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Minoranze, <strong>migranti</strong> e matrimoni<br />
a Venezia nel basso Medioevo<br />
Ermanno Orlando<br />
Venezia contava, alla fine del medioevo, una popolazione di circa<br />
120.000 abitanti, per più di un terzo costituita da stranieri, di antica o<br />
più recente immigrazione. In particolare, la città annoverava comunità<br />
consistenti di dalmati e slavi, di tedeschi, albanesi, greci, armeni, ebrei,<br />
turchi musulmani e schiavi: a fine Quattrocento, le stime sinora tentate<br />
hanno quantificato in circa 4.000 i tedeschi e gli albanesi stabilmente<br />
residenti a Venezia; in circa 5.000 i greci; in ben più di 5.000 gli<br />
slavo-dalmati. Ad essi vanno aggiunti il migliaio e oltre di ebrei censiti<br />
ad inizio Cinquecento; la numerosissima, quanto fluida e sommersa,<br />
compagine di schiavi (nel 1563 contati circa 13.000 domestici a<br />
servizio nelle sole case delle famiglie eminenti tra schiavi, anime e servi<br />
a salario); oltre, ovviamente, alle migliaia di italofoni immigrati dalla<br />
vicina terraferma o da altre parti della penisola, in specie lombardi,<br />
fiorentini e lucchesi.<br />
Al pari di molte altre grandi città mediterranee, quello fra Venezia<br />
e gli immigrati era stato da sempre un rapporto obbligato e vincolante.<br />
Senza l’apporto costante di nuovi immigrati la città non sarebbe mai<br />
riuscita a colmare i propri deficit demografici e il saldo stabilmente<br />
negativo tra natalità e mortalità (tipico di ogni città di antico regime).<br />
L’immigrazione era strutturalmente connessa ai fabbisogni della<br />
società; la città esprimeva una domanda ininterrotta di manodopera<br />
d’importazione, sia qualificata che a bassa qualificazione, in particolare<br />
di lavoratori adattabili e flessibili, da impiegare nelle attività produttive<br />
più dure e usuranti (e meno pagate), come la cantieristica navale,<br />
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