistenza di un’ “armonia del mondo” che,<br />

espressione della perfezione di Dio, si manifesta in tutti gli aspetti del<br />

creato, dal sistema solare alle relazioni umane (e li connette fra loro). Da<br />

questo punto di vista, risulta naturale l’interesse che Keplero nutre anche per<br />

l’astrologia, tanto da dedicare addirittura un’opera ai fondamenti di questa<br />

“disciplina” (da lui considerata come un settore dell’astronomia). Un<br />

interesse che tra l’altro gli porta un certo successo quando, finiti gli studi, si<br />

trova ad occupare, nel 1594, il doppio incarico di insegnante di matematica<br />

14


15<br />

al seminario protestante di Graz, capitale della provincia austriaca della<br />

Stiria, e di “Mathematicus della provincia”. Tra i compiti che quest’ultima<br />

carica comportava, c’era infatti anche quello di stilare un calendario<br />

annuale con l’oroscopo, e Keplero si distinse subito riuscendo ad azzeccare<br />

alcune previsioni, come quella della particolare ondata di freddo che si<br />

avverò l’anno dopo il suo arrivo e quella di un’invasione dei Turchi in<br />

Europa.<br />

Parlando di “armonia” Keplero, influenzato dalle tradizioni<br />

pitagorica e neoplatonica, intende qualcosa di ben preciso, fondato sulla<br />

matematica, e cioè relazioni aritmetiche e figure geometriche. Mosso dalla<br />

persuasione che ci debba essere una ragione per tutto ciò che Dio ha creato e<br />

che questa ragione sia di natura matematica, è attraverso strumenti come le<br />

proporzioni e le figure regolari che Keplero cerca una soluzione al<br />

problema planetario.<br />

Tra le figure regolari, sono i cosiddetti “poliedri platonici” che<br />

forniscono la chiave di volta della costruzione cosmografica del Mysterium.<br />

Scrive Keplero nell’introdurre l’opera:<br />

Mi sono proposto di dimostrare, con questa operetta, o lettore,<br />

che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella<br />

disposizione dei cieli, guardò ai cinque corpi solidi regolari che tanto<br />

sono stati celebrati fino dal tempo di Pitagora e Platone e che dispose<br />

numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà<br />

di quei corpi (J. Kepler, in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica:<br />

da Copernico a Newton, cit., p. 159).<br />

In che modo, per Keplero, Dio avrebbe usato i cinque solidi regolari<br />

nella costruzione del mondo? Disponendo le cose in accordo alla seguente<br />

archittettura: i pianeti si muovono su sfere tutte centrate sul Sole e ordinate<br />

in modo tale che ognuno dei cinque poliedri si trovi incluso tra due sfere,<br />

secondo una precisa disposizione fondata su proporzioni numeriche.<br />

Procedendo dall’esterno verso l’interno (cioè verso il Sole), ai pianeti<br />

Saturno, Giove, Marte, Terra, Venere e Mercurio (i sei pianeti allora<br />

conosciuti) corrispondono sei sfere concentriche, separate l’una dall’altra,<br />

nell’ordine, da un cubo (esaedro), un tetraedro, un dodecaedro, un ottaedro,<br />

e un icosaedro (vedi figura).<br />

L’idea di utilizzare figure geometriche come i poliedri regolari nella<br />

descrizione del mondo fisico non è certo nuova nella storia della scienza<br />

(basti pensare al ruolo di questi poliedri nella dottrina degli elementi<br />

contenuta nel Timeo di Platone). Ma il modo in cui Keplero traduce<br />

quest’idea è del tutto inedito. Come racconta lui stesso, Keplero arriva alla<br />

sua particolare costruzione cosmografica sviluppando un’idea che gli era<br />

balenata in mente, nel corso di una lezione, mentre illustrava con un disegno<br />

un fenomeno relativo alle congiunzioni dei pianeti:<br />

Il giono 19 dell’anno 1595, mentre davo una dimostrazione ai<br />

miei scolari […] pensai che se avessi voluto far uso nel mio tentativo di<br />

tutte le figure regolari, non sarei mai stato in grado di arrivare fino al<br />

sole, né avrei individuato il motivo per cui gli orbi sono sei invece che<br />

venti o cento. […] Ritenevo che il mio desiderio sarebbe stato<br />

soddisfatto se avessi potuto far corrispondere alla reciproca grandezza<br />

15


16<br />

dei cieli (che Copernico stabilì essere sei) soltanto cinque figure fra tutte<br />

le infinite figure possibli, che avessero proprietà particolari che nessuna<br />

delle altre figure possiede. […] Se qualcuno […] venisse informato<br />

dell’esistenza di cinque solidi regolari, costui ricorderebbe subito il<br />

famoso scolio di Euclide […] nel quale si dimostra che non è possibile<br />

trovare o costruire più di cinque corpi regolari (J. Kepler, Mysterium,<br />

in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton,<br />

cit., p. 160-1).<br />

I pianeti sono sei perché ci sono solo cinque solidi regolari possibili.<br />

Così Keplero risponde alla prima delle tre domande base che motivano la<br />

sua opera. La costruzione fondata sui poliedri platonici gli fornisce una<br />

risposta anche alla seconda domanda: quella relativa alle distanze dei pianeti<br />

dal sole. Le “ragioni” che adduce per la sua teoria dei solidi regolari, cioè<br />

perché i solidi siano disposti proprio in quel modo tra le sfere planetarie,<br />

sono di natura fisica, matematica (come quella che giustifica il numero dei<br />

pianeti), ma anche metafisica, teologica e astrologica. Per esempio:<br />

distinguendosi i corpi regolari, in base alle proprietà matematiche, in due<br />

generi (il cubo, il tetraedro e il dodecaedro sono “corpi primari”, l’ottaedro e<br />

l’icosaedro “corpi secondari”), la terra, in quanto abitata dall’uomo che è il<br />

fine della creazione, è “degna” d’essere posta tra i due generi di corpi; il<br />

cubo ha la posizione più esterna perché rappresenta il solido più importante<br />

(essendo, tra le altre cose, l’unico solido generato dalla propria base, l’unico<br />

a indicare con i suoi elementi le tre direzioni dello spazio, l’unico ad avere<br />

sei lati come nell’uomo sono sei le possibili orientazioni); il cubo, con i suoi<br />

angoli retti, s’addice al carattere inesorabile e inflessibile di Saturno,<br />

l’ottaedro, per la sua mobilità, s’addice alla versatilità e rapidità d’ingegno<br />

di Mercurio; e via dicendo.<br />

L’uso dei poliedri platonici, per quanto basato in larga parte su<br />

“ragioni” che non chiameremmo oggi “scientifiche”, non è frutto di mera<br />

speculazione per Keplero: la sua architettura planetaria deve render conto<br />

dei valori osservati per le dimensioni delle orbite e per i moti dei corpi<br />

celesti. È dunque con grande entusiasmo che Keplero si reca da Tycho<br />

Brahe in Boemia: finalmente avrà a disposizione dati osservativi in gran<br />

numero, e ben più precisi di quelli precedenti, per verificare l’accordo della<br />

sua teoria cosmografica con l’esperienza. Il confronto con i dati di Brahe<br />

spingerà Keplero a modificare, in parte, la sua teoria, ma non lo porterà mai<br />

ad abbandonare del tutto il suo uso dei cinque solidi regolari; tanto che,<br />

ancora nel 1621, curerà una ristampa del Mysterium.<br />

La teoria dei poliedri regolari forniva una risposta alle prime due<br />

domande (relative, rispettivamente, al numero dei pianeti e alle loro distanze<br />

dal sole), ma non alla terza domanda: rimaneva da spiegare perché i pianeti<br />

avessero velocità che variavano non solo da pianeta a pianeta (la velocità<br />

risultava tanto minore quanto più distante era il pianeta dal Sole) ma anche<br />

all’interno di ogni orbita. La soluzione che propone Keplero nel Mysterium<br />

è la seguente: il Sole viene visto come la causa fisica del moto dei pianeti,<br />

la loro “anima motrice”; questa “virtus” solare mette in moto i pianeti e,<br />

distribuendosi nello spazio, si indebolisce con la distanza. Anche in questo<br />

caso coesistono, nella descrizione di Keplero, “ragioni” di varia natura, in<br />

cui entrano in gioco, per il ruolo fisico del Sole, considerazioni relative<br />

anche alla sua “bellezza” (“Il Sole è il corpo più bello, in qualche modo<br />

16


17<br />

l’occhio del mondo”), alla sua luminosità (che “adorna, dipinge e abbellisce<br />

gli altri corpi del mondo”), al suo calore (“il Sole è il focolare del mondo”),<br />

e così via.<br />

Questo intrecciarsi di geniali intuizioni fisiche e acute soluzioni<br />

matematiche con considerazioni di tutt’altro tipo è caratteristico dell’intera<br />

l’opera di Keplero. Per questa sua doppia natura, razionale e sperimentale da<br />

una parte, mistica e metafisica dall’altra, la figura di Keplero come<br />

scienzato è un emblema del processo evolutivo che avviene all’interno del<br />

sapere scientifico tra il Cinque e il Seicento.<br />

La “nuova astronomia” o “fisica dei cieli”<br />

Appena arrivato in Boemia, Keplero riceve subito l’incarico di<br />

occuparsi del problema dell’orbita di Marte, in vista della preparazione di<br />

nuove tavole astronomiche, dette “rudolfine”, in onore dell’imperatore<br />

Rodolfo <strong>II</strong>. Queste tavole dovevano sostituire, sual base dei nuovi dati<br />

osservativi raccolti da Brahe, quelle precedenti note come “pruteniche” (e<br />

che vedranno la luce, per opera di Keplero, solo nel 1627). Il moto orbitale<br />

di Marte era rimasto fino allora un mistero, per le numerose irregolarità che<br />

presentava e che nessuno dei sistemi astronomici esistenti permetteva di<br />

spiegare. Keplero impiegherà sei anni per venire a capo del problema, ma<br />

tutto il lavoro che compirà in questi anni è di capitale importanza in quanto<br />

gli permetterà di rivoluzionare la “fisica dei cieli”.<br />

Il risultato di questa sua fatica è contenuto nella sua opera più<br />

importante, l’Astronomia nova (il titolo per intero è, in italiano, la Nuova<br />

astronomia delle cause, o Fisica dei cieli), che termina di scrivere nel 1606<br />

ma non riesce a far pubblicare prima del 1609 (lo stesso anno in cui Galileo<br />

punterà il suo cannocchiale verso il cielo). Un lavoro a proposito del quale il<br />

grande astronomo e storico della scienza J. L. Dreyer ha affermato che<br />

“nella storia dell’astronomia ci sono solo altre due opere di pari importanza,<br />

il De revolutionibus di Copernico e i Principia di Newton”.<br />

Che cosa ottiene dunque Keplero di così rilevante combattendo con<br />

le difficoltà collegate al moto di Marte? Marte è il pianeta più eccentrico, in<br />

quanto la sua orbita si discosta da una circonferenza più di quelle degli altri<br />

pianeti. Questo significa che, proprio perché è il pianeta che presenta<br />

maggiori irregolarità quando si cerchi di descriverlo per mezzo di un’orbita<br />

circolare, è anche il pianeta il cui studio più facilmente può suggerire la vera<br />

forma dell’orbita. E infatti è proprio studiando i problemi posti dall’orbita di<br />

