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La Toscana nuova Giugno

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La Toscana nuova - Anno 5 - Numero 6 - Giugno 2022 - Registrazione Tribunale di Firenze n. 6072 del 12-01-2018 - Iscriz. Roc. 30907. Euro 3. Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv.in L 27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 C1/FI/0074


Emozioni visive

Viva l’estate!

Testo e foto di Marco Gabbuggiani

Ci siamo! Finalmente siamo alle porte della stagione che dovrebbe

trasportarci fantasiosamente o materialmente in una dimensione

diversa da quella usuale che ci vede arrovellarci nel

quotidiano pieno di preoccupazioni e di stress. L’estate è quel

periodo dell’anno che ci fa sorridere e che ci regala un senso di

libertà che rasenta quasi l’incoscienza. Sì, perché tutto si può

dire fuori che il momento storico che stiamo attraversando ci

predisponga alla voglia di ridere e divertirsi. È anche vero però

l’uomo ha bisogno di staccare la spina e di proiettarsi nella bellezza

del senso di libertà evocato dalle temperature più calde

e dal sole più presente. E allora: bomba libera tutti! Togliamoci

la mascherina e proviamo ad affrancarci dai brutti pensieri

spegnendo la TV e accantonando i giornali almeno per un breve

periodo dell’anno, per scaricare la mente dai troppi pensieri negativi

che ci stanno accompagnando. Non so perché ma il papavero

è per me da sempre il simbolo dell’estate, come lo sono

le rondini per la primavera, le foglie gialle per l’autunno e la neve

per l’inverno. L’estate per me è il papavero! Il papavero insieme

al privilegio che concediamo al nostro corpo di sentirsi libero di

godere del sole che batte sulla nostra pelle e del calore che immagazziniamo

prima di coprirci di nuovo durante l’inverno. Se il

Botticelli ha dipinto la sua famosa Primavera rappresentando la

pudica Venere, io ho voluto fare la stessa cosa con questa foto

che ho scattato proprio pochi giorni fa quando mi sono trovato a

realizzare con l’amico Walter Savelli la copertina del suo nuovo

bellissimo disco, perfetto per accompagnaci in questa stagione.

Scoprire questo prato, che mi ha riportato indietro nel tempo

quando i prati rossi di papaveri erano più frequenti, mi ha spinto

a telefonare all’amica Miriam e insieme ci siamo fiondati in

quel luogo per realizzare quella che a me piace ironicamente definire

L’estate del Gabbuggiani. Grazie a Miriam Bellucci per aver

sposato l’idea prontamente, prima che sfiorissero i papaveri, e

grazie soprattutto all’estate. Quell’estate che considero la stagione

più bella pur essendo il periodo più bugiardo dell’anno in

cui vengono promessi amori eterni che non trovano riscontro in

inverno. Ma si sa, l’estate ci fa fantasticare e ci permette di ritrovare

quella puerile incoscienza grazie alla quale possiamo essere

felici anche in un periodo drammatico come quello attuale. E

allora godiamocela questa estate fatta di papaveri rossi, di corpi

che si liberano degli abiti, di pelle che diventa più scura, di

quell’acqua che si scalda, delle notti che si allungano, delle bibite

che diventano più fredde e della musica più forte che non ti

lascia dormire. Godiamocela appieno perché serve a ricaricarci

per quando torneremo alla realtà…

marco.gabbuggiani@gmail.com

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GIUGNO 2022

I QUADRI del mese

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Percorsi d’arte in Toscana: la villa medicea di Cerreto Guidi

L’orrore della guerra nell’intervista al giornalista e fotoreporter Fausto Biloslavo

Ferdinando Scianna, maestro della fotografia come prosa visiva

Grandi mostre: i fasti del “SuperBarocco” alle Scuderie del Quirinale

Autoritratto con maschera: la riflessione artistica di Antonio Ciccone sulla pandemia

L’amore per Firenze e la Toscana nei progetti e nei libri di Scramasax ideazioni

Firenze mostre: l’installazione Fons Vitae al Museo Marino Marini

Libri del mese: la storia di una vita nel romanzo di Gianluigi Ciaramellari

Artigianato in Toscana: Ivan Farsetti, artista dell’intarsio a Subbiano

Elena D’Anna, attrice e insegnante di teatro come valore per le nuove generazioni

L’opera d’arte totale di Carlo Pizzichini, maestro del gesto e del colore

Curiosità fiorentine: l’acqua di San Giovanni, unguento “miracoloso”

La figura di Herbert Percy Horne nella conferenza di Diego Crociani a Firenze

Dimensione salute: i postumi della sbronza, una questione di chimica

Psicologia oggi: attacchi di panico, l’estremo volto della paura

Salute e società: medici di famiglia, gli eroi silenziosi della pandemia

Consigli del nutrizionista: il gelato, come gustarlo senza sensi di colpa

Arte e psicologia: sotto un cielo di stelle, simboli dei desideri

La trama e l’ordito del viaggio interiore di Emanuela Simoncini

Archeologia: Il Canto dell’Esiliato in ricordo della caduta di Gerusalemme

La danza del segno tra gesto e colore nelle opere di Petra Dippold-Götz

Movimento Life Beyond Tourism: i Luoghi Parlanti dall’Italia alla Repubblica Ceca

Fare impresa oggi: Gamont, l’azienda leader in Toscana nell’accessorio moda

L’avvocato risponde: la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio

Nuove realtà espositive: l’atelier di KristiPo a Roma, nel cuore di via Margutta

Giganti dell’arte: la Notte stellata di Van Gogh, capolavoro avvolto dal mistero

Occhio critico: Anne Irene Holthe, l’artista del “tempo che ritorna”

Firenze mostre: al Gruppo Donatello la collettiva dei Medici Artisti

Ritratti d’artista: Renata Massai, l’armonia dell’esistere

Lelia Secci nel ricordo del Gruppo Donatello a tre anni dalla scomparsa

Brevi storie da raccontare: Il sorriso degli Etruschi

Giuseppe Bezzuoli, protagonista della pittura romantica nella mostra a Palazzo Pitti

Il cinema a casa: Snowpiercer, il treno-mondo di Bong Joon-ho

L’energia del colore e la forza del femminile nella pittura di Marco Campostrini

Artisti ed autori del Centro Espositivo Culturale San Sebastiano

La vita dell’artista Sebastiano Conca nel libro del carabiniere e scrittore Aldo Lisetti

Polvere di stelle: Bruno Rigacci, uno tra i musicisti italiani più preparati

Il cammino della goccia: la raccolta poetica di Susy Gillo sul senso dell’esistere

Toscana a tavola: la cecina, il piatto principe dello “street food”

Riflessioni sulla fede: la storia di Agar, donna e madre salvata da Dio

“A tavola con…” il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone

B&B Hotels: l’inaugurazione di una struttura “green” nel Parco Leonardo a Roma

Benessere della persona: preparare la pelle per l’esposizione al sole

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La Nuova Toscana Edizioni

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Marco Gabbuggiani

Ferdinando Scianna

Carlo Midollini

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Il sogno più bello

by

Pola Cecchi

Atelier Giuliacarla Cecchi

Showroom: via J. da Diacceto, 14 - Firenze

Sito: www.giuliacarlacecchi.com

Facebook: Atelier Giuliacarla Cecchi

Instagram: ateliergiuliacarlacecchi


Grazia Bonini

L’energia del colore

Esplosione (2021), olio su tela, cm 100x100

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A cura di

Ugo Barlozzetti

Percorsi d’arte

in Toscana

Villa medicea di Cerreto Guidi

Un gioiello storico-artistico dichiarato Patrimonio dell’Umanità

dall’Unesco nel 2013

di Ugo Barlozzetti

Al centro di Cerreto Guidi sorge l’imponente

villa medicea edificata su disposizione

di Cosimo I de’ Medici quale residenza di

caccia per la vicinanza con la bandita del cosiddetto

“Barco Reale”. La costruzione della villa, eretta

usando i materiali della distrutta Rocca dei Conti

Guidi e della seconda cerchia di mura, fu condotta

tra il 1564 e il 1566. È documentata nel 1566

la direzione dei lavori da parte di Dario Fortini, già

aiutante del Tribolo, al quale subentrò Alfonso Parigi

il Vecchio. A Bernardo Buontalenti è riferita l’idea

delle rampe d’accesso “a scalera” denominate

“ponti medicei”. La villa, dichiarata dall’Unesco Patrimonio

dell’Umanità nel 2013, ha parte della propria

fama legata alla tragica vicenda di Isabella de’

Medici, morta a Cerreto nella notte tra il 15 e il 16

luglio 1576. Isabella, figlia prediletta di Cosimo I e

di Eleonora di Toledo, sposò nel 1558 il duca Paolo

Giordano Orsini e, secondo una leggenda per lungo tempo

accreditata in funzione antimedicea, sarebbe stata strangolata

da sicari per volere del geloso marito. Studi recenti hanno

sfatato la leggenda: le cause della

morte si devono ad una gravissima

forma di idropisia e una grave occlusione

renale. La villa, appartenuta

a don Giovanni de’ Medici, don

Pietro e don Lorenzo, ebbe una sistemazione

di carattere residenziale

verso il 1671, quando passò al

Casa della cornice

www.casadellacornice.com

cardinale Leopoldo de’ Medici. Nel

Uno scorcio degli interni della villa

Vista dall’alto della villa medicea di Cerreto Guidi

1780 Pietro Leopoldo vendette la villa e dopo vari passaggi di

proprietà pervenne ai marchesi Geddes da Filicaia che incaricarono

il pittore Ruggero Focardi per decorazioni ad affresco.

Galliano Boldrini l’acquistò nel 1966 per farne un museo e la

donò poi, nel 1969, allo Stato italiano. L’arredo della villa è stato

ricostruito in riferimento agli inventari storici (1667, 1705,

1728) per riproporre il gusto sofisticato e multiforme delle raccolte

medicee. La villa ha al proprio interno collezioni di varia

provenienza, da un lapidario romano, uno romanico-gotico, dipinti

dal Medioevo al Settecento tra cui opere di Guercino, Lavinia

Fontana ed altri, oltre ad arredi ed oggetti d’arte italiani

e islamici. Una parte degli arredi antichi (risalenti al Sei, Sette

e Ottocento) proviene dai depositi della Soprintendenza

fiorentina, mentre un’altra parte proviene

da un lascito dell’antiquario Antonio Conti nel

1844. Accanto a un numeroso e significativo nucleo

di ritratti medicei provenienti dalle gallerie

fiorentine, è importante il ritratto, a figura intera,

di Cosimo I nell’abito dell’incoronazione a Granduca

e il ritratto di Isabella de’ Medici. Sono presenti

inoltre arazzi provenienti dalla Manifattura

Medicea integrati con un’attenta selezione delle

opere della eredità di Stefano Bardini comprendente

dipinti su tavola e su tela, cassoni intarsiati

e dipinti, stipi, sculture in marmo e terracotta, maioliche,

manufatti e pietre preziose. Dal 2002 nella

villa è ospitato il Museo Storico della Caccia e

del Territorio, con testimonianze iconografiche e

una raccolta d’armi da caccia e da tiro.

VILLA MEDICEA

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Personaggi

Fausto Biloslavo

L’incomprensibile orrore della guerra raccontato dal famoso giornalista e

reporter attualmente corrispondente dal fronte ucraino

di Doretta Boretti / foto courtesy Fausto Biloslavo

La guerra si è avvicinata all’improvviso e ha

sconvolto questa vecchia Europa che fa fatica

a rimanere unita. I media ci hanno inondati

di immagini sempre più terrificanti, si sono aperti

accesi dibattiti in diretta video che, a volte, hanno generato

ansia e inquietudine in chi li ha visti e ascoltati.

Nessuno più di un giornalista inviato di guerra che

si trova proprio sul luogo dove bombe di ogni genere

esplodono in continuazione e distruggono intere città

e un numero indefinibile di esseri umani perdono la

vita, può raccontarla davvero la guerra, rischiando la

propria vita, a sua volta, in ogni momento. Purtroppo

non sempre c’è, in chi narra certi eventi, quella nobiltà

intellettuale che consente di stare fuori dal gregge

ma sempre e comunque dalla parte dei più deboli.

Raccontare i fatti con l’onestà deontologica di chi deve

anche riportare verità assai scomode non è facile.

Ne parliamo con il famoso giornalista e reporter di guerra

Fausto Biloslavo.

Sei stato testimone di guerre terribili e finanche prigioniero

per ben sette mesi durante il conflitto in Afghanistan.

Che cosa prova un giornalista quando si trova davanti

all’orrore tanto da viverlo sulla propria pelle?

Fausto Biloslavo in Iraq

la stazione di Kramatorsk. L’orrore spesso non sono soltanto

i cadaveri spappolati o i civili colpiti che muoiono come mosche

negli ospedali, ma è anche un peluche intriso di sangue

di un bambino o di una bambina che non c’è più perché è stata

spazzata via e per terra è rimasto solo quell’oggetto intriso

del suo sangue. Questo è l’orrore e purtroppo bisogna farselo

amico, digerirlo, per filmarlo e raccontarlo.

Purtroppo, bisogna “farsi amico dell’orrore”, come dice il colonnello

Kurtz in Apocalypse Now, ma quello è un film. Mi sono

trovato davanti alla linea rossa, in Uganda, al cospetto di

un massacro inenarrabile, quando ho capito che quella sarebbe

stata la mia vita di giornalista di guerra e che l’orrore bisogna

farselo amico per sopportare di poterlo raccontare. La

stessa cosa mi è capitata adesso in Ucraina con la strage al-

Dal punto di vista deontologico quant’è difficile raccontare?

È sempre difficile, soprattutto quando c’è di mezzo tanta propaganda,

tanta guerra dell’informazione e tanta disinformazione.

Quindi bisogna sempre stare attenti e soprattutto

raccontare quello che vedi, senza paraocchi, raccontare la realtà

sul campo, quella che ti capita davanti. La realtà viene

Con il celebre fotoreporter di guerra James Natchwey

In Yemen con i rapitori dei turisti italiani

8

FAUSTO BILOSLAVO


In Afghanistan

è diventato InsideOver, per coinvolgere i lettori e chi ci sosteneva,

perché purtroppo i reportage sono costosissimi e

l’editoria è in crisi. Oggi, con la guerra in Ucraina, anche le assicurazioni

sono esplose dopo la morte di diversi giornalisti.

Andare in giro a raccontare la guerra è molto costoso. Così,

sempre con lo strumento del crowdfunding, cioè della raccolta

fondi online, che è arrivata a 17.000 euro, abbiamo lanciato

questo nuovo progetto per raccontare la guerra in Ucraina.

È una bellissima iniziativa perché i sostenitori hanno prima

degli altri le esclusive ed è un ottimo sistema anche perché

si crea un rapporto di collaborazione con i propri lettori e sostenitori

che diventano i tuoi editori.

In Uganda

dal cercare. Non puoi stare in albergo, devi essere in prima linea

per raccontare la guerra.

Che cosa ha di diverso la guerra in Ucraina dalle altre guerre

alle quali hai assistito?

Prima di tutto, è una guerra nel cuore dell’Europa, a 1200 chilometri

da noi. Una guerra convenzionale che contrappone gli

eserciti, fra cui uno, in questo caso, di una super potenza, la

Federazione Russa. Una guerra fatta di bombardamenti, carri

armati e dopo la fanteria, quindi devastante per tutti, soprattutto

per i civili.

Ci puoi parlare del progetto Gli occhi della guerra?

Era un progetto creato con il sito de Il Giornale nel 2014, poi

Sei un giornalista di grande esperienza, hai scritto articoli

per numerose testate come fai in questo momento per

Il Giornale, collabori con Panorama, il TG5, Studio Aperto,

e hai pubblicato anche molti libri. Ce n’è uno che vorresti

scrivere adesso o che stai già scrivendo?

Sto cercando di farlo. Sempre con il mio collega Carnieletto,

con il quale, nel 2021, ho scritto Verità infoibate, dedicato ai

massacri delle foibe, adesso sto cercando di produrre un volume

sull’Ucraina. Speriamo di riuscire a portarlo avanti perché

il lavoro è tanto anche per un libro del genere e il tempo

è tiranno.

Che cosa suggeriresti ad un giovane giornalista alle prime

armi?

Di farlo se ha passione. Al di là dei soldi, della fama. Ci vuole

tanta passione perché è solo la passione che ti fa superare

tutti gli ostacoli del giornalismo di guerra.

FAUSTO BILOSLAVO

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I grandi della

fotografia

A cura di

Maria Grazia Dainelli

Ferdinando Scianna

La passione per l’immagine, l’ossessione per la scrittura,

la Sicilia sempre in fondo all’anima

Il maestro della fotografia come prosa visiva si racconta, ripercorrendo luoghi,

incontri ed esperienze di una vita trascorsa dietro l’obbiettivo

di Maria Grazia Dainelli / foto Ferdinando Scianna

È

stato difficile iniziare a fotografare negli anni Sessanta

a Bagheria?

Sono nato e vissuto fino a 24 anni in questo paese, in una realtà

contadina del dopoguerra molto difficile. Ho iniziato a fotografare

all’età di 17 anni. Mio padre mi regalò una macchina

fotografica e capii immediatamente che con questo strumento

avrei potuto mettermi in relazione con gli altri. È stato proprio

grazie a questi scatti, rimasti in una cassetta di legno per circa

trent’anni, che è nata la mia vocazione di fotografo. Mio padre

voleva che diventassi ingegnere o medico, ero per lui uno

strumento di riscatto sociale e non ha mai accettato la mia

professione di fotografo. Mi trasferii a Milano e iniziai a fare il

giornalista per il settimanale L’Europeo diventando in seguito

inviato speciale e corrispondente da Parigi. Ero fuggito per interrogare

ed esplorare il mondo, scoprendo poi che mi portavo

dentro il mio sguardo siciliano. Penso infatti di aver fotografato

la Sicilia ovunque io sia andato nella mia vita.

Kami (1986)

Quant’è stato determinante l’incontro con Henri Cartier-Bresson?

Sono andato a trovarlo a Parigi e tra di noi è nata un’amicizia

durata vent’anni e caratterizzata da un’affinità intellettuale ed

umana molto speciale. Cartier-Bresson è stato un riferimento

fondamentale per la mia carriera: non parlavamo di fotografia

ma di musica, letteratura e molto altro. Secondo la sua visione,

il fotografo deve ambire ad essere testimone invisibile e non intervenire

per modificare gli istanti della realtà che invece deve

saper leggere ed interpretare. Con la morte di mio padre nel

1982, dentro di me si ruppe qualcosa di profondo e capii che

dovevo licenziarmi da L’Europeo per fare il fotografo indipendente.

Cartier-Bresson mi invitò a presentare un mio portfolio

all’agenzia fotografica Magnum, che fu accettato consentendomi

così di entrare a far parte di questa prestigiosa organizzazione

internazionale: fu l’inizio di un nuovo periodo della mia vita.

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Leonardo Sciascia (Racalmuto, 1964)

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FERDINANDO SCIANNA


religiose in Sicilia, nel quale le immagini descrivevano la celebrazione

del sentimento religioso della comunità accompagnate

da testi del grande Leonardo Sciascia. Successivamente con

il libro Quelli di Bagheria ho cercato una forma espressiva diversa,

scrivendo testi che non fossero didascalie delle foto e con

foto che non fossero illustrazioni dei testi. Sono un fotografo

che scrive e non uno scrittore che fa fotografia.

Avere un interlocutore come Leonardo Sciascia quanto e

come ha influenzato il suo stile fotografico?

Parigi (1989)

È stata l’amicizia più importante della mia vita durata ventisei

anni e caratterizzata da un sentimento di esclusività irripetibile.

Sciascia è stato per me un grande maestro che ha influenzato

il mio modo di pensare. Mi ha fatto capire che attraverso il linguaggio

della fotografia raccontavo la vicenda umana condizionando

il mio pensiero, le mie letture, il modo di vedere le cose

e di pormi nei confronti del mondo. Mi ha aiutato a comprendere

che i miei scatti avrebbero avuto un senso particolare e non

casuale solo se inseriti in un libro. Questa è tuttora l’ossessione

alla base del mio lavoro. Ho pubblicato oltre settanta libri, molti

dei quali realizzati per vivere e pochi per campare. Guardandomi

indietro ho capito che queste pubblicazioni rappresentano

l’album di famiglia della mia vita e della mia professione.

La foto più significativa scattata a Leonardo Sciascia?

Nel corso della nostra lunga amicizia gli ho scattato centinaia di

foto ma ce n’è una in particolare che lo rappresenta come uomo

e come scrittore; è quella dove l’ho immortalato davanti all’urna

del Cristo morto. Andai a trovarlo a Racalmuto perché mi chiese

di fotografare l’atto di nascita di fra Diego La Mattina, l’eretico

racalmutese che aveva ucciso il proprio inquisitore con le sue

stesse catene e sulla cui terribile storia stava scrivendo un libro.

Mentre salutava il parroco, lo precedetti in chiesa, vidi due bambine

davanti all’urna con il Cristo morto e Leonardo Sciascia che

arrivava, capii che si sarebbe inserito nella scena entrando in relazione

con gli elementi formali, si girò a guardarmi e scattai.

Nel mondo della moda ha spostato l’attenzione dalle passerelle

alle strade siciliane. Com’è stato fotografare la modella

Marpessa Hennink?

Enna (1963)

Nei suoi scatti la narrazione fotografica s’intreccia con la

parola scritta, perché?

Mi considero un reporter e ho sempre avuto il desiderio di raccontare.

Spesso la mia ricerca sottintende un progetto, una storia,

ma soprattutto un libro. La mia ossessione per la scrittura

nasce dall’amore per la letteratura di carattere narrativo, ho

sempre ammirato scrittori come Omero o Hemingway che attraverso

una straordinaria sensibilità linguistica hanno prodotto

miti e personaggi che fanno parte ancora oggi della nostra

cultura. Avevo 21 anni quando pubblicai il mio primo libro Feste

È stato Frank Horvat il primo a portare le modelle fuori dalle

passerelle, facendo un percorso

simile al mio. Le mie foto di moda

sono nate casualmente quando

venni contattato dagli stilisti

Dolce e Gabbana. Mi fu chiesto di

immortalare la splendida modella

Marpessa avendo la Sicilia come

ambientazione. Erano foto costruite

che necessitavano di una

regia per raccontare una storia legata

anche al contesto socio-culturale

dei luoghi. Ero sorpreso da

me stesso perché per la prima

FERDINANDO SCIANNA

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Marpessa Hennink (Caltagirone, 1987)

volta mi cimentavo nella fotografia di moda con la stessa passione

di sempre. Ho vissuto questa esperienza come un’occasione

per ripensare alla mia infanzia in Sicilia, al sentimento

per le donne provato quando ero ancora adolescente.

La sua fotografia è un racconto oggettivo della realtà o

un’interpretazione personale?

Ho sempre scattato in maniera compulsiva, cercando di vedere

il senso, la forma, le emozioni che offre il mondo come uno

specchio dalle mille sfaccettature. In oltre cinquant’anni, ho

raccolto più di un milione di fotografie di uomini, donne, bambini,

momenti di gioia o di dolore, oggetti che mi hanno suscitato

pensieri e luoghi che ho incontrato e non cercato. Ho sempre

pensato di scattare fotografie perché il mondo è la, e non che il

mondo sia là perché io lo fotografo. È la luce la cosa più importante

per un fotografo, ciò che gli consente di vedere, leggere

e interpretare il mondo in base alla propria cultura, sensibilità,

al contesto in cui si è formata la sua coscienza visiva ed esistenziale.

I fotografi del nord, ad esempio, scattano immagini

molto luminose e quasi abbaglianti; le mie invece sono fotografie

drammatiche, molto contrastate, perché il sole mi interessa

soltanto per esaltare il nero delle ombre.

Qual è la differenza tra una foto “bella” e una foto ben riuscita?

Le foto belle non servono a niente, sono pura estetica. Una foto

ben riuscita, invece, è quella che racconta momenti, gesti, azioni,

emozioni, una foto che mostra e non dimostra. Bisogna essere

estremamente curiosi della realtà per cimentarsi nella fotografia.

Alcune immagini nascono per pura folgorazione e nel tempo

si trasformano in progetti oppure rimangono isolate, puro frutto

di meraviglia. Paolo Monti diceva che le fotografie si fanno con

i piedi. Io l’ho capito benissimo fin da subito e lo capisco soprattutto

adesso che i miei piedi non sono più tanto disponibili. Ma

questo non mi impedisce di continuare a progettare e raccontare

lo spettacolo inesauribile del mondo attraverso i libri che considero

la mia forma prediletta di comunicazione.

www.ferdinandoscianna.it

12 FERDINANDO SCIANNA


A cura di

Miriana Carradorini

Grandi mostre in

Italia

SuperBarocco

Alle Scuderie del Quirinale i fasti

dell’arte genovese del Seicento da

Rubens a Magnasco

di Miriana Carradorini

Dallo scorso 26 marzo e fino al prossimo 3 luglio, alle

Scuderie del Quirinale a Roma è in corso la mostra SuperBarocco

– Arte a Genova, da Rubens a Magnasco.

Nel cuore di una città come Roma caratterizzata dal Barocco,

difficilmente ci si aspetterebbe una mostra dedicata al Barocco

genovese, ma non tutti sanno che la città ligure è stata fulcro

principale in Italia di questo stile artistico. La mostra si pone infatti

l’obiettivo di illustrare l’importanza che Genova ha avuto nel

Seicento, presentandone gli aspetti, anche quelli meno conosciuti,

attraverso l’esposizione di oggetti e manufatti che testimonia-

Antoon van Dyck, Paola Adorno Brignole-Sale (1627), olio su tela, cm 286x198,

Palazzo Rosso, Genova

Pieter Paul Rubens, Giovan Carlo Doria (1606), olio su tela, cm 265x188,

Galleria Nazionale della Liguria, Palazzo Spinola, Genova

Dr. Matteo Berna

Consulente finanziario

338 5647067

matteoberna@mediolanum.it

no la ricchezza della città ligure in quel periodo. Attraverso più di

centoventi opere di artisti che hanno abitato la Liguria seicentesca,

viene illustrato come il Barocco sia arrivato a Genova attraverso

Rubens e come nel capoluogo ligure siano state assorbite

le sue novità, poi riproposte con un linguaggio pittorico tutto italiano.

