MAP - Magazine Alumni Politecnico di Milano #0
Il Magazine dei Designer, Architetti, Ingegneri del Politecnico di Milano - Numero 0 - Autunno
Il Magazine dei Designer, Architetti, Ingegneri del Politecnico di Milano - Numero 0 - Autunno
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MAP
Magazine Alumni Polimi
La rivista degli architetti, designer e ingegneri del Politecnico di Milano
Numero 0 - Autunno 2016
Rispettare il passato, costruire il futuro: la nuova piazza Leonardo da
Vinci • Dossier: i numeri del Poli • Stefano Boeri: futuro istantaneo • D-Orbit, la soluzione
italiana ai rifiuti spaziali • Il respiro dell’Ultima Cena • Come nasce una città: il progetto
Made in Italy per una Cina ecosostenibile di Massimo Roj • AlumniPolimi Convention 2016
MAP
Magazine Alumni Polimi
La rivista degli architetti,
designer, ingegneri
del Politecnico di Milano
Ideazione e Direzione del progetto
Federico Colombo
Direttore Esecutivo AlumniPolimi
Association.
Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le
Imprese, Politecnico di Milano.
Direttore Responsabile
Chiara Pesenti
Dirigente Area Comunicazione e Relazioni
Esterne, Politecnico di Milano.
Membri del Comitato Editoriale
Ivan Ciceri
Fundraising Manager, Politecnico di Milano.
Luca Lorenzo Pagani
Communication Manager AlumniPolimi
Association, Politecnico di Milano.
Irene Zreick
Relations AlumniPolimi Association,
Politecnico di Milano.
----------------------------------
Caporedattore
Gabriele Ferraresi
Collaboratori
Franco Bolelli, Davide Coppo, Valerio
Millefoglie, Federico Sardo, Marco Villa,
Giulio Pons
Progetto grafico
Stefano Bottura - Better Days
Impaginazione
Cosimo Nesca
Stampa
Centro Servizi d’Ateneo
via Marzabotto 3
20060 Mediglia (Mi)
Editore e Proprietario
AlumniPolimi Association
Politecnico di Milano
Prof. Enrico Zio
Presidente AlumniPolimi Association
Delegato del Rettore per gli Alumni
Delegato del Rettore per il Fundraising
individuale, Politecnico di Milano.
AlumniPolimi Association
P.zza Leonardo da Vinci, 32
20133 Milano
T. +39.02 2399 3941
alumni@polimi.it
www.alumni.polimi.it
PIVA 11797980155
CF 80108350150
Pubblicazione semestrale
Numero 0 - Autunno 2016.
Testata in corso di registrazione presso il
Tribunale di Milano.
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Editoriale
Rispettare il passato, costruire il futuro: la nuova piazza Leonardo
da Vinci
Ricordando Guernica: la storia del capolavoro di Picasso, al Poli
Circle: gli Alumni sostengono le eccellenze del Politecnico di
domani
Dossier - I numeri del Poli, oggi
Futuro istantaneo: conversazione di Stefan Boeri con il filosofo
Franco Bolelli
La reinvenzione della ruota dai laboratori del Politecnico
Adesso pedala! Volata Cycles e Zehus Bike+
L’Italia va a 400 km/h grazie al Poli
Tra le vetrine e i tesori: il Politecnico e Goppion
Spoon.CITY: architetti e committenti si trovano online
D-Orbit: la soluzione italiana ai rifiuti spaziali
Il respiro dell’Ultima Cena: il Politecnico e il cenacolo vinciano
H2 Speed: progettare il futuro. La supercar green raccontata da
Fabio Filippini
Come nasce una città: Massimo Roj e Progetto CMR in Cina
PolimiRun 2017
Il cielo, l’acqua e le stelle: Piero Lissoni e l’Acquario di New York
Alessandro Mendini: l’eccellenza italiana dalle botteghe alla
stampa 3D
Noi e loro: architetti e ingegneri al Poli
Anniversari di Laurea 2017
AlumniPolimi Convention 2016
EDITORIALE
MAP, la mappa del Politecnico di domani
Nel Paleolitico - intorno al 16.500
a.C. - gli esseri umani cominciarono
a disegnare le prime mappe. Il
territorio che interessava loro però
non era quello che si trovava sotto
i piedi, ma quello che scrutavano
nell’infinito, alzando la testa nelle
notti perfette di una terra ancora
priva di inquinamento luminoso. I
nostri progenitori nelle Grotte di
Lascaux disegnavano Vega, Deneb,
Altair, le Pleiadi, il cielo stellato
sotto il quale cresceva l’umanità.
Da allora ad oggi, l’Uomo si è
orientato sempre meglio nel corso
dei millenni, trovando sue strade
nel Mondo ed esplorandone continuamente
di nuove: dalle incisioni
rupestri siamo arrivati ai satelliti
nello spazio ed alle sonde sulle
comete, e la frontiera di Marte non
appare poi così lontana.
L’Uomo ha già camminato molto,
ma ha ancora moltissima strada
da fare: per questo serve la giusta
mappa per farlo.
Ed ecco il primo numero di MAP, il
Magazine degli Alumni del Politecnico
di Milano. MAP vuole essere
una mappa per ritrovare, scoprire e
conoscere tutto quello che è nato,
partito e cresciuto dal Politecnico
di Milano alla conquista dei mondi.
Senza timore, senza paura delle
frontiere e delle sfide dello sviluppo
globale, portando ovunque con
orgoglio e senso etico il Made in
Italy e la cultura Politecnica, dalla
Cina a New York, da un angolo
all’altro del pianeta, e oltre.
Sì, perché gli Alumni del Politecnico
di Milano sono attivi in tutto
il mondo e operano in svariati
contesti tecnici, sociali e culturali:
una Community internazionale di
oltre 90 mila architetti, designer e
ingegneri impegnati a realizzare il
presente per costruire il futuro del
mondo. Con MAP vogliamo aprire
una sorta di cammino di ritorno
per ricordare la strada di casa
dalla quale si è partiti e guardare
avanti, raggiungendo gli Alumni
ovunque essi siano e qualunque
cosa stiano facendo: pianificando
intere città in Cina, come Progetto
CMR dell’architetto Massimo Roj, o
raccogliendo rifiuti spaziali, come
la D-Orbit dell’ingegner Luca Rossettini,
oppure proseguendo nel
segno della purezza dello stile la
tradizione della grande carrozzeria
italiana, come nel caso della H2
Speed, concept car di Pininfarina
firmata dal designer Fabio Filippini.
Sono tantissime le storie che vi
racconteremo in questo primo numero:
storie affascinanti e appassionanti
di Alumni del Politecnico
di Milano, di cui semplicemente
essere orgogliosi. Come orgogliosi
rimaniamo del nostro Ateneo d’eccellenza,
al primo posto tra le università
italiane e di riconosciuta
levatura internazionale.
Prof. Enrico Zio
Presidente AlumniPolimi Association
Delegato del Rettore per gli Alumni
Delegato del Rettore per il Fundraising individuale,
Politecnico di Milano.
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MAP Magazine Alumni Polimi
Buona
lettura
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poli.news
Numeri, storie e ricordi da piazza Leonardo da Vinci
RISPETTARE IL PASSATO, COSTRUIRE IL FUTURO
Piazza Leonardo da Vinci, da parcheggio a spazio giardino da vivere
di Gabriele Ferraresi
“Mi sono laureata in architettura
al Politecnico nel 1988: la
piazza di allora? Era un parcheggio”.
Ricorda bene Sara
Protasoni, docente di Architettura
del Paesaggio alla Scuola
di Architettura, Urbanistica e
Ingegneria delle Costruzioni del
Politecnico e non poteva immaginare
che sarebbe stata proprio
lei a redigere il progetto di
riqualificazione di quella piazza
davanti all’ateneo in cui si era
laureata. Una piazza che sarebbe
stata inaugurata, rinata e restituita
alla città e al Politecnico
28 anni dopo quel giorno, il 23
maggio 2016. Sì, perché da quel
1988 in poi non è che piazza Leonardo
fosse migliorata, anzi.
Era un luogo della città che “non
funzionava”. Ma che cosa non
funzionava di piazza Leonardo?
“Sarei più buona: non è che non
funzionasse in senso assoluto.
Diciamo che che c’erano evidentissimi
problemi di degrado, era
una piazza giardino in cui tutta
la parte verde era stata compromessa
da usi inappropriati,
e soprattutto erano cambiate
le condizioni intorno alla piazza.
Il progetto con cui era nata
non aveva più senso”, insomma,
era da ripensare. Commenta a
MAP la Prof.ssa Sara Protasoni
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MAP Magazine Alumni Polimi
“La nostra idea
era che diventasse
quasi un campus
all’americana, che gli
studenti potessero
andarsene in maniera
molto informale a
mangiare sul prato in
pausa pranzo”
“C’erano la strada, i tombini, i
marciapiedi, macchine ovunque:
fino al 2013 la strada è stata un
enorme parcheggio. La primissima
azione che è stata intrapresa
per l’iniziativa Città Studi Campus
Sostenibile è stata togliere,
sperimentalmente le auto dalla
piazza”. E ha funzionato. Ma al di
là dei parcheggi, c’era anche altro
da ripensare “Quando uno dalla
fermata della metro doveva arrivare
in piazza Leonardo aveva
due opzioni: o camminare nella
palta o sulla terra battuta, o fare
una strana gimcana tra la sbarra
che chiudeva, il pilone della pubblicità…
insomma, ogni portatore
di interessi nella piazza aveva
fatto un intervento scoordinato.
Era fondamentale fare un lavoro
di riordino e di pulizia”. Un lavoro
che ha valorizzato il carattere
storico dello spazio, con “Un
disegno del suolo che “riscrive”
l’assetto originario, valorizzando
sia i parterre esistenti che le
pietre, gli alberi, gli arbusti che
li costituiscono. Un disegno pensato
per essere fruito esclusivamente
dai pedoni”.
Un intervento che ha ricevuto
un plauso pressoché unanime:
“Devo dire che sono soddisfatta
- aggiunge - anche perché
si tratta di un intervento tutto
sommato molto leggero, per due
motivi. Uno, perché lo spazio era
uno spazio storico con una sua
identità, ed era importante lavorarci
in maniera intelligente e
stabilendo una continuità: piazza
Leonardo era nella memoria
di tutti. E poi perché le risorse
erano poche. Nessuno ci pensa,
ma Comune di Milano e Politecnico
non potevano investire le
risorse di grandi imprese internazionali”.
In termini di costi la
riqualificazione di piazza Leonardo
è costata 750-800 mila euro
al Politecnico e circa 1 milione
e 50mila euro al Comune (di cui
500mila per gli spazi verdi e circa
550mila per le opere stradali).
Considerata l’importanza dello
spazio in gioco, una cifra contenuta.
“Ricordo che da studente
non ho mai pensato di andare
a fare gli intervalli lì sul prato, o
mangiare lì - conclude la Prof.ssa
Protasoni - e quello era uno dei
nostri obiettivi: la nostra idea era
che diventasse quasi un campus
all’americana, che gli studenti
potessero andarsene in maniera
molto informale a mangiare sul
prato in pausa pranzo…”.
Missione compiuta, piazza
Leonardo è rinata.
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MAP Magazine Alumni Polimi
RICORDANDO
GUERNICA
di Valerio Millefoglie
La storia del capolavoro di Picasso
che dal 1973 decora la biblioteca
del Politecnico, raccontata da chi c’era
“Io sono il secondo partendo da sinistra”,
dice Alberto Monti, laureato
al Politecnico in Architettura, indicando
nella foto in bianco e nero
un ragazzo con gli occhi chiusi,
dietro un paio di occhiali, dentro
un cappotto pesante, barba e baffi,
che fra le mani stringe un poster
bianco arrotolato. È accovacciato
per terra e sembra riprodurre in un
gioco prospettico il soldato raffigurato
sulla parete alle sue spalle,
che stringe a sua volta una spada,
un cilindro spezzato da cui spunta
un fiore. Il soldato è uno dei protagonisti
del Guernica di Picasso.
Alberto Monti e gli altri ragazzi
della foto hanno appena realizzato
il dipinto in scala 1:1. Ci troviamo
nell’allora atrio della facoltà
di Architettura di Milano, a pochi
giorni dalla morte di Pablo Picasso,
Foto: Alberto Monti
avvenuta l’8 aprile 1973. In un volantino
datato 4 aprile 1973 del
Movimento Studentesco si legge:
“La Facoltà di architettura è occupata
dagli studenti per iniziare la
didattica. Per il rientro dei docenti
democratici che il governo ha allontanato
dalla facoltà, per cacciare
il comitato tecnico e ottenere
il rientro del legittimo Consiglio di
Facoltà, per continuare a sviluppare
la sperimentazione didattica e
scientifica”. Picasso denuncia con
un dipinto la distruzione della città
basca di Guernica da parte dei
nazisti, dichiarando anche che “La
pittura non è fatta per decorare
gli appartamenti, è uno strumento
per attaccare e difendersi”. Il Movimento
Studentesco si difende dalle
scelte del governo della D.C. con
un altro Guernica, un’arma fatta di
cementite e tempere con Vinavil.
“La facoltà era sotto attacco anche
per come la riorganizzazione
dei corsi e dei contenuti potesse
preparare gli studenti a un ruolo
diverso dall’Architettura, in una
società in trasformazione più attenta
ai bisogni sociali e sempre
meno alla speculazione e al profitto”,
racconta Alberto Monti che
fu scelto per creare il disegno di
base grazie alla sua fama di vignettista
satirico per il giornale del
movimento. “La figura dalla quale
iniziai fu la donna con il bambino
morto tra le braccia. Era l’immagine
su cui lo stesso Picasso aveva
più volte lavorato nei suoi schizzi
preparatori. Il disegno fu realizzato
in poche ore e senza ripensamenti.
Nei giorni seguenti si aggiunsero
altri collaboratori e arrivò ad aiutarci
anche un gruppo di studenti
di Brera, in una settimana circa il
lavoro fu completato. Per noi era
un omaggio a un grande artista e
alla sua arte, ma anche un segno
tangibile di riconoscimento a tutti
gli studenti, ai docenti, agli operai
che condividevano le battaglie
politiche e culturali di quegli anni
difficili”.
Sono tanti i nomi che Alberto Monti
ricorda oggi. Dalle altre persone
ritratte in foto, come Giuseppe
Ciabotti, Mara Campana, Ezio
Venosta, ma anche delle persone
che in quel periodo si aggiravano
intorno agli studenti. Umberto Eco,
sue le lezioni tra le più seguite anche
durante l’occupazione. Il grafico
Albe Steiner, che invitava gli
studenti a casa sua per elaborare
i manifesti e le proposte grafiche
di propaganda. Piero Bottoni, che
dopo il suo allontanamento incontrava
gli studenti fuori dalla facoltà
per discutere i piani di studio che
avrebbero portato avanti i suoi assistenti
nei corsi della facoltà occupata.
E ancora Umberto Eco, “Anni
dopo ci siamo rivisti e abbiamo
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MAP Magazine Alumni Polimi
rievocato il momento del nostro
arresto all’alba proprio il giorno
della fine dell’occupazione con
l’arrivo in forze della polizia”.