Marte, alla luce dei dati di Brahe, che Keplero arriva alla rivoluzionaria<br />

conclusione che le orbite dei pianeti non sono circolari ma ellittiche:<br />

Scopo principale della presente opera è di correggere la dottrina<br />

astronomica (particolarmente per ciò che attiene al moto di Marte) […]<br />

di modo che i dati che calcoliamo dalle tavole corrispondano ai dati<br />

ricavabili dall’osservazione dei fenomeni celesti. Il che, fino a questo<br />

momento non si è potuto fare in modo soddisfacente. […] Attraverso<br />

dimostrazioni molto laboriose e servendomi dei risultati di moltissime<br />

osservazioni, giunsi finalmente a stabilire che la traiettoria del pianeta<br />

in cielo non è circolare, ma è una traiettoria ovale perfettamente<br />

ellittica (J. Kepler, Astronomia nova, in P. Rossi, a cura di, La<br />

rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, cit., p. 165).<br />

17


18<br />

Infrangendo una tradizione millenaria e attraverso un faticosissimo<br />

cammino che si protrarrà per diversi anni (durante i quali Keplero<br />

approfondisce anche altri argomenti, come l’ottica, per la rilevanza di<br />

questa disciplina ai fini delle osservazioni astronomiche) e di cui fornisce<br />

un dettagliato resoconto nella sua opera, egli arriva dunque a stabilire che<br />

l’orbita di un pianeta ha la forma di un’ellisse di cui il Sole occupa uno dei<br />

fuochi. Questa conclusione è nota come prima legge di Keplero.<br />

Nel lungo percorso che lo porta alla scoperta della forma ellittica<br />

delle orbite planetarie, Keplero arriva anche a formulare, già nel 1602,<br />

quella che (nonostante sia la prima) è invece nota come seconda legge di<br />

Keplero: la linea che congiunge un pianeta con il Sole, o raggio vettore,<br />

descrive aree uguali in tempi uguali. Con questa legge Keplero riusciva a<br />

rendere conto di quanto risultava dai dati dell’osservazione, cioè della<br />

natura non uniforme del moto dei pianeti, e del modo in cui la loro velocità<br />

variava a seconda della distanza a cui si trovavano dal Sole lungo la propria<br />

traiettoria orbitale. Ma Keplero non si ferma a questa descrizione<br />

“geometrica”, cerca anche di chiarire la causa fisica della variazione di<br />

velocità dei moti orbitali e a tale scopo ricorre a “facoltà magnetiche”,<br />

ispirandosi al De Magnete pubblicato nel 1600 dall’inglese William Gilbert.<br />

Più precisamente Keplero attribuisce al Sole -- che teorizza che ruoti su sé<br />

stesso portandosi dietro nel suo moto i pianeti come se li sferzasse --<br />

un’emanazione magnetica, che attrae i pianeti (immaginati come piccoli<br />

magneti) quando i poli opposti sono più vicini, e li respinge leggermente per<br />

il resto dell’orbita:<br />

Dalla geometria appresi che una tale traiettoria viene descritta<br />

se si assegna al motore proprio dei pianeti la funzione di far oscillare il<br />

corpo lungo la linea retta che termina nel Sole. […] La mia costruzione<br />

fu infine terminata con l’aggiunta del tetto quando dimostrai che questa<br />

oscillazione [librazione] deve essere prodotta da una facoltà magnetica<br />

corporea. I motori che sono propri dei pianeti appaiono in tal modo<br />

essere, con ogni probabilità, affezioni degli stessi corpi planetari, simili<br />

a quell’affezione che è nel magnete che tende verso il polo e attrae il<br />

ferro. In tal modo tutto il sistema dei movimenti celesti è governato da<br />

facoltà meramente corporee, ossia magnetiche. Fa eccezione solo la<br />

rotazione locale del corpo Sole, per spiegare la quale sembra sia<br />

necessaria la forza proveniente da un’anima (J. Kepler, Astronomia<br />

nova, in P. Rossi, a cura di, La rivoluzione scientifica: da Copernico a<br />

Newton, cit., pp. 165-6).<br />

Con la sostituzione delle orbite circolari di Tolomeo, Copernico e<br />

Brahe con le orbite ellittiche, e del moto uniforme dei pianeti attorno a un<br />

punto (posto al centro o vicino al centro) con la legge di uniformità della<br />

velocità areale (la <strong>II</strong> legge di Keplero), veniva dunque eliminata ogni<br />

necessità di ricorrere a espedienti come erano stati gli eccentrici, gli epicicli<br />

o gli equanti dell’astronomia precedente. Come osserva Kuhn,<br />

Per la prima volta una singola curva geometrica, non combinata<br />

con altre curve, e una singola legge di moto bastano a prevedere la<br />

posizione dei pianeti, e per la prima volta queste previsioni sono in<br />

perfetto accordo con le osservazioni disponibili. La semplicità e l’unità<br />

18


19<br />

della natura, alle quali aspira Keplero, trovano così una loro precisa<br />

realizzazione (T. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 272).<br />

L’ “Armonia del mondo” e la terza legge<br />

Il sistema di leggi planetarie di Keplero viene portato a compimento<br />

con l’aggiunta, vari anni più tardi, di una terza legge, nota appunto come<br />

terza legge di Keplero. Si tratta di una legge di natura differente dalle<br />

prime due, apparentemente un po’ misteriosa: stabilisce che i quadrati dei<br />

periodi di rivoluzione di due pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro<br />

distanze medie dal Sole. Questa legge è contenuta nell’opera più singolare<br />

di Keplero, con la quale egli tenta di costruire una teoria coerente<br />

dell’universo interamente fondata su leggi armoniche: l’opera, che s’intitola<br />

Harmonices mundi libri quinque, viene terminata nel 1618 e pubblicata nel<br />

1619 a Linz, dove Keplero si è trasferito da quando, nel 1612, aveva dovuto<br />

lasciare Praga in seguito all’abdicazione di Rodolfo <strong>II</strong>. A Linz Keplero<br />

rimarrà per 14 anni con la qualifica di Matematico del Distretto, finché per<br />

motivi religiosi connessi alla Guerra dei Trent’anni sarà costretto a cambiare<br />

di nuovo, iniziando un vagabondaggio presso vari mecenati fino alla morte,<br />

che lo coglierà a Ratisbona nel 1630.<br />

Con l’Harmonices mundi Keplero intende portare a compimento<br />

l’opera intrapresa con il Mysterium cosmographicum: mostrare come<br />

l’intero creato sia governato da leggi armoniche, dando una ragione<br />

matematica di tutto ciò che concorre a formare l’ “armonia del mondo”.<br />

Dopo molti anni, con il bagaglio dei risultati astronomici e fisici da lui nel<br />

frattempo ottenuti, e di un’accurato studio delle basi teoriche della musica,<br />

Keplero riprende dunque la tematica “pitagorica” del Mysterium e cerca una<br />

nuova legge che permetta di superare i limiti della descrizione precedente.<br />

Nella sua costruzione cosmografica basata sui solidi regolari si era infatti<br />

occupato solo della “struttura spaziale” del sistema planetario, lasciando<br />

aperto il problema della “struttura temporale”: cioè il problema del rapporto,<br />

per i pianeti, tra la durata dei loro periodi di rivoluzione e la grandezza delle<br />

orbite. Alla “descrizione statica” fondata sui cinque solidi regolari Keplero<br />

affianca ora una “descrizione dinamica”, per cui i moti orbitali vengono a<br />

essere collegati a una teoria musicale del sistema planetario, sulla base<br />

dell’associazione a ogni pianeta di un “tono” o “modo musicale”.<br />

In questo contesto si comprende il valore capitale che assume per<br />

Keplero la scoperta della terza legge: il rapporto tra i cubi (l’esponente 3) e i<br />

quadrati (l’esponente 2) contenuto nella legge, rispecchia il ruolo fondante<br />

che ha la “proporzione sesquialtera” (cioè il rapporto 3/2, che produce, in<br />

musica, l’intervallo detto di “quinta”) nel sistema musicale pitagorico.<br />

Come scrive Keplero, la chiave di volta per “vincere le tenebre della mente”<br />

dopo “22 anni di attesa” dal Mysterium è data dal fatto “certissimo ed<br />

esattissimo” che “la proporzione che lega i tempi periodici di ciascuna<br />

coppia di pianeti sia precisamente la proporzione sesquialtera delle distanze<br />

medie” (la sua terza legge). Un risultato che, è importante sottolineare,<br />

Keplero mette subito a confronto con i dati sperimentali di Tycho Brahe,<br />

trovando un tale accordo tra questi e la sua teoria che “sulle prime pensa di<br />

sognare”.<br />

19


20<br />

La fortuna di Keplero<br />

Le tre leggi di Keplero, che ancora troviamo oggi, così denominate,<br />

nei manuali di fisica, emergono dunque da un contesto che avremmo<br />

difficoltà a qualificare come “scientifico”. Questo spiega la fortuna<br />

controversa che ebbero, tra i contemporanei di Keplero, le sue opere. Con il<br />

suo misticismo dei numeri e la sua metafisica delle armonie da una parte, la<br />

sua razionalità matematica e l’attenzione ai dati sperimentali dall’altra,<br />

Keplero rappresenta una figura di passaggio. La sua “antichità” si esprime<br />

nei temi pitagorici e neoplatonici che ne permeano le opere e nel suo<br />

mescolare, nelle costruzioni teoriche, a “ragioni” di tipo fisico e matematico<br />

ragioni di tutt’altra natura; la sua “modernità” si esprime nella ricerca<br />

sistematica di precise leggi matematiche che regolino i moti e le dimensioni<br />

orbitali dei pianeti, e di “cause fisiche” che spieghino le caratteristiche e le<br />

particolarità.<br />

Se nella prospettiva odierna è possibile avere una chiara visione di<br />

questa distinzione tra gli aspetti antichi e moderni di Keplero, questo non<br />

vale per i suoi contemporanei, per i quali non era certo facile discriminare<br />

tra quanto di davvero scientifico e quanto di arbitraria speculazione ci fosse<br />

nelle opere di Keplero. Come sottolinea Rossi,<br />

era difficile rilevare queste differenze [tra Keplero e il pensiero<br />

magico], accogliere risultati scientifici presentati come divine<br />

rivelazioni, accettare di ripercorrere il tortuoso cammino descritto da<br />

Keplero, muoversi all’interno di un sistema di idee che non offriva né le<br />

ormai familiari difficoltà di classici, né la limpida chiarezza dei testi<br />

della nuova filosofia ((P. Rossi, La rivoluzione astronomica, in P. Rossi, a<br />

cura di, Storia della scienza moderna, Vol. 1, cit., p. 191).<br />

Galileo, in particolare, non comprenderà mai davvero la rilevanza<br />

dei risultati raggiunti da Keplero (con grande dispiacere di quest’ultimo, che<br />

di Galileo aveva invece grandissima stima), giudicandolo molto distante dal<br />

proprio modo di essere scienziato (riterrà perfino che alcune tesi di Keplero<br />

fossero “più tosto a diminutione della dottrina di Copernico che a<br />

stabilimento”). Bacone lo ignorerà completamente, e Cartesio lo ricorderà<br />

soltanto per i contributi sull’ottica. In realtà è solo dopo gli anni sessanta del<br />

Seicento, quando Newton ne farà uso nella sua opera, che le leggi di<br />

Keplero acquisteranno finalmente piena credibilità nel mondo scientifico.<br />

5. Galileo e la nascita della scienza moderna<br />

Il “Sidereus Nuncius”<br />

Nel 1609 il quarantacinquenne professore di matematica allo Studio<br />

di Padova Galileo Galilei punta un giorno verso il cielo il cannocchiale<br />

costruito con le proprie mani e comincia una serie di osservazioni: questa<br />

immagine ha assunto il significato simbolico della nascita della scienza<br />

moderna. Lo studioso che, non solo manifesta fiducia in uno strumento nato<br />

20


21<br />

nell’ambiente degli artigiani e dei meccanici, solitamente disprezzati dalla<br />

scienza ufficiale, ma non esita ad agire egli stesso da artigiano, ricostruendo<br />

quello strumento per poi usarlo con metodo e spirito scientifico ai fini della<br />

conoscenza della natura, è l’emblema del “nuovo uomo di scienza”. Come<br />

ricorda Rossi,<br />

nella cultura tradizionale era presente, nei confronti delle arti<br />

meccaniche e del lavoro manuale, tutta una serie di pregiudizi. Tali<br />

pregiudizi trovavano precisa espressione anche nella diffidenza per<br />

l’uso di strumenti concepiti come aiuti per i sensi. L’atteggiamento<br />

assunto da Galilei nei confronti del cannocchiale segna da questo punto<br />

di vista una svolta di importanza decisiva. […] Il cannocchiale non è per<br />

Galilei né uno strumento curioso costruito per il diletto degli uomini di<br />

corte, né un oggetto la cui utilità si esaurisca nell’uso immediato che<br />

possono farne i navigatori o i generali nelle battaglie. Egli impiega il<br />

cannocchiale come strumento scientifico, lo volge verso il cielo con<br />

spirito metodico […] (P. Rossi, in La rivoluzione scientifica da Copernico<br />

a Newton, cit., p. 66).<br />

Che cosa “vede” dunque Galileo con questo strumento che usa per<br />

osservare con sistematicità il cielo, per fare “centinaia e migliaia di<br />

esperienze in mille e mille oggetti, e vicini e lontani, e grandi e piccoli, e<br />

lucidi e oscuri”? Il vedere attraverso il cannocchiale è un nuovo modo di<br />

vedere, che permette innanzitutto di scoprire aspetti diversi di cose già viste.<br />