Il percorso espositivo presenta sia capolavori di artisti come

Rubens e Van Dyck ma anche opere di grandi pittori barocchi

italiani poco conosciuti come Bernardo Strozzi, Giovanni Benedetto

Castiglione e molti altri, fino ad arrivare a Magnasco, uno

dei più importanti esponenti del Barocco ligure. Le sezioni della

mostra ripercorrono in maniera cronologica l’evoluzione che

la pittura italiana ha avuto con l’arrivo di Rubens, partendo dalle

prime sale, dove insieme ad opere del maestro fiammingo si

trovano anche dipinti di Van Dyck, e passando poi ai principali

pittori attivi in Liguria in quegli stessi anni, fino ad arrivare alla

grande stagione barocca che caratterizza l’arte ligure per tutta

la seconda metà del Seicento e fino al Settecento. L’esposizione

comprende anche diversi oggetti che richiamano quelli raffigurati

all’interno dei quadri, ricostruzioni di alcuni ambienti e suppellettili

liturgiche che permetto un’immersione nella vita ligure del

periodo. Grazie ad una serie di pannelli che spiegano aspetti della

cultura genovese del XVII secolo, è possibile inoltre scoprire le

abitudini, i personaggi e gli eventi più importanti della Genova barocca.

Alla fine della mostra il visitatore avrà compiuto un viaggio

all’interno delle chiese, dei palazzi e dei luoghi abitati da nobili

e artisti del Barocco genovese e, attraverso la cultura di uno dei

principali fulcri della cultura artistica italiana, potrà comprendere

l’evoluzione dello stile Barocco in Italia.

SUPERBAROCCO

13


Occhio

critico

A cura di

Daniela Pronestì

Antonio Ciccone

Autoritratto con maschera: un’originale

ed acuta riflessione sulla pandemia

di Daniela Pronestì

Occorrerà del tempo per comprendere a fondo il lascito

dell’esperienza pandemica. Capire cosa di nuovo

abbiamo imparato nei lunghi mesi di clausura forzata

e cosa invece dobbiamo ancora imparare affinché una

situazione del genere non debba più ripetersi. Di sicuro c’è

che le mascherine, anziché strumenti di protezione per sé

e per gli altri, si sono spesso rivelate delle maschere dietro

cui nascondere paure, egoismi e debolezze. La pandemia ha

messo dura prova l’individuo, ne ha mostrato i limiti e in molti

casi anche il coraggio; ha fatto vacillare non solo la fiducia

in sé stessi e negli altri ma anche la fede in Dio. A queste

riflessioni guidano le opere di Antonio Ciccone presentate

nella mostra conclusasi lo scorso 26 maggio al Circolo degli

Artisti Casa di Dante a Firenze. Fin dal titolo Self-portrait

with Mask / Broken Planet (Autoritratto con maschera / Pianeta

rotto) s’intuiscono le intenzioni di un progetto che, iniziato

nel 2020, durante il periodo più duro dell’emergenza

pandemica, e portato avanti fino agli inizi del 2022, restituisce

un’interpretazione del tutto insolita e personale di ciò

che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, a partire dalla

scelta dell’artista di autoritrarre se stesso in pose diverse

e quasi sempre “mascherato”. Un modo per dire che la pandemia

ha chiamato ciascuno di noi, nessuno escluso, ad essere

protagonista, impegnandosi in prima persona a dare il

proprio contributo. Senza dimenticare che l’isolamento dovuto

alle restrizioni sociali ci ha costretto a confrontarci con

noi stessi, a chiudere il mondo fuori per guardare dentro di

noi. E proprio da questo “guardarsi dentro”, in interiore homine,

nascono le dieci opere di Ciccone, un dialogo dell’artista

con se stesso e con la realtà che lo circonda. Dialogo in

cui sono soprattutto gli occhi a comunicare – l’unica parte

sottratta al “mascheramento” – con un crescendo di espressioni

che procedono dallo sgomento alla perplessità, dallo

stupore alla speranza, in un continuo rimbalzare dalle cose

del mondo alle sfere luminose del cielo. Ciccone sembra

chiedersi che cosa stia succedendo intorno a lui, in questo

pianeta “rotto” dalle brutture umane, quale sia il suo compito

come artista, quale contributo offrire, quale risposta.

E ancora: che significato dare a quella “maschera” imposta

dalle circostanze e come continuare a celebrare la bellezza

del creato in un mondo che ha ormai dimenticato Dio. Ecco

allora che l’atto del guardare al proprio interno per comprendere

meglio ciò che accade fuori, diventa emblematico della

capacità dell’artista di scrutare dentro ed oltre le cose, di

osservare la realtà usando i propri occhi – da qui il gesto in

alcune opere di levarsi gli occhiali –, rimanendo sempre fedele

a se stesso, ai propri valori ed ideali, e indossando anche

una maschera, se necessario, ma stando attento a non

Self-portrait with Mask/Broken Planet IV (2021), tecnica mista, cm 140x100

Self-portrait with Mask/Broken Planet III (2021), carboncino, cm 70x100

confonderla mai con il volto. Come a dire: l’artista che non

sa “vedere” con i propri occhi, non può nemmeno costruire

visioni. In questo nuovo progetto, quindi, Ciccone incontra

anzitutto se stesso, osservandosi riflesso in uno specchio

che gli rimanda un’immagine nitida e veritiera, quella di un

artista che anche, e forse soprattutto, in una situazione così

drammatica non smette di cercare indizi dell’assoluto, di intercettare

la luce che dall’alto continua ad illuminare il mondo

nonostante la catastrofe. Incontra poi, in questo suo

viaggio interiore, altre figure sempre appartenenti al mondo

dell’arte: Vittorio Sgarbi e John T. Spike, autorevoli critici qui

ritratti come uomini a loro volta perplessi, almeno quanto lo

è l’artista, di fronte a ciò che sta accadendo. E chiude il cerchio

incontrando la propria famiglia, gli affetti più cari, quelli

dai quali la pandemia ci ha spesso tenuti lontani: un’opera

in quattro parti in cui ciascuno dei volti raffigurati – i suoi

sei figli e la moglie Linda – esprime una diversa individuali-

14

ANTONIO CICCONE


Self-portrait with Mask/Broken Planet VI: Mirror (2021), tecnica mista, cm 70x100

tà e allo stesso tempo si lega all’altro per vincolo d’amore.

A loro Ciccone rivolge lo sguardo più appassionato e tenero,

accompagnandolo con un gesto della mano che lascia

facilmente intuire lo slancio amorevole dell’uomo e dell’artista

verso il suo più grande capolavoro. Se c’è una speranza

per questo pianeta ferito non può che venire da qui, dai sentimenti

più profondi e puri, dall’amore all’origine del tutto,

l’impronta di Dio in ogni creatura vivente. All’artista il compito

di saper “vedere” questo amore, riconoscerlo nelle cose

del mondo, contemplandole, come fa Ciccone, con gli occhi

dello spirito, gli unici occhi che non possono ingannare.

www.antoniociccone.com

avventuranellarte@gmail.com

Self-portrait with Mask/Broken Planet VIII: John T. Spike (2021), carboncino, cm 100x140


Cultura in

Toscana

Scramasax ideazioni

Progetti e libri nati dall’amore per Firenze e la Toscana

di Fabrizio Borghini

Raccontare Scramasax ideazioni in poche righe è un’impresa

ardua. Nata come società di progettazione e ideazione

culturale, ha avuto il suo esordio nel 1989 con il

grande progetto espositivo dedicato al VII centenario della battaglia

di Campaldino, Il sabato di San Barnaba (11 giugno 1289

- 11 giugno 1989), con mostre realizzate in Casentino. Da allora

è stato un susseguirsi di mostre sul territorio: il Casentino, la

Valtiberina, la Valdichiana, il Valdarno, Empoli, Fiesole, Fucecchio,

Altopascio, Monsummano Terme, Castrocaro, il Mugello;

ovviamente importanti allestimenti a Firenze, compresi i vecchi

prestigiosi allestimenti museali della Casa di Dante e del Museo

del Calcio a Coverciano, e anche a Roma. Nel giungo 2022 Luca

Giannelli con Scramasax ideazioni ha progettato e realizzato

il nuovo allestimento museale al Castello di Poppi L’inferno

a Campaldino dedicato all’epica battaglia. Temi conduttori della

Scramasax sono quelli della storia, dell’arte, delle tradizioni,

della memoria e dello sport; un fiore all’occhiello è rappresentato

dalla realizzazione di plastici in scala sia architettonici sia legati

alla ricostruzione di battaglie e assedi che si distinguono

per la grande professionalità nell’esecuzione modellistica e di

pitturazione delle miniature (i soldatini). In questo mondo variopinto,

Scramasax è anche una bottega d’arte in cui si realizzano

icone sacre, miniature, pergamene personalizzate, palietti e ban-

Luca Giannelli, nella Sala Lorenzo il Magnifico in Palazzo Vecchio, viene premiato

dall’assessore del Comune di Firenze Cecilia Del Re per i trent’anni di attività di

Scramasax ideazioni (2019)

diere dipinti a mano con un’accurata ricerca araldica. In questo

continuo impegno narrativo verso la Toscana e Firenze, i libri, oltre

cento, che si dipanano tra storia, tradizioni, arte, sport e memorie

di questa nostra irripetibile città, sono divenuti un punto

di riferimento culturale del territorio riscuotendo riconoscimenti

e successi. Anima e motore della Scramasax ideazioni è Luca

Presentazione in Consiglio Regionale del volume L’Arno dà di fòri alla presenza

dell’allora presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani

Con il costume da capitano delle Milizie del Quartiere di San Giovanni in piazza della

Signoria durante la commemorazione della morte dell’architetto Filippo Brunelleschi

16 SCRAMASAX IDEAZIONI


Coperchio e piano del gioco da tavolo Il GiraFirenze a cura di Luca Giannelli (Scramasax ideazioni)

Copertina del volume I lungarni fiorentini si raccontano a cura di Luca Giannelli in

collaborazione con Riccardo Semplici

Giannelli, nato nel cuore di Firenze, in via de’ Bardi, all’ombra del

Ponte Vecchio, il 30 ottobre 1960, e diplomato al liceo artistico

di Firenze. Con questa attività ha realizzato un sogno: vivere raccontando

le sue passioni ed i suoi amori. I suoi libri sono entrati

in migliaia di case di appassionati di storia fiorentina e il suo

lavoro è stato apprezzato da enti pubblici – in testa il Comune

di Firenze – e associazioni con cui ha realizzato numerose presentazioni

in luoghi prestigiosi della città. Come pittore Luca ha

creato la sua bottega d’arte facendone una scelta di vita. Dipingere

la Toscana è sempre stato il suo obiettivo, accompagnato

dalla fedele presenza del “suo” cipresso. Ha realizzato importanti

mostre fin da giovane: a Firenze, nel Mugello, in Casentino,

a Milano, partecipando inoltre a numerose collettive. Di prestigio

le mostre al Palagio di Parte Guelfa, all’Accademia dei Georgofili,

a Villa Caruso di Lastra a Signa, al Castello di Poppi, al

Palazzo Panciatichi, sede della Regione Toscana, al convento di

Bosco ai Frati, alla Galleria di Via Larga della provincia di Firenze

e, ultima, al Palazzo Bastogi, sede del Consiglio Regionale della

Toscana. Oltre a questo ha realizzato opere legate alle tradizioni

popolari: il palio remierio in occasione della festa di San Giovanni

Battista nel 1999, il palio per il Torneo di San Giovanni del

Calcio Storico Fiorentino nel 2002 e quello per la Giostra della

Stella di Bagno a Ripoli nel 2005. Fa parte con orgoglio dell’Antica

Compagnia del Paiolo. È anche capitano delle Milizie del

Quartiere di San Giovanni all’interno del prestigioso Corteo della

Repubblica Fiorentina, altro elemento che va ad arricchire il suo

amore per la città gigliata. Tra i numerosi premi e riconoscimenti

ricevuti si segnalano il Premio Ponte Vecchio per l’attività e il

Premio Giubbe Rosse per il libro L’Arno dà di fòri; nel 2019 è stato

premiato dal Comune di Firenze nella figura dell’assessore Cecilia

Del Re nella Sala Lorenzo il Magnifico in Palazzo Vecchio

per i suoi trent’anni di attività; nel 2021 ha ricevuto la Segnalazione

d’Onore alla XXXVIII edizione del Premio Firenze per il libro

I lungarni fiorentini si raccontano. Allestimenti, pittura, libri e

non solo: Luca Giannelli ha avuto anche l’ingegno di progettare

e realizzare un gioco da tavolo a quiz, Il GiraFirenze, che, giunto

alla terza ristampa, ha appassionato la città: 1300 domande

dedicate all’architettura e al territorio, alla cultura, ai personaggi,

alla storia, alle tradizioni e allo sport di Firenze. In un mix tra

il gioco dell’oca e il trivial, partendo dalla Fiesole etrusca, si percorre

il tabellone, che rappresenta la pianta della città, per concludere

il percorso alla reggia di Palazzo Pitti, riappropriandosi

di personaggi, vicende e capolavori cittadini. Un’opportunità, per

fiorentini e non, di conoscere la città del giglio in modo ludico e

intrigante. Collaboratrice fondamentale ed insostituibile di Luca

è Angelica Cortini con la sua spiccata dolcezza: raffinata pittrice,

cantante di musica barocca e tenace lavoratrice anche lei

guidata dalla passione. Abbiamo raccontato una storia finita?

No. Scramasax è un rullo compressore, e Luca, ogni anno, quasi

come fosse un bambino, deve decidere cosa fare da grande, anzi

cosa progettare per il prossimo Natale, e noi tutti rimaniamo

in trepida attesa, sicuri che non ci deluderà e sicuri che altri tasselli

di questa avventura saranno realizzati.

SCRAMASAX IDEAZIONI

17


Firenze

mostre

Fons Vitae

Al Museo Marino Marini di Firenze un’installazione per far dialogare

l’umanesimo di Leon Battista Alberti con la contemporaneità

di Timothy Verdon

Nell’occasione del convegno Rinascenza come Resurrezione:

il Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti

nella Firenze del Quattrocento, quattro artisti di

fama internazionale – Peter Brandes, Maja Lisa Engelhardt,

Susan Kanaga e Filippo Rossi – hanno riflettuto sul mistero

di cui parla il capolavoro albertiano: la risurrezione

di Gesù e la prospettiva di una vita nuova. Il titolo della loro

installazione Fons Vitae – presentata al Museo Marino

Marini di Firenze dal 22 aprile al 6 giugno 2022 – echeggiava

San Paolo, che per primo collegò le acque del Battesimo

con la Pasqua, insegnando che i «battezzati in Cristo

Gesù» – cioè quelli che scendono nel fonte – «sono sepolti

insieme a lui (…) affinché, come Cristo fu risuscitato dai

morti (…) così anche noi possiamo camminare in una vita

nuova» (Lettera ai Romani 6, 3-4). Il sepolcro dell’Alberti

rimanda infatti al battistero fiorentino, citandone le tarsie

marmoree bianco-verdi, e questa allusione ha definito l’impianto

della mostra. La base del sepolcro quattrocentesco

tracciata sul pavimento è stata trasformata in luce da Peter

Brandes, mentre a destra e sinistra sculture di Maja Lisa Engelhardt

ne hanno evocato il miracolo. Sopra le scale, poi,

tra i fiori dipinti da Susan Kanaga, Filippo Rossi ha raffigurato

il mondo nuovo di cui si parla nell’Apocalisse, in mezzo

al quale scorre «un fiume d’acqua viva, limpida come cristallo»

e cresce «un albero di vita». Le pietre realizzate dalla

Kanaga lungo il fiume, aprendosi ed emanando luce, hanno

ricordato che quell’albero «dà frutti dodici volte all’anno,

portando frutto ogni mese» e che le sue foglie «servono a

guarire le nazioni» (Apocalisse 22, 1-2). L’impressione complessiva,

nel buio della cripta di San Pancrazio, è stata di

un sogno nato dalla Pasqua: un sogno di luce, di bellezza,

di vita. Visto dall’area corrispondente al transetto della sovrastante

chiesa, questo sogno contemporaneo ha riproposto

la visionarietà immaginata dall’Alberti, il cui sepolcro

occupava uno spazio del tutto diverso da quello della navata

di San Pancrazio, da cui era originalmente visto. Nel sogno

contemporaneo, poi, come in quello quattrocentesco,

tale alterità comunica speranza, che Alberti esprimeva con

l’architettura classica rediviva, e Brandes, Engelhardt, Kanaga

e Rossi con la luce e il movimento di un cosmo rinnovato.

In ambo i casi – oggi come nel Quattrocento – il sogno

è narrato con simboli. Ma là dove Alberti, chierico, usava

la storia, evocando “rinascenza” col ripristino del passato,

i laici Brandes, Engelhardt, Kanaga e Rossi hanno recuperato

la Bibbia, parlando di “risurrezione” mediante luce, acqua

e la natura rifiorita. Nello spirito dei profeti e dei salmi,

hanno cercato i simboli nel cosmo, facendosi interpreti del

moderno umanesimo ecologico, più universale dell’umanesimo

archeologico del Rinascimento, che pure includeva la

componente “natura”. Nella Risurrezione di Cristo di Piero

della Francesca, ad esempio – praticamente coevo al sepolcro

albertiano –, oltre al corpo statuario del Risorto e

al sarcofago classico, sullo sfondo vediamo alberi disposti

con evidente intenzione simbolica: a sinistra, dove comincia

la lettura dell’immagine, sono nudi e invernali; poi, a

destra, dove lo sguardo arriva passando per la figura del Risorto,

sono folti e primaverili. O ancora, nel Battesimo di Cristo

di Piero, accanto al corpo statuario del Salvatore cresce

un albero a ricordo della similitudine biblica dell’uomo beato

che, evitando il male, «è come albero pianto lungo corsi

d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono

e tutto quello che fa riesce bene» (Salmo 1, 1-3). La

In questa e nelle altre foto alcuni scorci dell’installazione

18

FONS VITAE


posizione centrale che nei dipinti quattrocenteschi fu assegnata

al Cristo, è stata data, nell’installazione di Brandes,

Engelhardt, Kanaga e Rossi, allo spettatore, che si trovava

a salire in persona dal sepolcro verso un cosmo redento e

l’albero di vita. Lo spettatore non solo poteva contemplare

i simboli cosmici, ma in essi poteva anche dimorare, scoprendosi

protagonista nel dramma neotestamentario in cui

l’uomo è chiamato a liberare la natura. «L’ardente aspettativa

della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione

dei figli di Dio», afferma Paolo, spiegando che «la creazione

è stata sottoposta alla caducità (…) nella speranza che

anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della

corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli

di Dio» (Romani 8, 19-21). In questo processo, il rapporto

tra la creazione e l’essere umano è intimamente fraterno,

perché se da una parte «tutta insieme la creazione geme e

soffre le doglie del parto fino a oggi», dall’altra «anche noi

che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente

aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro

corpo» in cui verrà liberata anche alla natura (Romani

8, 22-23). Brandes, Engelhardt, Kanaga e Rossi ci hanno restituito

quindi il nostro ruolo nel sistema simbolico che la

Bibbia legge nel cosmo. L’installazione dei quattro artisti ha

“accostato” il sepolcro trasfigurato all’acqua del fiume e alla

vitalità del giardino in cui cresce l’albero, invitando a “riconoscere”

nella tomba vuota di Pasqua il segno dell’amicizia

di Dio per l’umanità. Dal sepolcro di Brandes all’albero di

Rossi, la morte si trasmuta in sorgente di vita, e i pochi passi

in riva al fiume che lega i due simboli misurano il passaggio

dal mistero creduto al miracolo vissuto: il pellegrinaggio

che tutti siamo chiamati a fare, come in antiquo s’andava a

Gerusalemme, al Sepolcro, per poi tornarvi rinforzati.

FONS VITAE

19


La ninfa delle acque, figura mitologica, olio su tela, cm 80x100

Angela Puccini

Surrealist painter

www.angelapuccini.it


I libri del

mese

Gianluigi Ciaramellari

La storia di una vita nascosta in un diario

di Erika Bresci

Quanto può essere lunga una notte? Quella tra il 15 e

il 16 luglio 1950, polo gravitazionale di questa storia

intessuta di intrecci del destino, pare non finire mai.

O meglio, sembra rispondere alle leggi di un tempo

emotivo che calcola le ore e i minuti necessari affinché ciascun

protagonista trovi – o meglio, ritrovi – il suo posto all’interno

di un misterioso e sofferto affresco familiare comunque

traboccante d’amore. Intorno al letto di Silvano, ormai a un

passo dal Creatore, la moglie Adele, la figlia Anna, «afflitta dal

rimorso di aver compreso troppo tardi il grande amore di suo

padre», don Paolo, amico di lungo corso, e Mario, il nipote diletto.

Nell’aria, una sensazione di irrisolto, che svanirà alle

luci dell’alba al termine della lettura del diario segreto di Silvano,

fatto trovare volutamente a Mario, custodito in soffitta in

mezzo alle centinaia di pellicole – «quelle girate da lui e quelle

che alcuni suoi fidatissimi amici cineoperatori gli avevano

passato di nascosto» – sfuggite alla censura fascista, durante

il suo lavoro all’Istituto Luce, presenze vive di una storia da

non dimenticare. In quelle pagine vergate ora con fretta, ora

con disperazione, ora con infinito amore, si ripercorre un arco

temporale lunghissimo – dal 1917 al 1949 – e denso di Storia.

Anni di guerra, di trincee e di bombardamenti, di sangue e di

perdite, di propaganda e di adunate, di leggi razziali e di precipitose

fughe, ma anche anni nei quali la passione per il cinema

si trasforma in lavoro e cementifica amicizie fraterne. Anni

di bugie e di segreti da proteggere, che in una fotografia trovata

nella scatola insieme al diario assumono

le aggraziate forme di due donne, Elvira – una

prostituta – e sua figlia Irene, detta Nenè. Apparentemente

estranee alla famiglia, pedine

invece fondamentali di quel copione già scritto

che è la vita, perché «il nostro destino non

è qualcosa che dobbiamo raggiungere, ma è

piuttosto lui, a venirci incontro». Ma non è solo

il diario appassionato di Silvano a ricomporre i

frammenti della Storia. Nella notte di temporale

che fa da quarta simbolica alle ultime ore di

vita dell’uomo, flashback sapientemente ricamati

dalla mano dell’autore recuperano dalla

nebbia del tempo, in ordine sparso e apparentemente

casuale, le schegge di vetro che brilleranno

poi ricomposte nel prisma di luce del

nuovo giorno. Nuovo anche perché rinnovato,

consapevole, pacificato. E allora l’“aspettami”

che nella giostra delle pagine tocca ad uno ad

uno, in modo e con significato diverso, i singoli

protagonisti, diviene midollo, linfa che scorre

nelle vene, identità risolta, e indica al lettore

il sentiero semantico sul quale incamminarsi.

La vita è un “guardar bene”, reiterato, un voltarsi

anche indietro per recuperare i sassi scansati,

uno scegliere bivi e compagni di strada,

un fissare l’orizzonte senza dimenticare la terra

su cui poggia il piede, un fermarsi, per poi ricominciare

a muovere il passo, rinfrancati, più

forti. Orientati. «Rare volte (…) il valore di certi

eventi già accaduti lo apprezziamo a distanza

di tanto tempo. Sono come nuvole cariche di

acqua benedetta, che ti seguono, ti superano

e pioveranno su di te, proprio quando stai morendo

di sete. Forse sono i nostri angeli custodi

che spingono quelle nuvole».

GIANLUIGI CIARAMELLARI

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Artigianato artistico

in Toscana

Ivan Farsetti

Artista dell’intarsio a Subbiano

di Michele Loffredo

Arrivo a Subbiano, paese attraversato dall’Arno sulla

strada per il Casentino, accompagnato da un amico

che mi aveva sollecitato la visita a Ivan Farsetti,

suo coetaneo, classe 1934, del quale mi elogia la straordinaria

abilità di intarsiatore. Farsetti ci accoglie con sorriso

schietto e cordiale, introducendoci nell’ampio laboratorio dove,

tra materiali vari, legni di ogni genere, macchine e attrezzi

da falegnameria, spicca un originale cabinet, elegante e

quasi ultimato, che ci mostra con celato orgoglio. Non occorre

l’occhio di un esperto per restare ammirati da un lavoro

di intarsio che mostra non avere eguali: un trionfo di

motivi e disegni geometrici di assoluta precisione ne ricopre

la superficie, i cassettini, i ripiani, le ante e le colonnine,

dalle gambe fin su alla cimasa, con un eclettismo stilistico

che testimonia un virtuosismo esemplare. Com’è noto l’arte

della tarsia si sviluppa a partire dal secondo Trecento per

conoscere il massimo sviluppo tra Quattro e Cinquecento

applicata soprattutto negli studioli – un esempio classico è

quello nel Palazzo ducale di Urbino – o nei cori lignei di chie-

Tavolino e stecca da biliardo

se e soprattutto di monasteri, le cui raffigurazioni seguivano

l’ambito della pittura, così che i disegni preparatori venivano

spesso eseguiti da pittori. Consideratane la complessità,

oltre ai motivi degli intarsi anche della progettazione di

mobili originali, alla mia domanda se utilizzi nelle sue creazioni

disegni preliminari, il maestro Ivan Farsetti risponde

candidamente che non esegue nessun disegno. Questa sua

peculiarità certo deriva non solo dall’esperienza di una vita

trascorsa in quest’arte ma soprattutto da una maestria natu-

Cofanetto con cassettini

22

IVAN FARSETTI


Cabinet (particolare)

rale, istintiva, che lo ha accompagnato fin dalle prime esecuzioni.

A questo proposito mi racconta di quando adolescente

aveva ingaggiato una gara con il padre, suo insegnante, che

allora lavorava presso Bruschi, grande artigiano/artista che

aveva realizzato la Sala del Consiglio del duce, e padre del

Vaso e coperchio

Cabinet (particolare)

noto antiquario aretino Ivan (di cui ad Arezzo vi è il magnifico

museo con una raccolta d’arte strepitosa). La sfida consisteva

nella realizzazione di un cofanetto intarsiato. Ivan tenne

nascosto il suo, e quando lo mostrò al genitore, questi rimase

mezz’ora in silenzio, senza un commento, e non terminò

più il suo. Continuiamo poi la visita, Ivan

ci porta in casa e ci mostra altri suoi lavori:

trumeau e consolle, tavolini da gioco,

vasi, bastoni da passeggio e stecche

da biliardo, leggii, cassoni, fino a macinini

da caffè, ogni oggetto dove aveva potuto

applicare il suo talento. Purtroppo,

afferma, l’intarsio è una tecnica sempre

meno utilizzata, sostituita dall’impiallacciatura,

spesso realizzata industrialmente.