Alberto Monti e gli altri autori
dell’impresa erano convinti che
subito dopo l’occupazione, con il
ritorno alla legalità, il dipinto sarebbe
stato cancellato. Nel 1974
invece il consiglio di facoltà è reintegrato,
la Sperimentazione entra
nel piano normativo, didattico, accademico,
di legalità. “Se la nostra
generazione può rivendicare qualche
piccolo merito”, riflette Monti,
“c’è sicuramente quello di aver attuato
la partecipazione attiva dei
giovani e delle donne alla politica
e di aver posto i temi della pace,
dei diritti civili, della scuola, dell’istruzione
e del lavoro come cardini
del futuro”.
Nella Sala Guernica del Politecnico,
sul divano proprio di fronte al
dipinto, un ragazzo con un computer
in grembo cerca su un sito di
annunci una bicicletta sportiva.
Una ragazza prende un sorso d’acqua
da una bottiglietta di plastica,
poi torna a studiare nel silenzio,
sotto le lampade bianche di design.
Appena fuori dalla sala chiedo a
un ragazzo se conosce la storia del
Guernica. Risponde di sì “Ci ho fatto
la tesina di terza media”. Chiedo
se conosce la storia del Guernica
della Sala Guernica. Non la conosce.
Gliela racconto e penso che,
come in un’antica piazza d’armi,
sarebbe bello avere una targa commemorativa
su cui leggerla. L’iscrizione
potrebbe concludersi proprio
con queste parole di Alberto Monti,
che solo qualche tempo fa, facendo
una ricerca sul web, ha scoperto
per caso che il dipinto non è mai
stato cancellato: “Qualche anno
dopo ho visto l’originale Guernica a
Madrid, nel museo Reina Sofia. Ero
con mia moglie Francesca, nell’enorme
sala deserta, senza parole,
ci siamo presi per mano e ci siamo
abbracciati. Tutto qui”.
“Qualche anno dopo
ho visto l’originale
Guernica a Madrid, nel
museo Reina Sofia.
Ero con mia moglie,
nell’enorme sala
deserta, senza parole, ci
siamo presi per mano
e ci siamo abbracciati.
Tutto qui”
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MAP Magazine Alumni Polimi
CIRCLE
GLI ALUMNI POLIMI SOSTENGONO
LE ECCELLENZE DEL POLITECNICO DI DOMANI
Finanziare e accompagnare i migliori studenti
per rimettere in circolo la conoscenza
← Giulia Realmonte
studentessa di Ingegneria Energetica
Alessio Durante →
studente di Ingegneria Elettrica
Lanciato a novembre 2015, Circle
è Il nuovo progetto di fundraising
che vuole adottare, nanziare e accompagnare
i migliori studenti del
Politecnico, af ancando l’eccellente
formazione tecnica che ricevono in
aula con un riferimento di grandi
professionisti usciti dal Politecnico
di Milano. Circle consentirà al Politecnico
di competere con le altre
università internazionali che offrono
borse di studio allettanti per i
migliori studenti.
Questo progetto ha tre obiettivi.
1) Finanziare studenti meritevoli
per i risultati ottenuti con borse
di studio del valore di 20 mila euro
ciascuna, per accompagnamento
lungo il biennio magistrale (10 mila
euro il primo anno e 10 mila euro
il secondo, se i risultati vengono
mantenuti).
2) Favorire la retention dei talenti
af nché usciti da una nostra laurea
triennale di primo livello, decidano
di proseguire la propria istruzione
universitaria al Politecnico di Milano.
3) Fornire l’opportunità agli studenti
di incontrare professionisti di
alto livello.
Gli studeni vengono selezionati tra
i triennalisti, attraverso un apposito
bando di concorso e sulla base
di forti criteri di merito e velocità
e gli Alumni membri del Circle accompagnano
gli studenti selezionati
sostenendoli da un punto di
vista economico e rendendo disponibili
consigli ed esperienze. Il progetto
Circle prevede un contributo
da parte di ciascun donor di 2.000
euro all’anno per un periodo di 5
anni e ha già raccolto oltre 40 mila
euro, assicurando l’assegnazione e
l’avvio delle prime due borse. Ogni
circle è costituito da 22 donatori e
ciascun circle ogni anno “adotta”
due studenti i quali oltre a ricevere
la borsa di studio saranno anche
seguiti nel loro percorso accademico
e coinvolti in attività organizzate
dal circle. I primi due studenti selezionati
sono Giulia Realmonte,
studentessa di Ingegneria Energetica
e Alessio Durante, studente di
Ingegneria Elettrica. Sono loro due
le prime eccellenze del Politecnico
a entrare nel Circle: ma è solo l’inizio.
Tra gli Alumni membri dei circle
troviamo al momento: Giampaolo
Dallara, Fondatore Dallara, Gugliel-
mo Fiocchi, Fondatore e CEO GF-
4BIZ, Roberto Beltrame, Presidente
Knorr-Bremse Rail Systems Italia,
Luciano Gobbi, già Presidente della
Banca di Piacenza e Direttore Generale
Finanza del gruppo Pirelli, Marco
Milani, Presidente Vallespluga,
Aldo Fumagalli Romario, Presidente
e Amministratore Delegato Gruppo
Sol, Alessandro Cattani, CEO Esprinet,
Enrico Deluchi, Amministratore
Delegato Canon Italia, Luigi Ferrari,
CEO Lima Corporate Spa, Enrico
Zampedri, Direttore Generale Fondazione
Policlinico Universitario
A. Gemelli Roma, Alberto Rosania,
Hon. Chairman Reconsillia Sagl e
Former President Ansaldo Breda,
Nicola Gavazzi, Senior Partner Egon
Zehnder, Paolo Enrico Colombo,
Executive VP TXT e-solutions, Enrico
Zio, Presidente AlumniPolimi Association,
Elena Cotroneo, Relazioni
strategiche istituzionali Canon Italia.
Per maggiori informazioni su Circle:
sostieni@polimi.it.
I numeri del Poli, oggi
Architettura Design Ingegneria
297 94 925
professori
e ricercatori
professori
e ricercatori
professori
e ricercatori
8260 studenti 4054 studenti 30430 studenti
Laureati al Politecnico in Italia
22% degli architetti
16% degli ingegneri
45% dei designer
5000
600
2050
Studenti che fanno uno stage durante gli studi
Annunci di placement a disposizione dei laureati
sul portale CareerService ogni mese
Colloqui di lavoro per laureati on campus nel 2015
Crescita degli studenti internazionali
5000
4500
4000
3500
3000
2500
2000
1500
1000
500
0
2004 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016
Studenti internazionali provenienti da più di 100 paesi
1497 Frequentano il corso di laurea triennale (6%)
3228 Frequentano il corso di laurea magistrale (21%)
343 Frequentano il corso di dottorato (31%)
Curva di crescita dei laureati dal 1960 a oggi
5000
3750
2500
Architettura
Design
1250
Ingegneria
0
1970
1985
2000
2015
I dati occupazionali del Poli, oggi
L’Indagine Occupazionale sui laureati del Politecnico 2014 a un anno dal conseguimento del titolo di
studio è stata svolta dal Politecnico di Milano (Servizio Studi, Career Service e AlumniPolimi Association)
in collaborazione con SWG e Delos Ricerche. Le interviste si sono svolte sia in modalità on line che
telefoniche e hanno raggiunto l’80,4% dei Laureati Magistrali italiani, il 55,7% dei Laureati magistrali
stranieri e il 75,1% dei Laureati triennali.
I laureati del Politecnico di Milano entrano
più velocemente nel mondo del lavoro e
con contratti più stabili.
È stabile il tasso di occupazione dei Laureati Magistrali italiani del Politecnico di
Milano che si attesta anche quest’anno sul 91% (95,6% per ingegneria, 81,2% per
architettura, 85% per design). Aumenta in maniera significativa la percentuale di
laureati magistrali occupati a 6 mesi dal titolo: il 92,7 % (95% per ingegneria, 87%
per architettura, 89,4 per design) rispetto all’88,3 % dei laureati 2013 (90,7% per
ingegneria, 84,1% per architettura, 84,3% per design). Per quanto riguarda i tipi di
contratto la nuova indagine evidenzia che ben l’88% dei nostri laureati magistrali,
a un anno dalla Laurea, entra nel mercato del lavoro con un contratto di lavoro
stabile (51,6 % a tempo indeterminato, 16,3% a tempo determinato, 20,4% apprendistato).
Il miglioramento è significativo in particolare per i contratti a tempo
indeterminato che registrano un aumento del 16,2% rispetto all’anno scorso.
La retribuzione media netta di
un laureato del Poli è 1462€/mese
Tempi di inserimento nel mercato del lavoro
dopo la laurea, per area disciplinare
(%) sulla totalità degli Alumni occupati
ingegneria
2013 2014
entro 6 mesi* 90,7 95,0
tra i 7 e i 12 mesi 9,3 5,0
architettura
2013 2014
entro 6 mesi* 84,1 87,0
tra i 7 e i 12 mesi 15,9 13,0
design
2013 2014
entro 6 mesi* 84,3 89,4
tra i 7 e i 12 mesi 15,7 10,6
ateneo
2013 2014
entro 6 mesi* 88,3 92,7
tra i 7 e i 12 mesi 11,7 7,3
Classifica QS 2016:
Politecnico di Milano ancora prima università italiana.
Ottimo piazzamento anche nel ranking ARWU di Shanghai
Anche quest’anno la classifica QS World University Rankings laurea il Politecnico
di Milano prima università italiana nella classifica generale.
L’Ateneo di Piazza Leonardo da Vinci guadagna inoltre altre 4 posizioni nel ranking
mondiale, passando dal 187esimo posto al 183esimo. QS World University
Rankings è stata istituita nel 2004 ed è una delle più citate classifiche sulle università
internazionali. Progettata principalmente per i futuri studenti stranieri, è
pubblicata annualmente su www.topuniversities.com. Per questa edizione sono
state considerate 4322 università e ne sono state valutate 916 sulla base dei
seguenti elementi: Academic reputation, Employer reputation, Citations per faculty,
Faculty student, percentuale di studenti e docenti stranieri. In particolare,
l’Ateneo ha ottenuto risultati molto buoni nella valutazione della qualità dei
laureati (Employer reputation, dove è 63simo al mondo) e nella qualità della
didattica e della ricerca (Academic reputation, dove è 159simo). Quest’ultima
posizione sconta una rapporto studenti /docenti molto più alto degli altri atenei
internazionali: se solo questo rapporto fosse allineato a quello delle migliori
università straniere, il Politecnico raggiungerebbe l’81° posto al mondo.
Ottimi risultati per il Politecnico di Milano anche nell’Academic Ranking of
World Universities 2016 (Arwu), la classifica stilata dalla Jiao Tong University
di Shanghai che prende in esame le 500 università migliori nel mondo. Il Politecnico
di Milano passa dalla 254esima posizione a livello mondiale del 2015
alla 232esima, dalla 103esima in Europa alla 91esima e guadagna una posizione
nella classifica italiana posizionandosi al sesto posto. In dettaglio, esaminando i
Ranking of Academic Subjects (le materie specifiche di riferimento dei vari atenei
presi in esame da ARWU), il Politecnico di Milano è al primo posto in Italia
nei settori dell’Ingegneria Chimica, Elettrica ed Elettronica e dell’Ingegneria
Civile. In quest’ultima disciplina il Politecnico è anche tredicesimo al mondo e
quarto nel panorama europeo. “Siamo molto soddisfatti dei risultati – commenta
Giovanni Azzone, Rettore del Politecnico di Milano – purtroppo scontiamo un
rapporto studenti/docenti molto alto ma, con i tassi di occupazione che riusciamo
a garantire, abbiamo scelto di non ridurre il numero delle immatricolazioni”.
better.poli
Idee, progetti e persone che cambiano il mondo
FUTURO ISTANTANEO
Lo spazio urbano sta cambiando: adesso
Conversazione con Stefano Boeri, architetto e Alumnus del Politecnico di Milano, di Franco Bolelli, filosofo e scrittore
Franco Bolelli
Cominciamo dal futuro,
Stefano. Perché davvero il futuro
non è più quello di una
volta: non è più futurologia
o utopia astratta o modello
ideale costruito a tavolino.
Oggi – oggi che fra quando
un bambino entra alle elementari
e quando ne esce il
mondo muta profondamente-
il futuro confina sempre
di più con il presente, e se da
una parte fatichiamo di più
a immaginarlo tanto l’evoluzione
si è fatta istantanea,
dall’altra invece di pensarlo,
prevederlo, fantasticarlo, il
futuro lo stiamo direttamente
costruendo. Tu che progetti
e costruisci, come ti relazioni
con l’idea stessa di futuro?
Stefano Boeri
Quale sarà il futuro delle nostre
città? Quale futuro vogliamo,
quale futuro ci aspetta?
Siamo spesso bombardati
da immagini che hanno un
gusto misto: di vintage e di
esotico. Immagini che evocano
un immaginario legato
alla fantascienza del dopoguerra,
ai cartoon dei Pronipoti,
alle copertine di Urania
e ai film della Nouvelle Vague
e lo accompagnano con le
architetture scintillanti
realizzate nei nuovi epicentri
dell’Oriente metropolitano.
Ma dobbiamo chiederci se
sono queste – in bilico tra la
nostalgia di un futuro immaginato
50 anni fa e un presente
realizzato nei Paesi del
Golfo - le migliori narrazioni
visive del futuro prossimo.
Dovremmo cominciare a ragionare
su tre dimensioni
“utili” del futuro. Un futuro
lontano, a cento anni, che fa
i conti con il tempo lungo dei
grandi cambiamenti climatici
e demografici del pianeta. Un
“I progettisti più seri del futuro metropolitano non pensano a grandi
macchine architettoniche, ma stanno ragionando su forme di intervento
leggero, innesti di tecnologia dentro una città che si autogenera”
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MAP Magazine Alumni Polimi
Stefano Boeri,
Alumnus Polimi Architettura
“In tutta la storia di
noi umani, la città,
la grande metropoli,
è sempre stata vista
come luogo elettivo
della costruzione di
futuro”
Franco Bolelli è nato a Milano nel
1950: filosofo e scrittore, è autore
di Giocate! (Torino, Add, 2012), Viva
Tutto! insieme a Lorenzo Jovanotti
(Torino, Add, 2010) e altri volumi.
Ha ideato, progettato e realizzato
eventi e festival in tutta Italia, tra
cui Mi030, insieme a Stefano Boeri.
futuro a quindici/venti anni,
che fa i conti con le trasformazioni
che oggi possiamo
attivare nelle nostre città e
che tengono conto dei cicli
dell’economia, della geopolitica
internazionale, della
cultura e delle migrazioni.
E il futuro della vita quotidiana,
il futuro del “domani”,
che ha a che vedere con
i cicli della politica, degli
equilibri locali, delle relazioni
interpersonali e familiari.