Come nel caso della Luna, la cui superficie vista da più vicino appare non<br />

più “liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli<br />

altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto”, ma simile a<br />

quella terrestre, con irregolarità dello stesso genere (contro la distinzione<br />

della tradizione aristotelica tra mondo celeste e mondo sublunare); e come<br />

nel caso della Via Lattea e delle nebulose, che Galileo scopre essere, invece<br />

che semplici “nubi biancheggianti” di cui non si conosceva l’essenza, degli<br />

ammassi di miriadi di stelle:<br />

Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter<br />

rimirare il corpo lunare, da noi remoto quasi sessanta semidiametri<br />

terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure;<br />

[…] e quindi con la certezza che è data dell’esperienza sensibile, si possa<br />

apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e<br />

levigata, ma scabra e ineguale, e allo stesso modo della faccia della<br />

Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di<br />

profonde valli e di anfratti.<br />

Di più, l’aver rimosse le controversie riguardo alla Galassia o<br />

Via Lattea, con l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto,<br />

l’essenza sua, non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come<br />

anche il mostrare direttamente essere la sostanza di quelle Stelle, che fin<br />

qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da<br />

quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante (G.<br />

Galilei, Sidereus Nuncius, in P. Rossi, La rivoluzione scientifica, cit., p.<br />

73).<br />

21


22<br />

L’osservazione attraverso il cannocchiale rivela anche una differenza<br />

sostanziale tra le stelle e i pianeti: le prime -- punti luminosi circondati da<br />

“raggi brillanti” -- “si mostrano di uguale figura all’occhio nudo e viste al<br />

cannocchiale” (sono dunque lontanissime); i secondi invece, cambiano<br />

notevolmente di grandezza, “presentano i loro globi esattamente rotondi e<br />

definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono<br />

circolari”.<br />

Ma vedere attraverso il cannocchiale porta anche, e soprattutto, a<br />

scoprire cose nuove, mai viste prima. Oltre all’improvviso popolarsi del<br />

cielo di innumerevoli stelle “invisibili alla vista naturale”, come nel caso di<br />

quelle componenti la Via Lattea, Galileo fa una delle sue più importanti<br />

scoperte astronomiche: “vede” le quattro lune o satelliti di Giove. La Terra<br />

non è più l’unico pianeta ad avere una sua “luna”: “il senso mostra quattro<br />

stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra”. Il<br />

pisano Galileo le battezzerà “stelle medicee” in onore del Granduca di<br />

Toscana Cosimo <strong>II</strong> dei Medici, che, offrendogli il posto di “Filosofo e<br />

matematico primario” a Firenze, gli permetterà di tornare nella regione<br />

d’origine dopo diciotto anni trascorsi a Padova (dove era arrivato nel 1592).<br />

Al Granduca Galileo dedica anche il volumetto dal titolo Sidereus<br />

Nuncius, pubblicato a Venezia nel marzo del 1610, nel quale annunciava le<br />

scoperte fatte con il cannocchiale e le conseguenze che ne derivavano per la<br />

filosofia naturale e la concezione del mondo. Galileo era da tempo un<br />

convinto sostenitore del sistema copernicano. Come aveva scritto nel 1597 a<br />

Keplero quando questi gli aveva mandato una copia del Mysterium<br />

cosmographicum, egli si era convertito da molti anni alla teoria di<br />

Copernico e aveva scritto “molte ragioni per preferirla e confutazioni agli<br />

argomenti contrari”, ma senza aver osato pubblicare nulla. Nel 1604, quando<br />

si era di nuovo verificato un evento analogo a quello della “stella nova”<br />

studiata nel 1572 da Tycho Brahe – fenomeni che mettevano in difficoltà la<br />

tesi aristotelica dell’immutabilità dei cieli --, Galileo aveva cominciato a<br />

esporre pubblicamente il proprio pensiero, sia in conferenze sia attraverso<br />

un opuscolo in dialetto padovano (di cui non figurava come autore)<br />

intitolato Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la<br />

Stella Nuova (stampato nel 1605), criticando la pretesa da parte di una certa<br />

filosofia di risolvere i problemi astronomici solo per mezzo di<br />

considerazioni metafisiche e non invece, come era opportuno, attraverso<br />

determinate misure.<br />

Le misure ottenute per mezzo del cannocchiale permisero a Galileo<br />

di aggiungere presto ai risultati esposti nel Sidereus Nuncius altre<br />

fondamentali scoperte astronomiche: da quella relativa alla particolare<br />

configurazione di Saturno, che gli risultava come formato da tre corpi sferici<br />

(Galileo non aveva uno strumento sufficientemente potente per visualizzare<br />

gli anelli di Saturno), alla scoperta delle fasi di Venere. Il fatto (non<br />

spiegabile nel sistema tolemaico) che il pianeta Venere “va mutando le<br />

figure nell’istesso modo che fa la Luna” fornisce, per Galileo, un argomento<br />

decisivo a favore della teoria copernicana: Venere, nel suo moto intorno<br />

alla Sole, doveva presentare fasi alterne di illuminazione come accadeva per<br />

la Luna. Dopo questi risultati Galileo lascia da parte ogni cautela: è ormai<br />

convinto di avere “sensate e certe dimostrazioni” delle due grandi questioni<br />

rimaste fino allora “dubbie tra’ maggiori ingegni del mondo”: cioè il fatto<br />

che i pianeti ruotino intorno al sole e che siano corpi opachi, che brillano<br />

22


23<br />

solo di luce riflessa. Come scrive nel gennaio del 1611 a Giuliano dei<br />

Medici:<br />

Venere necessarissimamente si volge intorno al Sole, come anco<br />

Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pitagorici,<br />

Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in<br />

Venere e Mercurio. Avranno dunque il Sig. Keplero e gli altri<br />

Copernicani da gloriarsi di aver creduto e filosofato bene, sebbene ci è<br />

toccato e ci è per toccare ancora ad essere reputati dall’universalità dei<br />

filosofi in libris per poco intendenti e poco meni che stolti (G. Galilei,<br />

Opere, Firenze, Barbera, 1890-1909, Vol. XI, p. 12).<br />

Il colpo di grazia per questi “filosofi in libris”, “il funerale o<br />

piuttosto l’estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia”, è rappresentato<br />

per Galileo dalla soluzione del problema delle macchie solari alla quale<br />

arriva grazie alle accurate misure che gli permette l’uso del cannocchiale.<br />

Contro l’ipotesi che le macchie fossero causate da corpi in moto nello spazio<br />

tra Terra e Sole, Galileo dimostra che le macchie sono contigue alla<br />

superficie del Sole e che il loro moto indica, di conseguenza, un vero e<br />

proprio movimento del Sole. Galileo è persuaso che questo non possa creare<br />

alcuna difficoltà “agli ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non<br />

essere mai stato con efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare,<br />

che la parte del mondo fuori del concavo dell’orbe lunare non sia soggetta<br />

alle mutazioni e alle alterazioni”, come scrive in una delle lettere raccolte e<br />

pubblicate nel 1613 con il titolo Istorie e dimostrazioni intorno alle macchie<br />

solari.<br />

Lo studio sperimentale e matematico dei moti terreni<br />

La polemica galileiana contro il sapere scientifico tradizionale non si<br />

esplica solo nell’ambito dell’astronomia. Un altro terreno su cui Galileo<br />

viene a scontrarsi con l’aristotelismo è quello della teoria fisica del moto dei<br />

corpi pesanti (o “gravi”), sia in caduta libera sia “proiettati”. Le ricerche<br />

sul moto occupano tutta la vita scientifica di Galileo: a cominciare dalle<br />

prime indagini svolte durante gli anni pisani che precedono il suo<br />

trasferimento a Padova nel 1592 (e durante i quali ricopre un posto di lettore<br />

di matematica allo Studio di Pisa), fino alla sua ultima grande opera,<br />

intitolata Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze<br />

attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, che raccoglie e organizza<br />

tutti i suoi risultati sulla fisica e matematica del moto e sulla resistenza dei<br />

materiali.<br />

Quando, tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento,<br />

Galileo comincia a dedicarsi allo studio dei movimenti dei gravi, una teoria<br />

fisica del moto in senso moderno è ancora tutta da costruire. La fisica allora<br />

dominante era quella della tradizione aristotelica, le cui tesi principali si<br />

fondavano su generalizzazioni di osservazioni empiriche ricavate<br />

dall’esperienza quotidiana. Dominava l’idea, basata sul principio che tutto<br />

ciò che si muove è mosso (finché dura il movimento) da qualcosa, che ci<br />

fosse una distinzione fondamentale e qualitativa tra stato di quiete e stato di<br />

moto: l’esperienza comune suggerisce infatti che un carretto stia fermo se<br />

non riceve nessuna spinta, che si muova se viene spinto, che il suo moto<br />

23


24<br />

cessi appena ne cessa la causa (la forza con cui è trascinato). Non esistevano<br />

nozioni precise di che cosa fossero la velocità e l’accelerazione (non si<br />

sapeva, per esempio, che la velocità media fosse uguale allo spazio percorso<br />

diviso per l’intervallo di tempo necessario a percorrerlo); nello studio dei<br />

movimenti, l’attenzione era concentrata sulla velocità piuttosto che<br />

sull’accelerazione, che si pensava fosse presente solo in una fase iniziale e<br />

transitoria del moto; e si riteneva, infine, che la velocità del movimento<br />

fosse direttamente proporzionale alla forza applicata.<br />

Tutte queste supposizioni, apparentemente giustificate<br />

dall’immediata esperienza dei sensi, sono errate dal punto di vista della<br />

fisica moderna: il principio d’inerzia (la cosiddetta “prima legge di<br />

Newton”) ci dice che non c’è differenza qualitativa tra uno stato di quiete e<br />

uno stato di moto rettilineo uniforme, e che ci può dunque essere uno stato<br />

di moto senza che venga applicata una forza; la legge fondamentale della<br />

meccanica (nota come “seconda legge di Newton”) stabilisce che è<br />

l’accelerazione a essere direttamente proporzionale alla forza applicata, non<br />

la velocità. Questo ci fa capire come, per l’uomo di scienza del Seicento, la<br />

via per arrivare a una formulazione moderna delle leggi del moto non era<br />

quella della semplice generalizzazione a partire da esperienze empiriche<br />

particolari; allo scienzato Galileo occorreva compiere un’operazione di<br />

astrazione dalle situazioni particolari e contingenti che erano oggetto di<br />

osservazione. In altre parole, occorreva la capacità di distinguere gli<br />

elementi costitutivi del fenomeno indagato da quelli puramente accidentali.<br />

