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Arcipelago Itaca 7

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ARCIPELAGO itaca<br />

letterature, visioni ed altri percorsi<br />

ideatore e curatore: Danilo Mandolini<br />

Inserire disegno di Luigi Bartolini


[…]<br />

Ma ei non brama che veder dai tetti<br />

sbalzar della sua dolce <strong>Itaca</strong> il fumo,<br />

e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.<br />

Omero, Odissea - Libro I<br />

AVVERTENZA.<br />

ARCIPELAGO itaca è un’iniziativa realizzata senza fini di lucro, resa disponibile nel solo formato digitale e distribuita gratuitamente, via e-mail e tramite<br />

internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 800 tra associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed estimatori.<br />

ARCIPELAGO itaca non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto non ha periodicità e non può pertanto essere ritenuta un prodotto<br />

editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07.03.2001.<br />

Testi ed immagini contenuti in ARCIPELAGO itaca sono riprodotti, quando possibile e per lo più, previo espresso consenso dei relativi autori (sono<br />

sempre e in ogni caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento).<br />

ARCIPELAGO itaca è un marchio registrato.


Le riproduzioni di dieci immagini fotografiche di<br />

Mario Giacomelli<br />

commentano questa settima apparizione di ARCIPELAGO itaca.<br />

In copertina: da La buona terra di Mario Giacomelli -<br />

Fotografie realizzate tra il 1964 e il 1966 nella campagna marchigiana<br />

L’ordine di presentazione degli autori di VOCI - eccezion fatta per le rubriche VETRINA,<br />

che è in apertura, e SOLO INEDITI, che è in chiusura - è alfabetico.<br />

Echi<br />

Un ricordo di Giovanni Giudici<br />

Brani da una nota commemorativa di Goffredo Fofi<br />

Testi da La vita in versi<br />

e Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

Voci<br />

VETRINA<br />

Il talento della malattia di Alessandro Moscè<br />

con una nota di Danilo Mandolini<br />

Marco Ercolani<br />

Fabio Franzin<br />

Mariangela Guàtteri<br />

Annalisa Teodorani<br />

SOLO INEDITI<br />

Da Tutto il tempo di Giovanni Commare<br />

Collage William Butler Yeats<br />

1 - 26<br />

27 - 36<br />

37 - 80<br />

81 - 120<br />

121 - 156<br />

157 - 181<br />

182 - 191<br />

192<br />

Echi<br />

Settima apparizione<br />

Un ricordo di Giovanni Giudici<br />

Brani da una nota commemorativa di Goffredo Fofi<br />

Testi da La vita in versi<br />

e Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

Voci<br />

VETRINA<br />

Il talento della malattia di Alessandro Moscè<br />

con una nota di Danilo Mandolini<br />

Marco Ercolani<br />

Fabio Franzin<br />

Mariangela Guàtteri<br />

Annalisa Teodorani<br />

SOLO INEDITI<br />

Da Tutto il tempo di Giovanni Commare<br />

Collage William Butler Yeats


www.mariogiacomelli.it<br />

Qui dove vivo, ad Osimo, c’era (forse c’è ancora) un circolo fotografico intitolato a Mario Giacomelli.<br />

Appena adolescente, mentre mi divertivo a scattare foto e a stamparle nella camera oscura della scuola, ebbi modo di conoscere la sua arte.<br />

Una piccola mostra a lui dedicata ed alcune sue foto esposte nella bacheca del suddetto circolo mi portarono a nutrire una forte curiosità<br />

verso l’opera di questo conterraneo. Lo scoprii così straordinariamente capace di scorgere ed “inchiodare” ogni minimo, indecifrabile<br />

(doloroso o felice) anelito del vivere nell’intervallo risibile di uno scatto, già molto conosciuto nel mondo e, inoltre, appassionato di poesia<br />

(lui stesso aveva scritto versi; il suo fotografare traeva spesso ispirazione dalle poesie che leggeva<br />

e diverse delle serie di immagini da lui realizzate e composte hanno il titolo di testi poetici più meno noti o riferimenti espliciti a questi stessi).<br />

Nel febbraio del 1997 mi ritrovai - insieme ad altri, trai quali anche Simone Giacomelli, figlio di Mario - a leggere dei miei versi<br />

nell’ambito di una rassegna intitolata C’è vita su marte. Eravamo a Senigallia, al Centro Sociale Molinello 2 e tra il pubblico,<br />

- lo riconobbi subito, con la sua folta capigliatura bianchissima - c’era anche lui: Mario Giacomelli. Al termine della serata mi avvicinai.<br />

Mi disse che gli era piaciuto ciò che aveva ascoltato. Ci stringemmo la mano e ci scambiammo un sorriso. Non fui capace di altro.<br />

Nel dicembre del 2000 venni a sapere della sua scomparsa. Nel corso del 2001 mi persi, letteralmente, nelle varie esposizioni<br />

della retrospettiva completa della sua opera che diversi comuni marchigiani avevano organizzato a pochi mesi dalla morte.<br />

«Io non credo che la morte chiuda certe storie, perché, se c'è tanto di strano in questi occhi che vedono e in queste orecchie che sentono,<br />

vi è posto per altre cose strane che non capisco.». È così, caro Mario; è proprio così come hai, semplicemente, affermato tu.<br />

Grazie a Simone Giacomelli per aver autorizzato l’utilizzo delle immagini e consentito, quindi, la realizzazione di questo piccolo tributo.<br />

Danilo Mandolini<br />

Mario Giacomelli<br />

Mario Giacomelli<br />

www.mariogiacomelli.it


Nasce a Senigallia (Ancona) nel 1925. È il maggiore di tre fratelli e all’età di 9 anni perde il padre. In<br />

questo periodo comincia a dipingere e a scrivere poesie. La madre trova lavoro come lavandaia<br />

presso il locale ospizio. Qualche anno più tardi, nel 1954, ritornerà in quel luogo e realizzerà le<br />

immagini della serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, titolo ripreso da Cesare Pavese. Avrà modo di<br />

dire in seguito che tra tutte le immagini da lui prodotte, quelle dell’ospizio di Senigallia gli hanno<br />

procurato le più grandi emozioni.<br />

La prematura perdita del padre lo costringe ad iniziare presto a lavorare come garzone in una<br />

tipografia di cui diventerà poi proprietario. Il tempo della scuola viene sovente impegnato in<br />

tipografia, la magia della stampa lo cattura e a tredici anni decide di fare il tipografo.<br />

La Tipografia Marchigiana affacciata sulla piazza che, nel centro di Senigallia, celebra con un<br />

monumento Papa Mastai Ferretti (Pio IX), ha cessato le sue attività soltanto nel dicembre del 1999.<br />

Il 1953 segna la svolta nella sua vita. Acquista infatti, per 800 lire, una macchina fotografica e il<br />

giorno<br />

giorno di Natale si reca sulla spiaggia. È solo di fronte al mare, scatta e muovendo la macchina ottiene la sua prima fotografia:<br />

L’approdo, un’immagine della battigia carezzata da un’onda come con un colpo di pennello.<br />

Vicino alla tipografia abita una persona che tanto peso ha avuto nell’inserimento delle Marche nel dibattito che, a livello<br />

nazionale e in quegli anni, si stava sviluppando attorno all’arte fotografica. Quest’uomo è Giuseppe Cavalli. Avvocato, uomo di<br />

lettere, profondo conoscitore di Croce, ma anche esperto di tecnica e storia della fotografia, fondatore nel 1947 con Leiss,<br />

Finazzi, Vender e Veronesi de “La Bussola”: storico circolo le cui idee crociane furono espresse nel Manifesto pubblicato da<br />

“Ferrania” nel maggio del 1947. Dopo alcuni anni il successo iniziale riscosso da “La Bussola” comincia a venir offuscato dal<br />

progressivo affermarsi di un altro gruppo storico, “La Gondola”, guidato da Paolo Monti e alle cui immagini molti giovani si<br />

avvicinano, colpiti dal grande vigore espressivo di queste. È forse proprio per contrastare l’ascesa de “La Gondola” che, nel<br />

1953, Giuseppe Cavalli fonda, proprio a Senigallia, il gruppo “Misa”, di cui Giacomelli e Piergiorgio Branzi rappresentano le<br />

“giovani speranze”. Nel “Misa” non si ravvisa la presenza egemone delle idee di Cavalli come ne “La Bussola”; si tratta, piuttosto,<br />

di un gruppo aperto dove ognuno è libero di condurre le ricerche che vuole; sono così inevitabili gli scontri, soprattutto tra<br />

Giacomelli e Cavalli stesso. Nel corso delle discussioni all’interno del “Misa”, Giacomelli conosce le opere di Paolo Monti,<br />

apprezzandole al punto di arrivare a dichiarare «Cavalli diceva che era il nemico pubblico numero uno, ma a me Monti faceva<br />

morire!». Sarà proprio Paolo Monti (in giuria con Roiter e Comisso, tra gli altri) a dargli la soddisfazione del premio al miglior<br />

complesso di opere al Concorso di Castelfranco Veneto nel 1955. «Apparizione è la parola più propria alla nostra gioia ed<br />

emozione, perché la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato» avrà modo di<br />

affermare in seguito lo stesso Monti.<br />

Del 1957-59 è la serie di immagini riprese a Scanno (acquisite dal MoMA di New York nel 1963) e che hanno, come titolo, il<br />

nome dello stesso paese. Giacomelli rimane affascinato dall’atmosfera fiabesca del luogo che aveva già colpito altri grandi<br />

fotografi,


fotografi, tra cui Henri Cartier Bresson. Sempre del 1957 è la serie Lourdes seguita, nel 1958, da Zingari, Puglia e, nel 1959<br />

(ripresa poi nel 1995), Loreto. Del 1960 sono le immagini di Mattatoio e l’anno successivo inizia a lavorare alla serie Io non ho<br />

mani che mi accarezzino il volto, titolo mutuato da uno scritto di David Maria Turoldo. Le immagini sono riprese nel Seminario<br />

Vescovile di Senigallia, che Giacomelli frequenta per un anno prima di dar forma alle foto vere e proprie. In questo ambiente i<br />

giovani seminaristi sono ripresi in momenti di ricreazione, le foto restituiscono l’incanto di uno spazio umano, ma al tempo<br />

stesso sospeso in una sorta di astrazione temporale.<br />

Nel 1963 inizia la grande stagione di mostre che porteranno le sue immagini nei più grandi spazi espositivi del mondo, dalla<br />

Photokina di Colonia (nello stesso anno) al MoMA di New York (nel 1964), dal Metropolitan, sempre di New York (nel 1967), alla<br />

Bibliothèque Nationale di Parigi (nel 1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (nel 1975) al Visual Studies Workshop di<br />

Rochester (nel 1979) e poi Venezia, Providence, Parma, ancora New York, di nuovo Colonia, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa,<br />

Bologna, Londra, Rivoli e fino alle più recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma (postuma).<br />

La serie La buona terra risale agli anni 1964-66. Questa è seguita da Caroline Branson (1971-73), lavoro ispirato all’Antologia di<br />

Spoon River di Edgar Lee Masters.<br />

Su testi del poeta Permunian si fonda Il Teatro della neve (1984-86, che recupera anche scatti ben più datati), seguita da Ninna<br />

Nanna e A Silvia, lavoro - quest’ultimo - pensato in origine per un programma televisivo. Nel 1986 muore la madre, alla quale<br />

aveva dedicato, nel 1955, un intenso ritratto. A Presa di coscienza sulla natura, la grande serie di paesaggi realizzata nelle<br />

campagne marchigiane, lavora parallelamente, dal 1954 al 2000, a tutte le altre opere.<br />

Tra i molti lavori degli ultimi anni si ricordano: Io sono nessuno (1992-94), su testi di Emily Dickinson, La notte lava la mente<br />

(1994-95), Questo ricordo lo vorrei raccontare (1999-2000) e Bando (1997-99), ciclo di immagini in serie di quattro, ispirate ad<br />

una poesia di Sergio Corazzini e presentato nel 1999 alla XXIV Biennale d’Arte contemporanea di Alatri.<br />

Il 25 novembre 2000, all’età di 75 anni, si spegne nella sua casa di Senigallia.<br />

«L'immagine è spirito, materia, tempo, spazio, occasione per lo sguardo. Tracce che sono prove di noi<br />

stessi e il segno di una cultura che vive incessantemente i ritmi che reggono la memoria, la storia, le<br />

norme del sapere.»<br />

«…parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi.<br />

A me interessano i segni che fa l'uomo senza saperlo… Solo allora hanno un significato per me,<br />

diventano emozione.<br />

In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose<br />

nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si<br />

comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce…»


«I giovani come Giacomelli, nutriti da uno stile asciutto e castigato, hanno inteso immediatamente la caducità, la<br />

friabilità, di questo orecchiato Neo-realismo (…) hanno voluto approfondire il loro linguaggio espressivo, allo scopo di<br />

esulare dal campo - così schematico e convenzionale - della realtà, per toccare quello della verità. Una verità loro, però,<br />

non imposta da mode, da maniere altrui (…) Giacomelli non è un formalista (…) Il fotografo di Senigallia ha uno stile, il<br />

che significa che ha un proprio linguaggio e dunque un messaggio da comunicare al pubblico. Tale messaggio è tutt'altro<br />

che sradicato dalla realtà, dalla verità umana. Si pensi al magnifico reportage Vita d'ospizio: il più crudo, il più lancinante<br />

messaggio di pietà che la nostra fotografia ci abbia mai dato. Si pensi ai suoi nudi, non edonistici, non decorativi, non<br />

estetizzanti a quella maniera paesana e volgare che tanto disprezziamo: nudi che entrano nel mistero e nell'angoscia del<br />

sesso e comunicano una verità universale, insopprimibile: quella della tristezza, della gioiosa tristezza della carne. Si<br />

pensi, infine, alla purezza delle sue nature morte, al fulgido incanto dei suoi paesaggi. Questo è formalismo? Signori qui<br />

si vede male, anzi non si vede addirittura. Forse perché si è incapaci di cogliere la poesia di queste immagini. Poesia che<br />

esula anche dai confini - così tecnicistici, talora - della fotografia. Lo diceva (…) un collaboratore (…) su queste colonne:<br />

Giacomelli è un "caso" che poco ha da spartire con la fotografia. Un autore che penetra nel campo dell'espressione<br />

artistica, diremmo, in piena regola, con uno stile suo, inconfondibile, lirico (…) Giacomelli ha la stoffa del fotografo<br />

classico; il documento è trascurato per assumere classico; poi un senso profondo, vastissimo. Egli è pure uno dei pochi fotografi che abbia qualcosa da esprimere e che<br />

l'esprima con sentimenti suoi, e con uno stile personale (…) ecco dunque un vero artista della fotografia, le cui immagini non invecchieranno e figureranno benissimo<br />

in un volume - ancora da scrivere, purtroppo - dell'espressione fotografica, in Italia e all'estero.».<br />

Giuseppe Turroni, "Photo Magazin“, per la mostra alla biblioteca comunale di Milano, 1959.<br />

* * *<br />

«Vita d'ospizio. Ecco senza dubbio il vertice dell'esposizione. Questo servizio su uno ospizio di vecchi mette in valore tutto il genio di Mario Giacomelli. È per mezzo<br />

della poesia che il fotografo ha scavato il muro della desolazione e della solitudine, è per mezzo della comunicazione e un filo di delirio che egli ha penetrato questi<br />

esseri strappati alla vita attiva, alle speranze, all'avvenire (… ) ed è per questo che occorre ricordare l'esposizione di Giacomelli, il realismo reinventato dagli italiani<br />

verso l'anno 1944, si è a poco a poco, trasformato, grazie a dei cineasti come Rossellini o Visconti e a certi fotografi, in una conquista del reale.».<br />

S. Manbel, “Giovane fotografia”, per la mostra allo studio 28 di Parigi, 1962.<br />

* * *<br />

«L'intervento del suo occhio, del suo occhio-obbiettivo, scompone tutte le pianificazioni dell'abitudine, procede ad una rilettura del reale rivelandone una insospettata<br />

pregnanza di sensi riposti (…) infinite possibilità di trasformazione che sono insite negli oggetti quando essi sono veramente "visti", cioè focalizzati come fenomeni<br />

puri, insieme di facoltà sensoriali, al di là del loro uso pragmatico, della loro capacità di orientare i nostri comportamenti (…) l'obbiettivo (…) non più strumento per<br />

restituire una realtà esatta, addomesticata per i nostri bisogni, ma strumento per "obbiettare" autenticamente la realtà, gettarla di fronte, distanziarla e riceverla<br />

come sensibilità assoluta. Proviamo a fare un piccolo inventario delle metamorfosi, attingendole a quel grande tema-chiave di Giacomelli che si potrebbe definire della<br />

"terra desolata": le righe tracciate dalle spighe di un campo di grano diventano fili di una strana sostanza lanosa; la terra diventa un’insospettata materia lavica,<br />

pumicea o di altro indefinibile tessuto corroso e spumoso; un disegno nella neve diventa una improbabile radiografia della terra, la struttura di una foglia, o altro<br />

ancora. Questo potere d'intervenire sulla natura è così drastico e dittatoriale da mettere persino in discussione la natura stessa della fotografia, quello che si dice il suo<br />

specifico e che ha i suoi parametri nella lezione dei grandi reporter come Capa e Cartier-Bresson; i quali potrebbero apparire persino deludenti nel loro progetto di<br />

bloccare l'esistente dentro il tempo; mentre per un fotografo come Giacomelli, col suo prepotente istinto figurativo, si tratta di bloccare forme assolute fuori dal<br />

tempo.»<br />

Sandro Genovali, Un artista senigalliese: Mario Giacomelli, “Controvento”, 1978.


«Mario Giacomelli, marchigiano, affettuoso "allievo" di Cavalli, si è costruito, nel panorama della fotografia mondiale, un'area di originalità e di indiscusso valore. Nella<br />

vastissima letteratura fotografica molti critici hanno autorevolmente voluto vedere nelle sue opere riflessi di "espressionismo figurativo”; hanno parlato di visione<br />

panteistica del reale o addirittura di autoanalisi in una sorta di rapporto freudiano terra madre-matrigna. Ritengo però che il miglior approccio alle fotografie che<br />

vengono proposte in questa mostra sia sgombrare la mente da schematismi intellettualistici e, dall'altra parte, guardarsi dal facile inganno della prima impressioneemozione.<br />

Vedere nelle vecchine dell'ospizio una denuncia sociale, lasciarsi impressionare dalle inquadrature del Sud, troppo spesso sacrario della retorica, o fermarsi<br />

alla suggestione visiva delle interpretazioni di Spoon River, significa tradire Giacomelli. Bisogna lasciar parlare l'immagine nella sua purezza; e allora i temi di quel<br />

mondo (che sono i temi della nostra storia: la natura, i malati, i pretini, i vecchi e gli innamorati) diranno la partecipazione appassionata dell'artista al dolore universale<br />

della vita. Ciò avviene ad esempio, in modo privilegiato nel paesaggio, dove la violenza del linguaggio degli alberi si tramuta in infinita tristezza. Lo stesso Giacomelli<br />

suggerisce una lettura del proprio rapporto con la natura, quando parla di quel paesaggio che ad ogni primavera rinasce, mentre l'uomo inesorabilmente muore ogni<br />

giorno. Ma anche quello che può apparire come il più spietato documentarismo si sposa, in una fusione perfetta, con la limpidezza dello stile, senza sbavature, senza<br />

sadismi, senza sentimentalismi. (…)».<br />

Mina Cavalli, invito alla mostra Mario Giacomelli, Lucera, 1982.<br />

* * *<br />

«Il fotografo di paesaggi ruvidi e puri, spogli di accenti naturalistici, con le loro incantate geometrie, la loro matericità così tipica dell'informale, il libero scoccare<br />

dell'energia, ma anche dell'angoscia nello spazio (…) senso fortissimo del livello sintattico della composizione (…) esigenza a far ricorso ad elementi puri, (…)<br />

conseguente vagheggiamento dell'Esprit de geometrie (…) bisogno di massima economicità. Tutte le fotografie di Giacomelli sono metafore, ariose, ma anche violente,<br />

di un racconto interiore. Come tali vanno lette: grafico di un paesaggio dell'anima, tormentato e appassionato. Nelle scabre campiture dei paesaggi illuminate da una<br />

forte accentuazione chiaroscurale è la stessa inquietudine interna, la stessa sottile disperazione ma anche la profonda "pietas" che rinveniamo nel bue scannato, nel<br />

volto rugoso di un vecchio, come nella solitudine di tre monachelle in riva al mare, e la struggente intimità di due innamorati. (…)».<br />

Michela Vanon, Mario Giacomelli. Sogni e incubi di un poeta, “Photo Italia”, 1984.<br />

* * *<br />

«Le fotografie vivono nel rapporto reciproco, nel loro ritmarsi in sequenza, con tensioni e torsioni che sono, per analogia, quelle del verso poetico. L’evocazione è<br />

l'altra dimensione di queste opere nelle quali qualsiasi immagine, con forza, denuncia il suo non esistere in quanto tale ma essere rimando ad altro, che è musicalità ed<br />

emozione. emozione. Giacomelli, in un certo senso, ha ottenuto il silenzio dell'immagine, ne ha distrutto la perentorietà, l'imporsi con<br />

la sua fisicità per trasformarla in allusione dinamica, denunciarne il suo carattere fenomenico. Diventando così, le sue<br />

immagini, eidetiche nel senso definito da Husserl di ciò che è al di là della percezione sensibile in quanto relativo alle<br />

essenze. Le fotografie non riprendono mai immagini provocate o presenti nelle poesie. Anche in questo caso le<br />

reinventano. Come non esistono immagini/simbolo, ma solo immagini/segno. La paratassi è ottenuta non con la ripetizione<br />

di un immagine chiave, ma ancora una volta per evocazione, per allusione.»<br />

Mario Giacomelli racconta: L'Infinito; Passato; Ninna Nanna, cat. Mostra Comune di Sorbolo e Associazione Camera Works,<br />

1991.<br />

* * *<br />

«…le fotografie di Giacomelli sono però lungi dall'essere semplici documenti. Egli fotografa e stampa con gran senso<br />

d'avventura, usando alto contrasto, composizioni inaspettate e altri espedienti per trasformare le sue immagini da semplici<br />

documenti in opere d'arte ricche ed evocative. A volte appare come se avesse gettato un velo magico sopra i suoi soggetti,<br />

producendo immagini che sembrano mescolare descrizione, memoria e sogno in parti uguali…».<br />

Charles Hagen, “The New York Times“, per la mostra alla James Danziger Gallery, 1993.


Da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -<br />

Fotografie realizzate tra il 1954 e il 1983<br />

all’ospizio di Senigallia


echi


Da Scanno -<br />

Fotografie realizzate nel 1957 e nel 1959<br />

a Scanno, Abruzzo


Giovanni Giudici<br />

Giovanni Giudici è stato poeta, prosatore, saggista, traduttore e giornalista. Letterato, insomma, a “tutto tondo”, personalità intellettuale<br />

davvero particolare che si è concretamente palesata anche attraverso l’impegno lavorativo svolto per decenni all’interno della Olivetti (tra<br />

Ivrea, Torino e Milano e sempre occupandosi di comunicazione). Probabilmente esaustiva della sua esperienza di uomo (e, aggiungeremmo, di<br />

“uomo di lettere”) è la breve definizione che di lui viene data nel risvolto di copertina del libro Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

[Grafiche Fioroni, Casette d’Ete (AP), 2004]: «In ogni ambito, Giudici ha portato il suo raro stigma di civiltà, come se l’impegno della vita<br />

trovasse il suo giusto nella parola e l’amore della propria lingua ne contenesse la salvezza…».<br />

Si propone, a seguire e introdotta dalla quasi totalità di una bella ed appassionata nota di Goffredo Fofi, una scelta di testi da La vita in<br />

versi, il libro che - uscito da Mondadori nel 1965 - impose definitivamente Giudici all’attenzione dei critici e dei lettori, e dal già citato, e poco<br />

noto ai più, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002, il volume che ha preceduto il silenzio degli ultimi anni della sua vita e che ci<br />

dona una produzione in versi, in prosa e nel campo della traduzione parallela a quella ufficiale e fino a quel momento in buona parte inedita.<br />

Si tratta di una selezione che è sì polarizzata su due estremi temporali distanti tra loro, ma che appaiono come di assoluto rilievo nella vicenda<br />

artistica del poeta de Le Grazie. D’altronde, non si può non testimoniare - qui - anche tutta l’oggettiva difficoltà nel dar conto in maniera<br />

completa, in un qualsiasi spazio che non sia un’antologia appositamente pensata, di un’opera così vasta come quella che Giudici ci ha lasciato.<br />

A guidarci nella redazione delle pagine successive è stato comunque, in primis, il grande desiderio di voler dedicare un sentito omaggio a<br />

quell’autore che, forse più originalmente di altri nel novecento italiano, ha saputo avvicinare la poesia al quotidiano “atto” del vivere.<br />

Giovanni Giudici


Giovanni Giudici<br />

1<br />

Nacque a Le Grazie (La Spezia) il 26 giugno del 1924.<br />

Dal 1933 al 1955 è vissuto a Roma, dove si è laureato in Lettere; poi, assunto alla<br />

Olivetti, ha lavorato ad Ivrea, a Torino, quindi a Milano fino al 1980. In quella<br />

fucina di cultura e di intellettuali che fu in quegli anni la Olivetti ebbe occasione<br />

di conoscere, tra gli altri, Paolo Volponi, Nello Ajello, Giovanni, Arpino, Beppe<br />

Fenoglio, Riccardo Musatti e Franco Fortini.<br />

Vastissima è stata la sua attività letteraria. Si è infatti cimentato nella scrittura in<br />

versi, in prosa, nella saggistica, nella traduzione e, marginalmente, nella<br />

drammaturgia.<br />

La sua produzione poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita (cura e<br />

commento di Rodolfo Zucco, introduzione di Carlo Ossola, cronologia<br />

biobibliografica di Carlo Di Alesio, Mondadori, 2000); le sue prose sono<br />

pubblicate in Frau Doktor (Mondadori, 1989); le sue opere saggistiche sono<br />

riunite nei volumi La letteratura verso Hiroshima (Editori Riuniti, 1976), La dama<br />

non cercata (Mondadori, 1985), Andare in Cina a piedi (e/o, 1992) e Per forza e<br />

per amore (Garzanti, 1996).<br />

In veste di traduttore ha trasposto in italiano, tra gli altri, Pound, Frost, Sylvia<br />

Plath e Puškin.<br />

Tra i molti riconoscimenti che hanno accompagnato le sue opere si ricordano i<br />

premi: Viareggio (1969), Librex-Montale (1986), Puškin (1986), Bagutta (1992) e<br />

Feltrinelli (1997).<br />

Ha collaborato con “Comunità Rinascita”, il “Corriere della sera” e, con<br />

continuità ventennale, con “L’Espresso” e “L’Unità”. Negli anni Ottanta è anche<br />

stato editorialista del “Secolo XIX”.<br />

Nel 1989 è tornato a risiedere in Liguria: prima a La Serra di Lerici e infine nel<br />

suo paese natale.<br />

È scomparso all’ospedale della Spezia la notte del 24 maggio 2011.


Giovanni Giudici<br />

2<br />

LE OPERE<br />

Poesia<br />

• Fiorì d'improvviso (Edizioni del Canzoniere, Roma, 1953)<br />

• La stazione di Pisa (Istituto Statale d'Arte di Urbino, Urbino, 1955)<br />

• L'intelligenza col nemico (All'insegna del Pesce d'Oro, Milano, 1957)<br />

• L'educazione cattolica (All'insegna del Pesce d'Oro, Milano, 1963)<br />

• La vita in versi (Mondadori, Milano, 1965)<br />

• Omaggio a Praga (All'insegna del Pesce d'Oro, Milano, 1968)<br />

• Autobiologia (Mondadori, Milano, 1969)<br />

• O beatrice (Mondadori, Milano, 1972)<br />

• Il male dei creditori (Mondadori, Milano, 1977)<br />

• Il ristorante dei morti (Mondadori, Milano, 1981)<br />

• Lume dei tuoi misteri (Mondadori, Milano, 1984)<br />

• Salutz (Einaudi, Torino, 1986)<br />

• Prove del teatro (1953-1988) (Einaudi, Torino, 1989)<br />

• Fortezza (Mondadori, Milano, 1990)<br />

• Poesie. 1953-1990 (Garzanti, Milano, 1991)<br />

• Quanto spera di campare Giovanni (Garzanti, Milano, 1993)<br />

• Empie stelle (Garzanti, Milano, 1996)<br />

• Eresia della sera (Garzanti, Milano, 1999)<br />

• I versi della vita (Mondadori, Milano, 2000)<br />

• Da una soglia infinita [Grafiche Fioroni, Casette d’Ete (AP), 2004]<br />

Antologie<br />

• Poesie scelte 1957-1974 (a cura di F. Bandini, Mondadori, Milano, 1975)<br />

• Un poeta del golfo. Versi e prose (Longanesi, Milano, 1995)


Giovanni Giudici<br />

3<br />

LE OPERE<br />

Narrativa<br />

• Frau Doktor (Mondadori, Milano, 1989)<br />

Saggistica<br />

• La letteratura verso Hiroshima (Editori Riuniti, Roma, 1976)<br />

• La dama non cercata (Mondadori, Milano, 1985)<br />

• Andare in Cina a piedi (e/o, Roma, 1992)<br />

• Per forza e per amore (Garzanti, Milano, 1996)<br />

Traduzioni<br />

• Addio, proibito piangere (Einaudi, Torino, 1982)<br />

• Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (Mondadori, Milano, 1984)<br />

• A una casa non sua (Mondadori, Milano, 1997)<br />

• Eugenio Onieghin di Aleksandr S. Puškin in versi italiani<br />

(Nuova edizione riveduta, Garzanti, Milano, 1999)<br />

• Vaga lingua strana (Garzanti, Milano, 2003)<br />

Per ragazzi<br />

• Scarabattole (Mondadori, Milano, 1989)<br />

Teatro<br />

• Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d'esta stella - Satura drammatica<br />

(Costa & Nolan, Genova, 1991)


Da Ricordo di Giovanni Giudici<br />

Di Goffredo Fofi<br />

«Benigno o no, lettore mio, / Come o quale tu sia stato, / Da amico voglio dirti addio. / Qualunque cosa abbia<br />

cercato / In queste strofe buttate là, / O di memorie un’ansietà, / O sollievo dalle fatiche, /Quadri vivi, parole<br />

ardite, / Qualche grammaticale errore, / Dio voglia che in questo libretto, / Per i tuoi sogni, per diletto, / Per<br />

recensioni, per il cuore, / Un granello abbia rinvenuto. / E qui ti lascio e ti saluto!».<br />

Sono i versi che compaiono alla fine dell’Eugenio Onieghin di Puškin, quelli con i quali Puškin si congedava dal suo<br />

lettore. La traduzione (del 1990, per Garzanti) è di Giovanni Giudici, il poeta ligure-milanese da poco scomparso,<br />

una traduzione che secondo Folena andava giudicata «come una poesia sua», di Giudici. E in effetti il colloquio di<br />

Giudici con Puškin ha dato origine a un’esperienza che sembrò, a chi leggeva l’Onieghin conoscendo la precedente<br />

versione di Lo Gatto in endecasillabi, una musica nuova, una riappropriazione della bellezza del verso grazie alla<br />

sua musicalità: cantabile era la poesia di Giudici, e cantabile quella originale di Puškin. Cantabile, ironica e<br />

autoironica, “facile” e “democratica” come facili e democratici sono i classici se riportati alla lingua comune<br />

quando questo è possibile, comune come lo era quando essi scrivevano, in una leggibilità liberata dalla pesante<br />

polvere del tempo.<br />

Giovanni Giudici è stato uno dei nostri maggiori poeti, di una stagione grande […]. La generazione è quella dei<br />

Sereni, dei Fortini, cresciuta tra Montale e Noventa, e nel caso di Giudici più Noventa che Montale. È la<br />

generazione che personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare da quando, richiamato in Italia da<br />

Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi per fare con loro i “Quaderni piacentini”, ho trovato tra i collaboratori più<br />

assidui della rivista Fortini e Sereni, Giudici e Zanzotto, Bandini, Raboni e Majorino. Con alterne vicende ne sono<br />

nate amicizie durature, fatte anche - per lo scalpitare della gioventù (arrivavo da Parigi forte di nouvelle vague e di<br />

nascente situazionismo, e mia base era la Torino dei “Quaderni rossi” e degli immigrati) - di occasionali scontri<br />

(soprattutto con Fortini, ovvio, e quasi sempre con grandi riaccostamenti) e di progressivi distacchi (da Raboni, il<br />

meno “aperto” di quel gruppo). Il poeta che più avevo amato prima di conoscerli era stato Sereni, concentrazione<br />

densa, non pacificata, ma quello di cui diventai più facilmente amico fu Giudici che, per aiutarmi nel mio<br />

inserimento milanese, mi faceva tradurre testi pubblicitari dal francese all’italiano e viceversa per l’Olivetti, per cui<br />

lavorava. Giudici mi voleva come suo collaboratore fisso, perché, nello stesso ufficio, avremmo potuto alternarci e<br />

prendere il nostro tempo, parlare di tutto, ma per farmi assumere dovevo prima passare da Ivrea. Un’amica mi ci<br />

accompagnò in macchina da Torino costringendomi a mettere giacca e cravatta del marito, e lì due simpatici<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

4


Da Ricordo di Giovanni Giudici<br />

laureati di Harvard mi fecero un colloquio al quale, credo, risposi con un candore per loro inatteso («Perché<br />

l’Olivetti?» «Perché sono disoccupato»). Dopo il colloquio, mi dissero che Volponi, direttore del personale, voleva<br />

conoscermi e mi accompagnarono da lui, che mi accolse espansivo, contento perché, essendo lui di Urbino e io di<br />

Gubbio, antica colonia dei Montefeltro, parlavamo un dialetto vicino ed eravamo cresciuti sullo stesso sfondo<br />

appenninico e contadino (ed entrambi, scoprimmo, conoscevamo assai bene per motivi di famiglia il mondo<br />

operaio delle fornaci di laterizi). Tornato a Milano, seppi da Giovanni che Volponi mi voleva a Ivrea, «per annoiarsi<br />

di meno a fare il dirigente» aggiunse Giovanni, ma io proprio non me la sentii: ero tornato in Italia da poco, ero<br />

infervorato dal progetto dei “Quaderni” e preferii il precariato milanese alla sicurezza eporediese, ma intanto<br />

l’amicizia con Giovanni si era consolidata, ed è continuata fino a quando la malattia non lo ha chiuso<br />

nell’incoscienza già molti anni fa, mentre quella con Paolo e sua moglie Giovina nacque più tardi, quando anche<br />

loro si fecero milanesi, una volta chiusa per sempre la grande stagione olivettiana.<br />

Giovanni amava la sincerità, e non nascondeva a nessuno degli amici i propri dilemmi e le scoperte, pubbliche e<br />

private. C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di<br />

auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e<br />

però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti).<br />

Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai<br />

bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.<br />

Era infatti Fortini («sant’uomo, ma che pazienza!» diceva Grazia, citando Manzoni) un punto di riferimento per<br />

tutti, tra poesia e politica, di cui mi rendo conto oggi perché ci fosse così indispensabile. Giovanni era il contrario<br />

di Fortini (e che io chiami per nome l’uno e per cognome l’altro, anche se ho forse frequentato di più il secondo,<br />

vuol dire qualcosa...) ma a me sembrava che Giovanni fosse il più forte, perché sapeva andar d’accordo col suo<br />

super-io, accettando (ancora una volta, cattolicamente) i propri limiti, fidando nelle possibilità dell’uomo di<br />

cambiare qualcosa, perlomeno in quella precisa epoca storica che prometteva grandi cambiamenti, ma non<br />

trovandosi affatto spaesato e sconcertato più tardi di fronte al fallimento di quella promessa. Erano stati entrambi<br />

molto toccati, per esempio, e non solo loro, da Esperienze pastorali e da Lettera a una professoressa.<br />

Collaborò assiduamente con poesie, testi e consigli al lavoro di “Linea d’ombra”, negli infelici e ottusi anni ottanta<br />

della sconfitta, gli anni di Craxi e del nascente berlusconismo, e più tardi fu tra i sostenitori di “La Terra vista dalla<br />

Luna” (nel primo numero vi comparvero le poesie bene auguranti degli amici Zanzotto, Bandini, Giudici, Carmelo<br />

Bene e Amelia Rosselli, probabilmente l’ultima che ella scrisse) e quando fece 79 anni ci donò, per “Lo straniero”,<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

5


Da Ricordo di Giovanni Giudici<br />

delle bellissime traduzioni da Frost, Pound, Orten, Plath, con la stessa generosità e la stessa semplicità<br />

dimostrata al tempo di “Linea d’ombra”. Perché oltre che grande poeta Giudici è stato anche un grande<br />

traduttore da più lingue (spesso con l’aiuto di amiche che ne erano esperte).<br />

La sua ultima raccolta garzantiana venne a presentarla a Roma in un pomeriggio di pioggia dirotta che<br />

allontanò molti ammiratori. Si era in pochi, e si stabilì un dialogo allegro tra lui e noi pochi venuti a<br />

festeggiarlo. Leggeva versi dedicati al suo passato giovanile del tempo di guerra e di dopoguerra (l’anteprima<br />

di Roma città aperta, la fiducia politica nella nascente Repubblica...), anche qui con simpatia e ironia verso<br />

tutti e verso se stesso. Ma l’ironia nascondeva stavolta - come nelle sue poesie più belle - anche la nostalgia<br />

per uno ieri di speranza e una più dolente coscienza delle contraddizioni tra le aspirazioni private e le<br />

collettive, tra le aspirazioni collettive e la Storia. La leggibilità dei suoi versi gli ha forse nuociuto presso molti<br />

critici “iper” e ’63, ma ha fatto di lui e continuerà a farne un amico per i suoi lettori, un Poeta grande e vicino,<br />

di alta morale e di eccezionale sensibilità per l’humus profondo della nostra cultura, anche antropologica, e<br />

per la necessità e dignità di una Poesia che fosse anche, come in lui è stata, al contempo civile e religiosa. Con<br />

ironia. […]<br />

Testo apparso, nel luglio del 2011, in “LO STRANIERO - ARTE CULTURA SCIENZA SOCIETA’”<br />

http://lostraniero.net/archivio-2011/130-luglio-2011-n133/678-ricordo-di-giovanni-giudici.html<br />

La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

6


Da La vita in versi<br />

Con tutta semplicità<br />

Con tutta semplicità devo dire<br />

che un tempo sembrava lontano<br />

il tempo in cui morire.<br />

Ora non è più un pensiero strano.<br />

Ora è sempre lontano (almeno spero) ma<br />

posso già prefigurarmelo. Ho l'età<br />

in cui dovrei fare ciò che volevo<br />

fare da grande e ancora non l'ho deciso.<br />

Faccio quel che faccio, altra scelta non ci sarà:<br />

leggo di miei coetanei che muoiono all'improvviso.<br />

Il benessere<br />

Quanti hanno avuto ciò che non avevano:<br />

un lavoro, una casa - ma poi<br />

che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.<br />

Ancora per poco sarò tra voi.<br />

*<br />

Dal cuore del miracolo<br />

Parlo di me, dal cuore del miracolo:<br />

la mia colpa sociale è di non ridere,<br />

di non commuovermi al momento giusto.<br />

E intanto muoio, per aspettare a vivere.<br />

Il rancore è di chi non ha speranza:<br />

dunque è pietà di me che mi fa credere<br />

essere altrove una vita più vera?<br />

Già piegato, presumo di non cedere.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

7


Da La vita in versi<br />

Le ore migliori<br />

I<br />

Le tue ore migliori… ma non sono per me:<br />

sono le ore del lavoro domestico,<br />

che è troppo trascurabile realtà<br />

per essere degno di storia. Progredisce<br />

la storia, infatti, ma il tuo lavoro<br />

semplicemente ricomincia e finisce.<br />

Le tue ore migliori sono della mattina,<br />

quando ti lascio e tento per vie diverse<br />

variare l’obbligato itinerario<br />

che sempre da un punto parte e ad uno arriva.<br />

Batte il sole al balcone di cucina,<br />

prima di cominciare tu guardi in strada.<br />

Io guardo invece nel fondo del mio cortile,<br />

mentalmente bisbiglio Dirigere<br />

et sanctificare, la breve preghiera,<br />

mia virtuosa abitudine prima di lavorare:<br />

lucida è la mente al quotidiano servizio<br />

e la stanchezza impossibile appare.<br />

Intanto passano le tue ore migliori,<br />

quando potresti parlarmi e sorridere.<br />

Tali bruciavano gli anni di gioventù<br />

nell’aspettare più sereni giorni:<br />

e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola<br />

(i figli sono a scuola) e aspetti che torni.<br />

II<br />

Dice decoro la tavola apparecchiata,<br />

possiamo avere tutto quel che vogliamo:<br />

all’opulenza mancano forse i fiori.<br />

Il buon cibo conforta dopo l’onesta fatica.<br />

Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo<br />

troppo avidamente, per fare presto.<br />

E ricominci: i necessari rifiuti<br />

in un sol piatto raccogli, riempi<br />

il lavandino ove galleggiano sughi,<br />

affondano fili di pasta, bucce. Adempi<br />

la tua virtù necessaria, riordini<br />

ancora una volta la casa. Io ad altro<br />

lavoro attendo, al mio ufficio, sperando<br />

di fornir l’opra e non me, anzi che giunga la sera,<br />

per godermi la luce residua e, di me<br />

stesso padrone, qualche ora d’avanzo.<br />

Ma non sarà quella la vita vera:<br />

sono queste ore migliori e non ci appartengono.<br />

Eccoci ancora intorno alla mensa serale,<br />

tra le risse dei figli allegramente spietate:<br />

e nuovamente si guasta la linda cucina,<br />

la tovaglia è chiazzata di vino. «Lascia<br />

così - suggerisco - penserai domattina<br />

a tutto. Adesso resta un poco con me».<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

8


Da La vita in versi<br />

III<br />

Nessuno ci corre dietro. Ma tu<br />

macchinalmente solitaria persisti<br />

nel ritmo ordinario in cui ogni ora<br />

ha la sua norma: sai già che il mattino avrà stanze<br />

disfatte e l’odore del sonno e l’aria<br />

che un brivido nebbioso vi porta o il sole<br />

nella bella stagione. Bisogna dunque concludere<br />

tutto perché tutto ricominci,<br />

dopo un riposo di affrante bestiole,<br />

col primo atto del domani:<br />

vivrà la vita per chi non ha tempo<br />

di vivere. Così anche ora da me ti allontani,<br />

spingi cassetti, fai scattare sportelli,<br />

ammàini l’avvolgibile con fragore:<br />

e siamo soli con tutte le storie<br />

dei libri che promettevano<br />

in cambio di virtù felicità.<br />

Così finiscono le tue ore migliori,<br />

quando da un capo all’altro della città<br />

si chiudono i portoni dei casamenti:<br />

e in buie menti un comune pensiero<br />

apre un barlume del meglio a venire…<br />

così non riconosci l’inganno<br />

di chi ci ha fatti a servire.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

9


Da La vita in versi<br />

Quando piega al termine<br />

Quando piega al termine l’età,<br />

la nostra età, l’età del mondo, quando<br />

aspettare il nulla che accadrà<br />

è chiaramente un inganno - si mette al bando<br />

volontario colui che il sorriso rifiuta<br />

e non sopporta di essere vile<br />

più, non chiede più complici e muta<br />

persona diventa, facile preda ostile.<br />

Guarderò indietro<br />

Guarderò indietro, non avrò più paura.<br />

Dimenticare amici, dimenticare sventura<br />

o ventura, non serve, cambiare accento,<br />

sapere tutte le giuste notizie,<br />

dunque non serve. Se è da rifare il mondo,<br />

datemi la mia parte, fissatemi il tempo,<br />

controllatemi, lavorerò… Ma qui un po’ di vento<br />

già mi sbalestra, mi scopre se mi nascondo,<br />

mi coglie in fallo: basta un niente a tradirti,<br />

e sbagliare da soli non dà esperienza.<br />

Cominceremo daccapo, ma qui è già sabato sera,<br />

credo che il diavolo esiste, volevo dirti.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

10


Da La vita in versi<br />

Una sera come tante<br />

Una sera come tante, e nuovamente<br />

noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro<br />

settimo piano, dopo i soliti urli<br />

i bambini si sono addormentati,<br />

e dorme anche il cucciolo i cui escrementi<br />

un’altra volta nello studio abbiamo trovati.<br />

Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.<br />

Una sera come tante, e i miei proponimenti<br />

intatti, in apparenza, come anni<br />

or sono, anzi più chiari, più concreti:<br />

scrivere versi cristiani in cui si mostri<br />

che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;<br />

due ore almeno ogni giorno per me;<br />

basta con la bontà, qualche volta mentire.<br />

Una sera come tante (quante ne resta a morire<br />

di sere come questa?) e non tentato da nulla,<br />

dico dal sonno, dalla voglia di bere,<br />

o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,<br />

né dalle mie impiegatizie frustrazioni:<br />

mi ridomando, vorrei sapere,<br />

se un giorno sarò meno stanco, se illusioni<br />

siano le antiche speranze della salvezza;<br />

o se il mio corpo vile io soffra naturalmente<br />

la sorte di ogni altro, non volgare<br />

letteratura ma vita che si piega al suo vertice,<br />

senza né più virtù né giovinezza.<br />

Potremo avere domani una vita più semplice?<br />

Ha un fine il nostro subire il presente?<br />

Ma che si viva o si muoia è indifferente,<br />

se private persone senza storia<br />

siamo, lettori di giornali, spettatori<br />

televisivi, utenti di servizi:<br />

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,<br />

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,<br />

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene<br />

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.<br />

È nostalgia di futuro che mi estenua,<br />

ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!<br />

Da quanti anni non vedo un fiume in piena?<br />

Da quanto in questa viltà ci assicura<br />

la nostra disciplina senza percosse?<br />

Da quanto ha nome bontà la paura?<br />

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura<br />

che dice: domani, domani… pur sapendo<br />

che il nostro domani era già ieri da sempre.<br />

La verità chiedeva assai più semplici tempre.<br />

Ride il tranquillo despota che lo sa:<br />

mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.<br />

C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

11


Da La vita in versi<br />

Da L’educazione cattolica<br />

I<br />

Nelle sole parole che ricordo<br />

di mia madre - che «Dio<br />

- diceva - è in cielo in terra<br />

e in ogni luogo» - la gutturale gh<br />

disinvolta intaccava il luò d’un l’uovo<br />

contro il bordo d’un piatto<br />

- serenamente dopo il cielo in terra<br />

dal guscio separato in due metà<br />

scodellava sul fondo il tuorlo intatto<br />

- la madre sconosciuta parlava<br />

religione entrava<br />

nella mia tenera età.<br />

III - Il catechismo illustrato<br />

L’ira era chiara nel catechismo illustrato:<br />

uno mostrava il pugno, sembrava gridasse.<br />

Il superbo passava diritto, il goloso mangiava,<br />

l’avaro ricontava le sue monete d’oro,<br />

l’accidioso era scalzo e contro un muro dormiva,<br />

un bieco era l’invidia che a due felici guardava.<br />

Ma non altrettanto chiaro il vizio della lussuria:<br />

accanto a una finestra - TRISTI EFFETTI<br />

una nota ammoniva<br />

- di caffellatte o di brodo fumante porgeva la tazza<br />

la donna curva all’uomo adagiato in poltrona.<br />

Erano, soli in casa, due vecchietti<br />

e oltre quei vetri - probabilmente - una piazza.<br />

*<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

12


Da La vita in versi<br />

*<br />

VI - Piazza Saint-Bon<br />

Sbràita decoro il creditore, infierisce<br />

sull’insolvente, gli minaccia galera,<br />

fa adunare la gente del passeggio serale:<br />

il giusto chiede giustizia al procuratore del re.<br />

Gli è contro solo il bambino che trema<br />

di paura e vergogna, ma che finge<br />

di appartenere ad altri - non si stringe<br />

al genitore maltrattato.<br />

Il figlio del debitore - io<br />

sono stato.<br />

Per il mio padre pregavo il mio Dio<br />

una preghiera dal senso strano:<br />

rimetti a noi i nostri debiti<br />

come noi li rimettiamo.<br />

*<br />

VII<br />

Vivranno per sempre?<br />

Sempre, sì - mi dicevo<br />

e le vedevo<br />

alla distanza del tempo rimpicciolire<br />

lontanissime, in piedi, a braccia conserte<br />

su quelle stesse soglie, o leggendo gli stessi giornali<br />

crollando il capo, scuotendo gli stessi grembiali,<br />

di nero e di grigio vestite e decisamente<br />

fuori di moda come diventerà<br />

ogni persona vivente<br />

- ovunque e su quella stessa<br />

strada fra il mare e una fila di platani<br />

dove quieta ubbidiente e dimessa passò<br />

la mia età infantile<br />

- quelle persone viventi<br />

che passarono poi come l’età<br />

rispondendo di no alla domanda<br />

che avevo dimenticata: no (dicendo)<br />

non vivremo per sempre<br />

- senza notizia alcuna, senza coscienza<br />

di storia o di giustizia, senza il minimo dubbio<br />

che un’altra vita sarebbe stata a venire<br />

più vera, con più intelligenza:<br />

e dunque senza viltà consegnate alla sorte<br />

- alcune con stupore della morte,<br />

con desiderio altre, con sofferenza.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

13


Da La vita in versi<br />

*<br />

XIII<br />

Trotski lattaio in maglia di flanella<br />

ruggine o, secondo la stagione,<br />

con uno sbottonato gilè<br />

- o alle feste in giacchetta con un bel fiocco nero:<br />

solo, occhiali a stanghetta in luogo del pince-nez<br />

egli portava - e un cognome che traducevo nel gesto<br />

di due dita infilate nel taschino.<br />

Era un contrario al fascio, era un onesto.<br />

Scendeva ogni mattina dal suo domicilio<br />

coatto, sbarbato di fresco, faceva il suo giro,<br />

poi si sedeva al caffè, tranquillo leggeva il giornale.<br />

«Nessun governo può durare in eterno»<br />

diceva - e quasi un giorno in paese ma senza<br />

il bidone del latte<br />

lo videro - e in camicia nera.<br />

Così per uno sbaglio una vita intera<br />

d’opere buone va in fumo per un peccato mortale.<br />

Sì, qualcuno pensò che la mente non fosse più stabile<br />

o soffrisse quel vecchio d’un brutto male…<br />

la verità è piuttosto che la virtù è insopportabile,<br />

sta addosso come una rogna<br />

- e non te ne puoi liberare<br />

che con infamia e vergogna.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

14


Da La vita in versi<br />

Mimesi<br />

Attento, ci rimani, passa l’Angelo!<br />

- mi ammonivano quando per divertirmi fingevo<br />

d’essere muto o strabico, o facevo<br />

la bocca da idiota col labbro pendente e bavoso,<br />

o zoppicavo imitando…<br />

Invece no,<br />

ben altro aveva da fare che non passare di lì<br />

dove io ero - e fu un vero peccato<br />

che non mi riuscisse lo scherzo di rovesciare le palpebre:<br />

l’Angelo non sarebbe passato.<br />

Tranquillamente allora fu imitato<br />

il nonno che fischiando e volto in su<br />

dalla strada serrava i pugni e in aria<br />

troncava una manciata immaginaria<br />

di spaghetti per ordinare: giù<br />

in pentola! - o il chinarsi contrito<br />

del padre, le sue manìe<br />

a tavola d’incartare quando si era servito<br />

coppa o salame senza far caso di noi…<br />

A questo giuoco quanto i miei figli hanno riso.<br />

Un po’ meno per giuoco - e utilmente<br />

spesso per me, per smuovere un sorriso,<br />

ho specchiato i pensieri della gente:<br />

certo non senza ironia - ma troppo<br />

celata non serve - ho parlato<br />

di ordine col reazionario,<br />

di borsa col possidente,<br />

di calcio col tifoso - e raramente<br />

me stesso ho scoperto com’ero<br />

nella dovuta misura:<br />

l’amaro spino del vero ho temuto<br />

- non l’impostura.<br />

Un tempo di vita ho perduto<br />

a travestirmi a scherzare<br />

sicuro che dietro ogni maschera<br />

l’altro che ero restasse<br />

paziente ad aspettare:<br />

al momento opportuno per essere pronto,<br />

con uno scatto di reni<br />

riemergere dal fondo…<br />

……………………………………………………………………………<br />

È artrite o artrosi che mi fa torcere il collo?<br />

Ma di chi sono queste parole che dico?<br />

Già forse ho una mia smorfia abituale?<br />

E niente più da nascondere?<br />

Solo me da imitare?<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

15


Da La vita in versi<br />

La vita in versi<br />

Metti in versi la vita, trascrivi<br />

fedelmente, senza tacere<br />

particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.<br />

Ma non dimenticare che vedere non è<br />

sapere, né potere, bensì ridicolo<br />

un altro voler essere che te.<br />

Nel sotto e nel sopramondo s’allacciano<br />

complicità di visceri, saettano occhiate<br />

d’accordi. E gli astanti s’affacciano<br />

al limbo delle intermedie balaustre:<br />

applaudono, compiangono entrambi i sensi<br />

del sublime - l’infame, l’illustre.<br />

Inoltre metti in versi che morire<br />

è possibile a tutti più che nascere<br />

e in ogni caso l’essere è più del dire.<br />

Finis fabulae<br />

1965<br />

Come una scia si richiude la favola<br />

sugli sbruffi dell’elica lussureggiante di schiuma.<br />

Guardala a poppavia che s’appiattisce<br />

levigata da diavoli mulinelli.<br />

L’essere è più del dire - siamo d’accordo.<br />

Ma non dire è talvolta anche non essere.<br />

Ah discreta più del dovere fu l’incoscienza.<br />

Presto tutte le acque saranno uguali o lisce.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

16


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

A cura di Evelina De Signoribus. Introduzione di Carlo Di Alesio e nota ai testi di Rodolfo Zucco.<br />

Illustrazioni di Sandro Pazzi.<br />

Da I. PROVE E POESIE 1983-1999<br />

MADRIGALE<br />

………………………………………………..<br />

Quando non fosse la vera pietà<br />

Parole finis mundi prigioniere<br />

Rischiarvi oltre il corpo con tremore<br />

E sopra voi cadere<br />

Mai si scoprisse lievemente il cuore<br />

Con voi volando nel vostro aldilà<br />

Spine del giusto affanno<br />

Spine del mio tacere<br />

Egli si udì parlare - scriveranno<br />

E della sua virtù fece il suo danno<br />

Gennaio 1984<br />

A FERNANDO BANDINI<br />

Mi fa difetto, Fernando, il latino<br />

E arduo mi sarà salire al soglio<br />

Dove il pastore barbaro d’orgoglio<br />

Medita il NO spietato e tridentino<br />

Vengo da te semmai su bianco foglio<br />

Tu mi segnassi un pur nero cammino<br />

O rosso, o verde - apologia, germoglio<br />

Di nuova teologia cui m’indottrino<br />

Qui non soccorre Ignazio (o così pare)<br />

Distratto alla difesa di Pamplona<br />

O pur lui stesso prostrato alle scale<br />

Del palazzo di Pietro - a impetrare<br />

Grazie da chi malvolentier perdona<br />

Un troppo solo peccato mortale<br />

2 febbraio 1984<br />

Ricopiata il 22 febbraio 1987 con qualche variante<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

17


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

HYDRA<br />

Inghiotti ròdimi ripuliscìti<br />

Idra e fauce<br />

Zannuta di sangue<br />

E raschiati ossi prelibati<br />

Da altri più urbani ossi<br />

E le briciole<br />

Residui di beccaio alla bocca<br />

Ti insistono<br />

Da mitissimi corpi<br />

Tali e quali le mie che qui… Ma no<br />

Ché veruna importanza e diciamo piuttosto le tue<br />

Inclitamente più che vive<br />

Briciole del tuo umore irrorate -<br />

Idra e fauce che mai<br />

Del misero me non colmerò<br />

Valore e lagrime<br />

Tale è sì la tua fame<br />

Che a ammansirla non basti<br />

Te nemmeno tuo corpo a brani<br />

E scricchiolìo osso a osso<br />

Da te se potessi medesima e come fai<br />

Briciola te sola a mangiarti<br />

8 febbraio 1987<br />

QUARTINA<br />

Io te mi spalmo del diverso miele<br />

Onde stillasti, amara vita mia:<br />

Da spietate ferita e aguzze chele,<br />

Nuda madre - Nostalgia…<br />

Estate (?) 1987<br />

Sì, perdonate<br />

Al faticato attore:<br />

Con tremante tremore ei se ne va<br />

Tra le quinte si rotola via<br />

Perché al patire luogo più non sia<br />

Segreto del segreto<br />

E quel che al suo tacere insiste dietro<br />

Meno del meno fu la verità<br />

Come mi graffiano questi panni<br />

Inganni di scena<br />

Consumata mia sempre duplicità:<br />

Ut unum sint - cuore intero<br />

Pancia del perfetto zero<br />

22 novembre - 2 dicembre 1987<br />

*<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

18


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

SUÈBICA IV<br />

Alla discreta forse amica lo<br />

Chiede come si dica<br />

Senza che lei però<br />

Possa in faccia frugarlo e del perché<br />

Protetto dal telefono inquisire<br />

Come nell’ora vagheggiata lingua<br />

Della speciosa austera sunamita<br />

Mentale nudità tepore al freddo<br />

Estremo della vita<br />

Si dica vieux cochon vecchio maiale<br />

Quasi finger si voglia<br />

L’eco se mai saprà<br />

Che lui gli fa poesie quanto suo ridere -<br />

Intanto la risposta è: Tale e quale<br />

Tranne che Schwein è neutro e deve scrivere<br />

Altes con es finale<br />

29 maggio 1988<br />

Trascritta con minime varianti il 2 settembre 1999<br />

DA UNA SOGLIA INFINITA<br />

Apparivi e sparivi che a disfarti<br />

Bastò la tenue offesa di uno sguardo<br />

Carpirti un volto nella mente un nome:<br />

Scendevi da una soglia infinita<br />

I secoli che attraversando<br />

Da tanto avaro averti insisti in vita<br />

Gennaio 1991 - gennaio 1993<br />

*<br />

SINE MURMURE<br />

Quando ma in segreto onde non possano<br />

Impeccabili labbra<br />

Trafiggerlo - tu come osi<br />

Giuda e sentina del vizio?<br />

O affannato bisbiglio e spiraglio estremo!<br />

KING TO-MORROW<br />

Improbabili arcani<br />

Messaggeri del mondo<br />

Che dal gaio domani<br />

A noi movete incontro<br />

Spenti i miei paradisi<br />

Chiudo finestre e porte<br />

Prima la vostra visita<br />

Aspetto e poi la morte<br />

4 novembre 1998<br />

*<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

19


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

Da II. ALTRE POESIE<br />

AUGURI<br />

A FRANCESCA C. PER IL SUO BATTESIMO<br />

(nell’accompagnarle il dono di una sterlina<br />

con l’effigie della regina Vittoria)<br />

Francesca la buona fortuna<br />

Ti giungerà da una stellina<br />

Nel cielo assai più che la luna<br />

Lontana e come te bambina<br />

Ma oggi di grazia e decoro<br />

Promessa adorni la tua storia<br />

Di una di nome Victoria<br />

Vecchia bambina il vecchio oro<br />

Lerici, 4 ottobre 1999<br />

SVETLANA<br />

O cameretta che già fosti un porto…<br />

Petrarca<br />

Quale il sussurro di Arletty:<br />

Une chambre?! - nel buio delle scale<br />

Fuori grondando il temporale<br />

In «Les enfants du Paradis»<br />

Tale la tenera bugia<br />

Che bisbigliata come in fretta:<br />

Nella mia (disse) cameretta<br />

C’è sul muro la Sua poesia<br />

Febbraio-maggio-agosto 2001<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