Queste tre dimensioni
devono essere, tutte e tre
considerate, perché tutte e
tre riguardano e dipendono
da circostanze e comportamenti
attivabili nel presente
quotidiano. Individuale e
collettivo. Tutte e tre queste
dimensioni del futuro vanno
dunque trattate alla stregua
di un orientamento all’azione
presente, come una sorta
di “futuro istantaneo” - per
usare un termine a te caro -
che ci guidi a fissare i criteri
di scelta nella vita presente.
FB
In tutta la storia di noi umani,
la città, la grande metropoli,
è sempre stata vista come il
luogo elettivo della costruzione
di futuro. A te quanto a
me affascina questa mitologia
delle grandi città. Quella
che spinge irresistibilmente
decine di milioni di noi a vivere
a New York, Los Angeles,
Londra, Tokyo, Shanghai, ma
anche più in piccolo Milano e
Roma. Perché è dove ci sono
più connessioni, più intrecci,
più comunicazioni, più combinazioni,
che tutto è più
vivo e più vivibile. Perché più
ci sono incontri e più si crea
varietà, e più si crea varietà
più un luogo, una cultura,
una società, è attraente, dinamica,
energetica.
Se le grandi metropoli sono
così attraenti è per la loro
enorme biodiversità. È perché
contengono, producono
e moltiplicano varietà. È
perché ci offrono sempre più
opzioni, più abbondanza di
scelte, meno uniformità e più
molteplicità. È perché questa
proliferante biodiversità di
culture, idee, linguaggi, stili,
modelli umani, crea combinandosi
all’infinito sempre
nuove culture, idee, linguaggi,
stili, modelli umani.
SB
I progettisti più seri del futuro
metropolitano non
pensano a grandi macchine
architettoniche, ma stanno
ragionando su forme di intervento
leggero, innesti di
tecnologia dentro una città
che si autogenera grazie
alla concentrazione di una
moltitudine di interni, per il
quale non potrà mai esistere
un’architettura, un “masterplan”,
una disciplina. La vera
grande energia urbana dei
prossimi anni è quella degli
immensi spazi di organizzazione
spontanea, non disciplinata,
non “disegnata” che
chiamiamo “slums”. La realtà
crescente e inequivocabile
prodotta da quei milioni di
chilometri quadrati di insediamenti
informali spontanei
– baracche, autocostruzioni,
campi - che circonderan-
21
MAP Magazine Alumni Polimi
Un Fiume Verde a Milano
In queste pagine: i rendering del
Fiume Verde, il progetto di
riqualificazione degli scali
ferroviari di Milano ideato e
progettato da Stefano Boeri.
no le grandi metropoli del
mondo e occuperanno i loro
interstizi vuoti.
Mettiamoci poi che proprio le
continue accelerazioni della
tecnologia ci fanno pensare
che alcune recenti innovazioni
presto saranno desuete.
Un esempio per tutti è quello
dei dispositivi fotovoltaici
e eolici che oggi vengono
aggunti agli edifici e che saranno
presto superati dalla
moltiplicazioni di facciate assorbenti,
porose, rivestite da
membrane ibride (con tessuti
biologici) capaci di catturare
l’energia del vento e del sole
senza il rumore e il peso delle
vecchie turbine.
Un altro aspetto fondamentale
del futuro prossimo sarà
la necessità di demolire, demolire
per ricostruire: demolire
gli edifici in degrado
che costa troppo recuperare
(come molti di quelli costruiti
negli anni Sessanta e Settanta)
e demolire gli elementi
architettonici “tossici” o
desueti. Si pensi all’enorme
quantitativo di edifici industriali-
spesso giganteschi e
tempestati di amianto - per i
quali progettare una riqualificazione
- specialmente abitativa-
è del tutto impensabile.
O alla dismissione dei grandi
mall negli Stati Uniti, dovuta
anche alla rinascita dei negozi
di vicinato. O ai centri
direzionali concepiti intorno
a un’idea del lavoro che è del
tutto superata; alle migliaia e
migliaia di capannoni abbandonati
dalla recessione, in
Italia e nel Nord Est in particolare.
Che farne è una questione
fondamentale. Se non
22
MAP Magazine Alumni Polimi
“Un altro aspetto
fondamentale del
futuro prossimo sarà
la necessità di
demolire, demolire
per ricostruire”
guardiamo negli occhi queste
e altre grandi questioni, rischiamo
di raccontare un futuro
consolante, edulcorato,
che nella migliore delle ipotesi
descrive un presente che
è già attorno a noi: lo skyline
di Seul o di Dubai, la piattaforma
progettata per Melbourne
che già esiste a Singapore
e collega il colmo di tre
torri con un parco orizzontale
a trecento metri di altezza.
Credo che dovremmo sforzarci
di raccontare il futuro
che stiamo progettando, che
vogliamo progettare, considerando
con attenzione queste
dimensioni del futuro. A
partire, per fare due esempi
dalle previsioni della demografia,
che ci dice che in Occidente
la durata della vita
si accorcerà di nuovo, dopo
l’exploit di centenari e babyboomers,
nati in condizioni
ambientali favorevoli e non
ripetibili. O dagli allarmi sui
cambiamenti climatici e soprattutto
sul rischio reale di
mancanza d’acqua potabile.
I processi di desalinizzazione
dell’acqua marina saranno
la vera sfida tecnologica
dei prossimi anni. E la torre-turbina
alta un chilometro
che abbiamo progettato
per il padiglione del Marocco
all’ultima Biennale, ne è un
esempio. Il futuro delle nostre
città lo dobbiamo immaginare,
e raccontare, a partire
da queste grandi questioni.
Altrimenti non parleremo di
futuro, ma delle presenti nostalgie
per un futuro che non
c’è stato -e mai ci sarà.
FB
Nello scenario che tu descrivi,
mi sembra chiaro che al
centro della scena è il momento
di metterci le grandi
visioni: quei progetti e quelle
idee che allargano l’orizzonte,
che costruiscono un futuro
istantaneo. Perché nel
mondo in vertiginosa evoluzione,
soltanto chi ha grandi
visioni è veramente realista.
Perché l’incapacità di nutrire
grandi visioni è il vero peccato
mortale di una politica e di
una cultura che volano basso
e pensano piccolo.
Ecco, con il progetto del Fiume
Verde tu hai lanciato una
grande visione progettuale:
un anello di boschi, oasi,
luoghi di incontro, ma anche
di housing sociale, realizzato
attraverso il milione e duecentomila
metri quadri dei
sette scali ferroviari dismessi.
È un progetto che avrebbe
un impatto straordinario
sulla vivibilità di Milano, che
diventerebbe un irresistibile
polo di attrazione, che ci
proietterebbe al di là tanto
dell’ambientalismo che non
sa proporre che divieti quanto
di quella malsana logica
per cui costruire significa
solo cementificare. Si tratta
di una vera visione sul futuro
di questa città, non semplicemente
del recupero di
alcune aree in disuso.
SB
Milano è una grande metropoli
che con la città metropolitana
raggiunge una
dimensione demografica di
quattro o cinque milioni di
abitanti, ed è una delle capitali
europee sia dal punto di vi-
23
MAP Magazine Alumni Polimi
sta produttivo che da quello
della creatività, della progettazione,
della comunicazione.
Ma credo che il suo futuro
prossimo sia legato alla
estensione della biodiversità
in tutte le sue forme, e questa
degli scali merci è un’occasione
unica. Altre città in alcuni
momenti della loro storia
hanno saputo cogliere un’opportunità
straordinaria come
questa: in particolar modo
ho raccontato che in fondo
oggi Manhattan non sarebbe
la stessa se non avesse avuto
nel 1860 la visione di realizzare
un grande parco centrale
invece che continuare la
griglia ortogonale e densissima
dell’edificato. È un paragone
molto impegnativo, ma
davvero penso che il Fiume
Verde possa essere per Milano
quello che Central Park è
stato per New York.
FB
È una estensione del lavoro
sulla biodiversità che era già
al centro del Bosco Verticale.
SB
È chiaro che il Bosco è un edificio
verticale mentre il Fiume
Verde si estende in orizzontale:
ma certo, la filosofia è la
stessa. Tanto il Bosco Verticale
che il Fiume Verde sono
una sfida per il nostro futuro:
sono due progetti fondati su
una forte sperimentazione
perché senza esperimenti
non c’è possibilità di evoluzione,
e sono due progetti
che mettono al centro l’idea
di una forestazione urbana
e la ricchezza e la possibilità
di coabitazione di molteplici
specie viventi.
FB
In un mondo dove è sempre
più necessario reinventare
tutto, unita’ di misura, paradigmi,
linguaggi, relazioni,
davvero tutto quanto, tu stai
proponendo una reinvenzione
dell’architettura stessa.
SB
Credo che per l’architettura
sia finito il tempo dell’autoreferenzialità
e sia necessaria
una visione dell’architettura
capace di abbracciare le
grandi questioni sociali che il
mutamento mette all’ordine
del giorno.
“Tanto il Bosco Verticale che il Fiume Verde sono una sfida per il nostro
futuro: sono due progetti fondati su una forte sperimentazione perché
senza esperimenti non c’è possibilità di evoluzione”
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MAP Magazine Alumni Polimi
LA REINVENZIONE
DELLA RUOTA
Prima della guida autonoma,
le nostre auto monteranno
pneumatici intelligenti:
ecco come funzionano
di Marco Villa
Tutti parlano
dell’auto a guida
autonoma: ma le
tecnologie smart che
rivoluzionano la
nostra sicurezza alla
guida sono già sul
mercato. E funzionano.
Si parla tanto di auto a guida autonoma
inserite in smart cities,
verso un futuro in cui l’uomo sarà
guidato dalla macchina e non viceversa.
Ma in attesa che il futuro
si compia forse ci conviene tenere
d’occhio dispositivi più alla nostra
portata e tecnologie già mass
market nel mondo automotive.
Per monitorare costantemente la
condizione dei nostri pneumatici,
la nostra sicurezza passa per un
congegno grande come una moneta:
è questa la dimensione del
sensore inserito negli pneumatici
Cyber Tyre, progettato da Pirelli
in collaborazione con il Politecnico
di Milano, che permette
di monitorare costantemente lo
stato della strada, fornendo informazioni
cruciali per rendere più
sicura la guida.
Cuore dell’intero progetto è un
sensore elettronico che registra e
interpreta le condizioni della strada
e il modo in cui lo pneumatico
le affronta: a seconda dello stato
dell’asfalto, infatti, lo pneumatico
incontra differenti tipi di attrito,
che vengono riconosciuti dal sistema
di bordo e interpretati.
I dati raccolti vengono inviati in
tempo reale al computer di bordo,
che li rielabora visivamente per
permettere al guidatore di comprendere
tutto in pochi istanti.
La parte più importante del processo,
però, è quella che non si
vede: i dati relativi all’attrito permettono
infatti al sistema di comprendere
se la strada è asciutta o
bagnata o se ad esempio è presente
del ghiaccio che potrebbe
compromettere l’aderenza dello
pneumatico e quindi la sicurezza
della marcia della vettura. Per
raggiungere questo risultato, sono
moltissimi i parametri monitorati
metro dopo metro: oltre al grado
di aderenza, il sensore controlla
l’inclinazione della gomma e l’area
dello pneumatico a contatto
con la strada, ma anche il livello
di usura dello pneumatico stesso,
la sua temperatura e la pressione.
Grazie a tutti questi dati, il
computer di bordo può compiere
una sorta di previsione su cosa
accadrà nei metri successivi, sia
in termini di condizioni stradali,
sia di performance della gomma.
In questo modo potrà avvertire
il guidatore di un imminente
pericolo e, in alcuni casi, ridurre
autonomamente la velocità della
macchina. In condizioni normali,
in cui non ci sono pericoli in vista,
il Cyber Tyre garantisce invece la
possibilità di regolare velocità e
frenata con assoluta precisione.
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ADESSO
PEDALA!
Volata Cycles e Zehus Bike+ vogliono reinventare la
bicicletta: ecco come ci stanno riuscendo
di Gabriele Ferraresi
©Volata Cycles
“Il momento più
difficile? Il passaggio
da un prototipo
ad una bici
ingegnerizzabile e
producibile in scala”
Dalla sua invenzione a oggi la
bicicletta è in sostanza rimasta
fedele a se stessa. Due ruote - e
fin lì ci siamo - poi un telaio, catena,
pedali, un manubrio, una
sella, in fondo poco altro. È il
mezzo perfetto, il mezzo a propulsione
umana più diffuso al
mondo, il mezzo che oltre a renderci
la vita più semplice in città
riesce anche a donarci qualcosa
di abbastanza vicino alla felicità.
Ma dalla due ruote tradizionale
è anche possibile andare
oltre e percorrere nuove strade:
è quello che ha voluto fare
Volata Cycles, azienda fondata
dagli Alumni del Politecnico di
Milano Marco Salvioli e Mattia
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MAP Magazine Alumni Polimi
De Santis. “Le biciclette non si
sono mai evolute dal punto di
vista digitale, e gli utenti sono
costretti ad arredarle con luci,
computer, tracciatori GPS - racconta
Marco Salvioli a MAP - e
con Volata Cycles abbiamo voluto
creare una bici completa
che integra tutte quelle feature,
mantenendo un ottimo design
e una continuità di prodotto”.
Missione compiuta. Le bici
smart Volata Cycles vantano infatti
un computer con schermo
a colori integrato nell’attacco
del manubrio, per conoscere in
tempo reale le nostre prestazioni:
dal battito cardiaco alle calorie
bruciate, e non solo, anche
per ottenere direttamente dalla
nostra Volata indicazioni meteo,
o un utilissimo navigatore per
orientarci lungo i nostri percorsi.
L’anima di Volata, spiega
Salvioli è “Una board elettronica,
che è il cervello di Volata” e
grazie all’app Volata Cycles la
smart bike dialoga via Bluetooth
con il nostro smartphone, sincronizzandosi
e permettendo di
rispondere alle chiamate senza
staccare le mani dal manubrio
e in totale sicurezza. Niente catena:
a trasmettere la spinta
dai pedali al mozzo posteriore
c’è una cinghia, per cui niente
grasso e addio alle mollette sui
pantaloni. Infine a proposito di
sicurezza e antifurto le biciclette
di Volata sono anche a prova
di ladro e installano un antifurto
GPS integrato nel telaio, per
sapere sempre grazie al satellite
dove si trova la propria due
ruote. “Il momento più difficile?
Il passaggio da un prototipo ad
una bici ingegnerizzabile e producibile
in scala” ricorda Salvioli,
mentre il momento migliore
“Quando abbiamo ultimato il
primo prototipo e abbiamo iniziato
a mostrarlo alla gente. Ci
dicevano “perché nessuno ci ha
pensato prima?” e la reazione
delle persone è stata la migliore
che potessimo sperare”.
Con una decina di collaboratori
“Principalmente in Italia, ma a
breve saranno distribuiti al 50%
a Milano e al 50% a San Francisco”
precisa Salvioli, Volata è
“Designed in Italy, assembled in
California”, e, per il momento,
ha un prezzo di listino finale di
3.499 dollari, al cambio attuale
3091 euro. Troppo? No, perché
la tecnologia ha un costo, e
“Questa è una scelta sul nostro
primo modello, abbiamo creato
una bici di fascia alta, che
di conseguenza ha molte parti
costose. Abbiate pazienza - sorride
Salvioli - presto faremo
bici più economiche”. Quanto
costeranno? “Non mi sbilancio
sul prezzo, ma arriverà una Volata
più economica del modello
attuale”. Intanto per prenotare
quella attuale bastano 299 dollari,
sul sito Volata Cycles.