Nei suoi studi sul moto dei gravi in caduta libera e dei “proietti”,<br />

Galileo compie i primi fondamentali passi in questa direzione. Si rende<br />

progressivamente conto di come la resistenza del mezzo in cui avviene il<br />

moto sia solo un elemento accidentale e non costitutivo del moto, al<br />

contrario di quanto si era fin lì ritenuto, e cerca di realizzare esperimenti in<br />

condizioni tali da minimizzare l’azione perturbatrice del mezzo: sia con<br />

strumenti che riducano gli attriti, sia sperimentando su moti più lenti di<br />

quelli dei gravi in caduta libera, come i moti oscillatori dei pendoli e i moti<br />

su piani inclinati. Allo stesso tempo costruisce strumenti di misura, come il<br />

cronometro ad acqua per misurare gli intervalli di tempo, e ne affina via via<br />

la precisione, allestendo nella propria abitazione un vero e proprio<br />

laboratorio (anche con l’aiuto di un tecnico). Il cammino che Galileo<br />

percorre in questo modo verso una moderna fisica del moto passa attraverso<br />

i due seguenti fondamentali risultati, ottenuti rispettivamente nel 1604 e<br />

intorno al 1608:<br />

1) la legge di caduta dei gravi: partendo dalla premessa errata che la<br />

velocità di un grave in caduta libera sia proporzionale allo spazio<br />

percorso (invece che al tempo trascorso, come sarebbe arrivato a<br />

concludere correttamente in seguito), Galileo arriva attraverso un<br />

ragionamento di natura “geometrica” (basato sulle similitudini tra<br />

figure -- vedi la fig. ..) alla giusta conclusione che gli spazi percorsi<br />

sono proporzionali ai quadrati dei tempi necessari per percorrerli;<br />

2) la forma parabolica delle traiettorie dei proietti: Galileo giunge a<br />

questo risultato applicando allo studio dei moti di proietti, come<br />

quello descritto da una pallina tra l’istante in cui abbandona il piano<br />

inclinato e l’istante in cui colpisce il suolo, la pratica geometrica di<br />

composizione dei moti fino allora applicata solo ai moti celesti.<br />

Secondo la concezione tradizionale, fondata sulla distinzione<br />

24


25<br />

aristotelica tra moto naturale (il moto con cui un corpo tende al<br />

proprio “luogo naturale”) e moto violento (il moto provocato<br />

dall’azione di una forza), l’intero moto di un corpo lanciato nell’aria<br />

era costituito dalla successione (invece che dalla composizione) del<br />

moto violento dovuto al lancio, che a un certo punto s’interrompeva,<br />

e del moto naturale di caduta verso il basso. Galileo comprende che<br />

non c’è discontinuità tra i due moti (quello dovuto al lancio e quello<br />

di caduta), annullando così di fatto la distinzione tra moti naturali e<br />

violenti, e che la loro composizione “geometrica” dà come risultato<br />

una traiettoria parabolica (vedi fig. ..).<br />

Scienza, filosofia e fede (1): dal richiamo del cardinale Bellarmino<br />

alla teoria della conoscenza del “Saggiatore”<br />

Le posizioni di Galileo nettamente a favore del sistema copernicano<br />

e contro alcune tesi fondamentali della fisica aristotelica cominciarono<br />

presto a suscitare critiche e polemiche specialmente negli ambienti religiosi.<br />

Galileo, accusato da più parti di voler sovvertire, con i suoi argomenti, la<br />

filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, comprese di doversi<br />

difendere e provò a farlo in una lettera inviata all’amico Benedetto Castelli<br />

nel dicembre del 1613, in modo che nell’ambiente della corte dei Medici si<br />

venisse a conoscenza di ciò che egli pensava del rapporto tra scienza e fede.<br />

La linea difensiva di Galileo si basava sulla distinzione tra verità delle<br />

Scritture (verità de fide) e verità della scienza (verità de rerum natura): le<br />

divine scritture sono assoltamente vere quando si occupano dei problemi de<br />

fide, ma per quanto riguarda i problemi de rerum natura si limitano a<br />

pochissimi riferimenti, tali che possano essere compresi da persone senza<br />

cultura. Spettava dunque al buon cristiano di interpretare con saggezza quei<br />

riferimenti, non fermandosi al senso letterale di quanto era spesso scritto in<br />

un linguaggio metaforico.<br />

Il tentativo di conciliazione tra teologia e astronomia copernicana<br />

operato da Galileo si rivela subito troppo debole e nel 1615 egli viene<br />

denunciato al Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana per affermazioni<br />

“sospette e temerarie” contenute nella lettera al Castelli. Nel febbraio del<br />

1616 i teologi del Sant’Uffizio stendono l’atto di censura sulle affermazioni<br />

che sostengono il moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni dopo<br />

Galileo viene convocato e “ammonito” dal cardinale Bellarmino: gli fu<br />

ordinato di “abbandonare completamente detta opinione, non accoglierla,<br />

difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e con scritti”. Poco dopo<br />

usciva il decreto di condanna della Sacra Congregazione dell’Indice che<br />

proibiva tutti i libri che sostenevano la dottrina copernicana, a partire dal De<br />

revolutionibus stesso.<br />

A Galileo veniva dunque “serrata la bocca” e tale sarebbe rimasta<br />

fino a quando, nel 1623, non avrebbe dato alle stampe Il Saggiatore.<br />

L’occasione che si offre a Galileo per tornare pubblicamente in campo è la<br />

polemica con il gesuita Orazio Grassi, matematico presso il Collegio<br />

Romano, a proposito della teoria di questo sulle comete. Contro il Grassi,<br />

Galileo interviene in realtà già nel 1619, suggerendo all’amico Mario<br />

Guiducci il testo del Discorso sulle comete (uscito a nome del Guiducci). A<br />

questo testo il Grassi aveva risposto con uno scritto in chiave chiaramente<br />

25


26<br />

antigalileiana, intitolato Libra astronomica et philosophica, che costituisce<br />

l’obiettivo polemico del Saggiatore.<br />

Qual era dunque il fulcro della polemica? Il Grassi, contro chi usava<br />

il fenomeno delle comete a favore della dottrina copernicana, sosteneva che<br />

queste compiono orbite circolari attorno al Sole, elaborando una tesi già<br />

difesa da Tycho Brahe, e asseverandola con misure di parallasse da cui<br />

deduceva che le comete non potevano muoversi al di sotto dell’orbita<br />

lunare. Il suo vero obiettivo, che non sfuggiva a Galileo, era di sostenere la<br />

superiorità del sistema ticonico rispetto a quello copernicano.<br />

Galileo non disponeva di una teoria sulla natura delle comete e sul<br />

loro moto. Ma ciò che lo preoccupava era soprattuto l’idea che si potesse far<br />

leva su una teoria delle comete per confutare il sistema copernicano.<br />

L’attacco di Galileo alle tesi di Grassi ha dunque come scopo quello di<br />

demolire la base osservativa su cui si regge la tesi del gesuita. Il punto che<br />

mette a fuoco la questione, per Galileo, diventa così quello della realtà o<br />

meno degli oggetti da sottoporre a misura: se quindi le comete siano oggetti<br />

reali (come sostengono Tycho Brahe e Grassi) o non lo siano, come egli<br />

vuole dimostrare. Il ragionamento sul quale si basa per raggiungere questo<br />

scopo è centrato sulla famosa distinzione che introduce tra le qualità<br />

oggettive dei corpi (come le configurazioni geometriche, le disposizioni<br />

nello spazio, gli stati di movimento e il numero delle parti costituenti i<br />

corpi), che esistono indipendentemente dal soggetto conoscente, e le qualità<br />

soggettive (come i colori, i sapori, gli odori, i suoni e il calore), cioè le<br />

qualità che si costituiscono solo nella relazione dell’oggetto naturale con la<br />

sensibilità del soggetto:<br />

Per tanto io vi dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito<br />

che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme<br />

ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in<br />

relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in<br />

questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non<br />

tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna<br />

imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba<br />

esser bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato<br />

odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali<br />

condizioni necessariamente accompagnata: anzi se i sensi non ci fussero<br />

scorta, forse il discorso o l’immaginazione per sé stessa non<br />

v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori,<br />

odori, colori etc., per la parte del suggetto nel qual ci par che riseggano,<br />

non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel<br />

corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, siano levate e annichilate tutte<br />

queste qualità [...] Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori,<br />

gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e<br />

movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via le<br />

orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma<br />

non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dall’animale vivente<br />

non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è<br />

il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso (G.<br />

Galilei, Il Saggiatore, in Opere, cit., Vol. VI, p. ? ).<br />

La riflessione di Galileo riguarda qui il tema del rapporto tra<br />

26


27<br />

percezione e realtà, tra ciò che ci appare e ciò che esiste veramente. La<br />

conoscenza scientifica deve essere indipendente dalle particolarità del<br />

“corpo sensitivo”, deve rivolgersi solo a ciò che realmente caratterizza il<br />

mondo esterno. Solo in questo modo, cioè riferendosi alle qualità oggettive,<br />

la conoscenza può progredire verso la verità. Galileo esprime chiaramente,<br />

in questo punto, la tesi del carattere “oggettivo” della scienza modernamente<br />

intesa (quella che, abbiamo visto, nasce con la “rivoluzione scientifica”):<br />

nella descrizione della natura dovevano essere eliminati tutti gli elementi<br />

soggettivi e qualitativi che non facevano parte dell’architettura oggettiva<br />

dell’universo, quegli elementi su cui invece si erano basate, per esempio, la<br />

magia e l’astrologia (fondate proprio sulla possibile influenza dell’uomo<br />

sulla natura e della natura sull’uomo).<br />

Come utilizza dunque Galileo la sua teoria della conoscenza contro<br />

la tesi del Grassi sulle comete? L’argomento di Galileo è il seguente: le<br />

comete fanno parte del mondo delle apparenze, delle qualità soggettive, e<br />

quindi non sono oggetto di scienza. Non sono corpi reali ma illusioni<br />

ottiche: tolta la vista, esse svaniscono. Oggi sappiamo che Galileo era in<br />

errore nel considerare le comete come pure apparenze, ma la sua<br />

argomentazione deve essere giudicata inserendola nel contesto in cui egli<br />

opera. All’epoca, dal punto di vista scientifico non c’erano infatti argomenti<br />

validi per sostenere il carattere reale delle comete. L’atteggiamento di<br />

Galileo era quindi quello di un vero scienzato: i dati a disposizione non<br />

permettevano al Grassi di difendere la tesi ticonica delle comete. Il Grassi<br />

aveva così scelto in modo infondato il problema delle comete per difendere<br />

il sistema ticonico. Per questo Galileo gli rimprovera di essersi basato,<br />

nell’agire in tale maniera, più sull’autorità di Tycho Brahe che non su<br />

argomenti veri e controllabili. L’errore del Grassi, secondo Galileo, sta<br />

proprio nel modo di concepire la filosofia naturale, stimando che “la<br />

filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo come l’Iliade e l’Orlando<br />

Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto<br />

sia vero”. La filosofia naturale è invece, secondo Galileo, qualcosa di molto<br />

diverso:<br />

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che<br />

continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo) ma<br />

non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e<br />

conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua<br />

matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure<br />

geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente<br />

parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto<br />

(G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere, cit., p. 232).<br />

In questo passo diventato famosissimo e che ha fatto parlare di<br />

“platonismo” di Galileo, viene dunque ribadita la ferma convinzione<br />

galileiana della necessità di usare gli strumenti adeguati nell’esplorazione<br />

della natura: innanzitutto quelli matematici, solo attraverso i quali si può<br />

raggiungere la verità sulla struttura fisica “oggettiva”, e quindi quantitativa,<br />

del mondo. E le teorie sulla natura devono essere valutate in base alla verità<br />

o meno di quello che dicono, non in base a criteri di autorità. La scienza non<br />

si limita a formulare ipotesi per salvare i fenomeni (come sostenevano molti<br />

a proposito della teoria copernicana), ma ha lo scopo di svelare, attraverso<br />

27


28<br />

gli strumenti adatti, come il mondo è veramente fatto.<br />

Scienza, filosofia e fede (2): il “Dialogo”, la condanna e l’abiura<br />

Quando Galileo scrive Il Saggiatore la situazione politica era decisamente<br />

migliorata. Nel 1621 era morto il cardinale Bellarmino, e nel 1623 era stato<br />

eletto come nuovo Papa, con il nome di Urbano V<strong>II</strong>I, il cardinale Maffeo<br />

Barberini, che aveva in più occasioni manifestato la sua stima per Galileo.<br />