20


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

IL FIGLIO DI DIO<br />

Presentato da un certo Gianni brera<br />

A conoscerla ho fatto in tempo anch’io<br />

Nato nel ‘24 Sua bella primavera<br />

De Pra Giovanni alias il Figlio-di-Dio<br />

«Siamo finiti in mano ai capimastri<br />

Caro signore se ripenso ai miei<br />

Tempi che al Genoa c’erano gli Inglesi<br />

E davano a tutti del Lei…»<br />

(Esatte parole Sue<br />

Nel foot-ball dei disastri)<br />

IO E TE CHE SORRIDIAMO DALLA FOTO DI DONDERO<br />

Io e te che sorridiamo dalla foto di Dondero<br />

Fu in Milano un remoto pomeriggio<br />

Nella casa che più non abitiamo<br />

E adesso al buio o tutt’al più in penombra<br />

Per quel filo di luce dal cortile<br />

Ma è come se vivessimo e viviamo<br />

In un paese ormai molto lontano<br />

Però dal temporale inaspettato<br />

Qui riparando esploro<br />

La stanza come non più mia, gli oggetti<br />

Un tempo vagheggiati -<br />

Il lampadario bianco e lilla di Venini<br />

Il tavolo a tre gambe Louis-Philippe<br />

E alle pareti Baj Greco Kolář…<br />

Io e te che sorridiamo l’un l’altra sottobraccio<br />

Due stagionati sposi di Ben Shahn<br />

Da pie preci sepolti innanzi tempo<br />

Dunque al riparo, fuori piove, e qui<br />

Benché tu non ci sei noi due contemplo<br />

In domestici panni ossia dal vero<br />

Nel giorno stesso che passò Dondero<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

21


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

DEDICATO AI POMPIERI DI NEW YORK<br />

Bambini in trecento son morti<br />

Bambini che prima di ieri<br />

Erano giovani e forti<br />

A loro nei vostri pensieri<br />

Tenetevi stretti un minuto<br />

Quando giocate ai pompieri<br />

Il vostro gentile saluto<br />

UNA COPIA DEL MAUBERLEY<br />

Quest’anno - il mio<br />

78° e primo che a quanto mi ricordo<br />

Mai non mi fossi bagnato nel mare -<br />

Ora ripenso di quanta meraviglia<br />

Mi fece e son più di quarant’anni<br />

Udire che Ezra Pound allora meno vecchio<br />

Di me adesso nuotava tornato a Rapallo<br />

Che strano nell’apprenderlo da Vanni<br />

Io pensavo l’averne ancora voglia:<br />

Con la vita che aveva alle sue spalle<br />

Dall’Idaho a Venezia e poi a Parigi<br />

E a Roma e le sue prediche alla radio sull’usura<br />

Per finire poi in braccio all’RSI<br />

E dieci anni interi al Saint Elizabeth’s<br />

Io lo conobbi appunto rétour d’Amérique<br />

Non spiccicava verbo - era un suo modo<br />

Di protestare… «A G. il risponsabile»<br />

Scrissi su quella copia che gli porsi<br />

Della mia traduzione di H.S. Mauberley -<br />

Poi donata a qualcuno<br />

Che più non ricordo<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

22


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

Da III. ARLETTY<br />

Potrebbe essere la regina di babilonia, ma nel film è Garance: nome che fa inevitabilmente rima con<br />

France e che rimanderebbe a un fiore, a un alcunché di rosso. Nei primi fotogrammi, appare poco più che una<br />

figurante. Con l’eloquenza, però, di chi non ha bisogno di parole.<br />

Nude le spalle e le braccia, emerge dalla tinozza che ruota all’imboccatura di un finto pozzo di scena e<br />

sempre immobile (si muovono per lei soltanto le cose che “la” muovono) tiene impugnato uno specchio da<br />

toeletta. I tumultuanti spettatori che si accalcano ad ammirarla anche soltanto di spalle incontrano<br />

comunque il suo volto riflesso. È un volto senza tristezza né gioia, potrebbe esprimere (o celare) qualsiasi<br />

sentimento e disegno; è un volto che esegue unicamente se stesso, in nome di quella che alcuni critici<br />

definiranno una sua «religione d’indipendenza morale».<br />

Un lievissimo, intermittente indizio (un rien!) di strabismo di Venere all’occhio destro non fa che esaltarne<br />

il fascinoso enigma.<br />

Al cinema è arrivata non più giovanissima da qualche atelier di moda dove l’hanno ribattezzata col suo<br />

nome d’arte. Di taglia sottile, statura che non eccede la media dell’epoca e un peso (a diciassette anni) di<br />

quarantanove chili, è passata anche per il cabaret, ma specialmente per il teatro… Così è diventata anche<br />

un’intellettuale: ma non inclina a sinistra e a Proust preferisce Céline, col quale ha avuto una sincera amicizia.<br />

Scriverà in seguito un libro di memorie, quasi un’apologia là dove tocca certe sue personali vicissitudini. Il<br />

titolo, La Défense, è però anche il nome del quartiere parigino dove è cresciuta e ha avuto un suo primo<br />

amore, partito per la guerra nel 1914 e subito morto. Di lei scrivo come da diva, al presente virtuale del più<br />

famoso dei suoi film che (per la cortesia del Centro culturale francese di Milano) mi trovo insperatamente<br />

sotto gli occhi, visto dal sofà di casa mia. Se non fosse morta sette anni fa, in solitudine e quasi cieca, sarebbe<br />

oggi ultracentenaria.<br />

* * *<br />

Vivevo anch’io, anzi pativo, da almeno tre anni un primo amore: ma discontinuo e infelice: tutto un<br />

esasperante prendi-e-lascia. E il tempo che altri miei coetanei dedicavano alle loro ragazze, io lo dissipavo al<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

23


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

al cinema: le più spesse volte nel deserto semibuio del primo spettacolo pomeridiano, unica distrazione che<br />

potevo concedermi senza spendere nulla: come cronista mi avevano dato una tessera di libero ingresso.<br />

E fu così che ebbi a imbattermi nell’edizione in lingua originale del film-fiume di tre ore e mezzo in cui, a<br />

oltre mezzo secolo di distanza, credo di poter ravvisare, meglio tardi che mai, una qualche analogia con la mia<br />

travagliata inquietudine di quel tempo.<br />

Come fosse incominciata lo rileggo da un vecchio appunto: «Otto maggio (1945) e armistizio in Europa, la<br />

mia privata melanconia di ventenne e proprio quella sera la ragazzina in gonna nera a pieghe e camicetta<br />

bianca con una curiosa scollatura quadrata, capelli neri e altresì gli occhi che mi sembravano inarrivabili e il<br />

gentile reclinarsi del collo appena abbronzato nel domandarmi: “ma perché è così triste, non è contento che è<br />

finita la guerra?”».<br />

Quasi come un treno (ma no: una carrozza!) che ti passasse vicino al piccolo trotto: un salto e ci sei sopra.<br />

E invece la mia piccolo-borghese, forse meschina, manìa di definire, classificare, formalizzare. Quella manìa<br />

che finisce per castrare tutto: come, in poesia, certi endecasillabi spalmati di burro. E dunque, già nel fondato<br />

presentimento di perderla, l’ansia di codificare da subito un’innominabile, fragilissima, serena felicità, nome<br />

di Dio pronunziato non invano, un esser nudo nell’Eden da non dover goffamente eludere o coprire… E<br />

tuttavia l’impenitente mostrum degli atti impuri minacciosamente rappresentato nel vecchio catechismo di<br />

Pio X: una minuscola figura di donna bionda lambita e avvolta da infernali lingue di fuoco. Per gli atti impuri,<br />

ammonivano i buoni sentimenti, c’era semmai il remedium concupiscentiae del casino. Mentre ecco noi due<br />

quel giorno di Corpus Domini distesi su un prato che più non esiste e il mio trasalire alla paradisiaca<br />

bianchezza, miracolo che dai suoi ginocchi in su mi si offre alla vista per un venticello malandrino che fa<br />

svolazzare quella gonna nera a pieghe. «Du bist so schön! Fermati, sei bello!», aveva gridato all’attimo<br />

fuggente l’antico distillatore di elisir. Io no: «Stretto fra il tuo pudore e la mia angoscia» sarei solo riuscito<br />

amaramente a scrivere di me stesso. E dire che non erano mancati consigli di più esperti: per esempio<br />

«metterglielo in mano»… o altre espressioni a cui inorridivo, pensando che lei avrebbe potuto non volermi<br />

nemmeno più vedere.<br />

[…]<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

24


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

Da IV. 14 X 14. DAI SONETTI DI SHAKESPEARE<br />

Così il mio amore dice quel che è detto<br />

22.<br />

Lo specchio non dirà che sono vecchio<br />

Finché tu e giovinezza insieme state;<br />

Ma se ai solchi del tempo in te rifletto<br />

Sento che morte espia le mie giornate.<br />

Perché questa beltà che ti ricopre<br />

No n è che bella veste del mio cuore,<br />

Che è nel tuo petto come il tuo nel mio.<br />

E come posso avere più anni di te?<br />

Oh, dunque, amore, usa per te ugual cura<br />

Qual io non per me stesso e per te avrò,<br />

Custodendo il tuo cuore che dal male<br />

Proteggerò come il suo bebè una tata.<br />

Se il mio cuore è disfatto di lui non ti fidare;<br />

Tu che mi hai dato il tuo, da non ridare.<br />

76.<br />

Perché il mio verso così poco aspira<br />

A varietà di forme e a cambiamenti?<br />

Perché col tempo non tengo di mira<br />

Sistemi nuovi e inediti ingredienti?<br />

Perché sempre lo stesso e sempre uguale<br />

Scrivo inventando quel che è già inventato,<br />

Così che ogni parola la mia firma<br />

Quasi porti con sé marchio d’origine?<br />

Oh tu lo sai, scrivo sempre di te,<br />

Dolcezza mia, solo di te e d’amore,<br />

Di nuova veste le antiche parole<br />

Vesto spendendo ciò che fu già speso:<br />

E come il sole è sempre nuovo e vecchio<br />

Così il mio amore dice quel che è detto.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

25


Da Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002<br />

81.<br />

O io vivrò per dettare il tuo epitaffio,<br />

O sarai viva tu e io sottoterra:<br />

Dunque non morirà la tua memoria<br />

Benché di me ogni parte sia disfatta.<br />

Quindi il tuo nome avrà vita immortale,<br />

Pur dovendo io morire a tutto il mondo:<br />

La terra mi avrà dato solo una fossa comune<br />

E tu sarai sepolta negli occhi della gente.<br />

Tuo monumento saranno i miei bei versi<br />

Che occhi ancora non nati scorreranno;<br />

Lingue future diranno di te<br />

Quando qui sarà morto chiunque ora respiri;<br />

(Tanto può la mia penna) tu ancora sarai viva<br />

Dove su labbra d’uomo un fiato sopravviva.<br />

121.<br />

Meglio essere in colpa che incolpato<br />

Quando a chi non lo è lo si rimproveri<br />

Ed il giusto piacere egli ne perda,<br />

Non per noi stessi, ma al giudizio altrui.<br />

Perché infatti dovrebbero falsati sguardi estranei<br />

Rendere omaggio alla mia allegra vena?<br />

O c’è dei miei difetti qualche indizio<br />

Che sia male quel che io ritengo buono?<br />

No, io son quel che sono; e loro che censurano<br />

Le mie magagne guardino alle proprie:<br />

Magari io sono in regola ed essi invece in fallo;<br />

A meno che non credano in questa sciagura generale -<br />

Tutti gli uomini sono malvagi e regnano sul proprio male.<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

26


voci


Da Zingari -<br />

Fotografie realizzate nel 1958 a Senigallia<br />

in un campo nomadi


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

27<br />

La rappresentazione del desiderio di vivere. Di Danilo Mandolini<br />

(nel ricordo di Giorgio Chinaglia, che proprio in questi giorni ci ha lasciati)<br />

La modalità utilizzata da Alessandro Moscè, nel suo recentissimo Il talento della malattia, per introdurre il<br />

tema della sofferenza, esteso - poi - a quello ben più arduo da rendere della paura della morte, richiama da<br />

vicino il cambio di scena che Michael Cimino mette in atto nel bel mezzo del suo sontuoso ed indimenticabile<br />

Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978, tratto dall’omonimo romanzo di E. M. Corder).<br />

Nel film appena citato si passa bruscamente dal matrimonio dei protagonisti, dalla vita tranquilla e ripetitiva<br />

di questi e dal rito della caccia di gruppo al cervo alla guerra in Vietnam, alle atrocità consumate e vissute su<br />

quei campi di battaglia. Allo stesso modo, nel romanzo dello scrittore e critico fabrianese lo scenario muta<br />

repentino, praticamente senza preavviso, dalla narrazione di eventi risalenti all’infanzia e alla preadolescenza,<br />

dal ricordo (ne deriva «…un vivido spaccato sulla provincia italiana e un ritratto dell’Italia dell’epoca.», si<br />

dichiara nel risvolto di copertina), dalla passione sportiva per la squadra della Lazio e per alcuni suoi calciatori<br />

(Giorgio Chinaglia in primis) alle avvisaglie della malattia, ai primi sottesi timori da questa indotti e, nell’arco di<br />

poche pagine, al pudore che si scioglie nella richiesta di aiuto: «Irrompeva un’ultima intrusione del silenzio,<br />

dell’eccitazione vacillante. / - Non ce la faccio a dirlo. / Una barriera diffondeva pietà, una propaggine crudele.<br />

/ - Avanti. Cos’è quella faccia? / - Mamma, ho una ciste sulla pancia.».<br />

Il tono della scrittura cambia, si adegua al nuovo tema del racconto, il ritmo si fa a tratti incalzante portando il<br />

lettore, progressivamente ma inesorabilmente, a vivere dal di dentro tutte le ansie del protagonista: «E se<br />

fossi morto? Come mi sarei accorto di morire, di lasciare tutto? Avevo lampade enormi sopra l’addome e una<br />

luce accecante che emanava calore. Arrivò un’altra dottoressa con gli occhiali bianchi, perlati. Ostentavo<br />

sicurezza, mentre piangevo.». Ora si tratta del lungo e difficile intervento chirurgico, del successivo decorso,<br />

del dolore dei genitori, delle lettere “spaventate” mai spedite ad Anna Rita, delle visite di controllo e dei molti<br />

compagni di ospedale che compongono un freddo e straziante elenco di giovani vite prematuramente<br />

spezzate.<br />

Non si è ancora detto, ma è oltremodo utile svelare che l’“avventura” al centro de Il talento della malattia è<br />

stata vissuta proprio da Alessandro Moscè; è lui che, a soli tredici anni, ha scoperto di essere affetto da una<br />

rara ed implacabile neoplasia denominata Osteosarcoma di Ewing; è lui che ha deciso di incontrare<br />

nuovamente quel periodo della sua vita e di donarlo ai suoi lettori di oggi, insieme alla felicità non


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

28<br />

pronunciata - forse perché inaspettata, benché sperata, al punto di essere fonte di assoluto sbigottimento<br />

essa stessa - della guarigione.<br />

Immaginiamo non sia stato facile ripercorrere le tappe di un calvario che ha visto il nostro divenire un caso (fin<br />

anche negli Stati Uniti) di ritorno miracoloso alla vita senza il male spietato, le infinite e tribolate resistenze<br />

nell’accettare l’idea di raccontare un “io passato” così ingombrante. Sappiamo, anche, delle difficoltà<br />

incontrate nel trovare un editore disposto a sostenere il progetto del libro; un “partner” che fosse in grado di<br />

cogliere e capire, condividendone gli assunti ed oltre la forte componente di commozione che inevitabilmente<br />

sprigiona, come questo lavoro sia, di fatto e soprattutto, la rappresentazione, esaltata dai caratteri diremmo<br />

estremi della storia, del desiderio (anche disperato) di vita che muove il nostro divenire e che è capace di<br />

aiutarci ad annientare anche la più aggressiva delle malattie.<br />

Nel caso dell’esperienza di Alessandro Moscè, però (ed è l’autore a suggerircelo in più di un’occasione), il<br />

desiderio di vivere ha avuto, oltre e chiaramente al sostegno dei propri cari, un preziosissimo alleato nella<br />

guerra contro l’osteosarcoma di Ewing, un irrinunciabile sostegno quotidiano nella palude delle tante nuove<br />

ed estenuanti sfide da affrontare. Quella passione sportiva per la squadra di calcio della Lazio e per il suo<br />

osannato protagonista dell’anno dello scudetto - quel Giorgio Chinaglia di cui si è solo accennato in apertura -<br />

hanno probabilmente svolto il difficile ma indispensabile compito di ancorare il giovanissimo protagonista ad<br />

uno dei pochi elementi sicuramente positivi nella realtà dolorosa di quei giorni di grande prostrazione.<br />

In un flash-back degno della migliore tecnica cinematografica, Giorgio Chinaglia appare sul palcoscenico de Il<br />

talento della malattia durante il ritiro della Lazio a Gubbio, nel luglio del 1984. Chinaglia ed il piccolo<br />

Alessandro si incontrano. Poche semplici parole ancora oggi impresse nella memoria. Semplicemente una<br />

grandissima emozione.<br />

D’altronde, come afferma l’autore: «Lo sport (e noi aggiungiamo: “alla stessa stregua della vita”) si può<br />

raccontare […] con gli occhi di chi si stupisce e incamera i ricordi primordiali, emozioni.».<br />

Il talento della malattia, Alessandro Moscè, Avagliano Editore, Roma, 2012<br />

La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini.


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

29<br />

[…]<br />

A scuola ero muto, disinteressato. Non credevo alle preghiere, non avevo religioni, se non quella che mi<br />

riconduceva a un assillo personale. Se Dio c’era, perché non si poteva vedere? Perché non veniva a trovarci in<br />

classe? Lo chiesi ad Angelo, il primo della classe.<br />

- Dio c’è e non si vede perché sta in alto, troppo in alto per noi.<br />

- Ma è sospeso?<br />

- Sì, perché vola, perché guarda tutti da lassù e scende solo qualche volta. A Natale e a Pasqua.<br />

- E a Natale e a Pasqua chi lo vede?<br />

- Non lo so, ma qualcuno lo ha visto, perché nei dipinti della chiese è raffigurato. Ha la barba bianca, ma<br />

senza bastone. Mio nonno lo sognava, ma anche lui non l’ha mai visto.<br />

- E Gesù?<br />

- Gesù è il figlio di Dio, ma è morto giovane. Siede alla destra del padre.<br />

- Con la Madonna?<br />

- No, con lo Spirito Santo.<br />

- E chi è lo Spirito Santo?<br />

- Questo non l’ho capito. Ma secondo me non lo sa neanche suor Melania. Non tutto si può sapere.<br />

- Sarà…<br />

- Non diciamo nulla, altrimenti la suora si arrabbia. Questi discorsi li fanno solo i grandi.<br />

- Ma perché restare muti come pesci?<br />

Un giorno mi decisi a chiederlo appena finita la ricreazione. Alzai la mano e presi la parola tra lo sgomento<br />

della classe.<br />

- Suora, io mi chiedo perché Dio non si fa mai vedere. Vorrei una spiegazione, se possibile.<br />

Suor Melania prima arrossì, dentro quel viso tondo e liscio, poi disse con tono dolce ma deciso, che non si<br />

poteva credere solo alle cose che si vedono.<br />

- Ma Dio fa anche le magie? insistetti.<br />

- Non fa alcuna magia.


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

30<br />

- E chi le fa le magie?<br />

- I ciarlatani. Pensa a pregare, a recitare l’Ave Maria - mi disse spazientita. E capii che non ammetteva più<br />

domande.<br />

Angelo e Chiara ridacchiavano, Luca mi disse che ero stato bravo perché gli sembrava avessi sfidato la<br />

maestra.<br />

[…]<br />

*<br />

[…]<br />

L’ultima volta che sono salito al duomo di San Ciriaco è stato con Marta. Sulla stessa via aveva lo studio il<br />

grande poeta anconetano Franco Scataglini, uno dei maggiori dialettali del secondo Novecento italiano. Ma io,<br />

all’epoca, ero troppo piccolo e non lo potevo sapere.<br />

Ancona, una città di scoglio con la spiaggia del Passetto a costa alta: così veniva descritta nel libro di geografia<br />

delle elementari. Ancona, città che qualcuno sostiene si guardi meglio dal mare che non da altre postazioni<br />

come il Colle dei Cappuccini, il Colle Guasco, la Piana degli Orti. Ancona protesa verso oriente con il<br />

suo odore di catrame, con uno strano clima, con i venti di bora che portano il nevischio in inverno, una<br />

nebbiolina che non si dirada e che è simile a quella della costa romagnola ed emiliana. Una nebbia stirata,<br />

dentro la quale il mare si vede e non si vede. D’estate soffia il libeccio che può far salire la temperatura fino a<br />

40°.<br />

- Lì c’era lo studio di Scataglini - dico a Marta che ha i capelli mossi dal vento e sembra un’aliena.<br />

Mi appoggiavo alla ringhiera. Ancona sembrava Tunisi: i tetti bassi tra i fumi di un tardo pomeriggio e le luci<br />

come punti che si incrociavano tra gli aloni delle lampare. La città era vuota, furtiva.<br />

Ora non mi dice più nulla, non mi suggerisce alcun ricordo, vista da quassù. Eppure in quello spazio davanti<br />

la scalinata del duomo ci correvo con il monopattino. Dietro la facciata del duomo c’era una parete laterale<br />

che sembrava di tufo. Mio padre ci ha inciso le iniziali del suo nome e quelle di mia madre, quando erano<br />

ancora fidanzati, nel ’57. Quelle scritte sono ancora lì.<br />

Arrivò la notte. Ancona non era più la città di Scataglini, né il duomo le dava una cornice classica, né la casa<br />

dei nonni, né i natali, avevano più un senso assoluto. Era Marta con lo spolverino nero che fumava guardando<br />

verso il porto, il mio fulcro. Non riuscivo a farla parlare. Nascondeva un turbamento lieve, come sempre. Ma


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

31<br />

era bella. Alta, slanciata, le calze nere e le scarpe con il tacco. Riesce a essere improvvisamente ironica dopo<br />

un interminabile silenzio. O malinconica e distratta, prima di sprofondare ancora in una coltre di ombrosità.<br />

Quell’essere fantasmatica è il suo fascino inconsapevole.<br />

- Porto Recanati è dall’altra parte, a sud. Andavamo al mare a Porto Recanati, quando ero bambino. Vincenzo,<br />

il bagnino, aveva un moscone bianco con i remi verde acqua che si confondevano con il colore del mare<br />

e delle alghe. Era il 1976, il 1977, durante il mese di luglio.<br />

- Ancora quei due anni. Ancora il 1976 e il 1977. È una fisima la tua. Ogni volta che mi parli escono dal<br />

cilindro i due anni. Gioca i numeri al lotto, vincerai.<br />

- Lo sai che mia nonna aveva un carillon di legno con al centro un tavolino dove ai lati, seduti su delle<br />

panche, stavano dei giocatori di carte le cui teste era nodi sughero? Dando la carica, la ballerina si muoveva al<br />

ritmo di una musica lenta, interminabile.<br />

- Perché non mi abbracci, visto che fa così freddo?<br />

- Non riesco a resistere ai miei gesti infantili, oltre che ai racconti dell’infanzia.<br />

- E quali sarebbero questi gesti irresistibili?<br />

- Eccone uno.<br />

La baciai. Marta si ritrasse e mi sorrise, scosse la testa, l’abbassò appena, timidamente.<br />

- Malinconico come a ottant’anni. Sei più unico che raro.<br />

Al secondo tentativo la sua bocca si unì alla mia. Erano anni che volevo baciare Marta passeggiando per via<br />

Pizzecolli. Mi riuscì al duomo. Scendemmo mano nella mano e mi fermai ancora davanti al palazzo dei nonni.<br />

Guardai in alto, verso la prima finestra, quella della cucina. Nonna Irma si affacciava sempre. La luce era<br />

accesa, fui tentato di suonare.<br />

- Andiamo, andiamo, siamo nel 2008, non più nel 1977 - mi suggerì Marta tirandomi per un braccio.<br />

Mi prese una stretta allo stomaco.<br />

[…]<br />

*<br />

[…]<br />

I bambini sanno tutto, quando presagiscono. Non sanno nulla quando vivono l’abitudine, che è un tempo<br />

smemorato. Ma può succedere che la crescita venga bloccata, che qualcosa non vada per il verso giusto. Al-


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

32<br />

lora i bambini si sentono crudelmente assaliti. Succede che il gatto acchiappa il topo, e la favola di Tom e di<br />

Jerry ha un altro epilogo. Il fumetto o il cartone animato appare insensato, indisponente. Ci si sente divorati e<br />

con la testa all’ingiù. Erano finiti gli esami, ma sotto il lenzuolo, quando ero a letto, non scoprivo la frescura<br />

della notte, il sogno del calciatore. La testa era sul cuscino, le braccia si univano e le mani si incrociavano sul<br />

ventre. L’avrebbero chiamata tumefazione, ma io, semplicemente, sentivo una montagna sotto l’ombelico.<br />

Provavo un sussulto, anche perché il corpo estraneo mi comprimeva e mi costringeva a orinare spesso. Dal<br />

mio stesso fisico nasceva una deriva. Stavolta non era un incontro con la naturalezza della crescita, ma<br />

un’oppressione. Mi svegliavo e mi riaddormentavo. Fino al giorno prima la montagna sulla pancia non c’era. La<br />

toccavo, la spingevo. Dura, gonfia, specie nel mezzo. Ai lati erano le ossa del pube che la fermavano. Aveva<br />

una forma rotonda, come un bombolone, ma non poteva essere piena di crema. Tre settimane prima correvo<br />

e avevo attitudine per la velocità, avevano scritto sulla scheda della scuola dove ero stato promosso sotto la<br />

voce “distinto”. Se ne accorse l’insegnante di educazione fisica, il signor Paolucci. Mi faceva fare le ripetute.<br />

- Sei nato con le fibre a contrazione rapida - diceva elettrizzato.<br />

La forza esplosiva nelle gambe mi aveva introdotto in un reality. Ecco il campione: lo ero anch’io, finalmente.<br />

Il più veloce della scuola, tra i trecento alunni della media “Marco Polo” di Fabriano. In palestra l’insegnante<br />

mi dava i consigli. La velocità è un’attitudine, ma ci volevano allenamenti costanti per migliorarla.<br />

- Chiudi la bocca e stringi i denti - innanzitutto.<br />

- Non è la stessa cosa se apro la bocca? - chiesi con fare impertinente.<br />

- Zitto coglione, e sprinta in linea retta. Devi aumentare la potenza anaerobica. Ogni quattro secondi<br />

accelera.<br />

Se dovevo cambiare direzione, come nella curva dello stadio, mi sbilanciavo.<br />

- Cambio di direzione, cambio di direzione - urlava l’insegnante.<br />

- Come vado?<br />

- Il tempo è buono, ma non magnifico. In linea retta sei bravissimo. Per la velocità ci vogliono i nervi, per la<br />

maratona la calma. Sarai un centometrista.<br />

Il bombolone era cresciuto in una notte, a scuola, forse in pochi minuti. Dove sarei finito? Da una pista<br />

d’atletica a un ospedale?


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

33<br />

Lo strappo non era solo nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Cambiava la voce, che divenne rauca,e il<br />

corpo, con la prima peluria addosso. Le ascelle sudate emanavano una puzza di acido. A un’età critica si<br />

aggiungeva l’imprevisto, arrogante come la voce del signor Paolucci che mi costringeva a fare le ripetute per<br />

un’ora. Entrai a far parte di un disordine che nasceva dentro di me. Non sempre bastava chiudere gli occhi e<br />

pensare ad altro. Mi aggrappavo alla sponda del letto, mi alzavo appena il sole sorgeva. Infilavo le ciabatte e<br />

andavo in bagno. Il bombolone si vedeva a occhio nudo. Orinavo, sperando che l’uscita del liquido sgonfiasse<br />

la pancia. Ma dopo aver finito, dopo aver tirato lo sciacquone, giungeva l’ennesima delusione. Sentivo delle<br />

fitte all’addome, come se non riuscissi più a contenere quell’involucro che diventava sempre più duro. In<br />

punta di piedi camminavo sul pavimento e tornavo a letto avvolto da una vibrazione irregolare.<br />

Un pomeriggio, mentre mio padre e mia madre erano usciti per prendere un po’ d’aria, li spiavo dalla<br />

finestra. Sul marciapiede li vedevo piccoli e sentivo il loro vociare attutito. Lungo il marciapiede diventavano<br />

minuscoli, fino a che scomparivano dietro le fronde di un ippocastano mosso dal vento ombroso. Forse li stavo<br />

perdendo. Tacevo del bombolone sulla pancia, non potevo rattristarli. Dentro casa rimanevano i suoni dello<br />

speaker televisivo come tonfi, mentre lungo il corridoio le pareti sembravano guardarmi all’altezza del ventre.<br />

Non poteva essere la crescita ad aver fatto ingrossare quella strana protuberanza. Vagavo tra la sala e il<br />

soggiorno, toccavo la pancia, ritraevo le mani, come in un vortice senza fine, risucchiato da un mesto timore.<br />

Stavo mentendo ai miei genitori e non dovevo. Li divoravo con gli occhi senza vergogna, ma quando ero sul<br />

punto di confessare che sulla pancia era cresciuta una ciste, rinunciavo, scappavo. Un sottile velo arrossiva le<br />

guance, mi stringeva la gola e serrava le labbra. Le parole venivano annientate, dovevo respirare a pieni<br />

polmoni. Mi riempivo il naso dell’odore della casa, mi scostavo come un gatto dalla cucina, riconoscevo<br />

l’errore e implodevo nella quiete.<br />

[…]<br />

*<br />

[…]<br />

Gennaro, di Napoli, subì l’amputazione della gamba destra. Quando tornò a casa, l’ultima volta, arrotolò il<br />

pantalone dei jeans fin sotto l’anca e lasciò una scarpa nell’armadio.<br />

- Tanto non mi serve più - diceva facendo spallucce e saltellando con le stampelle in mano.<br />

Renzo morì. Aveva il male alla colonna vertebrale. Era grassottello, rosso di capelli. Nel giro di due


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

34<br />

settimane dimagrì e finì per essere asciugato dal sarcoma. Dal bacino l’infezione aveva contaminato<br />

fulmineamente i polmoni. Se ne andò strozzato nell’impossibilità di respirare. Una morte atroce.<br />

Franco era uno sciatore di Udine. Anche a lui avevano amputato una gamba. Ricordo che lo trasferirono a<br />

Budrio per provare una protesi. Lo rividi un mese dopo e camminava speditamente. Se l’amputazione partiva<br />

da sotto il ginocchio, la deambulazione non destava particolari problemi. Se invece il male colpiva il femore, e<br />

l’amputazione partiva da sopra il ginocchio, le protesi non permettevano il piegamento dell’arto e si rimaneva<br />

claudicanti.<br />

Stefania era una ragazza di Foggia, bellissima. Aveva il sarcoma al ginocchio. Subì l’amputazione dell’arto.<br />

Sapemmo che il male era salito al cervello. Visse due mesi.<br />

Manlio faceva l’elettrauto a Peschiera del Garda. Il male dal bacino era passato alle parti molli, alla vescica.<br />

Morì prestissimo.<br />

Serena aveva compromessa una spalla. Non riuscirono a evitare che venisse compromesso anche un<br />

polmone. Morì a novembre.<br />

Andrea giocava nelle giovanili della Virtus Bologna di pallacanestro. Era alto, bello. Subì l’amputazione della<br />

gamba. Il male colpì il cervello. Gli si notava un taglio che divideva la testa in due. Il padre faceva il generale<br />

dell’esercito. Aveva perso la moglie un anno prima. Fece togliere tutti i crocifissi dalle caserme. Non ho più<br />

saputo nulla di lui.<br />

Gianni era marchigiano, di Porto Sant’Elpidio. Tifava per l’Inter. Aveva un osteosarcoma al ginocchio. Non<br />

accettò l’amputazione, si getto dal quarto piano della sua abitazione.<br />

Norberto, trentenne che faceva l’elettricista a Mantova, sapeva di morire. Era convinto che il suo destino<br />

fosse stato imposto.<br />

- Muoio e lascio una figlia che deve ancora nascere.<br />

La moglie era incinta di sei mesi. Il sarcoma era penetrato nella vescica dell’orina, ma Norberto scherzava<br />

con la morte.<br />

- Adieu, et voilà. Il tempo mi ha preso. Arrivederci a tutti. Vado via.<br />

- E dove vai? - chiedevo.<br />

- A morire, e chi se ne frega.<br />

- No - esclamavo seccamente.


VETRINA<br />

Il talento<br />

della<br />

malattia<br />

di<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

35<br />

- Vado, io vado. Time out.<br />

Più di ogni altro mi colpì Sergio, un quindicenne siciliano, di Catania. Aveva dolori persistenti a un’anca. La<br />

tumefazione si era allargata fino alla coscia. La sua gamba gonfia sembrava quella di un lanciatore di<br />

giavellotto. Ma non erano muscoli i suoi, bensì una metastasi che gonfiava l’arto. Sergio era bruciato dalla<br />

febbre. La gamba spesso si scuriva, gli dava prurito. Quando il dolore si acutizzava, stringeva i pugni e<br />

imprecava.<br />

[…]<br />

Ricordo quell’ammasso di carne e ossa sotto il lenzuolo. Sergio giaceva inerte. Ancora la morte in faccia,<br />

dopo quella dell’anziano all’ospedale di Ancona. Ma questa era più vicina, era già arrivata. La morte si faceva<br />

vedere una seconda volta, senza pietà. Sergio dormiva, non si era accorto, non aveva sentito nulla. Ho<br />

respirato la sua morte mentre riposava. Quel lenzuolo sulla testa copriva tutto, ma non toglieva niente. Mi<br />

girai ed ero lì, attonito. Sergio non imprecava più. I suoi piedi sporgevano come una vetta e le sue mani<br />

uscivano dalla sponda del letto. Arrivò un medico, misero un telone sopra un trabiccolo. Sergio era stato<br />

separato dalla madre, dal mondo.<br />

[…]


VETRINA<br />

Alessandro<br />

Moscè<br />

36<br />

È nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano.<br />

Ha pubblicato l’antologia di poeti italiani contemporanei<br />

Lirici e visionari (2003); i saggi Luoghi del Novecento (2004)<br />

e Tra due secoli (2007); l’antologia di poeti italiani del<br />

secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new<br />

italian poetry (2006).<br />

Ha dato alle stampe le raccolte poetiche L’odore dei vicoli<br />

(2004) e Stanze all’aperto (2008).<br />

Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente<br />

(2009).<br />

Si occupa di critica letteraria e di filologia su riviste e<br />

giornali.<br />

Ha ideato e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia<br />

“Città di Fabriano”.<br />

Inserire immagine<br />

copertina libro


Da Io non ho mani che mi accarezzino il volto -<br />

Serie composta tra il 1961 e il 1963<br />

con fotografie realizzate a Senigallia


Marco Ercolani<br />

37<br />

È nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. La scrittura apocrifa e il nodo arte/follia sono le sue<br />

ossessioni dominanti.<br />

Suoi testi sono stati pubblicati in riviste: “Con ciò sia cosa che”, “Nuova Corrente”, “Anterem”, “Pietre”, “Resine”, “Steve”,<br />

“Alfabeta”, “Riga”, “Poesia”, “Il gallo silvestre”, “Ipso Facto”, “LG Argomenti”, “Bloc Notes”, “Il Cobold”, “Istmi”, “Hebenon”,<br />

“Origini”, “La Corte”, “Ciminiera”, “La clessidra”, “Nuova prosa”, “Icaro” e “La mosca di Milano”. In antologie: Poeti in<br />

Liguria (Ipotesi, 1981), Poesia in Liguria (Forum/Quinta generazione, 1985), Viceverso. Antologia di prosa poetica (Corpo 10,<br />

1989); Altramarea. Poesia come cosa viva (Campanotto, 2006). In volumi collettivi: Le trame parallele. Letteratura e arti<br />

visive (Graphos, 1996), Genovantasei (Costa & Nolan, 1996), I popoli del sonno (Caramanica, 2001), Viaggio nelle città<br />

sognate (Neos, 2005), Sotto la superficie (Bocca, 2005), Nuove declinazioni (Joker, 2005); Genovantasei (Costa & Nolan<br />

2006); Convergenze 3. I nomi della trasformazione (Moretti & Vitali, 2006), Dizionario degli scrittori liguri 1861-2007 (De<br />

Ferrari, 2007), Fotografia europea (Damiani, 2008), La poesia e la carne (La Vita Felice, 2008), Convergenze 5. In nome della<br />

Grande Madre (Moretti & Vitali, 2008), AA.VV. Genovainedita 2007-2008 (De Ferrari, 2008), Ali, 5 (Edizioni del Bradipo,<br />

2010), Quaderni di Dedalus, 1 (Puntoacapo, 2011), Camille Claudel: scultore (Nicomp, 2012).<br />

Con Luisella Carretta ha inventato la collezione di arte e scrittura Scriptions ed ha partecipato a vari eventi: “Lettera<br />

d’amore”, “I taccuini”, “Deserto e silenzio”, “Lettere”.<br />

Ha curato un libro di saggi di Paul Klee: Filosofia della creazione (Pirella, 1992).<br />

Ha partecipato a “Milano Poesia” (1984), “Genovantasei - Festival internazionale di poesia” (1996), “Biennale di<br />

Alessandria” XI edizione (2004), “Genova inedita” (2007).<br />

Ha pubblicato il volume collettivo L’arte come evento: tra follia e salute (Graphos, 2002), che raccoglie le relazioni del<br />

convegno omonimo, svoltosi a Genova-S. Olcese nel 2000.<br />

È stato invitato a un’importante manifestazione sull’opera dello scrittore polacco Bruno Schulz [Trieste, novembre 2000gennaio<br />

2001, i cui atti sono nel volume Bruno Schulz: il profeta sommerso, a cura di Pietro Marchesani (Libri Scheiwiller,<br />

2000)].<br />

Suoi saggi sono apparsi per le Edizioni Via del Vento in: Alberto Giacometti, Un personaggio vago, 2005; Bruno Schulz,<br />

L’epoca geniale, 2006.<br />

Ha scritto due plaquettes per Alberto Casiraghy: Io scrivo di notte, con un disegno di Jgor Ravel, Osnago, Edizioni<br />

Pulcinoelefante, 1999, e Superfici, con un frammento di Enzo Fabbrucci, ivi, 2002.<br />

È stato redattore della rivista di cultura psicoanalitica “Fanes” (1989-1991), di “Arca” (1992-1997) e “Arca. Quaderni di<br />

scrittura” (1997-2004): tra le opere pubblicate, inediti di Artaud, Barthes, Beckett, Blok, Bonnefoy, Mallarmé, Šalamov,<br />

Walser.<br />

Ha scritto testi e prefazioni per poeti, critici letterari e artisti visivi contemporanei.


Marco Ercolani<br />

38<br />

Collabora ai siti web: “La dimora del tempo sospeso”, “Zibaldoni”, “Fili d’aquilone”, “Biblioego”, “Doppio zero”, “Poesia<br />

2.0”.<br />

Nel 2010 ha vinto il Premio “Lorenzo Montano” per la prosa inedita con Turno di guardia.<br />

Ha dato alle stampe diversi libri di narrativa, trai quali: Le mani e la follia (Il Torchio, 1979), Studi della paura (ivi, 1982), Col<br />

favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Visioni della natura (Corpo 10, 1991), Praga (Ripostes, 1990), Il ritardo della caduta<br />

(ivi, 1990), Taccuini di Blok. 1902-1921 (ivi, 1992), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa<br />

(Solfanelli, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999), Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Il<br />

tempo di Perseo (Joker, 2004), Taala (Greco & Greco, 2004), Discorso contro la morte (ivi, 2008) e A schermo nero (QuiEdit,<br />

2010).<br />

Per la critica poetica ha pubblicato: Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La Vita Felice, 2008); intorno al<br />

nodo arte/follia: L’opera non perfetta (Nicomp, 2010).<br />

Una plaquette di prose e aforismi, Sentinella (Carta bianca, 2011) e un volume di “racconti psichiatrici”, Turno di guardia (Il<br />

Canneto editore, 2011), sono i suoi lavori più recenti.<br />

Con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Contrappunto<br />

(Lietocolle, 2000), Anime strane (Greco & Greco, 2006; Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils,<br />

2011) e Sento le voci (La Vita Felice, 2008; J’entends les voix, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), e dirige<br />

la collana I libri dell’Arca per le edizioni Joker (fra gli autori tradotti Maurice Blanchot, Alain Borne, Bernard Noël, Dieter<br />

Schlesak).<br />

In versi ha pubblicato Il diritto di essere opachi (La Vita Felice, 2010).<br />

Moltissimi i critici che si sono occupati della sua produzione. Si segnalano, tra questi, Giuseppe Zuccarino e Sandro<br />

Montalto; il primo: per essersi con “insistenza” interessato della sua opera; il secondo: per la vasta ed approfondita<br />

indagine svolta nel saggio Marco Ercolani: il veggente notturno (in Forme concrete della poesia contemporanea, Joker, Novi<br />

Ligure, 2008, pp. 269-274).


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

39<br />

Da Le mani e la follia, 1979<br />

Le mie mani sono perfettamente tese.<br />

Già da un’ora sto guardandole: con le palme rivolte verso il viso, bianche. A volte le sento piegarsi con strappi<br />

fulminei, per un attimo tempo che possano colpirmi: allora le premo rapidamente sulle gambe; resto immobile<br />

uno o due minuti, attendo. Da molti mesi mi inquietano, da quando caddi su di esse senza spezzarle. I primi che<br />

mi soccorsero guardarono con stupore quelle dita magrissime, integre, bianche. Avevo le braccia e le spalle<br />

spaccate, sanguinavo in ogni punto del corpo, ma mi dissero che continuavo a sorridere e a guardare le mie mani,<br />

come fossi caduto in un delirio…<br />

Da Studi della paura, 1982<br />

* * *<br />

Quando la città viene devastata dal vento furibondo e inspiegabile, quando i pali e le antenne sono piegati dalle<br />

sue raffiche senza suono, le porte delle case diventano così sottili che i prigionieri, forzandole, rivelano attraverso<br />

il legno le forme tese dei loro corpi. A volte capita di scambiare con vele lontane, brune nella luce lunare, ombre<br />

di uomini che tentano di fuggire. Nei gesti delle famiglie che raccolgono la valigia e si preparano a lasciare la città<br />

si coglie una straordinaria stanchezza, come se i loro movimenti fossero già velati dall’acqua.<br />

Le campane della chiesa, lontane, oscillano senza mandare un suono.<br />

Dominati da un pensiero sconosciuto, uomini soli percorrono delle vie che i loro corpi sembrano rendere<br />

tristemente marine; il cielo è azzurro come gli abissi nei mattini estivi.<br />

Un uomo, camminando con elasticità sui marciapiedi di cemento, comincia ad abituarsi al pensiero della morte<br />

per acqua quando, sollevando la testa, vede sopra di lui le chiglie delle barche e i corpi che nuotano, mentre le<br />

stelle, velate dal mare, splendono lontane, irraggiungibili. Guarda a lungo, poi si trova, stordito, sulla terraferma.<br />

«Respira profondamente - sussurra un bambino - finché l’aria è intorno a noi».<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

40<br />

Da Visioni della natura, 1990<br />

[…] Se ho dipinto la stanza di Arles, Theo, lo devo a te. Guardala: è gialla. È lì che vivo. Non condivi la mia<br />

inquietudine, la sensazione che da qui emerga qualcosa di strano? Eppure tutto è a posto: la caraffa d’acqua, il<br />

libro, il cappello, l’asciugamano appeso. Solo i colori troppo vivi - il blu, il giallo, il verde - insinuano il sospetto di<br />

una passione sgretolata, di un’emozione incontrollabile. Guarda bene, a destra. Vedi le piccole tele appese al<br />

muro dipinto? Appaiono protese verso il letto, piegate contro il punto sul quale, di solito, appoggio la testa per<br />

dormire. È impossibile guardare la parete e resistere alla paura […]. Stretta da forze naturali che la corrugano, la<br />

stanza è chiusa in una morsa, pronta a spaccarsi. Guarda il pavimento - non lo trovi in leggera salita? Quando<br />

sono premute, le cose si allungano e si deformano; quando la pressione cala, i contorni si rifanno normali e la<br />

deformità sparisce […]. Io, Théo, dormo in un luogo dove dormire è impossibile. Da un momento all’altro uno dei<br />

quadri appesi potrebbe cadere e il muro curvarsi di più, toccarmi la mano, la spalla, la guancia - crollare con un<br />

boato…<br />

Vincent<br />

Da Praga, 1990<br />

* * *<br />

Con corpi eleganti e sorrisi compiaciuti mi avete ascoltato senza capire. Udendo poesie che dovevano bruciare le<br />

vostre orecchie e stravolgere le vostre vite, avete osato applaudirmi senza fervore e senza ironia. E ora, spogliata<br />

la parola del suo potere, vi apprestate a uscire da questa sala per tornare nella vostra casa; dove, accaldati e<br />

commossi, dopo una cena abbondante e la consueta scopata, vi addormenterete deponendo la nuca sullo stesso<br />

punto del cuscino, sereni.<br />

Mi fate ribrezzo.<br />

Ma oggi vi sorprenderò.<br />

Forse non ve ne siete accorti, ma, mentre declamavo Ouvalu Klinu, Praga è cambiata. Non mi credete? Scuotete la<br />

testa e ridete?<br />

Eppure io non ho l’intenzione di scherzare.<br />

Guardate fuori. Guardate attentamente.


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

41<br />

Ognuno di voi, uscendo di qui, vedrà cose diverse. Chi piazza Venceslao affondata nella nebbia. Chi il Ponte Carlo<br />

ostruito dalla carcassa di un cavallo assiderato. Chi confonderà la Drevna alla Bozdechòva, la Vlasska alla Zelezna:<br />

le vie sono mescolate, irriconoscibili. Chi udrà colpi sordi, chi tonfi di vanghe, chi violini stridenti.<br />

«E la bocca socchiusa dove luccicano i denti» - ricordate i versi di Màcha? La mia parola, che credevate innocua,<br />

ha fuso vicoli e tetti. Le fondamenta si sono abbassate. Il fiume si è spostato a sinistra. Mentre vi raccontavo che<br />

Màcha cancellò e riscrisse Maggio sette volte, Praga si trasformava settantasette volte.<br />

Non potrete, luridi porci, riprendere la vita di tutti i giorni. Sarete costretti ad adattarvi a piazze ignote, a entrare<br />

in case che non c’erano prima, a vedere università chiese taverne ospedali dove non siete mai stati. Urlerete,<br />

finalmente. Annientati dallo stupore, urlerete. E tornerete qui, nella sala, costernati e furiosi, pretendendo che io<br />

vi restituisca la vecchia realtà - che spazzi via, per voi, questa sgradevole confusione.<br />

Ma io non sarò più qui.<br />

Dovrete arrangiarvi senza di me.<br />

In una sala vuota - senza tavoli né libri né sedie.<br />

Forse - chissà - non era Màcha il poeta che avete ascoltato. Io non l’ho mai letto. La mia voce, vegliando la<br />

metamorfosi di Praga, aveva intonato - non ricordate? - l’ultima terzina dell’Inferno.<br />

Da Il ritardo della caduta, 1990<br />

* * *<br />

[…] La poesia ruota attorno a questo nodo che è fuori dalla parola: immagine non verbale ma sonora, in parte<br />

visiva, segreta alla parola. La poesia è il segno visibile della miniera di suoni e visioni dove la lingua scava e taglia,<br />

inventando prospettive. La poesia è riferire in forme adeguate questa prima forma cin cui la lingua entra sempre<br />

in contatto, per la prima e l’ultima volta. La poesia è il pathos del fuori di sé, la ricerca del non-nato, dell’altro da<br />

noi. La lucida demenza del sonnambulo. Volare attorno a ciò che non avremo, al segno-nulla di cui non siamo né<br />

custodi né garanti. E in questo folle volo trascrivere, testimoni adeguati e non virtuosi semantici. Le parole sono lo<br />

strumento di questa intensità iniziale, di questa consapevole appropriatezza. Bisogna cercare la prossimità che ci<br />

appartiene. È questa la maturità per cui siamo nati […].<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

42<br />

Da Taccuini di Blok. 1902-1921, 1992<br />

Noi non abbiamo ascoltato Petrarca ma il vento nella steppa: la musica della nostra steppa crudele è echeggiata<br />

all’orecchio di Gogol’, Tolstoi, Dostoevski. È questo turbine che testimoniamo.<br />

Troppo facile, l’immagine. Gli occhi possono tradire, la scena ingannare. Ciò che non tradisce è l’udito, la forma<br />

che l’urlo assume nell’orecchio, nella testa, nella cavità dove è costretto a rimbombare. Il bambino che grida,<br />

l’adulto che grida, è qui dentro le tempie.<br />

Come tutti i grandi eventi la rivoluzione accentua il buio. Ma è giusto che accada così? Che la notte sia ancora più<br />

notte nel momento in cui la libertà esigerebbe una forma?<br />

Un colpo. La porta che sbatte. Un grido.<br />

Neve e vento. Salute pietosa.<br />

Pietroburgo è stretta nella morsa di un gelo polare. Non faceva così freddo da oltre vent’anni. Il pane è gelato, la<br />

verdura immangiabile. Tutti hanno fame, io no. Per me è tutto molto lontano, come se vedessi dalla cima di un<br />

campanile ciò che è accaduto e accadrà: la rivoluzione e l’occupazione del Palazzo, la sazietà e la fame, il crollo<br />

dello zar e i colori della folla. Non mi riconosco in questo corpo e nello squallido domicilio che occupa. Non mi<br />

vedo nella carne sofferente che è affidata alle cure di Ljuba. Sorrido del guscio nel quale mi sveglio, ogni giorno,<br />

con accresciuto stupore. Io sono altrove.<br />

Appunti di un romanzo, sussulti di frasi, si chiamano, mi chiamano, come tessere di un mosaico impossibile,<br />

tracce di una trama afferrata per allusioni. Ho in mente un libro-frammento, nella circolarità di una visione che<br />

intuisco completa. Ma è un libro dove vorrei andare non come si entra in una stanza chiusa, in una circonferenza<br />

magica, ma come si penetra in un corpo infelice, nodo di passioni e foresta di immagini.<br />

L’essere intatti è una qualità del vuoto che non appartiene alla nostra natura terrena. In un istante noi siamo<br />

sporcati, toccati, coinvolti, e solo il sonno, quando cessano di esistere sbarre, labirinti, progetti, ci restituisce la<br />

divina possibilità della fuga.<br />

Per ora sono invisibile a Pietroburgo. Conto di apparire domani.<br />

…e ti scrivo su un pezzetto di carta sbilenco, di notte e nella grigia nebbia.


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

43<br />

Da Vite dettate, 1994<br />

La febbre e il limite<br />

* * *<br />

Lezione inedita di Ingeborg Bachmann in difesa della scrittura apocrifa, 1960.<br />

Signore e signori,<br />

sono qui a parlarvi della scrittura. Non di commemorazioni, convegni, centenari, bicentenari, genetliaci,<br />

riscoperte postume, ma della scrittura. E allora comincerò a dirvi la verità: ogni scrittura è apocrifa. Ogni scrittore,<br />

in quanti opera nel segreto del suo spirito, è apokryphos, cioè segreto, e il suo apprendistato si esercita con una<br />

lingua scritta e consumata nei secoli da altri scrittori, vissuti prima di lui alla ricerca della loro anima. Che cosa<br />

significa tutto questo? Che lo scrittore, proprio perché autentico, si abbevera alla fonte a cui altri hanno già<br />

bevuto. Non vi sembra contraddittorio? Una sincerità dell’anima che si basa su una forma di vampirismo. A me<br />

sembra splendido. Dirò di più, inevitabile.<br />

La scrittura, quando si sgombra dei prodotti letterari, diventa quello che deve essere: un’etica del pensiero, una<br />

direzione del sentire, una forza che ci stringe lì, nel regno delle parole, a sperimentare, in modo scandaloso,<br />

l’inadeguatezza dei nostri strumenti. Ma ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il<br />

suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni della letteratura, che la<br />

scrittura smette di essere inoffensiva e diventa energia pulsante e trasgressiva, diagramma spezzato di una<br />

febbre.<br />

[…] Ciò che in arte noi chiamiamo perfezione non fa che rimettere in moto ciò che perfetto non è. Una volta<br />

spenti i riflettori e ogni altra forma di illuminazione, la letteratura, lasciata in pace e al buio, risplende di luce<br />

propria, e le sue creature vere, commuovendoci ancora oggi, emanano bagliori. Le opere sono punti morti e punti<br />

di luce, frammenti in cui si avvera la speranza nella lingua intera che dirà i mutamenti dell’uomo e i mutamenti<br />

del mondo: questa lingua, questa koiné dell’arte nei secoli, è il frammento di confessione che non smette di<br />

agitare la lingua del morente per l’ultimo sospiro. E il morente è l’esegeta, il traduttore, il posseduto, il<br />

camaleonte di questo sospiro: abbandonato dai destini che lo avevano invaso, tace e torna a vegliare, in attesa<br />

che l’aria vibri ancora e torni questione di vita o di morte trascrivere voci…<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

44<br />

Da Lezioni di eresia, 1996<br />

Un caso clinico<br />

Lettera di Roberto Bazlen a Eugenio Montale (ottobre 60)<br />

Caro Eusebio,<br />

capisco che è ineducato scriverti, dopo tanti anni, e non per segnalare la geniale opera di Svevo o l’intollerabile poesia di<br />

Saba, ma sei l’unico amico a cui possa rivolgere questa singolare preghiera: scrivi un articolo, un saggio, un pezzo come vuoi<br />

- ormai sei celebre tutti ti ascoltano - e intima il silenzio su di me.<br />

Il sipario comincia appena ad aprirsi, ma già si discute troppo della mia persona e dei miei gusti. Si vocifera di quaderni,<br />

taccuini, romanzi, che terrei segreti. In parecchi fanno assurde fantasie sulla mia scrittura, di cui sorriderebbe lo stesso<br />

Freud. Se potessero, sognerebbero la mia opera omnia. E ne conosco, di imbecilli, che ricavano, da una mezza frase, da una<br />

mediocre letteruccia, un caso clinico, e frugano nelle carte alla ricerca di chissà quali tesori nascosti.<br />

Non lasciare che frughino, Eusebius. È un fatto di sciacallaggine: come si strappano i denti d’oro ai morti, così ai presunti<br />

scrittori… Non lasciare che si cerchi niente, visto che non c’è niente da trovare: ma si sa, se cercano in tanti finisce che<br />

qualche conto della lavandaia venie fuori, qualche mucchio di fregnacce che possono solo disonorarmi.<br />

Fra poco non sarò più vivo e non potrò oppormi alla stupidità degli altri. Cosa posso fare per essere difeso, se non scrivere<br />

ai vecchi amici?<br />

Proteggimi dalla letteratura, tu che sei sufficientemente cinico per farlo. Le tue quattro poesie poco angeliche e poco<br />

italiane le hai consegnate al mondo. Fa’ che io consegni il mio silenzio. Persuadili a lasciarmi in pace, a tenermi fuori. Fammi<br />

restare nascosto fino all’ultimo, Eusebius.<br />

Io sono un lettore. Uno che, nel treno, con la febbre a quaranta, legge il racconto di un persiano visionario, uno che giudica<br />

Musil e manda a quel paese Bataille e Blanchot. Una razza rara, incomprensibile - tipo quel contadino che si mette a<br />

guardare i raccolti e se ne infischia della semina.<br />

Fermali comunque, Leggo, fumo, vedo, film. Cuscini e poltrone mi conoscono meglio degli uomini. Cos’ho fatto di male per<br />

meritarmi che ficchino la loro lente sui mie i quaderni di scuola? Non voglio essere niente, neppure un caso. Non c’è un caso<br />

Bazlen, altrimenti non esisterei. Possibile che in questo paese non si riesca a leggere un libro in santa pace?<br />

«Poiché so, non dico».<br />

Tao?<br />

Tuo Bobi Bazlen<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

45<br />

Da Il mese dopo l’ultimo, 1999<br />

Drohobycz, 5 luglio 1940<br />

Cara Romana,<br />

lo sai da tempo: il mio stile si compone di immagini. Ma sono immagini che dissolvono la materia del reale. La mia arte usa<br />

le visioni per tendere a un'etica della mente. Quale? Mi chiederai tu. E qui mi ingarbuglio. Sto zitto, come non rispondo a<br />

chi mi chiede cosa provo quando ho visioni. Io non provo nulla: io vivo in uno stato di visione. Qualcuno mi disse, un giorno,<br />

che la mia scrittura è arborescente e acquitrinosa, come una vegetazione colma di putrefazioni e di rinascite. Chissà. Io ho<br />

sempre la sensazione di semplificare, di chiarire: non mi sento così torbido. Sono un uomo ingenuo e credo che le frasi più<br />

limpide siano sempre quelle che gelino il sangue.<br />

Ogni cosa, essere, pianta, oggetto, possiede la sua voce, e questa voce ha un ritmo in cui dirsi, un'energia sonora che ne<br />

determina la potenza magica. Se per noi la parola è solo l'atto che nomina le cose, per un poeta è il ritmo, l'inno, la danza -<br />

che permette alle cose di essere come sono. Quando questa parola non esiste più, resta solo il senso comune - un guscio<br />

vuoto, un fossile. Tu lo sai quanto detesto i significati della logica, la maturità del mondo adulto: per me tutto è suono e<br />

canto, come all'inizio.<br />

La mia voce circuisce il cielo, ma non si perde in esso: al contrario, vuole riferire la vertigine delle lontananze in cui si<br />

smarrisce. È come abitare i confini dello stesso suono, i segni della stessa nota. La musica non cambia melodia ma timbro. E<br />

il timbro è quel lampo che, prima o dopo, la scrittura addensa in parole. Ma sono oggetti reali, le parole, o nebbia da cui il<br />

lampo trapela con un chiarore diverso? Io mi sento reale solo quando sono il fantasma che le mie parole guidano chissà<br />

dove; e scrivo, lasciando sempre troppo spazio fra la prima frase e il margine sinistro del foglio. Qual è il mio vero<br />

desiderio? Che la parola scritta fermi l'emozione di una voce? che la sintassi diventi la sostanza di quella voce e sconfigga la<br />

morte a cui tutti i suoni del mondo - comprese le mie parole - sono condannati?<br />

Non posso aderire a questo sogno di immortalità. È troppo grande la sofferenza di reggerlo. Quando il mio corpo cesserà di<br />

esistere, l'aria tornerà a occupare lo spazio che occupava, e della mia vita resterà meno di un ricordo, un'eco che le parole<br />

restituiranno appena. Ogni soffio sgretola, da sempre, le scritture più sacre. È questo soffio, l'evento. Lui mi tiene in vita, mi<br />

chiede di star bene. E io cerco di star bene, cioè, di scrivere. Penso, da tempo, di raccontare una storia che riguardi il<br />

Messia.<br />

* * *<br />

Tuo Bruno


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

46<br />

Da Carte false, 1999<br />

Il buco nella terra<br />

Da una lettera di Gustave Courbet (1876).<br />

[…]<br />

Mi hanno rimproverato per quella grande zona nera, al centro della tela. Ne sono stati sconvolti. Ma perché?<br />

Quello è il quadro di un funerale, e chi circonda il corpo sono i volti dei familiari. Perché tanto stupore? Io,<br />

comunemente, metto scuro su scuro. Addenso e dipingo tutto come se tutto fosse pietra e bosco. Faccio<br />

pensare anche le pietre. Solo quando stendo un colore meno scuro, questo significa luce, perché la luce è<br />

solo un grado in meno dell’ombra. Millet ha lavorato nei campi e nelle rocce come me, ma ha fallito. I suoi<br />

grandi schizzi di contadini sono patetici superficiali: nei suoi quadri c’è sempre un orizzonte. Millet fa il<br />

pittore che rappresenta da lontano, non si immerge dentro le cose. Io ho vissuto nelle montagne del Giura e<br />

non ho mai saputo cosa fosse l’orizzonte. Sono cresciuto nel fitto dei crepacci e dei rovi. Non conosco il mare,<br />

non sono elegante, ho letto pochissimi libri. Ma dipingo tutto: esserti e cose. E gli esseri sono anche le cose.<br />