Ma non c’è solo Volata Cycles a
voler ripensare il concetto di bicicletta:
anche Zehus Bike+. Perché
se la bici è cambiata poco
dalla sua nascita, ancora meno
è cambiata la ruota, almeno
dal V millennio a.C. quando fu
inventata dai Sumeri, e proprio
per questo ha margine di miglioramento,
soprattutto se la si
Il mozzo posteriore Zehus Bike+.
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Marco Salvioli, 34 anni
FOUNDER E CEO DI VOLATA CYCLES
ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA MECCANICA
©Volata Cycles
monta su una bici. È l’idea alla
base di Zehus Bike+: che vuole
aggredire un mercato che cresce
a doppia cifra, quello della
bicicletta a pedalata assistita
con un mozzo posteriore smart
che unisce batteria, sensori e
motore dentro alla ruota posteriore
di ogni bicicletta e non
prevede ricarica. Giovanni Alli,
marketing general manager di
Zehus Bike+, anche lui Alumnus
del Politecnico, racconta a MAP
cosa è cambiato nel mondo del
“pedelec”, la pedalata assistita,
da quando ha iniziato a occuparsene,
nel 2009: “È cambiato
il “non”: da allora a oggi la bicicletta
a pedalata assistita non
è più un veicolo per persone
anziane o con problemi motori.
Oggi esistono biciclette a pedalata
assistita che pesano 12-13
kg, alcune sono utilizzate per
fare escursioni in montagna o
downhill con salti ed evoluzioni.
La connettività con smartphone
e la diagnostica a bordo veicolo
- da noi già introdotta nei prototipi
del 2010 - sta diventando
negli ultimi anni un must di questo
tipo di veicoli. Le batterie
ora sono stato dell’arte rispetto
al mondo dei veicoli come durata
e densità energetica e le logiche
di controllo si sono evolute
a tal punto da dare a una bici a
pedalata assistita un piacere di
guida impensabile”. Impensabile,
fino a ieri.
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MAP Magazine Alumni Polimi
L’ITALIA VA A 400 KM/H GRAZIE AL POLI
Il Politecnico e i test del Frecciarossa1000
di Marco Villa
Frecciarossa1000 è il
treno Made in Italy
più veloce d’Europa:
e nel futuro c’è la
possibilità di arrivare
a risultati ancora
migliori
Tornate indietro nel tempo: non
di molto, poco più di una decina
d’anni. Tornate indietro nel tempo
e pensate che all’inizio degli anni
2000 per andare da Milano a Roma
in treno occorrevano circa 5 ore, un
tempo non molto diverso da quello
che si impiegava per compiere lo
stesso tragitto in macchina. Flash
forward e torniamo al presente: tra
la salita su un treno a Milano e la
discesa in banchina a Roma siamo
arrivati a 2 ore e 20 minuti.
Tutto merito del Frecciarossa1000,
ultimo modello in funzione sulla
tratta Torino-Napoli e al centro
di continui test di sicurezza per
stabilire la velocità massima che
può raggiungere. L’ultima di queste
prove ha portato il traguardo a
390 km/h, picco da raggiungere per
permettere l’omologazione della
velocità di esercizio a 350 km/h,
come richiesto dalle normative.
Una certificazione di sicurezza arrivata
con il contributo del Politecnico
di Milano, che ha affiancato nel
lavoro Italcertifer, l’ente di Ferrovie
dello Stato che si occupa di questo
tipo di verifiche. Questa performance
ha reso Frecciarossa1000
il treno realizzato per la maggior
parte in Italia più veloce d’Europa,
con la concreta possibilità di arrivare
a risultati ancora migliori, che
ovviamente porteranno a un ulteriore
abbassamento del tempo di
percorrenza.
Durante le prove è stata testata
non solo la trazione che deve essere
in grado di raggiungere e mantenere
la velocità commerciale ma
anche le prestazioni di frenatura,
la captazione dal pantografo e la
protezione da parte dei sistemi di
sicurezza. Durante il test, a bordo
del treno c’erano decine di persone,
impegnate a tenere sotto
controllo tutti i valori e a garantire
la buona riuscita della prova: il
Frecciarossa1000 è stato lanciato
a quasi 400 km/h lungo la tratta
Milano-Torino, durante una notte
in cui non erano previsti altri treni
in transito. Il risultato positivo
del test apre la strada a ulteriori
miglioramenti nelle prestazioni e
nei servizi, grazie anche all’apporto
dato dalla tecnologia ERTMS/ETCS,
sistema di sicurezza di altissimo livello
e assoluta affidabilità, in grado
di intervenire automaticamente
in caso venga rilevata la possibilità
di un errore umano.
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MAP Magazine Alumni Polimi
©Goppion
TRA LE VETRINE E I TESORI
Le teche che proteggono i capolavori dell’arte
hanno un’anima politecnica
di Valerio Millefoglie
“Un progetto è ben
riuscito quando la
vetrina scompare,
quando il nostro lavoro
non si vede più”
Un uomo visita i musei di tutto il
mondo non per vedere le opere
esposte ma per vedere le teche
dentro le quali le opere sono esposte.
È il suo lavoro.
Della Gioconda vede la vetrina. Dei
gioielli della Corona nella Torre di
Londra ammira il segreto del movimento
di apertura dolce della
copertura. Il tesoro di San Gennaro
non è la collana in oro, argento e
pietre preziose. Della Pietà Rondanini
si concentra sulla piattaforma
antisismica sopra la quale è posizionata
la scultura di Michelangelo.
È il suo lavoro. Potrebbe essere l’inizio
di un libro di José Saramago,
è invece la storia vera degli Alumni
che lavorano per l’azienda milanese
Goppion. Un’azienda che a sua
volta ha una storia che potrebbe
essere tratta da un romanzo: nel
1952 Nino Goppion realizza, nella
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MAP Magazine Alumni Polimi
sua officina vetraria, espositori per
bar e negozi, sue sono le vetrine
per Ferrero. Nel 1956 il Museo degli
Strumenti Musicali di Milano gli
commissiona la vetrina per l’allestimento
di strumenti dal Cinquecento
al Novecento. Subito dopo,
con la fine del boom economico in
Italia, parte il boom economico di
Goppion nel resto del mondo. Oggi
sul loro sito si descrivono così: “La
nostra ambizione è proteggere e
tramandare i capolavori dell’umanità,
il nostro impegno quotidiano
è aiutare i Musei a realizzarla”.
Inserendo l’indirizzo dell’azienda
sul navigatore si legge: Trezzano sul
Naviglio, Milano, Museo d’Arte.
Tra le persone che visitano i musei
per l’arte delle teche ci sono due
ex alunni del Politecnico di Milano,
sono Giancarlo Cotrufo e Oscar
Gerolin.
Giancarlo Cotrufo si è laureato in
Ingegneria Meccanica ad Indirizzo
Energetico nel 1997 con una tesi
sull’impianto di climatizzazione di
un edificio storico monumentale
adibito a museo, il chiostro di
Sant’Eustorgio. Nel 2007 ha trovato
l’annuncio di ricerca personale da
parte della Goppion “Ho inviato il
curriculum il sabato. Il lunedì ero
qui per il colloquio”, racconta passeggiando
per il laboratorio museotecnico,
un grande capannone
con due anime: quella artigianale,
fatta di lastre, viti, muletti, imballaggi
con sopra scritto “Ligabue”,
una riproduzione del Cristo Morto
del Mantegna e, proprio di fronte,
un acquario a vista dove c’è l’ufficio
tecnico.
Qui gli ingegneri sviluppano progetti
in 2D, seguono le lavorazioni
in 3D e intanto, davanti a loro,
prendono realmente forma i materiali.
Oscar Gerolin si è laureato
in Architettura nel 1992 con una
tesi dal titolo, “Analisi del degrado
e problemi di consolidamento delle
strutture in muratura del santuario
della Beata Vergine dei Miracoli in
Saronno”. Come il suo collega, nel
2003 ha risposto a un annuncio della
Goppion.
Giancarlo Cotrufo è assegnato ai
musei di Francia e Arabia Saudita.
Oscar Gerolin all’Inghilterra e all’America.
“La salvaguardia degli oggetti
esposti non può limitarsi alla protezione
contro il degrado fisico, i
furti e gli atti vandalici di qualunque
tipo, ma deve comprendere
anche le calamità naturali come
i terremoti”, c’è scritto nel volume
Sistema Q – Vetrine da museo
– Le tecniche, edito da Goppion
nel 2011. Oscar Gerolin commenta,
“Nel momento in cui esce il catalogo,
noi siamo già avanti. Le idee
sono più veloci della stampa”. La
Goppion infatti è specializzata
nel creare vetrine personalizzate,
su misura per ciascuna opera. Un
vaso e una statuetta in rame raffigurante
un Pegaso sono esposti
in una vetrina, un foglio avvisa:
“TEST IN CORSO per favore non
scollegare la vetrina intelligente”.
Una telecamera dall’alto inquadra
la scena. Mi spiegano che siamo
in collegamento con Los Angeles,
e quando di notte l’azienda è
chiusa, dal fuso orario della fiera
americana un operatore si collega
per mostrare ai visitatori il sistema
capace di autoregolarsi i parametri
di luminosità e di umidità,
“Mentre prima l’operatore doveva
aprire la vetrina e controllare,
adesso è la vetrina che avvisa l’operatore
se è in corso un’anomalia”,
spiega Cotrufo che mi racconta
poi uno dei momenti più belli
della carriera. “Una volta l’anno,
di solito a novembre, quando le
condizioni di temperatura esterna
sono simili a quelle interne della
vetrina, la Gioconda viene estratta
dalla sua vetrina, nella sala degli
Stati del Louvre pressoché vuota.
Quel giorno tra le poche persone
presenti ci siamo noi”.
Sostituiscono guarnizioni, cambiano
filtri, verificano la parte elettronica,
sempre sotto lo sguardo
della Monna Lisa, “Per me è come
stare a casa, in famiglia. Ormai
riconosco il quadro anche dal retro”.
Rievocando gli anni di studio
Oscar Gerolin dice, “Da studente
hai la forza e le potenzialità per
cambiare il mondo. Poi hai l’esperienza
dei capelli grigi”. La stessa
esperienza che gli fa dire, “Per noi
un progetto è ben riuscito quando
la vetrina scompare, quando il nostro
lavoro non si vede più, è questo
il nostro fine, sparire”. Andando
via si cammina su mattonelle
d’epoca, si poggia la mano su un
grande pomello del cancelletto
d’ingresso con il marchio Goppion
in rilievo. Questa è stata la prima
sede dell’azienda e qui Alessandro
Goppion, figlio del fondatore Nino,
vuole rimanere, nel passato dove
tutto è cominciato.
Nella periferia di centri commerciali,
carrozzerie e grill house che
popolano il paesaggio con mucche
giganti, mentre a pochi passi
un cartoncino dentro una teca
simula la pergamena della Costituzione
Americana e una scultura
abbozzata richiama le forme della
Pietà Rondanini, pronta al test
Terremoto e a resistere all’umanità
che verrà.
Il Politecnico di Milano ha collaborato
alla progettazione della speciale
piattaforma antisismica e antivibrante
che sorregge la Pietà
Rondanini di Michelangelo, conservata
nella sala dell’Ospedale Spagnolo
al Castello Sforzesco di Milano.
La piattaforma è stata studiata per
difendere l’opera d’arte da eventuali
scosse e dalle vibrazioni delle linee
metropolitane che passano sotto il
sito. Il progetto ha vinto il premio Global
Best Project, assegnato dalla prestigiosa
rivista di settore Engineering
News-Record. La piattaforma è stata
progettata e realizzata in collaborazione
dal Politecnico di Milano, Thk
con Miyamoto International e Goppion.
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MAP Magazine Alumni Polimi
SPOON.CITY
La rivoluzione online per il match tra domanda
e offerta nei servizi dell’architettura
di Marco Villa
©Alberto Cristofaro
Caterina Pilar Palumbo, 29 anni
CO-FOUNDER DI SPOON.CITY
ALUMNA POLIMI ARCHITETTURA
Lucia Rampanti, 28 anni
FOUNDER E CEO SPOON.CITY
ALUMNA POLIMI ARCHITETTURA
“In Cina il marchio
Made in Italy per
un architetto vale
qualcosa in più, e il
gusto dei cinesi si sta
raffinando, si lasciano
consigliare”
Il mercato del lavoro per gli architetti
negli ultimi anni vive un momento di
passaggio in cui le opportunità professionali
spesso nascono lontano
dai confini nazionali. Conferma tutto
oggi Lucia Rampanti, 28 anni, founder
e CEO della piattaforma online
spoon.CITY, che sottolinea “In Italia
c’è circa un architetto ogni 400 abitanti,
negli Stati Uniti uno ogni 3000,
in Cina uno ogni 40000”.
Per molti professionisti che vogliono
lavorare quindi non c’è scelta: andare
dove c’è un mercato pronto ad accoglierli.
È proprio questa la mission
di spoon.CITY, la start up che promette
di rivoluzionare il modo con
cui avviene il match tra domanda e
offerta per professionisti dell’architettura
e committenti favorendone
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MAP Magazine Alumni Polimi
l’incontro online. Alumna 2013 del
Politecnico e laureata in Architettura
d’Interni, Lucia Rampanti è appena
tornata dalla Cina. Ma sono anni
che gira il mondo: “In Cina il marchio
Made in Italy per un architetto vale
qualcosa in più, inoltre il gusto dei
nuovi ricchi cinesi si sta raffinando,
e si lasciano consigliare. È in corso
un’evoluzione del gusto senso estetico
- aggiunge - e dopo anni e anni di
crescita forsennata in cui si abbatteva
e si costruiva senza rispetto per
il passato si stanno cominciando a
vedere anche le prime renovation” e
continua a raccontarci la sua esperienza
in Oriente.
“Sono stata di recente a Pechino,
dove costruiscono quasi una nuova
linea della metropolitana all’anno:
e gli architetti italiani che ho incontrato
lì vivono situazioni professionali
in Italia impensabili, in
meglio. Si lavora molto, certo, ma
le responsabilità arrivano subito, le
possibilità di crescita sono frequenti,
si può lavorare su progetti che in
Italia sono fantascienza. Ma la Cina
può anche essere un buco nero:
c’è chi voleva stare sei mesi, ha
finito per viverci dieci anni. Inoltre
cambiare vita, amici, essere degli
stranieri in un luogo dove nessuno
parla la tua lingua può non essere
la scelta migliore per tutti”. Ma
può anche essere la scelta giusta:
guardare oltre l’Italia, fare un’esperienza
internazionale, può aprire
porte che neanche si immaginava
esistessero.