Nel nuovo clima di maggiore tolleranza che si era instaurato, Galileo si<br />

sentì incoraggiato a proseguire la sua opera in difesa del copernicanesimo e<br />

in particolare a sviluppare il progetto della stesura di un Dialogo sopra il<br />

flusso e il riflusso delle maree, con il quale aveva l’intenzione di mettere<br />

definitivamente a tacere gli oppositori della dottrina del moto della Terra.<br />

Era infatti sua ferma convinzione che la spiegazione del fenomeno delle<br />

maree sulla base del moto della Terra costituisse l’argomento fisico decisivo<br />

a favore dell’ipotesi copernicana. Sotto tale rispetto egli era in errore, ma si<br />

può comprendere come, fedele al suo metodo scientifico, il “nuovo uomo di<br />

scienza” Galileo non potesse accettare la spiegazione che si basava su non<br />

ben determinati “influssi” da parte della Luna, che all’epoca apparivano<br />

alquanto misteriosi e a Galileo sembravano dello stesso genere delle qualità<br />

occulte del sapere magico.<br />

Il testo sarà pronto agli inizi del 1630, ma Galileo dovrà aspettare il<br />

1632 per ottenere l’autorizzazione alla stampa, e dovrà accettare di cambiare<br />

il titolo in Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e<br />

copernicano. L’opera è scritta in volgare, in quanto non è diretta ai ristretti<br />

ambienti accademici ma al pubblico ben più vasto della borghesia, del clero<br />

e delle corti. Da qui anche il tono colloquiale che è favorito dalla struttura<br />

del testo, che riproduce, sotto forma di dialogo, il dibattito tra tre<br />

protagonisti: Sagredo (ispirato al patrizio veneziano Giovan Francesco<br />

Sagredo, nel cui palazzo si immagina svolgersi la discussione), che raffigura<br />

l’intellettuale libero e senza pregiudizi; Salviati (ispirato al fiorentino<br />

Filippo Salviati) che impersona lo scienzato che argomenta in modo calmo e<br />

misurato a favore della dottrina copernicana; e Simplicio, l’unico<br />

personaggio fittizio, che rappresenta il difensore della tradizione aristotelica,<br />

e che pur non essendo uno sprovveduto teme ogni novità che vada contro il<br />

sapere costituito. Per esempio, a Salviati che argomenta contro la distinzione<br />

aristotelica tra il mondo celeste immutabile e incorruttibile e il mondo<br />

terreno soggetto al mutamento e alla corruzione, Simplicio risponde:<br />

Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la<br />

filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in con quasso il cielo e la<br />

Terra e tutto l’universo. Ma io credo che i fondamenti de i Peripatetici<br />

sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si possano<br />

costruire nuove scienze (G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi,<br />

in Opere, cit. , V<strong>II</strong>, p. 62).<br />

Simplicio rappresenta tipicamente la mentalità che predilige il valore<br />

dell’autorità alla lezione del ragionamento e dell’esperienza. Se si lascia<br />

l’autorità di Aristotele, chiede a un certo punto Simplicio, su quale altra<br />

autorità basarsi, “chi ne ha da essere scorta nella filosofia”? La risposta che<br />

Galileo dà per mezzo di Salviati è diventata il manifesto della sua filosofia:<br />

28


29<br />

Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i<br />

luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è<br />

tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella<br />

mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si<br />

deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente<br />

studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si<br />

sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva<br />

avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro<br />

disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender<br />

la forza delle sue dimostrazioni, E qual cosa è più vergognosa che ‘l<br />

sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni<br />

dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in<br />

ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma<br />

quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare,<br />

deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria;<br />

ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino<br />

l’onorato titolo di filosofo. […] Però, signor Simplicio, venite pure con le<br />

ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotele, e non con testi e<br />

nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo<br />

sensibile, e non sopra un mondo di carta (ibid., pp. 138-139).<br />

L’intera discussione tra i tre personaggi è articolata in quattro<br />

giornate. La prima giornata è dedicata alla dimostrazione dell’insostenibilità<br />

della concezione del mondo secondo la tradizione aristotelica (basata<br />

appunto sulla distinzione tra mondo celeste e sublunare), alla quale Galileo<br />

contrappone, per mezzo delle argomentazioni del Salviati e del Sagredo, la<br />

tesi dell’unicità del mondo fisico, descrivibile da una unica e medesima<br />

scienza. La seconda giornata prende in dettagliato esame tutti i tipici<br />

argomenti rivolti contro l’ipotesi del moto diurno della Terra (cioè della<br />

rotazione che la Terra compie in un giorno su sé stessa): da quello della<br />

pietra lasciata cadere dall’alto di una torre, che dovrebbe toccare il suolo in<br />

un punto spostato verso Occidente rispetto alla base della torre, a quello del<br />

vento che dovremmo sentire per effetto del moto della Terra, o degli effetti<br />

contrifughi che da tale moto dovrebbero risultare. A tutti questi argomenti<br />

Galileo risponde con quello che poi è stato chiamato il principio di relatività<br />

galileiano: cioè il principio per cui, in base alle osservazioni compiute<br />

all’interno di un determinato sistema di riferimento (per esempio, una nave),<br />

non è possibile stabilire se il sistema sia in quiete o in moto uniforme (vedi<br />

il brano commentato tratto dalla seconda giornata). Nella terza giornata è<br />

preso in considerazione il moto annuale della Terra (la rivoluzione che la<br />

Terra compie intorno al Sole). Infine nella quarta giornata viene discussa<br />

per esteso quella che Galileo ritiene la prova inconfutabile a favore del moto<br />

della Terra, cioè la sua teoria del fenomeno delle maree.<br />

Il Dialogo venne pubblicato nel febbraio e già nell’estate la reazione<br />

ostile contro le sue tesi era diventata così forte da suscitare una presa di<br />

posizione da parte dello stesso Papa Urbano V<strong>II</strong>I. Galileo, consapevole della<br />

portata della sua opera, aveva cercato di moderarne l’impatto fingendo di<br />

aderire, nel proemio e nelle parole conclusive del libro, alla posizione che<br />

considerava l’astronomia copernicana alla stregua di pura ipotesi<br />

matematica, senza pretesa di descrizione della realtà. Ma questa sua<br />

29


30<br />

aadesione risultava ben poco credibile alla luce del resto dell’opera, e non<br />

poteva servire a salvare Galileo dal dramma che si stava preparando.<br />

Nel luglio del 1632 l’Inquisitore di Firenze diede l’ordine di<br />

sospendere la diffusione del Dialogo e di confiscare tutte le copie esistenti.<br />

Il testo fu mandato alla Congregazione del Sant’Uffizio e in ottobre fu<br />

intimato a Galileo di recarsi a Roma e mettersi a disposizione del<br />

Commissario dell’Inquisizione. Galileo riuscì a rimandare la partenza per<br />

qualche mese, ma nel gennaio del 1633 dovette alla fine mettersi in viaggio<br />

per presentarsi al Sant’Uffizio. La triste vicenda terminò con la sentenza di<br />

condanna emmessa il 22 giugno del 1633. Nello stesso giorno Galileo fu<br />

costretto a leggere un pubblico atto d’abiura:<br />

[...] con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto<br />

li suddetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore,<br />

eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non<br />

dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si<br />

possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che<br />

sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero<br />

all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò (G. Galilei,<br />

Opere, cit. , Vol. XIX, p. 407).<br />

6. Bacone e il metodo scientifico<br />

Francis Bacon, nome italianizzato in Francesco Bacone, insieme a<br />

Galileo Galilei, è l’altro grande pensatore grazie al quale il sapere scientifico<br />

acquisisce consapevolezza del proprio metodo e delle proprie potenzialità<br />

pratiche. Ma Bacone è anche una figura peculiare rispetto agli altri<br />

protagonisti della rivoluzione scientifica. Se essi, come abbiamo visto,<br />

hanno praticato direttamente la scienza, Bacone non fu uno scienziato ma<br />

principalmente un politico: nato a Londra nel 1561, figlio del Lord<br />

Guardasigilli delle regina Elisabetta, divenne egli stesso Lord Guardasigilli<br />

e poi Lord Cancelliere del re Giacomo I, per uscire bruscamente dalla vita<br />

politica in seguito ad una vicenda di corruzione, nel 1621. Visse poi ritirato,<br />

dedicandosi agli studi, fino alla morte improvvisa nel 1626.<br />

Con Bacone si afferma la consapevolezza, di fronte alla nascente<br />

scienza della natura e alle numerose scoperte e invenzioni, della necessità di<br />

una nuovo modo di praticare la filosofia e più in generale di una nuova<br />

cultura. Secondo Bacone, questo rinnovamento del sapere avrebbe avuto<br />

grandi conseguenze pratiche e avrebbe condotto a un’epoca che si sarebbe<br />

differenziata da tutte le altre. Di questo nuovo periodo della storia<br />

dell’umanità egli stesso si attribuì il ruolo di annunziatore e di iniziatore.<br />

Come ha scritto Paolo Rossi, uno dei principali studiosi del pensiero di<br />

Bacone:<br />

Proprio in questa sua funzione di araldo di un nuovo mondo sta<br />

la sua più vera grandezza: molte delle sue tesi filosofiche apparvero<br />

singolarmente deboli già ai sui contemporanei, la sua nuova logica delle<br />

scienza si rivelò presto sostanzialmente infeconda, egli non formulò<br />

30


31<br />

nessuna rivoluzionaria ipotesi scientifica, nessuna delle grandi scoperte<br />

scientifiche destinate a modificare in profondità l’orizzonte della<br />

scienza moderna può essere fatta risalire all’opera di Bacone […]. La<br />

deficienza dei suoi contributi particolari, la insufficienza di molte delle<br />

sue teorie non toglie nulla alla sua grandezza. Con energia, con<br />

perseveranza, con chiarezza, egli, attraverso un gigantesco lavoro,<br />

formulò alcune tesi che sono parte integrante delle nostra civiltà e che<br />

consentono di porlo, accanto a Cartesio e a Galileo, fra gli iniziatori del<br />

pensiero e della scienza moderni (Paolo Rossi, Introduzione, Id., a cura<br />

di, Il pensiero di Francis Bacon. Un’antologia degli scritti, Torino,<br />

Loescher, 1974, p. XV<strong>II</strong>).<br />

Gli errori della tradizione<br />

Per giungere a questo rinnovamento occorre, secondo Bacone,<br />

rifiutare nettamente la filosofia del passato. La critica alla tradizione è il<br />

passo indispensabile per costruire la filosofia della nuova epoca, sebbene<br />

nella sua opera, come si vedrà in seguito, siano ancora presenti temi della<br />

tradizione (della magia, dell’astrologia, dell’aristotelismo e del platonismo).<br />

Due sono i principali obiettivi contro i quali, fin dai suoi primi lavori<br />

filosofici, Bacone indirizza la propria attenzione: il sapere della magia e il<br />

sapere della filosofia tradizionale, ai quali contrappone il sapere della<br />

scienza e la filosofia sperimentale che nasce dal contatto diretto con la<br />

natura e l’esperienza.<br />

Il sapere della magia è un sapere segreto e solo per iniziati, mentre il<br />

sapere della scienza, è di carattere pubblico e intersoggettivo; il sapere della<br />

magia cerca cause occulte, non controllabili empiricamente, mentre il sapere<br />

della scienza si basa sull’osservazione empirica e sulla ripetizione<br />

sperimentale. L’esperienza costituisce, per Bacone, la guida della filosofia.<br />