Quando inizio un uomo, una pietra, un bosco, una catasta di legna, comincio sempre nello stesso modo,<br />

senza sapere cosa sto facendo, andando avanti colore per colore, alla cieca. Quando, l’altro giorno, mi sono<br />

ritratto in compagnia del cane, ho dipinto il mantello scuro, il copricapo, il corpo dell’animale, con un masso<br />

nello sfondo; il volto e la mani erano dipinte dello stesso colore della pietra.<br />

Io sono così. E tutti sanno che Courbet non cambierà. Perché allora di stupiscono, se in questa tela lunga<br />

ventun metri, io raffiguro esattamente al centro la fossa nera dove seppelliranno il cadavere che stanno<br />

piangendo? O dovevo esprimere il compianto funebre come una bella parata di corpi addolorati da i quali<br />

cancellare il problema - il buco nella terra, il corpo che si corrompe? Nessuno vuole capirmi. Vadano a farsi<br />

fottere. Io dipingerò esattamente quello che sento e quello che vedo. E se per questo sarò arrestato o<br />

frainteso, facciano pure: patirò la prigione e il disprezzo ancora una volta.<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

47<br />

Da Il demone accanto, 2002<br />

10,5<br />

Sopra piazza Sarzano<br />

Sopra piazza Sarzano, oltre lo stradone di S. Agostino, vedi la parete, intatta, di una casa crollata. Davanti c’è<br />

una piccola scala, con il suo passamano di ferro. Per qualche misterioso effetto dei bombardamenti, delle<br />

devastazioni edilizie o del caso, la ringhiera termina dentro la pietra. Si infila nel muro con grande<br />

naturalezza, il muro è la sua meta necessaria. Senti, salendo i gradini coperti di polvere, che cammini dentro<br />

una casa fantasma, fra sale invisibili, alla ricerca del tuo sosia. Non lo trovi, lo cerchi, sali ancora. Entri nella<br />

pietra. Guardi Genova. Città, per te, di puro nulla. Vuoto che non consola, vuoto di nuvole, lampi, ombre,<br />

salite, venti, riflessi. Orizzonte discontinuo, che può cullare come inabissare. Lì, dentro la pietra, ci sei tu. Ma<br />

non tranquillamente. Il paesaggio non è mai dolce e curvo, armonioso come una casa. È proteso, in bilico,<br />

pronto a balzarti addosso, a franarti fra le dita. Guardi nella pietra. Guardi nel mare. Due fulminee epifanie e<br />

ti afferra la bellezza, hai il tempo di parlare solo per pochi istanti, come un condannato. Chiuso in una parete<br />

circondata d'aria, la parola che balbetti è precaria, sfuggente, rischiosa.<br />

Genova ti assomiglia. È questa parola, questa parete - esposta, vertiginosa, segreta. Fondale, prospettiva,<br />

prigione, torre, prua. Hai due alternative: tacere, chiuso dentro la pietra, o viaggiare su e giù, ricordando la<br />

nicchia che ti protegge le spalle. O silenzio o visione. Dove si possono avere più visioni? nelle città visitate da<br />

apparizioni diaboliche e spettri ammalianti, oppure qui, in un luogo più scontroso e meno segreto - qui, nella<br />

parete che ti ospita, muro di chiesa romanica, fortezza di carcere, porta di tugurio, portale di palazzo? In libri<br />

dimenticati hai scritto di Praga e di Pietroburgo, città poetiche e assolute, che hai ricreato con immagini nate<br />

da antiche leggende. Ma, se fossi vissuto a Praga o a Pietroburgo, avresti potuto parlarne o non saresti stato<br />

soffocato da quelle stesse leggende, la lingua mozzata dalla mancanza di distanza?<br />

Qui, chiuso nella roccia, sei più libero. Le notti, a Genova, non sono bianche, come a Pietroburgo, o favolose,<br />

come a Praga. Le notti genovesi sono mediocri. L'aria è bassa, umida. Non consola. Per chi vive in una parete<br />

sono ancora più cupe. Ma puoi voltarti. Ti giri avanti, ti giri indietro. Genova nega ogni paradiso: non ti puoi<br />

illudere di volare alto, come in certi luoghi dove rocce gialle di ginestre si librano contro abissi celesti. Genova<br />

è sconnessa come questo muro. Ma sulla pietra del muro batte l'aria salata, lo scirocco, il vento notturno. Un<br />

prigioniero, queste cose le avverte. In certe notti vivi una concentrazione che non potresti concepire in altri<br />

luoghi, un'astratta passione della mente che esalta le ossessioni più intime. Dalla pietra tu guardi: traversi le


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

48<br />

cose, erodi la materia, assorbi i colori. Vivi a Genova come il nomade che all'improvviso è diventato statua di<br />

pietra e, da pietra, canta l’impossibilità di continuare il suo viaggio. Una volta ti dissero: siamo tutti più<br />

trasparenti dopo l'esperienza sofferta, ma perché dobbiamo pagare un prezzo così alto per ottenere la<br />

leggerezza? Il tuo prezzo è la nicchia nel muro: leggera e instabile, la parete ti chiude dentro di sé ma ti<br />

permette di salire e scendere la scala impossibile per migliaia di volte. Le città sono psicotiche o nevrotiche:<br />

ad esempio, Siena è psicotica, segreta, curva, tortuosa, labirintica, ostile agli intrusi, chiusa nel suo ordine<br />

malioso e avvolgente, con quell'unico centro che risucchia come un vortice; Palermo è nevrotica, orizzontale,<br />

discontinua, frammentaria, visibile, rumorosa, silenziosa, monumentale.<br />

Ma Genova? Da questa postazione privilegiata - prigioniero del muro - la vivi come una città border-line,<br />

sospesa fra psicosi e nevrosi. Città gelosa, fortificata nelle sue difese, intima ma non inaccessibile, aperta al<br />

mare, aspra, ambigua, sonora, rischiosa. Città adatta ai nomadi e agli ossessivi. Nicchia per poeti, dove stare<br />

dentro pareti a sognare, ma pareti circondate dall'aria, che non formano una stanza chiusa ma un luogo<br />

forato dei venti. Città per chi cerca un'idea da nutrire in segreto, fingendo di essere solo. Ma i prigionieri delle<br />

pareti sanno che le pareti ospitano una moltitudine di vivi e di morti, che pensa e ripensa lo stesso sogno.<br />

Folle silenziose, ricordando la vita e presentendo la morte, regnano dentro i muri. All'alba e al tramonto,<br />

nella scala e nel muro, ospiti e abitanti, senza parlarsi, lasciano tracce nell'aria, simili a voci.<br />

Sempre lo stesso suono<br />

Sempre lo stesso suono, acuto e puerile. Quasi che annunci qualcuno. Ma chi doveva salire è già salito. Sono<br />

io. Ti ascolto, ti tengo stretto. Ti sento muovere e parlare, nel sonno, finché vado via. So quando resti solo.<br />

Un sibilo lieve, qualche luce dalla strada, un terrazzo che brucia. Ecco i segni. Non mi vedi più.<br />

Ma ogni volta ritorno. In autobus, quando esci, i ragazzi ti respirano addosso; ti sbriciolano il pane sui calzoni.<br />

Ho pietà di te. Chiacchierano, gridano, esistono. Un essere dagli occhi vuoti sfoglia il giornale. Ti rendi conto.<br />

Devi tornare a casa. Devi dormire. Senza di me le voci sono prevedibili, sono di tutti e di nessuno, sono una<br />

folla neutra che non odora di nulla, una folla anonima e consenziente, una massa senza ombre.<br />

L'aroma del caffè. Io lo sento con te. Io: i tuoi sensi, la tua lingua. Non puoi che berlo con me - è nero,<br />

profumato, caldo. Il caffè: le tenebre. Notte dopo notte sollevi la mano, ti tocchi il viso, ricomponi i lineamenti<br />

devastati dal giorno. Approfitti del buio per questa opera di pietà, che il giorno non ti consente, che io ti<br />

impongo. Stupendo nome Subrahmanian Chandrasekhar - lo leggi, in qualche libro, come una rivelazione. È il


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

49<br />

nome di un fisico indiano - Dio che ha la luna sulla testa. Sorseggi Veuve Cliquot, Johnny Depp agita le forbici<br />

delle sue mani. E se il nero calasse sullo schermo? Se non potessi più vedere quel film, nessun film? Fantasmi<br />

di scrittura, sogni di malati, taccuini fantastici. E ancora fantasmi e sempre sogni. Andrà in fiamme il roveto?<br />

Bruceranno le tende? Crollerà il soffitto?<br />

Praga, Pietroburgo, Genova. Come se esistesse una sola città, in qualsiasi parte del mondo. Un corpo, ma<br />

quale corpo? Un corpo fatto di appunti, di parole; un corpo che perde sudore, sperma, lacrime, sangue, e<br />

trasforma tutto in frasi... Fissi la casa vuota, gli occhi incantati dalla brace della sigaretta. La città brucia,<br />

manda fumo. C'è fumo ovunque, nelle strade, nelle scale, nelle chiese. Niente aria, solo soffi deboli, quasi<br />

inconsistenti, che non salgono e non scendono. Il cielo è basso.<br />

Notte dopo notte, sono con te. Salgo, gradino dopo gradino. Apro la porta. Mi siedo davanti a te. Ti siedi<br />

davanti a me. Mi guardi. Hai un foglio sotto le mani, di cui accarezzi il bordo superiore. I tuoi occhi vedono le<br />

mie visioni, il tuo cervello pensa i miei pensieri. Ti distingue solo quel tremito lieve, nella mano destra. Ansia<br />

umana, che ignoro. La mia è ferma, buia, e scrive con dita perfettamente uguali alle tue.<br />

Ti svegli e, nel torpore del sonno<br />

Ti svegli e, nel torpore del sonno, annoti quanto ti è stato svelato dalla notte. Ti sembra una rivelazione<br />

magnifica, un messaggio particolare, destinato a te solo, come le visioni agli eletti. Ti riaddormenti con un<br />

senso di beatitudine. Poi, al mattino dopo, con ansia, trattenendo il respiro, abbassi lo sguardo. Sul foglio è<br />

scritto, con caratteri fermi e chiari: «Io sono vivo». Ne sei stupito? Perché? Cerchi di salvarti con la scrittura.<br />

La carta ha viso, spalle, ventre, piedi: come un corpo umano. Non si può smettere di abitarla. Pensi che sia<br />

impossibile restare qui. Muovi gli occhi, le mani, cerchi di essere in un luogo diverso. Ma qui abito io. Vorresti<br />

dormire, per non udirmi. Ma i colpi che affondano sul cuscino quando dormi, ti convincono che non è facile<br />

restare sereni, gli occhi immobili sotto le palpebre chiuse, le mani tranquille sotto le lenzuola. Così, se sei<br />

sveglio, scrivi. Sorrido quando ti vedo curvo sulla carta, attento alla composizione di un libro. Povero illuso.<br />

Cerchi luce, armonia, quiete. Eccola, la luce: è dentro lo specchio. Guardati. Ma, mentre ti guarderai, la mano<br />

traccerà segni incomprensibili sul foglio. Solo se fisserai me, la scrittura nascerà. Quella scrittura che cerchi.<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

50<br />

Da Il tempo di Perseo, 2004<br />

10,5<br />

Talvolta, se la terra del sentiero è intatta, si accanisce, contro ogni prova di realtà, a inventare orme, sapendo che un<br />

giorno alla sua fantasia che un omicida si aggiri nel bosco risponderanno i piedi reali dell’assassino, calcati in quelle<br />

orme come guanti nelle dita.<br />

Ogni follia è un privato schema di verità a cui non si possono opporre alternative. Supporre un’analogia tra allucinazioni<br />

e immagini in libertà è ingenuo. Non è la libertà di immaginare che caratterizza il delirio ma tumori di immagini, che<br />

occupano spazio nella mente.<br />

L’esistenza umana si fonda sul bisogno di un forma plastica, vivente: nel momento della patologia o domina un rituale<br />

ossessivo, che irrigidisce, o un’idea delirante, che ne frantuma i confini.<br />

Un tempo voleva, con lo strumento della lingua, sperimentare le macerie del mondo. Poi capì che non aveva senso<br />

aggiungere violenza a violenza, che smembrare il tessuto fonetico per definire lo scempio di un corpo non era scandalo<br />

ma illustrazione. Allora comprese che ogni distruzione corrispondeva sempre, nel pensiero, una possibile ricreazione -<br />

parallela, obliqua, diversa.<br />

Come una gomma, la fantasia cancella il sogno precedente e aggiunge quello successivo. L’universo diventa di creta, di<br />

cera, si trasforma in un gioco che le dita possono plasmare, cambiare, distruggere. Ma la straordinaria leggerezza del<br />

gioco frana nel momento in cui una realtà inamovibile ci mette con le spalle al muro; e allora, delusi dalla nostra<br />

impotenza, desideriamo la morte. Non possiamo sostituire l’amico scomparso con un fantasma; né ricostruire libri e<br />

manoscritti che il fuoco ha incenerito; né reinventare le carezze che durante la notte ci facevano rabbrividire. Per cui, o<br />

cominciamo a vivere partendo da quelle macerie o ci togliamo la vita.<br />

Da Taala, 2004<br />

* * *<br />

Che cos'era Taala? È questo che mi chiedi? Era una città di cristallo e di pietra, di titanio e d'acciaio, fatta di leghe<br />

leggere, impensabili, mobili, sempre sul punto di slacciarsi, di vacillare, di afflosciarsi al suolo o di salire in volo,<br />

ondeggiare, farsi portar via dal vento. I muri delle case hanno angoli curvi. Non c'è riparo, a Taala, non un muro che<br />

difenda, una linea verticale, nessuna intimità. Tutto è scollato, aperto, eppure resta in piedi... La pietra, di notte, è un<br />

rifugio caldo. Ma, di giorno, è fredda, è uno specchio che paralizza... Qui cosa c'è? Delle sbarre? Una cella? Un ospedale?<br />

Ma se sapessi quante volte la città ci ha mostrato le facce più strane! Non è certo oggi la prima volta. Ricordo un


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

51<br />

carcere, un collegio, un posto di blocco, una caserma, dei templi, delle tende. Cosa vuoi che sia, adesso, questo misero<br />

ospedale e la tua faccia attonita? Meno di un cerchio di fumo. Forse sono sempre a Taala.<br />

A domani. Ma posso proprio dirti: a domani?<br />

Vuoi la verità, d'accordo. Eccola, in una riga. Sono venuti e hanno occupato la città. Non ho parole per descrivere la<br />

crudeltà con cui ci hanno seviziato e la meticolosità con cui hanno raso al suolo le case. Forse tu conosci un'altra<br />

versione dei fatti; forse tu credi che ci abbiano trovato per caso, mentre vagabondavamo nel deserto. Se è così, smetti di<br />

credere alle menzogne dei tuoi capi. D'altronde, non tutto il male vien per nuocere. Senza il loro drastico e definitivo<br />

intervento Taala sarebbe rimasta solo una città fantastica che, all'alba di ogni nuovo giorno, con regole sempre nuove,<br />

in un silenzio perfetto, avrebbe mutato forma alle case, volti agli abitanti, direzione alle strade, come un colore sfuma<br />

nell'ombra o un'ombra nel colore. Ma per fortuna sono arrivati loro: i tuoi amici, la tua specie. Hanno fatto scorrere il<br />

nostro sangue e il sogno è finito. Non c'è niente di virtuale, in tanti corpi massacrati. Noi, che siamo sopravvissuti,<br />

ringraziamo i nostri oppressori per la verità che siamo stati costretti a vedere.<br />

La cosa più sorprendente è che nessuno, adesso, a Taala, ricorda nulla di nulla. Loro potrebbero tornare, riassediare la<br />

città e ucciderci di nuovo. Ma quelli che la abitano ancora non hanno imparato niente: se ne vanno per le strade con la<br />

testa in aria e non pensano, non ricordano. Addirittura, continuano a vivere e dimenticano che loro sono stati là e li<br />

hanno depredati e ammazzati; dimenticano persino, con imbarazzante amnesia, di essere morti. No, non sono matto.<br />

Laggiù succede qualcosa di disgustoso e di ingiusto. Questa è la pura verità. Credi a un uomo che è vissuto per un tempo<br />

molto più lungo della vita media di un uomo. Credi a chi ha visto le comete apparire allo sguardo come massi opachi e le<br />

farfalle verdi assediare in pozzi scuri uomini giganteschi, incapaci di difendersi. Credi a chi ha visto i leoni addormentarsi<br />

e trasformarsi, da solenni animali del deserto, in mosche ronzanti.<br />

Già diversi anni fa, al calare della notte, i più anziani di noi cominciarono a parlare di assedi, di nemici, di date. Ci<br />

indicavano i momenti in cui si sarebbe alzata la polvere dal deserto. E noi, che non ci aspettavamo niente di minaccioso<br />

ma che credevamo alla loro saggezza, cominciammo a fissare l'orizzonte con la loro stessa titubanza, presagendo<br />

qualcosa di incontrollabile. Morirono senza vedere niente di quello che avevano temuto, ma noi abbiamo ereditato la<br />

loro paura, che si è trasformata in terrore. Per questo vi abbiamo accolti quasi con sollievo, mentre uccidevano anche i<br />

nostri bambini. Almeno, per un attimo, finiva la paura di attendere. Non siamo più, oggi, dei fantasmi terrorizzati, ma le<br />

vittime reali di un massacro.<br />

[…]<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

52<br />

Da Discorso contro la morte, 2008<br />

Discorso contro la morte<br />

Sermone pronunciato da John Donne la notte di Natale del 1630, nella chiesa di Saint Paul.<br />

Solo adesso arrivo a parlarvi, miei fedeli. Educato fra uomini abituati al disprezzo della vita e al culto dei morti, affamati di<br />

un immaginario martirio e di una tormentosa trascendenza, oppressi dal cilicio di una religione oscura come una tara<br />

inconfessabile, solo adesso arrivo a parlarvi, come dopo un lungo viaggio.<br />

Ora siamo nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, e non possiamo tacere. I nostri abiti sono quella piccola montagna di stracci<br />

ammucchiata davanti al portale. Ma non vergognatevi. Nessuno entrerà. La porta è stata sbarrata dall'interno con un trave<br />

di legno. È quasi mezzanotte e nessuno potrà vederci così come siamo. Dowland ha acceso questo grande fuoco al centro<br />

della chiesa, che ci scalda tutti. Non possiamo avere freddo. Dobbiamo restare in preghiera - noi, chiusi in questo silenzioso<br />

mausoleo con i nostri corpi nudi, nudi come lo furono alla nascita, senza lo straccio di una veste, senza l'orpello di un abito,<br />

scorticati da ogni lusso superfluo - con tutti i nostri corpi, giovani, vecchi, bambini, adulti, nel giorno della massima festività:<br />

il Natale del 1630, la nascita di Cristo, Nostro Signore.<br />

Il cuore mi si colma di commozione. Quasi non riesco a proferire parola. Come siete diversi tutti. Il tempo è leggero su<br />

quelle braccia, pesante su quella schiena, funesto su quel cranio, atroce su quelle gambe. Vi vedo tutti - non posso farne a<br />

meno. Vedo la vita in cammino, come il suo muto gemello, il Signore della Morte. Dio passa dentro di voi. Quell'addome<br />

magro, Katherine, ieri era florido e ha generato Anna Porter, vostra figlia. Quel braccio che ieri lavorava duramente nei<br />

campi, Summer, adesso è lì, raggrinzito sul volume di preghiere. Vi vedo con chiarezza, come un cartografo la mappa delle<br />

terre che esplorerà.<br />

Ma i vostri pensieri sono le cose più incredibili: affollano questo luogo da ogni parte, sono uno sciame di cose tranquille e<br />

atroci, chi vorrebbe ammazzare il vicino di campo, chi cullare la figlia, chi mangiare un arrosto di cervo, chi fare all'amore<br />

con la donna dell'amico. Voi che ora mi ascoltate e arate dei campi e nutrite delle famiglie, non avete mai sentito parlare,<br />

da bambini, di apostasie, anatemi, abiure, sentenze. Non siete stati allontanati, a sei anni, da un drappello di militari che<br />

conducevano l'eretico alla forca: non vi hanno coperto il viso, come fecero a me, obbligandomi a giurare di non fare parola<br />

di quello scandalo. Io, che sentii solo il rullo dei tamburi, non promisi però di non immaginare: così vidi me stesso, issato<br />

sulla forca, il cappuccio sulla testa, ma, nel momento in cui la botola avrebbe dovuto aprirsi, la terra tremò, franò la forca, e<br />

io ero là, nudo e ispirato, la morte negli occhi, che soggiogavo tutti con le parole e cambiavo il corso del mondo.<br />

Ognuno di voi, lo sapete, è nato da un luogo buio, lì ha preso forma: e, dentro il corpo della madre, è nato e si è nutrito, per<br />

nove mesi. Ma, se quel tempo non fosse stato rispettato, se il feto avesse avuto qualche malattia, la morte avrebbe ucciso<br />

le madri e i figli, e qui ci sarebbero dei posti vuoti e io non potrei guardare negli occhi persone che hanno vissuto una vita<br />

intera, di felicità o di stenti, perché non sarebbero mai esistite, perché un piccolo germe, quel giorno di primavera o di


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

53<br />

autunno, si sarebbe insediato nell'utero di qualche madre, un piccolissimo insetto, invisibile a occhio nudo, che anche<br />

adesso potrebbe benissimo stare sotto la cute del tuo braccio, John, o la pelle del tuo cranio, Jane, anticipando il vostro<br />

viaggio agli inferi. La vita è qualcosa di incongruo e di non ragionevole: dipende da un acaro o da un bacillo, a noi è capitato<br />

di viverla e siamo qui, insieme, come una mappa di cui è impossibile decifrare qualcosa. Siamo corpi che si espongono a<br />

Dio.<br />

[…] Atlante, libri, pianeti, sudore, fatiche, singulti – voi siete la mia mappa, la parabola accidentata della creazione. I libri<br />

sacri lo dicono: La creazione è il sommo bene, ecco l'opera di Dio, mirabile ai nostri occhi, e tu mi hai fatto e plasmato,<br />

Signore: ma queste meraviglie, se sono attaccate dalla peste e dilaniate dalle guerre, restano sempre delle meraviglie? A<br />

volte marciscono negli uteri, a volte marciscono nel mondo, e la vita è meno di una pezza da piedi, in cui il potente si<br />

asciuga lo stivale infangato o la lancia insanguinata. E tutto è così precario anche se ci copriamo di mille abiti e pellicce e<br />

corazze e armature, perché la puntura di un ago infetto potrebbe provocare dolori, febbri, bubboni, e non lasciarci più<br />

finché non abbiamo reso l'ultimo respiro.<br />

Credete a me - miei cari, miei nudi fedeli, miei vivi - è solo per caso che qui ci vediamo e parliamo. Nostro Signore è nato in<br />

quella capanna che le nostre storie dolcificano a nido edificante di un bambino meraviglioso ma lo sapete - voi! - che era<br />

una notte d'inverno e faceva un freddo atroce e il fuoco non bastava e, se Cristo non fosse stato il miracolo di se stesso, la<br />

febbre lo avrebbe assalito e lui sarebbe morto di freddo o di fame o per qualche agente maligno, e lo avrebbero pianto i<br />

suoi sventurati genitori, eletti da Dio?<br />

Certo, quando un uomo nasce, può scegliere le sue condizioni di vita. Può viaggiare o pensare, sposarsi o restare solo,<br />

leggere libri o conquistare città: ma non c'è nessuna differenza fra un eremita e un viaggiatore, entrambi si consumano,<br />

entrambi sono ben fragili fortezze. Uno preferisce farsi di pietra, l'altro di vento, ma alla fine devono tutti morire: e chi va<br />

sul Nilo a trovarsi oscure terzane e sopravvive, e chi non si sposta dal tugurio dove è nato e un piccolo verme lo possiede,<br />

distrugge il suo corpo, lo espropria dalla vita: questo è il dannato exitus a cui siamo tutti avviati, e i vostri corpi lo<br />

confermano, chi giovane, chi vecchio, chi malato. Nessuno di voi è immune dai segni del tempo e dai sintomi del male.<br />

Implorate al vostro corpo, che ora è qui, nudo, di tacere a lungo, di non portarvi le sue sorde pene; fatelo stare zitto; non<br />

forzatelo con lavori massacranti; non esibitelo come trofeo nelle guerre; non esponetelo in guerre di religione; non<br />

vituperatelo in risse da quattro soldi; non vi spaccate lo stomaco con la carne e i reni con la birra.<br />

Rispettiamoci: la morte verrà, anche se siamo prudenti. Ma forse, possiamo essere in armonia con lei, se cerchiamo di<br />

vivere un'ora d'ozio al giorno, di leggerezza assoluta, senza vestiti e senza rimorsi, disincantati e liberi. Eccoci qui, corpi e<br />

volti nudi, come non siamo mai stati prima, a mezzanotte. Qui non ci sono orge o scandali, ma solo la pace giusta. Non<br />

sento più il sussurro delle fontane, le armonie dei clavicordi, i cori delle campane, i corni di caccia, le marce funebri, i canti<br />

liturgici. Ho perso il lessico del teologo per essere qui, con voi, nel dubbio reale dei capelli intorno all'osso, della pelle viva<br />

contro lo scheletro. Voi siete la mia mappa planetaria e le mie strofe perfette: voi significate il mio abbandono di ogni


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

54<br />

perfezione. Io entro, con voi, nella presenza della vita e della morte.<br />

Anche se la chiesa, come abbiamo voluto, è sbarrata a chiave. Anche se non vogliamo che nessun vescovo o nessuna<br />

guardia entri qui, dove preghiamo, e inorridito dallo scandalo delle mie parole condanni me al rogo e voi ai lavori forzati.<br />

Ma sarebbe bello fosse così per ognuno di noi - nella sua comunità; che fosse esposto a tutti, docile e giusto. Certo è che<br />

l'uomo, così come voi lo vedete, ha bisogno di tutto. È l'essere più fragile. Se questo fuoco uscisse dai limiti in cui lo<br />

abbiamo confinato e si appiccasse ai vostri corpi, cosa potrei fare io, per voi? cercare di salvarvi? Ma come, se io sono<br />

debole e leggero quanto voi? E se questa chiesa fosse invasa dall'acqua e grandi onde frantumassero le vetrate e si<br />

impadronissero dei vostri corpi? E se il vento vi trascinasse via come fuscelli? e se la terra vi inghiottisse nei suoi crateri?<br />

Ecco, noi siamo qui, nudi e calmi, in questo Natale, solo perché la terra è tranquilla e non manda scosse e gli oceani non<br />

escono dai loro limiti. Noi esistiamo e i nostri padri e i padri dei padri e i figli dei figli e i figli dei nostri figli, magari per<br />

cinquecento anni, solo perché in questi cinquecento anni la terra è rimasta tranquilla. Quindi viviamo per caso: e intanto<br />

continuiamo a invecchiare e niente può arrestare il processo se non amare meno la vita e pensare con saggezza al possibile<br />

distacco.<br />

Guardate laggiù, i vostri abiti. Sono tutti fradici delle vostre fatiche, del sudore, della gioia che avete vissuto. Sanno di<br />

quando avete fatto all'amore o avete cagato i vostri escrementi. Sono una piccola montagna lurida. Ma racchiudono tutti i<br />

fatti che vi sono accaduti. Forse, in qualche brandello, ci sono rimasti anche i vostri pensieri. Forse un giorno li brucerete, li<br />

dimenticherete, li getterete via, parte della vostra storia resterà in quelle fibre di tessuto, e le fibre non andranno distrutte,<br />

magari saranno macinate o riassorbite dall'acqua e porteranno nel mondo, dove voi siete morti, l'eco di voi.<br />

Eccoci qui, nudi. Le maschere le abbiamo lasciate lì, addossate al portale della chiesa, e qui nessuno entrerà. Ma ricordiamo<br />

che quelle maschere sono anche la nostra storia. Non illudiamoci di essere sempre nudi. Santi o veggenti o folli - è un<br />

destino di cui ho appena intravisto l'orrore.<br />

Qualcuno di voi è malato. Qualcuno di voi mi dirà che, magari, desidera uccidersi. Non c'è niente di più naturale, per<br />

l'uomo, che togliersi la vita. Cosa si può imputare, al suicida? Egli corre, invece di camminare. Si affretta, invece di<br />

rallentare. Cade nel pozzo, invece di esserci a fatica buttato dentro. Siamo tutti mortali. Non ci sono peccati né nel vivere<br />

né nel morire. Siamo tutti la mappa di un disegno sacro, che ognuno di noi potrebbe anche turbare, chi ridendo, chi<br />

giocando, chi uccidendo, chi cominciando a danzare. Non c'è un fato già scritto: già scritto è solo il fatto che morremo.<br />

Ma qui, adesso che siamo nudi e spaventati, io vi dico: guardiamo con chiarezza il mistero. Nutriamoci della morte come<br />

gustiamo la carne degli animali o le piante della terra, è tutto un ciclo naturale, non pensiamo troppo a noi, alle nostre<br />

famiglie, ai nostri figli, non possediamo i nostri pensieri ma facciamo che loro traversino noi. Non viviamoci indispensabili,<br />

anche se siamo portati a pensarlo, ognuno con le sue eccellenti ragioni. Tutti andiamo e veniamo dalla stessa porta.<br />

Ognuno di noi ha il suo volto e il suo incubo: la paura non è neppure un sentimento, è uno stato. È sangue della nostra<br />

carne, prendiamola con noi, passiamo con lei le nostre ore. Viviamo o uccidiamoci o sopportiamo gli stenti: ogni giorno ci


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

55<br />

colerà vita dalle mani, è stupido poi piangere quando qualcuno muore, come se un fato crudele ce lo avesse strappato.<br />

Sarebbe come incolpare una bottiglia di essere vuota, dopo che è stata bevuta giorno per giorno. Piangere, lo possiamo<br />

fare a ogni secondo che scappa dalle dieci dita; ma, se non fossimo esistiti, potremmo gustare questa gioia di esserci, di<br />

gridare e battere i piedi, e gustare il vino e tenerci per mano? Non saremmo nulla e allora niente servirebbe, né cibo né<br />

vesti né carezze.<br />

Se uscite di qui, quando sarete di nuovo con le vostre vesti, non pensate a voi stessi. Ricordate di esservi visti e che domani<br />

potete ancora vedervi, se il caso lo concede. Non c'è speranza o disperazione: solo una stretta di mano, un bacio, uno<br />

sguardo. Si vive di nulla. Qui, a pelle nuda, col sangue che ci scorre nelle vene. Qualcuno leggerà la mappa dei nostri corpi<br />

anche quando essi saranno cenere e solo le ossa indicheranno la nostra permanenza sulla terra. Qualcuno ci sognerà o<br />

respirerà di noi e noi rivivremo nel sogno di un re o nel rimpianto di un soldato, nel dolore di un mendicante o nel sonno di<br />

un eremita, in qualche angolo del pianeta, e allora, verme o Shakespeare, cosa importa, resteranno sempre le ossa, fuori<br />

sarà primavera o inverno, o qualche altra stagione.<br />

Forse qualcuno di noi, presente oggi, potrebbe domani uccidere il vicino, per una questione di donne o di campi. Si uccide<br />

per difendersi da chi ci opprime o ci offende: è un impulso naturale. Un uomo deve uccidere, per essere vivo: ma se lo fa, lo<br />

circondano ingombranti cadaveri, cose da sotterrare. Deve essere più scaltro. Deve, se sarà necessario, annientare l'altro,<br />

privarlo delle armi, ridurlo alla condizione di morto, ma senza spargere sangue. Così l'essere umano ammazza il padre e la<br />

madre non se li elimina fisicamente ma quando sa distaccarsene. Essere vivi è sempre e solo un distacco. Tutta la vita è un<br />

raffinato vagare nelle strategie dell'addio. Ma durante queste fasi, durante il tempo che ci separa dalla morte o<br />

dall'assassinio, eccoci nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, a dichiarare che amiamo, a non potere non amare, nel modo più<br />

eretico e folle, personale e avventuroso, quanto vogliamo e possiamo. E, se ci sarà occasione di odiare, odieremo.<br />

Ma ora rivestiamoci. Il tempo della Messa è quasi finito e non voglio che nessuno sappia di quanto è accaduto. Questa<br />

notte è stata irripetibile: teniamola dentro la nostra memoria come un evento. Spegniamo il fuoco e torniamo a vivere e a<br />

morire nelle nostre case. Non cerchiamo mai di opprimere o di rassegnarci ma di essere liberi, innanzitutto. Di sorprendere<br />

e meravigliarci. Mai dormire in se stessi ma addormentarsi fuori di sé, per uscire dai nostri corpi, lasciando a chi resta<br />

l'insegnamento del sogno e qualche gesto da ricordare.<br />

Amen<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

56<br />

Da A schermo nero, 2010<br />

Faccia lunare<br />

Un uomo piccolo, dalla faccia folle, infantile, perturbante, che interpreta con perfetta intelligenza parti di traditore e di assassino: l’ungherese<br />

Ladislav Löwenstein, in arte Peter Lorre (1904-1964). Caratterista in Casablanca e Il mistero del falco. Protagonista in M., Delitto e castigo,<br />

Amore folle e Lo sconosciuto del terzo piano. Lorre, regista di un unico, tragico film sulla storia di un assassino nella Germania nazista, L’uomo<br />

perduto, invecchiando interpreta parti sempre più marginali in alcuni film dell’orrore. I suoi lineamenti sono deformati dalla pinguedine e<br />

dall’uso prolungato di morfina. Al suo funerale, Vincent Price disse di lui che era stato un “piccolo, grande, immenso attore”. Il testo seguente<br />

è un soliloquio-confessione dell’attore, ubriaco in una taverna messicana, nel 1951.<br />

Non so se, vedendomi, mi riconoscereste. Grasso, piccolo, sempre ubria­co, vivo per nove ore al giorno nel fondo di questa taverna,<br />

ad Escobar. Non ho più un volto per turbarvi. Ho perduto l'atterrita attenzione del mio pubblico. Non so più guardare con quegli occhi<br />

globosi e innocenti, da folle mite, da assassino silenzioso, da essere lunare. Non verso il latte nella ciotola, non accarez­zo il gatto,<br />

non uso sciarpe bianche. Non mi innamoro di una statua. Non tradisco per nessun falco. Non uccido, non fuggo, non sono inseguito.<br />

Nessuno marchia la mia schiena con una M di gesso. Non fischio canzoni per ciechi, non compro palloncini per bimbi dolcissimi. Il<br />

subdolo criminale dalla voce flautata non abita più in me. Il processo è stato lento e inesorabile. Quando avevo un viso giovane e uno<br />

sguardo sfuggente, nessuno si accorgeva della mia statura: la mia insidiosa piccolezza aggiungeva ambiguità all'ambiguità. A<br />

cinquant'anni ingrassai e il mio collo ingrossò, la faccia divenne molle e larga - materia flaccida, da incubo, da danza macabra. Capii<br />

allora che si poteva solo ridere del piccolo attore dalla faccia cambiata, dall'ex-viso lunare. Adesso ero poco più alto di un nano.<br />

Non lasciai il cinema ma i ruoli che mi venivano assegnati erano sempre più secondari e bizzarri: la mia faccia, rammollita anche da<br />

un mediocre technicolor, non faceva più male a nessuno. Ecco la verità: ho consegnato il mio volto ai film che ho girato e ora non è<br />

più mio. È vostro. Non saprete mai quanto tutto questo sia atroce: sapere la propria faccia appesa, come un trofeo, in certi<br />

capolavori che non smetterete mai di rivedere, turbati da un viso glabro, lunare, folle, e io, che lo possedevo, mi trovo questa vescica<br />

grassa e irriconoscibile posata sul collo, una cosa molle e sudata che mi tortura per la sua ottusità.<br />

Quando voi, con il nome di Peter Lorre, vedrete sempre, in qualche vecchio cinema, il volto che ho perduto e rabbrividirete, io, in<br />

questa taverna di miserabili, ad Escobar, potrei essere schiaffeggiato da un barbone che non saprebbe mai di stare percuotendo lo<br />

stesso volto lunare che dalle penombre del cinema, con subdola grazia, continua a turbarvi da generazioni...<br />

Non sono più chi sono stato. Il cinema mi ha derubato di me.<br />

Gli idoli invecchiano, se sono fatti di pelle umana, e non c'è niente che, come la vecchiaia, spezzi l'incantesimo del cinema. Il cinema<br />

è giovinezza. Un certo sguardo o andatura o sorriso, colto in una certa età. Un attimo. Quell'attimo e nessun altro: un che di<br />

enigmatico e di insostituibile, di cui non si può tollerare la scomparsa; al punto che solo l'alcool, tracannato nelle taverne di Escobar<br />

o in sordidi seminterrati, con puttane o senza puttane, fra ex-attori o guitti o deboli di mente, può farci tollerare l'impressionante<br />

lunghezza della vita. E poi, questi dolori al fegato, la morfina…. Vorrei solo poter rivedere Un uomo perduto prima di morire: sono<br />

anni che non passa, in televisione, proprio quel film. Pensa di essere un genio soltanto lui, quel grassone di Laughton, con La morte<br />

che corre sul fiume?<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

57<br />

Da Sentinella, 2011<br />

Nelle ultime ore della notte può sempre apparire un “pensiero girovago”, come lo definiscono i monaci egiziani del IV secolo - un<br />

pensiero che conduce da una mente all’altra, senza nessun<br />

nesso logico, e genera eresie.<br />

Esiste una follia “bianca” dove non è visibile la cruenta emorragia del delirio o la violenza permanente del grido ma il silenzioso<br />

slittare dell’individuo verso i suoi intimi inferni.<br />

Ogni opera scritta, veramente scritta, è un silenzio che parla.<br />

P. Quignard<br />

Errante nella follia: scrittore.<br />

Stanziale nella follia: pazzo.<br />

Il muro bianchissimo dell’Acropoli, visto dagli occhi di Flaubert, non è più la rigorosa trama del Libro.<br />

Oggi il Libro è svuotato, graffiato, smascherato anche delle ultime parole, che restano rapidi arpeggi sulle macerie.<br />

Dondolano e dondolano, dal basso sembrano stracci bucati o vessilli pericolosi, ma visti dalla giusta prospettiva sono oracoli fatti<br />

di stoffa, con segni e scritture, disegni e alfabeti.<br />

I libri si rispecchiano uno nell’altro, soprattutto se sono scritti in tempi e in età diverse.<br />

Ponti che l’acqua subisce o forme create dalle correnti?<br />

L’artista rischia il richiamo imperioso della sproporzione.<br />

Gli stili sono strumenti accordati da interpreti diversi.<br />

La scrittura: un sogno da cui ci si sveglia scrivendo il libro che era necessario scrivere.<br />

Io, se scrivo, non posso avere rimpianti.<br />

Il fuoco che arde e insorge, senza incenerire.<br />

Come se in una casa che sta per essere distrutta dalle fiamme, ci si ponesse per la prima volta il problema della sua architettura.<br />

F. Kafka<br />

* * *


Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

58<br />

Da Turno di guardia, 2011<br />

[…]<br />

Oscillare senza cadere<br />

Quando ascolto un «matto» delirare, ogni sistema logico diventa instabile, come se io e lui fossimo su una passerella oscillante.<br />

Ma, nell’attimo stesso in cui io e lui ci mettiamo a parlare tutto ritorna stabile e c’è una via di scampo. Io vacillo e lui sprofonda.<br />

Ma, vedendomi vacillare con lui, sprofonda di meno. È felice che io barcolli, che io sia simile a lui. Sa che io, come psichiatra, non<br />

sprofonderò. Sa che, come matto, lui potrebbe farlo. Ma sente che, se ha una possibilità di salvarsi, deve imitare la mia strategia.<br />

Oscillare senza cadere.<br />

Ascolto il suo destino. Ha voluto sciogliersi dalla forma che lo imprigionava e ha fallito. Mi carico di quel fallimento per osservare<br />

nodi che appartengono a me e a lui. Conquisto una distanza che è già reciproca via di salvezza e di avvicinamento al mondo<br />

parallelo che, da quei nodi, potrebbe inventare universi.<br />

Se il mio compito, come lettore e interprete della malattia, è decifrarla e trasformarla in qualcosa di altro dal sintomo, il mio<br />

compito come scrittore è lavorare su una scrittura che renda impossibile e altro il linguaggio. Chi, come lo psicotico, non ha niente<br />

da perdere perché crede di possedere tutto, ha come suo doppio l’artista che non ha niente da perdere perché non ha e non<br />

vuole avere nulla.<br />

[…]<br />

Mulini a vento<br />

Un giorno cercai di persuadere un uomo di trentasei anni, in preda a un delirio megalomanico in cui credeva di essere Gesù,<br />

Budda o Gandhi, a raccontarmi ciò che provava, a scriverne su un taccuino. Lui mi guardò con sospetto, poi disse: Io non scrivo, io<br />

sono. Aveva già tracciato, per i giorni a venire, il suo programma: dimostrare di avere ragione contro chi gliela negava, e pagare il<br />

prezzo di questa lotta. Il segno più evidente della psicosi è che ogni parola pronunciata non appartiene alla sfera del linguaggio, e<br />

tantomeno all’universo della metafora, ma è verità rivelata. Chi si sente messaggero di questa verità guarderà con sospetto sia i<br />

funzionari di potere - poliziotti e psichiatri - che lo invitano a tradirsi, sia i compagni di follia che enunciano verità diverse dalla<br />

sua. L’uomo di cui parlo ha sofferto per mesi di un’infezione alla gamba sinistra che solo per caso non si è trasformata in<br />

cancrena. Per mesi, pur zoppicando, ha negato la realtà di quella ferita. Non lo considerava un problema. Lo avrebbe risolto<br />

quando avesse voluto. Poi il dolore è cresciuto; lo ha spinto, suo malgrado, a farsi curare.<br />

Il «matto» intraprende sempre una lotta ostinata contro le convenzioni della sofferenza, del pensiero, della percezione: una lotta<br />

grandiosa, destinata al fallimento. L’esagerazione, maniacale e donchisciottesca, è comune, in campi diversi ma contigui, anche<br />

all’arte. Se non si esagera lottando con i mulini a vento contro una uniforme pianura noiosa, se non si vive fino in fondo<br />

quell’«energia dislocante della poesia» di cui parla René Char, accettare le regole della vita e del linguaggio è solo un debole atto<br />

di sottomissione a codici già scritti, una sconfitta umiliante. La speranza nasce quando - parzialmente sani - cerchiamo di<br />

sfruttare, tra affanno e pazienza, l’energia vorticosa dei mulini.<br />

* * *


Dalle opere scritte con Lucetta Frisa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

59<br />

Da Nodi del cuore, 2000<br />

Guarigione<br />

Paul Celan e Nelly Sachs<br />

Parigi, gennaio 1970<br />

Nelly cara,<br />

gli ultimi disegni di Gisèle raffigurano bei corsi d'acqua, magnifici. L'acqua è qualcosa di molto buono: risolve, e dà<br />

senso. Lo sa bene chi, come e più di noi, ha visto tante morti per fumo e per fuoco, e ora vuole dimenticare la cenere e la polvere,<br />

non ricordare più. Noi, che ancora siamo vivi, abbiamo un privilegio: scegliere dove andare, quando è il momento di andare. Ora<br />

non parliamo più di terra promessa, ma di acqua - assegnata in dono a noi, perché ci si purifichi o si scompaia. I due atti sono<br />

paralleli: guariscono dal male, come dalla poesia che ci consuma. (Quel 5 settembre di dieci anni fa, perché non hai voluto<br />

riconoscermi?).<br />

***<br />

Tuo Paul<br />

Stoccolma, marzo 1970<br />

Lo dicevi anche tu, Paul. Scrivere poesie, stringere una mano, c'è differenza? In questo momento vorrei entrambe<br />

le cose. Sono debolissima e solo entrambe queste cose mi darebbero la forza di resistere alla malattia fisica. La parola è stata,<br />

forse, la cura intima e splendente che ci ha permesso, fino ad oggi, di restare in vita. Ma anche le cure hanno una fine. Si guarisce,<br />

si va altrove... Qualcosa, Paul, mi risucchia dentro - come un'acqua nera, che sento salire dentro di me. Ma non provo nessuna<br />

sofferenza. Davvero nessuna. Solo una grande, silenziosa felicità: mi sento pensata da te e non resistere significa, in un certo<br />

senso, abbandonarmi a questo pensiero, strappare la rete, essere insieme a te dove sappiamo che si può, in modo buono e<br />

chiaro, riconoscerci veramente, senza vergogne e senza ricordi. Forse, nella luce...<br />

Nel maggio del 1954 Paul Celan e Nelly Sachs cominciano a scriversi assiduamente. Fra la poetessa tedesca, nata a Berlino nel 1891, e il poeta<br />

rumeno, di ventinove anni più giovane, nasce una corrispondenza intensa, dove momenti di esaltazione lirica si alternano a periodi di<br />

malessere esistenziale, legati anche alla comune ascendenza ebraica. Nelly Sachs vive a Stoccolma, mentre Celan, con la moglie Gisèle,<br />

pittrice, e il figlio Eric, abita a Parigi. I due poeti si incontrano solo due volte: nel maggio del 1960 a Zurigo e nel settembre dello stesso anno a<br />

Stoccolma:<br />

Nelly


Dalle opere scritte con Lucetta Frisa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

60<br />

Stoccolma: in quella seconda occasione Nelly Sachs, prostrata da una grave crisi psichica, non può o non vuole riconosce il poeta che è venuto<br />

a trovarla. L'epistolario continua, sempre meno frequente, negli anni seguenti. Paul Celan muore suicida il 20 aprile del 1970, annegandosi<br />

nella Senna, e Nelly Sachs, già gravemente malata, il 12 maggio dello stesso anno.<br />

Da Anime strane, 2006<br />

* * *<br />

Pesce<br />

Fin dal primo giorno in cui ha letto vita e abitudini dei pesci, li ammira per la straordinaria prudenza con cui affrontano il nemico,<br />

per le tecniche sofisticate di difesa: si commuove alla notizia che le seppie intorbidano il mare con getti d’inchiostro, di modo che<br />

i predatori, storditi e macchiati, girino al largo. Dai pesci ha imparato il silenzio. La madre, quando lui compie dieci anni, comincia<br />

a preoccuparsi. Risalgono ad allora i primi colloqui psicologici. Ma lui, invece di parlare, muove appena le spalle e protende le<br />

labbra a muso. È considerato un «idiota sapiente». Internato e costretto ad assumere neurolettici, non si scompone. Trangugia i<br />

farmaci con grande calma e sa dentro di sé che non possono fargli né bene né male. I pesci sono insensibili alle terapie dell’uomo.<br />

Continua a ruotare le spalle, a protendere le labbra. Spesso scende da letto e nuota nel corridoio, pancia a terra; nuota nel buio,<br />

come se avesse le pinne, finché gli infermieri non lo notano e lo riportano nella sua stanza. Lui, obbediente, riprende la posizione<br />

eretta, barcolla un po’ e senza dire una parola si lascia rimettere a letto, a pancia in giù.<br />

Tentativi di nuvola<br />

Fa spesso i suoi «tentativi di nuvola», così li definisce. Si affaccia alla finestra, sollevandosi sulle punte dei piedi, allunga il collo,<br />

chiude gli occhi, poi, dolcemente, comincia ad oscillare la testa. Finché si dondola con tutto il corpo. Sua madre gli urla di tornare<br />

a studiare. Il patrigno si isola nella sua stanza. Il fratello sghignazza. Ma lui, ostinato, continua i suoi «tentativi di nuvola». Agli<br />

psicologi che lo interrogano sulla sua infanzia, risponde ridendo: «Io? Mai avuta infanzia. L'avranno quei due uomini e quella<br />

donna che mi perseguitano. Io no. Io sono leggero. Molto leggero».<br />

Bocca di rosa<br />

Tiene le spalle incassate. «L’aria mi pesa sul cranio, non riesco a scrollarla dalla testa! Mi annoio, dottore. A volte sento un fruscio<br />

sotto le spalle, che non capisco. Sto bene con il Risperdal, certo. Tranquillissimo. Lavoro in mensa al mattino, di pomeriggio porto<br />

a spasso Leòn (o è Leòn che porta a spasso me, mugolando e correndo?). Ma io, chi sono? Me lo dica. Un mese fa sentivo le voci,<br />

ora meno. Esistono davvero, sa. Una mi dice: stai fermo sui gradini. L’altra: il ponte suona se ci soffia il vento. L’altra: guarda che<br />

arriva lo tsunami. Si avvera tutto, dottore. Allora dovrò scegliere: sono matto e niente è vero, oppure non sono matto e tutto è<br />

vero. Ma, se tutto è vero, allora perché sto con mamma e papà e perché passo il tempo a fare ragù di carciofi e a ingoiare pillole?<br />

Devo andare su un monte a fare l’eremita, e basta.<br />

Si ricorda il mio sogno? La cascata, immensa in mezzo alla chiesa. E io, con quei lacci addosso, come una corazza, portato via da<br />

due


Dalle opere scritte con Lucetta Frisa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

61<br />

due ragazzini. Cosa significa? E io, perché vengo da lei? Se ci pensa bene, Bocca di rosa non l’ha scritta De André. Lui è venuto a<br />

trovarmi, un giorno che ero bambino, e l’ho scritta io, la canzone. Come, non ricordo. Ma so che lui l’ha copiata da me. Sì, sento<br />

sempre quel solletico sotto le spalle. È vero che mi nasceranno le ali?<br />

Da Sento le voci, 2008<br />

* * *<br />

Claudio L.<br />

Devo aggiungere una cosa, dottore. Per correttezza. Quando, la sera, buttavo la spazzatura nei cassonetti, ero io la spazzatura.<br />

Volevo dirglielo. Grazie per questi tre anni in cui mi ha curato bene. Ma chi semina vento raccoglie tempesta. Tutto è già stato<br />

scritto. Inutile lottare. LORO verranno a prendermi, domani, forse. Me lo dicono giorno e notte, che verranno a prendermi. Lo<br />

scandalo è stato troppo grande. Sono come un maiale, mangio e dormo come un maiale, e dei maiali si fa prosciutto e salsiccia.<br />

Lei ha voluto salvarmi ricoverandomi in ospedale. Grazie: ma io sono colpevole, e lei lo sa. Non merito neppure di stare in questo<br />

letto: c’è chi sta peggio di me. Chissà se sono proprio malato. Sono solo il figlio superstite: mio fratello, quello buono, è morto a<br />

dodici anni in ospedale. Sono rimasto io: la spazzatura. Lei mi dice che sono malato, che sono bipolare, ma tutto è scritto. Io ho<br />

peccato e devo pagare. Punto. Lei ha voluto salvarmi ricoverandomi e la ringrazio: lei è buono. Ma, stavolta, è davvero un casino<br />

e, se fossi scoperto, non potrei che uccidermi per lo scandalo. Alla fine, le colpe si pagano. Spieghi tutto lei a papà e mamma.<br />

Devono restare uniti, come sempre: stare uniti è l’unica cosa che conta.<br />

(spazzatura, 1)<br />

Giuseppe R.<br />

Lo vedi da te che non camminerò mai più. Eh già, mi sono cacciato giù dal ponte. Non volevo venire al servizio, non volevo andare<br />

in comunità, non volevo un cazzo. Sono salito sulla ringhiera, sono piccolo, sai, molto piccolo, e mi sono buttato. Niente dolore.<br />

Nemmeno una fitta. Ma il rumore delle ossa, quello sì. Un rumore lungo fino alla testa. Ma ero vivo. Ho chiamato aiuto col<br />

cellulare. Che vento, quel giorno! Soffiava dappertutto. E quello stupido elicottero,che girava e girava e non poteva atterrare! Io<br />

non sentivo i piedi. Fissavo il vuoto. Allora ho ricordato quanti chilometri facevo, tutti i giorni, dalla comunità a casa, da casa alla<br />

comunità, con una voce che mi martellava nella testa «scemo… scemo…», e mi sono messo a ridere. Mentre mi soccorrevano<br />

tenevo la bocca dentro le dita perché non mi vedessero. Non avrebbero capito uno che si butta nel vuoto, si rompe le gambe e<br />

ride.<br />

(risata)<br />

Miriam T.<br />

Lei lo sa, dottore, che corpo è anagramma di porco? Io sono chiusa dentro questo porco che non mi lascia libera. Non mi molla. E<br />

aspetto. Aspetto la morte, aspetto. Come passo il tempo? Io non passo il tempo perché è lui a non passare mai. Eppure ho già 50<br />

anni.


Dalle opere scritte con Lucetta Frisa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

62<br />

anni. A Montségur non volevo aspettare, ho provato a uccidermi con le pastiglie. A Genova con la pistola, esercitandomi a<br />

tirassegno per non sbagliare il colpo. Ho fallito tutte e due le volte. Eppure la voglio, la fine, la imploro. Dopo morta, salirò nella<br />

grande Blue Family, nel Paradiso Azzurro della razza ebraica, riceverò finalmente la laurea ad honorem in matematica e sarò<br />

felice. Là brillerà, e per sempre, non la povera luce del giorno, non il sole fasullo di Sigfrido, di Dio padre, di Cristo figlio, ma il sole<br />

vero, il sole di mezzanotte. Lei lo sa, dottore, che Mezzogiorno di fuoco, con Gary Cooper, è una metafora della condizione<br />

umana? Lo sceriffo Cooper, in una cittadina del West, uccide la bestia che è dentro di sé. Arrivano quattro nemici, in pieno sole.<br />

Due li uccide lui. L’altro la sua sposa, Grace Kelly. Il quarto lo uccidono insieme, quando lei si scrolla in pieno sole. Due li uccide lui.<br />

L’altro la sua sposa, Grace Kelly. Il quarto lo uccidono insieme, quando lei si scrolla di dosso il capo dei banditi, piantandogli le<br />

unghie in faccia, e lui lo ammazza. Dopo, possono lasciare quel paese assolato e ingiusto ed entrare, da sposi, nel loro vero regno<br />

di tenebre. Fred Zinnemann, che ha diretto il film, lei lo sa, dottore? Era ebreo. Arrivederci al prossimo martedì. Noi li faremo<br />

sempre, i nostri colloqui, vero?<br />

(i nostri colloqui, 1)<br />

Maurizio F.<br />

La natura è natura, dottore. Vuole forse che io depositi mele e pesche dentro il frigorifero in modo che il ghiaccio le uccida e ne<br />

spenga la fragranza? Io non ammazzo la natura. E il fuoco, il sacro fuoco, lo accendo di notte, in cucina, perché i miei lari e penati<br />

mi custodiscano. Michela teme una stupida esplosione domestica, ma ha torto. Lavarmi? No, che sciocchezza! Io non mi lavo. Se<br />

mi lavassi ucciderei i batteri sparsi nei capelli, nella barba, nei denti. Uno sterminio. Sono loro il mondo, non noi; loro il grande,<br />

multiforme, invisibile universo del quale siamo deboli ospiti noi, con le nostre coscienze morte. La preoccupo, vero? Io sono la più<br />

grande risorsa e la più grande ansia per i miei simili. Adesso torno a casa. Sta per tramontare il sole e devo vederlo, l’astro, io che<br />

da sempre sono il suo custode. Curioso: con quella faccia da giovane sapiente lei è solo uno spietato assassino, come il resto degli<br />

uomini. Ma, più di loro, capisce l’enormità della mia vita spirituale, che mi rende vero ma mi riempie gli occhi di lacrime, che<br />

rende gracile e stretta la mia vita materiale. Permette? Le esprimerò il concetto con questi versi:<br />

Come la mano<br />

raccoglie la terra<br />

la terra cade<br />

il vento la porta<br />

qualcosa rimane<br />

La mente<br />

pensa<br />

un’altra cosa.<br />

(il sacro fuoco, 1)


Da Il diritto di essere opachi, 2010<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

63<br />

Gerico<br />

Da Gerico non si fugge mai<br />

perché intorno alle case cresce l'insidia dell'aria:<br />

una città fluida, oscura,<br />

dove i nomi delle strade sono segreti<br />

dove, se respiriamo,<br />

un uomo sarà ucciso mentre cammina nella nebbia.<br />

I nostri passi, cercando la terra, trovano il vento.<br />

Io socchiudo gli occhi, stanco di vedere<br />

pietre.<br />

Stringo un bicchiere vuoto<br />

e ascolto le voci dei ragazzi<br />

per non credere che l'uomo<br />

è un disegno staccato dal muro.<br />

Davanti alle porte di Gerico<br />

mani estranee lasciano il cibo.<br />

È buio. Rompendo il pane<br />

mangiamo lentamente, prigionieri di una rete.<br />

Sono ripide le fontane<br />

a cui vorremmo bere, vacillano<br />

le pietre su cui cadde la pioggia.<br />

Chiusi cancelli e giardini<br />

la mia mano trascrive il colore degli aranci.<br />

Ma il foglio è stretto, coperto<br />

da parole notturne.<br />

La luce muore, nella carta,<br />

come sulle mie dita, scomparsi gli amici,<br />

cade l'ombra dei rami.<br />

Quando anche io partirò nascerà il dubbio:<br />

saremo ricordati uomini o pietre?<br />

Ma una sentinella, tradita dal sonno,<br />

non vede quel cerchio di fumo<br />

dove, senza essere cavalcati,<br />

galoppano i puledri.<br />

Io sollevo il palo dalla porta<br />

perché i cavalli entrino a Gerico.<br />

Stanco di proteggere delle statue<br />

osserverò gli zoccoli polverosi<br />

rompere con un rumore cupo spalle di pietra.<br />

La fessura nell’idolo<br />

Qualcosa scivola in una materia senza futuro.<br />

Non precisare. Non disporre. Non sapere.<br />

Aspetta sotto la curva del cielo.<br />

Prometti sostanza alle cose.<br />

All’orizzonte quella nebbia, con la forma di noi.<br />

Le mani, meno forti, non trattengono<br />

il peso dell’acqua. L’anfora rotta,<br />

nessuno racconta come si sfracellò lentamente<br />

sui lunghissimi gradini, fra esseri<br />

senza nome e profilo.<br />

Le mani, meno forti,<br />

non sentono l’acqua che scivola via.<br />

Qualcosa dissolve la pietra. Inventa incubi, fiumi.<br />

La testa non appartiene più al corpo, né il corpo alla terra.<br />

Ora dovrai difenderti e dire […]


Da Il diritto di essere opachi, 2010<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

64<br />

Is Arutas<br />

Sempre, dopo che gli uccelli hanno cantato,<br />

arriva una notte incomprensibile,<br />

il buio come un incubo,<br />

e ti sorprendi a pensare la luce<br />

nelle ali che pulsano immobili -<br />

sonno senza cielo, perfetta assenza di sole.<br />

Poi ti addormenti.<br />

Saprai domani se le geometrie del pianeta<br />

resisteranno a un’altra notte.<br />

Dentro le cose sparite<br />

la notte scolpisce di nuovo i profili<br />

che rinasceranno.<br />

Rosso e oro. Rocce.<br />

Soffio presente di vita.<br />

Sottoterra, il fiato.<br />

Incantesimi deviati, inattesi.<br />

Is Arutas.<br />

Roccia a testa di lupo.<br />

Troppa, troppa luce. Non scrivo. Nessuna carta<br />

tratterrebbe le parole.<br />

Scie d’acqua sulla pietra.<br />

Lingua per muti.<br />

Non leggo. Aspetto la notte.<br />

Lascio che la luce scorra sui vetri<br />

in quel modo silenzioso e immortale<br />

che, una volta morti,<br />

piangeremmo. Lascio che la luce<br />

scorra. Vorrei accennare che. Ma le parole,<br />

sempre più opache, restano nelle dita<br />

come unghie staccate.<br />

Nella sua nuca, inverno dopo estate,<br />

la lunghezza degli sguardi, giorno dopo notte.<br />

L’infinito lo guardiamo<br />

dentro la sua testa come in uno specchio<br />

ma le cose restano troppo grandi<br />

molti guardiani non conoscono la casa<br />

e sanno tutto del buio,<br />

del mondo che cola via - acqua<br />

senza cose, strappata dal sisma.<br />

La sillaba di un vento solleva l’erba<br />

come secoli fa, quando respiravano<br />

tra questi fili verdi, sotto fortezze ora dissolte,<br />

uomini che mi assomigliavano.<br />

Il penultimo sole<br />

torna lentamente alla terra<br />

per difenderla dalle notti future<br />

racconta l’opera del respiro nel sonno<br />

che alla pelle riporta una giovinezza<br />

dove le dita si reimparano dita,<br />

nuove nel buio.<br />

L’uomo che fingo di essere<br />

accennando con la lingua parole<br />

sono io<br />

chiamatemi per nome<br />

Non serve la scrittura<br />

che ogni giorno ascolti.<br />

Diari, schegge, balbettii,


Da Il diritto di essere opachi, 2010<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

65<br />

voci infitte nella mente.<br />

La chiamano scrittura dei morti<br />

ma con matite, grida, fogli, pietre, mattoni sono,<br />

restano<br />

vivi.<br />

E tu? Parli<br />

di uomini che non sono stati guardàti.<br />

Di sabbia, non di mare.<br />

Non racconti fiabe ai bambini.<br />

Non ricordi le pietre piccole, di quarzo rosso -<br />

princìpi di speranza, di silenzio -<br />

scoperte fra alghe e rocce.<br />

Is Arutas. Is Arutas.<br />

Non fare, della terra che vedrai,<br />

un altro punto buio nella nuca.<br />

Per una volta. Senza visioni.<br />

Guarda.