È proprio così che è andata per Lucia
e per spoon.CITY, la piattaforma
online per far incontrare architetto
e committente la cui idea nacque
quando si trovava grazie a una borsa
di studio a sviluppare un’altra
start up in California nel 2015. “Sì,
l’idea di spoon.CITY è nata a San
Francisco: stare lì in quel periodo è
stato come fare un salto nel futuro
di cinque anni”. Un dna internazionale
che è la forza di un progetto
che ha l’ambizione di cambiare la
vita alle decine di migliaia di professionisti
dell’architettura che
ogni anno arrancano in una professione
sempre più affollata.
“Quello che mi è rimasto dell’esperienza
in California? Tutti pensano
a come esserti utili, a come darti
una mano, anche chi è in alto, ai
vertici delle aziende: magari impiegano
un mese a trovare uno slot
per parlarti, ma poi sono disponibilissimi.
Uno dei difetti? Strano ma
vero: la burocrazia”.
Tornata in Italia nel giugno del 2015
Lucia Rampanti coinvolge Caterina
Pilar Palumbo, anche lei Alumna
Polimi, conosciuta anni prima a un
master in museografia e pochi mesi
dopo vincono il Premio Raffaele Sirica
per startup e giovani professionisti
indetto dal CNAPPC. spoon.
CITY oggi vanta una community di
circa 600 iscritti “Una cifra che abbiamo
raggiunto con pochissimi investimenti
nel marketing” precisa,
una cifra destinata a crescere. Magari
guardando a Oriente.
Ma come funziona all’atto pratico
spoon.CITY? È un sito in cui gli
architetti si possono iscrivere e i
committenti posso inviarci delle
richieste per servizi di architettura.
Se decidiamo di registrarci come
architetti veniamo profilati in base
alle nostre specialità, se invece abbiamo
bisogno dei servizi di un architetto,
ci viene chiesto di descrivere
il tipo di lavoro che vogliamo
commissionare e quali siano i requisiti
del professionista che dovrà
svolgerlo. A quel punto il sistema
offre una serie di scelte al committente,
e se domanda, offerta, e soprattutto
preventivo si incontrano,
si parte. E spoon.CITY ha fatto il suo
dovere.
33
MAP Magazine Alumni Polimi
“In California tutti
pensano a come
esserti utili, a come
darti una mano, anche
chi è in alto, ai vertici
delle aziende. Uno dei
difetti? La burocrazia”
D-ORBIT
LA SOLUZIONE ITALIANA AI
RIFIUTI SPAZIALI
L’Alumnus Luca Rossettini vuole liberare l’orbita terrestre
dallo space waste: ecco come
di Federico Sardo
Luca Rossettini, 40 anni
FOUNDER E CEO D-ORBIT
ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE
30
MAP Magazine Alumni Polimi
“Ho fatto nascere
D-Orbit in Italia per
la capacità dei
cervelli italiani di
essere creativi e
flessibili,
indispensabile
per inventarsi un
nuovo mercato”
Luca Rossettini voleva fare l’astronauta.
Dopo essere diventato
ufficiale paracadutista e dopo
una laurea in Ing. Aerospaziale
e un Dottorato al Politecnico di
Milano si è iscritto al concorso
nel 2008, ha passato la selezione
che da diecimila candidature tagliava
a centottanta, ed è stato
scartato in fase avanzata.
Non si è dato per vinto: con una
borsa di studio è andato in Silicon
Valley, ha studiato ancora -
business e fondi di venture capital
- e poi è entrato in Nasa.
Lì ha deciso di cominciare un’attività
imprenditoriale: è tornato
a casa, ha fatto valutare la realizzabilità
della sua idea e creato
D-Orbit, una società a cui tutto
il mondo oggi guarda con interesse.
Perché ha deciso di occuparsi di
detriti e rottami portati dall’uomo
nello spazio?
Se non risolviamo il problema,
a breve nessuno potrà più utilizzare
lo spazio. Ci sarebbe un
impatto disastroso per tutto il
settore e dieci volte di più per le
attività sulla terra, più del 70%
della tecnologia che oggi utilizziamo
viene da lì. Quale idea migliore
che risolvere un problema
globale in un mercato nel quale
nessuno fino a quel momento
aveva messo piede?
Il modo in cui si è agito fino a
oggi non è sostenibile?
Replicando quello che è successo
in qualsiasi altro settore industriale
sulla terra, inizialmente
si pensa che la risorsa che si
utilizza sia infinita.
E si scaricavano i residui industriali
nell’acqua dicendo “tanto
è una goccia in un oceano”.
Quando si lanciavano due satelliti
l’anno, e in orbita ce n’erano
dieci, era difficile pensare che
sarebbero diventati seimila, più
centinaia di milioni di frammenti
dovuti a esplosioni e collisioni.
Nello spazio noi usiamo dei
settori molto specifici, utili per
mandare servizi a terra. Un po’
come le autostrade: l’Italia ha
milioni di strade, però poi a agosto
siamo tutti sulla A1. Nel momento
in cui quei settori si riempiono
di spazzatura, l’operatore
satellitare non riesce più a fare
il suo lavoro.
Quindi avete creato un dispositivo
di de-orbiting per satelliti,
che li rimuove una volta che
hanno finito il loro lavoro. Dove
vanno a finire?
I satelliti in orbita bassa vengono
riportati a terra in modo diretto,
si decide prima dove farli
cadere. Gli altri li spostiamo in
un’orbita che è stata già creata
e viene chiamata orbita cimitero,
in attesa che in futuro con una
35
MAP Magazine Alumni Polimi
tecnologia che ancora non esiste
possano essere riciclati.
Grazie al vostro sistema, che
utilizza una specie di razzo a
parte, non bisogna tenere propellente
per il ritorno.
Questo è il punto cruciale. La nostra
idea riduce i costi e aumenta
la redditività: per tornare ora si
usa del carburante che permetterebbe
di rimanere in orbita più
a lungo. Noi lasciamo utilizzare il
carburante fino all’ultima goccia,
e poi ci pensiamo noi. Con un’affidabilità
decisamente superiore
a quella che ha il satellite in quel
momento.
Che cos’è d-sat e quando verrà
lanciato?
Ci siamo costruiti da soli un satellite,
e ci abbiamo messo un
nostro dispositivo. Il lancio è
previsto per marzo 2017. Sarà il
primo satellite al mondo rimosso
in modo controllato e sicuro
tramite un dispositivo indipendente.
Immagino sia un settore in
continua espansione.
Si trova proprio al tipping point
in cui si passa da una crescita lineare
alla crescita esponenziale.
Fino a due o tre anni fa, si lanciavano
un centinaio di satelliti
l’anno, l’anno scorso 400. Mentre
prima l’80% era governativo oggi
queste percentuali sono invertite,
a favore di quelli commerciali.
Come funziona la regolamentazione?
Esiste un trattato internazionale
soprannominato space treaty
che dà delle regole di utilizzo dello
spazio, e un comitato apposito
ONU che si occupa proprio di relitti.
Ha stilato delle linee guida
che servono per implementare
le leggi. In Europa sei obbligato a
consegnare un pacchetto di documentazione
che spiega come
rimuoverai il tuo satellite.
Come mai ha provato a realizzare
questo sogno in Italia? Non
ha mai pensato che forse sarebbe
stato più facile andare all’estero?
Intanto per la capacità dei cervelli
italiani di essere creativi e
flessibili, indispensabile per inventarsi
un nuovo mercato.
Il secondo riguarda l’opportunità
di essere tra i primi in Italia ad
approcciare il settore spaziale
con un modello market-driven
stile Silicon Valley, e quindi con
maggiore possibilità di trovare
supporti finanziari.
L’Italia ha una storia incredibilmente
ricca di innovazione spaziale:
è stato il terzo Paese al
mondo ad avere un satellite in
orbita dopo URSS e Stati Uniti.
Questo ci ha permesso di trovare
anche persone con grande
esperienza e competenze.
Se dovesse azzardare una previsione,
secondo lei più o meno
quando succederà che i viaggi
spaziali diventino una realtà
quasi normale?
Se guardassimo i trend del settore
probabilmente la previsione
sarebbe molto in là. Però conosco
una decina di aziende che
stanno già sviluppando navicelle
in grado di portare persone
nello spazio, ne esiste una che
sta progettando delle stazioni
orbitali in cui le persone potrebbero
soggiornare. Mi aspetto
che tra dieci, quindici anni ci
sarà una seria possibilità di fare
viaggi nello spazio a un prezzo
non milionario.
“L’Italia ha una storia
incredibilmente ricca
di innovazione
spaziale: è stato il
terzo Paese al mondo
ad avere un satellite
in orbita dopo URSS
e Stati Uniti”
36
MAP Magazine Alumni Polimi
IL RESPIRO
DELL’ULTIMA CENA
La sfida del Politecnico: purificare l’aria per proteggere e
conservare il Cenacolo vinciano di Gabriele Ferraresi
Da sinistra il rettore dell’Università Bicocca Cristina Messa, il direttore del Polo Museale Lombardo Stefano L’Occaso,
la direttrice del Cenacolo Vinciano Chiara Rostagno, il rettore del Politecnico Giovanni Azzone.
Il primo ad accorgersi della fragilità
dell’opera fu il suo creatore: si dice
che già Leonardo Da Vinci nel 1498
notò qualche crepa a lavoro terminato.
Il più grande capolavoro del
Rinascimento, la sua Ultima Cena,
nasceva così per mille ragioni - tempera
grassa, leganti oleosi utilizzati,
umidità della parete su cui era dipinta
- condannata a cinque e più
secoli di stenti e di conservazione
difficile, e non solo.
Anche di restauri approssimativi
che hanno in alcuni casi compromesso
del tutto il senso iniziale
dato dal genio leonardesco alla
cena più celebre della Storia: ma vedendo
le vicende in una prospettiva
storica, forse quei restauri malfatti
che oggi critichiamo erano l’unico
modo per far arrivare l’opera a noi.
Un’opera che nel 1566, a neanche
un secolo dalla sua realizzazione, il
Vasari descriveva come “una macchia
abbagliata”, mentre lo storico
dell’arte ed erudito Francesco Scannelli
che ebbe modo di vederla nel
1642 la descrisse come già irrimediabilmente
compromessa. I secoli
successivi non furono più generosi
per quello che è uno degli affreschi
più famosi dell’umanità, e che malgrado
tutto arrivò fino ai giorni nostri,
passando anche indenne da un
bombardamento: il 30 agosto 1943,
durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il convento venne distrutto, sì,
ma l’affresco di Leonardo si salvò:
e rimase all’aperto ed esposto alle
intemperie per alcuni giorni. Ancora
oggi quella per la salvaguardia del
Cenacolo è una battaglia da combattere
ogni giorno, e il Politecnico
c’è. Il Polo Museale della Lombardia
con il Politecnico di Milano e
l’Università Bicocca stanno infatti
progettando nuovi sistemi per salvaguardare
l’Ultima Cena di Leonardo
da Vinci e valorizzare il Museo
del Cenacolo Vinciano. L’obiettivo?
Rendere la sala del Cenacolo uno
dei luoghi con il più basso tasso
di concentrazione di Pm 10 d’Italia,
arrivando a meno di tre microgrammi
al metro cubo di polveri sottili.
Il tutto per preservare al meglio e
più a lungo possibile il delicato affresco
dal deterioramento, e poter
dare la possibilità a più persone di
visitare il capolavoro di Leonardo
da Vinci. Temperatura, umidità, concentrazione
di particolato e contaminanti
gassosi: una delicatissima
opera d’arte come l’Ultima Cena ha
bisogno di un monitoraggio costante
e di interventi ad alta tecnologia
ottenuti potenziando gli impianti
di depurazione dell’aria, installando
porte intelligenti e panchine in
grado di assorbire le polveri sottili
portate dagli abiti dei visitatori di
quello che è uno dei luoghi d’arte
più visitati d’Italia, con 420.333 presenze
annuali nel 2015.
37
MAP Magazine Alumni Polimi
H2 SPEED
PROGETTARE IL FUTURO
La supercar green nata a Cambiano e premiata a Ginevra
raccontata da Fabio Filippini, Vice President Design e Chief
Creative Officer di Pininfarina
di Gabriele Ferraresi
Fabio Filippini, 52 anni
VICE PRESIDENT DESIGN E CCO PININFARINA
ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA
Tutte le immagini: ©Pininfarina
Un buon designer dell’automobile
- forse ogni buon designer? - ha
un obiettivo improbo, il suo compito
è raggiungerlo: rendere il sogno
realtà. Almeno così racconta Fabio
Filippini, Alumnus Architettura del
Politecnico di Milano, laureato con
lode nel 1989 e oggi ai vertici di Pininfarina,
dove dal 1° aprile 2011 ricopre
il ruolo di Vice President Design
e Chief Creative Officer. La sua
prima concept car in Pininfarina è
stata la Cambiano, nel 2012, l’ultima,
la H2 Speed, presentata a marzo di
quest’anno al Salone di Ginevra.
39
< La H2 Speed a confronto
della Sigma Grand Prix
del 1968.
In un’intervista spiegava che il design
di un’auto di oggi non è mai il
frutto di un solo uomo. E ieri invece?
Negli anni sessanta, settanta,
poteva essere frutto di un uomo
solo?
Sì e no. È chiaro che soprattutto
negli anni cinquanta e sessanta
esistevano delle figure di grande
talento, che un po’ erano gli archetipi
di quello che poi è diventato il
designer automobilistico in Italia.
Ed erano soprattutto delle individualità,
se pensiamo agli anni cinquanta,
sessanta settanta. Pininfarina
già allora aveva una storia
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più complessa: era già un’azienda
sviluppata. Esistevano questi grandi
personaggi, Aldo Brovarone, Leonardo
Fioravanti, Paolo Martin e
tanti altri che sono passati da Pininfarina,
che avevano un estro e
un tocco personale: però questo
loro tocco personale si sviluppava
in una struttura che aveva qualcosa
di organico, in cui c’erano uno
spirito e una visione forti. In cui
tutto un team, che andava dai disegnatori
tecnici fino agli ingegneri,
fino ai modellisti prototipisti o
i battilastra aveva questa cultura
aziendale, o cultura di design, che
portava a creare oggetti che pur
pensati da personaggi diversi alla
fine continuavano a rappresentare
il design di Pininfarina. Ed è
un caso particolare. Altre aziende
all’epoca - penso a Giugiaro, penso
a Marcello Gandini - avevano un
tocco unico, e si poteva affermare
che un’auto era stata disegnata
da loro. Sempre nel passato poi ci
sono situazioni in cui uno può dire
“Mah, è stata davvero il frutto solo
del disegno di una persona?” perché
a un certo punto intervenivano
i battilastra, artigiani che interpretavano
a loro modo i disegni. E loro
stessi avevano una capacità di interpretare
e sviluppare al di là di
quello che era l’intento iniziale del
disegnatore: ci sono auto famosissime,
come la Ferrari GTO del 1962,
disegnata in parte da Pininfarina
e in parte da Scaglietti, che si dice
sia stata un oggetto realizzato proprio
con questo savoir faire un po’
generalizzato, un savoir faire che fa
sì che un insieme di persone con
determinate competenze e sensibilità
creino questa alchimia, per
produrre poi un oggetto unico.