Nella sua prima e breve opera filosofica, Il parto maschio del tempo, che è<br />

del 1603 (ma che è apparsa postuma, insieme con gli altri primi lavori di<br />

Bacone), il filosofo inglese si scaglia duramente contro le imposture dei<br />

maghi e contro Paracelo, il principale esponente delle correnti magiche e<br />

alchimistiche del ‘500:<br />

Tu non soltanto, come i Sofisti, hai oscurato la luce della natura<br />

(il cui santissimo nome la tua impura bocca pronuncia tante volte), ma<br />

l’hai spenta addirittura. Essi disertano l’esperienza, tu l’hai tradita.<br />

L’evidenza che proviene dalle cose è ancora cruda e maschera la realtà,<br />

tu hai sottoposto quest’evidenza a un’interpretazione già preordinata.<br />

Invece del calcolo dei movimenti, hai cercato le trasformazioni delle<br />

sostanze e in tal modo hai tentato di corrompere le fonti della scienza e<br />

di spogliare la mente degli uomini. Alle difficoltà e alle oscurità degli<br />

esperimenti […] hai aggiunto ostacoli nuovi ed estranei. E dunque non è<br />

vero che tu abbia conosciuto o seguito la guida dell’esperienza! Hai<br />

fatto anzi tutto il possibile per accrescere l’ingordigia dei maghi<br />

(Francesco Bacone, Temporis Partus Masculus [1602-03], in Id. Scritti<br />

filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1973, pp. 111-2).<br />

Anche il sapere della filosofia della tradizione è stato cieco di fronte<br />

all’esperienza, e proprio per questo motivo è risultato oscuro e sterile: una<br />

31


32<br />

filosofia delle parole senza contatto con la realtà, e perciò incapace di avere<br />

conseguenze pratiche, di dar luogo ad invenzioni e scoperte. Fino dai tempi<br />

della Grecia classica, fino da Platone e Aristotele, secondo Bacone, la<br />

filosofia ha preferito le vie dell’astrazione all’analisi attenta della realtà. La<br />

filosofia greca ha poi tramandato questo carattere a quella successiva, fino<br />

alla filosofia a lui contemporanea. Tutto ciò non è stato solo il frutto di un<br />

errore filosofico, ma una vera e propria colpa morale dei filosofi del passato,<br />

che hanno peccato di superbia intellettuale, sostituendo al difficile lavoro di<br />

indagine della natura la speculazione astratta e la contemplazione interiore.<br />

Questo è l’atto di accusa che Bacone rivolge a Platone:<br />

Quando asserisci falsamente che la verità è abitante nativo della<br />

mente umana e non viene dall’esterno, quando distogli le nostre menti<br />

dalle osservazioni della storia e delle cose, verso le quali invece non si è<br />

mai sufficientemente attenti ed obbedienti, quando ci insegni a volgere<br />

all’interno gli occhi della mente e ad umiliarci davanti ai nostri idoli<br />

ciechi e confusi sotto il nome di contemplazione, allora tu commetti una<br />

colpa capitale (Francesco Bacone, Temporis Partus Masculus [1602-03],<br />

in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1973, pp. 108-<br />

9).<br />

Inoltre, come già Galileo, Bacone rimprovera alla filosofia della<br />

tradizione di aver preferito alla guida dell’esperienza l’autorità di pochi<br />

filosofi del passato. Essa si è accontentata delle loro dottrine, dedicandosi<br />

all’interpretazione dei testi, e non è progredita nello studio della natura. La<br />

conseguenza è che le scienze sono restate per duemila anni «nello stesso<br />

stato senza nessun progresso degno di nota». Come scrive in un’opera<br />

composta nel 1608, La confutazione delle filosofie:<br />

Dio non vi ha fatto dono di anime razionali perché portiate a<br />

degli uomini il tributo che dovete al vostro Autore (vale a dire la fede<br />

che è dovuta a Dio e alle cose divine), né vi ha accordato fermi e validi<br />

sensi per studiare gli scritti di pochi uomini, ma per studiare il cielo e la<br />

terra che sono opera di Dio. (Francesco Bacone, La confutazione delle<br />

filosofie, in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975,<br />

p. 407).<br />

Al culto dell’autorità e alla sapienza degli antichi, Bacone obietta<br />

che non c’è un sapere che possa essere considerato indubitabile e la cui<br />

autorità sia eterna e si debba imporre a tutti. Come si esprime in un’altra<br />

opera di questo periodo, i Pensieri e conclusioni sull’interpretazione della<br />

natura o sulla scienza operativa: «per universale consenso la verità è figlia<br />

del tempo».<br />

La teoria degli «idoli»<br />

Tutte queste errate concezioni della tradizione filosofica sono dovute<br />

al fatto che la mente umana soltanto con molta difficoltà riesce ad avere un<br />

accesso alla realtà diretto e scevro da pregiudizi. Nell’intelletto umano si<br />

radicano, infatti, tutta una serie di errori e false illusioni - «idoli» vengono<br />

chiamati da Bacone (idola, in latino): cioè forme vane di sapere – che<br />

32


33<br />

risultano di ostacolo alla corretta comprensione della realtà. Da questi errori<br />

l’uomo si deve liberare se vuole approdare al raggiungimento della verità ed<br />

alla conoscenza della natura. La teoria degli idoli è contenuta in un’opera<br />

del 1620, il Nuovo Organo, nella quale vengono fissate le tesi principali<br />

della filosofia di Bacone:<br />

Gli idoli e le false nozioni che sono penetrati nell’intelletto<br />

umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le<br />

menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura<br />

(una volta che questo accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno<br />

e saranno causa di molestia anche nella stessa instaurazione delle<br />

scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano per<br />

quanto è possibile contro di essi (Francesco Bacone, Novum Organum,<br />

in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, p. 559).<br />

Gli errori da cui la mente umana può essere sviata sono, a seconda<br />

della loro origine, di quattro tipi: gli «idoli della tribù», gli «idoli della<br />

spelonca», gli «idoli del foro» e gli «idoli del teatro». Gli idoli della tribù<br />

(idola tribus) derivano dalla natura della specie umana, in particolare dalla<br />

tendenza naturale della mente a semplificare e a deformare le cose, e dalla<br />

naturale insufficienza dei sensi a cogliere gli aspetti più reconditi della<br />

natura. Proprio in quanto tendenze naturali, esse sono comuni a tutti gli<br />

uomini:<br />

Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana e sulla<br />

stessa tribù o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso<br />

è la misura delle cose. […] L’intelletto umano è simile a uno specchio<br />

che riflette irregolarmente i raggi delle cose, che mescola la sua propria<br />

natura a quella delle cose e le deforma e le travisa (Francesco Bacone,<br />

Novum Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino,<br />

Utet, 1975, p. 560).<br />

Gli idoli della spelonca (idola specus) sono invece gli errori che<br />

hanno origine nella natura singolare di ogni individuo, la quale, a causa<br />

delle sua propria e particolare costituzione, dell’educazione ricevuta,<br />

dell’influsso dell’ambiente e delle circostanze esterne, riflette sempre in<br />

modo diverso la luce della natura, così come - dice Bacone con un implicito<br />

riferimento al mito della caverna di Platone - in una spelonca viene riflessa<br />

la luce che viene dall’esterno:<br />

Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo.<br />

Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura umana in<br />

generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e<br />

deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare<br />

di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conversazione con gli altri,<br />

o della lettura di libri, e dell’autorità di coloro che vengono onorati e<br />

ammirati, o a causa delle diversità delle impressioni a seconda che siano<br />

accolte da un animo già condizionato e prevenuto oppure sgombro ed<br />

equilibrato (Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti filosofici,<br />

a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 560-1).<br />

33


34<br />

Gli altri due tipi di errori non derivano dalle caratteristiche generali o<br />

singolari della natura umana, ma direttamente dalla realtà esterna rispetto<br />

all’uomo. Gli idoli del foro (idola fori) hanno origine nelle caratteristiche<br />

dell’interazione e del consorzio tra gli uomini, e in particolare nel<br />

linguaggio usato in questa interazione, il quale, nascendo da un uso comune<br />

e volgare, porta con sé le tracce dell’ignoranza. Il foro, cioè la piazza e il<br />

mercato, è il luogo esemplare in cui avviene il contatto fra gli uomini e in<br />

cui nascono gli errori di questo tipo; la maggior parte di essi deriva da un<br />

uso confuso ed ambiguo delle parole, oppure dall’uso delle parole per<br />

riferirsi ad oggetti inesistenti:<br />

Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle<br />

reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del foro a<br />

causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si<br />

associano per mezzo dei discorsi ma i nomi vengono imposti secondo la<br />

comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione<br />

ingombra straordinariamente l’intelletto. […] Le parole fanno violenza<br />

all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a<br />

innumerevoli e vane controversie e finzioni (Francesco Bacone, Novum<br />

Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet,<br />

1975, p. 561).<br />

Gli idoli del teatro (idola theatri), sono invece gli errori che si<br />

possono imputare alle diverse teorie apparse sulla scena della filosofia: esse<br />

hanno creato false rappresentazioni della realtà e della natura, storie<br />

immaginarie analoghe a quelle che vengono recitate sul palcoscenico di un<br />

teatro. Di questo genere sono ad esempio, per Bacone, la dottrina dei quattro<br />

elementi o la teoria del moto circolare dei pianeti:<br />

Vi sono infine gli idoli che sono penetrati nell’animo degli<br />

uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni.<br />

Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che<br />

sono state accolte e create come altrettante favole presentate sulla scena<br />

e recitate, che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non<br />

parliamo soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle antiche filosofie e<br />

delle antiche sètte, perché è sempre possibile comporre e combinare<br />

molte altre favole dello stesso tipo (Francesco Bacone, Novum Organum,<br />

in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, p. 561).<br />

Tutti questi idoli conducono a delle errate rappresentazioni della<br />

natura e della realtà. Ci sono, infatti, due modi di rappresentare la natura,<br />

uno errato ed uno vero. Le rappresentazioni errate sono chiamate da Bacone<br />

anticipazioni della natura: esse sono errate perché prodotte frettolosamente<br />

dall’esame di pochi dati o dall’esame soltanto dei dati più abituali. Le<br />

rappresentazioni vere sono invece chiamate interpretazioni della natura:<br />

esse sono vere perché prodotte dall’esame di molti dati e di quelli non<br />

abituali. Le interpretazioni della natura, cioè, sono vere perché prodotte<br />

seguendo il corretto metodo di acquisizione della conoscenza: l’induzione,<br />

di cui si tratterà nel prossimo paragrafo. Gli errori della tradizione sono<br />

dunque anticipazioni e non interpretazioni della natura, ed essi sono<br />

destinati ad essere scacciati qualora venga seguito il metodo corretto,<br />

34


35<br />

attraverso il quale è possibile giungere ad una rappresentazione non<br />

deformata della realtà: «ricavare i concetti e gli assiomi per mezzo<br />

dell’induzione vera: questo è senza dubbio il rimedio adatto per scacciare e<br />

rimuovere gli idoli».<br />

Il metodo della scienza<br />

Il metodo di acquisizione della conoscenza viene delineato da<br />

Bacone nel Nuovo Organo. Già dal titolo quest’opera si pone come la<br />

presentazione di una nuova logica, in grado di superare la vecchia logica<br />

contenuta nell’Organo aristotelico. Di questo metodo si sarebbe dovuta<br />

avvalere la scienza nella sua opera di conoscenza della realtà. Il primo passo<br />

compiuto da Bacone è quello di criticare la logica deduttiva di Aristotele,<br />

come una logica sterile e inadatta alla scienza della natura. Il metodo<br />

sillogistico aristotelico deduce da alcuni assiomi generali delle conclusioni<br />

particolari attraverso delle assunzioni intermedie (come nel noto sillogismo:<br />

tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale).<br />

Il metodo sillogistico, sostiene Bacone, è formalmente ineccepibile, ma è<br />

sterile, perché le conclusioni non aggiungono niente a quanto già contenuto<br />

nelle premesse; ed è inadatto alla scienza, perché non dà garanzie che le<br />

premesse siano vere e ricavate in maniera corretta dalla realtà naturale.<br />

Noi respingiamo la dimostrazione per mezzo del sillogismo,<br />

perché essa non produce che confusione, e fa sì che la natura ci sfugga<br />

dalle mani. Quantunque infatti nessuno possa dubitare che due cose che<br />

si accordano con un termine medio, si accordino anche fra di loro (che è<br />

una specie di certezza matematica), tuttavia è qui nascosto un inganno:<br />

perché il sillogismo consta di proposizioni, le proposizioni di parole e le<br />

parole sono le etichette e i segni delle nozioni. Pertanto se le nozioni<br />

della mente (che sono come l’anima delle parole e le basi di tutta questa<br />

struttura e di questo edificio) sono vaghe, falsamente o arbitrariamente<br />

astratte dalle cose, non sufficientemente definite e delimitate, e infine in<br />

molti modi erronee, tutto l’edificio crolla. Respingiamo dunque il<br />

sillogismo, e non solo per ciò che concerne i principi (ai quali neppure i<br />

logici lo applicano), ma anche per quanto riguarda le proposizioni<br />

medie, che senza dubbio il sillogismo produce e partorisce, ma che sono<br />

sterili di opere, remote dalla pratica e prive di valore relativamente alla<br />

parte attiva delle scienze (F. Bacone, La grande Instaurazione, in Id.<br />

Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 533-4).<br />

Ma anche Aristotele non si era limitato al metodo sillogisticodeduttivo.<br />

Aveva affiancato ad esso un procedimento induttivo attraverso il<br />

quale, dall’esame dei casi particolari, si poteva passare a principi di carattere<br />

generale. Tuttavia, il modo aristotelico di concepire l’induzione è, secondo<br />