Piccola antologia della critica<br />

In Le mani e la follia lo scontro drammatico fra protagonista e società sfocia nella discesa del personaggio maschile verso una follia ora<br />

visionaria ora delirante; simbolo del sociale è la “strada”, attraversata da arcangeli, demoni frenetici e loro imperfetti umani facsimili; simbolo<br />

del protagonista le sue “mani”, che egli sempre si guarda come esercizio corroborante. Questo libretto, diario di un pellegrino sula strada della<br />

propria disintegrazione attraverso stretti corridoi della follia, ci si presenta come supplemento della rivista quadrimestrale “Con ciò sia cosa<br />

che”, dove lo stesso Ercolani, in un articolo dedicato ad Antonin Artaud, L’opera perfetta come sepolcro, colloca la scelta della follia da parte del<br />

poeta “al punto estremo di un discorso sulla parola”, in quanto la follia può essere “mezzo di disintegrazione e di ricreazione di una parolacadavere,<br />

parola che è solo pietrificazione e suicidio dell’uomo”. La follia, dunque, come carica al contempo negativa e positiva, pozzo senza<br />

fondo in cui scagliare qualcosa e attingerne il diverso; in altre parole, il tema della follia come scelta trasgressiva: e ancora una volta viene alla<br />

memoria l’ideologia eversiva che sta dietro la celebrazione del follus e della festa follorum nel XII secolo.<br />

Maria Corti, in “Alfabeta”, 1979, anno 1, n. 5<br />

* * *<br />

…rileggo ancora una volta le serie di poesie di Marco Ercolani dedicate a Velemir Chlebnikov e oltre a trovare conferma delle doti visionarie di<br />

questo giovane poeta genovese (irresistibile il collegamento con Dino Campana e la sua poesia Genova, tra le più importanti del ‘900 italiano),<br />

mi viene il sospetto che l’attenzione a un poeta di “radici storiche come Chlebnikov (intendo radici storiche trovate nella lingua) segnali la<br />

volontà di ritrovare, in Liguria, il senso di una storia mitica e di trasformare questa categoria del mitico in segnale di verità storica e geografica<br />

incancellabile.<br />

Antonio Porta, dalla Prefazione a Poeti in Liguria, 1981<br />

* * *<br />

Marco Ercolani ha fatto di tutto per depistare e spiazzare i critici rubricatori. Da quasi quindici anni occupa uno spazio decisamente inconsueto:<br />

la sua scrittura prevalente è in prosa ma una prosa non tanto narrativa quanto intima, una sorta di molteplice e cangiante Journal o Zibaldone<br />

(con la variante della lettera, negli ultimi tempi sempre più frequente). Tuttavia la misura di tale prosa non è mai autobiografica; essa crea una<br />

serie di maschere dell’io, capaci di scatenare una narrazione visionaria, tributaria però di una singolare chiarezza, che si deposita sulla figuralità<br />

della lingua, capace di suggerire nitidi fotogrammi visivi (il cinema e la pittura sono alimenti continui).<br />

In un suo volume di saggi, Il ritardo della caduta, Ercolani sostiene che “usare la parola è dimenticare il linguaggio, scrivendo come sonnambuli”<br />

e precisa “La poesia ruota attorno a questo nodo che è fuori dalla parola: immagine non verbale ma sonora, in parte visiva, segreta alla parola”.<br />

La ricerca di Ercolani e la sua dimensione tipicamente poetica (al di là delle apparenze narrative o aforistiche) sta proprio qui: spogliare la parola<br />

della sua forza semantica, sviluppando le sue valenze musicali e figurative. È tale dinamica a garantire il senso e la novità di questa<br />

particolarissima scrittura della visione, che continua a risarcire la propria oltranza. Davvero la cifra del sonnambulismo è efficace: si vive un’altra<br />

vita, ma nella dolcezza e nell’oblìo del sonno, piuttosto che nella lacerazione della veglia.<br />

[…] La variazione è un po’ la realtà storica di quest’opera che ruota attorno a precisi motivi ossessivi, dentro una scelta radicale di scrittura<br />

notturna e della follia, ben chiara dall’ur-Ercolani di Le mani e la follia (1979). I temi ossessivi costituiscono un chiaro sistema articolato a tre<br />

livelli. Da un lato abbiamo gli elementi di relazione: le mani, per il corpo, e le porte per gli oggetti; dall’altro i luoghi: la città, di perpetuo<br />

attraversamento e nomadismo ed il suo opposto, la stanza, il cui legame con il personaggio e l’io è sempre duplice, all’insegna sia della<br />

claustrofilia che della claustrofobia; infine le regressioni reificanti, il freddo e la pietra soprattutto, che sono il segreto desiderio di chi vede il<br />

respiro<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

66


Piccola antologia della critica<br />

respiro (e con esso la vita) come continua perdita («Chi respira, in questa città, non riesce a ricordare»).<br />

[…] Il desiderio di reificazione credo sia motivato dal dominio della paura, che presiede all’opera di Ercolani. La paura si configura come paura di<br />

vivere con questo la paura di entrare nella dispersione; il desiderio di reificazione rappresenta il profondo desiderio di uscita dal vivente per<br />

rituffarsi nell’inorganico, che ha una duplice valenza di protezione e di immortalità<br />

[…] La svolta delle opere più recenti porta alla creazione di una letteratura apocrifa (I taccuini di Blok e le Vite dettate), il cui senso non sta in un<br />

labirintico raddoppiamento borgesiano, ma in una immedesimazione postuma che è, per ora, l’ultima declinazione del progetto reificante, che<br />

garantisce una maggior valenza comunicativa. L’apocrifo non è comunque l’unico presente di questa scrittura: essa si divide con il journal, che<br />

prosegue la voce demonica all’interno con oltranza imperativa, che ora non è più assoluta e infungibile; ha il suo contrappeso e contrappunto<br />

nella prosa saggistica dell’apocrifo, nel suo tono esterno e di supplica.<br />

Stefano Verdino, da Del sonnambulismo, in “Nuova Corrente”, Anno XL, 112, luglio-dicembre 1993<br />

* * *<br />

[…] …la singolarità di Ercolani resta indubbia, non soltanto per l’insistenza con cui egli si affida al procedimento dell’apocrifo - le Vite qui<br />

raccolte non sono che un’isola all’interno di un vasto arcipelago di testi analoghi, solo in piccola parte già editi in riviste o volumi -, sia per il<br />

carattere sostanzialmente «serio» del confronto che egli stabilisce con gli autori evocati. Basta leggere, in tal senso, la splendida difesa della<br />

scrittura apocrifa posta a conclusione del libro, ed attribuita a Ingeborg Bachmann, per vedere quanto impegnativa e vitale possa divenire<br />

questa pratica letteraria quando essa, attraverso «l’identificazione allucinatoria» con un personaggio vissuto, rappresenti la via per conseguire<br />

«una verità etica, un momento in cui il dire, simile al non-dire, espone con ardore il suo tormento» [2]. Questo approccio, che da un lettore<br />

distratto potrebbe essere tacciato di romanticismo, implica in realtà una riabilitazione della scrittura narrativa, che allontanandosi dalle forme<br />

correnti di vuoto calligrafismo o falsa naïveté (tenute artificialmente in vita da un’editoria sempre più miope e timorosa) torna a rivendicare la<br />

propria necessità e il proprio carattere vincolante.<br />

Una simile idea di letteratura, intesa non come ornamento ma come destino, funge anche da guida nella ricerca ercolaniana di quegli artisti del<br />

passato che, esplicitamente o implicitamente, sembrano averla condivisa. Di qui un rapporto con la tradizione che non ha nulla di compiaciuto<br />

o di museale, ma si dà come capace di ripensare, e dunque modificare, l’immagine del passato, negandone la compiutezza e riattualizzandone<br />

le possibilità inesperite. La scelta non cade dunque soltanto su quegli autori - da Kleist a Cézanne, da Artaud a Giacometti - la cui ossessione,<br />

lucida o folle, investe palesemente tanto la sfera dell’esistenza quanto quella dell’espressione artistica. Anche personaggi in apparenza ben più<br />

sobri e apollinei possono trovarsi chiamati a mostrare il loro volto più segreto: così Goethe acquista un reale interesse, per Ercolani, solo nel<br />

momento, ipotizzato, in cui allontana da sé la maschera «olimpica» e decide di dar voce ai propri dubbi sottaciuti e alle proprie predilezioni<br />

represse, mentre Hofmannsthal, posto di fronte ai quadri di Van Gogh, viene condotto ad abiurare la cristallina e rassicurante purezza della<br />

propria scrittura a favore di un’arte più coraggiosa e coinvolgente.<br />

Questi ultimi esempi si prestano ad evidenziare con particolare chiarezza il carattere costitutivamente anfibologico dell’apocrifia, la natura<br />

doppia e insidiosa di una tecnica che induce a «mettersi al posto dell’altro», per rendergli omaggio, per farlo rivivere, ma anche e<br />

contemporaneamente - lo si voglia o no - per espropriarne la parola, per annullarlo sostituendosi a lui. Chi pretendesse di imputare ciò allo<br />

scrittore di apocrifi avrebbe le sue ragioni, ma rischierebbe di dimenticare che un processo assai simile si ritrova, fra l’altro, in ogni atto critico.<br />

Inoltre il fatto di scrivere testi a nome di autori così numerosi e differenti non può non presupporre l’impulso a moltiplicare le occasioni di<br />

uscire da sé e dal proprio stile, a diffrangersi dunque idealmente in una pluralità di situazioni psicologiche e figure di linguaggio. Giacché<br />

Ercolani<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

[2] Marco Ercolani,<br />

Vite dettate, Pavia,<br />

Liber, 1994, pp. 160-<br />

161.<br />

67


Piccola antologia della critica<br />

Ercolani sottoscriverebbe senza esitare l’affermazione di Canetti secondo cui: «Nessuno resiste senza vite prestate, la nostra vita non ci basta»<br />

[3]. […]<br />

Giuseppe Zuccarino, da Destini d’artista, prefazione a Vite dettate<br />

* * *<br />

Tra Michaux, Duchamp, Borges (e un po’ di Canetti) si inserisce una tua particolare cifra che denota, oltre la fantastica acquisizione del testo<br />

come oggetto energeticamente esistente al di là, o al di qua, di ogni (non) necessaria testimonianza, una intensa proposta di analisi e<br />

conoscenza. Voglio dire che, dimostrandosi gli apocrifi introvabili per loro stessa natura, ma veri in quanto storicamente collocati nel tempo e<br />

nella vita di personaggi realmente esistiti, il piacere della loro invenzione si pone come proposta critica di acutissima rivelazione. Così si rivivono<br />

opere e giorni di grandi fantasmi, cogliendone (secondo la valenza di ogni pregnante operazione critica) una verità da vivere più vera della vita<br />

assoluta.<br />

Gio Ferri, da una corrispondenza privata dell’8 maggio 1995<br />

* * *<br />

Una serie di vite immaginarie, di artisti e scrittori, colti in un punto preciso della loro vita psichica e artistica, sulla soglia di un cambiamento, nel<br />

punto in cui l’esistenza sembra ricapitolarsi nel breve volgere di un attimo, e poi precipitare verso il nulla. Così si presenta questo originale libro<br />

narrativo di Marco Ercolani che mette in scena le voci narranti di artisti come Paolo Uccello, Leonardo, Cézanne, Giacometti, Melotti, Bacon, o<br />

scrittori e poeti come Baudelaire, Nerval, Goethe, Artaud, Bachmann. Il genere che Ercolani usa per recitare i frammenti di esistenza dei<br />

personaggi è assai differente: diario, lettera, conferenza, monologo interiore, racconto testimoniale, intervista, testo teorico: ne risulta un<br />

volume da leggersi come livre de chevet, una meditazione sul destino dell’uomo e lo scopo dell’arte.<br />

Marco Belpoliti, da Il sogno della realtà in voci di artisti, ne “Il Manifesto - Talpalibri”, 9/3/1995<br />

* * *<br />

Ogni scrittura è apocrifa nel senso che «la pagina nata dalla volontà dello scrittore parla della sua alienità alle norme sociali, parla del gettarsi<br />

con violenza verso il proprio destino». Il fondo non storicizzabile dell’opera sta qui. L’artista che rappresenta il mondo rappresenta se stesso nel<br />

mondo. Rappresenta la sua inoggettivabile soggettività in mezzo a cose altrettanto inoggettivabili. L’opera sfugge alla presa della<br />

storicizzazione o dell’estetica o del commento, perché mina le basi su cui queste pratiche fondano il loro agire: la separazione tra soggetto e<br />

oggetto, che ha «illuminato» e «ordinato» il mondo scorticandolo però della sua ombra, quella che si proietta dalla sconvolgente intimità<br />

dell’uomo.<br />

Franco Rella, da La vita e le opere, a proposito di Vite dettate, ne “L’Unità”, 27/3/1995<br />

* * *<br />

[…] Uno scritto apocrifo - più che essere tale - dovrebbe suo malgrado diventarlo, ma Ercolani rinuncia da principio: i suoi testi sono<br />

volontariamente apocrifi; lo sono in maniera congenita, e non per disavventura. Sono risolutamente anacronistici, deliberatamente erronei e<br />

apertamente furtivi, se è vero che giungono a noi nell’ombra del suo nome, e solo più tardi prendono il nome di coloro a cui sono attribuiti.<br />

Questi scritti sono definitivamente apocrifi perché il loro vero autore li sconfessa, dicendoli suoi proprio mentre li dice altrui. Perché questa<br />

procedura<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

[3] Elias Canetti, La<br />

tortura delle mosche,<br />

tr. it. Milano, Adelphi,<br />

1993, p. 131.<br />

68


Piccola antologia della critica<br />

procedura acrobatica? Cosa gli impedisce di sperare e insieme di mentire? Cosa trattiene il suo inganno? Cosa gli vieta di scrivere testi propri,<br />

invece che alieni?<br />

Forse Marco Ercolani deve farsi dire dagli altri: sono loro a scrivere la sua autobiografia - dovrei dire la sua vita, per quanto è assillata dalla<br />

scrittura.<br />

Nanni Cagnone, in “Poesia”, n. 118, 1997<br />

* * *<br />

[…]<br />

Etica e poetica<br />

Di norma, definire un testo come apocrifo equivale a considerarlo il prodotto di una falsificazione o di un’imitazione. Gli apocrifi ercolaniani,<br />

però, si sottraggono del tutto a questi stereotipi: non sono infatti l’opera di un falsario, poiché l’autore effettivo esibisce senza reticenze o<br />

infingimenti il proprio nome in copertina, né costituiscono l’esito di un procedimento imitativo. Il gioco che Ercolani conduce con gli autori cui<br />

attribuisce le sue pagine è ben più complesso, e per giocarlo non basta introdurre nell’apocrifo dei segnali (stilistici, storici, ideologici) che<br />

rimandino agli scritti autentici ai quali si fa riferimento, ma occorre anche riuscire a turbare e modificare l’immagine tradizionale di colui da cui<br />

si trae ispirazione.<br />

Nel caso specifico, ad esempio, lo Schulz ercolaniano non si limiterà a scrivere in una maniera che solo a tratti può dirsi simile a quella del vero<br />

Schulz, ma elaborerà contestualmente una poetica che renda ragione dei motivi che lo hanno indotto ad adottare uno stile diverso. Così, in una<br />

delle prime lettere a Romana Halpern incluse nel Mese dopo l’ultimo, si legge: «Forse ti sarai accorta, leggendo questi frammenti, che il tuo<br />

Bruno è meno ragazzo, meno innamorato di quella lingua variopinta con cui, un tempo, voleva entrare nei mondi sfavillanti dell’infanzia e<br />

descrivere tutto; meno colpevole di giocare con la sintassi delle frasi contro un mondo senza sogni. Ora scrivo in modo più severo. Sono<br />

invecchiato» [41]. E ancora, in un’altra missiva alla stessa destinataria: «Immolerò la mia musica senza un brivido di rimorso. Libererò il sangue<br />

troppo denso del canto. Allora la mia prosa sarà quello che voglio: uno stato di squilibrio, di tempesta. Meno fulminea della poesia, sosterà più<br />

a lungo dietro le quinte e si porrà domande sulle parole che narrano eventi. La vera scrittura viene fatalmente prima o dopo l’evento, con una<br />

tensione irrefrenabile a dire storie, mostrare racconti, svelare immagini. Non le è concesso né il gioco fantasmagorico della lingua né la quiete<br />

semplice di narrare. Deve esporsi - ardere e resistere» [42]. Si potrebbe ipotizzare che in queste e altre dichiarazioni d’intenti reperibili nel<br />

volume sia in causa semplicemente, per Ercolani, la volontà di sostituire la propria poetica a quella schulziana. Se così fosse, sarebbe già<br />

ammirevole il fatto che egli attui in maniera lucida e trasparente un’operazione che altri, al posto suo, avrebbero cercato di mimetizzare il più<br />

possibile. Parlare di un autore, non solo con le libertà concesse a chi si muova nello spazio della finzione ma anche seguendo le regole di un<br />

discorso che si voglia critico, comporta necessariamente una certa proiezione di sé nell’oggetto. Lo osservava, con formula efficace, Ripellino:<br />

«Ogni rievocazione trapassa in racconto, ogni discorso sugli altri è sempre un diario truccato» [43]. L’asserzione, in questo caso, è esatta<br />

persino alla lettera, visto che a volte gli appunti attribuiti a Schulz nel Mese dopo l’ultimo riprendono senza modifiche annotazioni diaristiche<br />

ercolaniane. Eppure l’idea che uno scrittore di oggi, per enunciare la propria concezione della letteratura, abbia bisogno di coinvolgere la figura<br />

e l’opera di un predecessore illustre si rivela, ad un esame più attento, ingenua e poco credibile. Le motivazioni da cui traggono origine gli<br />

apocrifi di Ercolani sono in effetti assai più profonde, e non tutte riconducibili ad una problematica di natura letteraria. Diceva Nietzsche: «Nella<br />

vita dei grandi artisti vi sono casi maligni, che per esempio costringono il pittore a schizzare solo come fuggevole pensiero il suo quadro più<br />

importante, e che per esempio costrinsero Beethoven a lasciarci in varie, grandi sonate (come nella grande sonata in si maggiore) solo<br />

l’insufficiente riduzione per pianoforte di una sinfonia.<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

[41] Il mese dopo<br />

l’ultimo, cit., p. 38.<br />

[42] Il mese dopo<br />

l’ultimo, cit., p. 46.<br />

[43] A. M. Ripellino, Il<br />

trucco e l’anima. I<br />

maestri della regia nel<br />

teatro russo del<br />

Novecento, Torino,<br />

Einaudi, 1965, p. 137.<br />

69


Piccola antologia della critica<br />

l’insufficiente riduzione per pianoforte di una sinfonia. Qui l’artista posteriore deve cercare di correggere successivamente la vita dei grandi:<br />

cosa che farebbe per esempio chi, come maestro di tutti gli effetti d’orchestra, suscitasse per noi alla vita quella sinfonia votata alla morte<br />

apparente del pianoforte» [44]. Scrivendo, sia pure solo in parte e per frammenti, quel Messia che Schulz non ha potuto far giungere fino a noi,<br />

Ercolani corregge la vita dello scrittore polacco, ripara - nell’unico modo concessogli, cioè con l’immaginazione - un’ingiustizia della sorte:<br />

perciò non può accontentarsi di vagheggiare una trama, ma deve tracciare le parole del testo assente, sostituire la propria mano a quella dello<br />

scrittore scomparso. Schulz, però, non è visto qui solo come un artista, ma anche come un uomo, un uomo barbaramente assassinato. A questa<br />

ferita, più profonda e irrimediabile di quella costituita dalla perdita di un capolavoro, la scrittura ha il dovere di opporsi: «Se un uomo è stato<br />

ucciso, bisogna trovare parole per lui. Raccontare la sua scomparsa significa non diventare complici del suo assassino» [45]. […]<br />

Giuseppe Zuccarino, Le notti del Messia, presentazione a Il mese dopo l’ultimo, 1999<br />

* * *<br />

[…] Nodi del cuore è un libro […] diviso in due parti circa della stessa consistenza: La seconda vista e Carte segrete. […] Tecnicamente è una<br />

raccolta di scambi di lettere: 34 scambi. Tra Gaspara Stampa e Collaltino di Collalto, Charles Baudelaire e sua mamma, Felice Bauer e Franz<br />

Kafka […] Le lettere sono inventate. Le hanno scritte Ercolani e Frisa (Frisa quasi tutte quelle delle donne; Ercolani quasi tutte quelle degli<br />

uomini). Ma non tutte sono inventate: qualcuna - poche - è vera […]. La storia che si racconta non è, non sono, le storie di queste sessantasette<br />

persone che Ercolani e Frisa si sono immaginati di essere, ma la storia di qualcosa che è accaduto tra […] un personaggio “prodotto” da Ercolani<br />

e un altro personaggio “prodotto” da Frisa, diciamo tra Egli ed Ella, che peraltro non si mostrano mai, ma continuamente si travestono, a volte<br />

perfino Egli si traveste da donna ed Ella si traveste da uomo … e tutto questo è affascinante; ecco: è bello. […]<br />

Giulio Mozzi, da I travestiti delle lettere, in “Il manifesto”, 28/9/2001<br />

* * *<br />

[…]<br />

Di fronte alla follia<br />

Ercolani … non è solo uno scrittore, ma anche uno psichiatra. Nella misura del possibile, egli cerca di far convergere questi due interessi, ad<br />

esempio dedicando grande attenzione all’arte dei folli: «I malati vibrano molto, hanno meno pelle, sono traversati da emozioni incontrollabili.<br />

Hanno un punto di partenza: sono invasi dal loro discorso, dal loro corpo. Ma ciò che conta, se sono artisti, è quanto trattengono. Se sono dei<br />

veggenti, non lo sono perché gridano fra le rovine ma perché reinventano le loro forme colmandole di maggiori emozioni, perché sono capaci<br />

di tornare nel nostro mondo con altre chiavi e l’indicazione di nuove porte» [17]. D’altronde, se l’arte costituisce per certi malati un modo per<br />

attenuare o trasfigurare la loro sofferenza, le opere che producono ci coinvolgono proprio perché riescono a trasmettercela, a farcela<br />

percepire.<br />

L’alternanza fra le due attività quotidianamente svolte non è pacifica, per Ercolani, anzi suscita in lui tensioni e dubbi: «Nell’afa di luglio, un<br />

matto vuole spaccare le mura di casa e chiamano te, lo psichiatra di zona; tu vai, lo infiali, lo carichi sull’ambulanza, lo rinchiudi in corsia<br />

psichiatrica; poi, tornato a casa, ti getti a capofitto nella scrittura della visione, evochi viuzze fatiscenti, case vacillanti, magari descrivi un folle<br />

che vuole spaccare le mura di casa. Guardati bene e vergognati. Indossi una maschera e metti il delirio in prigione; ne indossi un’altra e lo liberi<br />

nella carta» [18]. Può accadere così che la comprensione per l’altro, la fascinazione prodotta da certe forme quasi serene di delirio, lo induca a<br />

venir meno al proprio ruolo tradizionale. Chiamato in una caserma dei carabinieri per visitare un folle che dichiara di sentire le voci di Dio, che<br />

parla<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

[44] Friedrich<br />

Nietzsche, Umano,<br />

troppo umano, I, in<br />

Opere, vol. IV, tomo II,<br />

tr. it. Milano, Adelphi,<br />

1965; 1977, p. 136.<br />

[45] Il mese dopo<br />

l’ultimo, cit., p. 101.<br />

[17] Il demone<br />

accanto, cit., p. 72,<br />

Ercolani ha curato un<br />

volume collettivo dal<br />

titolo Tra follia e<br />

salute. L’arte come<br />

evento, Genova,<br />

Graphos, 2002. Nel<br />

testo introduttivo, egli<br />

precisa bene il proprio<br />

punto di vista su<br />

questi temi.<br />

[18] Il demone<br />

accanto, cit., p. 23.<br />

70


Piccola antologia della critica<br />

parla della sua intenzione di andare in Grecia per partecipare ad uno strano rito, egli si limita a prestargli ascolto: «Alla fine andasti via dalla<br />

caserma senza far nulla, senza ordinare ricoveri, senza prescrivere pillole, senza praticare punture, come un ospite esce dalla casa in cui è stato<br />

accolto» [19].<br />

Assai più frequente, però, è il contatto con un dolore che ha poco di poetico. Il libro ce ne offre immagini brevi ma incisive: una donna parla di<br />

suo figlio che in realtà non è mai nato, un’altra si lamenta dicendo di sentirsi il corpo pieno di morti, un vecchio va in giro trascinando valigie e<br />

borse che riempie con tutti i libri e giornali che riesce a trovare, un alcolista chiede farfugliando di essere ricoverato, due donne inebetite<br />

vivono in una casa entro cui la sporcizia si accumula da anni. Ricordare, anche solo per accenni, la storia di queste persone, può essere un modo<br />

per farle uscire dal buio, per rendere meno inutile e invisibile il dolore che provano, e tuttavia lo scrittore avverte la stortura, non evitabile,<br />

implicita in questo modo di operare: «Vivi all’ombra della malattie che gli altri ti riferiscono. Ogni sintomo descritto è un racconto possibile. Ma,<br />

se tu sai trasformarlo in racconto, chi lo soffre saprà farlo?» [20]. Il problema resta quello che Celan ha condensato in tre memorabili versi:<br />

«Nessuno / testimonia per il / testimone» [21]. […]<br />

Giuseppe Zuccarino, da In compagnia del demone, 2002<br />

* * *<br />

[…] Taala, la città perfetta poiché sognata: città dell’utopia, alla lettera, del nessun luogo, e città ugualmente celeste e infernale […] Ma Taala è<br />

un corpo sgusciante: è città ingannatrice, città dei desideri e delle lori immagini allo specchio. Ercolani […] ha dato forma al regno del’illusione,<br />

dei tanti incanti del desiderio, dell’inganno dei sensi e delle aspettative tradite […] Città comunque memorabile, Taala, dal momento che<br />

esclusivamente affidata alla memoria, al cuore (par coeur se pure sotto orma letteraria, la sta raccontando […]<br />

D’altra parte Taala è ricreata nella mente come una città indefinibile dai contorni geografici, ma comunque fortemente connotata da elementi<br />

d’ambiente mesopotamico. E proprio nelle culture della Mesopotamia sembra abbia prevalso la forza del segno invocativo rispetto alla langue,<br />

al linguaggio come sistema […].<br />

Da un punto di vita compositivo, il talento di Ercolani si dispiega qui, in Taala, nell’arte dell’accumulazione, della ripetizione sottilmente mossa<br />

di un tema obbligato. Ripetizione che è anche ripresa, ripetizione che dice altro, e che soprattutto lascia emergere il tema dell’Altro, di<br />

quell’alterità che è elemento irriducibile di ogni vera scrittura. Scrittura consapevole. Come una tessitura di ragno che prende forma e procede<br />

grazie a continue variazioni, di prospettiva o di sguardi, o a cambiamenti di ritmo interno, narrativo. E il ritmo è serrato, incalzante.<br />

Ogni immagine si impone, acquista subito evidenza, per poi demonicamente dileguare. Non si può fare a meno di pensare alle variazioni<br />

(trenta? trentuno?) di un tema musicale a quelle Variazioni Goldberg, ad esempio, di cui Marco Ercolani è assiduo ascoltatore. Con una<br />

differenza. Che qui, nel romanzo, l’aria iniziale, quella da cui tutto origina, da’ l’impressione di non avere mai raggiunto lo stato di vera<br />

partitura. Come se tutti gli interpreti l’avessero imparata a memoria, ciascuno a modo suo. E ora ne ripetessero solo le risonanze. O come non<br />

pensare, allo stesso modo, a trenta visioni - immagini allucinate della stessa macchia, tutte vorticanti attorno alla stessa pagina bianca. Questa<br />

idea di pagina bianca viene suggerita dal vuoto di quell’involucro, di quella trama di segni che compone il ricordo della città di Taala. Segni<br />

subito dissolti dal vento e dalla sabbia […]<br />

Dario Capello, da Il pulviscolo ballerino dell’esistere, nota su Taala, in “La clessidra”, n. 2, 2004<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

[19] Il demone<br />

accanto, cit., p. 128.<br />

[20] Il demone<br />

accanto, cit., p. 127.<br />

[21] Paul Celan,<br />

Aureola di cenere, in<br />

Svolta del respiro, in<br />

Poesie, tr. it. Milano,<br />

Mondadori, 1998, p.<br />

625.<br />

71


Piccola antologia della critica<br />

[…] I nostri giorni, scriveva Franz Kafka, sono un «essere abbagliati dalla verità». Abbagliati, mentre si arranca su una corda tesa che ha nome<br />

“vita” e, al pari di quella del funambolo nicciano, non offre alcuna via di fuga. «Paura della pazzia, paura della non-pazzia», tertium non datur.<br />

Ma di vero, in questa soglia che appare prossima alla “frontiera infernale” del vivere e della poesia, non rimane che la luce. Quella luce che -<br />

ancora Kafka - si intravede «sul volto di chi arretra, con una smorfia di dolore».<br />

Di questa luce, Marco Ercolani e Lucetta Frisa, corresponsabili e complici di una sfida caparbia e delicata, rendono a pieno l’essenza. Raccolgono<br />

storie di follia ormai troppo ordinaria, fatti che non fanno cronaca, cronache che non fanno Storia, e li rielaborano, li illuminano, li rivalorizzano<br />

nella sola scena entro la quale ogni contraddizione abbia davvero facoltà e diritto di estinguersi: la scrittura […].<br />

Marco Dotti, dalla prefazione ad Anime strane<br />

* * *<br />

Nel lavoro di scrittura … Ercolani e Frisa perseguono invece una semantica dell’abbandono. Le voci raccolte da Ercolani e trascritte e riscritte in<br />

questo libro insieme a Frisa provengono da un buio profondo, e riportano alla luce una antica dignità offuscata. Queste voci significano.<br />

Producono segni che si manifestano. […] Ercolani e Frisa hanno dovuto attraversare, inevitabilmente, il sublime poetico della follia, che in<br />

Anime strane reclamava i suoi diritti sottilmente e gentilmente. Ora il demone parla, non si limita più a suggerire. Le voci, e le voci di “coloro<br />

che sentono le voci”, questa volta parlano in prima persona. […]. Il loro non è né sciacallaggio letterario né documentarismo tecnico-scientifico<br />

con velleità letterarie. Si tratta … di una scrittura necessaria, di un atto dovuto e in risposta a un obbligo, non solo di testimonianza, quanto di<br />

un riconoscimento della potenza dirompente della vita e dell’arte che, come ormai sappiamo grazie a Dubuffet, è lì dove non sospetteremmo<br />

mai che sia. Il valore di quest’opera, in un’accezione molto più ampia, quindi, del suo senso letterario, è attestato dal pudore del terapeutascrittore<br />

e dal bisogno di ricorrere alla collaborazione di una poetessa per maneggiare questo materiale magmatico che non si raffredda mai,<br />

un pudore onestamente dichiarato e la cui soglia è necessario sia superata per compiere legittimamente un lavoro come quello che viene qui<br />

presentato. Storie eccentriche, inclassificabili, la cui divulgazione è resa possibile dalla certezza che, senza un narratore, sarebbero sprofondate<br />

nell’«oltraggio del silenzio», vengono così alla luce.<br />

In questo lavoro c’è la realtà. Quella vera. La realtà parla. Ma è una realtà consapevole, in qualche modo - e, soprattutto, in qualsiasi modo - dei<br />

propri confini. Ecco perché questo libro si può usare in diversi modi. Come l’I Ching, si può prendere a sorte una pagina, e quella pagina ci<br />

rimarrà appiccicata addosso. Ma la voce non ci dirà il futuro. Ci può dire di un presente dilatato sino all’estremo, a ricoprire passato e futuro in<br />

un abbraccio asfissiante, un presente che ci è comune, a tutti, nel quale, tutti, siamo. Oppure si può farne un uso alla Jodorowsky, come se<br />

fossero tarocchi - una pagina una carta - e chiedere agli arcani. Allora le voci parlerebbero, ancora una volta, di noi stessi, di un’umanità<br />

occupata a sbranare e divorare il tempo, a tracciare parabole nei cieli e aprire sentieri nel divenire. Ne andrebbe fatto un uso sociale, letto nei<br />

salotti … , di sera, al posto del rito catodico-plasmatico. Un uso rituale, sì, ormai quasi inesorabilmente perduto ogni respiro che possa dirsi tale,<br />

non mancando a queste pagine un certo arreton, né mistero, né una dimensione, se non mitica, per lo meno archetipica.<br />

E invece, piccole epifanie si manifestano al momento di voltare ogni pagina. Ogni voce che parla strappa il fondale del palco … […]. Gli squarci al<br />

fondale dipinto rivelano mattoni, cemento, ferro, e, al di là dell’inorganico, materia vivente e pulsante che per un istante si avvicina alla visione<br />

estrema della vita, e un attimo dopo ce ne allontana, di colpo. Barlumi. Lampi dal temporale nella notte della vita.<br />

Niente di queste parole proferite dalle voci raccolte con pietosa cura da Ercolani e Frisa ci è estraneo. Ne siamo coinvolti. Come spiegare<br />

altrimenti quello sbigottimento, quella sospensione a ogni pagina voltata, che ci impediscono di usare questo libro come una lettura lineare e<br />

letteraria? La ragione abita da un’altra parte. Abbiamo torto. Abbiamo tutti torto. Le voci ci abitano, pervadono tutti i recessi lasciati deserti da<br />

una<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

72


Piccola antologia della critica<br />

una ragione che è evaporata, svanita (se c’è, appunto, è, sempre, da qualche altra parte). Queste voci sono basso continuo, stream of<br />

consciousness, introspezione quotidiana, pensiero dialogico borbottato in silenzio. Eco delle nostre sensazioni e percezioni, materiale grezzo da<br />

annacquare in sentimenti. Le voci parlano, indipendentemente dal fatto che siamo in grado di ascoltarle o no, e la semantica dell’abbandono ci<br />

introduce sul sentiero dell’abbandono del senso. Il mondo, le cose, parlano; viviamo in un universo di segni; ed è ormai luogo comune: l’uomo<br />

dei nostri tempi è immerso nel rumore e nei suoni, incapace di silenzio. Quel silenzio da cui tutte le parole - suoni, rumori, segni, si originano.<br />

Non sentiamo più il silenzio, non sentiamo più le voci. Non è una contraddizione. Proprio perché siamo incapaci di silenzio, siamo anche<br />

incapaci di ascolto. Le voci a volte urlano, a volte sussurrano. L’orecchio della follia ascolta le voci, anche nel rumore più intenso. Sente quello<br />

che gli altri non sentono. Ciò che sarebbe, per natura umana, comune a tutti, ora è rimasto privilegio di pochi. Privilegio pagato a carissimo<br />

prezzo, ancor oggi, nonostante tutto. L’orecchio della follia ascolta, ragiona, trae conclusioni. Quelle conclusioni che noi non vogliamo trarre.<br />

Che ci porterebbero lontano, troppo lontano. Che ci obbligherebbero a fare cose che non possiamo fare e che infatti non facciamo, standocene<br />

protetti e al riparo dalla follia. […]<br />

Massimo Barbaro, da Dalle grinze del reale, postfazione a Sento le voci<br />

* * *<br />

Un insieme di sorpresa e piacere è ciò che ho provato leggendo Vertigine e misura - appunti sulla poesia contemporanea di Marco Ercolani … ,<br />

proprio come lo si potrebbe provare entrando in una dimora sconosciuta, enigmatica e affascinante. Quest’opera, infatti, è “un luogo” in cui la<br />

parola e il silenzio sono affiancati, i pensieri e le intuizioni vibrano in un’interrogazione appassionata e così, pagina dopo pagina, “spazi segreti”<br />

si mescolano a “luoghi conosciuti” in un viaggio articolato e complesso attraverso alcuni aspetti cruciali della poesia e del “fare poetico”, ma<br />

anche attorno all'Essere, al destino e al tragico che segnano la parola poetica nata da quel «soffrire di meraviglia» che, nota Ercolani, è di ogni<br />

grande poeta. Il cammino è qui svolto attorno alla parola poetica, ma anche attraverso la parola poetica stessa, costruito in precise<br />

architetture, sorrette dal paziente interrogare del nostro autore che non sovrappone mai la propria interpretazione ai versi dei poeti, ma lascia<br />

che essa emerga dalle parole della poesia. […] In Vertigine e misura non c’è assertività logica, né volontà di stabilire “una verità critica” che sveli<br />

il testo attraverso lo “smontaggio” dello stesso - come è stato fatto, invece, dalla corrente strutturalista del Novecento - ma ogni spunto di<br />

analisi è apertura dello sguardo e balzo del pensiero: rapide e vibranti affermazione aforismatiche si legano ad ampie divagazioni e<br />

approfondimenti sulla poesia e sul suo senso,; una breve citazione o alcuni versi di grandi autori vengono riportati sulla pagina senza alcuna<br />

pedanteria erudita, bensì con la forza di un cuneo, che apre varchi al pensiero o di una porta, che allarga lo spazio bianco dentro la pagina,<br />

dilatando la profondità del discorso e creando un intreccio tra le varie dell’opera. […] …la certezza che si ha alla fine della lettura di quest’opera<br />

è che la qualità della poesia non si misura in base alla visibilità di un autore o alla notorietà della casa editrice (grande-media-piccola) che lo ha<br />

pubblicato, bensì solo per la potenza della lingua usata, in cui vibra una visione del mondo “non addomesticata” e non artificiosa, ma potente e<br />

scabra, poiché dice Ercolani «ogni poesia autentica modifica la lingua in cui viene scritta e ogni esperienza poetica è fondamentalmente<br />

un'esperienza dell'impossibile, in quanto la poesia è una forma di allarme permanente contro i codici dell'interpretazione linguistica».[…]Chi<br />

leggerà questo libro si renderà conto che è un’opera che non si può dimenticare, non solo per ciò che Ercolani dice, ma anche per come viene<br />

detto: lo stile potente, mai ripetitivo, ci fa immergere in una scrittura critica che ha il ritmo del racconto gotico e, contemporaneamente,<br />

l’acutezza del pensiero di filosofi quali Blanchot, Agamben, Bachelard, Franco Rella e Maria Zambrano, pensatori che hanno fatto della<br />

narrazione non solo “la forma” del loro pensare, ma “la sostanza” dello stesso, radicando la riflessione nella potenza dell’immaginario<br />

letterario. Va detto che Marco Ercolani è anche autore di prose apocrife e romanzi, tra cui ricorderei l'acutissimo Taala, oltre che essere un fine<br />

traduttore<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

73


Piccola antologia della critica<br />

traduttore dal francese (e ci basti ricordare la sua dedizione per Artaud e Michaux), ma voglio citare anche, tra le opere più recenti, la prosa<br />

visionaria de Il demone accanto, dove Marco - attraverso un dialogo fitto, stralunato e acuminato con il suo daimon, di antica memoria<br />

socratica - si interroga sulla scrittura e sull’ispirazione. A mio parere è stato, questo “esercizio di intensità”, maturato nel tempo, coltivato<br />

attraverso le proprie diverse prove d'autore, oltre che nella vita e nella lettura degli autori amati, che ha “alimentato” la specifica scrittura<br />

critica di questo critico-funambolo che ci regala ora un libro che sa scendere dentro la parola poetica, andando oltre la parola stessa, tanto da<br />

farci scorgere come questa via di conoscenza, esperienza e scrittura che è la poesia sia tragica antitesi, spesso non condivisa, a qualsiasi forma<br />

di pienezza, a qualsiasi certezza o verità statica, poiché la poesia è un inesausto cercare di afferrare, torcere, modificare e testimoniare il<br />

mondo visto-percepito in quello «strabismo dello sguardo» che segna ogni artista, ogni poeta e, tuttavia, solo se la “vertigine” di fronte al reale<br />

si compone in “misura”, si fa “architettura” in un linguaggio che è ritmo, suono e senso, diventa poesia, altrimenti resta esperienza dello<br />

scacco, urlo senza forma, senza possibilità di ascolto.<br />

Gabriela Fantato, da Quando il pensiero fa un balzo, presentazione a Vertigine e misura<br />

* * *<br />

Il cinema è un mondo fatto di ombre. Una notte nella quale si muovono figure, corpi disegnati da una luce di cui non si riesce a comprendere<br />

l’origine, né la natura. È un mondo dalle dimensioni e dai ritmi fuori dall’ordinario: la mano, il volto di una donna occupano tutto lo spazio<br />

davanti a noi, i giorni e gli anni hanno la durata di una dissolvenza. È un luogo che diviene possibile solo nel buio che ci circonda, che costruisce<br />

trame, vite e destini a volte del tutto simili, altre volte nemmeno avvicinabili a quelli che definiamo “reali”. Per queste ragioni le sequenze<br />

proiettate sullo schermo sono state frequentemente paragonate al sogno, alle immagini prodotte dall’inconscio, come se là, in fondo alla sala,<br />

si mostrassero le pieghe, forse le piaghe di un’anima. Lo si ricorda anche qui, in A schermo nero, è una delle prime avvertenze che ci pone di<br />

fronte la scrittura di Ercolani: «Il meccanismo con cui si crea l’immagine, nel cinema, richiama il lavoro dello spirito durante il sonno. Il buio che<br />

invade a poco a poco la sala equivale all’azione di chiudere gli occhi. È allora che comincia sullo schermo l’incursione notturna dell’inconscio; le<br />

immagini, come nel sogno, appaiono e scompaiono».<br />

A schermo nero si presenta come una appassionata riflessione sul cinema, come un vero e proprio atto d’amore per le storie, i personaggi, gli<br />

attori e gli autori del mondo di celluloide. Si tratta di una raccolta di una cinquantina di testi: essi presentano una notevole varietà di forme,<br />

assumendo le caratteristiche di una confessione, di un’intervista, di una lettera, di un diario, di una manciata di pensieri, di riflessioni intime,<br />

oscillando tra la modalità dei frammenti o di appunti sparsi a quella più strutturata di un commento, o addirittura di un lessico. Pagine che si<br />

presentano come occasionali, recuperate tardivamente, casualmente riemerse. Quasi a volersi muovere ai margini delle storie e degli eventi<br />

raccontati sullo schermo, in una zona sotterranea, nascosta, ma proprio per questo imprevedibile e rivelatrice.<br />

Di chi sono le voci che raccontano, annotano osservazioni critiche, progettano nuove opere, ricordano una vita ormai alle spalle, come una<br />

storia a cui restano pochi metri di pellicola prima della parola fine? Sono quelle di registi, attori e attrici, controfigure, sceneggiatori, produttori,<br />

direttori della fotografia. Ciò che però unisce le parole che prendono forma in questi testi è il fatto di non essere mai state pronunciate - anche<br />

se non mancano, qua e là, delle eccezioni - dalle persone a cui sono attribuite, di non essere mai state scritte dalla loro mano. Ercolani infatti<br />

realizza, con A schermo nero, dopo Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Discorso contro la morte, dopo i volumi dedicati a Blok e a Bruno<br />

Schulz (ma l’elenco è incompleto), un nuovo libro di apocrifi, o meglio di testi che si presentano sotto la forma dell’effetto di apocrifo:<br />

sottoscritti da Abbas Kiarostami o da Maurice Kosinski, da William Daniels o da Dulton Trumbo, da Jean Renoir o Fritz Lang, ma di cui risulta poi<br />

del<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

74


Piccola antologia della critica<br />

del tutto chiara l’identità dell’autore. Lo scopo perseguito da Ercolani è quello di trovare, in uno spazio e in un tempo che non esistono, un<br />

punto di osservazione inedito che possa gettare luce su una poetica o un destino, sulla genesi o il senso di un’opera. […]<br />

Luigi Sasso, da Dietro lo schermo, postfazione a A schermo nero<br />

* * *<br />

[...]<br />

3. L’arte, una necessità di vita<br />

«Ogni individuo vivo, cercando di lasciare una traccia di sé, scava, giorno dopo giorno, nel muro che lo circonda; batte la testa contro le sue<br />

pareti, sempre troppo alte o troppo strette, crede di impazzire, cerca nuove fessure, immagina di uscire; poi vede nuove macchie, nuove forme<br />

nel muro, le ammira, si ferma; inappagato, riprende a scavare, guarda altre forme, le descrive, si rintana, scava ancora. Non vuole né fuggire né<br />

restare. Ma trovare la sua strada, sì».<br />

È un’idea sottesa a tutta l’opera di Ercolani e della quale ogni artista di cui egli ci parla si fa testimone. Non si percepisce mai, nella sua<br />

scrittura, il sospetto di un puro esercizio retorico, di una pagina presentata come maschera, come variazione fredda, come esperimento<br />

calligrafico. Ercolani preferisce stare dalla parte degli scorticati, di coloro che sbandano tra pathos e ansia di classificazione, tra vaneggiamento<br />

e meticolosa autocritica, dalla parte degli individui dallo sguardo introflesso, affacciato sul magma del loro io. Un’altra netta distinzione viene a<br />

cadere, quella tra etica ed estetica. Allora scrivere, dipingere, comporre una musica diventano gesti necessari, inevitabili, inseparabili dalla<br />

carne e dai sogni di chi li compie e le opere assumono la forma e l’intensa presenza di un corpo. Il tema del doppio, così caro alla narrativa<br />

fantastica, e così connesso al decorso della follia, è anche una metafora della creazione artistica, come se il libro fosse un sosia, le pagine<br />

altrettanti volti dispersi lungo le strade, simulacri di noi, capaci di osservarci mentre accanto a loro camminiamo.<br />

4. Una questione di identità<br />

«Come lo sgretolamento effettivo della pazzia è la perdita dell’identità personale, così la descrizione di questa perdita è il momento fragile e<br />

tenacissimo dell’arte». Di questo sgretolamento il segno più vistoso è il delirio, che Ercolani definisce «la costruzione di un antimondo senza<br />

ritorno, sigillato nel sintomo», rispetto al quale «l’arte è la costruzione dello stesso antimondo, ma nella libera ossessione delle immagini che lo<br />

rappresentano». Per quanto insomma l’arte sia contagiata dagli incubi della mente «da questi deve estrarre il suo quadro, il suo limite».<br />

Un io che si sbriciola, la costruzione delirante di un antimondo, l’ossessione, l’incubo. Abbiamo da tempo imparato a riconoscere in questi<br />

aspetti, che potremmo facilmente desumere da una cartella clinica, alcuni connotati fondamentali della creazione artistica degli ultimi due<br />

secoli. Gli autori che potrebbero essere chiamati a testimoniare, da Kafka a Musil, oltre a quelli direttamente interpellati da Ercolani, sono<br />

molti, e noti. C’è in Ercolani la convinzione che nessun artista, nessuno scrittore è un’ isola, ma un arcipelago («un arcipelago ramificato di<br />

identità»), una realtà plurale, fatta di pezzi che non collimano. Perché proprio là dove il soggetto perde, o vede sgretolarsi la propria identità,<br />

l’artista la ritrova («L’artista vive la sua identità mentre la perde»).<br />

La conseguenza più importante la si riscontra sul piano della costruzione e della struttura di un’opera, sull’andamento e sul ritmo della<br />

pagina: l’impossibilità di una forma chiusa, in armonia con le tendenze della tradizione o del proprio tempo. Al punto da non risparmiare …<br />

anche la natura, l’essenza stessa dell’arte.<br />

[…]<br />

Luigi Sasso, Sette movimenti tra arte e follia. A proposito de L’opera non perfetta. Il testo è apparso sul sito web “La dimora del tempo<br />

sospeso”, a cura di Francesco Marotta<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

75


Piccola antologia della critica<br />

All’inizio è la pagina bianca. Poi, quasi a precipizio, un’urgenza impone il suo ritmo, che è scandito in frammenti, schegge spesso fulminanti,<br />

lampi lapidari. Corteggia l’aforisma, ma non cede alla sua facilità; più ancora che l’aforisma l’obiettivo diventa il sigillo sapienziale. Una segreta<br />

conoscenza del nulla. Una “via segreta” del pensiero che, mentre cerca gli incontri col vocabolo, ne è aspirato. Occorre calcinare ogni scoria,<br />

non danzare sulla musica delle parole; qui è una corrente che trascina, come è detto nella poesia “Il folle volo”, e qui, ancora, non deve<br />

ingannare il senso, apparentemente paradossale, di quel verso decisivo «Il folle volo lo compiamo / nell’incantesimo dell’acqua ferma (…)».<br />

Gran parte, se non tutta, della scrittura di Marco Ercolani, anche quella che precede e affianca questi testi poetici, si può leggere nel senso di<br />

una brusca scossa all’apparenza delle cose del mondo, all’evidenza ordinaria. Cerco di sintetizzare così: come usare la finzione per dire la<br />

verità? I termini stessi di verità e finzione sono presi in un laccio inestricabile; interrogare questo koan, portarlo al limite è una passione del<br />

pensiero.<br />

E il centro di gravità di queste poesie si trova già nel titolo, in quell’opachi. Parola chiave, “opaco”, che voglio leggere come confine della luce,<br />

nostalgia della luce, quasi invocazione a un’idea di trasparenza. Nostalgia della luce. Già Gabriela Fantato, nella sua prefazione, parla (con più<br />

cautela) di «uno spiraglio di luce, una sorta di lievità (…)».<br />

La parola poetica di Ercolani recita, sapendo di recitare, il dramma della propria doppia natura, della trasparenza e della intrasparenza... Una<br />

parola che rompe la traccia facile, nasconde quel che vuol rivelare come una domanda che nasconde l’enigma. Il senso scivola, si perde, rinasce<br />

altro.<br />

Il diritto di essere opachi trascrive gli esiti di una discesa nella notte, ma di una notte che ha segreti e dunque pietà. Una discesa che ricorda il<br />

sogno lucido di una coscienza qui e là sonnambolica, testimone e spettatrice insieme di sortilegi, specchi inquietanti, turbamenti, cose<br />

notturne…<br />

Ma «il sogno / è già una sentenza», come ci ricorda Ercolani, così suggerendo un’altra chiave interpretativa della sua poetica.<br />

Il topos cruciale, il nodo di questa raccolta si può pensare nella figura di una clessidra, o meglio, nel suo punto di scorrimento, nella strozzatura<br />

(altra “via segreta”). Ai due lati, l’ombra e la luce, la forma e l’informe, lo scendere che è già salire. Da qui passa il singolare melos di questa<br />

poesia, dall’”armonia della vertigine”. Questo punto di capovolgimento è l’immagine ideale di una ricerca: non conta l’alto o il basso, quanto la<br />

profondità... Da un lato, il visibile, «questa luce verticale / dove tutti credono di muoversi», dall’altro, la cecità, il buio, la “finzione nella notte”<br />

che è finzione della notte. In fondo, per Ercolani, né l’uno né l’altro. L’ultimo imperativo che chiude la raccolta è potente: “Guarda”. È uno<br />

sguardo che oltrepassa la dimensione retinica, ha poco a che fare con l’ottica, piuttosto reclama una postura, una condizione, uno stato<br />

dell’essere.<br />

Dario Capello, nota su Il diritto di essere opachi<br />

* * *<br />

[…] Qui le visioni sono talmente vivide da domandarsi se non ci si trovi davanti un nuovo genere letterario, quello di una poesia nata nei mondi<br />

che altri autori su diversi versanti hanno dichiarato veri: Sturgeon, Van Vogt, Simak, il Ballard di Vermilion Sands. Avete capito a quale tipo di<br />

letteratura penso. Visioni cresciute direttamente nel lato sinistro dell’anima […] Ercolani ingaggia se stesso come se guardasse un altro, e lo<br />

seguisse nelle sue piste notturne, con forti e capaci affabulazioni. Non si sfugge alla sua ardua finitezza, e proprio nell’andare controcorrente<br />

scendiamo a capofitto e senza neppure pensare alla speranza […] Non lo vedo libro di speranza, questo - e chi ha detto che una raccolta poetica<br />

debba esserlo per forza? A me basta che un poeta, scrittore, creatore di mondi o pasticciere, mi diriga contro un dardo congegnato per farmi<br />

farmi<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

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Piccola antologia della critica<br />

fuori. Sta a me decidere se scansarmi oppure no.<br />

Elio Grasso, Nota a Il diritto di essere opachi, in “Pulp”, novembre-dicembre 2010<br />

* * *<br />

Il diritto di essere opachi di Marco Ercolani racchiude in diciannove componimenti, articolati in due sezioni, trent’anni di attività poetica dello<br />

scrittore ligure. Ercolani arriva negli anni della piena maturità a questo primo convincente libro di versi. Ed è un caso singolare perché molte di<br />

queste poesie, già apparse in importanti riviste fin dall’inizio degli anni Ottanta, lasciavano presagire, per la qualità dei contenuti e per gli<br />

assetti prosodici, la pubblicazione di un’imminente silloge. Del resto è un caso singolare l’intera vicenda artistica di questo scrittore che,<br />

ignorato dai centri di consenso della critica, ha dato alle stampe un’opera imponente e sfaccettata in multiformi modalità di scrittura ma fitta di<br />

plurime connessioni intertestuali e intratestuali. Una scrittura debordante, spesso scomoda da affrontare…<br />

Francesco Maccio, Nota a Il diritto di essere opachi in Punto - Almanacco della poesia italiana, 1, 2011<br />

* * *<br />

Ben consapevole che la vita e la poesia costituiscono una sorta di doppio ossimoro, ad un tempo reciproco, interdipendente e specifico, Marco<br />

Ercolani manifesta - attraverso la metafora centrale della Sentinella - la necessità dell’una in rapporto all’altra (le riunisce l’atto primario del<br />

respiro), per un’alternanza tanto paradossale quanto nutriente di “vertigine e misura”, a ricordare il titolo del suo bel libro di “appunti”<br />

(«Appunti non come confessioni ma come cosmografie») sulla poesia contemporanea pubblicato per La Vita Felice nell’estate del 2008. E se<br />

questa Sentinella è il pendant creativo del lavoro saggistico, risulta subito evidente un presupposto fondativo per l’autore genovese: non ha da<br />

sussistere barriera tra ragionamento e invenzione, pensiero e pathos, così come tutte fallaci sono le frontiere, peraltro assai sedimentate entro<br />

un’idea diffusa ma solo passiva di tradizione, tra prosa e testo versificato, suono e immagine, espressione e teoria, oralità e scrittura.<br />

Parafrasando infatti uno dei momenti più cospicui del libro, dev’essere subito chiaro al lettore che il poeta vive di una sua “fantasia acustica”, il<br />

cui motore primo coincide sì con una condizione di estasi, ma che nondimeno si motiva nel rovello di un’inesausta tensione critica.<br />

La finzione suprema cui ambisce l’atto stesso di scrittura prodotto da Ercolani è un realismo radicale (tant’è che vi risuona perfettamente<br />

plausibile l’apoftegma ancora a fondamento ossimorico «Vivere in uno stato di finzione reale»), da riconoscere per esempio in un archetipo<br />

come Il capolavoro sconosciuto di Balzac: e dunque la Sentinella eponima è definita quale corpo in azione davanti a un foglio bianco sul quale<br />

trascorre la luce - una luce di evidente sostanza metafisica, alla Caravaggio - nella sua polarità compiuta, tra pienezza abbagliante e buio<br />

integrale. Su questo foglio, così, potrà compiersi l’atto a suo modo sacralmente (ma - si badi - non orficamente) conoscitivo della Scrittura, con<br />

echi evidenti di una cultura francese tardosecolare che riattualizza i nomi obbligati di Derrida e di Deleuze attraverso un’eco penetrante<br />

dell’esperienza inventiva di Char e - in particolare - di Jabès. Appartiene all’autore franco-egiziano, infatti, l’idea viva di un Libro che non è mero<br />

tramite di idee o di parole, tese a proiettare il lettore in un ipotetico mondo “fuori”, ma che è in sé - nella sua stessa materialità in fieri, in<br />

duello e dialogo continui con la morte - spazio vitale e atto dialogico.<br />

Ambizione di questa opera invero assai originale è di avvicinare fino a sovrapporli i domini della poesia e della filosofia (intesa non come facoltà<br />

astrattiva o teoretica, bensì come competenza storico-antropologica del genere umano), con un cortocircuito di verità e di invenzione che svela<br />

presto la sua natura sapienziale… […]<br />

Alberto Bertoni, Resistere nella parola, nota critica in Sentinella, 2011<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

77


Inediti 2010 - 2011<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

78<br />

Prose buie<br />

Prigionieri di Dionisio<br />

Perché urlare, battere le mani, parlare a voce alta? Non è l’eco che conta, dentro l’Orecchio di Dionisio, a Siracusa: è<br />

l’orecchio del tiranno, là sopra, capace di ascoltare il minimo bisbiglio. Per questo camminiamo nel buio dell’antro, suoi<br />

prigionieri; ci comunichiamo progetti di fuga con un cenno del capo, senza farci sentire; tracciamo sui palmi delle mani,<br />

come sordomuti, le vie che percorreremo per salvarci. La grotta in cui il re vorrebbe ascoltare le nostre voci è un grande<br />

antro pieno di silenzio da cui non verrà fuori nessun suono a smascherare i nostri sogni sotterranei. Sorridiamo appena.<br />

Perché urlare o battere le mani o parlare a voce alta? Uscire dall’antro: quello è il nostro solo progetto, racconta ai<br />

compagni di prigionia.<br />

Quando scende la notte<br />

Leggere quando scende la notte, mentre non si sa per quanto tempo saranno visibili le parole. I libri diventano allarmanti,<br />

imprecisi, oscuri, come certi vasi attici dove sono disegnati corpi neri di tuffatori e che, al mattino, col sorgere del sole,<br />

appaiono vuoti e bianchi, come se quei corpi non fossero mai esistiti. Si intravede, imprecisa e sinuosa nella ceramica scura,<br />

una crepa. Si continua a leggere il buio.<br />

Il bel colore bianco<br />

Una sete insopportabile. Deve arrivare a casa. Ecco sua moglie e suo figlio, così gli hanno detto. Sono immobili sulla soglia.<br />

Se almeno avesse ricordato i loro nomi! Se almeno ricordasse i loro nomi! Sa che sono loro e sorride. Ha visto subito i loro<br />

occhi allibiti. Un precipizio da cui fuggire. Fuggire subito. Ora è più calmo. Ora sa come liberarsi di se stesso senza l’orrore di<br />

farlo, senza mettere in piedi una scena spaventosa e ridicola. Non tollera il fracasso delle ossa, l’immagine penosa del corpo<br />

mutilato. Sangue ovunque, grumi neri, gente inorridita. Tornerà alla terra.<br />

Basterà scivolare nella neve, a notte alta, e sprofondare appena, non per caso ma con intenzione, una vaga intenzione<br />

animale. A trentasette anni immergere i piedi nella neve altissima, passo dopo passo, in stati sempre più profondi, finché<br />

diventerà impossibile sollevare la gamba destra e allora, gli aghi di ghiaccio sulla fronte, le mani congelate, i piedi assiderati,<br />

il torace chiuso, potrò rendere i pensieri più lenti, più vicini al loro centro, quello che rifiuta la presenza del corpo, le<br />

strategie della mente, il calore delle emozioni, quello che nega tutto ma non il bianco, non il bel colore bianco che si<br />

deposita adesso su di lui e lo rende inesistente, invisibile, fermo. Assoluto, come non poteva esserlo prima. E bere, bere<br />

tutta l’acqua contenuta nella neve.