In quanti lavorano nel suo team in
Pininfarina?
Circa 120 persone, ma non tutte
lavorano sullo stesso progetto. Tra
quei 120 ci sono i designer veri e
propri, sono inclusi i tecnici, che
hanno formazione tecnico-ingegneristica
e contribuiscono a queste
visioni portando contributi tecnologici
e funzionali, ci sono degli
specialisti di modellazione virtuale
3D, e anche loro trasformano
< A sinistra la concept
car Cambiano del
2012, primo progetto
di ricerca seguito da
Filippini in Pininfarina.
le idee in forme tridimensionali e
virtuali. È un mestiere in cui occorre
una grande sensibilità formale,
e la capacità di interpretare un desiderio
e coniugarlo con i contenuti
tecnici da integrare. Poi ci sono
i modellisti, che fanno un lavoro
manuale di rifinitura sui modelli,
che sempre più sono realizzati
al 90% da fresatura digitale, però
esistono ancora e sono quelli che
danno quel tocco, diciamo artistico,
e legato all’aspetto emotivo che
fa sempre parte del design dell’automobile.
Nel 2012 avete realizzato la concept
Cambiano
La Cambiano è stato il primo prototipo
di ricerca che ho fatto qui in
Pininfarina, sotto la mia responsabilità.
Per me era importante che
rappresentasse lo stato dell’arte
del design secondo Pininfarina,
fondato su valori identitari come
la purezza, l’eleganza, l’innovazione.
Si tratta di un’auto a trazione
elettrica che cercava di utilizzare
una nuova tecnologia ibrida per
aumentare l’autonomia. Volendo
dare l’idea di un veicolo di grande
presenza, un veicolo che potesse
suscitare emozioni, avevamo
scelto di dare una forma e una
proporzione che comunque - un
po’ in contraddizione con una tecnologia
così innovativa - doveva
rappresentare un ideale classico
dell’auto, portato alla sua estrema
essenzialità e purezza. Difatti
la Cambiano dal punto di vista di
stile è un’auto cartesiana, quasi
razionale: ha un cofano lungo che
riprende un po’ l’architettura delle
grandi granturismo di lusso con
motori a 8, 12 cilindri longitudinale.
È di quest’anno invece la H2 Speed,
supercar a idrogeno che coniuga
prestazioni straordinarie, sportività
e puro divertimento di guida
nel pieno rispetto dell’ambiente.
A metà strada tra il prototipo da
competizione e la supercar di produzione,
H2 Speed è la prima auto
da pista a idrogeno ad alte prestazioni
al mondo.
A marzo avete presentato al Salone
di Ginevra la concept H2, una
vettura nata per le alte prestazioni
e premiata come Best Concept
del Salone di Ginevra 2016 dal
magazine americano Autoweek
Sì, e il premio è stata una grande
motivazione per me e il mio team
nel portare verso la produzione
questo innovativo oggetto di design
che racchiude tecnologia,
sostenibilità, armonia e flusso aerodinamico.
Nella H2 forma e funzione
si fondono e danno vita a
un design degli esterni all’insegna
della sportività, sembra quasi una
scultura potente, affascinante. Con
la H2 ci siamo trovati davanti a una
doppia sfida: disegnare una vettura
su un telaio in carbonio e su
un’impostazione meccanica estrema
(lunghezza 4700, altezza 1087,
larghezza 2000, passo 2900) e, al
40 MAP Magazine Alumni Polimi
tempo stesso, vestire il sistema
GreenGT Full Power Hydrogen, una
tecnologia innovativa che offre in
termini di architettura del veicolo
quell’originalità da cui scaturisce
un prodotto unico ed esclusivo.
La H2 Speed è una supercar con
un propulsore elettrico-idrogeno
Sì, la H2 Speed si muove grazie alla
tecnologia Full Hydrogen Power
presentata da GreenGT e non è un
progetto ipotetico, ma il risultato
di un programma di sviluppo e test
che dura da due anni e ha trovato
la sua massima espressione nel
concept H2 Speed. Full Hydrogen
Power significa un potente gruppo
motopropulsore elettrico-idrogeno
a fuel cell, e il risultato è una
vettura a zero emissioni in grado
di raggiungere i 300 km/h rilasciando
nell’atmosfera solo vapore
acqueo. Grazie ad una potenza
massima di 503 cavalli, il motore
consente di accelerare da 0 a 100
km/h in 3,4 secondi. Siamo molto
soddisfatti anche della rapidità
di rifornimento, sconosciuta alle
elettriche tradizionali: il pieno di
idrogeno può essere fatto in soli
3 minuti. Inoltre, è silenziosissima,
la H2 Speed annulla quasi del tutto
l’inquinamento acustico, il veicolo
presenta però un suono unico,
a causa del suo compressore,
ma molto diverso da quello delle
auto elettriche convenzionali.
Le citazioni stilistiche della H2 rimandano
a un progetto del 1968
A destra la concept
car H2 Speed del 2016,
presentata quest’anno
al Salone di Ginevra >
marchiato Pininfarina, la Sigma
Grand Prix
Esatto, la scelta del colore di carrozzeria
trae spunto dalla Sigma Grand
Prix e ne reinterpreta in chiave
moderna le tonalità, con una vernice
monocroma in bianco perlato.
Come nella Sigma, l’aggiunta di
tocchi fluorescenti in vermiglione
e giallo acido mette in evidenza le
zone funzionali: la punta aerodinamica
del frontale, lo scoop aerodinamico
ed il filo della deriva
centrale, le derive dell’alettone, le
finestrelle che lasciano intravedere
i serbatoi laterali a idrogeno, così
come i dettagli tecnici sui mozzi dei
cerchioni e le pinze freni.
Come cambierà l’auto di domani?
È una domanda di grande attualità.
E in un momento particolare come
quello che stiamo attraversando
diventa difficile dare una risposta
chiara. Di certo l’automobile autonoma
sarà un passo fondamentale,
un cambiamento sociale profondo.
Porterà delle trasformazioni nei
sistemi di mobilità a livello mondiale,
nelle metropoli, e trasformerà
anche l’oggetto automobile,
che passerà da oggetto di possesso
individuale a oggetto di utilizzo
pubblico o semipubblico, quasi una
commodity. Si va verso la dematerializzazione
dell’oggetto automobile,
che diventerà una sorta di
scatola con componenti tecnologici
che non avranno neanche più motivo
per essere realizzati da un’unica
casa produttrice, che magari ha
competenze o specificità particolari,
di maneggevolezza, di prestazioni,
di sicurezza. Oggi identifichiamo
i costruttori di auto anche in base a
questi valori che gli appartengono.
Se pensiamo alla Volvo pensiamo
alla sicurezza, se pensiamo all’Alfa
Romeo pensiamo alla sportività…
quando le auto saranno delle strutture
composte con pezzi di produzione
standard, dove il fornitore di
batterie più performanti le installa
sul 90% dei veicoli del mondo, il
vero interrogativo sarà come riuscire
e dare una valorizzazione emozionale
a questi veicoli.
È un futuro in cui l’auto rischia di
perdere l’anima?
Esatto. Senza togliere niente a chi
disegna lavatrici, non ho mai sentito
nessuno che si emozionasse
per il design della propria lavatrice,
così come non ho mai visto musei
del design della lavatrice, probabilmente
ci sono, ma magari non sono
così eccitanti come i musei dell’automobile.
Non ho mai sentito persone
al bar commentare la propria
lavatrice e il numero di giri che fa.
Uno può dire: quelli dell’automobile
sono valori passati, ma questa
mitologia dell’automobile c’è. La
domanda è come fare a trasmettere
questi valori in maniera consona
all’epoca in cui siamo. Non è che
debbano essere necessariamente
la velocità o la performance, magari
sarà la qualità dell’esperienza
del viaggio. Di sicuro ci sarà un
desiderio di personalizzazione di
questi veicoli, quindi l’emozione
e l’anima la si troverà come oggi
qualcuno si mette nello schermo
dello smartphone la foto delle vacanze
o dei figli, e l’oggetto, pur
essendo in fondo una piastrella
con uno schermo davanti diventa
personalizzato con qualcosa che si
lega alla propria esperienza. L’automobile
dovrà in qualche modo
adattarsi a questi principi e trovare
nuove forme di emozione.
Che cosa ricorda degli anni al Politecnico
di Milano?
Del 1989 ricordo una Facoltà di Architettura
del Politecnico che era
un centro di grande scambio culturale
internazionale: era il periodo
in cui il design milanese dettava la
via da percorrere a tutto il mondo,
in pieno boom. Io da studente
di architettura mi appassionavo al
design, ma mantenevo una predisposizione
al design dell’auto, il cui
centro però era a Torino. Da questa
esperienza creativa e culturale
all’epoca ho tratto degli insegnamenti
fondamentali, che mi avrebbero
poi aiutato anche nella mia
pratica più specifica del design automobilistico
ad avere una visione
molto aperta: ad avere un senso di
analisi, di costruzione del progetto
che va molto al di là del design automobilistico.
Mi ha aiutato molto
nella mia carriera.
41
MAP Magazine Alumni Polimi
COME NASCE UNA CITTÀ
Il progetto Made in Italy
per una Cina ecosostenibile
firmato dall’Alumnus Massimo Roj
di Davide Coppo
“Shenzhen, a partire
dagli anni Ottanta, si
è sviluppata in modo
vorace: è passata da
300.000 abitanti a 18
milioni”
Le città in cui viviamo sono mondi
in cui la nostra vita, la nostra
casa, i nostri bar e i nostri uffici
sono un granello di sabbia nel
vento del tempo. Siamo abituati a
studiarne la genesi, antichissima:
i primi insediamenti, il cardo e il
decumano, le mura e i monumenti,
le chiese. Sono frutto di un lento
sviluppo organico, durato secoli,
che possiamo tracciare sui libri
di storia, di arte e di urbanistica
come si leggono i cerchi in una
quercia tagliata. Questo, tuttavia,
vale per l’Europa, e in un certo
modo per le Americhe. Ma altre
città, soprattutto in Asia, stanno
nascendo oggi.
Come nasce una città partendo da
zero? Massimo Roj e il suo studio
hanno progettato “China-EU Future
City”, un distretto di 4 chilometri
quadrati a Shenzhen, nella
Cina meridionale. Si tratta di un
polo urbano la cui prima pietra è
stata posata lo scorso maggio, focalizzato
sullo sviluppo sostenibile:
Shenzhen, a partire dagli anni
Ottanta, si è sviluppata in modo
vorace: è passata da 300.000 abitanti
a 18 milioni, una crescita mai
vista prima. Roj si è laureato al
Politecnico e ha fondato, nel 1994,
la sua compagnia Progetto CMR,
con sede a Milano.
“Quello che chiedono a noi, in
quanto italiani, è uno standard
qualitativo elevato. Possiamo
42
MAP Magazine Alumni Polimi
lamentarci del traffico a Milano e
Roma, ma non abbiamo idea del
traffico che c’è qui a Shenzhen.
E poi, tradizionalmente, i cinesi
guardano ai costi e ai tempi”, mi
dice Massimo Roj. La prima area
del progetto si chiamerà Huan De
Town, potrebbe essere già pronta
nel giro di un anno, e sarà dedicata
alla ricerca, alla formazione,
alle attività commerciali, in parte
alla residenza.
In un’epoca in cui il termine gentrificazione
è centrale nel discorso
urbanistico, come si progetta a
tavolino un quartiere? Se le aree
di aggregazione tradizionalmente
nascono, crescono e cambiano
in modo “liquido”, come riuscire a
pianificarle? Roj spiega: “La sfida
è quella di riuscire a capire quali
evoluzioni dal punto di vista sociale
possono avvenire, come far
sì che noi possiamo incontrarci in
modo naturale. Ricordando che le
nostre città sono nate intorno alla
piazza, intorno a cui scorre la vita
dei quartieri. E poi il verde fruibile.
Puntiamo molto sull’idea di città
multicentrica, in cui ogni centro è
autosufficiente ma ben collegato
con gli altri”.
Naturalmente, il fattore culturale
è fondamentale nel pensare
alla forma e alla funzione di una
nuova città. “Soprattutto in Cina”,
dice Roj, “un Paese grande come
un continente. Qui esistono 27
Perum rem rendanditi
optiam aut aut
facimporem aut es et
ncomnihicae sunt laboruptio
tecatio dolore
siniam quissit laut
diversi ceppi etnici. Dobbiamo riuscire
a trovare il maggior numero di
informazioni, ci serviamo spesso di
studi fatti dalle università locali, in
questo caso abbiamo lavorato con
la Shenzhen University. Nel nord
della Cina, ad esempio, usano cibi
molto caldi. Nel sud prevale il fritto.
Se penso a una piazza, devo tenere
conto di queste informazioni”.
Quello di Shenzhen non è un esempio
“pilota” nell’ambito delle smart
cities progettate ex novo. La Corea
del Sud, dopo anni di guerra civile,
si ritrovò semi-distrutta nel 1953.
All’epoca Seul contava “soltanto” un
milione di abitanti. Oggi sono decuplicati,
e l’area metropolitana arriva
a 25 milioni. A 60 chilometri dalla
capitale è nata nel 2004 Songdo,
una “città intelligente” con milioni
di sensori installati nelle strade,
nella rete elettrica e nelle abitazioni
private. “Il tema della tecnologia è
fondamentale anche qui. A Seul ci
sono situazione che fanno rimanere
sbalorditi, ma Shenzhen è la patria
tecnologica cinese. È previsto l’utilizzo
di tecnologie per il recupero
43
MAP Magazine Alumni Polimi
dell’acqua piovana e dell’energia
geotermica, di pannelli fotovoltaici
sugli edifici e di altri sistemi attivi e
passivi che riducono sensibilmente
il consumo energetico complessivo”.
Il discorso del fondatore di Progetto
CMR torna sempre sul “modello
europeo” di città, fondato su una
parola in particolare che ricorre in
quasi tutte le frasi che pronuncia:
qualità. Conclude: “La qualità della
vita è strettamente legata alla qualità
dei materiali”.
Con la PolimiRUN la community
politecnica si ritrova e corre per
sostenere gli studenti del
Politecnico di Milano
prossima edizione • 21 maggio 2017
La PolimiRUN 2017 si avvicina, è tempo di mettersi in forma! PolimiRUN è un
evento di raccolta fondi organizzato dal Politecnico di Milano che accompagna
ogni anno studenti, docenti, dipendenti, Alumni e chiunque abbia voglia
di correre insieme alla fervente community politecnica. Bastano poche
parole per descriverla: 10 km, competitiva e non competitiva, che unisce i
campus di Bovisa e Leonardo passando dal centro di Milano; una corsa che
spinge chi vive il Politecnico quotidianamente a vedere quegli spazi sotto
una luce diversa, una corsa che riporta gli ex studenti all'interno dei loro vecchi
campus e che invita familiari, amici e sportivi ad unirsi in questo grande
avvenimento targato Polimi.
Lo scopo della manifestazione è quello di raccogliere borse di studio per
sostenere i futuri architetti, designer e ingegneri del Politecnico.