Ivan Farsetti lavora con pazienza

certosina realizzando e accostando piccole

tessere poligonali almeno dello

spessore di mezzo centimetro dei legni

più pregiati, dal palissandro al bubinga,

al bois de rose, dall’ebano al mogano, al

bosso e così via. Gli dico che ammiro il

suo lavoro e che le sue realizzazioni mi

appaiono alla ricerca della perfezione,

mi risponde che per lui ogni composizione

è una sfida a superarsi, a risolvere

le difficoltà che gli si prospettano di volta

in volta, così da realizzare solo pezzi

unici. Opere d’arte, aggiungo io.

IVAN FARSETTI

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Dal teatro al

sipario

A cura di

Doretta Boretti

Elena D’Anna

Attrice ed insegnante di teatro, trasmette alle nuove

generazioni i valori umani e culturali della recitazione

di Doretta Boretti

Abbiamo iniziato questo 2022 con l’obiettivo di invogliare

molte persone a fare almeno una volta nella vita

un’esperienza teatrale. Ci troviamo in compagnia

dell’attrice Elena D’Anna, che ci parlerà della sua esperienza

di insegnante di teatro.

Attrice cinematografica ma innamorata del teatro?

In realtà, non sono un’attrice cinematografica. La mia esperienza

lavorativa è stata prevalentemente e quasi esclusivamente

di tipo teatrale.

Com’è nato in te il desiderio di insegnare?

Dodici anni fa, quando è nata mia figlia Emma, ho capito subito

che non sarebbe stato facile conciliare la nuova esperienza

di mamma con il lavoro che avevo fatto con assiduità e passione

fino a quel momento: l’attrice teatrale. Non solo perché

questo tipo di lavoro mi teneva spesso lontano da Firenze ma

anche perché non riuscivo a mettere dei paletti e mi portavo

quindi a casa troppi pensieri e preoccupazioni. Nel frattempo

avevo già iniziato a lavorare come insegnante e così ho provato

a buttarmi interamente in questa nuova esperienza. Non

ho mai aperto una scuola mia, ho sempre lavorato in strutture

che, con fiducia, hanno ospitato i miei laboratori. Al momento

le realtà con cui collaboro maggiormente sono a Firenze Il

lavoratorio in via Giovanni Lanza 64/a, il Centro Giovani Gavinuppia

in via Gran Bretagna 48, Intercity a Sesto Fiorentino e

la scuola elementare di Settignano.

Come sono organizzati i laboratori?

Al Lavoratorio seguo quattro gruppi, due sono formati da

ragazzi dai 14 ai 16 anni e si differenziano tra loro in base

all’esperienza maturata sul campo. Poi seguo un gruppo

composto da bambini e ragazzi dai 10 ai 14 anni e un altro di

ragazzi dai 15 ai 19 anni. Al Gavinuppia, invece, i gruppi sono

tre e i bambini partecipanti spaziano dai 6 agli 11 anni. A

Intercity seguo il secondo anno della scuola adulti e a Settignano

collaboro con tutte le classi in orario curricolare. Solitamente

i gruppi si incontrano una volta alla settimana per

circa due ore.

In questa e nelle altre foto alcuni dei laboratori teatrali condotti da Elena D'Anna

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ELENA D’ANNA


Occorre molto studio per insegnare?

Direi che occorre anche lo studio. Ma soprattutto

penso che sia essenziale aver fatto

esperienza, in maniera professionale, di

quello che si va ad insegnare agli altri.

Alla luce della tua esperienza confermi

che il teatro è utile a grandi e piccini?

Beh, se mi baso sulla mia esperienza

personale, direi proprio di sì. A me, per

esempio, ha cambiato completamente la

vita. A prescindere da me, penso comunque

di poter affermare che sia per tutti

un’esperienza utile ad apprendere tante

cose all’interno di un appassionante percorso

ludico e creativo.

Cosa hai in programma nei prossimi

mesi?

Questo è un periodo molto particolare dei laboratori. A breve

infatti inizierò ad allestire i saggi di fine anno che per un mese

e mezzo circa si susseguiranno senza interruzione. È il periodo

più faticoso, ma solitamente anche il più ricco di grandi

soddisfazioni ed emozioni. In estate poi mi dedicherò, sempre

come insegnante di teatro, ai ragazzi che frequenteranno

un master di musica e teatro presso la parrocchia di Santa

Maria a Coverciano, e a settembre ripartiremo con l’organizzazione

dei nuovi corsi.

ELENA D’ANNA

25


Arte

incontri

A cura di

Viktoria Charkina

Carlo Pizzichini

L’opera d’arte totale di un maestro del gesto e del colore

di Viktoria Charkina

Com’è nata la tua passione per l’arte?

Sono figlio di un decoratore murale che purtroppo non

ha potuto proseguire e dimostrare il suo grande talento, se non

negli anni dei suoi studi all’Istituto d’Arte di Porta Romana a

Firenze dove ebbe come compagni Salvatore Cipolla e Mauro

Bini sotto la guida del professor Renzo Grazzini. Mio padre

ha visto in me quello che lui non ha potuto realizzare. Purtroppo,

la sua prematura scomparsa non gli ha fatto godere i frutti

dei sacrifici fatti per farmi studiare arte a partire dalle scuole

medie fino all’Istituto d’Arte di Siena, per poi completare il percorso

a Firenze all’Accademia di Belle Arti. È anche vero che la

sensibilità e il modo di guardare il mondo con occhi diversi non

s’imparano. Ricordo ancora che per la prima comunione il regalo

più gradito fu un cavalletto da campagna, insieme ad una

scatola di tempere e a qualche pennello. I cartoni da dolce li

usavo come supporto recuperandoli dal fornaio.

Quant’è stato importante per te il corso di studi all’Accademia

di Belle Arti a Firenze?

Direi che è stato fondamentale, anche se sono stati anni amari

e duri, proprio per la scomparsa improvvisa di mio padre. Nonostante

le numerose difficoltà, anche ambientali, venivo da un piccolo

paese, Monticiano, da quel territorio che divide Siena dalla

Carlo Pizzichini al lavoro presso la bottega Il Tondo di Celle Ligure

Maremma, mi sono affidato alla forza del trascendente per avere

le energie e la volontà di finire gli studi, per lavorare con umiltà,

cominciare ad esporre le mie opere, ottenere commissioni e

incarichi. Fin da giovanissimo, infatti, ho iniziato la libera professione,

con lavori esposti ed eseguiti in Italia e nel mondo, ripagando

così con concrete soddisfazioni i tanti sacrifici miei e

della mia famiglia. Ho avuto poi la fortuna di incontrare un maestro

come il professore Roberto Giovannelli che, nella sua scuola

di pittura, insegnava con fare antico l’esempio del moderno, la

trasmissione della sensibilità artistica, la curiosità del fine intellettuale,

il far pratica del disegno e del colore. È stato davvero un

insegnamento di cui fare tesoro per sempre.

Ci sono artisti, scrittori o altri esponenti del mondo culturale

che hanno influenzato il tuo percorso?

Alaria (2019), installazione di vasi: argilla bianca, colore ceramico, cristallina

Oltre all’esempio di Giovannelli, dopo aver attraversato, come

studente, tutti i linguaggi e le tecniche pittoriche, passando da

esperienze più espressive all’iperrealismo, per reazione mi sono

indirizzato ad una sorta di descolasticizzazione del segno,

nella ricerca proprio di uno stile il più possibile personale o almeno

aderente alla mia sensibilità, l’originale espressione di

un sentire che sta in equilibrio tra istinto e ragione, facendo

di questa simmetria il tema di tutto il mio lavoro. Una sorta di

scrittura o calligrafia capace di trasmette un invisibile che, tra

gesto e colore, può diventare visibile, traccia, memoria, e per

questo capace addirittura, tra segni e simboli, di raccontare

una storia. Per cui gli artisti che fanno parte del mio bagaglio

visivo sono tutti quelli legati al gesto ed al segno raccontante.

Tra Cy Twombly e Gastone Novelli, credo ci sia ancora spazio

per una ricerca e una seria sperimentazione. Inoltre, aderendo

all’idea della scrittura, la poesia antica e contemporanea, le

26

CARLO PIZZICHINI


Installazione di sculture in bronzo (2007), giardino della Fondazione Vacchi, Castello di

Grotti, Siena

Uno scorcio della mostra personale di Pizzichini al Castello del Priamar di Savona nel 2019

La Parola (2013), vetrata, Basilica di San Domenico, Siena

biografie dei pittori, gli articoli sulle mostre, le vite romanzate

degli artisti, quelli che sono partiti per terre lontane alla ricerca

di nuove visioni estetiche, la memoria delle nostre terre, le storie,

i viaggi, la conoscenza, sono elementi fondamentali che si

possono ritrovare nel mio lavoro.

A cosa stai lavorando in questo momento e come vedi la

tua produzione in futuro?

Con il tempo ho avuto modo di incrociare oltre alla pittura su tela

anche incarichi prestigiosi che prevedevano la realizzazioni di

grandi dipinti murali, installazioni, ritratti dipinti, ritratti in bronzo,

interventi decorativi in ambienti, opere religiose per chiese

e cappelle, sculture in marmo e sculture in bronzo per giardini,

scenografie e costumi per il teatro, sculture in legno dipinto, opere

in cristallo, vetrate per basiliche, ceramiche, imponenti decorazioni

di maiolica, grandi terrecotte e addirittura la decorazione

in acciaio delle bascule di un fucile per la Beretta. Queste esperienze

mi fanno sentire un prosecutore, anche se forse poco

degno, dell’idea dell’artista interessato a tutti i campi della creatività,

concetto che in Toscana è stato incarnato dai grandi maestri

del Rinascimento, capaci di misurarsi dal gioiello al progetto

di una cattedrale, affrontando il problema con la stessa serenità

e competenza inventiva, nella certezza di poter contare sulle

capacità e sull’esperienza di abili artigiani, fondamentali soprattutto

quando si ha l’intenzione di trasportare il proprio lavoro su

materiali più complessi da lavorare. In questo momento sono

impegnato in diversi progetti: sto dipingendo una chiesa nel Casentino,

sto realizzando la commissione di una serie di ceramiche

come oggettistica celebrativa, dipingo per preparare alcune

mostre in programma e per la presenza di miei lavori in gallerie,

da San Gimignano a Siena, dalla Svizzera a Francoforte sul Meno.

Ma la cosa della quale vado più fiero, oramai da circa dieci

anni a questa parte, è quella di dedicarmi, oltre al mio lavoro, soprattutto

alla promozione e all’organizzazione del lavoro di altri

artisti, di giovani talenti che meritano visibilità, e quando mi capita

di essere chiamato come curatore di idee espositive faccio

di tutto affinché i meriti degli artisti siano considerati, spingendoli

fino al punto di essere così importanti per la nostra società

contemporanea in modo da identificarsi come veri protagonisti

della storia del nostro tempo. A tutto ciò si affiancano, insieme

all’insegnamento della Pittura all’Accademia di Brera, gli impegni

come membro dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze,

dell’Accademia Internazionale della Ceramica di Ginevra

e di responsabile del comitato scientifico di arti visive dell’Istituto

Italiano del Design di Perugia.

CARLO PIZZICHINI

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Curiosità storiche

fiorentine

A cura di

Luciano e Ricciardo Artusi

L’acqua di San Giovanni

Un unguento “miracoloso” per

ingraziarsi la buona sorte

di Luciano e Ricciardo Artusi

Fra i riti della festa fiorentina per eccellenza, quella di San

Giovanni Battista patrono della città, fare abluzioni con

l’acqua di San Giovanni, cioè con la rugiada, era un’usanza

antica e molto radicata, pervenuta a noi da origini cristiane

innestate su precedenti pagane. Protagonista la “guazza” notturna

della notte tra il 23 ed il 24 giugno che, infatti, era considerata

magica: un farmaco miracoloso a difesa dell’integrità della

persona perché in possesso di virtù curative, di fortuna e d’amore.

Tale incantesimo si realizzava grazie all’incredibile energia

positiva legata al solstizio d’estate – l’inizio di questa bellissima

stagione – ottenuta anche attraverso le erbe e i fiori che raccoglievano

la vitalità dalla rugiada, ricevendone una particolare

forza, attraverso la quale venivano effettuati i riti propiziatori

e purificatori. L’usanza consisteva nel raccogliere la brina passando

dei pezzi di tela di candido lino sull’erba bagnata, per poi

spremerli in un contenitore e, con quel liquido, detto anche la “rugiada

degli dei”, lavarsi il viso al mattino, bagnare le parti doloranti

del corpo per ottenerne la guarigione, far crescere i capelli,

ringiovanire la pelle e preservarla dalle malattie. Si aveva anche

l’accortezza, dopo tale rito, di conservarne una parte in contenitori

di vetro per usarla come acqua benedetta, fino all’anno

successivo. Il momento magico per ottenere il “talismano” per

propiziare la buona sorte era, come accennato, la notte fra il 23

e il 24 giugno quando la rugiada acquistava virtù straordinarie

grazie all’inizio della nuova bella stagione: il solstizio d’estate,

il giorno più lungo dell’anno, con la natura che giunge al massimo

splendore e coincide con la natività cristiana di San Giovanni

Battista. In questa notte, detta di San Giovanni o di Mezza

Estate, nelle campagne si aveva particolare cura di raccogliere

l’Hypericum – il cui profumo somiglia a quello dell’incenso

– che, pestato in un mortaio e unito all’olio d’oliva, diveniva un

unguento efficacissimo per la cura delle ustioni. I rabdomanti

tagliavano rametti di nocciolo a forma di “Y” per farne quelle

magiche verghette con le quali riuscivano a scoprire le sorgenti

d’acqua. Le contadinelle strisciavano sull’erba bagnata dei prati

infiorati le loro parti intime nella certezza di ottenere fecondità

Luciano Artusi, a sinistra, con il figlio Ricciardo

e bellezza. In quella notte, nel territorio collinare fiorentino veniva

raccolta una varietà molto ampia di erbe officinali per preparare

medicine come, ad esempio, la camomilla da usarsi quale

blando sedativo, il tarassaco per beneficio biliare e antireumatico,

l’ortica diuretica e, per uso esterno, ottenere frizioni contro

la caduta dei capelli, la rosa canina quale antinfiammatorio e

astringente intestinale, la menta piperita e quella selvatica ottimali

per la digestione, il timo come antisettico intestinale, la melissa

quale sedativo, la malva come diuretico, la nepitella contro

i crampi di stomaco e l’erba della Madonna per risanare ogni tipo

di piaghe. L’usanza collettiva (fortunatamente da qualcuno

ancora praticata) era ed è quella di mettere prima della mezzanotte

del 23 giugno dell’acqua in una bacinella o in un qualsiasi

contenitore di vetro, ceramica o anche in una semplice scodella,

petali di fiori spontanei ed erbe aromatiche che si hanno a disposizione,

lasciandole per tutta la notte sul davanzale delle finestre,

in giardino o nelle terrazze, al fine di associarle alla rugiada

che vi si posi sopra per donare loro le proprietà magiche. Generalmente

i petali più usati quelli della malva, dei papaveri, dei

fiordalisi, delle rose, ginestre, margherite e lavanda, unitamente

con foglie di menta, basilico, salvia e ramerino. Molti fiorentini

continuano ancora questa antica usanza rituale mettendo corolle

di fiori ed erbe aromatiche, con sfoggio di profumi e di colori,

a galleggiare nell’acqua, in quella notte magica, confidando

di propiziare così la buona sorte e ottenere salute, gioia, felicità

e, perché no, fortuna e successo. Dall’anno 2021 l’Arciconfraternita

della Parte Guelfa ha riportato alla luce in modo ufficiale

questa bella tradizione recandosi in corteo, con ampia partecipazione

di consorelle e confratelli mantellati nel classico verde

antico, in piazza della Signoria dove, alla mezzanotte del 23 giugno,

il bacile di rame colmato d’acqua della fontana del Nettuno,

di petali di fiori, erbe aromatiche e salutato al grido di “Marzocco,

Marzocco, Marzocco”, viene lasciato per tutta la notte nell’attesa

che la rugiada vi si depositi sopra donandole quella mistica

forza che unisce cielo e terra tramite la potenza solare. Il bacile

resta lì per tutta la giornata seguente a disposizione di fiorentini

e turisti che vogliono ripetere il magico e tradizionale rito dell’acqua

di San Giovanni.

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L’ACQUA DI SAN GIOVANNI


A cura di

Rosanna Bari

Note dʼarte

Herbert Percy Horne

La figura dell’intellettuale e collezionista inglese a Firenze nella

conferenza di Diego Crociani alla Biblioteca del British Institute

di Rosanna Bari / foto Rosanna Bari e courtesy Edizioni Polistampa

Herbert Percy Horne, un grande intellettuale

e collezionista inglese nella Firenze

dei primi del ʼ900 è il titolo della

conferenza, a cura di Diego Crociani, che si è tenuta

lo scorso 9 maggio nella storica cornice rinascimentale

di Palazzo Lanfredini, nella sala

della Biblioteca Harold Acton del British Institute

of Florence. L’evento ha voluto ricordare i

cento anni, 1921-2021, dall’apertura al pubblico

del Museo Horne nel trecentesco palazzo di

via de’ Benci, nel 1489 passato di proprietà ai

fratelli Corsi che lo ristrutturarono in stile rinascimentale.

Il palazzo era stato acquistato da

Horne nel 1911 e, poco prima della sua morte,

avvenuta a Firenze nel 1916, donato allo Stato

italiano assieme alla preziosa collezione d’arte.

La “casa museo”, oltre ad importanti capolavori

come la tavola con Santo Stefano di Giotto,

ha al suo interno più di seimila opere tra dipinti,

sculture, mobili, ceramiche, disegni e monete.

Herbert Percy Horne nacque a Londra nel 1864, dove si formò

e lavorò come architetto. L’emozione provata nel 1889

durante il suo primo viaggio in Italia lo portò, nel 1905, a

stabilirsi a Firenze dove, nel cosmopolita ambiente culturale,

conobbe i più importanti intellettuali stranieri in città. Il

fervente scenario artistico poi, lo vide tradursi da architetto

in attento studioso del Rinascimento fiorentino e pubblicare

L’esterno del Museo Horne a Palazzo Corsi in via de' Benci a Firenze

Lo storico dell’arte Diego Crociani durante la conferenza alla Biblioteca Harold Acton

saggi su importanti artisti, tra i quali spicca quello su Botticelli

del 1908. Dal 1899, durante lo sventramento del centro

storico di Firenze, Horne fu tra coloro che svolsero un importante

ruolo all’interno dell’Associazione per la difesa di

Firenze antica. La relazione di Diego Crociani ha così voluto

mettere in risalto la figura del raffinato collezionista inglese

che, con il suo amore per l’arte e per Firenze contribuì, tra

Ottocento e Novecento, ad

arricchire il panorama culturale

della città quando,

grazie al restauro, all’artigianato

e all’antiquariato di

alto livello, Firenze era divenuta

la capitale del turismo

culturale d’élite. Studioso

di simbolismo nell’arte rinascimentale,

lo storico

dell’arte Diego Crociani è

autore, assieme a Caterina

Marrone, del saggio Il segreto

della scrittura nell'Annunciazione

di Leonardo da

Vinci (Leonardo Libri 2020)

e, con Lorella Migliorati, del

saggio Giuliano da Sangallo

a palazzo Gondi (Firenze

2011).

Henry H. Brown, Ritratto di Herbert P. Horne (1908), Museo Horne

HERBERT PERCY HORNE

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Dimensione

salute

A cura di

Stefano Grifoni

I postumi della sbronza: una questione di chimica

di Stefano Grifoni

Ipostumi della sbronza specialmente nausea e mal di

testa sono provocati da una sostanza chiamata acetaldeide

che si accumula nel sangue dopo un’importante

assunzione di alcool. Questa sostanza, velenosa per

l’organismo, si forma quando l’etanolo che arriva al fegato

viene metabolizzato da un enzima, l’alcol deidrogenasi. Un

secondo enzima poi trasforma l’acetaldeide in acido acetico

che viene eliminato con le urine. Che sia l’acetaldeide

a dare mal di testa e nausea violenti è dimostrato da un

farmaco: l’antabuse. L’antabuse infatti blocca l’enzima aldeide

deidrogenasi provocando così un accumulo di acetaldeide.

Assumendo antabuse dopo aver bevuto appena

un bicchiere di vino si ha mal di testa, vomito e nausea

così terribili da spingere alla sobrietà anche il più sfegatato

dei bevitori. In Giappone metà della popolazione porta

un gene difettoso per l’aldeide-deidrogenasi. Queste persone

non hanno bisogno dell’antabuse per allontanarsi da

troppa birra o sakè.

Stefano Grifoni è direttore del reparto di Medicina e Chirurgia di Urgenza del pronto soccorso

dell’Ospedale di Careggi e direttore del Centro di riferimento regionale toscano per la diagnosi

e la terapia d’urgenza della malattia tromboembolica venosa. Membro del consiglio nazionale

della Società Italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza, è vicepresidente dell’associazione

per il soccorso di bambini con malattie oncologiche cerebrali Tutti per Guglielmo e membro tecnico

dell’associazione Amici del Pronto Soccorso con sede a Firenze.

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I POSTUMI DELLA SBRONZA


A cura di

Emanuela Muriana

Psicologia

oggi

Attacchi di panico, l’estremo volto della paura

di Emanuela Muriana

Giulia ha 26 anni e una vita praticamente normale: genitori,

un lavoro, un fidanzato, un cane. Un giorno era

al supermercato, quando a un certo punto si è sentita

un po’ “strana”. Si è accorta di avere il battito cardiaco molto

accelerato, ha iniziato a sentire che le mancava l’aria, ha cominciato

a sudare, la testa confusa, paura di svenire. Di colpo

si è sentita inerme e senza forze e si è aggrappata con forza

alla sua amica: «Aiutami! Sto per avere un infarto!». Spaventata,

l’amica la fa sedere e chiede aiuto. Dopo circa mezz’ora,

arriva un’ambulanza e il medico procede con i suoi accertamenti.

Fortunatamente, Giulia non ha nulla o meglio ha avuto

un attacco di panico che funziona proprio così: dopo un’improvvisa

accelerazione delle reazioni fisiche incomprensibili

e incontrollabili, tutto finisce, lasciando la stessa sensazione

di devastazione prodotta da un terremoto, in questo caso psicologico.

Fino alla prossima volta. Due o tre minuti di terrore

inspiegabile e poi l’immensa paura, il panico, è finita lasciando

spossatezza e disorientamento. Il panico viene da più parti

definito come la forma più estrema della paura che, se al di

sotto di una certa soglia, rappresenta una risorsa che consente

di allertare l’organismo di fronte a situazioni pericolose, al

di sopra di questo limite diviene patologica. Durante un attacco

di panico, la persona è terrorizzata dalle sue stesse sensazioni

di paura nei confronti delle reazioni fisiche minacciose

che tenta di combattere con la volontà, inefficacemente. Ciò

che spaventa di più comincia a non essere più la paura in se

stessa, ma la reazione di perdita di controllo organica. Così

l’eccesso di allarme attiva le reazioni fisiche temute, aumentandole;

l’effetto dunque si trasforma in causa. Si crea para-

dossalmente un tilt psicofisiologico. Questa è la persistenza

del problema che può trasformare la paura in sintomo e un

sintomo in un vero e proprio disturbo strutturato: il solo pensiero

del panico, può creare l’attacco di panico. L’ansia avrebbe

la funzione di controllare la paura che diventa panico. Nel

2000, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito

il disturbo da panico come la più importante patologia

esistente, colpendo il 20% della popolazione. Analizzando le

reazioni più usuali a una percezione d’intensa paura, si osservano,

infatti, alcune costanti ridondanze nelle diverse persone

e situazioni: evitare o sfuggire ciò che spaventa, la ricerca

dell’aiuto e protezione e il tentativo di tenere sotto controllo

le reazioni psicofisiologiche. Il protocollo di intervento per gli

attacchi di panico studiato da Giorgio Nardone e collaboratori

- esito di uno studio valutativo condotto al Centro di Terapia

Strategica nel 2000 su 3482 casi trattati, di cui oltre il 70% soffriva

di attacchi di panico - ha evidenziato un’efficacia terapeutica

del 95% e con una durata dei trattamenti ridotta a sette

sedute. Da allora sono stati trattati migliaia di casi con successo

dai ricercatori del CTS, con tasso medio di esiti positivi

nelle statistiche internazionali che supera l’85%.

Emanuela Muriana è responsabile dello Studio di Psicoterapia Breve

Strategica di Firenze, dove svolge attività clinica e di consulenza.

È stata professore alla Facoltà di Medicina e Chirurgia presso

le Università di Siena (2007-2012) e Firenze (2004-2015). Ha pubblicato

tre libri e numerosi articoli consultabili sul sito www.terapiastrategica.fi.it.

È docente alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica.

Studio di Terapia Breve Strategica

Viale Mazzini 16, Firenze

+ 39 055 242642 - 574344

emanuela.muriana@virgilio.it

ATTACCHI DI PANICO

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Salute e

società

Medici di famiglia, gli eroi silenziosi

della pandemia

Ne parliamo con il dottor Fabrizio Pedulli, medico di medicina

generale nel comune di Poggio a Caiano

di Doretta Boretti

Non sempre si è considerato quanto la pandemia da

Covid-19 abbia messo a dura prova i medici di famiglia

di una comunità, e quanto, nella maggior parte

dei casi, tali medici, abbiano donato tutta la loro professionalità

al servizio della comunità, rischiando a loro volta la vita.

Ne parliamo con il dottor Fabrizio Pedulli.

Lei è medico di una numerosa comunità in provincia di Prato...

Sì, sono medico di medicina generale nel comune di Poggio a

Caiano, un mutualista al massimale degli assistiti.