Inediti 2010 - 2011<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

79<br />

Il falso catalogo<br />

Isidoro di Siviglia, il vescovo medioevale stregato dai segni del mondo e dalla magia delle parole, il vescovo che annotava il<br />

mondo medioevale in un catalogo interminabile di parole raccontava di uomini che credono, con miracolosa ingenuità, alla<br />

reale cartografia di tutti i punti del mondo; diceva che nessun segno, nessuna parola, può descrivere questo universo<br />

incontenibile dal linguaggio perché ogni linguaggio, nel descriverlo, creerebbe un falso catalogo a cui non sarebbe possibile<br />

credere perché il mondo, pur non essendo infinito, è troppo vasto per poter essere descritto e classificato, nell’ansia di<br />

perderlo; i cataloghi, i sistemi, le nomenclature, le enciclopedie, sono concepibili solo in un sogno limitato e perfetto come<br />

quello di Isidoro, vescovo di Siviglia, un sogno esatto, sapiente e impossibile che cancella il casuale pulviscolo in cui tutte le<br />

verità fluttuano simultanee e inafferrabili, un sogno buono per un’esistenza da idiota felice, quella del suo fedele discepolo,<br />

il quattordicenne Alonso che getta e rigetta lo spago sopra il cortile deserto, mangiucchiando torpido, gli occhi persi nel<br />

vuoto, un enorme pezzo di pane, e osservando i segni che le briciole lasciano nella polvere. Isidoro sa bene che tutta la sua<br />

sapienza è nata nel momento in cui vide, sul bordo del pozzo, i nodi che, sulla corda, avevano impresso sulla pietra, dopo<br />

mille discese e risalite, degli uomini.<br />

Chiamare per nome<br />

Ci sono forme che esistono sempre. Per lui è sufficiente guardare, pochi minuti prima del tramonto, mentre cominciano a<br />

scendere le ombre, la grande struttura della cattedrale; vedere i capitelli e le vetrate scivolare lentamente nel buio e<br />

continuare a ricordare tutti i dettagli proprio mentre diventano invisibili; poi immaginarli, nel corso della notte, per tutta la<br />

durata della notte, nel pieno dell’oscurità. Al risveglio, qualche ora prima dell’alba, qualche ora prima di vedere, ricostruirà<br />

la cattedrale a memoria, con i suoi sogni e i suoi ricordi mescolati insieme, nella prima nebbia del mattino, senza aprire gli<br />

occhi, chiamandola con il suo nome. Solo così sarà in grado di comprendere una cosa che esiste durante il giorno e che<br />

esiste durante la notte.<br />

Nome e cognome<br />

Di notte e di giorno, scrive lettere che non spedisce, che non arriveranno a destinazione e non saranno mai lette. Scrive a<br />

persone vive e ignote, a persone con nome e cognome. Nel momento in cui i suoi destinatari vedranno scritto il suo nome e<br />

cognome nel mittente della busta, non si sentirà più un fantasma ma un uomo reale, un essere battezzato, una creatura<br />

vera. Al contrario, in Ultimo tango a Parigi Marlon Brando e Marie Schneider, mentre si amano, si dicono i loro non-nomi,<br />

lui sillabando dei gemiti gutturali, lei improvvisando uno stridìo da uccello. Nel momento in cui si chiameranno con il loro<br />

nome vero, smetteranno di amarsi e lei finirà lui con un colpo di pistola. Prima di morire, Marlon guarda Parigi come per<br />

comprendere dentro di sé, un attimo prima della fine, tutta quella metropoli di persone senza nome.


Inediti 2010 - 2011<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

80<br />

Cromatismi<br />

11 ottobre 1585. Da Carlo Gesualdo da Venosa a Torquato Tasso.<br />

Caro Torquato,<br />

comprendo il tuo tormento. Ho provato anch'io una pena simile alla tua, anche se non persi la ragione. Vivo a Ferrara fuggito da Napoli.<br />

Uccisi due esseri umani: mia moglie e il suo amante. Cosa aggiungere? Il mio secondo matrimonio con la figlia del principe è stato solo una<br />

maschera sociale, una garanzia di esistenza. Io sono ancora quelle due morti. Non ho altro di mio. Faccio madrigali per caso, perché nel<br />

mio ricordo c'è la profondissima tenebra di quel delitto. La musica è l'unico modo di svelare il mio crimine senza raccontare un solo<br />

particolare della scena, senza addentrarmi in ricordi proibiti, vertigini, incubi, oscurissime colpe. La musica, fitta di cromatismi ma<br />

astratta, me lo consente. Quando le note risuonano, rispondono al pianto, senza svelare l'oggetto del pianto; sono come sassi, se li tocca il<br />

vento.<br />

Perdonami. Dire di questo a te, che hai sofferto follia e mancanza di senno, è impudenza, e mi affanna. Ma solo il mio Torquato, poeta di<br />

travagli, mi comprenderà, se la sua vita, come la mia, è ombra che viene dall'ombra.<br />

Carlo Gesualdo principe di nulla<br />

Ground<br />

Lettera di Henry Purcell a un'amica ignota (1612).<br />

Neppure in questa occasione, in cui mi esorti a discutere i miei ground per clavicembalo, avrei molto da dire. Sono tanti i significati della<br />

parola ground: suolo, terra, fondamento, causa. Sul ground si edifica, si fonda, si insegna, si gettano àncore. È il fondo, il primo strato, il<br />

canovaccio: è l'istruzione. Per questo, a mio avviso, tutti i pezzi che nomino ground, tutte le composizioni che si fondano su qualcosa di<br />

solido e di terreno, sul basso ostinato da cui nasceranno passacaglie, ciaccone, variazioni, «follie», devono essere malinconiche. Istruzione<br />

fa sempre rima con distruzione. E la distruzione è proprio quel dolore che rende la vita inaccettabile come è e ce la mostra come dovrebbe<br />

essere.<br />

In questi giorni, casualmente, scrivo solo ground per clavicembalo. Lavoro accanitamente, senza provare nessun tipo di affetto. Considero<br />

pericolosi gli stati emotivi. La mia emozione è prodotta solo dalla potenzialità e dall'efficacia dello strumento che uso, o dalla lunghezza<br />

della composizione che scelgo: è un calcolo preciso di effetti, con cui adesso non ti voglio annoiare, ma che risponde a una necessità<br />

filosofica, a una matematica senza illusioni.<br />

Molti si stupiscono di non vedermi, come immaginano, perennemente malinconico, chiuso nella mia dimora a lamentarmi della più triste<br />

delle esistenze, inquieto e sospettoso, malcontento e invidioso, a girarmi e rigirarmi nel letto come morso da un'ape, vagabondando da un<br />

sentimento all'altro, impaziente e infelice, senza concludere mai nulla. Per fortuna non ho questa disgrazia. Non provo la tristezza e la<br />

nostalgia che affliggono di solito il genere umano: semmai, ne conosco altre, di cui non posso parlare. E tu, che mi ascolti, dovresti essere<br />

simile a me, se ami Didone ed Enea. Preparati dunque alla mia musica: un puro sentimento di dolore che, dalla ferma linea del basso,<br />

muove all'acuta intensità della melodia. Ground, come dicevo. E chi ignora i significati del termine, ne sia ugualmente turbato, come dalla<br />

risonanza di una corda che vibra nell'acqua o sottoterra.<br />

Tuo Purcell


Da Caroline Branson, da Spoon River -<br />

Serie composta tra il 1971 e il 1973<br />

con fotografie realizzate a Senigallia


Fabio Franzin<br />

81<br />

È nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.<br />

Ha pubblicato le seguenti opere di poesia.<br />

Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense:<br />

• El coeor dee paròe, Roma, Zone, 2000, prefazione di Achille Serrao.<br />

• Pare (padre), Spinea, Helvetia, 2006, introduzione di Bepi de Marzi.<br />

• Mus.cio e roe (Muschio e spine), Sasso Marconi, Le voci della luna, 2007, 2a ed. 2008, introduzione di Edoardo Zuccato,<br />

Premio “S. Pellegrino Terme 2007”, Superpremio “Insula Romana 2007”, Premio “Guido Gozzano 2008”, Premio speciale<br />

della giuria ”Antica Badia di S. Savino 2008”.<br />

• Fabrica, Borgomanero, Atelier, 2009, 2a ed. 2010, Premio “Pascoli 2009”, Premio “Baghetta 2010”.<br />

• Rosario de siénzhi (Rosario di silenzi - Rožni venec iz tišine), Postaja Topolove, 2010, edizione trilingue con traduzione in<br />

sloveno di Marko Kravos.<br />

• Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera), prefazione di Franca Grisoni, Motta di Livenza, Edizioni Prioritarie, 2010.<br />

• Co’e man monche (Con le mani mozzate), Milano, Le voci della luna, 2011, con prefazione di Manuel Cohen, Premio<br />

“Achille Marazza 2011”, finalista Premio “Antonio Fogazzaro 2011”.<br />

In lingua:<br />

• Il groviglio delle virgole, Grottammare, Stamperia dell’arancio, 2005, premio “Sandro Penna” 2004 sezione inedito con<br />

introduzione di Elio Pecora.<br />

• Entità, in E-book, Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007.<br />

• Canti dell’offesa, Cesena, Il Vicolo, 2011, con introduzione di Gianfranco Lauretano.<br />

Nel 2009, La rivista Atelier gli ha dedicato, monograficamente, il n°53.<br />

Nel 2010 ha vinto il premio “Giacomo Noventa - Romano Pascutto”.<br />

Sue poesie, accolte in molteplici riviste e antologie in Italia e all’estero, sono state tradotte in inglese, francese, cinese,<br />

arabo, tedesco, spagnolo, catalano e sloveno.<br />

Numerosi e di assoluta levatura i critici e i poeti che, in riviste, on-line, in saggi e in occasioni di interviste, si sono occupati<br />

della sua opera.


Da Il groviglio delle virgole, 2005<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

82<br />

Dire vita<br />

Dire vita. Come se fosse semplicemente<br />

pronunciare una parola qualsiasi;<br />

come se non si trattasse, invece<br />

di conquistarsela, in ogni istante,<br />

o cercare di trattenere con le unghie,<br />

strenuamente, ognuna di quelle quattro<br />

lettere dal bordo del nulla che le attrae.<br />

Come se fosse una condizione certa<br />

e non un precario equilibrismo sopra<br />

il cratere eruttante dell’urlo che sempre<br />

esplode dentro noi, o non, forse,<br />

una perenne corte alla luce, un canto<br />

solitario che si perde fra le stelle, dentro<br />

le nebbie della noia; un vagito innestato<br />

al dolore, alla gioia; un rancore che prude<br />

proprio quando la nostra storia rima<br />

con una delle folte assenze che dobbiamo<br />

per forza attraversare lungo l’irto sentiero dell’amore.<br />

Dire vita, però.<br />

Proprio, e perciò, come se fosse semplicemente<br />

una parola qualsiasi. Come se fosse un’oasi,<br />

e non un’ansia che consuma. Dire vita, comunque,<br />

quando la vita vizia lo sguardo, e la forma<br />

di una voce è già quella, perfetta, di una rosa.


Da Pare (Padre), 2006<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

83<br />

Fra i confini dea vita<br />

(In memoria di mio padre Antonio, in benvenuto a mio figlio Jacopo)<br />

‘Sti stanbi zorni de utùno, ora cussì caldi<br />

e ciari, ora cussì covèrti e afosi, cussì caìvosi.<br />

Un zhigo ‘l vent, ieri nòt, e ‘l scuro scuriàr de frasche<br />

contro ‘e finestre fuiscàdhe de l’ospedàl.<br />

E i nidi, pensée: se ghin ‘é, chi ‘o che metarà<br />

un téon sot’i albari? E po’ incòrderse pa‘a prima<br />

volta che ‘l zal dei setenbrini s.ciopà drio ‘e rive<br />

dea Livenza ‘l fa rima co’ quel dee fòjie dee piòpe<br />

piantàdhe longo i só àrdheni. ‘Sti stranbi zorni<br />

de utùno e i fòji del caendàrio che i me casca<br />

stonfi dae man disendo de ‘na vita che la ‘é squasi<br />

drio ‘rivar e de una che, massa sguèlta, ‘a scanpa via.<br />

Co’i stessi làvari che ‘ò basà ‘a front<br />

maeàdha de mé pàre, ‘dèss ‘scolte ‘sti<br />

colpéti lidhièri, ‘sti calcéti cèi, e bei,<br />

pudhàndoi tea panzha piena de mé fémena.<br />

Piove fòjie rosse ‘dèss, tii nizhiòi futignàdhi,<br />

drio i bianchi curidhòi sgrafàdhi dal doeór.<br />

E ‘dèss sò, co’a pì maedéta dee sicurezhe<br />

che quel che me ‘à dat ‘a vita e quel<br />

che da mì la ‘varà no’ i riussirà a incontrarse.<br />

So che mé pàre, nonostante tut el só ben,<br />

no ‘l me ‘assarà far festa pa ‘a nàssita<br />

de mé fiòl, e sò che ‘a nàssita de mé fiòl<br />

no ‘a me ‘assarà piàndher mé pare<br />

come che ‘l meritaràe.<br />

Fra i confini della vita<br />

Mi son qua, co’na man strenta<br />

pa’ provàr a tègner duro, e chealtra<br />

vèrta a spetàr, pronta a ninàr.<br />

No so co quàea dee dó èpie possù scriver ‘ste paròe.<br />

Questi strani giorni d’autunno, ora così caldi / e limpidi, ora così<br />

coperti e umidi, così nebbiosi. // Un urlo il vento, ieri notte, e il buio<br />

frustare di fronde / contro le finestre appannate dell’ospedale. // E<br />

i nidi, pensavo: se ce ne sono chi appronterà / un telone sotto gli<br />

alberi? E poi il primo notare / che il giallo dei toupinambùr esploso<br />

lungo le sponde / del Livenza rima con quello delle foglie dei pioppi<br />

/ che ne costeggiano i suoi argini. Questi strani giorni / d’autunno<br />

e i fogli del calendario che mi cadono / inzuppati dalle mani<br />

dicendo di un arrivo / e di un’altrettanto imminente partenza. /<br />

Con le stesse labbra con cui ho baciato la fronte / emaciata di mio<br />

padre ora ausculto questi / quasi impercettibili sussulti, questi cari<br />

calcetti / appoggiandole sul ventre teso di mia moglie. // Piovono<br />

foglie rosse ora, sulle lenzuola stropicciate, / lungo i candidi<br />

corridoi istoriati dal dolore. // Adesso so, con la più assoluta e<br />

crudele delle certezze / che colui a cui devo la mia vita e colui / a<br />

cui io la darò non riusciranno ad incontrarsi. / So che mio padre,<br />

nonostante tutto il suo bene, / non mi permetterà di gioire appieno<br />

per la nascita / di mio figlio e so che la nascita di mio figlio / non<br />

mi permetterà di piangere mio padre come merita. // Io sono qui,<br />

con una mano stretta / a cercare di trattenere e l’altra / aperta nel<br />

gesto di accogliere, di cullare. // Non so con quale delle due sia<br />

riuscito a scrivere queste parole.


Da Pare (Padre), 2006<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

84<br />

Òni volta che ciape in man ‘a pena<br />

Òni volta che ciape in man ‘a pena<br />

pense a mé Pare. Me par de stréndher<br />

fra i déi una dee só MS cussì come<br />

che le spizhighéa Lu pa’ studharle.<br />

Me ricorde ‘e só ponte dei déi zae<br />

e lisse, tel pòice e te l’indice.<br />

Parché Lu ‘e ciche le fuméa senpre<br />

in dó tenpi. Come ‘na partida de baeón,<br />

come òni bona zhena; come ‘sta poesia.<br />

Da quando che ‘l se ‘vea un fià pers<br />

el se desmenteghéa senpre pì de spess<br />

‘a mèdha messa via, cussì ‘l s’in inpizhéa<br />

‘n’antra, e àa sera ‘l vea ‘a scassèa<br />

dea jaca che ‘a paréa ‘na borséta colma<br />

de muzhigòti che ae volte ‘l studhéa cussì<br />

de prèssa e mal che capitéa de véderghe<br />

vègner fòra un fil de fun da chea sfesa<br />

tant che po’ l dovéa sorbirse i zhighi<br />

de mé mare straca de cusìr su<br />

tute chee fòdre sbusade, brusade<br />

e mì che ò ‘e scassèe dea me jaca<br />

‘ncora seradhe no’ so ‘ndo che pòsse<br />

meter via el muzhigòt mèdho inpizhà<br />

de ‘sta pena jàzha; no’ so co’ che paròe<br />

brincarlo, co’ quae sbusàr ‘a stofa<br />

frapadha e penda de ‘sta crudèe nostalgia.<br />

Ogni volta che prendo in mano la penna<br />

Ogni volta che prendo in mano la penna / penso a mio padre. Mi<br />

sembra di stringere / fra le dita una delle sue MS così come / le<br />

pizzicava lui per soffocarne la brace. // Ricordo le sue digiti ormai<br />

ingiallite / e cancellate, nel pollice e nell’indice. / Perché Lui le<br />

sigarette le fumava sempre / in due tempi. Come una partita di<br />

calcio, / come ogni cena decente; come questa poesia. // Negli<br />

ultimi suoi anni, da quando il male l’aveva colpito / si dimenticava<br />

sempre più spesso / della mezza messa via, così se ne accendeva /<br />

un’altra e alla fine della giornata aveva la tasca / della giacca che<br />

sembrava un sacchetto colmo / di mozziconi che a volte spegneva<br />

/ sbrigativamente e male che un filo di fumo / fuoriusciva non di<br />

rado da quella fessura / così che poi doveva sorbirsi le lagne / di<br />

mia madre stanca di rammendare / tutte quelle fodere bucate,<br />

bruciacchiate // ed io che ho le tasche dell’unica mia giacca /<br />

ancora sigillate non so dove riporre / il mozzicone fumante / di<br />

questa penna ghiacciata; non so con quali parole / raggiungerlo,<br />

con quali bucare la spessa e raggrinzita fodera / di questa crudele<br />

nostalgia.


Da Pare (Padre), 2006<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

85<br />

Deusión<br />

I cunìci i se sconde<br />

tii cantoni dea caponèra<br />

co’ passén; sen qua<br />

tel dadrìo dea casa<br />

dei nòni, e mì voéee<br />

mostràrtii, fiòl mio,<br />

e no’ so pì còssa dirte:<br />

tì cussì corioso e lori<br />

pì dispetósi dee sìmie<br />

sie volte romài<br />

‘ven fat fenta de ‘ndar<br />

via, e po’ muci-muci<br />

pì pin piàn, man par man,<br />

sol pa’ sintìr el sfurigàr dea fuga<br />

drento ’l scuro de l’onbrìa.<br />

E ‘dess che ‘nden via<br />

par davéro, so che i ‘é là,<br />

pudhadi aa retina, co’l nasét<br />

che ghe trema, e tì, e tì<br />

te ‘a tièn un fià pì fiapa<br />

‘a tó man, drento<br />

el sgranf sudhà dea mia.<br />

Delusione<br />

I conigli si nascondono / negli angoli della stia / quando<br />

passiamo; siamo qui / nel retro della casa / dei nonni, ed<br />

io volevo / farteli vedere, figlio mio / e non so più cosa<br />

dirti: / tu così curioso e loro / più dispettosi ancora delle<br />

scimmie // sei volte ormai / abbiamo fatto finta di<br />

andarcene, / e poi zitti - zitti / quatti quatti, mano nella<br />

mano, / solo per sentire il grattìo della fuga / dentro il<br />

buio dell’ombra. // Ed ora che ce ne andiamo / per<br />

davvero, so che sono lì, / appoggiati col muso alla<br />

retina, col nasetto / che gli trema, e tu, e tu / la tieni già<br />

un po’ più moscia / la tua mano, ora, dentro / il crampo<br />

sudaticcio della mia.


Da Pare (Padre), 2006<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

86<br />

Co’ na cufiéta, co’ chealtra recia<br />

Co’na cufiéta parón scoltén<br />

dee canzón de Zucchero...<br />

L’é cussì òni volta che te porte<br />

casa, da tó mare; mì, l’aràdio<br />

no’ l’ò mai bbu, tea machina,<br />

e ‘lora tì té te porta drio chel<br />

to stèrio cèo, rotondo, co’ te<br />

vièn da mì, pa’l fine setimana...<br />

Cussì, òni volta che cioén<br />

su ‘a machina, te me passa<br />

‘a cufiéta parché me ‘a frache<br />

te ‘a recia destra, tì té te fraca<br />

chealtra sua tua de zhanca,<br />

po’ te fa partir ‘e canzon...<br />

Cussì, tuti dó ‘ven un fil<br />

che ne pica, in banda, un fil<br />

che ne taca a un fià de musica<br />

e a un pòche de paròe; cussì,<br />

a tuti dó ne resta ‘na recia<br />

scovèrta; e so che pì l’é quea<br />

a tacarne, el siénzhio che continua<br />

a ingrumarse là drento...<br />

Co’na cufiéta parón sintìn,<br />

co’ chealtra recia, un sbrègo<br />

tea carne longo, e fondo<br />

pì de dièse àni, romài...<br />

Con un auricolare, con l’altro orecchio<br />

Con un auricolare ciascuno ascoltiamo / delle canzoni di<br />

Zucchero... // È così ogni volta che ti riporto / a casa, da tua<br />

madre; io l’autoradio / non l’ho mai avuto, come sai, / e allora<br />

tu ti porti dietro quel / tuo rotondo lettore CD portatile, quando<br />

/ vieni a passare il week-end da me... // Così, ogni volta che<br />

saliamo / in auto, mi passi / l’auricolare affinché me lo metta /<br />

nell’orecchio destro, tu ti metti / l’altro nel tuo sinistro, / e fai<br />

andare le canzoni... // Così, entrambi abbiamo un filo / che ci<br />

pende, lungo la guancia, un filo / che ci lega a qualche accordo<br />

musicale / e ad alcune parole; così, / ad entrambi rimane un<br />

orecchio / scoperto; e so che è più quello / a congiungerci, il<br />

silenzio che continua / a ronzare dentro ad esso... // Con un<br />

auricolare ciascuno udiamo, / con l’altro orecchio, uno squarcio<br />

che ci lacera le carni, lungo e profondo / più di un decennio,<br />

ormai...


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

87<br />

No l’é pecà a ragàr<br />

‘na rosa dal rosèr, se<br />

tì che te ’a spèta te ‘iuta<br />

‘a sera a fiorìr de un canto.<br />

Intanto ‘e pavéjie ‘e me saeùdha,<br />

e dal fondo de l’aria mòre<br />

el ciaro te ’a grazia de l’ort.<br />

‘Na zhiìga ‘a se pudha tea paeàdha.<br />

E mì son vestì da festa.<br />

‘Ò ‘na camisa bianca come<br />

un fòjio. La ‘ò messa su parché tì<br />

te ghe scrive sora un poema de carezhe.<br />

Là c’è la curva, e le siepi / arruffate. Là cresce / il luppolo<br />

brado e c’è l’erba / alta sullo stradone, e poi / c’è il cumulo di<br />

macerie, / api e papaveri, l’acacia / secca e il pozzo. Venti<br />

passi / oltre passano le auto, / è vero, e si sorpassano veloci /<br />

prima dello stop; ma noi / abbiamo imparato a non udirle /<br />

quando veniamo qui, qui dove resiste / un passato che sa<br />

ascoltare / il silenzio che gli portiamo / con devozione, e a<br />

volte / credetemi, questo scampolo di natura / che si ribella<br />

attorno alle travi e alle pietre / sembra di udirlo piangere / e<br />

chiamare tutti i nomi che conosce.<br />

Non è peccato recidere / una rosa del roseto, se / tu che la<br />

attendi aiuti / la sera a fiorire di un canto. // Intanto le<br />

farfalle mi salutano, / e dal fondo dell’aria muore / la luce<br />

nella grazia dell’orto. / Un passero cala sulla rete di<br />

recinzione. // Ed io ho messo il vestito buono. / Ho una<br />

camicia bianca come / un foglio. L’ho indossata perché tu / ci<br />

possa scrivere sopra un poema di carezze.<br />

Là l’é ‘a svòlta, i zhiesóni<br />

selvàreghi. Là cresse<br />

i bruscàndoi e l’é l’erba<br />

alta tel stradhón, e dopo<br />

l’é ‘l mucio de rovinàzhi,<br />

àve e papaveri, ‘a cassia<br />

seca e ‘l pozh. Vinti passi<br />

pì in là passa ‘e machine,<br />

l’é vero, e ‘e se sorpassa sguèlte<br />

prima del stop; ma noàntri<br />

‘ven inparà a no’ sintìrle<br />

co’ vignén qua, qua ‘ndo’ che resiste<br />

un passà che ‘l sà ‘scoltàr<br />

el siénzhio che ghe portén<br />

co’ devozhión, e dee volte,<br />

credéme, ‘sto cantonét de natura<br />

che ‘a se ribèa torno i travi e ‘e pière<br />

par de sintìrlo piàndher<br />

e ciamàr tuti i nomi che ‘l conósse.


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

88<br />

Trazhe<br />

Calcòssa. Come un muzhigòt<br />

de zhigareta schinzhà<br />

te un portaciche bianco,<br />

te l’unico tavoìn libero,<br />

fora da un cafè: el fil<br />

de fun che ‘ncora se lèva,<br />

sora el filtro macià de rosséto.<br />

O un sbrodegòt de zhiéra za dura<br />

zó daa pinzhéta, te ‘na cesa vòdha,<br />

‘na sera. Intant che dó posti pì in là<br />

mèdha candéa ‘ncora ‘a continua<br />

el ciaro dea só preghiera.<br />

Opura ‘a zhàpega de ‘na scarpa<br />

che par dispèt, par zogo, o par<br />

‘na perdita de caìbrio, un sburtòn,<br />

par senpre ‘a resterà fonda<br />

te ‘na getàdha de ciménto.<br />

PRESENZE. E za distanze.<br />

Trazhe che calcùn<br />

el ‘assa là, e che a noàntri<br />

ne fa pensàr, imajinàr:<br />

un viso, ‘na storia diversa<br />

daa nostra epùra cussì diversamente<br />

conpagna. El fato de ‘rivàr un fià<br />

dopo, el fato che calcùn’altro<br />

‘rivarà un fià dopo de noantri<br />

provando a pensàr chi che se ièra.<br />

Tracce<br />

Qualcosa. Come un mozzicone / di sigaretta schiacciato / in un<br />

posacenere bianco, / nell’unico tavolino libero, / fuori da un caffè:<br />

il filo / di fumo che ancora si libra, / sopra il filtro macchiato di<br />

rossetto. // O una colatura di cera rappresa / nel vassoio votivo, in<br />

una chiesa vuota, / una sera. Mentre due spazi oltre / mezza<br />

candela ancora continua / il chiarore della sua preghiera. //<br />

Oppure l’impronta di una scarpa / che per un dispetto, una burla, o<br />

per / una perdita d’equilibrio, una spinta, / per sempre rimarrà<br />

impressa / in una gettata di cemento. // PRESENZE. E già distanze.<br />

// Tracce che qualcuno / ha abbandonato lì, e che ci / fanno<br />

pensare, immaginare: / un viso, una storia diversa / dalla nostra<br />

eppure così diversamente / simile. Il fatto di arrivare un attimo /<br />

dopo, il fatto che qualcun altro / arriverà un attimo dopo di noi /<br />

tentando di immaginare chi eravamo.


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

89<br />

El mar. L’amór. E ‘a mare<br />

Còssa podaràeo mai dirghe al mar<br />

un òn che l’à remà senpre tea pianura,<br />

che l’à rumà tèra. Servo de l’erba.<br />

Un che no l’é mai stat bon de inparàr<br />

a nodhàr, a amàr. Parché l’é difizhie<br />

star a gaea anca tii òci de ‘na fémena,<br />

drento ‘e só onde, ‘e só corénti.<br />

El pol sol ‘ndar da Lu, entrar caminando<br />

fin che l’aqua ghe toca ‘a sbèssoea.<br />

Sintìr ‘a sabia soto i pie come che ‘a sie<br />

‘ncora ‘a tèra. ‘N’antra, pì smòrvedha. Pì bona.<br />

E star là. Co‘a testa fòra.<br />

Come un putèl, co‘l nasse.<br />

Come che ‘l mar deventésse ‘na mare.<br />

Fresca. Chièta. E za cuna.<br />

Soto ‘l sol, o ‘e stée<br />

che i ‘a incorona.<br />

Il mare. L’amore. E la madre<br />

Cosa potrà mai confidare al mare / un uomo che ha<br />

remato sempre in pianura, / che ha scavato la terra.<br />

Servo dell’erba. // Uno che non è mai riuscito a imparare<br />

/ a nuotare, ad amare. Perché è difficile / restare a galla<br />

anche negli occhi di una donna, / dentro le sue onde, le<br />

sue correnti. // Può solo andar da Lui, entrare<br />

camminando / sino a che l’acqua gli sfiori il mento. /<br />

Sentire la sabbia sotto i piedi come se fosse / ancora la<br />

terra. Un’altra, più morbida. Più buona. // E stare lì. Con<br />

la testa fuori. / Come un bambino, quando nasce. //<br />

Come se il mare si facesse madre. / Fresca. Quieta. E già<br />

culla. // Sotto il sole, o le stelle / che la incoronano.


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

90<br />

‘A bici<br />

No’ò mai capìo<br />

parché té te ‘a ‘vesse ciota<br />

chea bici. Te vedée passàr<br />

par de qua, tignéndoea pa’ à manòpoea<br />

caminando, e ‘ndar ‘vanti verso ‘l tó lavoro,<br />

verso l’ostarìa. Mai te ‘ò vist saltàrghe<br />

sora, mai te ‘ò vist fracàr chii pedhài<br />

che i giréa istéss. Po’ i ‘à tacà a giràr<br />

anca i pedhài dea mé vita, ‘ò scuminzhìa<br />

a córerghe drio ai sogni, a l’amór,<br />

e no’ò pì buu tenpo pa’ sentàrme fora<br />

a vardàr còss che passéa de qua,<br />

e i chi e i come che ‘ndea, che tornéa,<br />

a volte inbriàghi, a volte cantando,<br />

bestemàndo, saeudhàndo.<br />

No’ te sì mai stat, o mèjio,<br />

no’ te vée mai vist, spèta,<br />

com’eo che se dise... ah, sì : «pitoresco»,<br />

mai te sì tornà sbiègo, da l’ostarìa,<br />

a sparàr stranbòti come Guerino e Cochi<br />

e Rico, te chel dir baéngo<br />

che a noàntri bòce ne fea cussì tant da rider,<br />

che se imitéa, se simiotéa in mèdho ai nostri zòghi.<br />

Tì te passéa, òni tant, tut quà, te passéa<br />

co’a tó bici par man, co’l tó baschét blè<br />

e ‘l tó siénzhio. Cussì, sol dopo un bèl tòc,<br />

un àno forse, che no’ te vedée pì<br />

La bicicletta<br />

Non ho mai capito / perché te la comperasti / quella<br />

bicicletta. Ti vedevo passare / di qua, tenendola per<br />

la manopola del manubrio / e, camminando, andare<br />

verso il tuo lavoro, / verso il bar. Mai ti ho visto<br />

saltarci / sopra, mai ti ho visto spingere quei pedali /<br />

che giravano lo stesso. Poi hanno incominciato a<br />

girare / anche i pedali della mia vita, mi sono avviato<br />

/ verso i sogni, verso il richiamo dell’amore, / e non<br />

ho più avuto tempo da perdere per sedermi qui fuori<br />

/ a guardare cosa passava, / e i chi e i come che<br />

andavano, che tornavano / a volte ubriachi, a volte<br />

cantando, / bestemmiando, salutando. Non sei mai<br />

stato, o meglio, / non mi eri mai sembrato, aspetta, /<br />

com’è che si dice... ah, sì: «pittoresco», / mai sei<br />

tornato ciondolante dal bar, / a declamare<br />

stramberie come Guerrino e Cochi / ed Enrico, in quel<br />

dire bislacco / che a noi fanciulli / era così simpatico,<br />

/ che imitavamo, scimmiottavamo, insieme ai nostri<br />

giochi. / Tu passavi, ogni tanto, con il tuo baschetto<br />

blu / e il tuo silenzio. Così, solo dopo un bel pezzo, /<br />

un anno, forse, che non ti vedevo più /


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

91<br />

ghe ‘ò domandà a me mare - ma cussì, tant<br />

par dir calcòssa, nianca coriosità,<br />

come che se sé parla del tenpo, opùra<br />

se sé dise: «che ora eo?» - ghe ‘ò domandà<br />

tó notizie. «’A, Benito?, a l’é bèl che un àno<br />

squasi che l’é mort». Po’ a me ‘à dita<br />

che te jèra mul, senza fradhèi,<br />

e che ‘iutéa el latér a far formàji<br />

e butìro. Tuta qua ‘a jèra stadha ‘a tó vita.<br />

E ‘dèss mì pense che chea bici<br />

(che te tignéa senpre cussì lustra)<br />

‘a fusse stadha par tì squasi chea morosa<br />

che no’ te ‘à mai bbu, quea che se porta fora<br />

a spasso, ‘a sera, a brazhéto, o un fradhél,<br />

un amìgo, un fiòl, un can inmànco.<br />

E me piasaràe savér che fine<br />

che l’à fat, chea bici,<br />

se calcùn ghe ‘à mai montà parsora<br />

o se, a l’incontrario de tì, drento de mì,<br />

‘a se ‘à inrudhinìo pudhàdha a un calche<br />

muro del tenpo.<br />

ho chiesto a mia madre - ma così, tanto / per dire<br />

qualcosa, neanche curiosità, / come ci si parla del<br />

tempo, oppure ci si chiede: «che ore sono?» - gli ho<br />

chiesto / tue notizie. «Ah, Benito?, è ormai un anno /<br />

quasi che è morto». Poi ha aggiunto / che eri<br />

scapolo, senza fratelli, / e che aiutavi il lattaio a fare<br />

burro / e formaggi. Tutta qui era stata la tua vita. //<br />

Ed ora io immagino che quella bicicletta / (che tenevi<br />

sempre così linda e brillante) / fosse stata per te<br />

quasi quella fidanzata / che non hai avuto, quella che<br />

si porta / fuori a spasso, la sera, a braccetto, o un<br />

fratello, un figlio, / un amico, un cane, almeno. // E<br />

mi piacerebbe sapere che fine / abbia fatto, / se<br />

qualcuno gli sarà poi salito sopra // o se, non come<br />

te dentro me, / si sia arrugginita appoggiata a un<br />

qualche / muro del tempo.


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

92<br />

Presèpio. Diaèto<br />

Chea strabenedhéta bona vòjia<br />

che te ciapa de far su ‘l presèpio,<br />

òni àno, e òni àno pì grando,<br />

pì bèl; ‘a cura che te ghe mete,<br />

po’, ‘a passión. Là, cuzhàdha,<br />

par tèra, drio ‘l cantón dea sàea,<br />

tì, cussì maeandàdha, che se ‘o<br />

capìsse, sàtu? quant che te diòl<br />

i dhenòci, dopo, co’ te lèva su...<br />

là, a pontàr el cel pièn de stée<br />

co’e brochéte, tel muro, a pudhàr<br />

tute ‘e piègore tel mus.cio... e po’<br />

el fògo, co’e lucéte che baca soto<br />

‘a carta dee narànzhe...’e scorzhe<br />

del ró.ro pal tét, ‘e stradhèe de jerìn,<br />

el pozh, l’acqua che score te un lèt<br />

de stagnòea, e lù, el Gesù banbìn,<br />

co’i brazhéti vèrti, in fra ‘a pàjia<br />

e un nido de bachéti incrosàdhi...<br />

Pa’ i nevodhéti, lo so, capìsse...<br />

ma tì no’ te capìsse che no’é pì tenpi<br />

e reijión, che mì no’ò pì tenpo de ‘ndar<br />

in zherca del mus.cio che té ocóre,<br />

che no’sò pì ‘ndove ‘ndar a catàrlo...<br />

e che no’ i ghe crede pì, i bòce: l’é<br />

pì ‘l deghèio che i fa su... che dopo<br />

té sacramentéa, a tacàr co’l scòc<br />

‘a carta che i sbrèga pa’ tocàr co’<br />

i déi ‘e stée, a cavàr via dal mus.cio<br />

i sasséti dee stradhée sbaràdhe,<br />

a méter in pie ‘e statuéte rebaltàdhe...<br />

Presepe. Dialetto<br />

Quell’irrinunciabile desiderio / che ti prende di allestire il<br />

presepe, / ogni anno, e ogni anno più ampio, / più ricco; la<br />

cura, minuziosa, in ogni suo dettaglio, / la passione. Lì,<br />

accucciata / sui calcagni in un angolo della sala, / tu, così<br />

malandata che, lo / capisco, sai? quanto ti dolgano / le<br />

ginocchia, poi, mentre ti risollevi... // lì, a fermare il cielo<br />

stellato / con le puntine da disegno, nel muro, a sistemare /<br />

tutte le pecore nel muschio... e il fuoco, / poi, con le luci<br />

intermittenti sotto / un batuffolo di carta delle arance... le<br />

cortecce / grinzose del rovere per il tetto, le stradine di<br />

ghiaino, / il pozzo, l’acqua che scorre in un letto / di stagnola,<br />

e lui, il Gesù bambino, / con le braccine aperte, fra la paglia /<br />

e un nido di bastoncini incrociati... // per i nipotini, lo so,<br />

capisco... // ma tu non capisci che non è più tempo / che non<br />

c’è più sacralità, che io non ho più tempo per andare / a<br />

raccogliere il muschio che ti serve, / che non so neppure dove<br />

andare a cercarlo, poi!... / e che non ci credono più, i bambini:<br />

è più / il disastro che combinano... che poi / sbuffi, a<br />

riattaccare con il nastro adesivo / la carta che strappano per<br />

toccare le stelle / con le dita, a togliere dal muschio / i<br />

sassolini delle stradine sparpagliate, / a mettere in piedi<br />

statuine ribaltate... /


Da Mus.cio e roe (Muschio e spine), 2007<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

93<br />

che me vignaràe squasi vòjia de dirte<br />

basta, Mare, ‘àssea star ‘sta poesia,<br />

santa; e varda i nostri paesi, pitòst<br />

varda! che saràe da inpinìr el mus.cio<br />

(mus.cio che ‘sto àno ò vist parfìn<br />

tee scansìe de l’Ipercòp; che i ‘o<br />

vendéa, capissìtu? i vende anca<br />

quel romài! che saràe da inpinìrlo,<br />

chel mus.cio, co ‘e scàtoe dee scarpe<br />

e co quee dee tó medesìne, dee mé ciche,<br />

cussì, a somejiàr tuti ‘sti capanóni, i Centri<br />

Comerciài, che l’é quea, romài, ‘a realtà<br />

che i tó nevodhéti conósse... el tubo dea carta<br />

da cèsso a far ‘e ciminière... i Re Magi<br />

farli ‘rivàr sora ae machinéte de mé fiòl:<br />

al modheìn de un gipón, de ‘na Bièmewu,<br />

de ‘na Mercèdes, altro che camèi...<br />

che ‘l Gesù banbìn no‘l va in tivisión,<br />

tii reàliti, tii tolc-sciò, e ‘lora no’ l’esiste,<br />

capissìtu? no’ l’é un vip, no ‘l conta pì nient...<br />

Vàrdene, Mare: sen qua, mì e tì, tì co’e tó<br />

statuéte, el mus.cio, mì co’e mé pòre paròe,<br />

el diaèto; vàrdene: sen qua a provàr a tègner<br />

fermo un mondo che scanpa via senpre pì<br />

de prèssa, infagotàndoeo de sintimenti,<br />

popoeàndoeo de erba e pastori, de storie<br />

che ‘e sa da fen, da mufa. Fen pròpio da rider!<br />

però, ‘scólteme, Mare: ‘ndarò in zherca<br />

del tó mus.cio anca l’àno prossimo, te ‘o prométe<br />

continuarò a‘ndar in zherca de paròe<br />

vèce, òni dì, pa’a mé poesia, ‘l presèpio<br />

e pa’ i nevodhéti che mé rivarà, anca a mì...<br />

che mi verrebbe quasi voglia di dirti / basta, mamma, lasciala<br />

perdere questa poesia, / sacra; e guarda i nostri paesi,<br />

piuttosto // guardali! che sarebbe da riempire tutto il muschio<br />

/ (muschio che quest’anno ho persino visto / fra gli scaffali<br />

dell’Ipercoop; che era / in vendita, capisci? vendono anche<br />

quello / ormai! che sarebbe da disseminarlo, / quel muschio,<br />

di scatole di scarpe / e di quelle delle tue medicine, delle mie<br />

sigarette, / così, a figurare questi distretti di capannoni<br />

industriali, di Centri / Commerciali, che sono, ormai, il reale<br />

paesaggio / che i tuoi nipotini vivono, conoscono... il tubo<br />

della carta / igienica per mimare ciminiere... i Re Magi / farli<br />

arrivare su di una di quelle macchinine di mio figlio: / al<br />

modellino di un fuoristrada, di una Bmw, / di una Mercedes,<br />

altro che cammelli... / che Gesù bambino non appare in tivù, /<br />

non va ai reality, ai talk-show, e quindi non esiste, / capisci?<br />

non è un vip, non è più nessuno... // Guardaci, mamma: siamo<br />

qui, io e te, tu con le tue / statuine, il muschio, io con le mie<br />

povere parole, / con il dialetto; guardaci: cerchiamo,<br />

strenuamente, di trattenere / a noi un mondo che si allontana<br />

a una velocità / impressionante, avvolgendolo di valori, di<br />

sentimenti, / popolandolo di erba e pastori, di storie / che<br />

odorano di fieno, di muffa. Siamo proprio ridicoli! // però,<br />

ascoltami, mamma: andrò a raccogliere / il tuo muschio<br />

anche il prossimo anno, te lo prometto // continuerò a<br />

raccogliere parole / vecchie, ogni giorno, per la mia poesia,<br />

per il presepe / e per i nipotini che arriveranno anche a me...


Da Fabrica , 2009 e 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

94<br />

Varda chii operai, varda<br />

come che i se perde via<br />

fra i só pensieri intant che<br />

i se fuma ‘na cica sentàdhi<br />

contro ‘l muro dea fabrica<br />

co’ chee camise smarìdhe,<br />

‘e scarpe zhòzhe de còea<br />

o de ojàzh, zhéjie e cavéi<br />

zai de segadùra. I par squasi<br />

dei pajiàzhi scanpàdhi via<br />

vàrdii ‘dèss che i schinzha<br />

‘a cica soto i pie e a testa<br />

bassa i torna dae machine<br />

che spèta ‘ncora i só sèsti<br />

servi; i sogni soeàdhi lontani.<br />

vàrdii, stràchi e spàzhi,<br />

co’i gins che ‘na volta<br />

i ièra quei boni, e ‘dess<br />

i ‘é sol un pèr de bràghe<br />

màssa curte e taconàdhe<br />

da un circo, cussì, ridìcoi<br />

e maincònici come i comici<br />

del cinema mut, e muti i ‘é<br />

anca lori parché ‘a fadìga<br />

ghe ‘à portà via ‘a paròea<br />

Guarda quegli operai, nota / come sono assorti<br />

/ fra i loro pensieri mentre si / concedono una<br />

sigaretta seduti / contro il muro della fabbrica<br />

// guardali, stanchi e sporchi, / con i jeans che<br />

un tempo / erano alla moda, ed ora / sono solo<br />

un paio di brache / troppo corte e rattoppate //<br />

con quelle camicie sbiadite, / le scarpe lerce di<br />

colla / o di oliaccio, ciglia e capelli / gialli di<br />

segatura. Sembrano quasi / dei clown fuggiti //<br />

da un circo, così, ridicoli / e malinconici come i<br />

comici / del cinema muto, e muti sono / anche<br />

loro perché la fatica / gli ha estirpato la parola<br />

// guardali ora mentre schiacciano / la cicca<br />

sotto i piedi e a capo / chino ritornano dalle<br />

macchine / che attendono ancora i loro atti /<br />

servili; i sogni volati altrove.


Da Fabrica , 2009 e 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

95<br />

I sèsti i ‘é senpre ‘i stessi<br />

òni dì. E sempre pì sguèlti<br />

i deve èsser. ‘E man che<br />

‘e core, e corendo ‘e porta<br />

via co’ lore anca ‘l zhervèl<br />

co’e só zàne de fèro fin ‘ndo’<br />

che i sogni no’ i ‘à pì àe. Sèsti,<br />

i stessi, sempre, e senpre pì<br />

de prèssa ‘dèss, senpre prima<br />

‘e man in préstio, el stress<br />

tut a un trato, no’ i se ricorde<br />

‘ndo’ che i ‘é e che i parte via<br />

de scàto, fàzhie che pur savèndo<br />

‘ndo’ che i se trova no’ i pòsse<br />

pì controeàrse e i tache a tremàr.<br />

e ‘l sorìso de tó fiòl ròdhoea<br />

in mèdho ae rulière, ‘i òci<br />

de tó fémena se sconde drio<br />

i bancài, i muéti i diventa<br />

mamùt zai che i vòl levàrte<br />

òmini deventàdhi robò romài<br />

come farài, co’ i ‘riva casa?<br />

Come farài a far passàr pin-<br />

piàn ‘na carézha fra i rizhi<br />

de l’amór; fàzhie che i dei,<br />

I gesti sono sempre gli stessi / ogni giorno. E<br />

sempre più ossessivi / devono essere. Le mani<br />

che / corrono, e correndo trasportano / con<br />

loro anche la mente // il sorriso di tuo figlio<br />

rotola / in mezzo alle rulliere, gli occhi / di tua<br />

moglie si nascondono oltre / i bancali, i carrelli<br />

si mutano / in mammut giallastri che ti<br />

sollevano // con le loro zanne d’acciaio, sin<br />

dove / i sogni non hanno più ali. Gesti, / gli<br />

stessi, sempre, e sempre più / in ostaggio alla<br />

fretta, ora, sempre prima / le mani in prestito,<br />

lo stress // uomini trasformati in robot ormai /<br />

come faranno, quando ritornano a casa? /<br />

Come faranno a far scivolare lenta- / mente<br />

una carezza fra i riccioli / dell’amore; facile che<br />

le dita, // tutto d’un tratto, si scordino / di<br />

essere uscite da quella follia e partano / di<br />

scatto, facile che pur consce / di essere<br />

“rientrate” non riescano / comunque a<br />

controllarsi e inizino a tremare.


Da Fabrica , 2009 e 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

96<br />

Ma pì ‘ncora fa pecà<br />

‘e fémene operaie: vièn<br />

in ment, chissà parché,<br />

‘e formìghe, chee frégoe<br />

grande che ‘e se strassìna<br />

a l’asìo, lavatrice da svodhàr,<br />

‘a roba picàdha al stendìn<br />

‘a matìna, ‘ncora da stiràr,<br />

el magnàr da far; tut un afàno.<br />

Le vede co’ chee onge rote<br />

‘na vèrta de ganbe justa<br />

‘e ‘à incastrà ‘l mona che<br />

le mantièn, pa’e sgrimiéte<br />

dea tivisión, senpre tiràdhe,<br />

inprofumàdhe, ‘a serva in casa.<br />

drio alte fin tel formighèr.<br />

Le vede, senpre de corsa,<br />

cavéi ciapàdhi co’a moéta<br />

in fabrica, ciapà ‘l pensièr<br />

fra ‘l fiòl da ‘ndar a cior<br />

chee rughe in banda ai òci,<br />

sorìsi fiapi e ‘a feminiità persa<br />

sot ‘l traversón; ‘na invidia<br />

che vièn su, a volte, pa’ quee<br />

che co’na bea menàdha de cul,<br />

Ma più ancora provo pena / per le donne<br />

operaie: vengono / in mente, chissà perché, / le<br />

formiche, quelle briciole / giganti che si<br />

trascinano // dietro, sulla groppa, sino al<br />

formicaio. / Le vedo, sempre di corsa, / i capelli<br />

raccolti con mollette o forcine / in fabbrica,<br />

ostaggio il pensiero / fra il figlio da prelevare //<br />

all’asilo, la lavatrice da svuotare, / la biancheria<br />

appesa allo stendino / la mattina, ancora da<br />

stirare, / la cena da imbastire; tutto un affanno.<br />

/ Le vedo con quelle loro unghie spezzate //<br />

quelle rughe intorno agli occhi, / sorrisi mosci e<br />

la femminilità persa / sotto il grembiule;<br />

un’invidia / che monta, a volte, verso quelle /<br />

che con abile ancheggio, // uno scaltro<br />

allargamento di gambe / hanno saputo<br />

incastrare il babbeo che / le mantiene, verso le<br />

veline / della tivù, svestite sempre all’ultima<br />

moda, / profumate, la serva in casa.


Da Fabrica , 2009 e 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

97<br />

A Roberto no’ l’é che<br />

‘e ghe piase pì de tant<br />

‘e batùdhe e ‘e barzeéte<br />

che ‘l diretór el conta<br />

co’l passa fra i reparti<br />

che ridér no’ costa niént,<br />

visto che tuti i só coèghi<br />

i se sganàssa, lo fa ‘nca<br />

lu, parché ‘l sa che sì, che<br />

insóma convièn sempre<br />

che a ridér e a dir senpre<br />

de sì se fa pì strada, l’é pì<br />

fàzhie far carièra, e ‘lora,<br />

capìa ‘a règoea ‘l se ‘dàta,<br />

in coro. Manco duro ‘l lavoro.<br />

come pa’ dirghe «vedéo<br />

che simpatico che son,<br />

che òn bon» no’ le trova<br />

cussì comiche, zherte po’<br />

le conósse za, però, visto<br />

èsser un fià lechìn, che l’é<br />

sempre mèjio tègnersee<br />

bone zherte persone, i capi<br />

spèzhie, quei che comanda;<br />

là in fabrica, po’, l’à vist<br />

Roberto non le trova / così irresistibili / le<br />

barzellette e le battute / che il direttore<br />

racconta / quando sosta fra i reparti // come se<br />

volesse suggerire a quelle maestranze «vedete<br />

/ che simpatico sono, / che buon uomo» non le<br />

trova / così comiche, certe poi / sono anche<br />

vecchie, però, dato // che ridere non costa<br />

nulla, / dato che tutti i suoi colleghi / si<br />

scompisciano, lo fa anche / lui, perché sa che sì,<br />

che / insomma conviene sempre // essere un<br />

po’ yes-man, che è / sempre meglio tenersele /<br />

buone certe persone, i superiori / specialmente,<br />

quelli che comandano; / lì in fabbrica, poi, ha<br />

constatato // che a ridere e ad annuire /<br />

sempre si fa più strada, è più / semplice far<br />

carriera, e allora, / capìta quella regola vi si<br />

adatta, / in coro. Meno duro il lavoro.


Da Fabrica , 2009 e 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

98<br />

Marta l’à quarantatrè àni.<br />

Da vintizhinque ‘a grata<br />

cornìse co’a carta de véro,<br />

el tanpón, ‘a ghe russa via<br />

‘a vernìse dura dae curve<br />

un grop de spaghi stopósi<br />

che nissùna peruchièra pòl<br />

pì tornàr rizhàr. Co’a cata<br />

‘e só care amighe maestre<br />

o segretarie, ghe par che<br />

drio ‘e rece, i recìni. Le<br />

varda e spess ‘a pensa<br />

al só destìn: tuta ‘na vita<br />

persa a gratàr, a gratarse<br />

via dal corpo ‘a beézha.<br />

del ‘egno; e ghe ‘à restà<br />

come un segno tee man:<br />

carézhe che sgrafa, e onge<br />

curte, da òn. I só bèi cavéi<br />

biondi e bocoeósi i ‘é ‘dèss<br />

‘e sie tant pì zóvene de ea,<br />

‘a ghe invidia chee onge<br />

cussì rosse e longhe, i cavéi<br />

lissi e luminosi, chii déi<br />

ben curàdhi, co’ i sii pàra<br />

Marta ha quarantatre anni. / Da venticinque /<br />

leviga cornici col tampone, / la carta abrasiva,<br />

con questi umili strumenti frega / la vernice<br />

dura nelle modanature // del legno; e le è<br />

rimasto / come un segno nelle mani: / carezze<br />

che graffiano, e unghie / tozze, da uomo. I suoi<br />

bei capelli / biondi e ondulati sono ormai // un<br />

groviglio di spaghi stopposi / che nessuna<br />

parrucchiera potrà / più rimodellare. Quando<br />

incontra / le sue coetanee, maestre / o<br />

segretarie, le trova // tanto più giovani, / le<br />

invidia quelle unghie / così rosse e lunghe, i<br />

capelli / lisci e luminosi, quelle dita / ben<br />

curate, quando se li scostano // dietro le<br />

orecchie, gli orecchini. Le / osserva e spesso<br />

pensa / al suo destino: tutta una vita / persa a<br />

grattare, a fregarsi via dal corpo la bellezza.


Da Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera), 2010<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

99<br />

Pan e paròe<br />

Pan e paròe<br />

l’é sempre stat ‘l mé past,<br />

‘a mé eucarestia; senpre<br />

l’é stat carestia de schèi<br />

tee mé scassèe, caro Dio<br />

tì te ‘o sa, e te sa che mai<br />

te ‘ò domandà un calcòssa<br />

de pì, che senpre quel che<br />

te me ‘à dat ‘l me ‘à bastà<br />

ma ‘e paròe che conzha<br />

chee dó fete de pan le ‘é<br />

senpre ‘e mie, quee che<br />

ghe ‘ò sgrafà via dal jazh,<br />

dal siénzhio, e ‘a fame che<br />

me cresse drento la ‘é quea<br />

dee tue, de una soea, inmanco.<br />

Fàme savér se te son caro,<br />

se te me tièn de cont, fàea<br />

anca tì ‘a tó part, saràe ora<br />

no, no’ te par? Fàme ‘rivar<br />

zo ‘na pàrticoea de pase,<br />

‘na vose fata sol de un rajo<br />

de ciaro; son qua co’e man<br />

vèrte che la spète, al scuro,<br />

co’e fete de chel pan. Za duro.<br />

(Come si mangia un pane<br />

non invocano il Nome)<br />

Bibbia, Salmi, libro primo, 14 [*]<br />

[*]: da I salmi, Einaudi, 1967, traduzione di Guido Ceronetti.<br />

Pane e parole<br />

Pane e parole // sono sempre state il mio<br />

pasto, / la mia eucaristia; sempre / è stata<br />

carestia di lusso / nella mia vita, caro Dio // tu<br />

lo sai, e sai che mai / ti ho chiesto qualcosa / in<br />

più, che sempre ciò che / mi hai donato mi è<br />

bastato // ma le parole che farciscono / quelle<br />

due fette di pane sono / ancora una volta le<br />

mie, quelle che / ho graffiato via dal ghiaccio,<br />

// dal silenzio, e la fame che / mi cresce dentro<br />

è quella / delle tue, di una sola, almeno. /<br />

Fammi sapere se ti sono caro, // se ti sono<br />

importante, falla / anche tu la tua parte,<br />

sarebbe ora / no, non ti sembra? Mandami /<br />

giù una particola di pace, // una voce fatta solo<br />

di un raggio / di luce; sono qui, fermo, con le<br />

mani / aperte che la attendo, al buio, / con le<br />

fette di quel pane. Ormai raffermo.


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

100<br />

Mòbii / Mobilità<br />

I<br />

Èco, vardéne: sen qua, tuti insieme<br />

sot’a tetòia de eternit e lamiera drio<br />

‘a segheria, un branco de pòri cristi<br />

a l’onbrìa del silo; vardéne, ‘dèss<br />

che quel del sindacato e ‘l diretór<br />

dea fabrica i ne ‘à ‘assà là da soi<br />

da soi òniun co’i só pensieri, ‘a só<br />

ansia, el rabiosón; ‘dèss che forse<br />

pa’a prima volta sen davéro tuti<br />

compagni, cussì, ligàdhi aa stessa<br />

sort. Vardéne: se ‘ven anca scanà<br />

fra de noàntri, e sbarufà, se ‘ven<br />

mandà a cagàr a volte, parché un<br />

ièra un fià lechìn, el fea ‘a spia su<br />

in ofìcio, o parché cheàltro tiréa<br />

el cul indrìo, no’l capìa un ostia.<br />

E ‘dess par squasi che se ‘vene<br />

senpre vussù ben, che sene tanti<br />

fradhèi ribandonàdhi da un pare.<br />

Calcùn l’à sgobà insieme par vinti<br />

àni, cómio co’ cómio, bestéma co’<br />

sudhór; calcùn no’l voéa pròpio<br />

savérghine de lavoràr in còpia co’<br />

cheàltro, altri i ‘à vist el só ben<br />

fiorìr drio ‘na fresa, basi robàdhi<br />

fra un toc e ‘n’antro, i fiòi crésser<br />

fra i turni e ‘l mutuo; un l’à vist<br />

un déo sparìrghe via daa man, tut<br />

a un trato, ‘n’antro se tièn duro ‘a<br />

schena, co‘l lèva su daa carègha.<br />

Mobilia / Mobilità<br />

I<br />

Ecco, guardateci: siamo qui, riuniti / sotto la tettoia di<br />

eternit e lamiera dietro / la segheria, un manipolo di poveri<br />

cristi / all’ombra del silo; guardateci, ora / che il<br />

rappresentante sindacale e il direttore / dell’azienda ci<br />

hanno lasciati soli, lì // soli ognuno con le sue<br />

preoccupazioni, la propria / ansia, il rancore; adesso che<br />

forse / siamo per la prima volta davvero / una classe, così,<br />

incatenati alla stessa / sorte. Guardateci: ci siamo anche<br />

scannati / fra di noi, e azzuffati, ci siamo // mandati a quel<br />

paese a volte, perché uno / era un po’ ruffiano, confidente /<br />

dei caporioni, o perché l’altro tirava / il culo indietro, non<br />

capiva un ostia. / E ora sembra quasi ci si sia / sempre<br />

voluti bene, tanti // fratelli abbandonati da un padre. /<br />

Qualcuno di noi ha sgobbato insieme per venti / anni,<br />

gomito a gomito, bestemmia a sudore; qualcuno non<br />

voleva assolutamente / saperne di lavorare in coppia con /<br />

l’altro, altri hanno visto il loro amore // fiorire accanto a<br />

una fresa, baci rubati / fra un pezzo e un altro, i figli<br />

crescere / fra i turni e il mutuo; uno ha visto / un dito<br />

sparirgli via dalla mano, tutto / a un tratto, un altro si<br />

tocca la / schiena, sollevando il suo corpo dalla sedia.


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

101<br />

II<br />

Ribandonàdhi, là, tel lasco scuro<br />

de chea paròea che ‘a sona dolzha,<br />

squasi gemèa de chii mòbii che ‘ven<br />

fat su, panèl dopo antina, asta dopo<br />

travèrs; chel nome pers drento ‘na<br />

storia altra, paréa, roba che capitéa<br />

sol tea Fiat, pa’ esenpio, tee fabriche<br />

massa grande, sgionfàdhe de operai,<br />

de lòte sindacài… qua pì che altro<br />

ièra sol da farse ‘l cul, a testa bassa,<br />

fra rumór e spolverón, reclamàr co’<br />

el contajozhe: ‘ché sbàtoea e dovér<br />

no’ i ‘à mai fat rima in fra de lori<br />

tel miràcoeo de ‘sto nostro nord<br />

est, croeà ‘dèss, al tenpo dea crisi.<br />

Ma vardéne, ve dise, vardéne intànt<br />

che noàntri se vardén ‘e man vòdhe,<br />

intànt che te ‘ste man, in fra i cài,<br />

‘nden in zherca de ‘sta scrita che<br />

‘é stat inpetà, co’ còea o spuàcio,<br />

no’ so, ‘sta paròea nòva che vol<br />

dir «a casa, a spasso» senza schèi<br />

chissà fin quando. Vardéne, parché<br />

sen quei che paga tuta l’ingordisia<br />

dei potenti, ‘e só barche bèe lustre,<br />

‘e só feste. Vardéne: un cuzhà drio<br />

un cantón a piàndher, un che romài<br />

le ‘à finìdhe tute quante ‘e bestéme,<br />

‘n’antro che par che l‘ te varde e<br />

invézhe l’à ‘i òci revessàdhi tel chissà.<br />

II<br />

Abbandonati, là, nel vuoto buio / di quella parola che<br />

suona dolce, / quasi gemella della mobilia che abbiamo /<br />

costruito, pannello dopo anta, asta dopo / traverso; quel<br />

nome perso dentro una / storia altra, credevamo, evento<br />

che capitava // solo alla Fiat, per intenderci, nelle aziende /<br />

troppo grandi, gonfiate di maestranze, / di lotte sindacali…<br />

qui più che altro / era solo da farsi il mazzo, a testa bassa, /<br />

fra clangore e polverone, rivendicare con / il contagocce:<br />

‘ché brontolio e dovere // non hanno mai fatto rima fra essi<br />

/ nel miracolo di questo nostro nord / est, crollato, ora,<br />

nell’epoca della crisi. / Ma guardateci, vi dico, guardateci<br />

mentre / ci osserviamo le mani vuote, / mentre fra le<br />

stesse, intorno ai calli, // cerchiamo di scorgere l’epigrafe<br />

che / ci è stata impressa, con colla o sputo, / non so, questa<br />

parola nuova che vuol / dire «a casa, a spasso » senza<br />

salario / chissà fino a quando. Guardateci, perché / siamo<br />

coloro che pagano l’ingordigia // dei potenti, i loro yacht<br />

luccicanti, / le loro feste. Guardateci: uno accasciato dietro<br />

/ un cantone a piangere, uno che ormai / le ha consumate<br />

tutte quante le bestemmie, / un altro che pare stia<br />

indagandoti e / invece ha lo sguardo rovesciato nel chissà.