La prima edizione si è svolta il 16 aprile 2016 e ha visto la partecipazione
di 3.000 persone tra studenti, Alumni, dipendenti e amici del Politecnico. Ad
attenderli al traguardo, il Rettore Prof. Giovanni Azzone insieme al suo Delegato
per le Attività Sportive Prof. Francesco Calvetti e i due campioni olimpici
Alberto Cova e Antonio Rossi. Le quote di iscrizione, per un totale di 30.000
euro più i 22.500 euro di contributi degli sponsor, sono state trasformate in
borse di studio, garantendo così nuove opportunità a studenti meritevoli.
Tutta la città è chiamata a partecipare a questo grande evento Politecnico,
all'insegna del divertimento e dello stare insieme per supportare/incoraggiare/sostenere
gli studenti.
Se hai perso la prima edizione visita il sito www.polimirun.it e comincia ad
allenarti perché il 21 maggio 2017 la PolimiRUN attraverserà nuovamente la
città di Milano. Apertura iscrizioni gennaio 2017.
IL CIELO, L’ACQUA
E LE STELLE
Il progetto
per il nuovo acquario di New York
raccontato da Piero Lissoni,
Alumnus Polimi
di Davide Coppo
©Giovanni Gastel
“Abbiamo pensato di
disegnare un edificio
che dialogasse
con l’acqua, mi
interessava il
concetto di isola
nascosta”
New York è una città complessa,
molto più complessa di quanto
la definizione “Skyscrapers city”
lasci intuire. Quando ci si abitua
a qualcosa, le sue straordinarietà
perdono il loro fulgore.
E così ci siamo abituati a una
città di cemento e vetro, che
coniuga l’alto – altissimo – con
il sottosuolo, una rete tra le più
complesse al mondo di tunnel
sotterranei. Tutto questo, soprattutto,
costruito su un sistema
ibrido tra terraferma e isole.
New York ha un rapporto unico,
tra le metropoli del pianeta,
con l’acqua. Il nuovo acquario
della città ideato dallo Studio
Lissoni, esplora la dimensione
marina della città come nessuna
altra struttura, in precedenza,
aveva fatto.
È una struttura che, a differenza
di altri acquari famosi come
quello di Genova e quello più
recente di Valencia, non si sviluppa
verso l’alto, come qualsiasi
normale costruzione, ma
verso il basso. Sembrerebbe,
con il senno di poi, naturale,
trattandosi di un progetto
dedicato alla vita subacquea.
Chiedo a Piero Lissoni – che ha
firmato il nuovo Nyc Aquarium
& Public Waterfront con Miguel
Casal Ribeiro, João Silva e Mattia
Susani – se l’idea è stata
ispirata da esempi precedenti o
è nata da un pensiero originale:
“Abbiamo pensato di disegnare
un edificio che dialogasse
con l’acqua”, dice, “mi interessava
ragionare con il concetto
di isola nascosta nell’acqua.
Abbiamo volutamente escluso
l’ennesimo edificio esterno, è in
fondo un’idea semplice”. Il progetto
è stato scelto tra 565 partecipanti
e nascerà sulle rive
dell’East River, in una zona di
Brooklyn, dice Lissoni, “negletta,
abbandonata, bisognosa di
affetto”.
Il sito dell’acquario è scavato e
conterrà 8 diverse biosfere. Di
queste, quattro rappresentano
gli oceani - Atlantico, Pacifico,
Indiano, Sud - e quattro gli altri
mari - Mediterraneo, Caraibi,
Rosso, Tasman - mentre i poli
verranno simboleggiati da un
iceberg posto al centro. Lo Studio
ha lavorato per la presentazione
del progetto con alcuni
scienziati dell’ambiente, anche
se la parte più stretta della collaborazione
con biologi e zoologi
– come avviene ad esempio
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MAP Magazine Alumni Polimi
In queste pagine: i rendering del
progetto ideato dallo Studio Lissoni
per il nuovo Acquario di New York.
48
MAP Magazine Alumni Polimi
“È un’idea nata
seguendo
un’ispirazione
romantica,
forse anche naïf.
D’altronde tutti, a
un certo punto della
nostra vita, ci siamo
trovati davanti al
mare, di notte, con
un cielo stellato”
per l’ammodernamento degli
zoo – sarà un passaggio solo
successivo. Piero Lissoni spiega:
“C’è ancora molto lavoro
da fare. Questo concorso era
composto da tre moduli differenti:
il primo ci ha selezionato,
il secondo ci ha permesso il
primo approccio progettuale,
così alle semifinali siamo arrivati
in 190. Ne vengono scelti
dodici, poi uno. La partita vera
si gioca in questi mesi. Per ora
dobbiamo aspettare che termini
il crowdfunding che ha
lanciato la città di New York:
dovranno prima trovare dieci
grandi donatori, poi ci sarà
una raccolta fondi più aperta”.
Nel frattempo stanno stimando
quanto tempo – e quanti soldi
– costerà deviare il corso dello
Hudson. Il fiume sarà il motore
dell’acquario: “Tutto l’edificio è
stato pensato a consumo zero.
Abbiamo lavorato con un impianto
tecnologico che permette
alle correnti dello Hudson
di generare energia attraverso
delle micro centrali elettriche”,
dice Lissoni.
Un’altra innovazione del progetto
dell’Aquarium riguarda
ciò che dall’acqua, fisicamente,
è più lontano: il cielo, la volta
di stelle e pianeti. C’è una cosa,
tuttavia, che li unisce: l’oscurità.
Ogni notte l’acquario viene
coperto da quella che di giorno
è un’isola verde, che diventa
cupola – da fuori – e planetario
– da dentro. “È un meccanismo
molto gestibile che funziona
abitualmente in molti
grandi stadi, senza particolari
patimenti, e non è nemmeno
troppo costoso”, dice Lissoni. “Il
planetario funzionerà davvero,
la riproduzione del cielo è esatta.
E a seconda degli emisferi
e dei mari, cambierà naturalmente
il tipo di cielo mostrato”.
Sull’ispirazione per la volta
stellata, la concretezza architettonica
sparisce. Lissoni dice:
“È un’idea nata seguendo un’ispirazione
romantica, forse anche
naïf. D’altronde tutti, a un
certo punto della nostra vita, ci
siamo trovati davanti al mare,
di notte, con un cielo stellato
sopra gli occhi”.
49
MAP Magazine Alumni Polimi
Alessandro Mendini, 85 anni
ARCHITETTO, DESIGNER, ARTISTA
ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA
“Mi piaceva
disegnare, ma non
ero sicuro
che avrei fatto
l’architetto: più che
progettare, volevo
fare il cartoonist.
Ma Architettura
al Politecnico era un
luogo interessante...”
©Alberto Ferrero
L’ECCELLENZA ITALIANA
DALLE BOTTEGHE
RINASCIMENTALI
ALLA STAMPA 3D
L’Italia, Milano e l’evoluzione del
design attraverso gli occhi di un Maestro
dell’architettura contemporanea
di Irene Zreick
©Carlo Lavatori
Alessandro Mendini si laurea in
Architettura al Politecnico di Milano
nel 1959. Nel 2006 il Poli gli
riconosce la laurea Honoris Causa
in Disegno Industriale. Tra i tanti
premi alla carriera che lo consacrano
come uno dei “geni” del ‘900
italiano anche lo European Prize
for Architecture. Sono solo alcuni
dei tanti successi e riconoscimenti
del grande architetto Polimi.
Un primo della classe, quindi?
“Nient’affatto”, risponde Alessandro.
“Uno dei momenti peggiori
della mia vita fu l’impatto col
Poli. Per ragioni famigliari, fin da
bambino ero destinato a fare l’ingegnere,
quindi mi iscrissi a ingegneria,
ma fu uno shock. Io lavoro
di psiche, non di oggettività…”
Dall’Atelier Mendini, lo studio di
Milano che condivide con il fratello
Francesco (anche lui Alumnus
Polimi), Alessandro ci racconta la
sua vita di studente e di professionista
con grande allegria. Cartina
del Campus Leonardo alla mano,
segue con il dito i primi passi dei
suoi anni al Poli: “Scappavo dalle
aule di Analisi per andare a sbirciare
gli studenti di Architettura
che disegnavano su quei bei tavoli
grandi, con i fogli bianchi, e
mi affascinava l’atmosfera anarchica
che si respirava. Gli studenti
di ingegneria, invece, erano
sempre così ingessati. Ci misi 6
mesi a convincermi che dovevo
cambiare facoltà, e altri 6 mesi
a convincermi a dirlo ai miei genitori.
Lo feci con una lettera di 5
pagine in cui motivavo la mia decisione.
Ma mi stavo preoccupando
inutilmente! Mi risposero: fai quello
che vuoi!”
Una volta trovata la tua vocazione,
la vita fu un pochino più facile?
Non proprio. Ho sempre vissuto
nella paura degli esami, soprattutto
quelli delle materie scientifiche.
Mi piaceva disegnare, ma non ero
sicuro che avrei fatto l’architetto:
più che progettare, volevo fare il
cartoonist. Ma Architettura era un
luogo interessante: ricordo Portaluppi,
un architetto geniale e sensibilissimo
ma poco democratico,
che presiedeva la facoltà come
un generale; e poi c’era Gio Ponti,
un vero sognatore, che veniva in
aula con le sue scarpe da tennis.
Oggi sembra una cosa normale,
ma all’epoca proprio non si usava!
Faceva delle lezioni poetico-inventive,
molto suggestive, e poi se ne
andava. L’altro grande personaggio
che ebbe influenza su di me
fu Rogers. Era un grande pensatore,
un filosofo. Aveva un detto:
“io non so disegnare”. Ed era vero,
se ci provava faceva degli sgorbi
terribili! Mi insegnò a pensare
51
MAP Magazine Alumni Polimi
all’architettura come a un luogo
teorico e di pensiero, oltre che
come luogo di pratica.
Ma se volevi fare il cartoonist,
perché hai studiato Architettura?
Non ci trovo nulla di strano. In
quegli anni si laureò architetto al
Poli uno dei più grandi vignettisti
del XX secolo, Saul Steinberg. A me
interessavano la grafica e la calligrafia,
amavo Walt Disney e pensavo
ad un futuro da illustratore.
Un’altra mia passione era la scrittura.
Per 15 anni, già durante gli
studi e più intensamente dopo la
laurea, frequentai le redazioni di
riviste milanesi; ne diressi alcune
(Casabella e Domus) e ne fondai
una (Modo) con alcuni amici. Dal
mio ruolo di critico, teorico e giornalista
ebbi la possibilità di conoscere
molti industriali italiani.
All’epoca la scrittura rappresentava
il 70% della mia vita. Mi sono
messo a progettare in ritardo.
Oggi però la scrittura non è più la
tua occupazione primaria: come
mai questo slittamento?
Quando ho cominciato era il periodo
del ’68, il periodo del contro-design,
del contraddittorio alle
industrie, al consumo e alla plastica.
Ci riunivamo in gruppi, come Alchimia,
in cui si tendeva a lavorare
con le mani, a non disegnare: una
specie di artigianato radicalizzato.
Da parte mia, all’epoca sentivo la
necessità di non sporcare i luoghi
con il mio progetto: volevo rimanere
astratto. Piano piano queste
cose sono cambiate e maturate
in modo diverso, e mi è venuto il
desiderio di praticare. L’occasione
me la diede l’amicizia, cresciuta
nel mondo delle riviste, con Alberto
Alessi. Avevo iniziato a lavorare
di teoria sulla sua storia aziendale
e a fare delle diagnosi strategiche
sulla sua industria.
Ma una diagnosi strategica non è
questione di numeri e bilanci?
Oggi come allora, si può parlare
di numeri e risk assessment, ma
si può anche parlare delle problematiche
intellettuali legate al
mondo aziendale, ad esempio le
responsabilità sociali ed estetiche.
A quell’epoca tante aziende italiane
erano disposte a spendere del
denaro per fare delle sperimentazioni
libere. Oggi questo non può
più avvenire per motivi di crisi oppure
di modificati atteggiamenti.
Ma riprendiamo il racconto: “Sul
piano dell’industrial design, fu l’amicizia
con Alessi a darmi l’occasione
di iniziare a mettere in pratica.
Poi a un certo punto suonò
al mio campanello il direttore del
Groninger Museum proponendomi
di disegnargli la nuova sede del
museo. Gli piaceva il mio metodo:
in Alchimia ho lavorato molto connettendo
e assemblando autori
diversi con armonia, come un direttore
d’orchestra. È un elemento
in comune tra scrittura e architettura:
il direttore di rivista e l’architetto
sono chiamati ad orchestrare
diversi strumenti e a combinare il
lavoro di molte persone. Un buon
direttore d’orchestra è quello che
fa suonare al meglio ogni strumento.
Voleva che applicassi questo
metodo patchwork al disegno
del nuovo museo”.
Qual è il legame concettuale tra
scrittura e progetto?
I miei interessi iniziali erano rivolti
all’espressionismo di Gaudì, Erich
Mendelsohn, Rudolf Steiner e
pertanto all’antroposofia, a questi
luoghi magici molto complessi che
scivolano verso il surrealismo. Ho
sempre frequentato la pittura moderna
italiana e milanese (Morandi,
De Chirico, Carrà, Sironi) e ho sempre
visto le cose da un punto di vista
figurativo e letterario. Scrivere
e figurare per me sono sempre impastati,
mescolati. Non so motivare
un mio progetto, se non ci scrivo
intorno una serie di parole per
chiarirlo a me stesso! Io lavoro di
schizzi e di parole. Gli schizzi sono
il residuo del piacere del racconto
visivo che contiene l’essenza del
mio lavoro: il progetto può saltare
fuori, eventualmente, ma è un effetto
collaterale. E, qualche volta,
un disturbo, perché tra un’idea e
la sua realizzazione c’è di mezzo di
tutto, burocrazia, amministrazioni,
denari… sono delle grandi palle al
piede. Il piacere di lavorare è quel-
©Carlo Lavatori
“Una vita se non è
raccontabile, quasi
non esiste: vale
anche per gli oggetti”
52
MAP Magazine Alumni Polimi
lo di trasmettere delle poetiche,
dei racconti. Un oggetto deve raccontare
una storia. La mia poltrona
si chiama Poltrona di Proust in
omaggio alla Recherche, che simboleggia
proprio questa esigenza.
Attraverso le storie e gli aneddoti,
gli oggetti entrano in relazione fra
di loro come le persone. Una vita,
se non è raccontabile, quasi non
esiste: vale anche per gli oggetti.
Qual è la cosa più difficile del tuo
lavoro?
Ho fatto molta fatica a capire che
cosa fossi. Ho una certa indifferenza
tecnica: mi piace pitturare,
scrivere, fare grafica ecc… una cosa
non prevale sull’altra. Mi spiego
meglio: Medardo Rosso era uno
scultore con la cera. Sapeva fare
solo quello, e lo faceva in modo
eccellente. Oppure, dal punto di
vista dei contenuti, Morandi si è
centrato sulle bottiglie. Io invece
sono dispersivo, eclettico. Sono
sempre attratto da quello che
non mi appartiene e spreco le mie
energie cercandolo. Pertanto mi è
molto difficile dire che cosa faccio.