Quella del Covid-19 è stata un’esperienza molto faticosa da

gestire?

Più che faticosa direi drammatica. Siamo stati investiti da

tutta una serie di problematiche, in primis da quelle sanitarie,

ma non ultime anche quelle burocratiche. Quindi, proprio

drammatica.

All’inizio sono mancati ausili di protezione per voi medici oppure

siete stati supportati dal servizio sanitario nazionale?

Nella prima ondata siamo

stati completamente lasciati

allo sbaraglio. Quindi

i dispositivi di protezione

individuale erano completamente

assenti. Però ciascuno

di noi ha provveduto

personalmente all’acquisto.

Probabilmente è stato

dovuto all’inesperienza sia

nostra sia di chi gestiva gli

acquisti. Dopodiché le cose

sono cambiate.

Fabrizio Pedulli

Ci troviamo adesso alla

quarta/quinta ondata pandemica. Secondo lei che cosa è

cambiato in questo ultimo periodo?

Dal punto di vista sanitario adesso la patologia si è estremamente

attenuata. Vediamo dei casi che si risolvono prevalentemente

come sintomi di tipo parainfluenzale, una

forma da raffreddamento laringofaringitica e niente più.

Questo, probabilmente, proprio

grazie alle vaccinazioni

di massa.

Nonostante i vaccini, si assiste

ancora ad un serrato

contagio. Che suggerimenti

può dare ai nostri lettori?

Fare molta attenzione e cercare

di mantenere i comportamenti

che venivano tenuti

nelle ondate precedenti.

Quindi, il distanziamento,

lavarsi le mani frequentemente

e, personalmente, la

mascherina non l’abbandonerei

in nessuna maniera.

Perché?

Perché la pandemia non è

ancora finita.

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MEDICI DI FAMIGLIA


A cura di

Silvia Ciani

I consigli del

nutrizionista

Il gelato: come gustarlo senza sensi di colpa

di Silvia Ciani

Arriva il caldo, mangiamo volentieri più verdura e frutta,

beviamo di più, ma aumenta anche la voglia di qualcosa

di fresco, di leggero e di piacevole al gusto, come

il gelato. Il gelato, soprattutto quello artigianale, se fatto

bene, senza additivi e conservanti, è un prodotto sano poiché

fatto con alimenti semplici, freschi e di stagione: latte, panna,

yogurt, zucchero, uova, frutta fresca, frutta secca e altri ingredienti

come caffè, vaniglia, cacao, etc. … Esistono tre tipologie

di composizione di gelato che ne determinano il valore nutrizionale

oltre che il gusto: il gelato alla crema, quello al latte e

quello alla frutta. Il gelato alla crema, che è composto sostanzialmente

di tuorli d’uovo, latte e zucchero, è un’ottima fonte di

energia, proteine e vitamine. Il gelato al latte invece garantisce

un buon apporto di calcio, mentre il gelato alla frutta è generalmente

composto da acqua (fino al 70%), zucchero e polpa

di frutta: quest’ultimo, rispetto al gelato a base di latte e crema,

è privo di proteine e di grassi e di conseguenza ha anche

un minor valore energetico (normalmente un sorbetto o un ge-

lato alla frutta apportano circa 150 kcal/100gr., mentre gli altri

possono superare anche le 300 kcal/100 gr. a causa dei grassi

contenuti). Le caratteristiche nutrizionali del gelato fanno sì

che possa essere considerato un ottimo integratore nutrizionale

per completare (ma non sostituire!) un pasto leggero delle

persone sane, o per arricchire la dieta dell’anziano, spesso

anche inappetente, di proteine ad alto valore biologico e molto

digeribile, e di acqua (per contrastare la disidratazione estiva)

o essere infine una buona merenda soprattutto per bambini

e adolescenti dopo l’attività ludica e sportiva. Il gelato quindi

non è un alimento che “fa ingrassare” ma, come tutti gli alimenti,

dobbiamo imparare a conoscerlo e a gestirlo nel modo

giusto per non abusarne sia per la frequenza che per la quantità.

Per appagare il nostro palato senza aver paura di esagerare

troppo con le calorie, dovremmo accontentarci di una piccola

coppetta con 2 gusti e abbinare per esempio una crema ad

una frutta, come cioccolato e fragola, yogurt e kiwi, pistacchio

e melone, stracciatella e albicocca.

Biologa Nutrizionista e specialista in

Scienza dell’alimentazione, si occupa

di prevenzione e cura del sovrappeso

e dell’obesità in adulti e bambini attraverso

l’educazione al corretto comportamento alimentare,

la Dieta Mediterranea, l’attuazione di

percorsi terapeutici in team con psicologo, endocrinologo

e personal trainer.

Studi e contatti:

artEnutrizione - Via Leopoldo Pellas

14 d - Firenze / + 39 339 7183595

Blue Clinic - Via Guglielmo Giusiani 4 -

Bagno a Ripoli (FI) / + 39 055 6510678

Istituto Medico Toscano - Via Eugenio

Barsanti 24 - Prato / + 39 0574 548911

www.nutrizionistafirenze.com

silvia_ciani@hotmail.com

IL GELATO

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Farmacia Mijno e

Farmacia Guandalini

Strategie skincare anche sotto il sole

Per preparare la pelle al sole e raggiungere velocemente

un’abbronzatura dorata evitando spiacevoli macchie, scottature

o eritemi solari, invecchiamento precoce della pelle

e cheratosi ma soprattutto per mantenere a lungo un incarnato colorito,

è importante prepararsi all’esposizione solare. Ma come? Le

tre parole d’ordine per iniziare sono: esfoliare, detergere e idratare.

Durante l’inverno la tua pelle, a lungo coperta, è stata “stressata”

da freddo e inquinamento. Cosa fare allora? Rimuovi le impurità

con una buona esfoliazione: per il viso, che è la parte più delicata ed

esposta, utilizza uno scrub specifico e leggero; per il corpo invece

usa un esfoliante con particelle più grosse, procedendo con movimenti

circolari sulla pelle asciutta, per un’azione più intensa e sulla

pelle bagnata per un effetto più dolce. Dopo lo scrub, procedi con

la detersione, meglio se delicata e fai seguire una buona idratazione,

per nutrire la pelle ed evitare screpolature. In questa fase, l’alimentazione

gioca un ruolo importantissimo: alcuni alimenti sono

in grado di favorire la sintesi della melanina, il pigmento protettivo

della pelle, necessario per preparare la pelle all’esposizione solare.

Si tratta di alimenti ricchi principalmente di beta carotene,

come carote, pomodori, albicocche, melone, verdure a foglia verde.

Non sempre però la sola alimentazione permette di assimilare

quei nutrienti capaci di dare sostegno a questo processo. In questo

caso ti vengono in aiuto gli integratori alimentari mirati, da assumere

qualche settimana prima e durante l’esposizione solare,

per garantirti un’abbronzatura più intensa e duratura e soprattutto

una corretta protezione dell'epidermide. Questi prodotti contengono

sostanze nutritive, quali vitamine, minerali e antiossidanti che

contrastano la formazione dei radicali liberi e prevengono l’invecchiamento

cutaneo precoce causato dall’azione dei raggi del sole. Il

manganese, la vitamina E e la vitamina C, contribuiscono alla protezione

delle cellule dallo stress ossidativo; la niacina, contribuisce

alla salute della pelle. Ma ricorda: l’esposizione al sole deve essere

graduale, soprattutto se hai una carnagione chiara e un fototipo di

tipo 1 o 2. Porta sempre con te una protezione solare, adatta al tuo

tipo di pelle e naturalmente un doposole. La scelta della protezione

solare è molto importante. Controlla sempre il fattore di protezione

solare (SPF), che dovrebbe essere preferibilmente compreso tra 30

e 50+, indici di una protezione alta e molto alta. L’SPF va scelto secondo

il proprio fototipo di pelle. Controlla sempre il tipo di filtro (per

UVA, per UVB e IR) e presta sempre attenzione alla data di apertura

del solare, perché i filtri si deteriorano. A fine giornata non dimenticare

di nutrire la tua pelle con un buon doposole. Noi consigliamo

emulsioni lenitive e idratanti che donino sollievo e attenuino i

rossori causati dal sole. Scegli formulazioni fresche ‘efficace azione

lenitiva alla pelle arrossata dal sole, l’acido ialuronico la idrata a lungo

assicurandoti, insieme alla vitamina E, un’azione antietà. Ci sono

inoltre prodotti da applicare sulla pelle, studiati appositamente per

prepararti all’esposizione solare e intensificare l’abbronzatura, grazie

ad ingredienti che favoriscono la produzione della melanina: dei

veri acceleratori d’abbronzatura.

Presso le nostre farmacie troverai sempre personale altamente formato e in grado di fornirti un consiglio personalizzato, per trascorrere un’estate sicura!

I professionisti della Farmacia Mijno,

via Gramsci 5, Signa (FI), + 39 055 875639

Il team della Farmacia Guandalini,

via 24 Maggio 3/5, Lastra a Signa (FI), + 39 055 8720090


A cura di

Maria Concetta Guaglianone

PsicHeArt

Sotto un cielo di stelle,

simboli dei desideri

di Maria Concetta Guaglianone

Van Gogh, il pittore delle stelle, affida alla notte stellata

il suo caos psichico per ritrovare serenità. Dante nella

Divina Commedia chiude ogni cantica con il termine

stelle per indicare il collegamento del destino umano con il divino.

Giotto dipinge nell’Adorazione dei Magi la cometa di Halley;

Tintoretto narra l’origine della Via Lattea; Miró dialoga con

le costellazioni in cui si rifugiava dalla guerra. Poeti, filosofi, pittori

hanno trovato ispirazione nel cielo stellato. L’arte, la letteratura,

i miti e le leggende hanno sempre raccontato delle stelle

e del loro significato simbolico come segni di fortuna, guida ed

energia. Nell’immaginario collettivo la stella è da sempre un simbolo

positivo: essa esprime il desiderio di luce e di speranza. L’etimologia

dal latino “de”, particella di negazione, e “sidus”, astro,

rimanda letteralmente alla mancanza di stelle. Da questa mancanza

nasce nell’animo umano una continua ricerca. Il desiderio

è intrinseco alla natura dell’uomo, è una forza motrice che genera

azioni ed emozioni. In ambito psicologico, Freud ha utilizzato tre

termini per descrivere il desiderio: “wunsch”, inteso come augurio;

“lust”, piacere e gioia, e “begierde”, brama, appetito. Il desiderio

per Freud è la percezione di un pieno soddisfacimento. Lacan

parla del desiderio come una spinta vitale che anima ciascun uomo,

la parte più intima e sconosciuta, una condizione assoluta

che non si estingue con la soddisfazione dello stesso. Jung definisce

il desiderio la via della vita e mette in evidenza come non

sia sempre facile confessare a sé stessi il proprio desiderio, seguirlo

e non farsi trasportare su strade estranee tracciate da altri.

Il desiderio ha una dimensione corporea, mentale, sensoriale,

emotiva. Muove e smuove, crea equilibrio, scompenso, trasformazione

e cambiamento in risposta ad uno spazio o ad un vuoto

psicologico o fisico da colmare. Nasce una relazione profonda

in continuo movimento con l’oggetto desiderato, intendendo per

oggetto sia qualcosa di materiale e fisico sia una persona, una situazione

o uno stato personale. I desideri narrano le passioni, le

aspirazioni e la ricerca del piacere; parlano del senso di responsabilità,

di attenzione e cura rivolte all’oggetto desiderato. Cosa

succede quando nasce in noi un desiderio? Innanzitutto è fondamentale

entrare in contatto con esso, ascoltarlo, focalizzarlo, riconoscerne

il valore e il significato, esprimerlo e non soffocarlo.

È importante accogliere i pensieri, le sensazioni ed emozioni ad

esso collegati. È opportuno valutare se sia realistico, accettabi-

Joan Miró, Figure di notte guidate da tracce fosforescenti di lumache (serie

Costellazioni, 1940), acquerello e gouache su carta

le e fattibile, definire quali siano le modalità di azione e le risorse

da impiegare per soddisfarlo, se il suo appagamento dipende

dal nostro potere d’azione o da agenti esterni. Nel caso in cui si

presentino difficoltà e blocchi che ne impediscono il soddisfacimento,

occorre riconoscere e gestire la frustrazione e il senso

di sconfitta, o nel caso in cui non ci sia stato alcun tentativo per

realizzarlo, accogliere e lavorare sul rimorso e sul senso di colpa,

sul rammarico di un’occasione perduta. A volte può insorgere

un conflitto interiore per la compresenza di desideri contrapposti

ma entrambi importanti e ricercati che generano una situazione

di stallo e difficoltà a scegliere. I desideri appagati attivano esperienze

emozionali gratificanti che restano impresse come un’orma

nella memoria del corpo e nei ricordi, e a cascata possono

attivare una nuova spinta motivazionale verso nuovi desideri; allo

stesso modo restano impressi i vissuti derivati da desideri infranti.

In tal caso è fondamentale lavorare sul processo di accettazione

e sulla consapevolezza che le situazioni della vita possono

evolvere diversamente rispetto alle proprie attese. Importante è

saper stare anche con ciò che si ha, stare nel presente, essere riconoscenti

sempre, e come diceva Epicuro «non rovinare quello

che hai, desiderando ciò che non hai; ricorda che ciò che ora

hai, un tempo era tra le cose che speravi di avere». Siamo tutti a

desiderar le stelle, con il naso all’insù per scorgere quei meravigliosi

punti luce che illuminano il buio della notte. A queste luci

rivolgiamo il nostro sguardo e le nostre speranze. A queste luci

affidiamo i nostri sogni e i nostri passi. E se presti attenzione al

momento presente, nel qui ed ora, qual è il desiderio che luccica

nel tuo cielo stellato?

Psicologa specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia dell’Istituto Psicoumanitas di Pistoia, Maria Concetta

Guaglianone ha frequentato la scuola biennale di Counseling Psicologico presso Obiettivo Psicologia

di Roma, dove ha svolto anche la propria attività professionale collaborando come tutor nel Master di

Psicologia Perinatale. È autrice di numerosi articoli sul portale Benessere 4you - Informazioni e Servizi su Salute e

Benessere Psicologico. Attualmente svolge la propria attività professionale presso Spazio21 - Studi Professionali

di Discipline Bio Naturali e Psicologia (via dei Ciliegi 21 - 50018 Scandicci).

+39 3534071538 / + 39 348 8226351 / mariaconcetta.guaglianone@gmail.com

SIMBOLI DEI DESIDERI

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Ritratti

d’artista

Emanuela Simoncini

La trama e l’ordito di un viaggio interiore

di Jacopo Chiostri

È

probabile – forse inevitabile – di fronte ai lavori “tessili”

di Emanuela Simoncini fermare l’attenzione all’epifenomeno,

farsi cioè dominare, nell’incontro con la loro poetica,

dalla straordinaria capacità tecnico-manuale dell’artista.

Il ricamo, che è il medium della Simoncini, tra le altre cose, non

ci è familiare e l’esplosione di grazia e di bellezza caleidoscopica

che si sprigiona dalla tela impatta nella retina come se aprissimo

improvvisamente gli occhi su di un panorama inaspettato,

un iperuranio che si manifesta con la forza primordiale di un disordine

che si fa ordine per contenere razionalmente la propria

forza. Un’esplosione di energia vitale, di segni, di significati: questa

è l’idioma della Simoncini, la quale però, si badi bene, non intende

in alcun modo fare esclusivo sfoggio della sua, peraltro

indubbia, bravura, ma chiama all’ascolto di un racconto intimo,

scritto sì in bella calligrafia, ma scritto prima di tutto con l’intensità

propulsiva di un “io” interiore che ha bisogno di raccontarsi

e di ricucire i traumi di una sensibilità ferita da questo nostro

universo nel quale armonia e benevolenza sembrano diventate

residuali. Come dicevamo, quella della Simoncini è, in definitiva,

una personalissima sintassi (un’inedita sintassi!) con la quale

ciascuna delle figure femminili racconta la propria storia. I se-

Dama celeste, libellula marmorea (2022), arte tessile, ricamo a mano su stampa

di grafica digitale su tela, cm 50x70

Dama rosa, elegante femminilità (2022), arte tessile, ricamo a mano su stampa

di grafica digitale su tela, cm 50x70

gni (la parola ricamo, dopo tutto, deriva dal lemma arabo “raqm”

che significa “segno”), ora simili a zampilli di acqua sorgiva, ora

a spirali che avviluppano lo spazio, sono parole talvolta accentate,

altre no, che compongono i paragrafi di una narrazione che

riesce a coniugare contemporaneità e tradizione, complessità e

chiarezza espressiva delle forme. Le raffinate raffigurazioni appaiono

come una carezza consolatoria, con questa l’artista avvolge

e protegge se stessa e il mondo circostante; filo dopo filo,

tessitura dopo tessitura, viene stesa una rete tutelare che cinge

le figure femminili, intrecciandole con l’universo cui appartengono,

un po’ insondabili, un po’ emblematiche quantunque portatrici

di una simbologia dai molti significati che, in ultimo, si

risolvono nel ribadire l’eterno conflitto tra l’umano, disorientato,

e il suo bisogno-desiderio di abbracciare il divino. Sono bambole

trasportate in nuovi ambienti spaziali nei quali rintracciare un

nuovo senso della propria esistenza in sospensione tra l’essere

e il suo contrario; la loro immobilità vibra, per contrasto, con la

vitalità del ricamo a mano che le avvolge e definisce il senso della

loro presenza all’interno della narrazione. Diplomata in Pittura

all’Accademia delle Belle Arti di Firenze e a Siena all’Istituto d’Arte

Duccio da Boninsegna, la Simoncini ha al suo attivo la partecipazione

a decine di collettive e premi – da Roma a Matera, da

Bologna a Genova, a Palermo, Perugia, San Remo, Livorno, Brindisi,

Bruxelles, Venezia, Pisa – e ad alcune personali tra cui a Palazzo

Apollo a Pistoia e alla Biblioteca di Pontassieve. Di recente

ha esposto a Firenze allo Spazio Espositivo San Marco di Toscana

Cultura e al Caffè Letterario Le Murate.

emanuelasimoncini@hotmail.it

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EMANUELA SIMONCINI


A cura di

Francesco Bandini

Quando tutto

ebbe inizio…

Il Canto dell’Esiliato

di Francesco Bandini

Chi non ha mai avuto l’occasione di vedere tavolette

cuneiformi, avrà certamente notevoli difficoltà a capire

come, da piccoli frammenti di argilla seccata sui

quali sono stati incisi con uno stilo di canna segni spesso anche

sovrapposti fra loro, sia possibile leggere quelle “serie”

i cui contenuti ci hanno permesso di conoscere il racconto

del Diluvio Universale trasmessoci da George Smith. Non vi è

però dubbio che le composizioni letterarie di accademia assiro-babilonese

risalenti al 1850-1600 a. C., cioè al regno di

Hammurabi, contengano tutta una serie di informazioni che

vanno dal nome dello scriba, alla data di stesura del testo e

al suo contenuto. Si tratta di quei riferimenti che, con parola

di origine greca chiamiamo “colofone”, cioè informazioni poste

alla fine del testo. Infatti, nei vari regni (gli Hittiti in Anatolia,

gli Hurriti tra la Mesopotamia e la Siria) che avevano

creato il regno detto dei Mitanni e infine Babilonia dove si era

stabilita una dinastia del popolo Cassita, l’influenza culturale

era rimasta quella babilonese come pure l’uso della lingua.

Sarà l’ultimo re della dinastia caldea, per la sua devozione

verso il dio Luna (Sin), a scontrarsi con l’opposizione del clero

babilonese devoto al dio Marduk, così che nel 539 il persiano

Ciro entrerà in Babilonia da trionfatore e la città perderà

definitivamente la sua indipendenza. Ancora due secoli e la

dominazione persiana dovrà lasciare a sua volta il posto al

giovane conquistatore macedone Aléxandros. Alla sua morte,

avvenuta nel 323 proprio a Babilonia, questa è assegnata

a Seleuco I Nicatore e ai suoi discendenti fino a quando si imporranno

i Parti e infine i Romani ma è ormai l’agonia di una

civiltà tre volte millenaria. Nel 597 a. C. il giovane re di Gerusalemme

si arrende a Nabucodonosor e ciò comporta una

prima deportazione (II Re, 24). La famiglia reale, la corte, i notabili

ma anche gli artigiani, i fabbri sono esiliati a Babilonia.

È la prima delle tre deportazioni che avranno luogo in quindici

anni. Comunque siano andate le cose è proprio da Babilonia

La tomba di Ciro, incisione (Hachett Paris, 1887)

Francesco Bandini, La via dolorosa di Gerusalemme, matita su carta

che furono emanati i grandi documenti della Torah giudaica

che certamente da quelle lontane sponde, influenzarono profondamente

gli asceti abitanti del deserto, i fondatori Esseni

di Qumran. Il Salmo 137 detto Il Canto dell’Esiliato evoca

dunque il ricordo della caduta di Gerusalemme avvenuta nel

587 a. C. ad opera di Nabucodonosor II e l’esilio di Babilonia:

1) Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di

Sion; 2) Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre;

3) Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato,

canzoni di gioia i nostri oppressori: «Cantateci i canti

di Sion!». Come non ricordare la stupenda composizione di

Giuseppe Verdi nella quale nel coro del Nabucco si esprime

in modo sublime lo sconforto degli ebrei

esiliati. Il pensiero si volge inevitabilmente

ad uno dei conflitti potenzialmente

più pericolosi che oggi sta insanguinando

la nostra Europa orientale: quello fra

Russia e Ucraina la cui strada per la pace

sembra essere lunga e difficile. Anche

in questo caso, una guerra d’invasione, la

distruzione di intere città, l’esilio di milioni

di persone con la morte di centinaia di

bambini! La pace in questi casi non potrà

che arrivare attraverso una capillare

opera di sviluppo economico e la paziente

ricostruzione di un ambiente sociale e

culturale favorevole al dialogo. Un compito

quasi sempre estremamente difficile

svolto nel silenzio complice del mondo.

IL CANTO DELL’ESILIATO

37


Occhio

critico

A cura di

Daniela Pronestì

Petra Dippold-Götz

La danza del segno tra gesto e colore

di Daniela Pronestì

Danzare sulla tela con il pennello allo stesso modo di

come farebbe una ballerina sul palcoscenico. Cercare

nel colore la stessa immediatezza comunicativa

di un’improvvisazione musicale. Trovare poi il modo di accordare

entrambi gli elementi, gesto e colore, per farli vibrare

e respirare insieme sulla superficie della tela. Sono questi i

tre passaggi all’origine dei dipinti di Petra Dippold-Götz, artista

di Norimberga formatasi acquisendo e reinterpretando la

poetica del segno espressa dal suo illustre concittadino Albrecht

Durer. Partendo da questa prima impronta, maturata

guardando alle opere del celebre pittore e incisore tedesco, e

procedendo attraverso illustri esempi della pittura informale

americana da Pollock a Kline, la produzione di Petra si è configurata

nel tempo come una riflessione sulla capacità del

segno di restituire, insieme alla pura vitalità del gesto da cui

questo viene generato, l’intensità di stati emozionali che l’atto

creativo porta alla luce, facendoli emergere da una profondità

interiore e di pensiero. Lo sviluppo coreografico del

tracciato gestuale, che alterna a stesure energiche e marcate

la leggerezza e l’eleganza di colature filiformi, trasforma il

Love & Passion (2022), acrilico su cartone, cm 40x50

supporto nel luogo di un evento che, pur avendo in sé qualcosa

di tangibile, concreto, vicino alla realtà delle cose, allude

alla presenza di una dimensione “altra”, di un contenuto

sottile, immateriale, nascosto che il segno cattura ed intrappola

all’interno di un linguaggio criptico. Al di là di ciò che il

gesto pittorico manifesta e dice di sé – e quindi dell’artista

Capriccio (2019) acrilico su cartone, cm 70x100

The Dolphins' Kiss (2019), acrilico su cartone, cm 70x100

38

PETRA DIPPOLD-GÖTZ


Leonard Bernstein conducting... (2019), acrilico su carta, cm 38x54

– assecondando una precisa finalità espressiva – in questo

caso, ad esempio, trattare temi quali la libertà (Born free), la

passione amorosa (Love&Passion), il dinamismo presente in

natura (The dance of the whales) –, esiste anche tutta una

parte di significato che affiora dal segno in maniera incontrollata,

attraverso un processo di spontanea autogenerazione

che attribuisce all’opera una densità concettuale diversa, più

Jealousy (2019), acrilico su cartone, cm 40x40

articolata e complessa di quella conferitale in origine dall’artista.

Ecco perché davanti ai dipinti di Petra è più facile che

l’osservatore, pur seguendo inizialmente gli spunti interpretativi

offerti dai titoli, si lasci portare “altrove” dalle suggestioni

che il segno-colore suscita in lui, intravedendo in queste

composizioni astratte qualunque cosa la memoria o l’immaginazione

siano in grado di suggerire sia in termini di rimandi

visivi al mondo reale – come ad esempio paesaggi o figure di

animali – che di impressioni emotive. Se l’astrazione, etimologicamente

parlando, “estrae” dalla realtà concreta aspetti

che poi trascrive con un linguaggio proprio, nelle opere di Petra

questa estrazione avviene spesso a partire dall’ambiente

naturale e soprattutto da quegli elementi che in natura

esprimono ciclicità, movimento, trasformazione. Non di rado

l’ispirazione giunge dalla contemplazione anche di un altro

paesaggio, non più fuori ma nell’interiorità dell’artista: da

qui nascono evoluzioni cromatico-gestuali di grande impatto

visivo, con scene talvolta di “lotta” tra i segni che si contrappongono

dipanandosi sulla tela, ritmi irruenti e rapsodici

alternati all’armonia di voci che si accordano in un canto unico.