Bacone, scorretto: l’induzione di Aristotele si limita a trarre<br />

immediatamente dal particolare il generale, e in ciò consiste il suo errore.<br />

Essa si basa su quella che Bacone chiama «enumerazione semplice»: la<br />

enumerazione di una serie di casi da cui immediatamente viene indotto il<br />

principio generale. Il passaggio dal caso particolare ai principi generali deve<br />

invece essere un passaggio graduale, che non trae il generale<br />

35


36<br />

immediatamente dal particolare, come nel caso dell’induzione per<br />

enumerazione semplice, ma che “induce” dal particolare prima degli<br />

«assisomi medi», dai quali possono poi essere indotti gli «assiomi generali».<br />

L’induzione così concepita non è quindi mera generalizzazione, ma è una<br />

vera e propria «interpretazione» della realtà.<br />

Finora il procedimento era questo: dal senso e dai particolari si<br />

volava ai principi più generali come verso poli fissi intorno ai quali si<br />

svolgono le dispute; da questi principi poi si facevano derivare tutti gli<br />

altri mediante proposizioni medie. Metodo, questo, senza dubbio molto<br />

rapido, ma precipitoso, inadatto a condurci alla natura e invece adatto e<br />

favorevole alle dispute. Secondo noi invece gli assiomi devono ricavarsi<br />

insensibilmente e gradatamente in modo da giungere solo in ultimo ai<br />

principi generali. Questi principi, in tal modo, riescono non puramente<br />

ideali, ma ben determinati e tali che la natura li riconosca come suoi<br />

propri e più noti a sé ed essi ineriscano al midollo delle cose. Ma<br />

dobbiamo apportare grandissimi cambiamenti anche alla forma stessa<br />

dell’induzione e al giudizio che per mezzo di essa si compie. Infatti<br />

quell’induzione di cui parlano i dialettici, e che procede per semplice<br />

enumerazione, è qualcosa di puerile che conclude precariamente ed è<br />

esposta al pericolo di una istanza contraddittoria; essa coglie soltanto i<br />

fatti consueti e non perviene a una conclusione. Alle scienze è necessaria<br />

un’induzione di forma tale da risolvere a analizzare l’esperienza e<br />

concludere necessariamente mediante legittime esclusioni ed<br />

eliminazioni (F. Bacone, La grande Instaurazione, in Id. Scritti filosofici,<br />

a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 534-5).<br />

Questa nuova induzione non si basa, quindi, sulla semplice<br />

enumerazione ma sull’esclusione. È solo dopo l’attenta scelta dei casi e<br />

delle conclusioni non essenziali che si giunge agli assiomi medi e da qui agli<br />

assiomi generali. Il procedimento ideato da Bacone prevede tre passaggi:<br />

come primo passo deve essere predisposto un attento lavoro di raccolta dei<br />

dati, che Bacone chiama «storia naturale e sperimentale»; questo lavoro da<br />

solo non è tuttavia sufficiente, in quanto i dati così raccolti mancano di<br />

ordine; come secondo passo devono quindi essere predisposte delle «tavole»<br />

in cui i dati sono registrati e ordinati; solo su questa base è possibile il terzo<br />

passo, costituito dall’induzione.<br />

In primo luogo bisogna preparare una storia naturale e<br />

sperimentale sufficiente e buona: essa è il fondamento di tutto; e non si<br />

deve immaginare o escogitare, ma scoprire quello che la natura fa o<br />

produce. Ma la storia naturale e sperimentale è tanto varia e sparsa da<br />

confondere e disgregare l’intelletto, se non venga fissata e disposta<br />

nell’ordine adatto. A questo scopo bisogna preparare tavole e<br />

coordinazioni delle istanze, strutturate in modo tale che l’intelletto<br />

possa agire su di esse. Ma anche ciò fatto, l’intelletto abbandonato a sé e<br />

al suo spontaneo movimento è inadatto e incapace alla costruzione degli<br />

assiomi, se non venga guidato e aiutato. Così in terzo luogo si deve<br />

ricorrere alla induzione legittima e vera che è la chiave stessa<br />

dell’interpretazione (Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti<br />

filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, p. 650).<br />

36


37<br />

Le tavole in cui vengono ordinati i dati dell’esperienza sono di tre<br />

tipi: «tavole della presenza», «tavole dell’assenza» e «tavole dei gradi».<br />

Nella tavola della presenza vengono riportati tutti casi in cui compare il<br />

fenomeno di cui si cerca la spiegazione; ad esempio tutti i casi in cui si<br />

manifesta il fenomeno del calore: i raggi del sole, i vari tipi di fiamma, i<br />

fulmini e così via:<br />

sopra una natura data si deve fare un ordine di comparazione, di<br />

fronte all’intelletto, di tutte le istanze note che si trovano insieme in una<br />

stessa natura, anche se in materie oltremodo differenti. E quest’ordine<br />

di comparazione dev’essere fatto storicamente, senza far uso di<br />

speculazioni affrettate o di eccessive sottigliezze. Per esempio,<br />

nell’indagine della forma del caldo:<br />

Istanze che si trovano insieme nella natura del caldo<br />

1. I raggi del sole, soprattutto d’estate e a mezzogiorno<br />

2. I raggi del sole riflessi e condensati, come fra i monti o fra pareti<br />

e soprattutto negli specchi ustori.<br />

3. Le meteore infuocate<br />

4. I fulmini ardenti<br />

5. Le eruzioni di fiamme dalle viscere dei monti, ecc.<br />

[…]<br />

Denomino questa tavola: Tavola dell’Essenza e della Presenza<br />

(Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di<br />

Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 650-2).<br />

Nella tavola dell’assenza («Tavola della Deviazione o dell’Assenza<br />

in Prossimità») vengono riportati tutti i casi che sono prossimi e simili ai<br />

precedenti, ma nei quali il fenomeno che viene indagato è assente, ad<br />

esempio i raggi della luna, i raggi delle comete, i fuochi fatui, i<br />

lampeggiamenti che fanno luce ma non bruciano, ecc. Nella tavola dei gradi<br />

(«Tavola dei gradi o comparativa»), infine, sono riportati i casi in cui il<br />

fenomeno è presente ma varia per gradi di intensità, «sia che la<br />

comparazione dell’aumento e della diminuzione venga fatta in uno stesso<br />

soggetto, sia che venga fatta in soggetti diversi».<br />

Attraverso una stesura esauriente delle tavole, si può giungere<br />

all’esclusione delle ipotesi non pertinenti (ad esempio che la causa del<br />

calore risieda nella «luce», perché il calore è presente nei metalli riscaldati<br />

al di sotto dell’incandescenza, o che risieda nella «tenuità», perché anche un<br />

materiale denso come l’oro può essere facilmente riscaldato, e così via); e si<br />

può tentare una prima provvisoria ipotesi di spiegazione, che è detta da<br />

Bacone «prima vendemmia» (vindimiatio prima): ad esempio che il calore<br />

sia una specie di moto: un moto che tende a dilatare il corpo, che tende<br />

verso l’alto, che non appartiene a tutto il corpo ma solo alle sue parti e che è<br />

molto rapido.<br />

Ma poiché la verità emerge più in fretta dall’errore che dalla<br />

confusione, riteniamo utile permettere all’intelletto, dopo aver fatto e<br />

soppesato le tre Tavole di prima citazione (così come le abbiamo poste)<br />

di accingersi a tentare l’opera di interpretazione della natura<br />

nell’affermazione, sia partendo dalle istanze comprese nelle Tavole, sia<br />

37


38<br />

dalle altre che mano a mano si prestino. Siamo soliti chiamare questo<br />

tipo di tentativo, Permesso dell’intelletto, o Interpretazione iniziale,<br />

oppure Prima Vendemmia. […] Sulla base di questa Prima Vendemmia,<br />

la forma o definizione vera del calore (di quello che è in ordine<br />

all’universo e non relativo soltanto al senso) è, espressa in poche parole,<br />

la seguente: Il caldo è un moto espansivo, trattenuto, che opera mediante<br />

le parti minori del corpo». (Francesco Bacone, Novum Organum, in Id.<br />

Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 681 e<br />

687).<br />

L’ultimo passaggio per capire se il procedimento di induzione risulta<br />

corretto e se siamo quindi di fronte ad una vera interpretazione della natura,<br />

è costituito dal sottoporre le ipotesi a cui si giunge dopo la prima<br />

vendemmia a numerosi esperimenti di conferma, chiamati «istanze<br />

prerogative». L’istanza più importante è il cosiddetto «esperimento<br />

cruciale» (instantia crucis), attraverso il quale si arriva a selezionare una<br />

sola spiegazione fra più ipotesi possibili, scartando le altre come errate, così<br />

come ad un incrocio si sceglie quale strada seguire scartando tutte le altre:<br />

tra le istanze prerogative metteremo al quattordicesimo posto le<br />

istanze cruciali, con termine preso in prestito alle croci che si mettono ai<br />

bivi delle strade ad indicare la biforcazione. […] Il loro scopo è questo:<br />

quando nell’indagine su una natura, l’intelletto è come in equilibrio,<br />

incerto se attribuire e assegnare a una tra due o più nature la causa<br />

della natura su cui indaga, dato il concorso frequente e ordinario di più<br />

nature, allora le istanze cruciali mostrano che l’unione di una sola di<br />

queste nature con la natura indagata è certa e indissolubile, mentre<br />

quella con le altre è varia e separabile. Sicché la questione è risolta, e la<br />

prima natura è accolta come causa, mentre l’altra è abbandonata e<br />

ripudiata. Queste istanze recano quindi moltissima luce, e hanno<br />

grande autorità, tanto che qualche volta il processo dell’interpretazione<br />

si arresta ad esse e da esse è concluso (Francesco Bacone, Novum<br />

Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet,<br />

1975, p. 717).<br />

La conoscenza delle forme<br />

Il metodo induttivo così delineato si presenta come un procedimento<br />

in cui i dati raccolti dall’esperienza vengono bilanciati con le ipotesi e le<br />

congetture della ragione. Bacone stesso è consapevole dell’importanza di<br />

questo equilibrio fra esperienza e ragione, per evitare i difetti insiti nel<br />

privilegiare solo l’esperienza - è la posizione di coloro che chiama<br />

«empirici» - , oppure nel privilegiare solo la ragione - è la posizione di<br />

coloro che chiama «dogmatici» o «razionalisti». Utilizzando una<br />

similitudine che diverrà poi famosa, i primi sono paragonati alle formiche,<br />

che consumano direttamente il materiale da loro accumulato, i secondi ai<br />

ragni, che creano da sé la tela che darà loro nutrimento; la posizione corretta<br />

