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6 tivo di scrittura. si pensi al proble- ma della trascrizione musicale del repertorio di origine popolare. se il luogo della performance è la scena, il nostro raggio di interesse si estende alle arti dello spettacolo dal vivo. La scena è lo spazio che qualcuno occupa nel tempo presente per comunicare con un pubblico anche questo presente, non virtuale. La riflessione sulla quale ci siamo concentrati è in quale maniera sia possibile far uscire dall’archivio il patrimonio culturale e fare in modo che raggiunga il più ampio pubblico possibile. Il rischio è, infatti, quello di spendere una quantità enorme di energia per salvaguardare, digitalizzare, catalogare una serie praticamente infinita e multiforme di contenuti, spesso preziosissimi, dei veri e propri tesori, destinati però a rimanere nascosti o accessibili ad una ristretta cerchia di studiosi che possiede le chiavi di accesso al sapere. noi abbiamo provato a proporre dei percorsi, certo con i mezzi modestissimi di cui attualmente disponiamo. Abbiamo guardato ad esperienze che riteniamo dei modelli ripercorribili e abbiamo adattato le nostre proposte all’uditorio, all’occasione e anche al budget. Le esperienze che vi illustriamo in questo numero della rivista “contos” sono tre: Le Fiabe a merenda, dove si racconta si ascolta e si mangia; La storia di Donna Francesca Zatrillas, la ricostruzione di un giallo storico tra fonti ufficiali e memoria popolare; Le Cartoline sonore, ovvero paesaggio, suono, archivio.
I. Fiabe a merenda Le fiabe con la merenda c’en- trano più o meno quanto i cavoli. Perché non era certo l’ora in cui si raccontavano le storie, quella della merenda. Una volta, quando si usava raccontare le storie ci si riuniva alla fine della giornata di duro lavoro, le sere d’estate fuori dalla porta, in sa carrela, e d’inverno intorno al camino, in sa tziminea o su ‘ochile. o nelle stalle delle grandi case coloniche, quando il freddo della lunga notte invernale era attenuato dal calore degli animali, come si può vedere ne l’albero degli zoccoli di Ermanno olmi. ora che le fiabe non si raccontano più - tutt’al più si leggono, ma soprattutto si vedono alla tv e nel dvd al computer - possiamo anche permetterci di raccontarle all’ora della merenda. che prima non esisteva, la merenda. Infatti, come si dice in sardo “merenda”? (gli ascoltatori riflettono, non trovano la parola, ripassiamo i contos storie in viaggio nomi con cui, nella variante locale del sardo, si indicano i pasti della giornata: immulzare, bustare, chenare. si verifica che la merenda non c’è. Molti dicono: «non ci avevo mai pensato») La parola non c’è, e se non c’è la parola non c’è neanche la cosa. nel senso che la merenda è un’invenzione moderna, del benessere, del baby boom. Prima non si aveva l’abitudine di mangiare tanto, anche perché non sempre ce n’era, di che mangiare. A volte era già tanto riuscire a fare due pasti, si era fortunati se c’era qualcosa a bustare e a chenare. Del resto anche le fiabe molto spesso parlano di questa situazione di mancanza di cibo: quante storie iniziano con la povera famiglia che non può sfamare i figli, e quante si concludono con il banchetto nuziale, dove la più grande felicità è l’abbondanza di cibo. E la più grande tristezza è la tavola vuota. 7
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