In questo modo l’astrazione diventa un tramite per tirare

fuori l’altro volto delle cose, quello che nasce dal pensiero e

che si nutre della sensibilità di un’artista che come Petra Dippold-Götz

non smette mai né di guardarsi dentro né di interrogare

il mondo.

www.petrapainting.com

petrapainting

PETRA DIPPOLD-GÖTZ

39


Movimento

Life Beyond Tourism

Travel To Dialogue

I Luoghi Parlanti varcano i confini nazionali

Dall’Italia alla Repubblica Ceca attraverso quattordici nuovi territori da scoprire

tecnologia digitale si fanno quindi veicolo di conoscenza e

esplorazione dei tesori del passato e di un patrimonio storico-culturale

da riscoprire nella sua interezza. Con la possibilità

di interagire e condividere foto, suggerimenti, esperienze, il

proprio posto del cuore, e di caricarli sulla apposita piattaforma

digitale, visibile su www.luoghiparlanti.com. Nella giornata

di consegna, il Movimento Life Beyond Tourism-Travel to Dialogue,

in collaborazione con Fondazione Romualdo Del Bianco,

Consolato Onorario della Repubblica Ceca per la Toscana, Czech

Tourism e ARCA – Amici della Repubblica Ceca Associati,

ha organizzato la mostra interattiva dedicata alla Repubblica

Ceca e ai suoi distretti attraverso l’esposizione di quattordici

pannelli dotati di tecnologia NFC, collegati alla piattaforma

digitale, per conoscere le bellezze tradizionali, la cultura e il

territorio di ciascun luogo ceco. Ha dichiarato la console onoraria

della Repubblica Ceca a Firenze, Giovanna Dani: «Crediamo

sia strategico che sia proprio la Repubblica Ceca a avviare

su scala internazionale il progetto dei Luoghi Parlanti. Una nazione

che ha dimostrato grande maturità nel dividere pacificamente

il suo territorio in due pari: la Repubblica Ceca e la

Slovacchia, sempre molto vicine sia per i rapporti economici

che per la vicinanza tra i due popoli. Un rapporto che è andato

sempre più rafforzandosi. L’occasione della ricorrenza dei

vent’anni dall’apertura del Consolato Onorario in Toscana, ci

consente di presentare, in un momento particolarmente difficidi

Stefania Macrì

L’impegno del Movimento Life Beyond Tourism Travel

to Dialogue nell’ambito della valorizzazione dei territori

e delle identità locali continua con la diffusione del

progetto dei Luoghi Parlanti ® in Italia e all’estero. Ed è proprio

la Repubblica Ceca il primo paese che fa varcare i confini nazionali

al progetto del Movimento LBT-TTD con Praga e i tredici

distretti regionali. In occasione delle celebrazioni dei vent’anni

di apertura del Consolato Onorario della Repubblica Ceca

per la Toscana a Firenze dello scorso 14 maggio, la presidente

del Movimento LBT-TTD Carlotta Del Bianco ha consegnato

all’ambasciatrice della Repubblica Ceca, Sua Eccellenza Hana

Hubáčková, e al vicepresidente del Comitato per le relazioni

interregionali, Vladimír Smerda, le targhe interattive dotate

di tecnologia NFC/QR code da apporre nei luoghi strategici e

di interesse delle varie regioni. Pertanto i territori di Praga, Boemia

meridionale, Moravia del sud, Regione di Karlovy Vary,

Regione di Hradec Králové, Regione di Liberec, Moravia Slesia,

Regione di Olomouc, Boemia orientale (Pardubice), Regione

di Pilsen, Boemia centrale, Regione di Ústí nad Labem,

Vysočina, Moravia orientale (Zlín) potranno essere esplorati

in maniera innovativa dai viaggiatori che potranno accedere

a informazioni, cenni storici, suggerimenti per completare

il proprio percorso di visita dei territori interagendo con i locals

attraverso l’unico accessorio veramente indispensabile

al viaggiatore contemporaneo: lo smartphone. Modernità e

Da sinistra Vladimir Smerda, Carlotta Del Bianco e Sua Eccellenza Hana Hubáčková

40 MOVIMENTO LIFE BEYOND TOURISM TRAVEL TO DIALOGUE


Uno dei pannelli della mostra sui territori della Repubblica Ceca

le, una realtà di successo e in continua evoluzione». Aggiunge

Paolo Del Bianco, presidente emerito di Fondazione Romualdo

Del Bianco: «Oggi occorre trovare nuove forme di comunicazione

fra popoli diversi, soprattutto dopo l'esperienza terribile

della pandemia e con le nuove guerre in corso. Luoghi Parlanti,

cresciuto e sviluppato con il Movimento Life Beyond Tourism

– Travel to Dialogue è volto proprio a promuovere l’incontro,

la reciproca conoscenza, il rispetto quindi la creazione di ponti

culturali di educazione al dialogo e all’amicizia. Vogliamo

rendere gli esseri umani sempre più vicini tra loro: i visitatori

non siano solo turisti ma messaggeri di pace». Conclude Carlotta

Del Bianco, presidente del Movimento Life Beyond Tourism-Travel

to Dialogue: «Siamo particolarmente lieti che sia

proprio la Repubblica Ceca, da sempre partner di rilievo del

nostro movimento, il primo paese estero del progetto Luoghi

Parlanti ® . La pandemia ci ha spinto a ripensare modi e obiettivi

del viaggio. In questo periodo difficile fatto di incertezze,

timori e di privazione delle proprie libertà, il viaggio può diventare

realmente una forte reazione volta a ritrovare il senso della

propria individualità, un modo intimo di riassaporare ciò che

vivevamo prima della pandemia. Viaggiare consapevolmente,

infatti, è l’immagine più bella del senso di libertà in antitesi rispetto

a tutto ciò che è routine e conformismo. Si riscoprono

i nostri veri valori individuali che vengono poi a contatto con

quelli di altri, espressioni anch’essi di luoghi, culture e tradizioni

diverse, non solo nazionali ma anche internazionali. I Luoghi

Parlanti sono una finestra, uno “stargate” che apre un viaggio

virtuale in attesa di intraprendere il viaggio vero. Dobbiamo ripartire

dai nostri luoghi e farli raccontare da chi li ha nel sangue.

Per questo attiviamo un percorso che tocchi i posti meno

conosciuti e anche per i posti già famosi usare i Luoghi Parlanti

per far riscoprire l'anima vera dei luoghi. Questo è un mattone

sul quale costruire un solido fondamento per un dialogo

futuro di pace. A breve anche Azerbaijan, Polonia e Bahrein svilupperanno

un itinerario capillare dei luoghi parlanti per coprire

in forma diffusa i tesori dei rispettivi territori».

Luoghi Parlanti arriva al B&B Hotel Roma Fiumicino Aeroporto Fiera

Dallo scorso 5 maggio i pannelli Luoghi Parlanti sono a disposizione

degli ospiti del B&B Hotel Roma Fiumicino Aeroporto

Fiera appena inaugurato. Una grande emozione è stata

contribuire all’offerta di servizi che questo 55esimo hotel del

Gruppo in Italia, e settimo sul territorio romano, mette a disposizione

dei viaggiatori. La presenza del pannello di Luoghi

Parlanti rientra nell’ambito della collaborazione con B&B

Hotels Italia che è Golden Donor del Movimento Life Beyond

Tourism Travel to Dialogue. Abbiamo presentato questa collaborazione

alla stampa come strumento attraverso il quale

vivere un’esperienza itinerante che invita alla scoperta per creare

un legame più profondo e diretto con la comunità locale.

Luoghi Parlanti al B&B Hotels Roma Fiumicino

Il Movimento Life Beyond Tourism Travel to Dialogue srl è una società

benefit. Nasce e si sviluppa seguendo i princìpi di Life Beyond Tourism

® , ideati dalla Fondazione Romualdo Del Bianco al fine di promuovere

e comunicare il patrimonio naturale e culturale dei vari territori insieme

alle espressioni culturali, il loro saper fare e le conoscenze tradizionali che

custodiscono. Offre progetti e soluzioni di visibilità e rafforzamento delle

identità locali dei vari luoghi, crea eventi basati sul dialogo tra il territorio e

i suoi visitatori grazie a una rete di relazioni internazionali di alto prestigio.

Per info:

+ 39 055 290730

info@lifebeyondtourism.org

www.lifebeyondtourism.org

MOVIMENTO LIFE BEYOND TOURISM TRAVEL TO DIALOGUE

41


Fare impresa

oggi

Gamont

L’azienda leader per gli accessori dell’alta moda ha sede a Calenzano

di Aldo Fittante

designer delle griffe più famose al mondo. Un’intuizione,

quella di entrare nella filiera del fashion, che risulta vincente

fin da subito, riuscendo a cavalcare, negli anni successivi,

la grande espansione del settore sia sul territorio

toscano che a livello internazionale: «Un punto di svolta

è stato legarsi direttamente ad un brand importante

come Gucci, negli anni Novanta», spiega Marco Montuotera,

in Calabria, la sua scalata al

successo inizia con una piccola azienda, situata

a Calenzano, provincia di Firenze, cuore

pulsante del made in Italy; oggi, in una

modernissima struttura di oltre 8000 mq, e

dopo più di quarant’anni di attività, la Gamont

srl vanta il titolo di leader indiscussa

nel settore dell’alta moda italiana. Specializzata

nelle minuterie metalliche per accessori

come borse, scarpe e bigiotteria,

nell’incisione di loghi su materiali come

acciaio e ottone, l’attività si distingue per

la costruzione in proprio di attrezzature e

stampi per la produzione. È proprio questa

la caratteristica principale dell’attività:

garantire una qualità altissima dal primo In questa e nelle foto seguenti alcune lavorazioni di Gamont

all’ultimo passo del processo di realizzazione

del prodotto, tramite procedure di precisione rigorose

che consentono di controllare ogni dettaglio. Il tutto sempre

nel rispetto delle specifiche esigenze del cliente, con

l’ausilio della propria esperienza tecnica e di mercato. Il

risultato? Vere e proprie opere d’arte, che perseguono l’obiettivo

che Montuoro e tutto il suo team da sempre mettono

al primo posto: trasformare in realtà la creatività di

Quella di Domenico Montuoro è una

storia che parte da lontano. Personaggio

eclettico, originario di Nico-

42

GAMONT


Alcuni interni dell’azienda

ro, figlio del presidente e fondatore Domenico e direttore

di produzione per Gamont. «Inizialmente lavoravamo

con i fornitori dei grandi brand, poi iniziammo ad avere

un rapporto diretto con le grandi marche, realizzando per

loro prodotti finiti da applicare direttamente sugli accessori,

come la pelletteria ad esempio». La collaborazione

con Ferragamo prima e l’avvio della partnership con

il gruppo del lusso Kering poi – di cui fanno parte maison

prestigiose come Gucci, Saint Laurent e Balenciaga

– hanno reso l’azienda un vero e proprio punto di riferimento

culturale nel campo della moda, delle arti, della

cultura, ma anche dello sport, come dimostrano i numerosi

momenti di promozione culturale ospitati e sponsorizzati,

che spaziano dalla giornata memorabile, nel 2013,

per il Sitting-Volley nel Parco di Villa Montalvo, all’evento

organizzato dalla Pallavolo Bacci di Campi Bisenzio,

in occasione della settimana dello sport. Sempre all’interno

dei locali della Gamont, nel 2018, è stato ospitato

il Subbuteo Club North Florence per l’undicesima tappa

del Gran Prix Toscana Liguria Umbria, torneo regionale di

seconda categoria. Specializzati sulla piegatura, tranciatura

e sul taglio dei metalli a filo in elettroerosione, nel

campo della costruzione di stampi e punzoni vantano più

di 5000 stampi in deposito, vero e proprio patrimonio nel

settore, che permettono di realizzare un’infinità di prodotti

unici e di alta qualità. Si parte sempre da un prototipo,

costruito sulla base di un disegno tecnico o di una semplice

idea che sarà poi realizzata, insieme al cliente, nelle

varie fasi di progetto e produzione. Poi l’articolo può essere

consegnato non solo grezzo, ma anche completo di

tutte le lavorazioni necessarie quali saldatura, vibratura,

lucidatura e verniciatura. L’azienda è inoltre nota per l’esecuzione

sul prodotto di varie finiture e di numerosi trattamenti,

quali cromatura, nichelatura e zincatura, nonché

placcatura in oro a spessore. L’attenzione è posta in ogni

fase del processo di realizzazione, che viene analizzato

periodicamente, offrendo così al cliente sempre il miglior

prezzo, a fronte del miglior risultato. Infatti, come afferma

lo stesso Montuoro: «Ci distinguiamo da altri produttori

mettendo a disposizione del cliente un team in grado

di realizzare in tempi brevissimi il prototipo dall’idea con

già la visione della sua industrializzazione. La possibilità

di produrre stampi ed attrezzature in acciaio internamente,

permette di realizzare una “filiera corta” ed ottimizzata,

così da ridurre costi e tempi del lavoro». Una passione,

quella di Montuoro, trasmessa di generazione in generazione:

la partecipazione dei figli Sara e Marco all’attività

rende la Gamont srl un’azienda a conduzione familiare a

tutti gli effetti, con dipendenti specializzati nei vari settori

produttivi, che lavorano con entusiasmo e dedizione in un

ambiente armonioso e altamente professionale. E i risultati

si vedono tutti: clienti che, fin dagli inizi dell’attività,

apprezzano l’esperienza e premiano l’alta qualità di rifinitura

dei prodotti, ma anche e soprattutto l’affabilità del

titolare, che ha saputo trasmettere valori di stima e sincerità,

in linea con la serietà e l’alta precisione sul lavoro.

Know-how, intuito, competenza e utilizzo di attrezzature

moderne, sempre al passo con i tempi: è questa la chiave

del successo, in un settore così ricco di eccellenze, trovare

quel giusto equilibrio che permetta di preservare le conoscenze

e i valori tradizionali, inseriti però nelle logiche

di business e nelle strategie di innovazione.

Avvocato, docente di Diritto della Proprietà Industriale all’Università

degli Studi di Firenze e giornalista pubblicista

iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, Aldo Fittante

è promotore di molti convegni e autore di numerose pubblicazioni

scientifiche, articoli in riviste prestigiose, saggi e monografie

in materia di Diritto Industriale, d’Autore e Diritto dell’Innovazione.

www.studiolegalefittante.it

GAMONT

43


GIENNE snc

L’arte del ferro a Cetona

Nel centro storico di Cetona (SI), la Gienne snc

porta avanti la tradizione della bottega specializzata

nella lavorazione del ferro. Un’attività iniziata

oltre cinquant’anni fa da Bruno Ceccobao e oggi portata

avanti dal figlio Gianni in società con il cognato.

Pur essendo ormai in pensione, Bruno, oggi settantaseienne,

continua ad essere un punto di riferimento

per la bottega, dispensando preziosi consigli alla

luce della lunga esperienza maturata nel tempo. Alla

Gienne si realizzano lavori in ferro, tutti eseguiti a

mano, come pergolati, gazebi, tettoie, porte, ringhiere,

inferriate per le finestre, scale a chiocciola, tavolini

da interno o da esterno con sopra legno, marmo

o vetro, sedie da giardino lavorate, etc. . Tutti i lavori

vengono eseguiti su richiesta del cliente, come è

avvenuto, ad esempio, nel caso di Massimo Ciaccioni

– anche lui artigiano di Cetona e titolare per oltre

quarant’anni di una piccola impresa edile – che

ha avuto l’idea di progettare un camino al cui interno

è incassato uno scatolare in ferro robusto – realizzato

apposta per lui dalla Gienne – che funge da

camera d’aria per la raccolta del calore che da qui

viene diffuso attraverso due condotti laterali negli altri

ambienti della casa. Inoltre, per aumentare il flusso

dell’aria è stata applicata una ventola che si attiva

quando l’aria arriva a 35 gradi e che aiuta così a diffondere

più velocemente il calore nelle altre stanze.

GIENNE snc

di Ceccobao Gianni & C.

Via XXV Aprile, 42, 53040 Cetona (SI)

+ 39 0578 238210

La struttura in ferro eseguita da Gienne in base al progetto di Massimo Ciaccioni


A cura di

Alessandra Cirri

L’avvocato

risponde

La modifica delle condizioni di separazione e di divorzio

di Alessandra Cirri

Molti clienti si rivolgono al mio studio chiedendomi

se sia possibile modificare gli accordi raggiunti

in sede di separazione o di divorzio, o di quanto

disposto da una sentenza. Ebbene, il diritto di famiglia non

soggiace al principio giuridico rebus sic stantibus che si applica

in tutte le altre materie del diritto. Ciò significa che, una

volta terminata la causa, emessa una sentenza e decorsi i

termini per l’impugnazione, tale sentenza non può essere modificata.

Il diritto di famiglia ha invece una sua peculiarità, in

quanto tratta di situazioni volte a continue evoluzioni e mutamenti.

Per tale motivo si può sempre rivedere quanto pattuito

in sede di separazione e di divorzio. Le ragioni possono essere

molteplici, tuttavia è necessario ed indispensabile che il

motivo rivesta il carattere di “novità” e che sia “sopravvenuto”

dopo l’emissione dell’omologa/sentenza di separazione

o alla sentenza di divorzio. Deve trattarsi di una circostanza

non conosciuta o non intervenuta al momento in cui le parti

si sono separate o divorziate, tale da aver creato uno squilibrio

tra i coniugi per le loro condizioni economiche o per i rapporti

con i figli. I temi da affrontare nelle separazioni e divorzi

riguardano sempre: l’affidamento dei figli minori; l’assegno,

quale contributo al mantenimento dei figli; l’assegnazione

della casa familiare ed eventualmente l’assegno di mantenimento

o divorzile per il coniuge più debole e bisognoso. In

tutti questi casi si possono verificare fatti nuovi, basti pensare

ad un coniuge che perda il lavoro, vada in pensione con

riduzione di redditi, presenti patologie, oppure ad un figlio

collocato prevalentemente presso un genitore, poi decida, invece,

di andare a vivere con l’altro genitore; oppure se un coniuge

ricostituisce una nuova famiglia o convivenza, oppure

passi a nuove nozze; il figlio che abbia raggiunto l’indipendenza

economica perché ha reperito un lavoro stabile tale

da renderlo autonomo, etc. Le fattispecie possono essere le

più varie, tuttavia, una volta verificatesi, non comportano, in

modo automatico, la modifica di quanto è stato pattuito nella

separazione o nel divorzio. La persona che voglia modificare

quanto stabilito in separazione o divorzio dovrà adire

il tribunale e instaurare un procedimento di volontaria giurisdizione

in Camera di Consiglio e richiedere le necessarie

modifiche (art. 710 c.p.c. o art. 9 L. 898/1970 modif. da L.

78/1987). Laddove entrambi gli ex coniugi siano concordi nel

modificare le condizioni della loro separazione o del divorzio,

possono proporre un ricorso congiunto al tribunale competente

oppure ricorrere alla negoziazione assistita (L. n.

132/2014, modif. L. 164/2014), con una procedura più celere

svolta con l’assistenza di due avvocati e sottoposta al vaglio

e al controllo del pubblico ministero. Con l’art. 4 della legge

08.02.2006 n. 54, le modifiche possono essere richieste anche

da genitori non coniugati in merito alla disciplina dell’affidamento

dei figli, del loro mantenimento o collocamento, che

erano state pattuite con il ricorso per affidamento dei minori.

In questa fattispecie, però, non è possibile ricorre al procedimento

più rapido della negoziazione assistita, credo per una

svista del legislatore.

Laureata nel 1979 in Giurisprudenza presso l’Università

di Firenze, Alessandra Cirri svolge la professione

di avvocato da trent’anni. È specializzata in diritto

di famiglia e minori, con competenze in diritto civile. Cassazionista

dal 2006.

Studio legale Alessandra Cirri

Via Masaccio, 19 / 50136 Firenze

+ 39 055 0164466

avvalecirri@gmail.com

alessandra.cirri@firenze.pecavvocati.it

CONDIZIONI DI SEPARAZIONE

45


Nuove realtà

espositive

Nasce a Roma, nel cuore di via

Margutta, l’atelier d’arte di KristiPo

L’attore Massimo Boldi, amico dell’artista dichiara:«È una ragazza

di talento, le auguro grande fortuna per questo passo importante»

di Lucia Raveggi

«

Circa tre anni fa, quando è arrivata in

Italia, mi ha regalato un ritratto. Mi

aveva rintracciato e me lo aveva portato

nel mio ufficio di Milano: da quel momento mi

ha proposto di posare per lei». Così il noto attore

Massimo Boldi ai microfoni di Notizie.com racconta

l’incontro con l’artista KristiPo, alla quale

ora è legato da una sincera e profonda

amicizia. «Quest’anno mi ha

dedicato un altro ritratto e così è

nata definitivamente l’amicizia. Ho

pensato di dare una mano a questa

ragazza di talento, soprattutto

in un periodo così difficile». E

così il celebre comico è rimasto

molto colpito dall’esperienza della

giovane artista, tanto da partecipare

spesso alle sue esposizioni,

senza stancarsi mai di elogiarne

il lavoro. Ora l’eclettica KristiPo,

pittrice e scultrice, ha finalmente

realizzato il suo sogno, come precisa

sempre Boldi: «Ha fatto un

passo importante, anzi, direi notevole:

dalla piccola realtà di Montecatini

si è spostata fino a Roma

dove pochi giorni fa ha inaugurato

il suo atelier in via Margutta 53,

insieme alla collega Isabella Rodriguez.

Il loro primo incontro è stato

casuale ed è avvenuto proprio in

questa via; si sono subito piaciute

ed hanno iniziato a lavorare insieme:

auguro loro grande fortuna».

KristiPo, nome dato anche alla sua

galleria, è amante della natura e si

dedica, oltre che a questo tipo di

opere, anche alla poesia, cimen-

tandosi soprattutto nel genere letterario giapponese

dell’haiku. «Ho fatto il suo nome al mio amico

Vittorio Sgarbi» conclude Boldi, che in questi anni

ha assistito alla crescita professionale dell’artista,

la quale a piccoli passi si sta facendo strada.

kristina.poplitskaya@gmail.com

KristiPo con l’attore Massimo Boldi


I giganti

dell’arte

Vincent van Gogh

Notte stellata, un capolavoro avvolto dal mistero

di Matteo Pierozzi

Vincent van Gogh, Notte stellata (1889), olio su tela, Moma, New York

La celebre Notte stellata è un'opera atipica di Van Gogh,

una delle ultime. Un dipinto avvolto del mistero anzitutto

per il fatto che l’artista stesso dice ben poco a riguardo al

fratello, al quale invece era solito riferire minuziosamente di tutte

le sue opere. Vi si vede raffigurato un piccolo borgo sulle colline,

di notte, sovrastato da un cielo caotico, toccato da un bosco cupo

che sembra travolgerlo come le onde di un mare in tempesta. Il

colore blu è dominante. Van Gogh scrive al fratello: «Spesso penso

che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno».

E ancora: «Guardare il cielo mi fa sempre sognare (…). Perché, mi

chiedo, i punti scintillanti del cielo non sono accessibili come i

puntini neri sulla cartina della Francia? Proprio come prendiamo

il treno per andare a Tarascon o a Rouen, così prendiamo la morte

per raggiungere una stella». L’orizzonte basso regala la scena alla

volta celeste, un vortice violento di nubi e vento si muove intorno

agli astri luminosi, il cipresso è

come una fiamma scura; brevi

pennellate di colori puri delineano

le case e la chiesetta

con il campanile. Uno stile tormentato,

che pervade il periodo

che precede la crisi finale

dell’artista.

VINCENT VAN GOGH

47


Occhio

critico

A cura di

Daniela Pronestì

Anne Irene Holthe

La forma del tempo che ritorna

di Daniela Pronestì

Dipingere portando fuori ciò che si ha dentro: ricordi,

sensazioni, lampi improvvisi. E in questa emersione di

immagini dal profondo, essere allo stesso tempo attori

e spettatori di un processo che l’artista riesce soltanto in

parte a controllare. Le opere della pittrice norvegese Anne Irene

Holthe nascono seguendo questo percorso, che trasferisce

sul supporto un insieme di pensieri consapevoli e di elementi

inconsci. A questo si aggiunge la scelta, ma potremmo dire forse

anche la necessità, di rappresentare quasi sempre lo stesso

soggetto, con un meccanismo iterativo simile a quello che nei

sogni ricorrenti è utile per far venire a galla qualcosa di nascosto.

Vasi, brocche, anfore, oggetti che se da un lato servono a

contenere una pianta o un liquido, dall’altro lato fissano un limite

al contenuto, lo chiudono al loro interno, stabilendo quindi un

confine tra il dentro e il fuori, tra ciò che si mostra allo sguardo

e ciò che invece rimane nascosto. Queste forme altro non sono

quindi che simboli di un’interiorità segreta, qualcosa di profondo

e prezioso, la cui presenza nell’opera si può soltanto intuire,

senza potervi tuttavia accedere. Contenitori di memorie, sogni,

attimi di vita che restano al di là del limite, celati nella cavità di

un’anfora dal gusto antico, dove lo sguardo non può raggiungerli

né violarne la segretezza. Ma è proprio la presenza di un

limite a rendere evidente ciò che altrimenti resterebbe sepolto

nella coscienza: non è dato sapere cosa si nasconda dentro

questi contenitori, ma il loro essere lì, al centro della rappresentazione,

è già indizio di qualcosa al loro interno che attende di

essere svelato. Anche altri elementi della composizione – scorci

di tavoli o di pareti, bande laterali – concorrono a rafforzare

l’idea di un confine che non può essere attraversato, suggerendo

allo stesso tempo la sensazione che la scena si svolga in

una stanza, in condizioni di luce non ben definite. Non si tratta

di un luogo reale ma di uno spazio interiore, al cui interno l’arti-

Daydreaming, acrilico su legno, cm 37x38

48

ANNE IRENE HOLTHE


The cup of life, acrilico su legno, cm 44x63

sta ambienta i propri racconti poetici, immaginandoli come momenti

di vita quotidiana, angoli della sua casa trasformati in

brani di natura morta. Erano questi i giorni, recita il titolo di uno

dei dipinti, lasciando pensare che proprio ai giorni di un determinato

tempo ormai lontano l’opera intenda riferirsi, facendoli

rivivere e affiorare di nuovo, con tutto il loro carico di ricordi. Un

altro titolo allude invece alle “forme ricorrenti nella nostra vita”,

e quindi a tutto ciò che di continuo si ripropone nei nostri pensieri,

nelle abitudini, nelle esperienze, per rammentarci aspetti

importanti, cose da risolvere, schemi dai quali non riusciamo a

Still life, acrilico su legno, cm 40x49

liberarci. In questo modo la pittura diventa un potente strumento

di scandaglio interiore, un’occasione per calarsi dentro sé

stessi, alla ricerca di verità che l’opera porta alla luce del giorno

come reperti di uno scavo archeologico. Ecco allora perché

ritrarre anfore, brocche ed altri oggetti che parlano del passato,

per elevarli a simboli di ciò che è stato e che ritorna, scampoli

di un vissuto che – suggerisce Anne Irene Holthe – proprio grazie

alla pittura trova il giusto significato.

annesatelier57

Those were the days, acrilico su legno, cm 30x30

ANNE IRENE HOLTHE

49


Firenze

mostre

Al Gruppo Donatello la collettiva

dei Medici Artisti

di Roberto Della Lena

Lo scorso 30 aprile, presso il Gruppo Donatello, storico

sodalizio culturale, è stata inaugurata la mostra

Medici Artisti. Sono intervenuti il presidente del Gruppo

Donatello Ugo Barlozzetti e due dei nove medici donatelliani:

Roberto Della Lena e Filippo Cianfanelli. In mostra non

solo opere di pittura ma anche scultura, grafica, fotografia e

computer art. A Firenze il gruppo dei Medici Artisti è attivo

fin dagli anni Sessanta. In tempi oramai lontani si svolgeva a

Firenze la Biennale dei Medici Pittori, allestita in importanti

gallerie come Santa Croce e Pananti, più recentemente anche

nella sede dell’Ordine dei Medici ed in sodalizi come Gadarte

e Gruppo Donatello. Per quanto attiene alle collettive organizzate

presso l’Ordine dei Medici di Firenze, da ricordare

le tre edizioni 2006, 2008, 2010, delle quali il critico Federico

Napoli seguì i lavori, dedicando anche un ampio testo sulla rivista

dell’Ordine Toscana Medica.