è quella che unisce le virtù di entrambe le posizioni: cioè quella delle api,<br />

che ricavano il nutrimento dall’esterno, ma lo trasformano secondo la<br />

propria natura.<br />

38


39<br />

Coloro che trattarono le scienza furono o empirici o dogmatici.<br />

Gli empirici, come le formiche, accumulano e consumano. I razionalisti,<br />

come i ragni, ricavano da se medesimi la loro tela. La via di mezzo è<br />

quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e<br />

dei campi, e la trasformano e digeriscono in virtù della loro propria<br />

capacità. Non dissimile è il lavoro della vera filosofia che non si deve<br />

servire soltanto o principalmente delle forze della mente; la materia<br />

prima che essa ricava dalla storia naturale e dagli esperimenti<br />

meccanici, non deve essere conservata intatta nella memoria ma<br />

trasformata e lavorata dall’intelletto. Così la nostra speranza è riposta<br />

nell’unione sempre più stretta e più santa delle due facoltà, quella<br />

sperimentale e quella razionale, unione che non si è finora realizzata<br />

(Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di<br />

Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 607-8).<br />

Il fine di tutto il procedimento induttivo è quello di giungere alla<br />

conoscenza della «forma» della cosa studiata, cioè di ciò che viene<br />

considerato l’essenza profonda e la vera natura della cosa; una conoscenza<br />

che Dio ha immediatamente ma che l’uomo può raggiungere solo attraverso<br />

il metodo induttivo. Delle quattro cause individuate da Aristotele: materiale,<br />

finale, efficiente e formale, Bacone scarta infatti le prime tre come inutili e<br />

sterili, e ritiene essenziale solo la causa formale, sforzandosi di dare a questa<br />

nozione un significato nuovo. La nozione di forma è connessa ad altri due<br />

concetti introdotti da Bacone, quello di «schematismo latente» e quello di<br />

«processo latente»: lo schematismo latente è la struttura ultima e non<br />

percepibile di un particolare fenomeno, il processo latente è il processo di<br />

trasformazione, anch’esso non immediatamente visibile ai sensi, del<br />

fenomeno. Conoscere la forma è allora conoscere lo schematismo e il<br />

processo latente, la struttura essenziale e la legge che regola la<br />

trasformazione del fenomeno:<br />

compito e scopo dell’umana scienza è trovare la forma di una<br />

natura data, ossia la differenza vera, o natura naturante o fonte di<br />

emanazione (questi sono i termini di cui disponiamo che più si<br />

avvicinano ad indicare la cosa). [A questo compito ne è subordinato un<br />

altro:] la scoperta in ogni generazione e movimento, del processo latente<br />

reso ininterrotto dal processo efficiente manifesto e dalla materia<br />

manifesta fino alla forma che è posta all’interno; e allo stesso modo la<br />

scoperta dello schematismo latente dei corpi che sono in quiete e non in<br />

movimento (Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti filosofici,<br />

a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, p. 640).<br />

Uno dei problemi maggiori nell’interpretazione del pensiero di<br />

Bacone è spiegare cosa egli intenda con la nozione di “forma”; ed è anche<br />

uno degli aspetti in cui è apparso più evidente il legame con la tradizione<br />

aristotelica e scolastica. Come quella tradizione, Bacone privilegia<br />

un’analisi qualitativa della realtà, lasciando fuori della sua attenzione quanto<br />

invece si era già affermato con Keplero e Galielo: la centralità della nozione<br />

di causa efficiente da una parte, l’uso della matematica ai fini della scienza<br />

dall’altro. La matematica è ancora considerata da Bacone come qualcosa di<br />

estraneo al procedimento scientifico, come uno strumento utile a rendere<br />

39


40<br />

conto di un ordine metafisico di armonia universale, così come essa era stata<br />

concepita nella tradizione platonica.<br />

Non solo, ma la conoscenza delle forme avrebbe per Bacone aperto<br />

alla scienza orizzonti sorprendenti, tanto da essere soddisfatte le stesse<br />

aspirazioni della magia e dell’alchimia. Una volta conosciute le nature<br />

semplici di un corpo, Bacone ritiene, come gli alchimisti, che sia possibile<br />

separare un corpo dalle sue nature semplici, ad esempio una pietra dal suo<br />

colore, dal suo peso, dalla sua duttilità, ecc., e introdurre tali nature in un<br />

altro corpo, tanto da poter trasformare una qualsiasi pietra in oro.<br />

Se uno conosce la causa di qualche natura (come della<br />

bianchezza o del colore) soltanto in alcuni soggetti particolari, la sua<br />

scienza è imperfetta; e se può indurre un effetto soltanto sopra alcune<br />

materie (tra quelle che ne sono suscettibili) egualmente la sua potenza è<br />

imperfetta. Se uno conosce soltanto la causa efficiente e quella materiale<br />

(che sono cause variabili e nient’altro che veicoli e cause che in alcuni<br />

casi trasportano la forma), può sì raggiungere nuove scoperte in<br />

materie abbastanza simili e predisposte, ma non penetrare più a fondo i<br />

termini fissi delle cose. Ma, chi conosce le forme, questi abbraccia<br />

l’unità della natura nella materie più diverse. Può dunque scoprire e<br />

produrre cose che ancora non sono state realizzate: quali né gli<br />

accadimenti naturali, né le attività sperimentali, né il caso stesso hanno<br />

mai portato a compimento o sottoposto alla riflessione umana. Perciò<br />

dalla scoperta delle forme discende la contemplazione vera e l’operare<br />

libero. […] Il precetto o assioma della trasformazione dei corpi è di<br />

duplice genere. Il primo genere riguarda il corpo come un insieme di<br />

nature semplici. Così nell’oro si trovano insieme queste: è giallo;<br />

pesante di un determinato peso; malleabile e duttile sino a un certo<br />

grado di estensibilità; non si volatilizza né perde di quantità nel fuoco;<br />

fonde con un certo grado di fluidità; si separa e si scioglie in<br />

determinati modi; e così di seguito per altre nature che insieme sono<br />

presenti nell’oro. Questo assioma deduce dunque la cosa dalle forme<br />

delle nature semplici. Chi conosce infatti le forme e i modi di introdurre<br />

il giallo, il peso, la duttilità, la solidità, la fluidità, la solubilità e così via,<br />

nonché i loro gradi e modi, vedrà come far sì che queste cose possano<br />

congiungersi in un corpo, onde ne consegua la sua trasformazione in<br />

oro (Francesco Bacone, Novum Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura<br />

di Paolo Rossi, Torino, Utet, 1975, pp. 641-4).<br />

Elementi moderni e pre-moderni convivono così nel pensiero di<br />

Bacone, come del resto in tutto il periodo della rivoluzione scientifica.<br />

Scienza e tecnica<br />

Il riconoscimento del legame della scienza con l’operare tecnico è<br />

comunque uno degli aspetti di maggiore interesse e novità del pensiero di<br />

Bacone. Il ruolo pratico della scienza viene apprezzato in tutta la sua<br />

importanza: come viene sempre ripetuto, per Bacone “sapere è potere”.<br />

Innanzitutto la tecnica è di aiuto nel perseguimento della conoscenza; senza<br />

uno stretto rapporto con il fare tecnico la scienza non sarebbe possibile, dato<br />

che affinché si abbia scienza è necessaria la costruzione di nuovi strumenti e<br />

40


41<br />

l’elaborazione di complessi esperimenti. Così si apre il Libro Primo del<br />

Nuovo Organo:<br />

I. L’uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per<br />

quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell’ordine della<br />

natura: di più non sa né può.<br />

<strong>II</strong>. Né la nuda mano, né l’intelletto abbandonato a se stesso hanno<br />

potenza. I risultati si raggiungono con strumenti e con aiuti e di questi<br />

ha bisogno non meno l’intelletto che la mano. Come gli strumenti<br />

amplificano e reggono il moto della mano, così gli strumenti della mente<br />

guidano o trattengono l’intelletto.<br />

<strong>II</strong>I. La scienza e la potenza umana coincidono perché l’ignoranza della<br />

causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non<br />

obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa,<br />

nell’operazione ha valore di regola (Francesco Bacone, Novum<br />

Organum, in Id. Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet,<br />

1975, pp. 551-2).<br />

Inoltre, il perfezionamento della tecnica è conseguenza diretta della<br />

scienza. Grazie alla scienza l’uomo può accrescere la propria forza e il<br />

proprio dominio sulla realtà, viene messo in possesso di invenzioni e<br />

scoperte che diventano lo strumento di questo dominio. Compito della<br />

scienza è non solo conoscere, ma trasformare la realtà a vantaggio<br />

dell’uomo.<br />

Un mondo utopico in cui si realizza questo dominio della scienza e<br />

della tecnica viene immaginato da Bacone in una delle sue ultime opere,<br />

rimasta incompiuta, la Nuova Atlantide. In essa viene descritta una società<br />

ideale, scoperta in un’isola immaginaria al largo del Perù, chiamata<br />

«Bensalem». Nell’isola trova attuazione una perfetta convivenza morale e<br />

civile fra gli uomini; gli scienziati detengono il potere politico e, dopo avere<br />

liberata la mente umana dalle illusioni e dai fantasmi, usano la scienza al<br />

servizio dei loro cittadini, per estenderne la potenza e il domino sulla natura.<br />

Essi sono riuniti in una istituzione chiamata la Casa di Salomone, la cui<br />

organizzazione, delineata nei dettagli da Bacone, ha costituito il prototipo<br />

delle prime accademie scientifiche d’Europa (in particolare della Royal<br />

Society di Londra, fondata nel 1662), nelle quali trovò realizzazione il<br />

modello di sapere pubblico e intersoggettivo praticato dalla nuova scienza<br />

naturale. Così Bacone descrive gli scopi della Casa di Salomone e alcuni dei<br />

suoi ritrovati tecnici (molti dei quali cesseranno di essere utopici con lo<br />

sviluppo del progresso scientifico):<br />

fine della nostra istituzione è la conoscenza della cause e dei<br />

segreti movimenti delle cose, allo scopo di allargare i confini del potere<br />

umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. I mezzi e gli<br />

strumenti sono i seguenti: abbiamo ampie caverne più o meno<br />

profonde, le più profonde delle quali si addentrano nella terra fino a<br />

seicento cubiti […]. Chiamiamo queste caverne “regioni inferiori” e ce<br />

ne serviamo per esperienze di coagulazione, indurimento,<br />

refrigerazione e conservazione dei corpi. Ne usiamo anche a imitazione<br />

delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali,<br />

mediante la combinazione di vari materiali ivi giacenti da moltissimi<br />

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anni […]. Abbiamo inoltre officine meccaniche dove fabbrichiamo<br />

macchine e strumenti per ogni genere di movimenti: qui facciamo<br />

esperimenti per realizzare moti più veloci di quelli che voi avete<br />

realizzato sia con le vostre bocche da fuoco sia con qualunque altra<br />

vostra macchina e per realizzare il movimento e moltiplicarlo,<br />

servendoci di deboli forze, mediante ingranaggi e altri sistemi e infine<br />

per rendere questi moti più forti e potenti dei vostri: superiori anche a<br />

quelli dei vostri più grandi cannoni e colubrine […]. Imitiamo il volo<br />

degli uccelli, e riusciamo entro certi limiti a librarci in aria. Abbiamo<br />

navi e imbarcazioni per navigare sott’acqua e per resistere alle<br />

tempeste marine, e cinture di sicurezza e congegni per reggersi a galla<br />

(F. Bacone, Nuova Atlantide, Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi,<br />

Torino, Utet, 1975, pp. 855-62).<br />

Il progetto di un sapere universale ispirato a questi ideali, viene<br />

elaborato da Bacone in un’altra opera dell’ultimo periodo, Sulla dignità e<br />

l’accrescimento delle scienze. In quest’opera (che rielabora uno scritto del<br />

primo periodo, La dignità e il progresso del sapere divino e umano), è<br />

delineata l’esigenza di un’enciclopedia universale delle scienze, che segua,<br />

nella sua ripartizione, le facoltà della mente umana: la storia, corrispondente<br />

alla memoria, la poesia corrispondente all’immaginazione, la filosofia (a sua<br />

volta distinta in teologia, scienza dalla natura e scienza dell’uomo),<br />

corrispondente alla ragione. Bacone non ebbe modo di portare a<br />

compimento l’imponente progetto, tuttavia esso ebbe grande fortuna,<br />

rappresentando il modello a cui si ispirarono, un secolo dopo, Diderot e<br />

D’Alambert per la realizzazione della loro Enciclopedia.<br />

.<br />

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