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

102<br />

III<br />

Sen qua, imatonìdhi come dopo<br />

un funeràl, se sta, sfinìdhi come<br />

se se ‘vesse lavorà; po’ un se dà<br />

un sgorlón, e fando ciao co’a man<br />

para zó ‘l só magón; altri, vardéne,<br />

i dise de trovarse al bar, ‘na bira<br />

tant pa’ continuàr ‘e ciàcoe, forse,<br />

forse sol pa’ scanpàr via da là, pa’<br />

‘scondér ‘a paura, in compagnia…<br />

Vardéne ‘ncora, su, ‘ncora par poc:<br />

se se ‘brazha, se sparìsse dal piazhàl,<br />

sen in dièse, forse, ‘dèss, dei otanta<br />

che ieréssi ‘stamatina; l’é tristézha,<br />

sì, ma la ‘é ‘ncora massa fresca pa’<br />

spunciàr, e ‘lora, vardéne, a un ghe<br />

sbrissa fòra ‘na batùdha, la buta in<br />

vaca, sul scherzàr: chissà che bruta<br />

‘dèss ‘a vita, star coi cójoni in man<br />

e po’l va via, anca lu, e sen restàdhi<br />

sol in zhinque, ne vedhéo? sentàdhi<br />

sora ‘e tòe de scarto, drio ‘a muréta;<br />

altri dó i ne saeùdha, e sen restàdhi<br />

sol in tre: dó che parla e scrive l’aria<br />

co’e man, e cheàltro un fià pì in là.<br />

Quel son mì, vardéme, ve preghe,<br />

vardé co’là che a passi sòchi el se<br />

incamìna verso ‘a machina, la vèrde,<br />

el vòlta ‘a testa ‘n’antra volta parché<br />

el deve disegnàrseo tut in tea só testa<br />

‘sto momento, l’à da farlo testamento.<br />

III<br />

Siamo qui, sbigottiti, come dopo / un funerale, stiamo,<br />

sfiniti come / avessimo lavorato; poi uno si / riscuote, e<br />

salutando con la mano / inghiotte il suo magone; altri,<br />

guardateci, / si danno appuntamento al bar, una birra //<br />

tanto per lasciar proseguire i discorsi, forse, / forse solo per<br />

fuggire via da là, per / occultare la paura, in compagnia… /<br />

guardateci, ancora, dài, ancora per un poco: / ci si<br />

abbraccia, ci si eclissa dal piazzale, / siamo in dieci, forse,<br />

adesso, degli ottanta // che eravamo stamattina; c’è<br />

sconforto / sì, ma è ancora troppo fresco per / scavare, e<br />

allora, guardateci, ad uno / scappa fuori una battuta, la<br />

butta in / vacca, sdrammatizza: chissà che brutta / ora la<br />

vita, stare coi coglioni in mano // e poi si allontana, anche<br />

lui, e siamo rimasti / solo in cinque, ci scorgete? seduti /<br />

sulle tavole di scarto, lungo il muro; / altri due ci salutano,<br />

e ora siamo / solo in tre: due che parlano fra loro e scrivono<br />

l’aria / con le mani, e l’altro un po’ discosto. // Quello sono<br />

io, guardatemi, vi prego, / guardate quello lì che a passi<br />

mesti si / incammina verso l’auto, apre la portiera, / volge<br />

indietro lo sguardo un’altra volta perché / deve<br />

disegnarselo tutto nella testa / questo momento, deve<br />

farne testamento.


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

103<br />

Seràdha, ‘a fabrica, morta,<br />

romài. ‘Dèss la ‘é par davéro<br />

sol che ‘na scàtoea de cimento<br />

vòdha de vita e de fadhìghe.<br />

Drento l’é restà el fèro vècio<br />

dee machine e dee rulière, el<br />

poster dea mora co’l cul nudo<br />

che Lele ‘vea inpetà al piastro<br />

e quel del Milan tea bordatrice<br />

de Sandro, ‘i stivài e ‘a traversa<br />

de gòma che Caio uséa pa’ lavàr<br />

‘a spalmarina, el reòjio rotondo<br />

de Jijio tacà alt al muro; l’é restà<br />

‘a pólvera de osàdhe e bésteme<br />

sora i banchi, i cessi co’e porte<br />

che no’ se sèra, el brinc de fèro<br />

pa’ trar in qua i pachi de trucioeàre<br />

che un dì de barufa ‘Nando ghe ‘a<br />

moeà in testa al Ross. L’é restà tute<br />

‘e storie che là drento se ‘a frugà.<br />

Chiusa, la fabbrica, morta, / ormai. Ora è per davvero /<br />

solo una scatola di cemento / vuota di vita e di fatiche.<br />

// Dentro sono rimasti la ferraglia / dei macchinari e<br />

delle rulliere, il / poster della mora col culo nudo / che<br />

Manuele aveva attaccato al pilastro // e quello del<br />

Milan alla bordatrice / di Sandro, gli stivali e il<br />

grembiule / gommati che Claudio usava per lavare / la<br />

spalmatrice, l’orologio rotondo // di Luigi appeso alto<br />

al muro; è rimasta / la polvere di urla e bestemmie /<br />

sopra i banchi, i bagni con le porte / che non si<br />

chiudono, il gancio di ferro // per tirare a sé i pacchi di<br />

truciolato / che un giorno di baruffa Fernando / calò in<br />

testa al Rosso. Sono rimaste tutte / le storie che lì<br />

dentro si sono consumate.


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

104<br />

E cussì star qua, co’e man<br />

in man, ‘a testa scontrarse<br />

contro ‘a mura de ‘sto tenpo<br />

scuro, massa lasco, i pensieri<br />

far spiràe fra incùo e doman,<br />

‘torno un ieri che ‘l par za<br />

un passà senza ritorno romài.<br />

Star qua, co’e man restàdhe<br />

vòdhe, seràdhe su a pugno<br />

come te un sgranf de rabia,<br />

o a sofegàr l’aria che manca<br />

ai suspiri de l’ansia; operai<br />

sen, sì, quei che ‘e senpre stat<br />

carne da mazhèo, quei che ‘à<br />

da tàser, senpre, e basta, schèi<br />

che no’ basta mai, tea busta,<br />

sbassàr ‘a testa e ringrazhiàr<br />

istéss co’a ne casca tee man.<br />

Ma ‘dèss quant’eo che costa<br />

‘a desgrazhia de ‘ste ore vèrte<br />

e spòjie, de passi cussì, tant<br />

parché ‘e ore passe, un caffè<br />

al tavoìn del bar, el zhùchero<br />

da cior su, piàn, co’l cuciarìn?<br />

E così rimanere qui, con le mani / in mano, la testa<br />

sbattere / contro il muro di questo tempo / buio,<br />

troppo lasco, i pensieri // far spirale fra l’oggi e il<br />

futuro, / intorno a un ieri che sembra già / un passato<br />

senza ritorno ormai. / Stare qui, con le mani rimaste //<br />

vuote, chiuse a pugno / come in un crampo di rancore,<br />

/ o a soffocare l’aria mancante / ai sospiri dell’ansia;<br />

operai // siamo, sì, quelli che sono sempre stati<br />

considerati / carne da macello, quelli che debbono /<br />

tacere, sempre, e basta, soldi / che non bastano mai,<br />

nella busta, // abbassare la testa e ringraziare / lo<br />

stesso quando cade nelle mani. / Ma ora quanto costa<br />

/ lo spreco di queste ore aperte // e spoglie, di passi<br />

così, tanto / perché le ore passino, un caffè / al<br />

tavolino del bar, lo zucchero / da raccogliere,<br />

lentamente, col cucchiaino?


Da Co’e man monche (Con le mani mozzate), 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

105<br />

Incùo el mé fiòl pì pìcoeo<br />

l’é ‘rivà daa só camaréta<br />

co’ un pòche de machinete<br />

rote in man, rodhèe e tòchi<br />

de plastica che ghe caschéa<br />

fra ‘e piastrèe del pavimento<br />

- ‘a só voséta prima de lù, là,<br />

drio ‘l coridòio - «papà, se<br />

non riesci a trovare lavoro<br />

in una fabbrica potresti fare<br />

il meccanico che aggiusta le<br />

macchine intanto incomincia<br />

a giustare le ruote di queste<br />

mie che sono rotte». E ‘lora<br />

méterme là co’ un cazhavidhe<br />

cèo e ‘a pazhienza che no’ò<br />

mai bbu, a provàr, ‘na rodhéa<br />

cavàdha de qua e una ‘tacàdha<br />

de ‘à, a tornàr a far córer chee<br />

machinete. Chissà se ‘l destìn<br />

varà ‘a stessa pazhienza, co’<br />

mì, se ghe sarà un calcùn bon<br />

de tornàrme invidhàr i sèsti,<br />

tee man, parché ‘e pòsse tornàr<br />

a córer anca lore… pa’l pan.<br />

Oggi il mio figlio più piccolo / è arrivato dalla sua<br />

cameretta / con un mucchietto di macchinine / rotte<br />

fra le mani, ruote e pezzi // di plastica che gli cadevano<br />

/ sulle piastrelle del pavimento / - la sua vocina prima<br />

di lui, lì, / lungo il corridoio - «papà, se / non riesci a<br />

trovare lavoro // in una fabbrica potresti fare / il<br />

meccanico che aggiusta le / macchine intanto<br />

incomincia / ad aggiustare le ruote di queste // mie che<br />

sono rotte». E allora / mettermi lì con un cacciavite /<br />

da orologiaio e la pazienza che non ho / mai avuto, a<br />

cercare, una ruota // tolta di qua e una fissata / di là, a<br />

tornare a far correre quelle / macchinine. Chissà se il<br />

destino / avrà la stessa pazienza, con // me, se ci sarà<br />

qualcuno capace / di riavvitarmi i gesti, / nelle mani,<br />

affinché possano ritornare / a correre, anch’esse… per<br />

il pane.


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

Col precedente Mus.cio e roe (Muschio e spine) […] Franzin si è imposto come una deflagrazione nonostante un percorso già ben definito. Con<br />

l’attuale Fabrica […] il successo ripete ed amplia. Franzin, operaio nel profondo dell’industrioso Nord-Est italiano, analizza dall’interno (dal vero)<br />

il vivere la fabbrica, mestiere nel quale sopravvive innalzando non soltanto una bandiera della protesta civile ma restituendo la voce al popolo<br />

dei dimenticati quotidiani, quei fantasmi che appaiono nelle cronache solo in caso di morti bianche, di disastri clamorosi [...] offrendo con versi<br />

naturali e compiuti la forza possente di chi tira avanti giorno dopo giorno legato al giogo di un mestiere duro e cieco, incapace di non<br />

risucchiare dall’uomo ogni stilla di sogno o lasciare almeno intatta la dignità; la “Fabbrica” restituisce solo fatica e membra consunte,<br />

disincanto, sopraffazione, spesso un incidente, ogni tanto la morte. Franzin ci parla nello specifico di una possente segheria ed io figuravo al<br />

contempo un cementificio, con gli operai minacciati dalla silicosi; figuravo una fonderia, altro ancora, scenari mastodontici, andirivieni di cose<br />

meccaniche al servizio di cose costruite, grandi, imponenze materiali che soffocano la presenza dell’uomo, piccola comparsa il cui servigio è far<br />

funzionare la macchina, lavorare “con” la macchina e non viceversa; essere un ingranaggio aggiunto nell’ingranaggio poderoso delle macchine<br />

ma l’ingranaggio debole, quello che s’inceppa, si rompe ed al contempo è forte, è quello che resiste anche laddove la macchina non può: è<br />

l’uomo fatto di carne e caparbietà, di silenzio e straordinari, di ritorno a casa a fine giornata e domeniche in famiglia. Leggendo i testi, uno dopo<br />

l’altro, il quadro allarga: non di sé stesso parla (scrive) ma di chi come lui: gli altri attori che compongono il teatro crudo della vita operaia. Ecco<br />

le vite dei colleghi (chiamati per nome) e le disillusioni dei singoli. La scena è qui ma è anche nelle catene di montaggio nella Torino degli anni<br />

70, nelle fonderie tedesche che impiegavano operai turchi e curdi, è in una qualunque industria metalmeccanica italiana; non è solo la voce di<br />

Fabio Franzin ma la voce resa coro di un pane che per essere mangiato richiede la consumazione del corpo, richiede il sacrificio di una vita,<br />

senza scampo. Chi entra in Fabbrica (perché quello è il mestiere che offre la regione in cui si vive e niente altro è disponibile, niente altro)<br />

questo dovrà affrontare: essere divorato, lentamente nel corpo e nella mente, essiccato, reso sterile di sogni, speranze e cambiamenti, essere<br />

minacciato nel corpo se accade l’incidente, se ti viene strappata una mano o maciullato un piede; e resistere, con accanto la famiglia, con<br />

appresso il corollario invisibile di chi la vita spende senza rumore, senza grandi scene. Il volume è formato da una cinquantina di testi, ancora<br />

una volta scritti nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense con traduzione in lingua italiana a fronte (fatta dallo stesso autore).<br />

L’impianto sono 5 stanze composte da 5 versi e persino graficamente la composizione ricorda qualcosa della macchina: le stanze sono sfalsate<br />

in assetto, componendo i “denti” di un ingranaggio che incastra con le svasature dei testi/denti della pagina seguente. […]<br />

Fabiano Alborghetti, in www.alleo.it, luglio 2009<br />

* * *<br />

[…] …una lettura sorprendente, spiazzante, dura e assai illuminante. Si scoprirà che la poesia onesta, per adoperare la categoria stabilita da<br />

Saba che non ammetteva poesia bella o brutta ma solo onesta e disonesta, è una pianta anomala, capace, come quelle che attecchiscono sulle<br />

dune davanti al mare o nelle sabbie desertiche, di vegetare in situazioni proibitive, di annichilimento dello spirito e del corpo. […]<br />

Di questo suo ultimo libro […] il titolo enuncia seccamente la materia del dire: null’altro - ma quanto, invero - che il lavoro dentro le mura di<br />

uno stabilimento del Nord-Est, uno dei tanti capannoni grigi: «anca se / griso,’l capanon l’a ‘na / sò grazhia: squadrà,quatà / un fià scont drio ‘a<br />

zhièsa / de lauro che lo scontorna … tacà là in banda / a cheàltri, che insieme i par / squasi tanti cubeti de Lego…». Si intona presto ad un<br />

profondissimo sentimento di umanità, condivisione, fratellanza, questo canto che Franzin ha composto come un poema, articolato in due<br />

sezioni, la prima dedicata agli operai, la seconda a persone specifiche, nominate, ritratte nel dettaglio. E sullo sfondo di questo dialetto ritmico,<br />

franto, con frequenze monosillabiche che lo rendono estraneo, straniante, rispetto alla lingua nazionale - materia naturale dell’endecasillabo -<br />

si sente<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

106


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

si sente il basso continuo delle macchine, una maligna armonia che struttura e autorizza la melodia ruvida della voce poetica […]. Paradossale<br />

eppure tangibile la percezione fisica della macchina: minaccia e complicità si mescolano così come odio e gratitudine, alienazione e<br />

appartenenza. E quella voce che Franzin, con forza e coerenza, articola lungo tutto il canto è solista e coro in un solo respiro, capace, fuori delle<br />

(ormai, pare, annichilite) logiche di classe, di restituire un’anima ai gesti, un volto alle sagome, un senso alla parola: «Se resta operai anca / co’é<br />

festa, parchè no’ / basta un vistito, un bel / bagno pa’sconder via / ’na condizhion cussita / s.cèta: ‘a ‘è scrita tii cài, / tee man tute sgrafàdhe…».<br />

Isabella Panfido, da Franzin cerca l’uomo dentro i capannoni, in “Corriere del Veneto”, 25 agosto 2009<br />

* * *<br />

In alcuni manuali sindacali e nell’accordo del 5 agosto 1971, sostanzialmente ancora vigente negli stabilimenti Fiat, si apprende che i tempi di<br />

lavoro degli addetti alle linee di montaggio a trazione meccanizzata, comunemente definite catene di montaggio, sono divisi in Tempi Attivi (di<br />

attività manuale o assistenza al ciclo per la trasformazione di un prodotto), Fattore Fisiologico (computato per le necessità fisiologiche del<br />

lavoratore), Fattori di Riposo (percentuale di maggiorazione da assegnare ai tempi attivi in relazione a posture, difficoltà nell’uso dei mezzi o<br />

pesi, condizioni ambientali, stress psicofisico, ecc.). Ai tempi di lavoro si aggiungono le Pause che possono assorbire il Fattore Fisiologico e che<br />

vengono fruite collettivamente o individualmente a scorrimento, secondo le necessità produttive. Ciò che è rilevante in queste sommarie<br />

indicazioni è che l’attribuzione, lo svolgimento e la fruizione di tempi e pause sono stabilite a priori, rigidamente previste secondo tabelle,<br />

funzionali all’integrazione uomo-macchina a vantaggio della maggior efficienza di quest’ultima. In tale contesto il tempo per l’esecuzione di un<br />

lavoro è determinato e non direttamente influenzabile dal lavoratore. Tale scansione, meccanica e lineare, si ritrova nella costruzione della<br />

poesia di Fabrica … attraverso l’adozione di una serie continua di strofe di cinque versi, agganciate le une alle altre come una catena, composte<br />

in prevalenza di settenari e ottonari con tre accenti variati su altrettante sillabe. Scrive acutamente Roberto Cogo (recensione pubblicata su<br />

“Atelier” n. 55, Anno XIV, settembre 2009, pag. 122): «una struttura all’apparenza rigida, quasi meccanica, anche nel deciso effetto grafico<br />

complessivo, procede, foglio dopo foglio, sempre identica a se stessa, sfruttando gli spazi bianchi e i bordi di pagina con ampie rientranze tra<br />

strofa e strofa, fino ad assumere una valenza visiva che richiama alla mente un albero-motore o a camme, ma anche, quasi a dimostrazione<br />

della risoluta corrente provocatoria che apporta un forte impulso dinamico a tutto il libro, una specie di schiera allineata in cinque formazioni<br />

pronte ad avanzare sul campo». A contribuire al cadenzamento proprio di una macchina industriale, è una costruzione dei versi continuamente<br />

fratturata in enjambements, all’interno delle strofe e fra strofa e strofa, creando movimenti in sequenza sostenuti da rime e rime interne,<br />

apprezzabili in particolare nel dialetto usato da Franzin […]. Si tratta, dunque, di un testo a scorrimento che incatena i soggetti operai e i lettori<br />

come a un nastro trasportatore, non dissimile da quello della falegnameria industriale presso la quale Franzin lavora come operaio. Ogni<br />

palpito, emozione, ogni battere del senso di un singolo testo si lega a quello successivo, così come ogni operazione parcellizzata in una<br />

postazione di lavoro di una catena di montaggio è determinata da quella precedente e propedeutica a quella successiva. L’andamento della<br />

scrittura, nel ritmo come negli assetti narrativi, nel movimento del pensiero, nella compiutezza di un’emozione, segue dunque un Tempo Ciclo,<br />

ovverosia il tempo a disposizione di un operatore per completare tutte le operazioni assegnate alla sua postazione di lavoro. Analogamente<br />

ogni strofa, ogni testo si concludono in un tempo chiuso, legato e funzionale alla strofa e al testo successivi. Non si avverte in tal senso una<br />

cesura netta fra una poesia e l’altra, ma le due sezioni che compongono il libro, Pòri operai e Par nome, vengono lette come poemi, scanditi dai<br />

tempi netti della produzione […]. La vita, intesa come somma degli elementi che costituiscono l’individuo (vita familiare e sociale, amore,<br />

passioni, dolori) è dunque plasmata sugli assetti produttivi, sul cadenzamento dei turni e dei riposi; la fabbrica emana un effetto ‘alone’ che<br />

travolge<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

107


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

travolge ogni aspetto dell’esistenza del lavoratore, dove il tempo del lavoro «sembra fuoriuscire dai suoi confini cronometrici, invadere e<br />

asservire gli altri tempi, i quali devono ricollocarsi variabilmente seguendo l’andamento dell’orario di lavoro» (Giancarlo Cerruti in La fabbrica<br />

integrata e il tempo; a proposito dell'accordo di Termoli, Ires, Torino 1994). […] …la condizione operaia, per Franzin, è incardinata nell’individuo<br />

in tutte le sue espressioni, implacabile nella sua ineluttabilità: «Si rimane operai anche / la domenica, perché non / bastano un abito o un bel /<br />

bagno a celare / una condizione così.» Tale condizione coincide, almeno in parte, con quel processo di alienazione conseguente all’applicazione<br />

dei modelli di produzione tayloristici e fordisti che, attraverso la semplificazione e parcellizzazione di ogni operazione, rende riducibile il lavoro<br />

in singoli micromovimenti, e che si è impressa nella memoria collettiva attraverso le immagini di Tempi moderni, il famoso film di Charlie<br />

Chaplin. La misurazione e ottimizzazione di movimenti dell’operaio attraverso una tabellarizzazione in singole unità di tempo propongono un<br />

processo di disumanizzazione dell’essere umano, ridotto a elemento complementare della macchina alla quale è asservito […]. …il concetto di<br />

saturazione, cioè il rapporto percentuale tra il tempo di lavoro e il tempo di presenza in officina. Franzin sembra cogliere questo aspetto su due<br />

piani distinti. Vi si trova in prima battuta quello prettamente temporale relativo all’utilizzo del fattore lavoro, legato a quei momenti di pausa<br />

che gli operai possono concedersi. […] La pausa, l’allentamento della tensione che può provocare un difetto di fabbricazione o un incidente sul<br />

lavoro (vibranti i versi del poeta sul tema), sono visti in un’ottica di contrapposizione con i capi, i padroni, muti osservatori e giudici minacciosi<br />

delle risultanze della fatica quotidiana: «Ben lo sa il padrone quando passa / serio fra i reparti, quando si / ferma ora qua ora là / e li guarda, li<br />

fissa nelle mani». Si tratta di una continua forma di intimidazione, presente anche quando i capisquadra non si aggirano fisicamente nei reparti,<br />

che fa scricchiolare il meccanismo a scorrimento dei versi attraverso una palpabile tensione lirica, un movimento inconscio verso la paura che<br />

sfarfalla di fronte agli occhi del lettore. È appena il caso di rilevare come anche in questo caso la poesia tende a rifarsi a una dinamica<br />

prettamente industriale. […] Il concetto di saturazione del tempo nella vita di fabbrica è affrontata da Franzin anche in un’altra, e forse più<br />

rilevante, ottica. Lo spazio, incomprimibile e insostituibile, è quello del pensiero, del battito del cuore che va in direzione ostinata e contraria al<br />

movimento ripetitivo dei macchinari: «C’è spazio solo per i pensieri/ lì, in catena, perché/ non possono, non riescono / più a parlarsi fra di loro /<br />

questi operai. Ed anche se // potessero non saprebbero / cosa raccontarsi, cosa / cavar fuori dalla voce per / aiutarsi l’un l’altro, / stipati lì, tutti<br />

stretti // come schiavi ai remi / in questa moderna galea». Non è una prospettiva salvifica, è l’unica possibile nel campo d’azione del poeta. La<br />

stessa poesia non si pone come strumento di denuncia civile, almeno nella prospettiva dell’autore, ma come mezzo di contrasto capace di<br />

mostrare (e non dimostrare) l’ingranaggio alienante dell’officina. L’operaio, dunque, nella prospettiva del linguaggio non è più numero,<br />

matricola su libro paga, somma di tempi di produzione nell’organizzazione del lavoro; esso è preso come individuo, per nome, come recita il<br />

titolo della seconda sezione …: ecco comparire Renato, Luisa, Marta, Mirco, Joussouf, Roberto, Sergio, Lino, Pietro, con i loro desideri,<br />

aspirazioni, sofferenze; interagire con i Guanti, le Macchine, la Sega, il Frastuono, la Fabbrica, la Segatura, la Sirena, il Nastro trasportatore, la<br />

Lama circolare, elevati dal poeta a personaggi, anch’essi chiamati per nome. Ne emerge un quadro, carico di umanità e desolazione, che non è<br />

solo espressione della realtà industriale del Nord Est, dove Franzin vive e lavora, ma più in generale di un Paese, delle sue contraddizioni, delle<br />

precarie condizioni di lavoro, ma anche della sua inesausta fame di vita.<br />

Luca Benassi, in Rivi strozzati - poeti italiani negli anni 2000, Lepisma, Roma, 2010<br />

* * *<br />

Chi legge per la prima volta i versi di Fabio Franzin - soprattutto questi inediti tratti da una raccolta in via di pubblicazione presso Le Voci della<br />

Luna e intitolata Co'e man monche (Con le mani mozzate) - […] è un lettore privilegiato. Si ritrova davanti, senza che nessuno gli abbia aperto o<br />

distorto lo sguardo, un'evidenza nuda, incontrovertibile, priva di argomenti, il cui unico sostegno persuasivo è l'esserci stata e l'esserci, in quel<br />

momento<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

108


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

momento storico e in quei luoghi. Come davanti al diario di Simone Weil sulla condizione operaia, ma alla rovescia, in una salda e coerente<br />

inquadratura soggettiva: lo stato di mobilità di ottanta e più lavoratori dell'industria del mobile, oggi, nel Nordest in crisi. […]<br />

Le mani restano basse, o si raccolgono l'una nell'altra. Tutto partecipa dell'abbandono, in mobilità: gli operai che si ritrovano nel piazzale della<br />

fabbrica chiusa, come «fradhèi ribandonàdhi da un pare»; poi sbigottiti, «imatonìdhi come dopo / un funeràl», e stanchi, esausti come se<br />

avessero appena finito il turno. A un certo punto si allontanano, uno a uno. E dietro le fabbriche, nelle vie strette e spoglie che hanno i nomi<br />

delle regioni o delle scienze, in quelle zone industriali che si sono mangiate la terra di tutto il Nordest, anche i pezzi, gli scarti di lavorazione e i<br />

macchinari restano «ribandonàdhi», cominciano a arrugginirsi. Una sinfonia degli addii: «vardéne», «guardateci», è l'ultimo rintocco. Tenete gli<br />

occhi fissi sull'ultimo operaio che si sta allontanando, prima che sparisca. Suona così, questa appendice brutale del fordismo, per le piccole<br />

fabbriche con i turni a tamburo battente, senza tutele né prospettive, in un pezzo d'Europa che ancora non impara a crescere insieme al<br />

fatturato. E la perdita della manualità - un tema privilegiato nella storia della poesia operaia italiana - sostituisce ora il grande canto<br />

dell'orgoglio delle mani che si ascoltava in Fabrica. La realtà si è fatta obliqua, piena di salti e di curvature: l'ordine delle certezze è saltato, ed è<br />

cambiata la percezione del tempo, del paesaggio, dei rapporti familiari. Queste mani orfane dovranno imparare un modo nuovo di percepire, di<br />

accostarsi alle cose. La loro esperienza non è perduta, e dovrà agire sulle radici minuziose della meccanica della vita. Se ne avverte la<br />

percezione in forma di domanda, nel testo in cui il figlio chiede al padre operaio in mobilità di riparargli le macchinine: più che Ferruccio<br />

Brugnaro, l'altro grande poeta generazionale delle grandi fabbriche del Triveneto, si riascolta qui, contro ogni apparenza immediata, qualcosa<br />

di Zanzotto: soprattutto in quel modo di chiamare per nome la realtà, nelle sue minuzie e nei suoi frammenti devastati. […]<br />

Ciò che è stato fatto dell'esistenza degli operai - da parte di un manipolo di piccoli e medi industriali che un Gramsci di oggi non esiterebbe a<br />

chiamare parassitario - assomiglia al disastro sofferto, anno dopo anno, da quel paesaggio zanzottiano, che sempre più raramente ha potuto<br />

dare e ricevere conforto. Le mani raccontate ora da Franzin richiamano così le piante, i sentieri, i cippi del poeta del Galateo in Bosco, aprendosi<br />

alla realtà operaia come le radici alla terra. Così, la perdita del lavoro arriva come un secondo e più grave snaturamento: l'opera di una<br />

generazione lasciata in mezzo al guado, con le mani mozzate… […]<br />

Stefano Colangelo, Con le mani mozzate. La poesia operaia di Fabio Franzin, in “l’ernesto”, n. 3-4 2010<br />

* * *<br />

Un uomo senza lavoro … è «Co’e man monche», con le mani mozzate. Ci voleva questa immagine per dire la crisi, non quella dei numeri, delle<br />

banche, dei telegiornali, degli economisti, ma quella delle persone. Ci voleva questo titolo duro e le immagini, i dialoghi che vibrano nella serie<br />

delle poesie aspre, i precipizi di solitudine e di tempo vuoto a cui Fabio Franzin ha dato voce per far sentire di cosa siamo tutti corresponsabili.<br />

Non è poesia di denuncia sociale. Sarebbe poco. Perché la poesia fa denuncia totale. Non si ferma alle analisi e a cercare l’origine dei mali nella<br />

società. Perché la società la fanno gli uomini. È poesia di vita. Di tutte le dimensioni della vita. Non a caso, nelle poesie di Franzin, accanto ai<br />

testi dove sono in scena gli operai mandati in mobilità sotto la tettoia come «fratelli abbandonati da un padre», ci sono testi dove l’uomo è a<br />

casa, mentre fa lavori domestici, in giornate prive dell’impegno del lavoro, ci sono i figli, la compagna, pensieri su tutto. C’è un Nord-Est italiano<br />

duro, uomini che si trovano con le «mani inchiodate nel vuoto». Qui le persone sembrano prese in un ingranaggio più vasto dello stesso<br />

pensiero: «globalizzazione» è parola che indica un male oscuro, inafferrabile, lontano. Un fato. Così questa poesia attaccata alle ferite del<br />

presente è analoga all’eterno cantare il disagio della vita quando pare presa in un destino sovrastante. […]<br />

Davide Rondoni, in Denuncia sociale. Anzi: totale, “Domenica de Il Sole 24ore” n°6/2011, 6 febbraio 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

109


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

Se l'allegoria del quarto stato, alla vigilia delle grandi lotte operaie, mostra corpi fieri di uomini e donne che avanzano verso il futuro,<br />

provenendo dal buio del passato, Co’e man monche …, alla fine delle grandi lotte, ci dà l'immagine di indumenti bianchi stesi al vento, camicie<br />

«monche di mani, come in una richiesta di aiuto [...] in una guerra persa». Tristi come «bandiere bianche di resa». Tra questi due pilastri c'è la<br />

storia del movimento operaio del Novecento, un ponte gestito da sindacati e imprenditori, dove di rado gli operai hanno deciso per conto<br />

proprio. E ancor meno lo possono fare adesso, visti i ricatti del capitale per mantenere il lavoro nelle grandi aziende: riduzione della pausa,<br />

flessibilità, sospensione premi produzione eccetera. Fabio Franzin non ci racconta l'iter contrattuale di una sconfitta, ma la disperazione che ne<br />

segue, nei suoi momenti concreti: il sentimento di malessere di fronte ad una vita da cassaintegrati (tra passeggiate senza meta, bar, tv e<br />

inadeguatezza nei lavori domestici, liti familiari) e la tristezza per il degrado in cui sprofondano le zone industriali, con «capannoni spenti»,<br />

«ruggine» ovunque e silenzio cimiteriale, tanto da tratteggiare un morto reliquiario, non orto montaliano, ma reticolo della vita activa dove, un<br />

tempo, gli uomini hanno goduto e sofferto, per essere infine cacciati nell'inferno della vita inattiva, che è condizione priva di senso non soltanto<br />

per una cultura operosa come quella del nord-est, ma per tutta quella occidentale moderna. Restando legato alla propria esperienza, Franzin<br />

scrive "nord-est" spezzandolo, "nord / est", dando così evidenza all'irrimediabile rottura del fondamento che nutriva non soltanto i corpi, ma<br />

l'identità stessa di ciascuno, tramite i valori acquisiti (lavoro, virilità, denaro, sacrifici, famiglia, ruoli all'interno della stessa) ora venuti a<br />

mancare o a mutare. […] Più che classe … direi popolo destinato al martirio da un potere inavvicinabile, con quella vocazione cristiana che<br />

permea da sempre la parola di Fabio, stavolta però priva di speranza, perché l'unità non è nel progetto, ma - paradossalmente - nelle coscienze<br />

lacerate, ora che l'ideologia passa sopra le teste, che occorre fare i conti con la sopravvivenza concreta e che l'operaio, si sente orfano, lasciato<br />

solo e incompreso persino dalla moglie.<br />

Insieme a questa voce collettiva, testimone di uno sfacelo epocale, opera un secondo registro, in cui l'autore mostra le proprie piaghe e chiede<br />

che siano riconosciute nella loro autenticità. Entrambe le linee tracciano un disegno complessivo che non consola, non attenua la drammaticità<br />

della situazione, come in qualche modo succedeva in Fabrica. Per questa ragione condivido quanto mi scrive in privato Francesco Tomada,<br />

rilevando la superiorità di questo libro rispetto al precedente, in quanto è «capace di tracciare» non un manifesto della classe operaia, ma «la<br />

voce e il corpo della precarietà umana, che sempre più spesso affonda le radici in quella lavorativa». […]<br />

Stefano Guglielmin, in “blanc de ta nuque”, www.golfedombre.blogspot.com, 28 aprile 2011<br />

* * *<br />

…Fabio Franzin sembra aver ingaggiato, per il tramite della scrittura, una lotta corpo a corpo con un destino contrastato, iniziato con<br />

l’emigrazione dei suoi genitori a Milano, dov’egli stesso è nato nel 1963, proseguito col ritorno nel trevigiano nel 1970, inseguendo le<br />

fanfaluche del nascente miracolo del Nord Est, e concluso, per ora, con la tragica esperienza della perdita del lavoro. […] L’approdo alla poesia<br />

nei libri che lo hanno imposto all’attenzione della critica, con l’avallo prestigioso di figure come Serrao, Voce, Pecora, Piccini, Loi, Guglielmin e<br />

Ladolfi, pare per certi versi mosso dal bisogno di una sorta di risarcimento lirico a fronte di una vita messa a dura prova dall’allontanamento<br />

coatto dagli studi e dal precocissimo avviamento al lavoro operaio. […] …l’onda lunga della recessione, partita dalla spregiudicata provincia<br />

americana, si è abbattuta anche sulla più conservatrice provincia italiana, e allora la lingua di Franzin viene strappata alla calda sentimentalità<br />

della prima stagione e piegata (ma con più naturalezza che costrizione) al dovere di testimoniare un paesaggio violentato forse<br />

irreversibilmente da capannoni e strade improvvisamente inutili… ’Dietro il paesaggio’, dunque, la poesia pare ora richiamata all’urgenza di<br />

cercare non più il soggetto individuale, la sua coscienza o il mistero delle più intime risonanze, bensì la dimensione collettiva e persino<br />

sociologicamente determinata dell’operaio, doppiamente sconfitto: prima privato della propria coscienza di classe, depoliticizzato e spesso<br />

anche cercare<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

110


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

anche desindacalizzato, e poi tradito nella propria aspirazione dall’inserimento in un’informe e indifferenziata middle class con un destino e con<br />

un salario protetti. Fabrica … dà cittadinanza poetica ai lavoratori dell’industria, non alla loro classe, dunque, ma ai singoli ora costretti a<br />

misurarsi con l’impoverimento e la paura degli infortuni e del licenziamento, con l’aggravio della solitudine, frutto di una pluridecennale<br />

frattura dei vincoli di solidarietà e della conseguente cannibalizzazione dei luoghi di lavoro. […] …l’umiliazione del lavoratore, ripensato ora<br />

attraverso le categorie dell’alienazione così ben visitate nel secondo Novecento da Volponi, sovrapposte a quelle dell’incomunicabilità<br />

campionate in letteratura da Moravia e nel cinema da Antonioni, si moltiplica nella visione della fabrica come «tiatro» dove si recita «’na<br />

comèdia inbastìdha / co’ dò sèsti e tre bestème» («con due gesti e tre bestemmie»), nella quale per un fortunato che può giocare la parte del<br />

«parón», tanti altri devono accontentarsi di «dir sempre: servo suo, / comandi!», come fossero Arlecchini e Colombine in tuta blu… […] La<br />

bellezza di queste poesie sta nel coraggio con cui parole così poco poetiche come «oliaccio, segatura, macchine, reparto, lattice, chiave inglese»<br />

e infinite altre rivendicano il proprio diritto alla testimonianza e all’elaborazione della comunità industriale come piano di laboratorio per<br />

un’analisi acuminata e risentita delle dinamiche di sfruttamento ed esclusione proprie della società del capitalismo decadente: e un certo tono<br />

epico, di un’epica minore s’intende, non eroica e magniloquente, ma prosaica e dolente, è raggiunta nella seconda sezione … dove i nuovi<br />

Ulisse, Enea e Orlando si chiamano Renato, Joussouf e Marta e lottano contro «chii granèi de Segadhura» che graffiano le mani e penetrano fin<br />

dentro i calzini, contro le aste che scorrono troppo rapidamente «sora i rui» (sopra la «rulliera») e cascano a terra suscitando le «bestéme» del<br />

capo, e nel frattempo sperperano «’a beézha» («la bellezza») dei loro quarant’anni, grattandosela via «co’a carta de véro». E proprio perché la<br />

vita di questi individui deve contendere al nulla la propria identità e dignità, ecco che ai pochi che conservano un nome si affiancano i molti che<br />

invece non ce l’hanno più, quasi che in loro si sia compiuto il sortilegio della massificazione, opera di un apprendista stregone che, più perfido di<br />

quello di Goethe, conferisce, di contro, una volontà soggettiva (e con essa il privilegio dell’iniziale maiuscola) al Nastro trasportatore, alla<br />

Sirena, alla Lama circolare e agli altri demoni mostruosi del sabba industriale. … c’è ancora lo spettro del fallimento delle fabbrichette con la<br />

cassa integrazione e poi il licenziamento, com’è accaduto nell’ottobre 2009 allo stesso Franzin, dopo esattamente trent’anni trascorsi nel<br />

medesimo mobilificio; ed ecco pronta la ‘reazione’ poetica, la registrazione quasi in tempo reale di questa nuova e impreveduta lacerazione,<br />

grazie all’uscita, nel gennaio del 2011, di Co’e man monche (Con le mani mozzate), ventotto nuove liriche, impreziosite da tre prose nel<br />

medesimo dialetto trevigiano e da sei fotografie della giovane Anna Visini, che sa trasformare i capannoni industriali abbandonati, arrugginiti e<br />

fradici di umidità, in metafisici monumenti di un sogno di grandezza, fallito nelle miserande contraddizioni del capitalismo. …il tono ora si fa più<br />

struggente che in quello del libro precedente, come se Franzin ora volesse musicare il proprio requiem per le esequie non solo della sua<br />

regione, ma di un’intera massa di derelitti, vittime incolpevoli di calcoli sbagliati il cui conto finisce sulle bollette sbagliate… Parallelamente,<br />

anche la metrica - che è ritmo per l’orecchio e forma per l’occhio - assume la regolare gravità di un thrênos, qui fatto di quartine, che<br />

divengono sestine solo nella seconda sezione, che gioca sulla paronomasia delle parole «mòbii», quei mobili a cui l’autore aveva dedicato tutta<br />

la sua vita di lavoratore, e «mobiità», «paròea che ’a sona dolzha, / squasi gemèa» («parola che suona dolce, / quasi gemella») e invece<br />

nasconde la dura sentenza della precarizzazione dell’esistenza, una di quelle voci che il dialetto non conosceva, ma che è costretto a recepire<br />

pressoché immutato dall’algida lingua dell’economia. La somiglianza delle due parole svela con intelligenza il carattere proprio del processo<br />

omeopatico attraverso il quale il sistema anestetizza i conflitti potenziali: i contenuti opposti (in questo caso il lavoro e la sua assenza, in altri<br />

casi il diritto e la sua abrogazione) vengono avvicinati, assimilati sul piano del referente, attraverso una comunicazione paternalistica e<br />

tranquillizzante, disarmante in senso stretto. Questo nega evidenza alla drammaticità di una condizione collettiva e spezza i vincoli di<br />

solidarietà sociale e nazionale, lasciando ai singoli la scelta obbligata dell’assuefazione e della rassegnazione. […]<br />

Daniele Maria Pegorari, in www.poesia2punto0.com, maggio 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

111


Su Fabrica e Co’e man monche<br />

[…] Il disoccupato diventa l’immagine della “solitudine del cittadino globale”, vittima di poteri, di ragioni, di scopi a lui ignoti, dipendente, come<br />

i protagonisti dei romanzi di Kafka da un misterioso destino “non a misura d’uomo”, disperso su un pianeta, diventato improvvisamente opaco.<br />

Alla condizione di “sfruttato”, che pure conferiva identità, segue la condizione di “essere-per-il-nulla”, di individuo privo di progettualità, privo<br />

di valore umano, di capacità di incidere sulla produzione materiale e sulla relazione sentimentale, sfiduciato, inutile, inadeguato nei confronti<br />

del suo essere uomo, dell’essere padre, dell’essere marito, dell’essere cittadino, amico, parente … […] E il cittadino globale si sente, pertanto,<br />

straniero in patria, emigrante nella terra in cui è nato, «parché i ghe fa sparìr el domàn» («perché gli viene cancellato un futuro»). Questa è la<br />

vita, questa è la vera poesia. Si potrà discutere all’infinito di estetica, di poetica, di retorica, si potranno individuare le metafore evangeliche e le<br />

occorrenze lessicali, ma non si potrà mettere in dubbio che il lavoro di Franzin non nasce da elucubrazioni mentali, da progetti letterari; pulsa di<br />

tragedia; è poesia che nasce dal sangue, dalle lacrime, dal disfacimento di esistenze, dall’annullamento dell’individuo. Ci troviamo di fronte ad<br />

una lirica universale, perché non si lascia sedurre né da proclami politici e tanto meno da rivolte ideologiche; qui la tragedia germina sulla pelle<br />

di persone concrete, di luoghi reali, di situazioni palpabili. […]<br />

Giuliano Ladolfi, in “Atelier” n. 62, 2011<br />

* * *<br />

[…] Partiamo dunque dal titolo, ’E man, ‘Le mani’, che si presta a qualche ragionevole congettura sulla istintiva riarticolazione della tradizione<br />

letteraria della poetica di Franzin, che guarda, sì, senza nostalgie neometriciste, alle forme di una tradizione (da Giotti a Marin a Zanzotto…),<br />

com’è stato più volte appurato da altri attenti lettori (ricordo almeno Manuel Cohen e Edoardo Zuccato), e non perde i contatti con una lingua<br />

‘lirica’, che non significa patinata, se è vero che recupera, oltre le soglie di un immaginario standardizzato, una sua energia referenziale.<br />

Tornando al titolo, ne ’E man’ non è impossibile riascoltare la bella mano di Laura, trascorsa dal Canzoniere petrarchesco attraverso le ampie<br />

rotte della poesia cortigiana quattrocentesca (basti ricordare Giusto de’ Conti, che ne farà il nodo tematico della sua produzione di rime), lungo<br />

i molteplici rivoli del petrarchismo cinquecentesco. La bella mano dell’amata si riaffacciava, come l’elegante fantasma di un’epoca lontanissima,<br />

e non saprei quanto (e non mi pare sia necessario saperlo) casualmente, anche nel titolo rude intenso di Co’e man monche. Ma dal singolare al<br />

plurale, dalla sineddoche alla metafora, dalla ‘mano’ bianca e tersa di una donna irraggiungibile, persino intangibile, alle ‘mani’ sporche, sudate<br />

sulle presse, fra gli ingranaggi unti, offese e mutilate degli operai, insomma da un simbolismo smaterializzato a un realismo materialista, la<br />

poesia di Franzin mi sembra che realizzi pienamente un lungo percorso partito a Novecento inoltrato - per lo meno da Tre operai di Carlo<br />

Bernari - che legge nel nostro corpo non un destino ultraterreno, ma il segno di una distinzione di classe, di una condizione stigmatizzata dalla<br />

storia, come per esempio - si legga Na cica drio cheàlta pa - nei «calli» che hanno indurito la nostra sensibilità al mondo, o - pensiamo a Dopo<br />

dó mesi de cassa integrazhión - in quell’«eczema», in quel «prurito» che squama via la pelle, inchiodando le mani a un «vuoto» che trascende la<br />

diagnosi del dermatologo, la rassicurante esegesi degli effetti psicosomatici. Queste stesse mani che difendono il lavoro servono però a<br />

prendere l’eucarestia e a pregare un dio che non pare tanto trattenuto lontano dagli affari umani quanto perduto in qualche angolo<br />

dell’universo. È il dio del silenzio, scrive Franzin in Pan e paròe («Fàme saver se te son caro, / se te me tièn de cont, fàea / anca ti ’a tò part…»),<br />

che lascia il poeta in attesa, «co’e man / vèrte che la spète, al scuro, / co’e fete de chel pan. Za duro». Dal primo all’ultimo testo di questa<br />

silloge ci troviamo davanti a un personaggio che gesticola, afferra e lascia, cerca con le sue mani un modo per trattenere intorno a sé un mondo<br />

che sfugge, cambia direzione, ribalta le premesse, perde senso. Mani che lavorano e mollano pezzi … o grattano via dal corpo una bellezza …;<br />

mani che cercano di riavvolgere la fragile catena biologica delle generazioni, travolte, ovvero ‘stravolte’ da un succedersi slogato di esistenze<br />

che si incontrano solo nello spazio privato ma generoso di una pagina… […]<br />

Salvatore Ritrovato, in Guardando per terra - Voci della poesia contemporanea in dialetto, Lietocolle, 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

112


Da Canti dell’offesa, 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

113<br />

Povere statue. Mai state scolpite<br />

mai state toccate da arte o scalpello<br />

scaricate dalla stiva sull’asfalto<br />

bollente dell’estate stese e per le<br />

storte pose degli arti derise. Statue<br />

del gelo nell’algore che ci avvolge.<br />

Impresse nel display di qualche<br />

telefonino quale esotica immagine<br />

di viaggio da mostrare ai mostri amici<br />

le angurie fresche a fette nei tavoli<br />

il ghiaccio nei cocktails a cubetti<br />

quel ghiaccio triturato dai sorrisi.<br />

Il 14 luglio 2007, nell’area di servizio Bazzera, a Mestre,<br />

da un camion-frigo tedesco che trasportava angurie,<br />

furono estratti i corpi congelati di tre clandestini iracheni.<br />

I giornali raccontarono le risa divertite dei turisti di<br />

passaggio, le foto ricordo fatte coi telefonini.<br />

Perché è sempre sempre stato<br />

lo straniero il capro espiatorio<br />

di una società quando cieca si<br />

ammanta di un’aurea innocenza<br />

per il carnevale delle colpe ed è<br />

storto il dito che punta al troppo<br />

comodo torto di pelle e di razza<br />

è monco e indica spesso colui che<br />

non c’entra e l’altra mano quella<br />

che stringe la pietra del linciaggio<br />

è corrotta dalla convenienza neanche<br />

si accorge di indicare lo specchio.


Da Canti dell’offesa, 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

114<br />

Lo strazio di questi sgomberi forzati<br />

fra viadotti e incolti di periferia le ruspe<br />

in azione a spazzar via lamiere cartone<br />

far macedonia in fango e pozzanghere<br />

ciabatte colorate maglie arti di bambole<br />

donate dalla caritas; bonificare l’area<br />

è il gergo giuridico che indica diritto<br />

da una parte e offesa dall’altra l’offesa<br />

al genere umano costretto a vivere fra<br />

ratti e baracche il cinismo di chi si indigna<br />

perché quei ghetti turbano l’estetica del<br />

luogo non sono in sintonia con l’ordine<br />

le cancellate dei recinti civili. Triturare far<br />

macerie della miseria cancellarla dalla vista<br />

questa ora l’area dell’anima da bonificare.<br />

Senti anche il respiro come sospiro<br />

l’aria più pesante nonostante sia<br />

stata depredata di saluti e confidenze<br />

come suona di carta strappata il soffio<br />

che passa fra le cose intriso dell’acido<br />

polline di promesse e scongiuri. Senti<br />

come graffiano in gola le schegge della<br />

rovina pensa a quei sedimenti lo scoglio<br />

che si forma all’interno del costato.


Da Canti dell’offesa, 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

115<br />

È che non è neanche più questione<br />

di come o di cosa uno si accontenti<br />

la miseria è sempre iena e la dignità<br />

il moncone che nessuno può esporre<br />

al mondo ormai senza vergogna. La<br />

matassa il reticolato irto e grigio là<br />

calcato sopra le ansie e le preghiere<br />

di mia madre: Testanera è una bella<br />

pubblicità che promette di ricoprire<br />

a lungo la ricrescita. «Sì, mi balla<br />

la dentiera, altro che parrucchiera»<br />

dice «mi fanno male le gengive»<br />

è solo il male a far rima con sociale<br />

oggi per chi si ostini a continuare<br />

a vivere oltre l’età contributiva.<br />

Ma siamo proprio noi quelli là<br />

quelli che compaiono così allegri<br />

e minchioni nei video fatti in casa<br />

col telefonino il pollice alzato alla<br />

Fonzie come in un autostop verso<br />

il nulla pronti a gridare Italia Uno?<br />

a urlare in coro dal video di fronte<br />

a qualcuno stravaccato sul divano<br />

col suo telecomando stretto in mano<br />

la mente come un sacco da riempire<br />

di sangue e spazzatura lo sguardo<br />

a catturare il capezzolo affiorante<br />

la spallina lasca ad arte la scena<br />

del mercato devastato dalla strage.<br />

Siamo noi? Chi? Chi siamo? Noi.


Su Canti dell’offesa<br />

Fabio Franzin tenta … di dare voce alla crisi economica che ci attanaglia …,pericolosa avvisaglia di una ben più profonda crisi antropologica […].<br />

Conosciuto finora come autore in dialetto veneto, lo fa stavolta con poesie in italiano, lingua che è più diffusa, ovviamente, ma forse più<br />

anonima, più veicolare che materna per un poeta abituato ad adoperare il dialetto. Forse la scelta sottolinea i tempi, dunque, e l’esigenza di<br />

una lingua che sia più vasta, com’è vasta la crisi … e più estranea ai suoi stessi parlanti, com’è il tipo umano che è insieme vittima e attore di<br />

questa crisi. […] Il dispositivo che fa scattare la poesia di Franzin è sempre sentimentale, in senso positivo, cioè di partecipazione dell’Io alle<br />

vicende sociali, che diventano anche vicende personali, sia per l’implicazione concreta ed esperienziale dello scrittore con la situazione di crisi,<br />

sia perché è questa partecipazione, si direbbe, lo scopo poetico stesso del suo operare. […] Intanto il sogno di giustizia sociale ed equità<br />

economica, che doveva portare ad una felicità ancor prima che ad un benessere, si è perduto in un’assenza di senso, tanto da far sorgere il<br />

reclamo: «Ma era proprio così il mondo / che sognavamo?»; domanda retorica perché, evidentemente, il sogno si è smarrito. Ciò che emerge è<br />

proprio il non senso, tanto che «ora è anche per noia che si violenta». Antiche paure di un continente un tempo centro della civiltà ed oggi<br />

sfigurato dal potere […] riemergono nel presente […]. Proprio quella civiltà che vedeva l’altro come valore si sta perdendo […]. Così la voce del<br />

poeta, che è a tratti intenerita o dura, che usa una discreta invettiva ma a volte si volge quasi alla preghiera, tentenna tra richiesta e mutismo,<br />

riconoscendo «l’assurda verità del suo invocare». Non si può far altro che ripartire descrivendo il poco che si sa, «le schegge / della rovina». Di<br />

tutto il resto, di tutto il profluvio di informazioni e di news con cui sembrano raccontarci la realtà, a ben guardare ci rimane poco, in termini di<br />

conoscenza. In fondo «cosa mai ne capivamo noi di borsa / economia»? Si tratta di un’ultima stoccata alla società dello spettacolo,<br />

clamorosamente decaduta anch’essa. L’apparenza ha preso il posto di ogni parvenza di verità; una finzione sciatta, assurda e stupida pretende<br />

di raccontarci il mondo. Basterebbe così poco per accorgersene, per provare la pena del poeta: «che pena / però vedere Platinette al posto di<br />

Pasolini». Lo spettacolo ingloba i suoi stessi spetta tori, nell’estrema menzogna di renderli protagonisti degli eventi […]. Basterebbe, sì, davvero<br />

poco per rendersene conto, basterebbe la parola fragile e, in verità, pericolosissima per il potere (a proposito di Pasolini…) della poesia. Si<br />

potrebbe tornare a compatire gli altri, cioè ad appassionarsi con loro del destino comune, ad adirarsi per la giustizia che non c’è, per il pane che<br />

manca, per lo sciatto e finto essere umano che stiamo generando.<br />

Gianfranco Lauretano, dalla Prefazione<br />

* * *<br />

A metà fra il Dylan delle canzoni di protesta e il Matteo Salvatore delle canzoni di denuncia sociale, a metà fra la poetica rabbiosa e sferzante di<br />

Trilussa e le parole amare di Pennacchi, Fabio Franzin lancia con questi Canti dell’offesa il suo urlo primordiale. Versi potenti, scarni, diretti,<br />

contro la tirannia dei potenti e contro l’impoverimento materiale, ma soprattutto culturale, del nostro tempo. Come non riconoscersi nei suoi<br />

versi, versi che non sono diretti a nessuno in particolare, eppure versi che appartengono a tutti noi. Versi monolitici, che non conosciamo ma<br />

RICONOSCIAMO, come le montagne, come il mare. Se, dopo la pubblicazione delle opere di Primo Levi, nessuno ha più potuto dire di non<br />

essere mai stato, seppur per un istante, ad Aushwitz, leggendo questi “canti” nessuno potrà più dire di non essere mai stato un operaio,<br />

nessuno potrà più dire di non sapere cosa significhi essere precario, sia economicamente che spiritualmente. Questo ci insegna Franzin: che la<br />

precarietà, più che una condizione di vita, è un sentimento, uno stato d’animo. Lo stesso stato d’animo delle celeberrime foglie autunnali<br />

cantate da Ungaretti, precariamente appese agli spogli rami, in balia delle raffiche di vento potenzialmente fatali.<br />

Un’opera matura quindi, forse una delle opere più compiute del poeta veneto che, conscio della sua maturità artistica ha giustamente optato<br />

per uno stile più asciutto, quasi telegrafico, eppure spietatamente efficace.<br />

Alessio Franzin, CANTI DELL’OFFESA, una recensione di parte<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

116


Inediti. Da Tape del calvario (Tappe del calvario)<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

117<br />

L’é stronzo co’là, e basta<br />

Anca incùo, tre de agosto domìe e undese,<br />

intànt che ‘e borse brusa mièri de miliardi<br />

e tuta l’economia del mondo ‘a ghe sbrissa<br />

via dae man sporche e sbusàdhe dei póitici,<br />

anca incùo son qua sot el sol che vae ‘torno<br />

fra capanóni vèrti e altri seràdhi opùra vòdhi,<br />

son qua che vae in zherca de ‘na fabrica che<br />

no’ son bon de catàr, Formaplast ‘a se ciama<br />

e core vose che ghe serve operai. Son qua pa’<br />

presentàr ‘a domanda, ‘a via la ‘é quea justa,<br />

‘ò controeà tre volte tea carta… l’unica ‘lora<br />

l’é provàr ‘ndo’ che i cancèi i ‘é spaeancàdhi<br />

e no’ l’é nome tel canpanèl, ‘ndo’ che no’ i ‘à<br />

‘ncora serà pa’e ferie. Me ‘vizhine a un de chii<br />

capanóni co’i portóni in sfesa, òce bobine e<br />

scafài, tasse de panèi, rulière e machinari…<br />

da in fonde un sora el muét me fa segno co’a<br />

man de fermarme, me varde indrìo, son ‘ncora<br />

sol tel piazhàl, no’ò passà nissùn confìn, nissùn<br />

accesso vietà, quel co’l muét el continua vègner<br />

‘vanti co’a man alta come ‘a paéta de un vigie,<br />

el me ‘riva vizhìn, e mèdho inrabià el me dise<br />

còss’ che fae, còss’ che vui, drento là; conósse<br />

chea vose, precisa a quea de Bairam, o de Aliù,<br />

‘ven lavorà sète àni tel stesso reparto prima<br />

È stronzo lui, e basta<br />

Anche oggi, tre agosto duemilaundici, mentre le borse<br />

bruciano migliaia di miliardi / e l’economia del mondo intero<br />

sguscia / via dalle mani sporche e bucate dei politici, //<br />

anche oggi sono qui sotto il sole che vago / fra capannoni<br />

aperti e altri chiusi o abbandonati, / sono qui che vado in<br />

cerca di un’azienda che / non riesco a rintracciare,<br />

Formaplast si chiama // e corre voce stia assumendo<br />

personale. Sono qui per / presentare la domanda, la via è<br />

quella giusta, / ho controllato tre volte sulla carta… Non mi<br />

rimane allora / che tentare dove i cancelli sono spalancati //<br />

e non c’è nome sul campanello, dove non hanno / ancora<br />

iniziato le vacanze. Mi avvicino ad uno di quei / capannoni<br />

dai portoni accostati, intravedo bobine e / scaffali, pile di<br />

pannelli, rulliere e macchinari… // dal fondo del magazzino<br />

uno in cima a un carrello elevatore a gesti / mi intima di<br />

fermarmi, mi guardo intorno, sono ancora / soltanto nel<br />

piazzale, non ho varcato nessun confine, nessun / accesso<br />

vietato, quello sul carrello continua ad avanzare // con la<br />

mano alta come la paletta di un vigile, mi si avvicina, e con<br />

un’aria nient’affatto amichevole mi chiede / cosa ci faccia lì,<br />

di cosa sono in cerca là dentro; riconosco / quella voce, la<br />

stessa pronuncia di Bairam, o di Aliù, // abbiamo lavorato<br />

sette anni nello stesso reparto prima /


Inediti. Da Tape del calvario (Tappe del calvario)<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

118<br />

che i serésse ‘a fabrica, ‘ò fat de chee barùfe<br />

co’ quei un fià razisti, ‘pena che i ‘é ‘rivàdhi,<br />

che anca ‘dèss co’ i me cata in piazha i vòl<br />

senpre pagarme el cafè. ‘Sto qua ghe somèjia:<br />

stessa barba longa, stessa maja smarìdha e curta,<br />

el par squasi un só sosia, no’ fusse che no’l ride<br />

intànt che ‘l me parla. No’a ‘é quea ‘a fabrica<br />

che zherche, e no’l sa ‘ndo’ che ‘a sie, però<br />

el me ricorda serio de ‘ndar fòra dai cancèi,<br />

suìto, l’é sora un muét e ghe par de èsser sora<br />

a un caro armato, co‘e pàe alte el me para via.<br />

Son qua, fòra dai cancèi che lù l’à za serà su,<br />

son qua che cète ‘a rabia inpizhàndo ‘na cica.<br />

Sotvose me dise che ‘ò fat ben a no’ voér zhigàr<br />

anca mì via i forèsti. L’é stronzo co’là, e basta.<br />

che chiudessero la fabbrica, ho fatto di quelle baruffe /<br />

per difenderli da quelli un po’ razzisti appena<br />

arrivarono, / che anche adesso quando mi incontrano<br />

in piazza vogliono // sempre offrirmi il caffè. Questo qui<br />

gli assomiglia: / stessa barba incolta, stessa maglia<br />

sbiadita e troppo corta, / sembra quasi un suo sosia,<br />

non fosse che non sorride / mentre mi parla. Non è<br />

quella l’azienda // che cerco e non sa dove sia, però /<br />

mi ricorda minaccioso di uscire dai cancelli /<br />

immediatamente, guida un carrello e gli sembra di<br />

essere sopra / a un carro armato, mi spinge fuori con le<br />

staffe all’altezza del mio petto. // Sono qui, oltre il<br />

cancello che lui ha già richiuso, / sono qui che domo la<br />

rabbia accendendomi una sigaretta. / Sottovoce mi<br />

convinco che / ho fatto bene a non unirmi al coro che<br />

urlava / via da qua gli immigrati. È stronzo lui, e<br />

basta.