Artisti in mostra e titoli delle opere:

Carla Arfaioli (Ritrovarsi, 2016, olio su tela, cm 78x58); Angiolo Benedetti

(Igeia, dea della medicina, 2016, acrilico su cartone, cm 40x30;

I 5 vasi, 1980, olio su faesite, cm 70x50); Grazia Bonini (Stazione di

Milano, 2017, olio su tela, cm 100x70; Stazione di Bologna, 2017, olio su tela,

cm 100x70); Giuseppe Camagni (Senza titolo); Teresa Cella (Ferita di colori,

2005, acrilico su carta, cm 50x60; Colori feriti, 2022, acrilico su tela, cm

40x60); Filippo Cianfanelli (81° parallelo, 2021, olio su tavola, cm 35x50; L’imbrunire

a Baratti, 2012, olio su tavola, cm 35x50); Adriano Danti (Riflessi sul

Tamigi, 2013, olio su tela, cm 28x50; Ombre Rosse, olio su tela, cm 28x50);

Roberto Della Lena (Liber Primus, cm 70x100, collage di immagini – computer

art, disegni tratti dal libro di Roberto Della Lena Appunti e schizzi leggendo

Un collage delle opere esposte

e rileggendo il libro

rosso di Jung, Amazon);

Valter Francini

(Tanninototem, 2016,

elaborazione da originale

jpeg a colori,

cm 30x40; Geometrie

perfette, 1999, elaborazione

su scansione

di originale su carta

a colori, cm 30x40);

Domenico Lo Russo

(Albero fiorito nella

I medici artisti al Gruppo Donatello

plastica); Luca Mercatali (Sinergie emotive, fotografie digitali stampate su

carta cotone da Antonio Manta e montate su pannelli Dibond, cm 100x70,

sculture di Monica Antonelli, modella Veronica Guarducci); Antonietta Moschi

(Gioco e fantasia, acrilico, cm 40x50; Interpretazione di piazza Signoria

Firenze, acrilico, cm 40x50); Daria Orlandini (Flores sententiarum, fotografie

digitali); Marcello Paoli (Momenti di conflitto, 2022, olio su tavola, cm

61x125; Una giornata qualunque, 2020, olio su tavola, cm 97x101); Rinascimento

Punk (Guerrieri di stoffa dentro a dei cassetti, 2020, acrilico e

smalto su materiali di recupero, cm 36,5x31); Massimo Sanfilippo (Senza

titolo); Elisabetta Weber (Campi d’autunno, 2009, cm 50x60; Albero d’inverno,

2018, cm 40x60).

50

GRUPPO DONATELLO


Ritratti

d’artista

Renata Massai

L’armonia dell’esistere

di Lodovico Gierut

Nella continuità della mia attenzione per i cosiddetti

“creativi”, oggi ho pensato di dedicare un certo

spazio a Renata Massai, pittrice grossetana della

quale ho potuto recentemente notare una serie di opere –

figure, pur se non mancano varie “nature” (evito la parola

“morte” giacché, essendo fiori, sono particolarmente vive

per gli ottimi cromatismi) – tuttavia, prima di scriverne pur

in sintesi, penso opportuno sottolineare che, pur se si è avvicinata

al colore da circa un decennio, i suoi lavori riflettono

una solida base disegnativa senza la quale, in genere, il

cosiddetto “figurativo” scivolerebbe su una complessità di

errori. Il suo è uno stile che non esiterei a definire meditativo

giacché in ogni opera riesce a rappresentare la sosta

e il silenzio, quella pausa di un tempo veloce che spesso

trascuriamo travolti dalla fretta dissennata dei nostri tempi.

Le persone appartenenti alla realtà dell’esistere la fanno

da protagoniste, avvolgendo ogni età e provenienze diverse,

in un tutto sapientemente miscelato con un contorno

paesaggistico molto equilibrato. Renata Massai non cerca

l’eclatante, lo “strano” o – per meglio dire – quei certi temi

provocatori così di moda in pittura (o nella “non pittura”), e

più che altro in scultura, accanto ai quali la superficialità e

la non conoscenza ama farsi fotografare, ma porta in essere

con grande onestà un sentimento con cui propone, di volta

in volta, una figura carica d’anni e di dolore, un’altra che,

seduta su un tronco spiaggiato, pare ripensare alla propria

giovinezza facendosi chissà quali interrogativi, una bambina

che tiene in braccio un gatto e altro ancora. Nell’insieme

ci sono pure occhi che si perdono nell’infinito, rughe che

parlano di vita vissuta, mani che hanno lavorato e ne portano

traccia. È una pittura che fa pensare, al di là della raffinata

esecuzione, ed in questo sta il valore dell’opera d’arte

che altrimenti si riduce a mera esperienza estetizzante. Pulsano,

nell’insieme, simbologie avvolgenti ben coniugate ai

soggetti sempre impaginati con particolare attenzione, ed

ecco l’azzurro che può evocare il distacco dagli egoismi

materiali e poi c’è il cielo del pensiero e della spiritualità,

il rosso dell’amore, il viaggio della vita e altro, altro ancora.

renata.massai@alice.it

RENATA MASSAI

51


Ritratti

d’artista

Lelia Secci

Gli amici del Gruppo Donatello ricordano la pittrice fiorentina a

tre anni dalla scomparsa

di Roberto Della Lena

Parlare del percorso biografico e artistico di Lelia Secci

sarebbe in un certo senso facile, consultando i cataloghi

delle sue numerose mostre sia in gallerie che

in importanti sedi istituzionali, rileggendo gli articoli su di lei

comparsi su diverse riviste, elencando le attestazioni di merito

che le sono state tributate. Qui in realtà si vuole trattare un

particolare aspetto, ovvero parlare di Lelia attraverso i ricordi

personali dei soci, ma soprattutto amici, del Gruppo Donatello,

storico sodalizio artistico-culturale fiorentino di cui Lelia ha fatto

parte per tanti anni. La sua prima mostra personale al Gruppo

Donatello dal titolo Evocazione onirica della realtà risale al

1996, ma va precisato che già molto prima, almeno dal 1989,

Lelia aveva allestito mostre personali in altre gallerie fiorentine

e di altre città. Un’altra occasione “donatelliana” da ricordare

è la mostra del novembre 2008 Le ali del sogno per figura

(ipotesi di un viatico per il secolo nuovo) che vide protagoniste

Anna Cecchetti e Anna Mercati assieme a Lelia Secci. La mostra,

che riscosse notevole successo, fu presentata dal professor

Ugo Barlozzetti, attuale presidente del Gruppo Donatello. In

tempi più recenti, e proprio su questa testata, lo stesso Barlozzetti

ha scritto due importanti articoli su Lelia ai quali si rimanda

consigliandone la lettura. La peculiarità della pittura di Lelia

è indubbiamente rappresentata da quella velatura, quell’effetto

flou, presente pressoché in tutti i soggetti da lei raffigurati:

paesaggi, fiori, nature morte e ritratti. Su questo ho un ricordo

personale: una volta, in occasione di una mostra, le dissi

che questa sua caratteristica mi ricordava l’effetto con cui Hamilton

arricchiva le sue foto, cosa che Lelia apprezzò molto;

e fu in quella cordiale conversazione che mi illustrò con dovizia

di particolari la tecnica del pastello Rembrandt che da sempre

amava e della quale era una vera specialista. Lelia, tuttavia,

aveva sperimentato con successo anche altre tecniche: affresco,

incisione e scultura, murales, realizzazione di stendardi

per importanti manifestazioni tradizionali come il Palio della

Giostra della Stella di Bagno a Ripoli e il Palio del Baluardo della

Ginevra. Inoltre, nel 2003 è stata la prima donna a realizzare

il Palio del Calcio storico fiorentino. Molte le testimonianze dei

donatelliani: da quelli “storici”, che meglio l’hanno conosciuta,

ad altri, che solo recentemente l’hanno incontrata. Tra i primi

vanno annoverati Giuse Benignetti, Enrico Bandelli, Gianni Oliveti.

Giuse Benignetti, da sempre punto di riferimento e “colonna

portante” del Gruppo Donatello, ricorda come nel lontano

2001, in occasione dell’importante collettiva Omaggio all’iris

da lei curata, colse il talento di Lelia e volle che la sua opera

comparisse nella copertina del catalogo. Non solo, sempre nel

2001, quindi pochi mesi dopo, Giuse volle in copertina nuovamente

una pittura di Lelia per il catalogo di un’altra collettiva altrettanto

importante che si teneva a Castiglioncello in estate.

Chi conosce Giuse sa bene che non avrebbe fatto tali scelte se

non per convinzione personale. Lontano e suggestivo il ricordo

di Enrico Bandelli, legato ad un’esperienza che può essere

definita artistica e di valore sociale ad un tempo, ovvero la re-

52

LELIA SECCI


alizzazione di un murale in una scuola primaria di Lizzano, in

provincia di Pistoia nel 2001. La passione con cui Enrico ricorda

quei giorni in cui lui e Lelia stettero a contatto con i bambini,

con gli insegnanti e con gli abitanti che facevano loro mille

domande mentre ammirati e incuriositi li guardavano dipingere,

meriterebbe una trattazione a parte. Esperienza davvero sui

generis: la grande opera fu il risultato di una felice sintesi tra

i disegni realizzati dai bambini e l’armonia compositiva dettata

dall’esperienza artistica di Lelia ed Enrico. L’opera, di grandi

dimensioni, fu inaugurata alla presenza delle autorità, fu molto

apprezzata dalla comunità, ebbe risalto sulla stampa quotidiana

e tuttora è presente e conservata con cura. Ugo Barlozzetti,

che come si è detto si è occupato più volte di Lelia, in un ricordo

della pittrice fiorentina ha sottolineato con sapienti parole

quell’aspetto già ricordato e tanto apprezzato della sua pittura:

«Una personalità attenta a recuperare la delicata gioia nel restituire

atmosfere dove la luce si scioglie in eleganti ed evocative

forme sostenute da raffinato cromatismo». Gianni Oliveti

e Giovanni Giusti, entrambi vicepresidenti in carica del Gruppo

Donatello, hanno sottolineato di Lelia il già menzionato uso

portentoso dei “pastelli Rembrandt” nonché la sua attiva e continua

partecipazione alle iniziative artistiche e alla vita sociale

del gruppo. Altri soci hanno voluta ricordarla: Barbara Santoro,

già autrice di due importanti articoli su Lelia, Antonietta Borgioli,

Carlo Maltese, Anna Maria Maremmi. Ognuno di essi ha raccontato

qualcosa: naturalmente le sue “velature”, una visita al

suo studio di Poggio Imperiale, uno scambio di idee di fronte a

un’opera esposta, il ricordo di una delle tante serate conviviali,

l’allestimento di una mostra, e tanto altro ancora. In tutti i soci

rimane la tristezza per una grande perdita, in tutti il riconoscimento

di un tratto gentile, di un notevole talento artistico, e il

ricordo affettuoso di una gran bella persona. Semplicemente.

Riferimenti bibliografici

• Benignetti Giuse (a cura di): Omaggio all’iris, catalogo della mostra, Lastra a Signa, Villa Bellosguardo-Caruso, 12

maggio 2001

• Borghini Fabrizio: L’improvvisa scomparsa di Lelia Secci; testimonianze di Ugo Barlozzetti, Giuse Benignetti, Roberta

Fiorini, in La Toscana Nuova, giugno 2019, pagg. 34-36

• Lelia Secci - documento WEB http://www.bottega2000.it/artisti/leliasecci/index.htm

• Santoro Barbara: Lelia Secci, in La Toscana Nuova, giugno 2017, pagg. 36-37

• Tonarelli Alessandro: In arrivo due nuovi murali a Lizzano, in La Nazione, 7 aprile 2012

LELIA SECCI

53


Una telefonata impossibile

di Giuse Benignetti

Cara Lelia,

sono tre anni che te ne sei andata. Il “nostro” gruppo ti ha ricordato

recentemente nella collettiva annuale degli amici (tanti) e i

parenti hanno ammirato anche una tua bellissima opera. Telefonicamente,

ho saputo che ci sarà un altro ricordo nella rivista di

Borghini e, sempre per telefono, ho deciso che anche io voglio

confermarti quanto ti volevo bene come amica, e soprattutto come

ti apprezzavo come artista. Più di 20 anni fa, esattamente

nel 2001, il suddetto Borghini mi affidò il catalogo della mostra

Omaggio all’iris al Comune di Lastra Signa e, seppur conoscendoti

da poco, volli in copertina la riproduzione della tua opera Una

città, una piazza, un’aiuola che bene interpretava che l’omaggio

all’iris, come avevo successivamente scritto, era un “pretesto” e

l’essenzialità e la modernità delle linee si imponevano nell’aiuola

seppure con il celebre scenario del palazzo fiorentino. Il rispetto

e la stima per la tua produzione non mi impedì, nello stesso anno,

di mettere ancora nella copertina del catalogo della mostra Il mare

a Castiglioncello, la tua “Luce”. I nudi, entrando nell’acqua, anche

questa volta, sono in armonia con il tema, ed evitando le già

pur suggestiva e note vedute marine, hanno umanizzato una forza

naturale. La mia improbabile lettura termina qui. Confido che

altri siano stati più brevi di me o più lunghi, se è concesso.

Con affetto, la tua vecchia amica Giuse.

Di Lelia Secci ricordo con ammirazione la pittura di luce, piena

di atmosfere, dettate dall'uso sapiente dei pastelli, sia nei

ritratti, sia nei fiori che si sfaldavano contro architetture fiorentine.

In modo particolare i fiori di iris che le piacevano, sia

per forma che per colore. Come donna devo sottolineare la

sua generosità, le sue buonissime torte che offriva a tutti in

molte occasioni, la sua disponibilità a collaborare e la partecipazione

attiva alle cene in piazza autogestite.

(Antonietta Borgioli)

Non ho avuto modo di conoscerla bene. Aveva molta classe, dei lineamenti

delicati e la particolarità di vivere in un mondo tutto suo.

Ha aderito alla mostra da me proposta Castelli in Arte ma come,

commentato all’inaugurazione dal vicepresidente Giovanni Giusti,

«non ha potuto portare a termine il proprio lavoro per impegni inderogabili

con il Cielo». Ha lasciato un disegno incompiuto, ben nitido,

in matita, del Castello di Torregalli dove abita tuttora la figlia.

Lo avrebbe dipinto, all'ultimo tuffo, regalandoci un bellissimo quadro

ad olio. Il castello è visto nella sua angolazione più suggestiva,

si trova ai piedi della zona collinare tra l’Arno ed il fiume Greve ed

è visitabile, mi sembra, in giorni prestabiliti. Il suo lavoro, sebbene

non ultimato, è stato esposto alla mostra, in primo piano tra tutte

le nostre opere, perché si potesse tenerla stretta e prolungare ancora

la sua presenza ed il suo ricordo. A questo proposito, Lelia sa

che non la dimenticheremo mai.

(Anna Maria Calamandrei)

Ricordo il suo sorriso velato, il suo essere sola in mezzo alla

moltitudine, la “distanza” che trasmetteva con opere apparentemente

non finite, come appena accennate, eppure

straordinarie per rara sensibilità e per capacità disegnative

d’altri tempi. Ricordo il suo amore per la figura femminile,

per i paesaggi fiorentini, per i gatti, per i fiori, spesso

in primo piano. Con lei è sparita una “signora dell’arte” che

meriterebbe una collocazione museale adeguata come voce

elegante, raffinata e nobile del nostro tempo.

(Carlo Maltese)

Vorrei raccontare solo un breve primo incontro con Lelia, ma

che è rimasto impresso per l’atmosfera del momento, per me

emozionante, nel quale si affaccia nel ricordo, la sua figura

così pacata e gentile. E per questo devo andare indietro

nel tempo, fino all’anno 2008, nel giorno in cui, assieme ad

una cara amica pittrice, entrai per la prima volta nella vecchia

sede dell’Antica Compagnia del Paiolo, la Saletta Bocuzzi

di piazza della Signoria, per presentarmi all’associazione.


Qui ecco Lelia che mi viene incontro: un sorriso, una stretta

di mano di gentile cortesia. E così la ricordo, dolce e soffusa

come i suoi incantevoli lavori, specchio di un sensibile mondo

interiore, dove la natura si decolora nel sogno.

(Anna Maria Maremmi)

Cara Lelia ti ho conosciuto e mi hai preso subito per la gola con

i tuoi dolci e dopo con i tuoi quadri hai profuso la tua sensibilità

conquistando l’affetto e la stima di tutti.

(Giovanni Giusti)

Tratto da L’avventura pittorica di Lelia

Secci di Barbara Santoro

Con la tecnica del pastello Rembrandt, che arriva a gradazioni

di colore infinite, Lelia riesce ad ottenere un delicato mélange

che fa sì che il quadro assuma tonalità cromatiche soffuse e

velate come uscite da una nebbia leggera. Dai primi fiori, animali,

donne e nature morte, si passa poi a soggetti unici con il

quadro, che diventa contenitore di un’espressione più nuova e

dinamica. Gli stessi soggetti in primo piano vengono a far parte

di architetture di metafisica bellezza sullo sfondo che rivelano

l’anima dell’artista […]. L’ abilità della Secci sta proprio nella

resa pittorica di grande respiro, si percepisce quasi il profumo

dei suoi fiori, ed anche i volti vengono fuori da antiche architetture

e catturano l’osservatore per quel silenzio che le circonda

quasi un’aureola sfumata, che anzi ne delinea la psicologia

del personaggio […]. Due anni fa Lelia se n'è andata lasciando

un grande vuoto intorno a noi. La penso oggi indaffarata a dipingere

in paradiso e forse anche gli angeli rimarranno incantati

davanti i loro magnifici ritratti. Ogni mattina quando arrivo

nel mio studio saluto Lelia che mi ha donato un mio bel ritratto.

Quando lo guardo, fra le architetture accennate della mia casa,

mi sembra di vederla, sorridente come sempre e con quei meravigliosi

occhi che scrutano ogni particolare.

Cara Lelia, ti ricordo con molto affetto nella tua ingannevole

semplicità apparente, ricca al contrario di insondabili labirinti di

percezioni e sentimenti, e spero che là, dove ora tu sei, abbiano

fabbricato apposta per te sfumature speciali ed ineffabili di quei

portentosi “pastelli Rembrandt” di cui eri la più strenua e al contempo

felice ed orgogliosa sostenitrice…

(Gianni Oliveti)


Brevi storie da

raccontare

Il sorriso degli Etruschi

di Andrea Cafaggi

Alcuni anni fa, ad ogni nuovo cambio di stagione, coltivavo

la piacevole consuetudine di recarmi a passeggiare

con la mia famigliola nelle Crete Senesi.

Il nostro itinerario preferito si snodava dal paesino di Chiusure,

in magnifica posizione sovrastante l’abbazia di Monte

Oliveto Maggiore, fino al castelletto di San Giovanni d’Asso.

Nel tragitto a piedi, fuori dal frastuono dei motori, ascoltavamo

la voce del vento nel silenzio assoluto e ci riempivamo

gli occhi di scorci stupendi e di visioni idilliache. L’asprezza

dei calanchi e delle forre si stemperava in dolcezza di colline

e di colture verso San Giovanni e Monterongriffoli. Ogni

stagione recava i suoi doni: alla fine di maggio la splendida

fioritura di rosse orchidee selvatiche al bordo dei sentieri, e

poggi ricoperti di biade che, carezzate dal vento, sembravano

un mare verdissimo e vivo; agli inizi di ottobre grappoli

d’uva nera e foglie d’oro e di rame. Questo, solo per citare

cose grate agli occhi: ma poi ce n’erano tante altre ben nascoste

sottoterra, come i famosi tartufi dell’Asso, o disperse

nell’aria, come il soave profumo delle piante di fave in

fiore che si alternava a quello dei cipressi, salendo a piedi

sulla strada bianca e dritta che dalla Lauretana porta sul

colle di Leonina. Una volta, in autunno, io e mia moglie invitammo

a questa nostra scampagnata una coppia di amici

senza prole: ad ogni modo, per dar daffare a tutt’e quattro,

bastavano e avanzavano i nostri due figli. Avevo procurato

diverse bontà per nostro pranzo al sacco: pane di campagna,

salamino di cinghiale, “coppiette” di cinta senese,

e poi noci fresche di Sorrento e mostarda di cipolle fatta in

casa per accompagnare i formaggini di capra di sei diversi

tipi e stagionature, acquistati il mattino stesso alla fattoria

Santa Margherita di Ville di Corsano. Avevo anche quattro

bottiglie di vini diversi per annaffiare il tutto (un Bianco Ver-

gine Valdichiana, un Tocai friulano, un Chianti giovane e un

Amarone della Valpolicella) più una di Vinsanto di caratello

per i cantuccini di Prato. Il luogo d’elezione per il pranzo

era la collinetta di San Marcellino, incoronata di cipressi. Al

centro della cipresseta, in splendida solitudine, si trova una

cappelletta di mattoni rossi, dove riposano beatamente gli

antichi proprietari di Monterongriffoli. Dietro la cappelletta,

vicino al calanco che si affaccia su una tartufaia, qualcuno

ha costruito un paio di rustici tavolinetti di legno con relative

panchette. Anche quel giorno quella era, come al solito,

la nostra mèta. Dalla mia capace borsa da picnic tirai fuori

due tovagliette e l’occorrente per apparecchiare, e in breve

le due tavoline furono imbandite di tutto quel bendidìo.

Ci sedemmo ed iniziammo allegramente a pranzare, come

si addice a persone semplici ma civili, e la brezza meridiana

ci portava odori di bosco e di piante resinose. Arrivati

ai cantuccini col vinsanto, i ragazzi si alzarono ed iniziarono

a giocare fra loro, facendo a nascondino e rincorrendosi

fra gli alberi e intorno alla cappelletta, con grandi risa e

strilli, mentre noi adulti facevamo il chilo ancora seduti al

rezzo. In quella, da dietro la cappelletta, comparve un viandante.

Era una persona attempata ma portava un grosso

zaino da trekking sulle spalle e pesanti scarponi impolverati.

Teneva in mano un bastone dal puntale di ferro, in capo

un cappellaccio a tesa larga dall’aria molto vissuta, da sotto

il quale uscivano folti capelli bianchi. Sul naso prominente

portava occhiali da vista con copri-lenti Polaroid. Quando

ci vide rialzò le lenti scure e potemmo vedere che aveva occhi

azzurrissimi, che formavano un piacevole contrasto con

le guance rubizze e i capelli candidi. Rispose al nostro saluto

e si avvicinò al nostro tavolinetto. Parlava in tedesco

ma riusciva ad esprimersi correttamente anche in italiano,

Sarcofago degli Sposi, VI secolo a. C., Museo di Villa Giulia, Roma

56

IL SORRISO DEGLI ETRUSCHI


Il paesaggio delle Crete Senesi

e molto meglio di quanto avremmo potuto fare noi nella sua

lingua. Ci disse di essere un professore di storia dell’arte di

Heidelberg, appassionato della Toscana e dei suoi itinerari

pedestri. Ogni anno tornava a vagare da solo per le Crete

Senesi, per rinfrancarsi nel rivedere le stesse cose, ma

stavolta si era imbattuto in un fatto insolito: un tranquillo

picnic con chiasso di fanciulli nelle adiacenze di una cappella

funeraria. Questo aveva subito suscitato in lui vivide

reminiscenze dei suoi studi e dei suoi scritti, e con tutta la

discrezione possibile volle sapere se noi fossimo Etruschi,

o loro discendenti. La cosa meritava un approfondimento:

così lo facemmo accomodare insieme a noi alla nostra tavola

improvvisata, su una delle panchette. La brezza era caduta

e l’aria era calda: il mezzo bicchiere di vino bianco – che

prontamente gli avevo offerto – sparì d’incanto, seguìto a

ruota da un altro. Poi, siccome “mangiare insegna bere”, ma

anche viceversa, sparì anche il resto dei caprini, del salamino

e del pane che non gli avevo lesinato. Ai cantucci era ormai

del tutto rinfrancato, nonché in eccellenti disposizioni

di spirito. Anche il suo italiano era migliorato nel frattempo,

e con ottima proprietà di linguaggio ci spiegò la sua meraviglia

di aver trovato qualcosa che non si sarebbe mai aspettato

di vedere. Secondo lui soltanto gli Etruschi avrebbero

potuto ricreare in quel luogo una così perfetta armonia fra i

diversi aspetti della vita e della morte. Lì per lì, un poco imbarazzato

per quello strano complimento, non seppi che rispondergli:

ma oggi lo saprei e come lo penso così lo scrivo

adesso: «Caro amico, che apprezzi e conosci gli Antichi, eri

nel vero. Quand’eri giovane, là nella tua Renania, i tuoi studi

formarono il tuo spirito e i tuoi pensieri, infondendoti amore

per la terra etrusca, al punto di spingerti anche da vecchio

a vagabondare per strade bianche cercando tracce e segnacoli

che ti parlassero della sua natura e della civiltà che l’ha

plasmata. Apristi per noi il tuo zaino pieno di poveri tesori

che ci mostrasti con orgoglio: un coccio di maiolica, una

conchiglia fossile, un dente di cinghiale… Ma nel tuo zaino

ancora mancava una cosa che quel giorno – quasi incredulo

– pensasti di aver trovato proprio in mezzo a noi: cioè il

sorriso degli Etruschi. Quel sorriso, che conoscevi dalle immagini

sulle loro urne, era ancora vivo quel giorno per te, e

attraverso di noi ancora parlava al tuo intelletto ed al tuo

cuore di ciò che essi ci hanno consegnato per l’eternità: l’amore

per la vita, col suo nascere, e morire, eppoi rinascere,

insieme alle stagioni della terra e dell’Uomo. Il loro sorriso

era il sorriso di chi conosce la Vita e accetta il suo mutare

e rinnovarsi nel continuo avvicendamento dei suoi cicli. Ed

ogni Etrusco o loro discendente, oggi come tremila anni fa,

è ben consapevole del proprio ruolo nel proprio tempo. Domani

sarò un fiore, per la gioia di un’ape. O una ghianda che

sogna di diventare quercia. O un cinghiale che sogna ghiande

saporite. Oppure un cacciatore che sogna cinghiali ben

nutriti di ghiande del querceto...». Ritorno col pensiero a

quel pomeriggio: mentre noi ci apprestavamo ad intraprendere

il lungo viaggio di ritorno e il nostro estemporaneo amico

riprendeva la sua strada in direzione opposta, rammento

che all’improvviso fui vividamente conscio che laggiù in fondo

al calanco, fra i lecci, i tartufi seguitavano a crescere nel

buio e nel silenzio nelle loro culle ipogee, a tutto indifferenti

nel loro lento granire, nulla sapendo né curando del mondo

soprastante la loro buccia di terra, né del vento che agitava

la cima dei cipressi ed i bianchi capelli del vecchio nell’ultimo

saluto che da lontano ci dedicava togliendosi il cappello

con largo gesto. Fra poco sarà sera, pensai, è tempo di lasciare

la natura atemporale di questi luoghi alla sua arcana

solitudine, e i cinghialotti nelle forre alle loro notturne scorribande

in cerca di gallòzzole di cerro...