È tutto molto frammentato e caleidoscopico.
Ma in tutto questo casino
che ho nella testa, c’è anche un
metodo, un’ipotesi di lavoro. E lavoro
come un operaio, dalla mattina
alla sera, anzi di più, perché un
53
MAP Magazine Alumni Polimi
operaio non lavora la domenica.
Hai parlato di responsabilità
estetica. Cosa significa?
Al giorno d’oggi, se un uomo vuole
avere una responsabilità sociale
e politica, deve farlo di mestiere.
La responsabilità sociale per un
progettista ha un campo d’azione
limitato e definito da una serie
di vincoli imposti come gli spazi,
la legislazione e un sistema cristallizzato
di regole. Quello che ci
rimane è la responsabilità estetica:
fare il nostro lavoro al meglio,
all’interno del suo linguaggio e
della storia estetica della disciplina.
E andare a votare.
Ti sei laureato più di 50 anni fa.
Come è cambiata l’architettura,
da allora?
Non si tratta degli ultimi 50 anni:
è l’avvento del computer che ha
cambiato davvero l’architettura.
Aldo Rossi, che secondo me è stato
forse il più grande architetto
contemporaneo, lavorava di trilite.
Come Palladio. L’architettura
da Palladio ad Aldo Rossi è stata
così. Poi è arrivato il computer e
con esso la possibilità di concepire
delle forme architettoniche che
non siano basate sulla colonna e
l’architrave: si è potuta muovere
l’architettura in un modo totalmente
libero che prima non era
nemmeno disegnabile. Contemporaneamente
a questa libertà, sono
nati dei materiali e la tecnologia
che hanno permesso di realizzare
le nuove architetture. Lo spartiacque
è Frank Gehry: in quel momento,
l’architettura è cambiata.
Sul piano del design, lo stesso vale
per l’avvento della stampante 3D,
che trasforma il ciclo di produzione
e potrebbe condurre a una crisi
dell’industria. C’è stato un salto di
mentalità tra le generazioni di designer:
anziché lavorare per un’azienda,
con le royalties, si può produrre
in proprio con la stampante.
Io però non mi ci vedo, a stampare
una tazzina da tè con una stampante
3D la domenica pomeriggio…
No, questo fa ridere! Anche perché
il concetto dietro all’oggetto non si
improvvisa. E non si può pensare
di riprodurre secondo la logica del
do it yourself elementi di artigianato
come l’intaglio del legno o la
soffiatura del vetro, che sono legati
a grandi, meravigliose tradizioni e
storie. Ma ci possono essere quattro
tuoi amici appena laureati in
design che si organizzano in gruppo
e avviano un’officina che non
ha bisogno della produzione in serie:
con la stampante 3D, produrre
una sedia non è meno vantaggioso
che produrne 3000. E così tu non
comprerai la sedia di Kartell.
Qual è secondo te l’edificio più
bello di Milano?
Che ti devo dire? Imbattibile, a livello
mondiale, è il Duomo di Milano.
E tra i grattacieli?
Il Pirelli. Anche la Torre Hines – Cesar
Pelli è bellissima. Ma a Milano
le proporzioni sono piccole. Una
sera ero alla Cesar Pelli con gli
americani che mi avevano dato un
premio. Siamo saliti al 27° piano.
La guida che ci accompagnava era
molto orgogliosa di quell’altezza…
ma gli ospiti venivano da Chicago!
Sono stati molto gentili e hanno
apprezzato, ma sono abituati a
grandezze diverse. Io, quando vado
a Shanghai, ho la stanza al 75°. I
grattacieli gemelli che Pelli ha fatto
a Kuala Lumpur sono fantastici,
altissimi, si specchiano l’uno
nell’altro e restituiscono un senso
di city, di densità. Quelle architetture
sono molto più forti di quanto
avviene in Italia.
Che cosa occorre all’Italia per entrare
nel nuovo millennio?
Io sono molto coinvolto nell’impegno
di salvare tecniche artigianali
locali, che rischiano di andare
perdute perché i giovani non sono
interessati a quelle attività e perché
spesso le zone in cui vengono
svolte sono isolate e si spopolano.
Esistono pochi documenti scritti
che tramandano queste sapienze.
L’Italia ha la specificità di essere
nata con le botteghe pluridisciplinari
del Rinascimento, come quella
del Verrocchio che era pittore,
scultore, architetto, marmista (e
ingegnere)… la storia eroica del
primo design italiano è una storia
di botteghe. Anche il mio studio
è una bottega tra l’artigianato, la
micro architettura e la comunicazione,
tipicamente italiana e tipicamente
milanese. Sono cose che
trovi solo in Italia. È il nostro marchio
di fabbrica del Rinascimento,
e dobbiamo valorizzarlo.
“La responsabilità
estetica non
basta: non si cambia
il mondo con una
bella autostrada,
devi cambiare le
persone. La società
è di qualità se ogni
persona è di qualità”
54
MAP Magazine Alumni Polimi
Ti hanno definito un
filosofo, un visionario.
“Non sono un
visionario!
È qualcosa che dicono
di me, ma non
mi ci riconosco!”
Ti hanno definito
anche genio,
come ci si sente?
“Se ne raccontano
tante!”
©Ambrogio Beretta
A proposito di multidisciplinarità:
qualche volta architetti e ingegneri
sembrano non andare molto
d’accordo. Cosa ne pensi?
Sciocchezze. Recentemente sono
andato a un convegno in Bovisa
su un anniversario della Metropolitana
milanese. C’erano ingegneri
e architetti. Ciascuno rispettava
il lavoro dell’altro. C’è bisogno di
entrambe le discipline, e io ho
sempre avuto un grande rispetto
per gli ingegneri, così come gli
ingegneri che hanno lavorato con
me sono sempre stati a loro volta
molto rispettosi. L’architetto pensa
di avere più cultura, ma a volte è
una cultura velleitaria. L’ingegnere
è più un “praticone”, ma conosce
seriamente le sue cose. Ci vorrebbe
un po’ di ampiezza di visione.
È vero, come dice Renzo Piano,
che ingegnere e architetto sono
un po’ lo stesso mestiere?
Bisognerebbe chiederlo a mio
fratello, che era suo compagno
di studi! Francesco, ad esempio,
è a metà strada tra un architetto
e un ingegnere. Qui, se gli edifici
stanno in piedi non è certo per
merito mio, ma suo! Renzo Piano
tra l’altro è un architetto bravissimo,
ha una grande sensibilità che
riesce a modulare su tutti i fronti
del progetto e un grande rispetto
per il suolo. Ha una capacità di
fare enorme, non so come faccia
a reggere i suoi ritmi! Ma per me è
un po’ troppo freddo. Tra i grandi
realizzatori preferisco Fuksas oppure
Foster, perché ci mettono più
sentimento.
Come immagini il mondo tra 50
anni?
Il periodo storico che stiamo vivendo
è così violento, così cattivo
e duro, che è difficile sperare in
un Eden. È l’invenzione della cattiveria:
ogni giorno assistiamo ad
un’invenzione più cattiva della
precedente. Tutto il mondo si sviluppa
tragedia dopo tragedia.
Come si può invertire questo processo?
Oggi le persone, in generale, si trovano
in uno stato di paura, incertezza
e sfiducia, con l’impossibilità
di immaginare anche solo i prossimi
5 anni. Sono sopraffatte. E poi
c’è il problema dell’occupazione.
Per cui siamo su una china che non
lascia intravedere un futuro roseo.
Ho parlato di responsabilità estetica,
ma non basta: non si cambia
il mondo con una bella autostrada,
devi cambiare le persone. La società
è di qualità se ogni persona
è di qualità. L’individuo deve prendersi
delle responsabilità di relazione
morale ed etica con gli altri.
Ad esempio: degli italiani si dice
che sono furbi. Ma non bisogna
fare i furbi. Bisogna essere onesti. È
vero che dal generale vengono date
le regole… ma anche viceversa. Una
persona deve comportarsi correttamente
con se stessa, cercare dentro
di se e capire che cos’è. Non è
facile.
55
MAP Magazine Alumni Polimi
E2 Forum sostiene la realizzazione di MAP il Magazine degli Alumni del Politecnico
di Milano ed è lieta di invitarvi all’evento più innovativo del settore ascensoristico
poli.last
I protagonisti della convention e gli eventi del Poli per gli Alumni
nel prossimo numero
l’architetto risponde :)
NOI E LORO
Architetti e Ingegneri al Poli
FENOMENOLOGIA SEMISERIA DI UNA LOTTA ETERNA
Di Giulio Pons, ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA telecomunicazioni 2000
Sono un ingegnere e questa è una
cosa che ti segna. Mi è stato chiesto
di scrivere un pezzo tipo “Architetti
vs Ingegneri” e per farlo
non posso essere imparziale, non
se la prendano gli amici architetti!
Preciso che sono un ingegnere
del software, lavoro nel web e vivo
quotidianamente la lotta con gli
architetti che spesso sono laureati
in disegno industriale e fanno i
grafici o gli art director, questi ultimi
di solito sono i più spocchiosi e
precisi dove, però, non serve.
Nel mio lavoro non ci sono palazzi,
né calcoli strutturali, né architetti
che difendono forme tonde a tutti
i costi, ma anche nel web gli ing.
sono quelli del “non si può fare” e
gli arch. sono quelli del “deve essere
bello”. Il dualismo Architetti-Ingegneri
inizia in università dove il
capo di tutti i luoghi comuni - e
per dirlo uso i termini più educati
che posso - è questo: Architettura
= femmine, Ingegneria = maschi.
D’ora in poi userò spesso “Noi” per
dire ingegneri e “Loro” per dire architetti
e sottolineare così la contrapposizione
delle parti.
All’università noi siamo quelli costretti
a sgobbare come bestie
mentre loro giocano col pongo a
far finta di fare esami. Se un ingegnere
vede uno studente che porta
un plastico, di solito pensa “Ehi
tu, hai già dato pupazzetti 1?”... Ma
non ha mai il coraggio di dirglielo,
specie se l’architetto è una ragazza.
Questo ci ha portato già da studenti
all’odio, allora manifestato
soprattutto verso i maschi architetti
che paiono avere tutte le fortune
del mondo: cioè poco lavoro
e molte ragazze.
Loro dicono di noi le cose più
abiette, soprattutto sul nostro
aspetto fisico: calvizie, occhiali,
forfora, trasandatezza, barba a
caso, scarsa coordinazione fisica,
crescita muscolare negativa. E va
be’, ok, l’ingegnere non è certo uno
sportivo, né “ingegnere” é sinonimo
di bellezza, ma non si offendono
le persone per le proprie caratteristiche
fisiche! Suvvia, è la base
dell’educazione!
Loro sono quelli che hanno il monopolio
dell’estetica mondiale,
guardano una schermata di 2 milioni
di pixel e dicono “Qui c’è un
punto di troppo”, oppure “Manca
l’aria! Metti un filetto”. E anche,
dopo aver rifatto un palazzo, entrano
ad esaminare il lavoro, guardano
di traverso la superficie di
una parete e dicono “non è venuta
bene, c’è un’ombra”, mentre per
noi è solo un muro.
Un architetto di solito odia il senso
dell’umorismo di un ingegnere,
dice che alle nostre battute ridiamo
solo noi, ma probabilmente è
solo perché non capiscono i nostri
giochi di parole.
D’altronde ci sarà un motivo se
sull’enciclopedia satirica “Nonciclopedia”
alla voce Polimi, come
definizione si trova questo: “Il Politecnico
è un edificio dove la gente
entra in pieno possesso delle proprie
facoltà mentali e ne esce ingegnere
o, se si è meno fortunati,
architetto”.
58
MAP Magazine Alumni Polimi
ANNIVERSARI
DI LAUREA
2017
Nel 2017, come ogni anno, il Politecnico aprirà le porte del suo
storico campus per riabbracciare gli Alumni che hanno conseguito
il titolo di studio nel 1947, 1957, 1967, 1977, 1987, 1997, 2007 e
far rivivere l’Ateneo attraverso i luoghi politecnici, lezioni speciali,
incontri con i professori e i compagni di Università.
Per ricevere maggiori informazioni: alumni.polimi.it.
I PROTAGONISTI DELLA QUINTA EDIZIONE
FRANCESCO STARACE
Francesco Starace è amministratore delegato di Enel
S.p.A. dal maggio 2014. Ha iniziato la sua carriera nella
gestione della costruzione di impianti di generazione
elettrica in General Electric, poi in ABB Group e in Alstom
Power Corporation. Membro del cda del Global Compact
delle Nazioni Unite, dal 2016 è co-presidente dell’Energy
Utilities and Energy Technologies Community del World
Economic Forum. È laureato in Ingegneria Nucleare presso
il Politecnico di Milano.
PATRICIA VIEL
Patricia Viel si laurea in Architettura al Politecnico di Milano
nel 1987 e inizia la sua collaborazione con Antonio
Citterio nel 1986. Dal 2000 è socia dello studio e responsabile
della progettazione architettonica e a settembre 2009
lo studio ha cambiato la propria denominazione sociale
in “Antonio Citterio Patricia Viel and Partners”. Partecipa
come relatrice a numerosi incontri di studio in qualità di
esperta di una concezione di architettura ispirata a una
forte integrazione fra progetto e paesaggio urbano.
GLI ALUMNI DI EMPATICA
Startup nata nel 2011, Empatica produce Embrace, un wearable
device utilizzato da ospedali e università di tutto il
mondo per monitorare epilessia, autismo, e altre patologie
neurologiche.
Presenti alla convention: Matteo Lai, co-fondatore e CEO
di Empatica, Simone Tognetti, CTO e co-fondatore di Empatica,
e Maurizio Garbarino, Head of Research di Empatica.
Tutti Alumni del Politecnico di Milano.
ANTONIO TOMARCHIO
Antonio Tomarchio, serial startupper tra l’Italia e la
Silicon Valley, è fondatore e CEO di Cuebiq, società
spinoff di Beintoo che ha rivoluzionato il mondo della
business intelligence: Cuebiq consente alle aziende di
comprendere il comportamento e le intenzioni d’acquisto
dei consumatori in base al loro comportamento offline
e tramite dati geo-comportamentali. È laureato in
Ingegneria Matematica presso il Politecnico di Milano, ma
anche presso l’Ècole Centrale de Paris, dove ha ottenuto
la sua seconda laurea.
VENANZIO POSTIGLIONE
Vicedirettore del Corriere della Sera, dal 1990 è giornalista
professionista; ha seguito i grandi fatti di cronaca e di politica
degli ultimi anni. Tra i fondatori del dorso di Milano
del Corriere e vice-caporedattore della Cronaca per due
anni, fino all’attuale incarico centrale.
Dal 2006 è direttore giornalista del Master in giornalismo
dell’Università degli Studi di Milano.
ALUMNIPOLIMI
CONVENTION 2016
VERSO IL 2099
CAPIRE LE SFIDE DEL NOSTRO SECOLO PER PROGETTARE NOI STESSI NEL FUTURO
UNICREDIT PAVILION
PIAZZA GAE AULENTI - MILANO
SABATO 15 OTTOBRE ORE 9.30
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