Inediti. Da Tape del calvario (Tappe del calvario)<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

119<br />

Ajenzie interinài<br />

Sen in fia, zent da òni part del mondo,<br />

drio ‘a porta de ‘ste ajenzie interinài,<br />

sen in fia, oniùn co’a só carta in man,<br />

‘a speranza fiapa. ‘E tose drio ‘l banco<br />

òni tant ‘e sbufa, ‘e rebalta ‘i òci verso<br />

el sufìto come sante in estase tii quari<br />

del rinassimento. No’ un dio tea visión<br />

però, ma sol ‘na processión de pòri cristi<br />

che insiste, prega, domanda in imòsena<br />

un lavoro che no’ l’esiste pì, pa’ nissùni,<br />

che no’l se crea nianca co’ un miràcoeo.<br />

Sen in fia, strachi de star in coda pa’ nient,<br />

de tornàr indrìo co’i sòiti pensieri. Fòra<br />

l’è za scuro, fòjie zae sóea zo dae rame,<br />

un vent rabioso l’é fa córer tel ‘sfalto,<br />

le para drento ‘e pòce slòzhe. Ècoe qua<br />

‘e nostre speranze, èco ‘ndo’ che ‘e va<br />

a finìr. Fra poc el jazh le fermerà, là co’<br />

lù, fra poc sarò casa da mé fiòi, dai òci<br />

bèi de mé feména, e no’ ‘varò coràjo<br />

de incrosarli, no’ ‘varò paròe, par lori.<br />

Agenzie interinali<br />

Siamo in fila, genti da ogni parte del pianeta, / dietro<br />

la porta di queste agenzie interinali, / siamo in fila,<br />

ognuno col suo curriculum in mano, / la speranza<br />

fioca. Le addette oltre il banco / ogni tanto sbuffano,<br />

volgono lo sguardo / al soffitto come sante in estasi<br />

nei dipinti / del rinascimento. Non un dio la visione /<br />

però, ma solo una processione di poveri cristi / che<br />

insistono, pregano, chiedono l’elemosina / di un<br />

lavoro che non esiste più, per nessuno, / che non si<br />

crea neanche con un miracolo. / Siamo in fila, stanchi<br />

di stare in coda per niente, / di ritornare indietro coi<br />

soliti grattacapi. Fuori // è ormai buio, foglie gialle<br />

volteggiano giù dai rami, / un vento rabbioso le fa<br />

correre per l’asfalto, / le depone dentro le<br />

pozzanghere. Ecco / le nostre speranze, ecco dove<br />

vanno / a finire. Fra poco il ghiaccio le chiuderà, lì<br />

con / esso, fra poco sarò a casa dai mie figli, dagli<br />

occhi / belli di mia moglie, e non avrò coraggio / di<br />

incrociarli, non avrò parole, per loro.


Inediti. Da Tape del calvario (Tappe del calvario)<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

120<br />

Curiculum<br />

No’ so, forse me sarò anca sbajià,<br />

forse no’l iera ‘l mé curiculum quel<br />

che ‘a segretaria bionda l’à fat su<br />

te un baeòt, e po’ butà sot ‘el banco,<br />

sot’ el só sorìso gentìe, el conpiuter,<br />

el teèfono «attenda in linea, vedo se<br />

è libero». Ma son vignù fòra rosegà<br />

da un brut dubio «ha compilato tutto?<br />

i recapiti telefonici li ha trascritti?»<br />

da che l’ofìcio lindo, pièn de vetrate<br />

e piante e divaneti rossi, giornài de<br />

barche e cavài da sfojiàr. L’é stat un<br />

rapresentante che spetéa de ‘à, sentà<br />

te chealtra saéta, ‘a só sagoma scura<br />

in jessàto a schermàr al vero, a farlo<br />

spècio che mostra ‘l sèst de chii déi,<br />

dea man, fra ragno e pugno intant che<br />

verdée ‘a porta. Forse ‘l mé toc de carta<br />

lo ‘vea za mess zo, forse ‘a baéta drento<br />

el zhestìn ièra un só apunto che no’<br />

servìa pì, sì, chissà. Forse me sarò<br />

anca sbajià, o forse l’é sbainà ‘sto<br />

tenpo, che sbrana senza pì ‘baiàr.<br />

Curriculum<br />

Non so, forse mi sarò anche sbagliato, / forse non<br />

era il mio curriculum quello / che la segretaria<br />

bionda ha appallottolato / fra le mani, e poi gettato<br />

sotto il bancone, / sotto il suo sorriso cordiale, il<br />

computer, / il telefono «attenda in linea, vedo se / è<br />

libero». Ma sono uscito roso / da un brutto dubbio<br />

«ha compilato tutto? / i recapiti telefonici li ha<br />

trascritti?» / da quell’ufficio lindo, tutto vetrate / e<br />

piante e divanetti rossi, riviste di / barche e cavalli da<br />

sfogliare. È stato un / rappresentante che attendeva<br />

di là, seduto / nell’altra saletta, la sua sagoma scura<br />

/ in gessato a schermare la trasparenza, a renderla /<br />

specchio che mostra il gesto di quelle dita, / della<br />

mano, fra ragno e pugno mentre / aprivo la porta.<br />

Forse il mio pezzo di carta / lo aveva già deposto,<br />

forse la pallina dentro / il cestino era un suo appunto<br />

che non le / serviva più, sì, chissà. Forse mi sarò /<br />

anche sbagliato, o forse è sballato questo / tempo,<br />

che sbrana senza più abbaiare.


Da Il teatro della neve -<br />

Serie composta tra il 1984 e il 1986<br />

con fotografie realizzate<br />

tra il 1954 e il 1986 a Senigallia


Mariangela Guàtteri<br />

121<br />

È nata a Reggio Emilia nel 1963. Dagli anni 80 transita tra arte visiva e scrittura; predilige in ogni caso la ricerca, i territori<br />

asemic, le geografie umane tratteggiate dal linguaggio e vice versa. Osserva le forme del labirinto con una certa<br />

costanza.<br />

Testi recenti, in rete, sono ospitati da: Nazione Indiana, gammm, slowforward, differxhost, lettere grosse, eexxiitt,<br />

Absoluteville, La dimora del tempo sospeso, Anterem.<br />

Con l’inedito Due dimensioni ha vinto la XXV edizione del Premio “Lorenzo Montano”, ora pubblicato in parte col titolo<br />

Stati di Assedio (Anterem Edizioni, 2011 - Riflessioni critiche di Giorgio Bonacini e Federico Federici).<br />

Ha partecipato alla 4a edizione del Laboratorio di nuove scritture RicercaBo 2011 con la lettura da due lavori: NUOVO<br />

SOGGETTARIO (differxhost, 2011) e rebàck.<br />

Nel marzo 2011 il testo del videopoema Trilogia (tratto da Due dimensioni) è stato tradotto in francese dal Groupe de<br />

Recherche CIRCE [Paris III - Sorbon Nuovelle] - Direzione di J.Ch. Vegliante - e pubblicato sul poéblog Une autre poésie<br />

italienne. La versione italiana di questo video è stata finalista al Premio “Bazzano Poesia” 2010 (sez. videopoesia).<br />

Ha pubblicato le raccolte poetiche Carbon copy [Cc] (Il Foglio, 2005) e EN (d’if, 2009) oltre a vari testi in antologie edite<br />

da LietoColle, Giulio Perrone, d'if, Cattedrale, tra il 2006 e il 2011.<br />

Gli ultimi testi antologizzati sono tratti da Quinta di cave e risorti (opera già finalista del Premio “Sandro Penna” 2009) e<br />

compaiono in Registro di poesia #4 (d’if, 2011) e Calpestare l’oblio (Cattedrale - Collana Argo, 2010); in rivista sono in<br />

“Versodove” n. 15 (Pendragon, 2010).<br />

Altri testi, pubblicati in rivista nel 2012, sono tratti da Due dimensioni e si trovano nel n. 269 di POESIA con un testo<br />

critico di Maria Grazia Calandrone. Altri interventi critici relativi al lavoro più recente sono usciti su il manifesto (Gian<br />

Maria Annovi), l'immaginazione (Marco Giovenale), ° punto critico (Federico Federici), Carte nel vento - Anterem (Paolo<br />

Donini e Viviana Scarinci).<br />

Recenti interviste sono sul sito POESIA 2.0: Parola ai poeti (2011) e PoetiCut n.3 (2012).<br />

Nel 2011 ha partecipato a 10-22-38 Astoria, FICTILIS (Seattle, WA - USA), art of xerography, ready-to-copy artworks, con<br />

alcune xerografie (ora visibili su Flickr), e a Fotografia Europea (Reggio Emilia) con alcune opere fotografiche e video.<br />

Molta parte del lavoro visivo (disegni, dipinti, installazioni, fotografia e video) - realizzato tra il 1987 e il 2005 - è<br />

riprodotto in cataloghi di mostre e in riviste. Alcune delle cose recenti (e anche qualcosa di storico) sono in rete e<br />

pubblicati/ospitati da Sleeping Fish - Calamari Press, Moria - poetry journal, REM magazine, The Klebnikov Mail Art Expo,<br />

eexxiitt.<br />

http://mariangelaguatteri.wordpress.com/


Da Carbon copy [Cc], 2005<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

122<br />

x<br />

* * *<br />

C'è un morto colle sue carni fresche<br />

e la speranza di un ballo che non sia l'ultimo.<br />

Io lo guardo e penso:<br />

bocca muta<br />

senza destino di parole.<br />

* * *<br />

Si scava il ventre di un mulo<br />

(un ricovero perfetto)<br />

Per colazione si mangia questa casa<br />

(diventata fredda)<br />

prima che la divori qualcun altro<br />

si mangia cruda<br />

si mangia intera<br />

(senza fare conversazione)<br />

* * *<br />

7<br />

punti di sutura poi<br />

21 prima<br />

2 e altri<br />

2.<br />

La cucitrice ha finito i punti.<br />

Allora va bene la saldatrice e per<br />

20 giorni non s'infila più niente.<br />

A cercare nel cassone dei rifiuti organici<br />

tra sacchetti molli<br />

ne cavo una<br />

44 Magnum<br />

e mi ispeziono la gola:<br />

2 volte sono troppo.<br />

Non si fa in tempo a levarmi la maglietta<br />

che ero già troppo pesante da spostare<br />

12 applausi di pazienti<br />

dalle ringhiere dei balconi ospedalieri.


Da Carbon copy [Cc], 2005<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

123<br />

x<br />

* * *<br />

Con la bocca<br />

piena di gomma<br />

effetto del marketing sociale<br />

i piedi macchiati sotto<br />

sporcano di sangue i calzini.<br />

Butto tutto<br />

in lavatrice<br />

accendo la<br />

televisione<br />

seziono le<br />

tecniche per modificare il<br />

comportamento<br />

e un budello mi penzola davanti<br />

come un cappio del Vecchio West.<br />

Hanno impiccato un ladro di cavalli<br />

con tre scalpi appesi alla sella.<br />

Tutta un'altra cosa<br />

rispetto ai maneggi di Dallas.<br />

* * *<br />

promisi un corpo a ciascuno<br />

e un letto<br />

egualmente spartito<br />

[un fosforo è bello<br />

perché rassicura la casa:<br />

'sono acceso. Tutto funziona!']<br />

grilli meccanici vociferano<br />

sotto i piedi<br />

della cassa congelatore:<br />

due scomparti<br />

un corpo per ciascuno<br />

* * *<br />

Metto un pentolino sul<br />

cerchio alogeno<br />

con dentro<br />

il riso<br />

fino a quando<br />

l'acqua che esce e<br />

la sua schiuma,<br />

formano croste<br />

attorno al filetto bianco<br />

che perimetra<br />

il calore.<br />

Mi distendo col riso<br />

davanti alla Scena del Crimine<br />

e numeri 0:00<br />

intermittenti<br />

mi fanno cadere<br />

almeno un occhio e<br />

ho stanchezza di<br />

questo andirivieni e<br />

faccio richiesta<br />

di avere un<br />

confine.


Da Carbon copy [Cc], 2005<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

124<br />

x<br />

* * *<br />

Fai il bagno nella vasca di Marat e<br />

mentre ti avvolgo<br />

la testa con la garza<br />

mi domandi<br />

se verrà qualcuno a spolverarti la schiena e<br />

se ti tengo il<br />

tracciato dei battiti<br />

il ricalco dei<br />

quadretti educa<br />

la mano<br />

e incide<br />

in vene<br />

deviate<br />

flussi che restano<br />

interrotti<br />

copia carbone binaria<br />

gratta matrici cartesiane<br />

* * *<br />

i punti si mettono in relazione [di forme]<br />

rinchiudono pezzi di nero<br />

altri infinitesimi di bianco negativo<br />

* * *<br />

John Fante mi guarda da mesi<br />

e io immagino<br />

le frasi che gli scorrono sugli occhi<br />

determinati e persi<br />

in aggetto sotto la fronte che straborda<br />

ai lati di un<br />

trapezio isoscele: - Non mi hai ancora aperto -<br />

e io: - Specchio delle mie brame, cosa mi racconti delle<br />

parole inconfessate? e delle cose che abitano ogni<br />

parola? quante cose ci sono dentro: «Provaci tu a farti<br />

sbattere la testa contro il vetro»<br />

Provaci tu a farmi un elenco di keywords -<br />

* * *<br />

se in macchina la strada,<br />

sopra i punti irradiati del reticolo,<br />

mappa l'andatura di un viaggio<br />

da Parigi<br />

al Texas<br />

(con le corde di Ry Cooder) -<br />

mi allontano da casa<br />

e non depongo tracce sulla<br />

linea di mezzeria<br />

and so on<br />

ogni stato interiore<br />

invade il perimetro adiacente


Da Carbon copy [Cc], 2005<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

125<br />

x<br />

* * *<br />

Con gli amanti si gioca<br />

alle prede a turno<br />

Tocca a te<br />

grattarmi la pelle<br />

farmi cibo digerito e<br />

contrabbando del pasto<br />

nel self-service aziendale<br />

oppure<br />

in cucina<br />

con la testa dove scolano i piatti<br />

si consolida<br />

l'associazione a delinquere<br />

E adesso tocca a me<br />

che mi lascio impietosire<br />

desiderando un patto<br />

regolato da clausole non vessatorie<br />

ti firmo un tacito accordo<br />

che mai ti mangerò vivo<br />

* * *<br />

come un disagio<br />

metodico<br />

osservato<br />

la scrittura<br />

a svolgere pratiche in cucina<br />

o in camera da letto<br />

come operazioni<br />

chirurgiche in stanze<br />

sterili<br />

con bisturi<br />

cucchiai per cisti e<br />

cauterî che sfilano<br />

impiccati sui muri<br />

e sui lettini<br />

incide il segno<br />

nel bianco negativo<br />

del foglio copia<br />

traccia il profilo delle cose<br />

in bianco/nero<br />

la scrittura<br />

per le sue prerogative di<br />

astrazione di<br />

testimonianza di assenze<br />

d'innesto


Da EN, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

126<br />

x<br />

* * *<br />

Devi farmi a brandelli<br />

ridurmi in grani<br />

poi rimontami come vuoi.<br />

Sarò sempre io.<br />

Satinato di nuovo<br />

(una pelle diversa) ogni arto<br />

le tue dita nel mio stomaco<br />

da un ombelico che deve ancora formarsi<br />

(e sarà poi un cristallo<br />

che terrai in bocca).<br />

Corpo a corpo<br />

tra un occhio verde<br />

e un occhio verde<br />

che nelle pause di un attimo<br />

fanno carezze alle colline<br />

di una camera con vista.<br />

* * *<br />

Nei fossi lungo la strada<br />

galleggiavano parti senza vita<br />

a gonfiarsi come annegate nell'acqua.<br />

Sei andata sull'orlo dei fossi<br />

hai raccolto dei mazzi di erba<br />

ne hai fatto un fascio<br />

legato con altri fili d'erba<br />

e uno<br />

un filo d'erba<br />

l'hai stretto sul mio avambraccio<br />

a gonfiare l'acqua dei fossi.<br />

Le parti morte sono esplose<br />

e i fili d'erba germogliati in gambi di rose<br />

e altri fiori sulla mia faccia,<br />

tra gli intrecci delle mani.<br />

* * *<br />

Un luogo primo<br />

ora divento<br />

e quando amo<br />

ora sempre<br />

un fiume<br />

di portata larga<br />

sono.<br />

Un luogo primo<br />

aggiungo<br />

ma sempre un luogo primo<br />

dove entri<br />

e innesti<br />

e aggiungi.


Da EN, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

127<br />

x<br />

* * *<br />

Ho incendiato cataste di corpi<br />

ho spazzato la casa<br />

estirpato l'erba straniera davanti alla porta.<br />

Così hai potuto entrare<br />

aderire alle pareti di ogni stanza<br />

e sei un muro antico.<br />

Ho serrato i miei fasci<br />

i rami buttavano occhi di altri dai nodi<br />

anche d'inverno, e non erano<br />

le mie gemme.<br />

Ho allungato il collo sul tronco<br />

e reciso la mia testa.<br />

Il dolore acuto è durato poco,<br />

nella ferita nessuna crosta<br />

- Sempre a mezzo metro dietro di te - mi dici - e se cadi ti<br />

aiuto ad alzarti.<br />

La mia strada e la tua<br />

uniscono gli stessi punti<br />

stelle in attesa da milioni di anni<br />

in figura d'infinito<br />

che è un segno adagiato su un fianco.<br />

* * *<br />

Delle immagini che hanno<br />

rotto le mie sembianze<br />

non ho ricordo.<br />

Ho un torace in sezione<br />

i suoi lembi di fibre e le coste fluttuanti<br />

adagiati sui lati<br />

come un letto per la notte.<br />

Dentro batte<br />

come sotto la rete<br />

il muscolo che mi dà il ritmo<br />

la fronte che ti sfiora;<br />

l'infrarosso degli occhi<br />

ti scansiona la nuca.<br />

Resto nell'immagine votiva<br />

donata per grazia ricevuta.


Da EN, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

128<br />

x<br />

* * *<br />

Un sentimento equo<br />

ci misura.<br />

Nessuna ansia.<br />

Le distanze minime<br />

sono camere adiacenti<br />

comunicanti come<br />

vasi.<br />

Pratichiamo il desiderio<br />

in cortili interni<br />

quadrati perfetti<br />

nel ritaglio di un cielo impeccabile.<br />

* * *<br />

Il sentire visionario dell'intero popolo<br />

- nel mio interno si rivolta -<br />

si spalma come un gel di connessione<br />

tra i margini che si sono separati.<br />

Le cicatrici formeranno un disegno<br />

- il mio ritratto perfetto -.<br />

Mi riconosco in questi segni che stai tracciando<br />

con un occhio sempre attento sul mio polso.<br />

Questo è un amore.<br />

* * *<br />

Dai nomi precisi alle cose<br />

il ragionare è pulito<br />

e a tutte le mie fibre mi assicuri:<br />

la corda di una nave dentro un porto.<br />

Dai suono alla tua voce,<br />

l'impulso della luce,<br />

la regola buona di un faro.<br />

E ascolto il rumore dell'acqua di mare<br />

cadenzare simile del battito vitale.<br />

Diamo nomi precisi alle cose,<br />

distese,<br />

allargate viste che tracciano i confini.<br />

* * *<br />

Un vapore a fior di campo,<br />

il sudore delle zolle piccole,<br />

dei prati.<br />

Mi dai da bere,<br />

accudisci il sale che produco,<br />

mi tieni al caldo.<br />

Appartengo ai filari dei tuoi denti,<br />

ai buchi,<br />

alle tane che mi scavi.


Da EN, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

129<br />

x<br />

* * *<br />

Occhi<br />

i miei sono la pancia<br />

di una grotta<br />

e da sopra<br />

e dal muscolo dove sopra<br />

si cammina<br />

il sale si congiunge in torri<br />

a segnare i punti cardinali<br />

e i meridiani. Ci scorri sopra<br />

pianti segnali:<br />

una mappa dalle dita<br />

alle dita.<br />

* * *<br />

Stiamo coperte<br />

con le piume rosse<br />

mangiamo corpi evirati<br />

senza ali né zampe<br />

d'insetti morti, libellule come grissini:<br />

un pasto bianco gustoso.<br />

Poi con lo sguardo mi apri il ventre<br />

con un colpo di Katana mi separi<br />

mi soffi dentro;<br />

hai la mia testa<br />

hai le mie piume.<br />

* * *<br />

Mi prenderò cura del mio nuovo giardino<br />

dove ho disteso pietre al posto di un prato<br />

perché sia pulito<br />

perché sia sempre ordinato.<br />

Mi prenderò cura di me e del mio amore<br />

dove ho serrato la vita nuova<br />

che sia sempre una gioia<br />

che sia meraviglia<br />

perché gli occhi mi sbocci addosso<br />

perché i tulipani forzano il sasso.


Su Carbon copy [Cc] e EN<br />

Nel film La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock lo spettatore sperimenta insieme al protagonista il panico e l’impotenza di essere testimone di<br />

un delitto di cui non si hanno le prove. Carbon Copy […] genera nel lettore lo stesso senso di impotenza e voyeurismo coatto trasportato dallo<br />

schermo cinematografico a quello del personal computer. Nel lessico informatico, infatti, la copia carbone è un messaggio inoltrato a un altro<br />

soggetto, reso testimone di una comunicazione in cui non è attivamente partecipe. Chi riceve la copia del messaggio è a conoscenza solo<br />

dell’identità di chi lo invia e di chi lo riceve ma è impossibilitato ad accedere alle risposte pervenute al mittente.<br />

…in questo libro ci si trova involontariamente implicati in una triangolazione comunicativa dove però la comunicazione si svolge a senso unico e<br />

prende forma di monologo: l’io-mittente e il tu-destinatario non si scambiano mai. Anche se trasposta in termini informatici questa è la<br />

condizione che da Petrarca in poi, caratterizza la forma lirica, con la differenza che mentre nel Canzoniere la morte di Laura è funzionale - e<br />

fictionale - alla creazione della persona poetica (ma lo stesso si potrebbe forse dire del Montale di Satura che si rivolge a Mosca) nel caso di<br />

Mariangela Guàtteri il «morto colle sue carni fresche» che apre la raccolta, oggetto delle violenze e forse dell’omicidio in cui il soggetto risulta<br />

implicato, non è occasione della scrittura ma verifica della possibilità stessa della dizione: «ne cavo una / 44 Magnum / e mi ispeziono la gola».<br />

È infatti il corpo-cadavere a ridisegnare gli oggetti domestici (tavoli, letti, stoviglie… una vasca da bagno che diventa scena dell’assassinio di<br />

Marat) ridefinendo la dicibilità stessa dello spazio/stanza - stanza come unità poetica luogo del darsi intermittente della parola. Proprio sul<br />

concetto di interruzione si struttura l’intera raccolta: sia a livello del racconto interno, che procede per continue cesure e censure, creando<br />

un’atmosfera da “scena del Crimine” con relativa indagine poliziesca in cui emergono inquietanti indizi; sia a livello formale, nell’uso di una<br />

sintassi che procede per blocchi, a volte evidenziati anche graficamente, spesso acefali o monchi di complemento e in una versificazione che<br />

alterna verso lungo e brevissimo, quest’ultimo vòlto ad interrompere - di parola-verso in parola-verso - il ritmo della lettura. L’interruzione<br />

domina inoltre il piano tematico, non solo in quanto figura dell’evento Assoluto (la morte che campeggia al centro di questa raccolta) ma anche<br />

perché è di «sentimenti / interrotti» che qui si parla, di una separazione, di una «partizione» che intacca corporalmente vittima e carnefice,<br />

totalmente intercambiabili nei loro ruoli: «con gli amanti si gioca / alle prede a turno». La stessa separazione che esperisce il lettore lasciato<br />

solo davanti alla testimonianza di una relazione («associazione a delinquere» erotica e comunicativa) a cui deve tentare di accedere («provaci<br />

tu a farmi un elenco di keywords»), colmando lacune e sondandone la verità, proprio perché il messaggio che gli perviene, non è autentico, ma<br />

una copia oscura: copia carbone.<br />

In queste poesie (che l’autrice insiste a chiamare “cose”) qualsiasi residuo lirico, emotivo, e sentimentale, viene dissolto dalla messa in dubbio<br />

dell’autenticità stessa del messaggio che comporta l’interrogarsi sulla verità del soggetto, ridotto a oggetto d’indagine. Ciò è confermato anche<br />

dalla forte tensione autoptica di questa scrittura, che forse richiama proprio per l’immediato collegamento anatomico tra io e corpo gli esiti<br />

poetici più recenti di Florinda Fusco ed Elisa Biagini. Se con quest’ultima possono risultare comuni il sezionarsi anatomico di un corpo<br />

sottoposto a uno sguardo freddo e crudele e il richiamo a un universo chiusissimo, perimentrato dai confini della casa, Mariangela Guàtteri si<br />

distacca completamente da qualsiasi dimensione domestica che serva a ridefinire un immaginario femminile: lo spazio della casa è vissuto solo<br />

come «accampamento / fantasma delle cose / da fare», che esclude qualsiasi attività prettamente femminile («è vietato / l’accesso / ai ferri da<br />

maglia / n° 5») o domestica («mangio vivo il cibo dal frigo») fino al limite della noncuranza («le finestre / piene di foglie e di mosche»). Anche il<br />

gesto simbolico del cucire, tentativo fallimentare di riparare la partizione, l’interruzione tra i corpi, avviene con mezzi assolutamente sganciati<br />

da qualsiasi immaginario femminile: una cucitrice, una saldatrice… Non si tratta infatti di definire una nuova identità del soggetto ma di<br />

abbassarne la definizione, di sgranarne la consistenza («io che mi dissolvo / nel monoblocco bianco»), di sviare le tracce dell’io e delle sue<br />

violenze: «e i / broccoli freschi / sciolti // si sventrano / sulle piastrelle / cotte / fatte a mano // feroci / per tutto questo / sangue raccolto / e<br />

sigillato / nei tapper». La freddezza dello sguardo che osserva e spartisce gli spazi, gli oggetti e i corpi, memore degli esiti più crudeli della<br />

poesia<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

130


Su Carbon copy [Cc] e EN<br />

poesia di Antonio Porta, non ha più nulla di umano e si esercita in maniera asettica e anestetizzata («se non sento più niente / l’anestesia si è /<br />

autoprodotta»). L’occhio spalancato di questi versi è infatti una «telecamera / blindata» che procede per «flussi che restano interrotti», per<br />

frames apparentemente statici che ricordano le immagini deformate degli apparati di video-sorveglianza, la fissità discontinua di un occhiowebcam,<br />

o la bassa definizione di una video-sonda che penetra sin dentro al corpo per giungere a dare «uno sguardo / allo stomaco». Tutta la<br />

raccolta è pervasa dall’idea di un’introiezione orale dello sguardo che arriva a confondere esterno ed interno e concorre a creare l’inquietante<br />

stato di low definition del reale che percorre questi testi. Mariangela Guàtteri, infatti, attraverso una scrittura asciutta, quasi allucinata nella sua<br />

precisione, toglie «le targhe dei nomi» creando qualcosa di molto simile a una realtà non ancora compiutamente reale. In essa, il soggetto<br />

nasconde le sue tracce, le sue impronte e la scrittura si fa «testimonianza d’assenze»: restano solo piste, solo indizi. L’io che scrive sembra<br />

letteralmente “farsi fuori”, quasi fuoriuscisse dallo spazio/stanza man mano che procede il suo tentativo di “far fuori” il tu. Ciò avviene<br />

principalmente attraverso una ricognizione chirurgica del proprio corpo alla ricerca della parola che lo abita («lascia che il corpo parli / che il<br />

ventre risponda alla lingua») e che ne riveli il destino («alluci / lobi / che mi dicono se / ucciderò mai qualcuno»). Gli inesausti esercizi di<br />

dissezione anatomica, la continua notomizzazione che il soggetto compie sul proprio corpo vivo, verificano la possibilità di resistenza a un<br />

crimine che avviene in realtà dentro di esso, perché corporalmente interna è l’alterità a cui si rivolge: «e io sono / con te dentro il corpo».<br />

Questa consapevolezza solleva solo parzialmente il lettore dal felice senso di apnea che sperimenta di fronte all’incisività di questi versi: quasi la<br />

sua impotente postazione di testimone lo rendesse complice del «disagio / metodico / osservato»: la scrittura.<br />

Gian Maria Annovi, da [Fwd: No Subject], prefazione a Carbon copy [Cc]<br />

* * *<br />

[…] La spina dorsale dell’intera raccolta […], il nerbo […] filosofico è semplice quanto inquietante: ricondurre alla fisiologia del corpo amano, alle<br />

leggi fisiche basilari del moto, le dinamiche più contorte dell’anima bagnata di solitudine o arsa di passione. Il tentativo ambizioso non cerca<br />

normalizzazioni o spiegazioni scientifiche, solo un sano e necessario ridimensionamento. E un abbraccio voluttuoso quanto irrimandabile tra il<br />

corpo e lo spirito… […].<br />

Cristian Sesena, da Carbon copy libro a-morale, in “La gazzetta di Reggio”, agosto 2005<br />

* * *<br />

•Uscito nella bella collana della casa editrice d’If i miosotis, EN di Mariangela Guàtteri fa l’effetto di un monolito in un paesaggio urbano. Una<br />

costruzione liscia e imprendibile, perfettamente autosoddisfatta e inattaccabile. Che cos’è EN? È un poema amoroso, enigmatico e preciso che,<br />

anche graficamente, alterna zone di pensiero dense, grumose ad improvvise ellissi dove i testi si appoggiano magri. Il vertice emotivo del libro,<br />

a me sembra, è il testo Tum-tum, una poesia dal tono crudamente colloquiale, dai versi lunghi, che illumina magnificamente quel nodo di carne<br />

e sangue, di dolcezza anche violenta, che è il nucleo dell’ispirazione della Guàtteri: «Tramuto, mentre ti tengo il polso come / impugnando un<br />

coltello; mi apro i pori, uno ad / uno. Tu entri e la tua voce mi sostiene la spina / dorsale, mi sollecita il muscolo del cuore». È in queste pagine<br />

che in maniera quasi cristallina la Guàtteri ci permette di penetrare nell’officina della sua riflessione con affondi come «Mi si spalanca un<br />

tempio e una cripta, piena di / colonne, ai piedi. Il luogo del nostro rito dove / offriamo noi stesse a noi stesse e il tempo storico / inizia a<br />

sparire». Una poesia del tempo congelato e della crisi che vive nel fuoco del presente e che seziona senza pietà e rimorso parti della realtà fino<br />

a ridurre il campo a due persone, e poi con sempre maggiore estremismo solo cicatrici, pori, lembi, tagli che formano ritratti e connotati umani.<br />

Fabio Orrico, in “ScrittInediti.it”, agosto 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

131


Da Quinta di cave e risorti, 2009<br />

Mariangela<br />

uno stato delle cose. come la terra. un prendere atto. una guerra.<br />

Guàtteri * * *<br />

Atto I<br />

Scene: Il giardino, La serra, La fossa del cane<br />

132<br />

x<br />

Il giardino<br />

* * *<br />

petali di carne del cuore<br />

un esercito in giardino<br />

nell'incanto del sonno ibernato<br />

un piede di terra smuove un sasso<br />

una benda grassa tiene un taglio<br />

l'erba ammucchia letti<br />

per le gambe recise<br />

vuote di cammino<br />

di casa<br />

mine metallo placche tonde<br />

inganna sorte fanno fronte<br />

casse di assi crollate<br />

farfalle di luci<br />

benzina solo per carri.<br />

i fiori si fanno dormire<br />

giorni su giorni<br />

restino ciechi<br />

in messa a dimora<br />

la cripta difesa dei bulbi<br />

l'ascia di guerra scava<br />

è pietra fluitata di fiume<br />

se ne fanno calchi<br />

tanto per esser sicuri<br />

se ne fanno copie<br />

e di varia materia.<br />

poi disabitati corpi<br />

disfatti e risorti in paesaggi atroci<br />

da radici ancora vive<br />

irrompono appuntiti:<br />

disintegrate razze<br />

è troppo caro il sangue:<br />

rimbocca le pelli<br />

termina gli occhi<br />

per sempre alle insegne<br />

(non parla e non piange<br />

e non muove il calanco<br />

rimette peccati<br />

frana la costa<br />

corrode il fianco)<br />

[…]


Da Quinta di cave e risorti, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

133<br />

x<br />

Atto II<br />

Scene: Il fronte, La quinta di cave, Il sacello<br />

Il fronte<br />

* * *<br />

sfondata la casa<br />

la grata del confessionale<br />

ficcate le dita negli occhi<br />

negato il respiro<br />

il suo suono<br />

la replica e il sonno<br />

arrivano in tanti<br />

coi ferri un clangore<br />

da bestie in catene<br />

scalate le antenne<br />

le forche a rastrello<br />

e paraboliche croste<br />

in piatte terrazze<br />

di facce espugnate<br />

si impiccano stracci<br />

a vista orizzonte reciso<br />

una conca di cielo<br />

un derma irritato di luce<br />

e brani di codice a stormi<br />

migranti per vie sconosciute<br />

solo un singhiozzo sfollato<br />

e ancora più fame<br />

(intermittente contrarsi)<br />

(vuoto di spasmo)<br />

non c'è vocazione di sazietà<br />

neppure di meditazione<br />

ma cose tenute tra i denti<br />

incommestibili ingombri confitti<br />

significati spariti<br />

in cumuli stipati in chiassi


Da Quinta di cave e risorti, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

134<br />

x<br />

La quinta di cave<br />

viene la notte<br />

coi suoi circuiti chiusi<br />

le sbarre ai suoi confini<br />

un popolo in tumulto<br />

sui gradini di un'arena.<br />

vengono i gladiatori su dai buchi<br />

eccitati i neuroni del sistema<br />

e viene più notte<br />

e il buio soffoca gli occhi<br />

la bocca non fa la sua funzione<br />

vengono come masse di ragni<br />

le ossessioni<br />

un delirio inchioda la fronte a un palo<br />

e si nutre e fa sangue nero<br />

viene la notte senza orizzonti<br />

neanche versi di uccelli<br />

e spigoli di luce<br />

neanche il ritmo di un cuore<br />

né bordi né grappe per mani<br />

nella quinta di cave<br />

panorama coartato<br />

mucchi d'insonni<br />

a gesti dirotti insistenti<br />

preposizioni in<br />

non articolati movimenti giocano<br />

prossimi alla morte<br />

puntando alla testa di un altro<br />

(prossimo colore sfacciato esploso)<br />

l'inadeguato alla vita del fronte<br />

in questo giocare<br />

come tra semplici carte<br />

shoot me<br />

cadendo sul tavolo verde<br />

si pronuncia un colore<br />

sia l'uno o l'altro<br />

è un adagio senza sfumature.<br />

benvenuta la scelta binaria<br />

che mostra gli argini di sepoltura<br />

il gioco è scavare labirinti<br />

nella tragedia con grazia di vita<br />

l'assiduo riciclo di scene in sequenza<br />

realizza puntuale numeri enormi<br />

a corpo uno scialo e alcune catarsi<br />

retablos pagani gesti e sembianze<br />

atti<br />

di dolore a brani<br />

inginocchiàti al preludio del sogno<br />

(termine ingiusto per blando eroismo)<br />

di fare il percorso finale col nome<br />

(luogo di pura scandita afflizione)<br />

tra rulli di titoli bianchi<br />

(e nera la quinta) di coda<br />

in ossario<br />

a misura di passi<br />

reliquie nel vetro di schermo a colore<br />

rettificando preghiere: i salmi cantati<br />

[…]


Da Quinta di cave e risorti, 2009<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

135 x<br />

Atto III<br />

Scene: L’orto, I risorti<br />

* * *<br />

[…]<br />

I risorti<br />

la terra s'infossa<br />

raspa chi sta seppellito:<br />

il cane coi vermi<br />

(ognuno mai conosciuta parola)<br />

(ognuno a suo modo in preghiera)<br />

lo spazio contratto sul corpo<br />

solo lo stato della coscienza si sposta<br />

fa il tempo<br />

(forse fa pioggia)<br />

nel buco che è nero<br />

resiste poi<br />

si concentra<br />

la terra s'infossa<br />

tra sé sta in rivolta<br />

rifiuta l'assetto di tomba<br />

il campo di guerra<br />

studiato a misura di ossa<br />

la terra s'infossa<br />

poi piove<br />

si mette tranquilla<br />

diviene camera calda<br />

con l'acqua che piomba<br />

fa solcatura<br />

traccia la scia dei risorti<br />

la riva<br />

è camera calda<br />

non è caverna di pasti<br />

e di morti.<br />

non sono interrati i morti:<br />

sono nel cuore<br />

nelle immagini in scatole di legno<br />

visitano a volte in sogno:<br />

aprono a forza la bocca<br />

in fissità di sembianza<br />

non si trasmette il suono<br />

(e sono senza moto)<br />

non fanno condono.<br />

solo al risveglio<br />

è remissione di febbre<br />

un andare di corpo<br />

si scarna il frantume<br />

(diluvia)<br />

uno sfrigo di baco sfoggia le ali.<br />

lo scasso dei vermi<br />

dà precipizio al prenome<br />

un nodo di prima creazione<br />

prima del tempo contato<br />

(contratto in un filo di buio)<br />

una calca dentro un pertuso<br />

matura<br />

la pancia del seme.<br />

è una scommessa giocata<br />

dio non conosce la propria esistenza dio<br />

non si scanta da<br />

lunga fiata cantava<br />

in disturbo una nenia<br />

un butto di ali<br />

in tempo reale<br />

(un germe di suono che sfocia).<br />

si apre una bocca<br />

di luce conflitto<br />

un vasto di ambigui<br />

un letto è un miraggio<br />

la carne un’assenza<br />

la posta versata<br />

(se dio si nasconde<br />

o risorge<br />

non fa differenza)<br />

tornarono a riva<br />

come farfalle morte.<br />

la riva era la casa<br />

con un fiore appena aperto<br />

(e pareva andata la pianta).<br />

chiesero della carne:<br />

quella ch'era loro appartenuta.<br />

la trovarono composta sul divano<br />

(largo come un letto e mezzo)<br />

respirava appena.<br />

fu nuovamente viva<br />

(in una luce quasi sparita)<br />

con loro ricomposte e asciugate<br />

sollevò il mento<br />

piombato sullo sterno<br />

liberò gli occhi.<br />

ne fece arcate.


Su Quinta di cave e risorti<br />

[…] …anche i nuovi “sperimentali freddi” sentono il bisogno, oggi, di comunicare “narrazioni”, di inserire cioè nell’ordito di una sperimentazione<br />

formale e linguistica anche radicale, dei contenuti riconoscibili (si leggano ad esempio Marco Giovenale, Adriano Padua, Luigi Socci e<br />

Mariangela Guàtteri, tra i migliori). […] Uno dei movimenti poetici a mio avviso più interessanti ed originali di questi ultimi undici anni di nuova<br />

poesia italiana è quello che invece chiamo lirica tellurica e che consiste, nel mantenimento della tradizione lirica popolare (la forma-canzone),<br />

nello smottamento del punto di vista dall’io-lirico all’oggetto dell’osservazione immedesimata, per cui l’io poetante diviene, come ho detto<br />

altrove a proposito della poesia di Enrico Piergallini (1975), un io-mondo, in quanto coincidenza di storia personale, collettiva e geologica,<br />

metodo che si riscontra anche nell’evoluzione ultima della poesia di una delle più fertili voci femminili di questi ultimi anni, Mariangela Guàtteri<br />

(1963), nome che abbiamo già incontrato (perché nella realtà non esistono queste categorie separate). Senza dubbio Giacimenti di Piergallini e<br />

l’inedito Quinta di cave e risorti della Guàtteri sono due opere centrali e sorelle, nel panorama della nuova poesia italiana. […]<br />

Davide Nota, da Dove va la poesia italiana?, in “La Gru”, marzo 2010<br />

* * *<br />

«Il Post human di Mariangela Guàtteri è un fenomeno complessivo che si manifesta in forma di lapsus e disturbo, interferenza di parentesi e<br />

asincronia fra tempo metrico lineare e amalgama vischioso del flusso ritmico. Gli smottamenti prosodici della forma “canzone popolare”<br />

aderiscono alla dimensione dei fenomeni terrestri, dove biologia, geologia e storia sono la stessa cosa.<br />

Nel poemetto tellurico Quinta di cave e risorti l’abbandono dell’io biografico e del punto di vista soggettivo, il superamento dei presupposti<br />

della tradizione lirica moderna, lungi dal volersi manifestare come violenza teorica trovano anzi proprio nel trattenimento tumefatto di taluni<br />

stilemi l’incarnazione partecipata di una gravità metamorfica in atto.<br />

Ed è lo slittamento immedesimato nel ciclo insonne dei fenomeni naturali, dei «disabitati corpi / disfatti e risorti in paesaggi atroci / da radici<br />

ancora vive», anche la significazione di un passaggio estetico centrale, nell’evoluzione della nuova poesia italiana ed europea, da io lirico ad io<br />

mondo, occhio senza autore, percezione senza biografia, radiografia del canto terrestre.<br />

Il verso di cui è composto è nudo, spoglio di decorativismi aggettivali e a volte persino facente rinuncia dell’articolazione: «il cane sta in buca /<br />

fuori decade il cielo / humus sopra fa crepe».<br />

Ne risulta così rafforzata l’evidenza elementare dell’oggetto crudo, uno stato di cose. Come la terra, un orto poetante e non domo la cui<br />

liquidità vitale sfocia in apertura al canto laico dei misteri della decomposizione e dei ritorni, degli elementi trasfigurati e dei ricordi incarnati,<br />

visivi e linguistici.»<br />

Davide Nota<br />

* * *<br />

Il poemetto di Guàtteri […] è distinto in tre atti, composti rispettivamente da tre, ancora tre, e infine solo due scene. La struttura teatrale<br />

magnifica l'aspetto di «sacra rappresentazione» laica che i testi sembrano proporre. Laica ma, occorre aggiungere, fortemente incentrata sulla<br />

corporeità, come appunto vuole la tradizione della cerimonialità religiosa di strada. La fossa del cane, qui antologizzato, sta infatti in rapporto<br />

coi risorti (l'ultima scena) non solo per una dinamica narrativa che dalla morte va alla resurrezione, ma anche per il contrasto-choc tra la morte<br />

del vivente e la sottesa memoria religiosa. Un tale sostrato, che si vorrebbe dire «umbro», nel senso di jacoponico, e certo tergano, agisce sulle<br />

scelte di lingua e di stile orientate in senso espressionista: così che, a distanza di pochi versi, troviamo insieme il «suono procreilo» e la<br />

«pellecchia».<br />

Dalla nota introduttiva pubblicata su REGISTRO DI POESIA #4, a cura di Giancarlo Alfano (Napoli, d'if, 2011)<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

136


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

137<br />

x<br />

Da [Neurosi I]<br />

<br />

potere [la detenzione di esistenza]<br />

una forma di potere [il maneggio di un processo volontario<br />

di una alterazione]<br />

è un potere [lo stato percettivo che organizza<br />

i dati]<br />

a scopo di visioni [disegni sonori<br />

corpo di odori<br />

ultravioletti emergenti<br />

forme in calore]<br />

come un sognare<br />

polvere in rivolta<br />

che mostra i lati:<br />

X sulle cose (irradiazioni)<br />

e allora solo ossa<br />

[uno stato pulito]<br />

un accesso immediato<br />

si trasmette l’esistente<br />

[si comunica]<br />

si salva<br />

[…]


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

138 x<br />

<br />

ho paura e non so cosa sono<br />

ché un barlume una luce ambientale<br />

mi separa<br />

e divido le cose per questo<br />

una protesi del niente<br />

che si lascia andare<br />

ortopedia assemblata<br />

in abbandono a distanza<br />

ancòra<br />

la paura mi rende un nulla<br />

ma dite soltanto una parola<br />

e io sarò salvato<br />

(resti sempre con me la vostra divina grazia<br />

col corpo col sangue)<br />

la paura mi aizza come un cane<br />

dal nemico maligno difendetemi<br />

nell’ora della morte chiamatemi<br />

(usatemi misericordia e concedetemi le grazie<br />

che sono necessarie per la mia salute)<br />

la paura mi conduce al peccato<br />

col vostro corpo salvatemi<br />

col vostro sangue inebriatemi<br />

(lasciatemi in vostra adorazione mio creatore<br />

sovrano padrone unico mio bene)


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

139<br />

x<br />

<br />

lo spazio incastonato<br />

tra corpi cruciformi<br />

termina il respiro<br />

viene assimilato<br />

un modulo in eterno ripetuto<br />

nel punto d’incrocio dei bracci<br />

trasuda un petrolio una sostanza<br />

riconversione del tempo in dolore<br />

un’intolleranza<br />

[l’ascesi parallela del silenzio al digiuno (1)<br />

risana la parola<br />

la richiama al suo potere<br />

distilla da uno sterile di talco<br />

fino al sangue non presente<br />

un tempo di fame<br />

un’indigenza del divino<br />

e vince chi muore per primo]<br />

(1): «[...] un’ascesi parallela e complementare al digiuno che consiste nella<br />

iniziazione al silenzio, attraverso la quale ci si svuota della parola come del<br />

cibo; liberandoci dal verbalismo e dalle chiacchiere potremo scoprire la parola<br />

come dono divino e come responsabilità. [...] la partecipazione della nostra<br />

carne all’indigenza». Sergio Romano Aguzzoli, Il digiuno cristiano, in Chiesa in<br />

cammino, febbraio 2010, n. 2.


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

140 x<br />

Da [Neurosi II]<br />

[…]<br />

<br />

pompa nelle cave un sangue<br />

alza le chiuse<br />

si lascia in visione<br />

(analitico osservare: lo sente come un tatto)<br />

lui dentro a un buco<br />

(in sempre maggiore apertura)<br />

con parti in esteso<br />

con parti slabbrate<br />

(tane occupate in abuso)<br />

l’occhio deposto e disperso<br />

la mano orientale detiene la vista<br />

palpando dà vita a piaceri visivi<br />

e chi vede si sente in coazione di corpo<br />

la pelle tirata<br />

(un seme che punta la testa sopra una crosta e la bagna)<br />

un calore in crescendo<br />

violenta pulsione<br />

natura in pre posizione (una forza estrema)<br />

lui è passivo in rivolta<br />

il senso si scioglie scompone<br />

esibisce se stesso soltanto<br />

singole parti (anche ingrandite)<br />

in astratto formale<br />

anatomia distillata:<br />

erezione di un corpo fibroso<br />

testa-corona di carne iterata<br />

in sempre più veloce vibrazione<br />

{apri le tue parti<br />

{porgile in alto<br />

{che si veda più dentro<br />

{falle stimolare da protesi rotanti<br />

innervate<br />

semoventi<br />

artificiali<br />

in profonda comunione<br />

con veri genitali<br />

{raccogli da uno dei cavi (l’orale)<br />

gli sfiati di un ventre<br />

gli scroti<br />

i capezzoli irti<br />

le piccole labbra<br />

le lingue<br />

[intanto qualcuno provvede a infilare qualcosa tra le altre<br />

piaghe<br />

(usa le dita in funzione precisa<br />

del divaricatore)]<br />

{rimani in assenza in protratta rotazione<br />

{rilascia lo stesso pensiero sulla forma che si muove<br />

(un’ossessione)<br />

{dalle da mangiare<br />

{a tua volta mangia<br />

{sfrega a tenaglia la scia di un odore<br />

{dichiara la resa<br />

voltando la schiena a una luce<br />

{tieni posizione di un cane che si stira<br />

{prendilo nel corpo<br />

(qualsiasi cosa impropria)<br />

senza fare resistenza<br />

{a tua volta sferza<br />

con una piccola carne<br />

una farfalla aperta


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

141<br />

x<br />

<br />

avanguardia di piacere<br />

(un vertice appuntito)<br />

non trova la somma delle parti<br />

né il prodotto<br />

desidera un confine<br />

si recinta:<br />

traccia un piccolo quadrato<br />

un solco al suolo<br />

un baratro sottile come un taglio<br />

[la polvere solleva un dolore]<br />

un assedio<br />

(negazione di scelta)<br />

violenta ogni crepa della terra inscritta<br />

[crede in qualcosa di vergine]<br />

affermando una propria esistenza<br />

smembrando scuotendo scuoiando<br />

ciò che è già assenza<br />

(corpo in latitanza)<br />

una gemma gonfia<br />

[priva di fiori futuri]<br />

un colpo più a fondo<br />

[l’innesco]<br />

deciso allo stupro<br />

sboccia in frantumi<br />

in un siero<br />

[le crepe letti di fiumi]<br />

ferite che sono già di nessuno<br />

le pratica ognuna in un turno<br />

in un gioco di carne<br />

[palindromo sino a esaurire]<br />

deposta e serrata<br />

[non si asciuga]<br />

infine la occulta<br />

per una prossima volta<br />

[la palpa (forse una parte la mangia)]<br />

[…]


Da Stati di Assedio, 2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

142<br />

x<br />

Da [Neurosi III]<br />

[…]<br />

<br />

s’involve s’incanta si alza<br />

fa un gesto al cielo<br />

e il fiore di paura che ha nel ventre<br />

scoppia in un dolore<br />

[si dissangua]<br />

raccoglie un detrito allungato<br />

pesante<br />

[un osso di cane una zampa]<br />

[un’ascia di guerra-zampa di cane]<br />

lo punta lo lancia<br />

fende un cielo già morto<br />

riscatta i suoi sassi i rifiuti<br />

s’incolla i bordi delle sue ferite<br />

prende a muoversi col capo<br />

[gira intorno come un radar]<br />

coglie punti sul visore<br />

[non è solo in territorio]<br />

altri da sé in spostamento<br />

lui è uno<br />

la mano orientale aiuta<br />

la sbozza in lama l’affila<br />

poi si taglia in più parti<br />

si separa per essere molti<br />

piccoli pezzi senz’arma<br />

boccate di carne in giacenza<br />

attorno a un moncone<br />

la mano orientale aiuta<br />

si trasforma in cosa da guerra<br />

[Luger Parabellum P 08]<br />

la infila nel buco<br />

[quello che lo nutre]<br />

e spara<br />

[…]


Su Stati di Assedio<br />

Una scrittura poetica efficace e necessaria agli intenti che si prefigge sperimenta, ingloba e manifesta anche la sua vocalità, ed è proprio ciò che<br />

Mariangela Guàtteri fa in Stati di Assedio: scrivere una poesia di voce. Ma c’è di più. Ciò che percorre internamente i suoi versi è un movimento<br />

che connota l’opera come un poema di sensi: dove si mescolano, in sinestesie ricche di variazioni e perciò di significazioni, aspetti palpabili,<br />

sonori, visivi e mentali. Ci troviamo, quindi, dentro un canto vivo dove la concretezza fonica è fondamentale per la scrittura che ne realizza i<br />

«disegni sonori».<br />

Il testo ha una struttura tripartita, che non è però una semplice architettura esteriore (seppure formalmente portante e importante), ma una<br />

determinante sostanza strutturale che sostiene la forza dei sentimenti fisici che in esso si manifestano. C’è, fra le varie parti, un<br />

rispecchiamento, che si presenta però con deformazioni, modulate tra una sezione e l’altra, che danno corpo a tre “stati di assedio”: il potere, il<br />

piacere, il dolore. Tre Neurosi, così come l’autrice li titola, che in quanto tali sono conflitto e alterazione di ogni aspetto sensoriale, percettivo e<br />

concettuale. Ed e così che questa poesia si fa carico e si impegna a far sprofondare e a lasciarsi affondare in un dire il cui soggetto ha un senso<br />

che batte come «una contrazione di cuore», che martella con «un colpo duro», che raffigura «ritratto in un punto del corpo». Eppure,<br />

nonostante questa presenza si srotoli lungo tutto il testo, qualcosa di sfuggente, di indeterminato o semplicemente di sconosciuto rimane: una<br />

polvere, una frantumazione da cui ricavare immagini e suoni a cui solo la poesia può dare senso. Tutto ciò che è denotazione discorsiva è<br />

annullato da una concentrazione verbale di cui l’autrice sente la responsabilità. L’assedio, allora, prende corpo dalle ossa, che si rimpolpano con<br />

la carne, per poi rendersi evanescente in un’ombra.<br />

Mariangela Guàtteri riesce a prosciugare l’andamento dei versi fino alla loro essenzialità: nulla è, seppur minimamente, ridondante e la parola è<br />

un’irradiazione frattale di circonvoluzioni che sprigionano una multiformità di sensi, e si proiettano alla ricerca di una rivolta contro il potere, di<br />

una penetrazione verso il piacere, e di un’urgenza per il dolore. Il tutto profuso in evocazioni di sgretolamenti e sregolamenti continui, affinché<br />

qualcuno possa, anche con una sola parola essere salvato. Ma non bisogna fraintendere: questa salvezza non è una cura attraverso l’orazione<br />

poetica, ma è, più materialmente, una palpitazione che «dà vita a piaceri visivi». Una vita che si fa e si rifà, con congiungimenti e lacerazioni,<br />

anche grazie a una materia fonica che produce, con una nominazione secca, stringente e lucida, una dissezione erotica che esibisce se stessa<br />

sciogliendo il senso dentro le sue parti: una singolarità distillata per dare pensiero visibile, dare attrito e snervare l’assedio.<br />

Anche leggendo questo poemetto con voce muta, pur non essendo una poesia fonetica, la risonanza che ogni singolo vocabolo, nella sua<br />

consequenzialità e interconnessione, produce nella formazione di questa lingua particolare, appare a tratti come una visione allucinata, una<br />

respirazione rotta, un silenzio sconfitto. Ma forse è proprio a causa di questo effetto disorientante, di questo sconfinamento o abbandono di sé,<br />

che riesce a trasmettere una vera e multiforme esistenza: grazie a un legame poetico in costante tensione, che divarica senza fine un «pensiero<br />

assoluto» che «s’involve s’incanta si alza».<br />

Una mente in rivolta, che ha parole che si incamminano in un processo che è quasi un’estasi a perdifiato, una voluttà tanto fisica e materica<br />

quanto visibile solo in un ansimare e sfiatare verso una mistica terrena, tesa «fino al sangue» e a «un’indigenza del divino». Perché se ciò che si<br />

corrompe è la vita, con la poesia si riesce, perché è originarietà del dire, a risentire e a ricostruire ciò che svanisce; e a farlo con il<br />

rimescolamento dei paradigmi, la ricombinazione dei sintagmi, che, in un poema come questo, sono estensioni propriamente esistenziali e<br />

pulsionali, non solo semantiche.<br />

La neurosi dell’assedio è senza mediazioni e può portare Potere al Piacere del Dolore, ma se si affronta il grido o il balbettio coltivando «il<br />

delirio del tocco / lo stile di mano / gli sfiati», come fa Mariangela Guàtteri, allora forse qualcosa, attraverso la primogenitura di uno sguardo<br />

emergente, si trova e si salva. […]<br />

Giorgio Bonacini, da UN CONFLITTO DI SENSI, premessa al libro<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

143


Su Stati di Assedio<br />

Tre Neurosi, tre ferite inferte alla materia viva del testo, fitte di dolorose suture, punti intrecciati in una grande allegoria di linguaggi. La<br />

scrittura è soffusa di codici, segni diversi combinati a ricostruirsi un senso nell’ambiguità. Così è per il latino mescolato al rigore di una cartella<br />

clinica, per i riferimenti diagnostici accostati al backup di una macchina sull’orlo del reset, per la solitudine colma di autorità nel cybersex<br />

masochistico che rielabora alcuni tòpoi della sottomissione religiosa e del delirio mistico.<br />

L’automa compenetra il corpo dell’Uomo, l’oggetto animato diviene pròtesi di quello inanimato, in un continuo morphing creatura-cosacreatura.<br />

Il principio darwiniano è sostituito da quelli casuali di una logica impazzita, quasi un codice genetico modificato, che regola il calcolo<br />

proposizionale/evolutivo secondo un’approssimativa tavola di verità. Questa idea riflette la conditio humana contemporanea, in cui l’identità è<br />

distribuita, frammentata in istanze di cloud computing prima di ricomporsi in ego e l’imprevisto è un dato incalcolabile per Natura, un margine<br />

di incertezza tra le pieghe di un modello statistico, probabilmente fuzzy. Tutto ciò che non può essere trascritto in un linguaggio vibra nella<br />

dislocazione non deterministica delle sue parti, una maceria, un dolore che vale per sé come malessere del corpo e non su scala elementare.<br />

L’impasto dei codici forgia una matrice linguistica pregnante, che riproduce nel testo la figura e le dinamiche di una complessa rete neurale, le<br />

cui terminazioni hanno carattere periferico e informano il corpo e il mondo l’uno dell’altro. Alcuni termini agiscono da tag, attrattori,<br />

cortocircuiti dall’esito imprevisto: salvare, stato corrotto, accesso, memoria, conflitto ecc.<br />

La dialettica tra programmazione, scrittura di ricerca e poesia è risolta in favore di quest’ultima, adottando un’impalcatura formale entro la<br />

quale condurre però il fiato della parola ispirata, accettando la sfida di installare la poesia nel cuore della macchina, negli interstizi del suo<br />

linguaggio, tra i segnacoli di una metrica diversa. […]<br />

Federico Federici, da CODE-VERSE, postfazione al libro<br />

* * *<br />

[…] …la sua terza raccolta […] offre un esempio icastico di contaminazione tra linguaggio poetico e linguaggio informatico. L'uso di parentesi<br />

quadre, tonde e graffe, ad esempio,trasforma i versi in elementi di operazione, funzioni e vettori in un processo compositivo estremamente<br />

raffreddato, che allude alla programmazione informatica e - in certo modo - alla definizione di una ratio all'interno di una realtà opprimente che<br />

invade il soggetto […]. Al cuore di Stati di assedio c'è quella contraddizione insanabile e incomprensibile che è spesso all'origine dell'atto<br />

poetico: la volontà di dire e l'impossibilità di nominare. La scrittura di Mariangela Guàtteri è dunque un processo anomico, fenomeno più che<br />

evidente se si considerano i componimenti liminari che aprono le tre sezioni della raccolta, dedicati rispettivamente alla definizione di potere,<br />

piacere e dolore. La «voce in frequenza / molto bassa subliminale» di questi testi, incespica in un tentativo ricorsivo di determinazione<br />

dell'oggetto del discorso, che resta indeterminato. Accade così che «il dolore» non possa che darsi come «un dolore», «una forma di dolore»,<br />

«uno stato nascosto». L'impiego degli articoli indeterminativi è l'indice dell'incapacità del soggetto, della sua impotenza a fissare con la parola<br />

la propria (e la nostra) realtà, che può dunque solo essere mostrata:immagine o figura sospesa su un vuoto. Questa mancanza di potere del<br />

soggetto poetante, «una protesi del niente / che si lascia andare» in una nebulosa di enti, apparentemente interscambiabili, si ripercuote nella<br />

sua anatomia, che diventa«ortopedia assemblata». Le parentesi operano come separatori fisici non solo della materia testuale, in parte<br />