IL SORRISO DEGLI ETRUSCHI

57


Surrealismo e Digital art

Mostra personale di Rusp@, pittore e pittore digitale

Museo Il Correggio - Palazzo

dei Principi Sala Putti

Dal 25 giugno al 9 luglio 2022

Opere ad olio e digitali stampate

su tela in pezzi unici certificati

Artista di lungo corso, Rusp@ è nato nel 1946 a Castelnovo

di Sotto (Reggio Emilia). Ha frequentato

negli anni Sessanta lo studio del pittore William

Lusuardi. La sua formazione artistica si è arricchita

frequentando alcune associazioni culturali

fiorentine, con le quali ha un rapporto continuativo

da oltre trent’anni. Il primo dipinto ad olio risale

al 1956; la prima mostra personale al 1987; il

primo quadro di pittura digitale al 1997. Nella sua

lunga carriera artistica ha realizzato oltre duemila

opere. Nel 2002 ha assunto il nome d’arte Rusp@ e

da quella data tutte le sue opere sono così firmate.

Nella pittura digitale Rusp@ è stato un precursore

dei tempi, a testimoniarlo sono: la medaglia

di bronzo vinta nel 1999 al Premio Firenze sezione

digitale e la mostra personale allestita nel Palazzo

Bentivoglio di Gualtieri nell’anno 2000 dal titolo

Pittura e computer art. Ha al suo attivo ottantuno

personali, più di trecentocinquanta partecipazioni

a mostre anche all’estero e numerosi premi. Critici,

cataloghi, pubblicazioni, siti internet, giornali,

televisioni hanno scritto e parlato di lui e della sua

arte. Nel 2009 la casa editrice Pegaso di Firenze

ha pubblicato la monografia Rusp@ artista al passo

coi tempi, con prefazione del giornalista Fabrizio

Borghini. Per ventiquattro anni consecutivi ha partecipato

al Premio Firenze, dove è stato premiato

ben diciotto volte con medaglie di bronzo, un fiorino

d’argento e numerose mostre in palazzi pubblici

e nello storico caffè Giubbe Rosse di Firenze. Quella

al Museo Il Correggio è l’ottantaduesima mostra

di Rusp@; esposte opere ad olio e opere digitali

stampate su tela in pezzi unici certificati.

Abitazione e studio:

Via Giusti 9, Castelnovo di Sotto (Reggio Emilia)

+ 39 333 1259863

ruspapittore.myblog.it / gianni.ruspaggiari@alice.it


Firenze

mostre

Giuseppe Bezzuoli

Palazzo Pitti celebra un grande protagonista della pittura romantica a Firenze

di Barbara Santoro

Dal 29 marzo scorso e fino al 5 giugno, le sale della Palazzina

della Meridiana di Palazzo Pitti hanno ospitato

la mostra Giuseppe Bezzuoli (1784-1855) / Un

grande protagonista della pittura romantica. Curata da Vanessa

Gavioli, Elena Marconi ed Ettore Spalletti, l’esposizione racconta,

attraverso centotrenta opere – dipinti, sculture e disegni –

la carriera dell’artista fiorentino, confrontandone la produzione

con quella di altri importanti maestri del calibro di Francesco

Hayez e Massimo D’Azeglio, insieme ad una sezione dedicata

ai giovani artisti americani frequentatori dell’Accademia di

Belle Arti dove Bezzuoli insegnava, avendo come allievi futuri

eccellenti pittori quali Giovanni Fattori, Enrico Pollastrini, Antonio

Ciseri e Antonio Puccinelli. Personalmente, amo da sempre

Giuseppe Bezzuoli, a partire da quando, ancora bambina, vedevo

alcuni suoi lavori in casa di mia nonna, opere oggi di mia

proprietà. Merito di questa mostra è far conoscere al grande

pubblico la storia e l’attività di questo eccellente pittore del romanticismo

storico, con un allestimento grazie al quale il visitatore

viene trasportato in una scenografia perfetta dove sia le

opere di Bezzuoli che quelle di altri autori suoi contemporanei

rivivono tra le tappezzerie e gli arredi d’epoca come in una scenografia

teatrale. Giuseppe Bezzuoli nasce a Firenze il 28 no-

Giuseppe Bezzuoli, Autoritratto (1839)

vembre 1784 da Luigi Bazoli, decoratore prospettico e fiorista,

e da Anna Banchieri. Comincia a firmarsi Bezzoli o Bezzuoli nel

1822 circa, ritenendosi discendente di un’antica famiglia con

questo cognome e come tale è registrato nell’atto della morte

avvenuta nel 1855. Da giovane intraprende gli studi di Medicina

e frequenta parallelamente la scuola di nudo all’Accademia

di Belle Arti, alla quale si iscrive nel 1807 per studiare pittura

sotto la guida di Pietro Benvenuti. Con una tela raffigurante

Aiace che difende il corpo di Patroclo vince nel 1812 un premio

triennale che gli permette di dedicarsi a studi di paesaggio e di

costume e di studiare a Roma la pittura di Raffaello da lui tanto

amata. Tornato a Firenze, si allontana dal classicismo iniziale

per abbracciare il gusto romantico e decora alcuni palazzi: a

Pitti realizza Alessandro il macedone nello studio di Apelle, undici

scene su Giulio Cesare e Berenice abbandonata da Tito; a

Palazzo Pucci Francesca da Rimini con Paolo sorpresa da Cianciotto

e Gli Amori di Angelica e Medoro; lavora poi a Villa Baldini

a Sesto Fiorentino e a Palazzo Gerini. In occasione delle

celebrazioni galileiane dipinge al Museo di Storia e Fisica Naturale

un Galileo che studia la legge della caduta dei gravi. Nella

chiesa di San Remigio a Firenze si trova il suo dipinto di grandi

dimensioni L’arcivescovo di Reims dà il battesimo a Clodoveo.

Nel 1827 presenta con molto successo all’Esposizione di Parigi

una Venere che si abbiglia. La sua fama però è legata soprattutto

all’opera L’entrata di Carlo VIII a Firenze, commissionatagli

dal granduca Leopoldo II di Toscana e ora nella Galleria d’Arte

Moderna di Palazzo Pitti. Nel 1829 è assunto in Accademia come

assistente del Benvenuti, al quale subentra come docente

nel 1844. Nel 1837 dipinge La morte di Filippo Strozzi e quella

di Lorenzino dei Medici, e a Pistoia, a Casa De Rossi, l’affresco

Danza della prima giornata del Decamerone. Nel 1838, per

i principi Demidoff, affresca Il ritrovamento del corpo di Manfredi

dopo la battaglia di Benevento (oggi al Museo del Sannio)

e per una villa a Fiesole La samaritana al pozzo. Nel 1847 realizza

una vasta tela con Riccardo Cuor di Leone all’assedio di

Gerusalemme per la navata destra del duomo di Pisa. Ispirandosi

poi al nono canto dell’Inferno, crea una Tempesta e una

Morte di Zerbino tratta invece dall’Ariosto. Nel 1852 vede la luce

Giovanni dalle bande nere al passaggio dell’Adda con cui dimostra

di conoscere bene la storia e di farla rivivere sulla tela.

A questa produzione più ufficiale si affianca una serie infinita

di ritratti dei più autorevoli esponenti dell’alta società, uno

spaccato della nobiltà e della borghesia nazionale ed internazionale:

dame dalle complicate acconciature avvolte in vesti

fruscianti, uomini stretti nelle giacche piene di decorazioni, intellettuali

e statisti. Ben venga quindi questa prima grande mostra

monografica per ricostruire la vicenda di un importante

esponente della pittura romantica italiana e fiorentina troppo

spesso dimenticato.

GIUSEPPE BEZZUOLI

59


NICOLETTA

MACCHIONE

Ritratto, grafite, cm 15,5x19,5


Ritratto, olio su tela, cm 30x40

nicolettamacchione@yahoo.it


Il cinema

a casa

A cura di

Lorenzo Borghini

Snowpiercer

Il treno-mondo di Bong Joon-ho

di Lorenzo Borghini

Un treno lunghissimo si aggira per il globo percorrendo

centinaia di migliaia di chilometri all’infinito;

fuori, metri di neve e giaccio ricoprono la terra.

È l’avvento di una nuova era glaciale, i pochi superstiti sono

ingabbiati in questa trappola per topi; costretti a sopravvivere

girando intorno al mondo da diciassette anni. La plebe

è racchiusa nella coda del treno, tira avanti con poco, perché

all’interno del treno-mondo ci vuole equilibrio e i ricchi,

come sempre, devono prendere il piatto più buono, arraffare

a più non posso, con tanto di posti chic in testa al treno.

Il meccanismo si inceppa, il malcontento serpeggia dalla

coda, gli oppressi non ci stanno, sono

stufi di mangiare sbobba proteica tutti

i giorni, sono stufi di vedere i propri

figli strappati dalle loro braccia e il loro

leader, Curtis (Chris Evans), aspetta

il momento giusto per tentare la

rivolta, per cercare di sovvertire l’ordine

delle cose. Bong Joon-ho ci ha abituati

bene, è un regista sapiente, che

non sbaglia un colpo e anche qui riesce

a orchestrare bene la sua banda di

orchestrali, i pazzi che abitano il suo

mondo folle e malato, in un futuro non

troppo lontano dal nostro presente.

Bong come un esperto del naturalismo

prende l’uomo, il suo campione da

analizzare, da sezionare e ne sviscera

i difetti più evidenti, mette a nudo

la rabbia dei deboli, la voce di quella

parte del popolo che non ce la fa più

a ingoiare bocconi amari giorno dopo

giorno, umiliazione dopo umiliazione,

mentre i ricchi, voraci, li trattano come

animali, o meglio come scarpe, perché

le scarpe come la coda del treno sono

oggetti che stanno in basso, a contatto

con il suolo, strisciando in silenzio

a testa bassa. La macchina da presa

danza per i vagoni del treno, si muove

a colpi di accetta riprendendo scontri

cruenti, all’ultimo respiro, indispensabili

per la meta finale, seguendo i protagonisti

bagnati di sangue, sudore

e lacrime. Come sempre l’equazione

Bong Joon-ho/Song Kang-ho è vincente

in partenza, l’attore ormai osannato

in patria come il Leonardo DiCaprio

orientale interpreta l’elemento di di-

sturbo che sposta gli equilibri, imprevedibile nella sua follia,

grazie al suo estro riesce a calarsi alla perfezione nella

parte di un tossico esperto di sicurezza, una di quelle persone

che la società non accetta perché ritenute “diverse”,

ma che saprà regalarci risate alternate a momenti di riflessione.

Mirabolanti inseguimenti ci porteranno dritti all’epilogo,

in una parata di esseri umani in pieno caos, fra fuochi,

spari, urla e un equilibrio che ormai si è rotto, come il meccanismo

perfetto del treno-mondo, un meccanismo inceppato

dalla nascita che risparmia poco o niente. «Si salvi chi

può» sembra dire Bong, e la speranza è l’ultima a morire.

62

SNOWPIERCER


Ritratti

d’artista

Marco Campostrini

L’energia del colore, la forza del femminile

di Jacopo Chiostri

È

nel colore, e con il colore, che Marco Campostrini, artista

di Sesto Fiorentino, fino al 30 giugno protagonista

di una personale alla Galleria CI VÚ di Viareggio, esprime

la sua poetica. Colori forti, emozionali, accesi, quantunque

non impattanti in virtù dell’abbinamento calibrato con i soggetti

e con l’armonia cromatica complessiva, figlia, quest’ultima, di

un’evidente attenta ricerca e di lunga esperienza. I contorni decisi

e gli accostamenti della tinta contribuiscono nei suoi lavori

a trasmettere l’idea di una grande forza evocativa. «Sono prima

di tutto un colorista» dice della sua arte Campostrini. E in effetti,

a ben guardare, tutto nelle sue tele appare funzionale ad

esprimere la forza del colore ed è in questa che si rintracciano

le intenzioni dell’autore. Le forme a cui dà vita Campostrini, riempite

di tinta, diventano dei tramiti per sostenere il linguaggio

espressivo necessario per raccontare una “sua” verità. Campostrini

dipinge utilizzando tempera acrilica; la sua pittura è figurativa,

ma in un passato, neppure troppo lontano, aveva anche

sperimentato la strada dell’informale che ha poi abbandonato

probabilmente perché insufficiente per “autenticare” le simbologie

silenti sebbene marcate presenti in quasi tutti i suoi lavori

(si veda ad esempio Il poeta e la sua Musa, Marionette, Belle

Epoque). Due sono i soggetti prediletti: il cavallo e la donna.

«Entrambi, a mio parere, esprimono il massimo della grazia e

dell’eleganza» dichiara il pittore. I soggetti femminili sono caratterizzati

da posture ed espressioni del volto spesso sorprendenti

che denotano personalità decise; negli sguardi però è

rintracciabile un’evidente mestizia; occupano per intero la scena

sia visivamente che come impatto iconico. Sono donne che

attraversano i giorni difficili che viviamo, senza rinunciare alla

propria eleganza ma indossandola con manifesta compostezza.

Tanti sono i richiami visivi a pittori che conosciamo: Klimt

(come suggerisce Campostrini stesso) ma anche Egon Schiele

e Enrst Kirchen. Dei grandi del passato, egli racconta la sua

predilezione per Van Gogh – e non poteva essere diversamente

considerata la passione per il colore e, come il grande pittore

olandese, per la ricerca di cromatismi inediti –, poi Cezanne, da

lui definito “il più grande”, e Matisse soprattutto per la grande

lezione coloristica. Pittura classica, quindi, pittura di qualità eccelsa,

pittura, nel suo caso, rivisitata nei termini di una modernità

e di una contemporaneità entrambe senza tempo. Pittore che

si definisce autodidatta, Marco Campostrini è nato però in una

famiglia dove il disegno era di casa, a partire da una zia disegnatrice

per una casa di moda fiorentina fino al nonno capace

acquarellista e al padre Piero che disegnava per la Richard Ginori.

Di sé racconta di aver sempre disegnato; la prima mostra,

della quale ricorda soprattutto le critiche favorevoli ricevute da

Gastone Breddo, risale al 1972 a Firenze alla Galleria Santa Croce.

A questa sono seguite altre esposizioni personali e collettive:

tra le prime alcune allo Spazio Berti, al Palagio di Parte

Guelfa, alla Soffitta, a Prato al Palazzo Pretorio e a Sesto Fiorentino

alla Ginori. Nel futuro prossimo di Campostrini c’è una

probabile grande esposizione di trenta opere – grafica, tecniche

miste, collage, inchiostri e acquerelli – accompagnate dalle poesie

di Alessandra Bruscagli.

MARCO CAMPOSTRINI

63


Centro Espositivo Culturale

San Sebastiano

Centro Espositivo Culturale

San Sebastiano

Simona Tesi

Sala San Sebastiano Centro Espositivo Culturale

Alba, tecnica mista, cm 60x80

simonatesi6@gmail.com

di LUCHINI LUDOVICO & NUTI SIMONE s.n.c.

Via del Colle, 92 - 50041 Calenzano (FI)

Tel. 055 8827411 - Fax 055 8839035

www.carrozzeriailcolle.it info@carrozzeriailcolle.it

di LUCHINI LUDOVICO & NUTI SIMONE s.n.c.

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Tel. 055 8827411 - Fax 055 8839035

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64 CENTRO ESPOSITIVO CULTURALE SAN SEBASTIANO


Stefania Salti

Centro Espositivo Culturale

San Sebastiano

Stefania Salti

Nata a Barberino

del Mugello il 7

giugno del 1959,

Stefania Salti si è avvicinata

alla poesia da pochi

anni, dopo un passato da

pittrice. Adesso cerca di

dipingere pagine con le

parole, mettendo la sua

anima in ciò che scrive.

Luce

Luce.

Quando il sole fa l'amore

con le acque calme dell'immenso mare.

Luce,

quando specchiandosi in esso,

vanitoso,

espande i suoi raggi,

abbracciandolo.

Niente come questo incanto,

scalda così la tua anima,

che libera fa un tutt'uno con la sua vastità.

E ti senti piccolo,

difronte al suo astro

ma protetto dal calore dei suoi baci.

Luce che si affievolisce.

Lentamente, stanca del suo brillar diurno,

con un battito d’ali,

si arrende al mare,

danzando sopra le onde.

È un’esplosione di colori dai toni caldi,

appassionati.

Sempre più vicina,

fino ad immergersi completamente e scomparire

in esso,

arrendendosi al mare,

il grembo materno consolatore dell'universo.

L’amore

L’amore...

Interminabili attimi

passati dentro gli occhi.

Fino all’abisso del cuore.

Dentro,

immerso in quel fiume di emozione,

che ti toglie il respiro.

In quell’esatto istante capisci,

che tu, prima,

non avevi mai vissuto.

L’amore non teme fame,

si nutre di se stesso.

Anima e viscere,

è un cannibale che divora i corpi,

consapevoli di tanta fame,

non sarai mai sazio della bocca

e del corpo del tuo amato.

mai smetterai di assaggiarne le carni.

Mai smetterai di accarezzarne

le setose pelli arricciate dai brividi.

Mai sentirai freddo,

l’amore ti scalda e ti brucia da dentro,

come mille tizzoni ardenti.

L’amore è etereo,

vive di sguardi e sospiri,

di mani intrecciate, incollate l’una all’altra,

di abbracci senza fine,

anche se lontane,

rimarranno abbracciate.

L’amore è acqua pura e cristallina,

che ti lava il viso,

purificandolo dai cattivi pensieri.

Dona, non priva.

È luce, non ombra.

Sono sorrisi, mai lacrime.

Vivrai nella sua immensa eternità.

Luce.

Puoi riposare.

Domani,

tornerai a splendere ancor più luminosa.

Adesso è momento di sogni e sospiri.

Dove la luna con luce molto soffusa,

insieme a infinite stelle,

veglierà sorniona.

CENTRO ESPOSITIVO CULTURALE SAN SEBASTIANO

65


Paolo Lacrimini

Ciotola di Hygieia

Dipinto a olio e acrilico

su tavoletta lignea, cm 30x40

paololacrimini@alice.it


I libri del

mese

Aldo Lisetti

Carabiniere e scrittore, ha ricostruito, insieme a sua moglie

Lidia Scuderi, la vita dell'artista di fine Seicento Sebastiano Conca

di Fabrizio Borghini

Legge la nostra rivista, segue il percorso artistico di alcuni

pittori e scultori delle nostre mostre e rassegne,

ha presentato in anni recenti i suoi libri a Firenze, Arezzo,

Montevarchi e Pistoia, ama la Toscana, che dette i natali a

suo nonno, ed è stato in servizio per alcuni anni nel Valdarno,

che continua a frequentare. Si tratta di Aldo Lisetti, un carabiniere,

oggi generale di corpo d’armata nel ruolo d’onore, autore,

insieme alla moglie Lidia Scuderi, del libro La Madre del

Signore nei dipinti di Sebastiano Conca di Gaeta a Linguaglossa

e Mazara del Vallo (Editore D’Arco, Formia, 2022). Nel libro,

che nell’incipit riporta una frase dell’indimenticabile sindaco

di Firenze Giorgio La Pira, non mancano riferimenti sui quadri

del grande maestro rinascimentale soprannominato il “Cavaliere

di Gaeta”, presenti nelle chiese e nei musei di Firenze

e di Siena. Nel XVIII secolo, Conca fu l’autore delle grandi tele

e pale di altare di stile tardo Barocco e Rococò che ornarono

le più importanti chiese e i palazzi dei regnanti non solo d’Italia

e d’Europa. È un autore, quindi, entrato di buon diritto nella

storia dell’arte, ammirato per le sue opere nel mondo intero.

Nato nel 1680, visse e operò tra Napoli, allora capitale del Regno

delle Due Sicilie, e Roma capitale dello Stato Pontificio, ma

non abbandonò mai Gaeta, dove morì nel 1764. Il libro ha una

presentazione di pregio a firma del vescovo di Acireale (Catania),

monsignor Antonino Raspanti, vicepresidente per l’Italia

meridionale della Conferenza Episcopale e membro del Pontificio

Collegio della Cultura; autore della prefazione è il dotto

arciprete don Orazio Barbarino, già direttore dell’Istituto Diocesano

di Scienze Religiose e professore di Patrologia. I coniugi

Lisetti hanno focalizzato la loro ricerca sulle opere del maestro

esposte nelle chiese siciliane e in particolare sulla Madonna

del Rosario con i Santi Domenico e Caterina, quest’ultima

venerata nella Sicilia orientale, e sulla Madonna del Paradiso

esposta nella cattedrale dell’estrema punta occidentale dell’isola.

Con interessanti particolari, hanno tratteggiato la vita e le

opere esistenti a Gaeta, facendo una scoperta che ha sorpreso

per primi loro stessi. I biografi di Sebastiano Conca, infatti, non

hanno mai fatto cenno alla sua posizione di stato civile e, quindi,

è stato sempre considerato uno scapolo che lasciò i suoi

patrimoni ai pronipoti (nipoti di un fratello) e al medico che lo

curò sino alla fine dei suoi giorni. A distanza di circa tre secoli,

emerge la sorpresa, ben documentata nel libro appena pubblicato.

Come accadde nel 1980, quando il ricercatore gaetano,

Antonio Cervone, rintracciò tra vecchi e consunti registri l’atto

di morte originale di Sebastiano Conca per suffragare la sua fine

a Gaeta e non a Napoli come molte fonti affermavano, così

oggi si apprende che il pittore era sposato con Mariangiola e

aveva avuto da lei una bambina. Anche in questo caso la notizia

è documentata da un atto di morte nel registro della chiesa

di San Benedetto in Piscinula a Trastevere nel cuore di Roma,

dove abitò Sebastiano Conca. In esso si attesta che la bambina

volò al cielo quando aveva “circa” un anno di vita e fu sepolta

in detta chiesa. Gli autori ne danno contezza in uno degli

otto capitoli del libro che fornisce altre notizie particolareggiate

sulla vita e le opere del “Cavaliere dello Speron d’Oro”, come

l’artista veniva chiamato a seguito dell’alta onorificenza conferitagli

dal Sommo Pontefice. Il valore del lavoro di ricerca dei

coniugi Lisetti è esaltato dal fine umanitario: hanno destinato il

ricavato delle vendite della pubblicazione a fin di bene, tramite

la parrocchia di Linguaglossa, città metropolitana di Catania,

della quale è originaria Lidia Scuderi, egregia insegnante, oggi

residente a Gaeta con la famiglia.

aldolisetti@libero.it

ALDO LISETTI

67


Polvere di

stelle

A cura di

Giuseppe Fricelli

Bruno Rigacci

Uno tra i musicisti italiani più preparati

di Giuseppe Fricelli

Un musicista che ho amato ed ammirato

con profonda stima è stato Bruno Rigacci.

Il meraviglioso e poliedrico artista era

diplomato in pianoforte (allievo di Alfredo Casella),

composizione (allievo di Vito Frazzi), direzione

d’orchestra (discepolo di Antonio Guarnieri) e

canto. È stato uno dei musicisti italiani fra i più

preparati. Mi ha sempre affascinato in lui la naturalezza

con cui affrontava qualsiasi partitura e

brano musicale. Leggeva la musica a prima vista

in modo impressionante. Ho conosciuto pochi artisti

con una vocazione e fede artistica così vera

e profonda. Gli sono stato amico con vera devozione

e questo mi riempie di gioia ed orgoglio. Mi

ha dedicato vari brani pianistici che ho sempre

eseguito con piacere, componeva della splendida

musica. Eravamo uniti da un immenso amore

per l’opera pucciniana di cui Rigacci era un conoscitore

unico.

Bruno Rigacci

Nato nel 1948, Giuseppe Fricelli si è formato al Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze diplomandosi

in Pianoforte con il massimo dei voti. Ha tenuto 2000 concerti come solista e

camerista in Italia, Europa, Giappone, Australia, Africa e Medio Oriente. Ha composto musiche

di scena per varie commedie e recital di prosa.È stato docente di pianoforte per 44 anni presso

i conservatori di Bolzano, Verona, Bologna e Firenze.

68

BRUNO RIGACCI


La voce

dei poeti

Susy Gillo

Nel “cammino della goccia” la ricerca del senso dell’esistere

di Erika Bresci

L’insignificanza di una goccia colta nella fragilità

nuda della sua frazione di grammo è solo apparente.

Quel suo cammino, la fatica carsica che conosce

la pazienza dell’attesa, l’insinuarsi tra le pieghe del

silenzio, la solitudine dello spazio, la consistenza greve

del buio, non è sterile andare. Scendere in profondità, darsi

alla terra per subire la metamorfosi della roccia, plasmarla

di sé, vivificarla. Caspar David Friedrich, pittore

del paesaggio simbolico, di atmosfere rarefatte e umbratili,

vestite di pallori e di parvenze, che tanto mi sembrano

dialogare con gli infiniti mondi e le meteore, gli universi

spazi e le nebulose presenti nella raccolta di Susy Gillo,

suggeriva: «Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il

tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce

ciò che hai visto nell’oscurità, affinché la tua visione agisca

su altri esseri dall’esterno verso l’interno». Le poesie

di Susy Gillo, distese in versi brevi, liberi dai vincoli di una

punteggiatura che non avrebbe alcun senso nell’apertura

di un tempo che si fa mitico, circolare, costantemente

teso tra presente e passato – età, questa, di infinita nostalgia,

caro rifugio, dimensione autentica: “nel bozzolo

ritrovo il sapore / delle ali della farfalla” –, distillano visioni

di un mondo nel quale l’uomo trova difficile trovare

un proprio posto; in “strade solitarie / attonite / sole in

un neo umanesimo / l’uomo rigettato / nell’ibrido spazio

/ di se stesso” si muove alla ricerca del senso dell’esistere.

Di quella vita che specifica di sé, quasi ossessivamente

nell’intera raccolta, aspetti di un disagio profondo nel

quale l’uomo contemporaneo pare destinato ad annegare.

E così, a precedere il “di vita” si trovano – ritmati anch’essi

con cadenza che scava e si insinua nei precordi – giungla,

pezzi, giogo, cenere, parvenza, accenni, giostra, miseria,

pallore, follie, cerchio, solitudine, dolore, nube tossica,

polvere, sorpasso, assillo, lutto, creando quelle “atmosfere

distopiche” cui fa cenno la senatrice Cinzia Leone nella

felice prefazione al libro, cui si premura di aggiungere

subito dopo “in cui però c’è la possibilità di redenzione”.

“Noi ci salveremo”, ripete a se stessa e a noi lettori la poetessa,

lo sussurra nell’anafora di un anelito, quello stesso

che le fa sperare “di trovare un mondo / che mi accolga”,

che la fa restare vigile “all’ombra del mondo … in cerca /

di Luce”. Poesia potente, questa del “cammino della goccia”,

che richiama ere mitologiche di scontri titanici tra

mondi parcellizzati in meteore, versi nei quali la brutalità,

l’arido vero non si cela all’occhio, dove il dolore è dolore,

la morte rende attoniti, il niente dell’uomo è evidente.

Ma se l’uomo, riconosciuto polvere il potere che credeva

avere tra le mani, svanita in un soffio la triste tracotanza

insieme alla furia cieca del (corona)virus che ha scoperto

al vivo i nervi della nullità dell’essere atomo – atomo

persino la nostra amata Terra, se confrontata alla sovrumanità

dell’infinito universo –, può ancora riconoscere e

confortare il proprio spirito con “il roseo respiro dell’Universo”

che “bacia la nuda terra”, se l’uomo affacciato alla

finestra della vita non esclude se stesso dall’altro, pur rimanendo

in disparte, lo può fare anche e proprio grazie al

cammino lento, doloroso, a tratti buio, insensato all’apparenza

nella grotta dell’Io, per riemergere poi al cielo e non

scoprirsi solo. Perché “La poesia / tiene per mano / guida

/ nel deserto dell’attesa”.

SUSY GILLO

69


JULES VISSERS

KINGA LAPOT DZIERWA

MICHAL ASHKENASI

ALMA SHEIK


A cura di

Franco Tozzi

Toscana

a tavola

La cecina

Il piatto principe dello “street food” in Toscana

di Franco Tozzi

Questa farinata di ceci è diventata la signora del cibo

di strada tipico delle nostre coste. Ne parliamo

questo mese perché presto torneremo al mare mangiando

uno spicchio di cecina sulla spiaggia, passeggiando

in pineta o “strusciando” lungo le passeggiate di

tante località di mare. Anche in questo caso le origini e la

patria sono oggetto di dispute letterario-gastronomiche per

cercare di dare illustri natali a piatti poverissimi. Si passa dal

poeta greco Alcmane del terzo secolo a. C., che racconta di

questa farinata di ceci ed altri legumi per scaldare le notti invernali,

alla battaglia della Meloria del 1248 vinta dai genovesi

sui pisani, per arrivare all’invenzione del forno a volta, che

consentirà di ottenere e mantenere inalterata la forma ed il

sapore della “torta di ceci” fino ad oggi. La cecina toscana è

sicuramente di origine genovese, repubblica marinara che ha

dominato il Mediterraneo per secoli, con marinai sparsi per

tutti porti che mangiavano la farinata a colazione. Ovviamente,

il mare è da sempre un mezzo di condivisione importante

e quindi troviamo piatti simili in Grecia, Siria, Egitto e Spagna

meridionale. Andando nel particolare di questo piatto,

tre caratteristiche sono importanti: la cottura che deve essere

fatta al forno, la teglia che deve avere il bordo basso (anticamente

si usavano i testi) e lo spessore non deve superare

il centimetro.

La ricetta: cecina

Ingredienti:

- 500 gr. di farina di ceci

- 8 cucchiai da minestra di olio extra vergine di oliva

- sale e acqua q. b.

La sera prima mettere a mollo la farina in una ciotola

nella quale sarà stato sciolto un cucchiaio abbondante

di sale fino. Al mattino, accendere subito il forno, che

dovrà essere caldissimo, togliere dalla ciotola l’acqua in

eccesso e l’eventuale schiuma, aggiungere l’olio e mescolare

bene il tutto. Nella teglia, già unta sempre con

olio, versare il composto che non dovrà superare il centimetro

di altezza; infornare per una decina di minuti o

comunque quando comincia a fare una crosticina superficiale;

sfornare lasciando la cecina nella teglia. Il completamento

dell’opera è una giusta spolverata di pepe

nero. Il risultato finale, difficilmente raggiungibile a casa,

è una crosticina sotto e sopra e un interno cremoso.

Accademia del Coccio

Lungarno Buozzi, 53

Ponte a Signa

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LA CECINA

71


Mauro Mari Maris

Tracciati dell’anima

www.mauromaris.it

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A cura di

Stefano Marucci

Riflessioni

sulla fede

La storia di Agar, donna e madre salvata da Dio

di Stefano Marucci

Maria Lorena Pinzauti Zalaffi, Agar

L’opera di Maria Lorenza Pinzauti Zalaffi dedicata alla

storia di Agar, ci permette di parlare di questa figura

biblica descritta nella Genesi. Nel libro si legge

che Sara, non riuscendo a dare un figlio al marito Abramo, gli

offre la propria schiava, una straniera di nome Agar, con l’obiettivo

di adottarne il figlio al momento del parto. Da questa

unione nascerà Ismaele. Quando si accorge di essere

incinta, Agar perde ogni rispetto per la sua padrona, che finisce

col maltrattarla. In seguito, anche Sara riesce a generare

un figlio, Isacco, ma quando lo vede scherzare col fratellino

Ismaele, scoppia in lei una profonda rabbia, al punto che

Abramo è costretto ad allontanare Agar che, insieme al figlio,

erra sconsolata nel deserto di Bersabea. Il racconto mette

in luce due temi principali, il primo dei quali relativo a Sara,

che non ha creduto alla promessa di Dio di darle un figlio

e ha cercato di arrangiarsi con mezzi umani per procurarsene

uno adottivo. Allo stesso tempo, Agar non accetta di essere

considerata solo una madre per conto di altri e Ismaele

non accetta di non essere considerato il vero primogenito di

Abramo. Deve intervenire l’angelo del Signore per allontanare

Agar e simultaneamente assicurare la sorte di Ismaele e

dei suoi discendenti. Questa storia ci fa vedere l’attenzione

di Dio per gli individui che la mentalità corrente considera inferiori.

Agar è donna, schiava e straniera; Sara e Abramo ne

parlano solo come “la schiava”, senza nemmeno riconoscerle

la dignità di chiamarla per nome. Per Sara, Agar è solo lo

strumento di una maternità surrogata, come previsto dalle

consuetudini semitiche codificate nel Codice di Hammurabi.

Dio, invece, vede l’afflizione di Agar senza che lei abbia bisogno

di esprimerla. Agar, inoltre, è la prima donna in tutta la

Bibbia alla quale compare l’angelo del Signore per annunciarle

la maternità e il destino del figlio, di cui stabilisce anche il

nome (Ismaele significa proprio “Dio ascolta”). Maria Lorena

Pinzauti Zalaffi mettere in risalto gli aspetti di questa storia

tramite l’abile uso dei colori che indicano a Sara la via da percorrere,

ma anche lo stato d’animo legato a tutta la vicenda,

alle sofferenze generate da situazioni ambigue e alla necessità

di sopportarle. L’opera si riferisce in particolare al passaggio

della Genesi in cui si legge: «Abramo si alzò di buon

mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli

sulle sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò

via. Essa se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea».

Da questo momento, il destino della discendenza di Abramo

si compie proprio tramite Ismaele che, con i suoi dodici figli,

darà vita alle dodici tribù di Israele, realizzando così la profezia

secondo cui Abramo sarebbe diventato “padre di una moltitudine

di nazioni”.

LA STORIA DI AGAR

73


A tavola

con...

A cura di

Elena Maria Petrini

Alessandro Cecchi Paone

Un viaggio attraverso l’amore per la scienza e i futuri scenari del “mangiar

bene” nell’intervista al noto giornalista e divulgatore scientifico

di Elena Maria Petrini / foto courtesy Alessandro Cecchi Paone

Nostro ospite questo mese è il professor Alessandro

Cecchi Paone, giornalista, conduttore televisivo, divulgatore

scientifico, saggista e accademico. Noto

al grande pubblico per la conduzione di programmi televisivi

di successo come Il bello della diretta, Time House - Il tempo

della scienza e La macchina del tempo, è autore di numerosi

libri di divulgazione scientifica, tra cui Scienza e pace e Una

vita per la scienza, scritti con il professor Umberto Veronesi,

ma anche Le frontiere dello spazio, Un saggio mi ha detto

e I graffiti e Internet: l’avventura della comunicazione, solo

per citarne alcuni. Attualmente è docente di Teoria e tecnica

del documentario turistico all’Università di Milano-Bicocca e

di Scrittura per la produzione documentaristica all’Università

Benincasa di Napoli. Insegna, inoltre, Documentazione scientifica

all’Università dell’Insubria di Como e presso la Facoltà

di Scienze della Comunicazione all’Università di Cassino e

del Lazio meridionale. Molto impegnato per il riconoscimento

delle unioni civili e del diritto all’eutanasia, è anche un fervente

ambientalista.

Com’è nata la sua passione per la comunicazione e la divulgazione

scientifica?

Lo debbo a mia nonna paterna Jole, una delle primissime

donne in Italia laureate in Biologia, Chimica e Fisica; faceva

parte, come dottoranda, del gruppo che lavorava con Enrico

Fermi a via Panisperna quando spezzarono l’atomo. Questa

nonna fu importantissima per i suoi racconti e per l’atmosfera

che c’era in famiglia e per i libri che giravano per casa:

da lei è arrivata la spinta e l’amore per le scienze nuove,

le scienze dell’avvenire e del futuro. Quindi da lì è nato tutto

perché lei faceva scienza e mi ha lasciato in casa il profumo

della voglia di parlare di scienza. Infatti poi mi sono

dedicato allo studio della scienza intesa come filosofia, epistemologia

e divulgazione scientifica.

Ci sono delle tematiche scientifiche che la coinvolgono

particolarmente?

Sono stato educato all’amore verso il futuro ed il progresso e

ad avere fiducia nel fatto che gli esseri umani possano cambiare

in meglio il proprio destino e quello degli altri. Anche

questo vuol dire amore per la scienza, la cultura, la razionalità

e l’innovazione, tutte cose che nel corso della mia vita e

della mia attività ho sempre coltivato: sono quarantasei anni

di televisione, di radio, di giornalismo, di attività editoriali

e di insegnamento universitario, sempre improntati a questo

tipo di contenuti.

Alessandro Cecchi Paone

A suo parere come si è evoluta la psicologia alimentare e come

è cambiata nei secoli la percezione antropologica del cibo?

Secondo me il vero cambiamento è dovuto al passaggio dalla

fame al benessere: nel nostro paese, durante la seconda guerra

mondiale, si mangiava male con gravissime carenze estese

a larghe fasce della popolazione, per cui eravamo più brutti, più

bassi e meno sani, dato lo scarso apporto di proteine animali.

Questo provocava problemi ad esempio per quanto riguarda

l’altezza, l’ossatura e le dimensioni degli italiani; inoltre vi era

mancanza di igiene e problemi per la conservazione dei cibi, e

sovente vi erano epidemie di tifo, epatite, colera e un alto tasso

di mortalità infantile. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale,

con il coinvolgimento dell’Italia nel mondo occidentale e

americano, abbiamo iniziato ad avere una ricchissima dieta in

termini di proteine, che nel giro di poche generazioni ci ha alzati

di 10 cm. I nostri figli e nipoti sono alti, belli, forti e sani come

mai si erano visti nella storia italiana, e non esiste praticamente

più la mortalità infantile; abbiamo ottenuto in cinquant’anni,

grazie allo stile di vita nord europeo ed americano, dei risultati

che prima non avevamo, e in un solo secolo, grazie anche

al maggior livello di igiene, abbiamo raddoppiato la nostra

aspettativa di vita. Siamo stati fortunati anche per aver saputo

sopperire alle carenze precedenti con le nostre tradizioni della

dieta mediterranea che, integrata con una maggiore quantità

di proteine animali, ci ha portati a diventare i testimoni del

miglior regime alimentare secondo l’Unesco.

Come saranno i cibi del futuro?

Bisogna vedere chi vince, ossia se riusciremo a mantenere

questa mediazione tra tutto quello che serve in termini di ci-

74

ALESSANDRO CECCHI PAONE


bo terapeutico, intendo il cibo come prevenzione delle malattie,

mantenendo la nostra attenzione alla cura per il gusto

e la specificità territoriale, allora vinceremo e avremo il cibo

più buono di tutta la storia dell’umanità. Avremo un cibo

che cura e protegge, un cibo che ci allunga la vita, però

mantenendo, contrariamente ad altri paesi che guardano solo

questo aspetto, anche un cibo buono: gli stranieri vengono

in Italia perché sentono dei sapori che loro hanno completamente

perso.

Il suo rapporto con il cibo? Le piace cucinare?

Non sono capace di cucinare, però mi piace molto mangiare.

I miei maestri, in particolare il professor Veronesi con il

quale ho collaborato, mi hanno insegnato a godere del cibo e

del gusto, prestando però attenzione alle sostanze ossidanti

e nocive e privilegiando frutta e verdura con un colore oscillante

tra il giallo, l’arancione e il rosso, perché più ricchi di licopeni

ed altri antiossidanti naturali. Sono tutte cose che ho

imparato lavorando con il professore, che mi ha fatto scoprire

l’importanza di mangiare bene e in buona compagnia, per

sottolineare un momento sociale ma anche per godere di un

po’ di relax dopo una giornata di lavoro.

Ha un cibo che le rievoca un ricordo legato agli affetti oppure

ad un momento di condivisione?

Il cibo si collega sempre a grandi momenti emotivi: ho due ricordi

fondamentali, uno che potrebbe far storcere la bocca a

qualcuno ed un altro proprio fiorentino. Il mio primo grande

amore era una ragazza di origini persiane conosciuta a Milano,

che mi fece assaggiare per la prima volta in vita mia il sushi.

Parliamo della metà degli anni Ottanta, quando il sushi non era

ancora alla moda come adesso e non era assolutamente conosciuto.

Avevo 25 anni e mi affacciavo alla vita: una grande

novità, Milano, il primo amore, la prima convivenza con questa

ragazza di nome Sherazade, come la protagonista de Le

Mille e una notte, le prime trasmissioni di successo e la scoperta

di un cibo nuovo. Tutto questo mi lega al sushi in maniera

particolare. L’altro ricordo è legato alla fiorentina, intesa non

come squadra ma come carne, perché fu il primo momento in

cui mi trovai a trasferire la mia esperienza e le mie conoscenze

a mio nipote che, molto giovane, fece il suo primo viaggio

da solo in treno per raggiungermi a Firenze, d’accordo con mio

fratello Leonardo e la moglie. All’epoca dovevo fare un’intervista

a Prandelli, CT della Nazionale, così decisi di fare un regalo

a mio nipote Giulio, grande appassionato di calcio, portandolo

a conoscere Prandelli a Coverciano che per lui era il tempio

del calcio. Io venivo da Milano in treno, mio nipote da Roma,

anche lui in treno. Ci siamo incontrati a Santa Maria Novella e,

prima di andare a Coverciano, portai Giulio a fare il vero pranzo

toscano in una delle famose “buche” storiche dove gli feci assaggiare

la prima bistecca alla fiorentina della sua vita. Fu per

me, ma penso anche per lui, un momento fondante, di passaggio,

nel quale per la prima volta mi sono visto nel ruolo di zio

che trasferisce al nipote prediletto una messe di conoscenze,

rapporti, passioni, ma anche la storia del cibo giusto per chi si

chiama Cecchi che è un cognome toscano.

Ha qualche ricordo relativo al Negroni, il cocktail nato a Firenze?

Il Negroni mi lega al ricordo del mio più stretto collaboratore

agli inizi della mia carriera. Parliamo degli anni Novanta

quando in un programma di Canale 5 che si chiamava Cara

TV, sulla storia e sui significati della televisione, conobbi un

giovane e bravo autore televisivo, Gigi Renai, storico curatore

di Forum, con il quale ci trovammo talmente bene sul piano

professionale ed umano, che divenne il mio braccio destro

per ben vent’anni oltre che il mio più caro amico. Alla fine di

ogni registrazione televisiva, Gianni mi aveva abituato a bere

un Negroni insieme… e a volte anche due!

ALESSANDRO CECCHI PAONE

75


B&B Hotels

Italia

B&B Hotels di nuovo a Roma con l’inaugurazione

di una struttura “green” nel Parco Leonardo

di Chiara Mariani

B&B Hotels, catena internazionale con più di 650 hotel

in Europa e nel mondo, inaugura il nuovo B&B Hotel

Roma Fiumicino Aeroporto Fiera 2, cinquantacinquesimo

hotel del gruppo in Italia e settimo sul territorio romano,

raddoppiando e portando a 228 il numero di camere a

Parco Leonardo. Location ideale per raggiungere comodamente

l’aeroporto o per viaggi di lavoro, il B&B Hotel Roma

Fiumicino Aeroporto Fiera 2 dispone di 114 camere in tipologia

doppia, matrimoniale e tripla, tutte dotate dei comfort

necessari per godersi un momento di relax dopo gli impegni

lavorativi, un viaggio in aereo o un’intensa giornata alla scoperta

di Roma. Gli ambienti delle camere sono caratterizzati

da un’atmosfera sobria e dallo stile moderno e sono dotate

di wi-fi gratuito, bagno con doccia e asciugacapelli, climatizzazione

autoregolabile, Smart TV con canali satellitari e Sky,

frigobar e cassaforte elettronica. Il nuovo hotel rispetta totalmente

lo spirito ecologico, la libertà di viaggiare, la semplicità

e la modernità che da sempre rappresentano i valori

su cui si fonda il concept di B&B Hotels: un albergo con un

look personale ma discreto e senza fronzoli che lascia agli

ospiti, contemporanei e sempre più consapevoli, la libertà di

decidere in che modo vivere la destinazione nel pieno rispetto

dell’ambiente e della comunità in cui si inserisce in termini

di struttura dell’immobile, fornitori, prodotti utilizzati,

servizi offerti. «L’inaugurazione della settima struttura nella

capitale e la cinquantacinquesima in Italia è per noi un

traguardo molto importante che riconferma l’ambizioso piano

di espansione che vede dieci nuove aperture nel 2022 in

città primarie e secondarie» commenta Valerio Duchini, presidente

e amministratore delegato di B&B Hotels Italia. «Il

B&B Hotel Roma Fiumicino Aeroporto Fiera 2, struttura gemella

del B&B Hotel Roma Fiumicino, inaugurato nel 2018,

incarna perfettamente lo spirito ecologico del nostro gruppo,

garantendo un risparmio nei consumi di energia e risorse

grazie all’utilizzo di materiali basso emissivi e alla promozione

di comportamenti sostenibili in termini di rifiuti e mobilità.

Un hotel 100% green che ci permette di offrire ai nostri

ospiti una soluzione moderna e smart nel completo rispetto

dell’ambiente che ci circonda». Il nuovo hotel rientra nel

piano urbanistico e edilizio di Parco Leonardo, progetto di

Gruppo Leonardo Caltagirone, che comprende funzioni residenziali,

commerciali, direzionali e di intrattenimento sul-

In questa e nelle altre foto alcuni ambienti del B&B Hotel Roma Fiumicino Aeroporto Fiera 2

76

B&B HOTELS ROMA


la direttrice Roma-Fiumicino, condividendo con B&B Hotels

una filosofia di sviluppo fondata sull’attenzione alla sostenibilità

e alla minimizzazione dell’impatto sull’ambiente. Il

risultato della collaborazione tra B&B Hotels, Gruppo Leonardo

Caltagirone e tutti i partner impegnati nella realizzazione

dell’hotel si traduce in una struttura 100% green, che

ha conseguito la certificazione LEED di struttura sostenibile.

L’hotel è dotato di parcheggi preferenziali per veicoli elettrici

e colonnina di ricarica, in posizione privilegiata rispetto

all’ingresso, al fine di incentivare il più possibile il servizio e

spingere maggiormente all’utilizzo di carburanti “alternativi”

e a bassissimo impatto ambientale.

B&B HOTELS ROMA

77


Benessere e cura

della persona

A cura di

Antonio Pieri

Preparare la pelle per l’esposizione al sole

di Antonio Pieri

La bella stagione è ormai arrivata, questo significa che i

vestiti si fanno più leggeri, il sole inizia a scaldare nuovamente

la nostra pelle e finalmente, per gli amanti dell’abbronzatura,

possiamo tornare ad esporci al sole. Prima di farlo

però è bene preparare la pelle nel modo adeguato. Essendo stata

sempre coperta durante l’inverno la pelle non è più abituata ad

essere esposta direttamente alla luce solare, ecco perché è importante

darsi del tempo per prepararla in modo sano e graduale.

Esfolia

La prima cosa da fare per preparare la pelle all’esposizione solare

è quella di esfoliarla per eliminare le cellule morte in modo da

riuscire ad idratarla meglio successivamente. La spugna corpo

esfoliante Idea Toscana è il prodotto perfetto per eliminare le impurità

e aprire i pori occlusi causati dall’abbigliamento invernale,

grazie alla presenza di noccioli d’oliva micronizzati. Un regolare

utilizzo dona una pelle incredibilmente morbida e rigenerata.

Possiamo idratare la pelle dall’interno bevendo molta acqua,

infatti nei mesi estivi per regolare la temperatura corporea il

nostro corpo traspira liquidi sudando. È per questo che è necessario

assumere più liquidi, in particolare acqua, che vanno a reidratarci.

Una volta che la pelle è stata esfoliata e detersa con il

giusto bagnoschiuma o sapone solido, è il momento di idratarla

“dall’esterno” utilizzando la giusta crema idratante. La crema

corpo idratante Prima Spremitura di Idea Toscana, grazie alla

sua formulazione con olio extra vergine di oliva toscano IGP

biologico regala alla pelle nutrimento e benessere. Facilmente

applicabile e rapida da assorbire per la pelle, lascia sul corpo

un piacevole effetto vellutato idratando e nutrendo la pelle in

profondità. Ottima da utilizzare anche come doposole. L’ultimo

consiglio, ma non meno importante, è quello di non sottovalutare

l’impatto del primo sole di stagione e di esporsi al sole in

maniera graduale per evitare ustioni o danni peggiori alla pelle.

Detergi

L’idratazione della pelle parte dalla detersione utilizzando il giusto

bagnoschiuma o sapone solido. Il consiglio, come sempre,

è quello di utilizzare prodotti naturali o biologici privi di agenti

chimici come SLES, SLS o parabeni. Il bagnoschiuma idratante

Prima Spremitura di Idea Toscana è il prodotto ideale per idratare

la pelle già sotto la doccia. Infatti la sua formula naturale arricchita

con olio extravergine di oliva toscano IGP biologico è

studiata per rispettare l’equilibrio idrolipidico di tutti i tipi di pelle

idratandola e trasformando il rito della doccia in un momento

di completo benessere. Il sapone di Marsiglia solido Prima

Spremitura di Idea Toscana è ottimo per chi preferisce al sapone

liquido una soluzione solida che deterga e idrati allo stesso

tempo. Questo sapone, totalmente vegetale, nasce dalla saponificazione

di oli vegetali di primissima qualità e, grazie all’aggiunta

di olio extravergine di oliva toscano IGP biologico nella

fase di finitura del sapone, viene arricchito ulteriormente rendendolo

ancor più nutriente e idratante per la pelle.

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Ti aspettiamo nel nostro nel nostro punto vendita in Borgo

Ognissanti 2 a Firenze o sul sito www.ideatoscana.it per

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Antonio Pieri è amministratore delegato dell’azienda il Forte srl

e cofondatore di Idea Toscana, azienda produttrice di cosmetici

naturali all’olio extravergine di oliva toscano IGP biologico.

Svolge consulenze di marketing per primarie aziende del settore,

ed è sommelier ufficale FISAR e assaggiatore di olio professionista.

antoniopieri@primaspremitura.it

Antonio Pieri

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