«tagliata» da altre fonti testuali e ipertestuali, ma anche di quella corporea: «un cuore un polmone / un arto separato un solo resto /...». E il<br />

corpo, corpo disorganico e costantemente riorganizzato nell'articolarsi rigoroso dei testi, gioca un ruolo importante quanto ingrato, poiché è su<br />

di esso che si manifestano gli stati d'assedio del titolo, siano essi prodotti da piacere, dolore o potere. […] Stati d'assedio si rivela dunque anche<br />

un esercizio di resistenza alle forme codificate d'inscrizione della terra, lla descrizione della condizione umana tramite un linguaggio imposto e<br />

altresì insignificante. […]<br />

Gian Maria Annovi, da Da Mariangela Guàtteri, esercizi di astrazione, in “Il manifesto”, 12.7.2011<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

144


Su Stati di Assedio<br />

In questo poemetto … la voce poetica si declina lungo le assi di tre neurosi. Il termine neurosi ha una valenza polifunzionale e complessa ma qui<br />

sostanzialmente sembra instaurare campi di forze, zone di tensione o frizione vibrante, crampi in cui la parola coagula e per intensificazione<br />

prende voce Il dettato poetico è visibilmente organizzato su uno standard, un pattern ripete in tre versioni la pratica di un’indagine modulare<br />

dal tratto pseudo-scientifico reiterata sui tre ambiti d’elezione: potere, piacere, dolore. […] La poetessa è anche performer e artista visiva,<br />

dedita a quello che definisce “nomadismo mentale”. Prima ancora di leggere il testo occorre forse guardarlo, così come ascoltarlo nella lettura<br />

pubblica a viva voce è evento non accessorio ma rivelatore di coloriture interne e di emersioni nominali precise. Il verticalismo della scrittura,<br />

organizzata sui pianali dei versicoli discendenti lungo la direttrice di lettura dall’alto in basso, allude come a un carotaggio, a una trivellazione in<br />

profondità. La tri-partizione del lavoro lungo i tre stati d’elezione è scandita in progressione - dal primo al terzo - solo per la necessità tecnica<br />

della lettura progredente di pagina in pagina. In realtà l’esito semantico-visivo di questa scrittura suggerisce un moto a elica. I tre assi ruotano<br />

concettualmente fasciandosi a spirale. Non si tratta di tre steli discendenti in parallelo nella trivellazione conoscitiva ma dello sfaccettarsi di una<br />

spirale che si avvita in profondo, ruotando su se stessa, come la punta di un trapano. La rotazione avviene a una velocità concettuale che lascia<br />

percepire il testo, ogni volta che ne mostra una faccia, come un corpo unico. Il moto descritto dai tre assi avvitanti è quello<br />

dell’accerchiamento. L’assedio è prodotto dal moto di avvitamento accerchiante dei tre stati. In questo senso l’assedio è radicale. Ovvero,<br />

come ogni assedio, è radicale in quanto circolare. […] Domandiamo … : chi o cosa è assediato? L’ipotesi che vogliamo argomentare è che<br />

assediato non sia qui un corpo, un essere, un’esperienza biografica ma l’asse centrale attorno a cui il testo si dispiega come moto accerchiante.<br />

[…] Il quarto asse, centrale, attorno a cui l’assedio si determina come avvitamento accerchiante dei tre stati disposti sulle facce del moto<br />

elicoidale, non è esplicitato nel corpo del testo. I corpi testuali sono soltanto tre, e sono - intensificati entro i c(r)ampi di forza delle neurosi - gli<br />

stati dell’assedio, le facce ruotanti della vite potere-piacere-dolore. Il quarto asse non partecipa della materia verbale e tuttavia la innesca e la<br />

regge. Questo asse è un fenomeno pre-verbale: è l’energeia del testo. L’energeia da cui il poema attinge il moto è la neurosi stessa nella sua<br />

fase non verbalizzata. La neurosi, dichiarata nei tre stati, li precede come condizione pre-verbale in quanto fenomeno di frizione che produce<br />

l’energeia del testo, dispiegandolo come assedio. Neurosi ed energeia sono due fasi dello stesso fenomeno silente (non verbalizzato). La<br />

neurosi è la fase didascalica e funzionale dell’energeia che permane nell’indichiarato ma opera quale quarto asse attorno a cui (e grazie a cui)<br />

ruota l’avvitamento assediante. Ad essere assediata è quindi l’energeia poematica del testo. La tensione dell’artista alla parola. […]<br />

Paolo Donini, da Energeia sull’asse d’assedio, in “Carte nel vento. Anterem”, novembre 2011<br />

[un dolore solo]<br />

* * *<br />

un frattàle di una nota / che organizza il tempo / e in ogni altra dimensione<br />

mg<br />

Ascoltare Mariangela Guàtteri che legge Stati di assedio, fa delle parole un’enormità visibile: è fare esperienza dell’enormità di una visione<br />

inversamente proporzionale al numero delle parole usate per dirla. Stati di assedio è ideato secondo precise restituzioni architettoniche a una<br />

gigantiasi, nel senso di deformità per eccesso, ben compresa nel singolo dettaglio e riprodotta secondo precisi stadi. In questo lavoro, che<br />

l’autrice stessa definisce articolato dalla paura, la costante a stordire del terrore è arginata da un controllo lineare in un assemblaggio plausibile<br />

che risolve l’espressione algebrica dell’emotività innescata nel concetto di paura. Nel pixel infinitesimo di un frantume verbale c’è già l’affresco<br />

di tutta l’opera. Ma non su di uno schermo. Tutto l’affresco della Guàtteri non si compone per schermate. Giorgio Bonacini nella prefazione<br />

infatti di tutta l’opera.<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

145


Su Stati di Assedio<br />

infatti avverte della qualità di “disegni sonori” della lettura che si sta intraprendendo, riprendendo due parole che compaiono tra i primi versi<br />

del libro, che poi l’autrice, come altre formule, reitererà. Puntuale, la voce della poetessa, impegnata nella lettura dei suoi versi, fa intendere<br />

che quel disegno è solo l’ossatura che compare sul foglio. La lettura che Mariangela Guàtteri fa della sua poesia dice come una poesia<br />

autenticamente dissennata, elargita da una pianta perfetta, sta nel suo, pronta alla dizione, in una vocalità vicinissima a tre punti dell’essere<br />

estremo: il potere, il piacere, il dolore. Dico dissennata come segnando un confine tra il senno e il non senno che induce lo stremo dell’essere<br />

alla veggenza. Il testo è anche diviso in queste tre parti, che l’autrice chiama Neurosi. Neurosi I il potere, Neurosi II il piacere, Neurosi III il<br />

dolore. «Le Neurosi sono allora tre segmenti di un solo programma articolato in routine, veri e propri code-verse annidati nel corpo del testo»<br />

(Federico Federici). Le Neurosi sono il blackout delle normodotazioni umane. Se il potere è «la detenzione di esistere», il non potere risiede<br />

nella sparizione della volontà a modificare, quindi nella scelta di non avviare «un processo volontario di alterazione». A ridosso di questo<br />

concetto è avvertibile tutta una proliferazione politica che la Guàtteri controverte dalla società ai corpi che la compongono con un linguaggio<br />

tecnico tanto più crudo quanto più si rivolge a materia organica. Cessare il solco della propria volontà sull’asse ibrido dell’orizzonte comune,<br />

significa accostare per gradi sempre più spaventosi l’azzeramento, in un incedere paritetico al proprio fenomeno «sognare polvere in rivolta<br />

che mostra i lati» perché solo «un accesso immediato si trasmette l’esistente» altrimenti perduto nell’alienazione metodica delle scelte. Nel<br />

parlare a sé rivolti, può stare il primo grado dell’azzeramento, il vero riconoscimento che avviene trasecolati dai desideri, giunti all’oscuro del<br />

tempo e di qualsiasi altra coordinata, nella circostanza immobile di essere uno che è mosso dal fatto plurale di venire assediato «senza<br />

mediazione / mi parlo / distillo / la purità muove / e ho gusti di darmi desiderio che infiamma per essere ogni mio tutto». Venire presi<br />

dall’imboscata del dialogo con l’elemento alternativo di se stessi, ossia venire presi da un sé alterno che non subisce l’apoteosi di comparire, è<br />

come attraversare un desiderio barbaro e nullificante, che scatena la mossa della paura, è come essere trafitti da una corrente incontrovertibile<br />

che conduce alla continua verifica di esistere, enunciando se stessi a partire dal corpo e dal sangue «la paura mi conduce al peccato / col vostro<br />

corpo salvatemi / col vostro sangue inebriatemi». È il corpo come presupposto fallace all’esistere che bisogna parossisticamente comprovare. È<br />

«l’indigenza del divino» che dà al corpo la separazione che lo rende vuoto, e che spinge alla gara iniziatica di un’azione radicale, un’azione che<br />

recida di netto la sensazione di non appartenersi. E in tutto il disamore che c’è nel potere questo, «vince chi muore per primo». Tuttavia la<br />

Neurosi II, si apre con la definizione del piacere che per quanto sia non più la «detenzione» ma «l’abbandono di uno stato di esistenza» (che<br />

lascia ancora ogni intenzionalità a margine) esso conduce per cedimento ancora più da presso alla zero distanza dal baratro che separa il corpo<br />

e il suo latore. L’autrice a questo punto fa sapere che il corpo ha una possibilità nel piacere, cioè quella di giungere «in procinto di essere<br />

anima», e ciò accade in virtù di un’imponderabile “contagio” con l’altro. Dalla Neurosi del piacere scaturiscono tutte le mosse corporee della<br />

metafisica animale, ed è un catalogo snocciolato di seguito, trattenuto il respiro, quello che catapulta la cognizione dalla Neurosi del piacere<br />

all’alienazione finale. Nella terza Neurosi il dolore confina il libro e l’esistenza. Là dove il potere, o il suo contrario, ha liberato i corpi<br />

dall’esistenza codificata e il piacere ne ha reso plausibile direttamente nella carne la sottigliezza inumana, il dolore è un buco «lo stato di ansia<br />

collettiva che diserta la memoria». L’essere, reciso dal ricordo di poter ricordare, è eviscerato, per cui non nutribile. Il dolore è una costrizione<br />

che rende inagibili a tutte le dinamiche di scarto, in cui l’azzeramento smette la ricerca nell’inedia definitiva che prelude al distacco. Il dolore<br />

inghiottisce da «un pensiero assoluto», così trascendentale che disgrega corpo e ambito, come sgranando il rosario circolare che non si<br />

interrompe malgrado l’interdizione dolorosa pare compiersi nel nulla da cui ancora è vinto, chi muore per primo.<br />

Viviana Scarinci, Vince chi muore per primo, in “Carte nel vento. Anterem”, gennaio 2012<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

146


Altri segni<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

147 x<br />

Come si è accennato nella nota bio-bibliografica di apertura, Mariangela Guàtteri si muove tra arte visiva e scrittura<br />

privilegiando, comunque, la ricerca. Impossibile, in questo spazio, dar conto della vasta opera da lei prodotta ed affidata,<br />

negli ultimi anni, anche alla rete. In questa pagina e in quelle immediatamente successive si riporta una serie di link che<br />

consentono la visione dei suoi più recenti e significativi lavori.<br />

the interrupt set, 2011<br />

asemic xerographies in “Sleeping fish”:<br />

http://sleepingfish.net/Xi/Guatteri.html<br />

no-title#0109 e #0209, 2011<br />

in “Moria - THE ASEMIC ISSUE”:<br />

http://www.moriapoetry.com/guatteri6565.html<br />

PRNT.ERROR/LAND3/A e LAND3/B<br />

in “The Klebnikov Carnaval”:<br />

http://khlebnikov.wordpress.com/expo/mariangela-guatteri/<br />

#01_polaroid, #02_polaroid, #03_polaroid, #04_polaroid,<br />

2011<br />

in “REM Magazine” - New Zealand Journal of Experimental<br />

Writing, volume 2, December 2011<br />

http://remmagazine.net/sieverts-issues/<br />

exercise#20110609, 2011<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/06/exercise20110609.html<br />

exercise#20110526, 2011<br />

in “LAB4040” (Curt Cloninger)<br />

http://lab404.tumblr.com/post/8835550253<br />

exercise#20110514, 2011<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/07/exercise20110514.html<br />

exercise#20110427, 2011<br />

in “Nothing and Insight”<br />

http://nothingandinsight.blogspot.com/2011/07/exercise201104<br />

27.html<br />

Der Kopf, 1992<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/08/der-kopf-1992.html<br />

Grandi Casse, 1992<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/08/grandi-casse-1992.html<br />

Le teste /heads, 1992<br />

in “Nothing and Insight”<br />

http://nothingandinsight.blogspot.com/2011/08/le-teste-heads-<br />

1992.html<br />

Der Kopf set, 1992<br />

in “slowforward”<br />

http://slowforward.wordpress.com/2011/08/27/der-kopfmariangela-guatteri/<br />

altre immagini in “Flickr”<br />

http://www.flickr.com/photos/mariangela_guatteri/sets/


Video arte e videopoesia<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

148<br />

x<br />

2 0 1 2, 2012 glitch video in exixtere [http://exixtere.blogspot.com/2012/02/2-0-1-2.html]<br />

e Art Hub [http://www.arthub.it/index.php?action=video&video=1840]<br />

cubo ferito, 2011<br />

in “exixtere”<br />

http://exixtere.blogspot.com/2011/12/cubo-ferito.html<br />

Trilogie<br />

(de Deux dimensions, 2009/2010, traduzione francese di Trilogia –<br />

testi successivamente pubblicati in Stati di assedio, Anterem, 2011)<br />

in “Une autre poésie italienne”<br />

http://uneautrepoesieitalienne.blogspot.com/2011/03/trilogie-de-deux-dimensions-videopoesie.html<br />

(la versione italiana è visibile anche su vari siti e blog: ultimamente nel periodico online Carte nel Vento<br />

e in http://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_anno9_numero16_guatteri)<br />

Atti e invocazioni, 2010/2011<br />

(testo successivamente pubblicato in Stati di Assedio, Anterem, 2011)<br />

http://www.youtube.com/watch?v=5NL538zhhBQ&feature=plcp&context=C34c240fUDOEgsToPDskI2fFZT<br />

4TUAA9XHoQ6MYsEj<br />

arts|en|if, 2010<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/09/artsenif.html<br />

Altro materiale video su YouTube<br />

http://www.youtube.com/merrimoco


Testi recenti<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

149 x<br />

6044. la pista cifrata, 2011<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/12/6044-la-pista-cifrata.html<br />

soggiorno moderno in sequenza borderline, 2011<br />

in “GAMMM”<br />

http://gammm.org/index.php/2011/12/01/soggiorno-modernoin-sequenza-borderline-mariangela-guatteri-2011/<br />

evidence_series, 2011<br />

in “eexxiitt”<br />

http://eexxiitt.blogspot.com/2011/07/evidenceseries.html<br />

[in audiovideo, lettura del testo alla Golena del Furlo - La Zattera<br />

dei Poeti,<br />

a cura di Franca Mancinelli, 2011<br />

http://www.youtube.com/watch?v=mXzTYTiSIbM&feature=plcp<br />

&context=C326fbdcUDOEgsToPDskLQo6UgJie_ztmKS24xW84Q]<br />

(da Stati di assedio, Anterem, 2011)<br />

in “Absoluteville”<br />

http://www.absolutepoetry.org/Hardcore-pornography<br />

[in audiovideo, lettura del testo a Reggio Emilia, Poetarum Silva<br />

(corpi a confronto), a cura di Enzo Campi, 2010<br />

http://www.youtube.com/watch?v=p9W3z0UubA0&list=PLE3EB<br />

4F9C3E8D7830&index=4&feature=plpp_video]<br />

Neurosi I (da Stati di assedio, Anterem, 2011)<br />

in “Anterem - Carte nel Vento”, dicembre 2011,<br />

anno VIII, n. 15<br />

http://www.anteremedizioni.it/montano_newsle<br />

tter_anno8_numero15_guatteri_m<br />

altri testi da Stati di assedio, Anterem, 2011<br />

in “La dimora del tempo sospeso”<br />

http://rebstein.wordpress.com/2011/11/29/stati<br />

-di-assedio/<br />

[trauma (e) trittico], 2010<br />

In “slowforward_hosts”<br />

http://slowforward.wordpress.com/2010/11/09/<br />

hosts-m-guatteri-t/<br />

da metodi del ricupero, 2010<br />

in “lettere grosse”, draft 03, dicembre 2010<br />

http://letteregrosse.blogspot.com/2010/12/03.h<br />

tml<br />

Letture e performance in audiovideo<br />

Video sul canale YouTube<br />

http://www.youtube.com/playlist?list=PLE3EB4F9C3E8D7830&feature=plcp


Testi recenti<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

150 x<br />

Da NUOVO SOGGETTARIO<br />

A.1.1. Entità individuali non indicate con un nome proprio<br />

Un assedio alle caselle, al casellario, ai posti. La conquista dello spazio; processi di delocalizzazione (prima protesi, poi non<br />

umani, poi anche protesi) hanno spaesato [lo spazio si tende a misurarlo, si assottiglia]. Va fuori da sé poi anche di sé.<br />

Deviatori di segnali.<br />

Il cervello del XXI secolo, L’identità della follia, Buchi e altre superficialità, Le forme dell’oblio scavano delle tane ma - i più<br />

efficienti - dei bunker con molte molte cose dentro, comprese le magliette da sera, da uscita, da feritoia, da cosa attillata,<br />

da cornice con luci, binary blob che si sgonfiano, presto esauriti. Rivendicano esigui umani. Una ricerca - che ha poca<br />

precisione - della felicità immediata. Un bunker portatile, le tendenze, le ultime, lo danno da indossare; le precedenti<br />

probabilmente da regalare: un presente importante, un’occasione speciale. Ora è tutto indispensabile.<br />

raccatta un foglio poi in molti fanno pressione e interrompono. siete solo avanzi. deteriora. una corrente della porta (eventi<br />

di una presenza costante).<br />

ancora una mano, due mani, fivefingers con dei fogli attaccati alle dita sono gli unici alberi (a parte quelli con gli aghi che<br />

cadono di continuo). ma si dice che: abbiano un così bel verde davanti!<br />

ANALISI DEI RUOLI<br />

(Enunciato del soggetto: bla bla bla)<br />

[…]<br />

parte proprietà<br />

concetto chiave trapianto complicanze<br />

elemento<br />

transitivo<br />

elemento<br />

transitivo impiego degli<br />

strumento<br />

ormoni della<br />

crescita<br />

in “differxhost”, 2011: http://issuu.com/differxhost/docs/mguatteri_nuovosoggettario_diyfferx_2011


Testi recenti<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

151 x<br />

Da copia cache<br />

serial killers: nel primo<br />

trimestre 25% dopo la flessione<br />

ricomincia. morti bianche in<br />

analisi territoriale e impresa<br />

(WhitePaper). Kentucky,<br />

Lousiana, Arkansas ed ora la<br />

Svezia. una giornata per<br />

riflettere: lavorare è un<br />

diritto. così come circondati<br />

dalle persone a morire quattro<br />

Bambini rom e Bilancio nazionale<br />

1 trim.; 114 contro le 91 decine<br />

di km lungo le rive vengono<br />

trovati morti; colpita la<br />

Spagna: da mesi circolava sul<br />

Web l’11 maggio 2011. avrebbe<br />

devastato Roma. Numeri<br />

allarmanti di informazione,<br />

cronaca, video e foto. influenza<br />

A, MedicinaLive. Commenta! Tag:<br />

influenza A, patologie<br />

respiratorie, inizia malissimo<br />

[…]<br />

in “lettere grosse”, draft 05, dicembre 2011<br />

http://letteregrosse.blogspot.com/2011/12/05.html


Inediti. Da Due dimensioni (2009-2010)<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

152<br />

x<br />

Da Discovery<br />

[Uno]<br />

chiede psicocibo<br />

per il muscolo che cresce<br />

l’occhio si dimette<br />

(è il nervo che si stacca)<br />

sviene<br />

- Nutriscilo! Bene<br />

- Lo alzo, lo imbocco ancòra<br />

gli registro il cuore<br />

prendo tutte le misure<br />

gira<br />

allarga degli arti<br />

trova rime tra le pieghe<br />

(rovista la pelle)<br />

fa la conta degli ormoni<br />

bene<br />

- È psicodisperso...<br />

- È in stato prematuro<br />

[bisbigli tirati<br />

fronde molli le parole]<br />

vaga<br />

x<br />

[Videorama I]<br />

Premio “Lorenzo Montano”, XXVa ediz. 2011<br />

(da cui è tratto Stati di Assedio, Anterem, 2011)<br />

verso la fine del mondo: non esiste<br />

lui si sente come su terra andata<br />

nessuna linea convergente, no punti<br />

zone tangenziali assimilate in lastra<br />

partizioni dei blocchi: nulla, di fatto<br />

non lascia impronte, ogni istante si perde<br />

geografie stanno in privazione di bordi<br />

scavi fissure abbozzi di più bachi<br />

bacini: allagati (chilometri cubi)<br />

rifiuti liofilizzati<br />

[Uno]<br />

è disorganizzato<br />

indigente itinerante<br />

vaga in stato di abbandono<br />

(in larga superficie)<br />

a distanza<br />

ha bisogno di vestiti<br />

fino ad ora li ha trovati<br />

procurati da dei corpi<br />

(abitini di seconda)<br />

da dei morti<br />

assai sofisticato<br />

è apparente, è in stato<br />

(non potrebbe esser diverso:<br />

sta schermato)<br />

sniffa solo psicoattivi<br />

ha uno sfogo attorno al buco<br />

che lo nutre e lui si cresce<br />

si ammaestra lui<br />

si palpa


Inediti. Da Due dimensioni (2009-2010)<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

153<br />

x<br />

[Benchmark]<br />

<br />

L’intero settore primario:<br />

[si esplora globalmente]<br />

un circolo ristretto in zona<br />

(riservata in specie all’homo sapiens)<br />

è sistema complesso in apparente<br />

ma di fatto un grafo chiuso<br />

(ogni nodo informativo<br />

mutuamente collegato)<br />

che in eccesso di legami<br />

si risolve in relazioni<br />

mute e non significanti.<br />

Non depone in positivo<br />

un’analisi del rischio<br />

che si basi su dei cluster<br />

con rapporti bilanciati<br />

tra fatica e dimensione<br />

degli assetti in stabilizzazione<br />

<br />

È completo<br />

il munizionamento del settore<br />

[corpo da competizione organizzato<br />

(cacciapredatore)]<br />

attuabili tutti<br />

i sistemi ausiliari<br />

schemi vincenti previsti:<br />

totali<br />

<br />

Nelle zone psicoattive<br />

il sangue plasma in bolle<br />

moventi dentro un vuoto<br />

s’inglobano a vicenda:<br />

ha sangue<br />

in ogni ambiente<br />

[indicazione di una vita animale]<br />

ha arti:<br />

almeno una mano orientale<br />

procura<br />

Premio “Lorenzo Montano”, XXVa ediz. 2011<br />

(da cui è tratto Stati di Assedio, Anterem, 2011)<br />

[Videorama II]<br />

tra colline artificiali asciugate<br />

(l’acqua non esiste) sono incavi di un tipo:<br />

nutrizione frazionata non composta<br />

(messa a caso) lungo costole di frane<br />

arretrate nelle tombe: giusti spazi vs. tempo<br />

[o l’avanzo del futuro (disavanzo che non chiude)]<br />

delle luci tra due sponde (dei segnali)<br />

per la mano che rovista che consuma<br />

il già degenerato (psicomimetico cibo)<br />

lui mangia<br />

[Uno]<br />

procede invertito tirando<br />

(polveri dal suolo essenziale)<br />

assaggia in rispetto di forma<br />

le quasi-sostanza rimaste<br />

e sono organelli mancati<br />

nel senso di estinti<br />

(sapori abboccati)<br />

fa giochi col gusto si acconcia<br />

si mette in assetto di lotta<br />

aziona il secondo settore<br />

testa i sistemi primari<br />

quelli di ausilio e gli schemi<br />

scoperta la lista controllo<br />

(sei righe di luce ad impulso)<br />

esegue ogni punto (si accende)<br />

poi ruota sull’asse mediano<br />

attivo in simulazione<br />

[…]


Inediti. Da Due dimensioni (2009-2010)<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

154<br />

x<br />

[Videorama III]<br />

un’alba uguale al tramonto<br />

giallo che fonde nel fuxia<br />

appena accennato che versa<br />

in affronto a quel grigio che ha dentro<br />

la luce neonata da un tubo<br />

è un’overdose di mancanza<br />

di cielo che muta di giorni stagioni<br />

alterni percorsi di stella spariti<br />

cammina<br />

in cerca di mossa visiva<br />

calibra l’occhio ed è breve<br />

il tempo di scatto<br />

e sei fotogrammi al secondo<br />

stroboscopia di visioni<br />

di movimento apparente<br />

periodico in brancolo<br />

di articolazioni<br />

[Uno]<br />

Premio “Lorenzo Montano”, XXVa ediz. 2011<br />

(da cui è tratto Stati di Assedio, Anterem, 2011)<br />

È visibile in moto<br />

come un Grande Vetro (1)<br />

[ci si vede attraverso<br />

(l’ambiente e dentro)]<br />

celibe<br />

tutta una storia<br />

un concetto mentale<br />

un mito inerte<br />

sulla soglia immateriale<br />

esiguo ubiquo<br />

un labirinto un grafo<br />

che lavora intimamente<br />

pare un ragno<br />

in crescita frattàle<br />

è ragno<br />

tesse qualcosa<br />

nel primo settore<br />

si disorienta<br />

al ritmo crescente<br />

un disegno un assente<br />

(1): Esplicito riferimento all’opera<br />

duchampiana. «La posizione dello stallo<br />

è quella che non ammette movimento<br />

univoco, non ammette direzione del<br />

desiderio, è quello circolare in cui il<br />

movimento è la massima accelerazione<br />

della stasi e la stasi la minima unità del<br />

movimento. Tale posizione è quella<br />

dell’indeterminazione, in cui il segno più<br />

che essere impreciso è direttamente<br />

collegato all’immaginario, senza che<br />

intervenga la nozione del lavoro.<br />

Il lavoro è il momento dell’elaborazione<br />

del segno, ciò che stabilisce la cesura e<br />

dà all’immaginario uno statuto di<br />

oggettività. Nel Vetro la nozione di<br />

lavoro è sostituita da quella del<br />

labirinto, letteralmente lavoro dentro.»<br />

Achille Bonito Oliva, Vita di Marcel<br />

Duchamp, Marani editore


Inediti. Da Due dimensioni (2009-2010)<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

155<br />

x<br />

[Killer app] (2)<br />

teste di ragno in crescita numerica<br />

per ogni testa: zampe<br />

ogni zampa su ogni testa<br />

variazioni numeriche di zampe<br />

un popolo eccessivo<br />

sino alla porta<br />

dell’insignificanza:<br />

tra unità di un sistema<br />

(latenza)<br />

la visione da un’altra angolazione<br />

consente un’alternanza percettiva:<br />

da uno stato in moto<br />

all’essere in stato<br />

fisso<br />

con un gesto immoto<br />

poi pietrificato<br />

da un muoversi troppo<br />

(come un malato)<br />

un Parkinson del senso delle cose<br />

profondo sino<br />

alle singole parole<br />

uno zoomimetismo degli automi<br />

surrogati dei bisogni primari<br />

surrogati di respiro<br />

una semplificazione<br />

del pensiero<br />

seicento milioni di morti<br />

(in apparenza)<br />

nessuna resistenza<br />

dal neuroprocessore<br />

la morte è funzionale<br />

alla crescita in rete<br />

neurale del futuro<br />

che va ad assimilare<br />

Premio “Lorenzo Montano”, XXVa ediz. 2011<br />

(da cui è tratto Stati di Assedio, Anterem, 2011)<br />

- Pare aver perso coscienza<br />

- Tesse nel suo labirinto<br />

- È come molti corpi<br />

- Molteplici stati mentali<br />

- Cervelli in numero enorme<br />

- Coscienza in più corpi<br />

- Un eccesso non ha significato<br />

- Non ha intenzioni<br />

nel corpo si fonde la coscienza<br />

è questo è uno stato un’organizzazione<br />

si adatta si uccide (in modo naturale)<br />

e ancora si forma (avrà pure un’intenzione)<br />

pensiero residente nell’azione<br />

un modello ambiguo<br />

dalla fine cresce il principio<br />

un algoritmo che torna su se stesso<br />

non c’è definizione<br />

[…]<br />

(2): An application (or service)<br />

is called a killer application if<br />

the app (service) alone is<br />

reason enough to buy a device<br />

or sign up to a subscription. [...]<br />

Killer apps tend to be personal<br />

and vary by customer.<br />

European communications,<br />

Spring 2004


Su Due dimensioni<br />

[…] …sentiamo Guàtteri limitrofa allo sguardo cristallino di Giovenale. La sua è una chirurgia delle superfici, della vista visibile e netta, è mossa<br />

da una passione dell’intelligenza, se intelligenza è vedere quanto è fuori di noi, accorgersi di un altro. Dunque nel fatto stesso di “vedere tutto”<br />

sta la compassione. Quella di Guàtteri è la simulazione di un elenco melancholico di io - o eteronimi piuttosto malconci. I volti dei suoi<br />

protagonisti appaiono - da una abbagliante cecità contemporanea e circostante - specchiati sulla lama di un bisturi. Questo perché, con<br />

Giovenale, Guàtteri non adopera la sofferenza per fare poesia, ma ne installa sulla scena della pagina una esposizione allegorica statica, sospesa<br />

nel moto immoto delle opere di Duchamp. Ostensioni di cose comuni le quali, poi che vengono poste “fuori luogo”, fuori dal luogo fluido della<br />

vita vera, sono esposte a contatto diretto con l’immaginario. […] Guàtteri ha … pudore e carità, fa dell’ospedale un museo, per dirne bene la<br />

distanza apparente, dove vengono “esposte” le paure - il seppellimento da vivi, il contagio del corpo di terra - le pulsioni e gli effetti dei<br />

“farmaci” - appunto - nei circuiti venosi e reattivi. Museo sì, l’ospedale, ma anche grande corpo labirintico, dirotto e bianco: colonizzato e<br />

pervaso, agitato da installazioni interne che, sebbene in stallo, compiono i moti circolari, palindromi e ossessi delle guerre di trincea. Linee,<br />

scavi, cave di terra pieni di uomini spesso emaciati. I malati non sono dignitosi e umbratili come quelli di Anedda, sono una desolata carne che<br />

si spegne e dimena, sono carne priva, corpi in battaglia che denutriscono sotto deangelisiane cartine mute (nella Cartina muta di Milo De<br />

Angelis la coppia entra in una farmacia alla periferia di Milano dopo che il tempo è tutto passato, dopo che è ormai accaduto ogni rimpianto).<br />

Questo è quello che la poetessa vede nell’avanzare e retrocedere e avanzare ancora dei degenti lungo i corridoi, un circolare appunto circolare,<br />

una deambulazione fredda, fissata nella costante della paura, fino alla marcia indietro verso un punto di fuga che è l’ingresso: nell’ambulatorio,<br />

nella corsia e nella sua straniante dimensione escheriana. L’ospedale è così: corpo-museo-di-corpi, corpo-cava-di-terra-con-soldati, corpoentomologo<br />

e insieme corpo-insetto - e fatto in particelle, stringhe, numeri e tranci - ma soprattutto e comunque e ovunque: mortale. Così<br />

comincia Guàtteri: a che giova la lotta contro il male, a che giova la cura, se comunque…. Eppure qui non si manifesta lacrimazione alcuna,<br />

bensì un fortissimo senso del destino: i testimoni - tutti sembrano essere testimoni di se stessi - sono anche incarnazioni di un abbandono<br />

ontologico. Questo luogo è un disperso frammento di pianeta, che obliquamente ci riassume tutti, riassume la somma teorica delle nostre<br />

ombre quando il sole va giù e le fa lunghissime.<br />

Desideriamo aggiungere, a conclusione, che abbiamo voluto menzionare due artisti visivi come Escher e Duchamp perché riteniamo che tutte<br />

le parole di Mariangela Guàtteri siano guidate dal senso superiore della vista. Lo sono per i temi, certamente, ma anche per la forma con la<br />

quale vengono deposte sul foglio […] e infine perché, fin dagli esordi, Guàtteri muove la propria opera in una zona liminare tra la poesia e video<br />

nei quali le parole sono tutte staccate e mescolate ad altrettanti oggetti freddi - luci al neon, ingranaggi, giunture robotiche in movimento e<br />

voci artificiali (mentre le fotografie di Giovenale sono archeologia di uno sfacelo ancora umano). Nei video di Guàtteri non c’è quasi più carne e<br />

non c’è sangue, siamo in una sorta di Tetsuo (l’uomo-macchina del regista giapponese Shinya Tsukamoto) raggelato dall’essere incruento.<br />

Fermissima la tenuta della ragione. Fermissima la mano e la parola, linea così sottile da diventare chimica. Ma pur sempre di chimica organica<br />

stiamo parlando, pur sempre di una terza dimensione di verticalità, tanto più viva perché più rimossa, tanto più cocente perché<br />

apparentemente rinunciata. Fin che si scrive non esiste scomparsa veramente avvenuta: nonostante i segni meno, le sottrazioni, le denutrizioni<br />

e tutta la raggiera dei mancamenti.<br />

Maria Grazia Calandrone, in “Poesia” n. 269 (commento ad una selezione di testi inediti tratti da Due dimensioni) -<br />

[http://www.mariagraziacalandrone.it/attivitacritica/?magazine=poesia_marzo_2012]<br />

Mariangela<br />

Guàtteri<br />

156


Da Il canto dei nuovi emigranti -<br />

Serie composta tra il 1984 e il 1985<br />

con fotografie realizzate in Calabria


Annalisa Teodorani<br />

157<br />

È nata a Rimini nel 1978. Vive a Sant’Angelo di Romagna.<br />

Si è laureata alla Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali (Università di Bologna, sede di Ravenna). Ha<br />

collaborato con il Museo Etnografico della sua città di residenza ad una ricerca sugli antichi giochi di strada<br />

praticati in Romagna.<br />

Scrive in dialetto santarcangiolese dall’età di diciassette anni.<br />

Suoi versi sono apparsi su quotidiani e riviste locali e nazionali e sui principali blog letterari italiani.<br />

Tre sono i libri al suo attivo:<br />

• Par sénza gnént (Per nulla), introduzione di Gianni Fucci, nota di retrocopertina di Narda Fattori, Rimini,<br />

Luisè, 1999.<br />

• La chèrta da zugh (La carta da gioco), prefazione di Andrea Brigliadori, postfazione di Narda Fattori,Cesena,<br />

Il Ponte Vecchio, 2004.<br />

• Sòta la guàza (Sotto la rugiada), note di lettura di Manuel Cohen, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2010.<br />

La sua opera è stata oggetto di studio nel saggio critico a cura di Pietro Civitareale: Poeti in romagnolo del<br />

secondo novecento (Imola, La Mandragora, 2005) e nel Dizionario dei poeti dialettali romagnoli del novecento<br />

(a cura di Gianni Fucci, Villa Verucchio, Pazzini, 2006).<br />

In una recente intervista ha avuto modo di dichiarare che il suo percorso di ricerca poetica sta seguendo una<br />

linea di progressivo “assottigliamento” del testo. Ha inoltre svelato, oltre che la sua immensa e presagibile<br />

passione per tutte le scritture dialettali, una singolare curiosità (una “bizzarria” forse meritevole di un<br />

approfondimento di analisi): i suoi primi approcci con la scrittura in versi sono avvenuti utilizzando il dialetto<br />

romanesco (http://www.icarotv.com/portale_web/lib/portale.aspx?video=1153).


Da Par senza gnént (Per nulla), 1999<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

158<br />

I zchéurs dla zénta<br />

Dal vólti a m mètt ma la finèstra<br />

e a stagh da sintói i zchéurs dla zénta:<br />

da spèss i è acsè strach<br />

che la s putrébb sparagnè<br />

la fadóiga d’arvói la bòcca.<br />

Mo se la zcòrr in dialètt<br />

alòura i zchéurs i arciàpa vigòur,<br />

énca al patachèdi,<br />

e u m vén vòia d’andè ad ciòtta<br />

a dói la mi.<br />

COSTA COSI’ POCO SOGNARE<br />

Costa così poco sognare / a volte basta una<br />

stella, / un fiocco di neve vola muto /<br />

dietro i vetri appannati, / le foglie d'ottobre tra<br />

i capelli del vento / o quelle nuvole scomposte /<br />

come i pensieri dei bambini. / Se chiudi gli<br />

occhi, poi, / in un attimo può cambiare il<br />

mondo.<br />

I DISCORSI DELLA GENTE<br />

A volte mi metto alla finestra / e sto a sentire i<br />

discorsi della gente: / spesso sono così stanchi /<br />

che si potrebbe risparmiare / la fatica di aprire<br />

la bocca. / Ma se parla in dialetto / allora i<br />

discorsi riprendono vigore, / anche le<br />

sciocchezze, e mi viene voglia di scendere in<br />

strada / a dire la mia.<br />

E gosta acsé poch insugnè<br />

E gòsta acsè poch insugnè<br />

dal volti e' basta una stèla,<br />

una froffla ad nòiva ch'la sguélla mòtta<br />

spèsa i voidri apanéd,<br />

al fòi d' utobri tra i cavéll de vént<br />

o cal novvli smanèdi<br />

cmè i pensìr di burdéll.<br />

Se t céud i occ, pu,<br />

t'un sbréss e' pò cambiè e' mònd.


Da Par senza gnént (Per nulla), 1999<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

159<br />

L'è arvàta l'instèda<br />

L'è arvàta l'instèda: la regina dl'an<br />

sa chi su dè long, stois cmè la stréssa de mèr,<br />

sa cla strachèzza ch'la t strasòina par al strèdi<br />

cmè un cavàl vèc<br />

e la porta a zirchè un po' ad fresch ti cantéun,<br />

ma l'òmbra dal chèsi,<br />

par la calèda<br />

ad chi dè che e' sòul u n s'indurmènta mai.<br />

E quant l'éultma fòia, l'éultma rònda, l'éultmi madòun<br />

i s'è sculè l'éultmi cécch ad sòul<br />

la zénta la scapa fura<br />

cmè al luméghi dòp dla piova,<br />

la s bèrda sòura i scalòin e la ciàcra d'inquèl:<br />

de magnè, di baiocch, di mil<br />

e da léusa biénca di lampiunzìn<br />

la toira fura stori d'una volta<br />

la cambia tòun: la pèr énca piò bona.<br />

Pu, quant la vèggia la s fa straca,<br />

e un vangìn lizìr e' scavèccia la poppla<br />

la s'artoira sbadaiènd<br />

s'unmagòun dròinta, s'un fat d'arcurdè<br />

s'un segrét da mantnòi.<br />

È ARRIVATA L’ESTATE<br />

È arrivata l'estate: la regina dell'anno /<br />

con quei suoi giorni lunghi, distesi come la<br />

striscia del mare / con quella stanchezza<br />

che ti trascina per le strade / come un<br />

vecchio cavallo / e ti porta a cercare un po'<br />

di fresco negli angoli, all'ombra delle case,<br />

/ al tramonto, / in quei giorni in cui il sole<br />

non si addormenta mai. / E quando<br />

l'ultima foglia, l'ultima rondine, l'ultimo<br />

mattone / si sono bevuti l'ultimo goccio di<br />

sole / la gente se ne viene fuori / come le<br />

lumache dopo la pioggia, / si acconcia sugli<br />

scalini di casa e conversa di ogni cosa: / di<br />

cibo, di soldi, di acciacchi / e nella luce<br />

bianca dei piccoli lampioni / tira fuori storie<br />

d'un tempo / cambia umore: sembra anche<br />

più buona. / Poi, quando la veglia si fa<br />

stanca, / e un vento leggero scompiglia i<br />

capelli / si ritira sbadigliando / con un nodo<br />

alla gola , con un fatto da ricordare / con<br />

un segreto da mantenere.


Da La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

160<br />

L'udòur de sàbdi<br />

A n l’arcórd<br />

l’udòur de sàbdi scapènd da scóla<br />

arcórd snò ch’a séra lizìra<br />

e l’aria datòunda<br />

l’éra tótta da bòi.<br />

IL RUMORE DELLA NOTTE<br />

Il rumore della notte sta / nel fondo di una<br />

conchiglia vuota / là dove si raccoglie il mare /<br />

che non vedi ma sai che c’è / e lo senti quando<br />

cambia il vento.<br />

L’ODORE DEL SABATO<br />

Non ricordo / l’odore del sabato uscendo da<br />

scuola / ricordo soltanto che ero leggera / e<br />

l’aria intorno / era tutta da bere.<br />

E' malàn dla nòta<br />

E’ malàn dla nòta e’ sta<br />

te fònd d’una cunchéa svóita<br />

là do ch’u s racói e’ mèr<br />

che ta ne vòid mo ta l sé ch’u i è<br />

e ta l sint quant e’ cambia e’ vént.


Da La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

161<br />

Setèmbri<br />

Énca un zéi<br />

e’ cmìnza a fè òmbra<br />

LA BALLATA DELLE OMBRE<br />

Ho preso confidenza / con le ombre della casa /<br />

sono lì che mi aspettano / quando torno, la<br />

sera. / Vado nelle camere e loro spariscono,/<br />

però mi aspettano / aspettano in piedi. / Dietro<br />

la porta, dietro la tenda / giocano tra di loro,<br />

giocano con me. / Ci ho preso gusto, mi sono<br />

imbastardito / sono diventato un’ombra che<br />

corre nel cortile.<br />

SETTEMBRE<br />

Anche un ciglio / comincia a fare ombra.<br />

La balèda dagli òmbri<br />

O’ ciàp cunfidénza<br />

sagli òmbri dla chèsa<br />

a gli è a lè ch’a l m’aspétta<br />

quant ch’à tourni, la sàira.<br />

A vagh tal càmbri e lòu al va vii,<br />

però a l m’aspétta aspétta d’impii.<br />

Spèssa la pórta, spèssa la tènda<br />

al zuga tra ‘d lòu, al zuga sa me.<br />

A i ò ciapè góst, a m so imbastardóid<br />

a so dvént un’òmbra ch’la córr te<br />

curtóil.


Da La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

162<br />

Du an<br />

Al mèni a l vuntèva di giarùl<br />

te vièl s’uqn vstidìn a pois.<br />

L’éra la vóita d’un pasaròt ch’e’ zùga<br />

s’una sménta, un fiòur...<br />

Pu l’à tàch a pióv<br />

la catóiva stasòun la s’à ingulè.<br />

A i’ò cmè un’òmbra t’un cantòun d’un òc<br />

u n gn’è gnént in fònd a e’ curidéur<br />

però u m tòcca sèmpra guardè.<br />

ARIA DI MARZO<br />

Lasciate un'anta aperta / che non è più<br />

freddo. / Leggera.... / L'aria di marzo è<br />

piena di lucciole volatie / è la faccia di<br />

un bimbo / che ha pianto per un<br />

capriccio.<br />

DUE ANNI<br />

Le mani tracimavano di sassolini / nel viale con<br />

un vestitino a pois. /<br />

Era la vita di un passerotto che gioca / con una<br />

semenza, un fiore... / Poi ha cominciato a<br />

piovere / la cattiva stagione ci ha ingoiati. / Ho<br />

come un’ombra nell’angolo di un occhio / non<br />

c’è nulla in fondo al corridoio / però devo<br />

sempre guardare.<br />

Aria ad mèrz<br />

Lasé una pàca' vérta<br />

ch'u n'è piò frèd.<br />

Lizìra....,<br />

L'aria ad mèrz l'è pìna ad lozzli vulatéi<br />

l'è la fàza d'un burddlìn<br />

ch'l'à pianzéu par un caprézz.


Da La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

163<br />

I pach<br />

Nadèl senza nàiva<br />

e léu l’éra quèl<br />

che i pach<br />

u i apuzéva te capàn.<br />

La chèrta sal fiséuri<br />

ócc ad burdèl<br />

la stóvva a cherosene<br />

e una machina da cusói<br />

fióla ad cla granda<br />

e made in URSS.<br />

MARZO<br />

È un chiaro d'aria quasi da bere /<br />

nei pomeriggi gentili / chiaccherati<br />

lungo i viali, nei trebbi degli uccelli. /<br />

In casa il mondo diventa più piccolo /<br />

fuori apre i polmoni. / Mi prende<br />

piano una voglia nuova / un non so<br />

cosa come di vivere fino in fondo /<br />

voglia di lasciare panni vecchi, libri... /<br />

Anche le parole sembrano dover<br />

spiccare il volo / dietro a un filo di<br />

vento che muove, appena, una<br />

ragnatela.<br />

I DONI<br />

Natale senza neve / e lui era quello / che i doni<br />

/ li appoggiava nel capanno. / La carta con le<br />

fessure / occhi di bambino / la stufa a<br />

cherosene / e una macchina da cucire / figlia di<br />

quella grande / e made in URSS.<br />

Mèrz<br />

L'è un cièr d'aria quèsi da bòi<br />

ti dopmezdè zantoil<br />

ciacaréd lòngh i viél, ti trébb di gazott.<br />

Ad chèsa e' mònd e' dvénta piò znìn<br />

ad fura l'érva i pulméun.<br />

U m ciàpa pién una vòia nova<br />

un nonsochè cmè ad campè dabon<br />

vòia ad lasè pan vécc, loibri...<br />

Enca al paroli e' pèr ch'agli apa da ciapè e' vòul<br />

dri m'un foil ad vént ch'è mov, apéna, un talaràgn.


Da La chèrta da zugh (La carta da gioco), 2004<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

164<br />

E' nòn<br />

Ad léu<br />

u m tòurna in amént al méni gràndi, pini ad caramèli<br />

e la voita l'éra dòulza<br />

mo me a ne savòiva<br />

a cridèvva m'al foli<br />

e ma che patàca de mi fradàl ch'u m gévva:<br />

«L'òs-cia la sa ad frèvla!»<br />

LA CARTA DA GIOCO<br />

Era così sottile / che pareva una carta<br />

da gioco / nella foto, un poster… / E<br />

lui è andato via / con lei tra le dita /<br />

che pareva uno di questi prestigiatori<br />

/ che si vedono in tivù.<br />

IL NONNO<br />

Di lui / mi tornano in mente le mani<br />

grandi, piene di caramelle / e la vita<br />

era dolce / ma io non me ne<br />

accorgevo / credevo alle fiabe / e a<br />

quello sciocco di mio fratello che mi<br />

diceva: / «L’ostia sa di fragola!»<br />

La chèrta da zugh<br />

La éra acsè stòila<br />

ch'la parévva una chèrta da zugh<br />

tal foto, un poster...<br />

E léu l'è andè vì<br />

sa lii tra 'l dòidi<br />

ch'e' parévva éun ad chi prestigiatéur<br />

ch'i s vòid in tivù.


Su Par senza gnént e La chèrta da zugh<br />

[…] Par senza gnént nell’ambito del “fare” è locuzione che può significare sia senza pretendere alcunché sia inutilmente, vanamente ed<br />

evidenzia la predilezione per il gioco dei rimandi, l’ironia, la sottile compiacenza per tutto ciò che attinge al circuito delle valenze multiple e<br />

quindi delle ambiguità che è uno degli “stratagemmi” del suo [di Annalisa Teodorani] fare poetico […]<br />

In questa raccolta, con una pronuncia personalissima e un originale registro linguistico, l’autrice viene a confermare, per dirla con Brevini, «la<br />

tendenza della poesia contemporanea a risalire in un regressus dal macro al micro, non soltanto dalle koinai regionali e dalle parlate municipali<br />

agli idiomi periferici, ma addirittura dal dialetto all’idioletto». […] A cifrare la qualità dei suoi testi, concorre … in vasta misura, tutta una serie di<br />

meccanismi che i linguisti chiamano “figure”. Da quelle di costruzione: ellissi, apposizioni, zeugmi; a quelle di elocuzione: allitterazioni, asindeti;<br />

da quelle di stile: enfasi, perifrasi; a quelle di significato o tropi: metonimie, metafore, sineddochi, ecc.<br />

Mentre sul piano strutturale, vediamo che la sua poesia si realizza fuori da qualsiasi gabbia metrica e quindi in versi sciolti di sostenuta<br />

intonazione lirica. […]<br />

La sua è una poesia dell’ascolto: Acsè e’ témp dla nòta / l’è tótt un ciacarè lizir (Così il tempo della notte / è tutto un parlottio leggero); Pu un<br />

tóun, cmè una bómba in piaza, / l’à smòs cl’aria indurmenta (Poi un tuono, come una bomba in piazza / ha smosso quell’aria assopita) … […]<br />

Poesia dell’ascolto, si è detto, ma anche attenta ai piccoli gesti, ai moti minimali delle cose e dell’animo. Infatti l’area semantica cui rinviano i<br />

materiali lessicali di Annalisa Teodorani è quella riconducibile alle piccole esperienze personali dove le istanze conoscitive sono inscindibili da<br />

quelle esistenziali. […]<br />

Se è vero che, come osserva Pasolini, «I pallori, gli éclats improvvisi, le ambigue sordità, le rozzezze, i cipigli di una parlata portata d’un tratto<br />

alla “luce della parola”, non possono non suggestionare», la Teodorani non sembra volersi gingillare attorno alle facili suggestioni esercitate<br />

dall’“intraducibilità” del dialetto. Anzi! Il suo discorso poetico si annuncia con tratti che si potrebbero chiamare di “elementarietà”, che fornisce<br />

alle parole la giusta chiarità; che proviene dalla semplicità di un dettato, dalla moderata densità degli assunti, e soprattutto dalla caparbietà con<br />

la quale rifugge da qualsiasi forma di vernacolarismo. […]<br />

Gianni Fucci, dall’introduzione a Par senza gnént<br />

* * *<br />

[…] La novità è quella di una poesia dialettale santarcangiolese […] che spunta imprevista e forse anche inattesa a due o tre generazioni di<br />

distanza dalla incredibile fioritura (incredibile perché avvenuta in tempi e spazi così ristretti) di talenti come Baldini e Guerra e Pedretti, fino a<br />

Giuliana Rocchi e Gianni Fucci. Ci si poteva aspettare che dopo di loro più nulla, o quasi, riuscisse a farsi sentire; che tutto il possibile fosse<br />

esaurito con loro […]<br />

Il mistero è quello di una voce di giovanissima donna, la quale si affida al dialetto in tempi di accelerato disfacimento della cultura della parola<br />

(parlata e tanto più se scritta) a vantaggio di una comunicazione fatta di segni, gesti, suoni, immagini, colori, monosillabi, la quale tocca e<br />

trascina soprattutto i più giovani […] e dunque in tempi in cui il dialetto patisce ancora una volta la precarietà del suo destino. […]<br />

Forse qualche spiegazione alla novità e al mistero di Annalisa Teodorani è data appunto [e anche] dai versi … nei quali l’insipida pochezza della<br />

lingua viene contrapposta al vigore comunicativo del dialetto, che è tale da farsi scegliere da chi è in cerca di un linguaggio (un modo, un<br />

lessico, un codice) adatto alla propria poesia, una lingua che lo coinvolge intero […].<br />

Pare dunque che la voce del “poeta” possa veramente esprimersi soltanto nel codice linguistico che condivide con la “zénta” in quanto egli<br />

stesso ne è parte, per nascita, orizzonte, cultura, intendimento di vita e di mondo; che il dialetto abbia insomma, per chi lo sceglie per la<br />

propria scrittura, una sorta di intraducibile unicità. D’altra parte fu Walter Galli, in una lettera ad Annalisa del 23 febbraio 1999, a scrivere: «La<br />

nostra lingua [il dialetto]<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

165


Su Par senza gnént e La chèrta da zugh<br />

nostra lingua [il dialetto] è oggi praticamente sconosciuta, o è stata rimossa, dalle giovani generazioni. Ritengo che tu sia cresciuta in ambiente<br />

dialettofono… Non mi convincono gli autori che disinvoltamente scrivono in italiano e in dialetto: non ne comprendo le motivazioni». Come<br />

dire che per scrivere “vera“ poesia dialettale, il dialetto bisogna averlo nel sangue, esserci nati, farne direttamente parte, trasferire in esso, per<br />

immediata necessità, pensieri e parole. […]<br />

Il dialetto santarcangiolese, e di radice rurale, […] forse spiega [ancora] il mistero della poesia di Annalisa, il cui ambito essenziale si lascia<br />

facilmente identificare in un perimetro che comprende centralmente “la chèsa”, luogo verticale degli affetti e del tempo, dei vivi e dei morti,<br />

delle presenze e delle ombre, dell’infanzia e della conoscenza […].<br />

Intorno, s’intende, un paese d’alberi e di viali, di stagioni e di giorni […]. Un paese che è mondo, ininterrotta chiacchiera di uccelli e di gente,<br />

pagina del tempo […]. […] La poesia di Annalisa: il senso angusto e povero del paese, di un’esistenza collettiva che condivide un che di<br />

rassegnato, di stanco e triste. Senza alcun abbandono descrittivo, comunque, né corrivamente realistico. Sempre, invece, un cogliere, per rapidi<br />

segni, i brividi e i presentimenti della vita; per tagli analogici […].<br />

Nel primo libro il suo battito si confondeva in qualche modo col ritmo collettivo della vita delle Contrade, si accomunava a quello della gente, vi<br />

si nascondeva, quasi. Il cuore intimo, intendo, la singolarità del sentire. Ma in questo secondo libro, per il tramite del ricordo o del sogno, sono i<br />

“moti del cuore” a farsi sentire , i suoi soprassalti, i suoi trasalimenti, i suoi presentimenti; come un tema sottostante e discreto, ma pur sempre<br />

assunto a misura delle cose vissute, a sentimento profondo dell’esistenza. […]<br />

Andrea Brigliadori, dalla presentazione a La chèrta da zugh<br />

* * *<br />

È … riuscita a descrivere in maniera “vissuta” i luoghi, le emozioni, le povertà materiali, le fatiche di lavori ingrati, gli inverni lunghi al buio delle<br />

quattro mura di casa, le piccole gioie dell’infanzia …, la strada …, l’attesa della neve; e il tutto in una lingua non inquinata, ma nella più pura<br />

tradizione della grande scuola dialettale santarcangiolese.<br />

C’è una vena di malinconia che sottende il libro, ma come addolcita dal riconoscimento di un’appartenenza ad un luogo e alla tradizione di un<br />

popolo. Tutto si articola attorno ad una casa fra le poche case del paese, quella strada, la madre, il nonno, la scuola, i giochi d’infanzia, ma i<br />

desideri, le timidezze, i piccoli grandi pensieri sono gli stessi di tutti gli uomini; è cioè presente un respiro che oltrepassa quel piccolo perimetro.<br />

[…]<br />

Franco Casadei, in “Il parlar franco”, anno IV, n.4 2004<br />

* * *<br />

[…] Diciamo subito che la poesia della Teodorani […] presta la sua voce alla chiusa esistenza di una comunità di provincia con un’adesione docile<br />

e persino rassegnata, ma con un’attenzione pronta a coglierne le asimmetrie, i cedimenti, le contraddizioni, i cambiamenti in atto tra un<br />

microcosmo fermo ai suoi secolari costumi ed una civiltà aggressiva ed omologante che ne sta via via cancellando le peculiarità sociali e<br />

culturali. Sempre attenta agli eventi della quotidianità nella loro molecolare scansione, La Teodorani esprime una radicale e radicata fedeltà ad<br />

un sistema di vita improntato alla semplicità, dettato dai sentimenti ed ubbidiente a se stesso, nei termini di un linguaggio coerente nei suoi<br />

stilemi con un contesto culturale consolidato, refrattario a contaminazioni neologistiche ed a forzature sintattiche.<br />

Sotto tale aspetto, la sua poesia si offre esplicitamente come una elegia sulla fugacità del tempo e sulla precarietà dell’esistenza, a cui<br />

contrappone la solidità del linguaggio dialettale, inteso come elemento di rigenerazione e di reintegrazione sociale. Da qui la compattezza del<br />

suo stile<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

166


Su Par senza gnént e La chèrta da zugh<br />

del suo stile, la peculiarità degli accostamenti verbali, la saldatura tra imprestiti letterari e memoria di una civiltà contadina percepita come<br />

paradigma morale. Frugando nel proprio passato linguistico di cui riutilizza lessemi e idiomatismi desueti, di provenienza rurale, ella ci dà la<br />

misura della evoluzione storica del suo dialetto, ci fornisce gli ambiti della sua psicologia, la dimensione del suo dinamismo comunicativo ed<br />

evocativo […].<br />

Con la seconda raccolta di versi Annalisa Teodorani fa un notevole salto in avanti, sia sul piano dell’invenzione linguistica che della essenzialità e<br />

della pregnanza del dettato poetico, mentre ci sembra che più acuto e risentito si sia fatto il sentimento della condizione esistenziale<br />

dell’uomo, bersaglio non soltanto delle necessità naturali ma anche della propria tendenza autodistruttiva; e ciò è motivo in lei d’ansia ed<br />

allarme […].<br />

Similmente il senso della propria vicenda personale sembra essersi fatto più esclusivo e cogente. Se nella prova precedente la Teodorani si<br />

osservava vivere nell’ambito di una realtà sociale condivisa, in questa sua seconda prova appare al contrario più attenta a se stessa, alle<br />

indicazioni che le provengono dai soprassalti del cuore e della mente: più chiusa, insomma, nella sua individualità.<br />

Ma ciò che maggiormente colpisce nella sua prova poetica più recente è la sintassi delle immagini, il loro articolarsi in un aggregato di elementi<br />

quasi privo di una giustificazione logica in cui è l’oggetto (un dato fisico della realtà) a fare da tramite tra il fantasma della “rivelazione” ed il<br />

Soggetto. Si dà cioè nel dettato diaristico ed occasionale quella illuminazione improvvisa (nascente di solito da un sentimento di nostalgia) che<br />

sembra alludere a certe forme di “euforia” a cui tende quasi sempre ogni fatto autentico di poesia. Una esperienza poetica dunque quella della<br />

Teodorani impegnata sul piano dell’invenzione e delle strutture poetiche, come si dà in certi suoi supponibili antecedenti letterari (mettiamo<br />

Pascoli, Montale, i crepuscolari) fino all’esperienza coeva di Tolmino Baldassari, dal quale media verosimilmente la capacità di accostare nuclei<br />

lirici apparentemente incongrui, circonfondendoli di un alone di stupore e di rivelazione:<br />

A n l’arcórd<br />

l’udòur de sàbdi scapènd da scóla<br />

arcórd snò ch’a séra lizìra<br />

e l’aria datòunda<br />

l’éra tótta da bòi.<br />

(L'udòur de sàbdi)<br />

Non ricordo<br />

l’odore del sabato uscendo da scuola<br />

ricordo soltanto che ero leggera<br />

e l’aria iatorno<br />

era tutta da bere.<br />

(L’odore del sabato)<br />

[…]<br />

Pietro Civitareale, da Sulla soglia del terzo millennio, in Poeti in romagnolo del secondo novecento, La Mandragora, 2005<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

167


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

168<br />

Paróli<br />

A campémm sparagnénd.<br />

I dói che al tartaréughi<br />

a l chèmpa una màsa perché li n zcòr.<br />

Paróli nóvi, paróli antóighi<br />

ch’a gli à fat la rózzna<br />

m’al grèdi di cunsinèri.<br />

AMORE<br />

Immagina il Vajont / una montagna che frana<br />

nell’acqua. / L’amore è un inverno che gela le<br />

tubature / una diga senza nemmeno un<br />

rubinetto.<br />

PAROLE<br />

Viviamo risparmiando. / Dicono che le<br />

tartarughe / campano molto perché non<br />

parlano. / Parole nuove, parole antiche / che<br />

hanno fatto la ruggine / alle grate dei<br />

confessionali.<br />

Amòur<br />

Fa còunt e’ Vajònt<br />

una muntàgna ch’la va zò tl’àqua.<br />

L’amòur l’è un’invarnèda<br />

ch’la giàza al tubadéuri<br />

una diga<br />

senza gnénca un rubinèt.


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

169<br />

La sudisfaziòun<br />

Ta m dé la sudisfaziòun<br />

d’una puràza svóita.<br />

COME LA LUNA<br />

Non puoi chiedere / di andare lontano da te<br />

stesso. / Una come la luna / nelle notti di me si<br />

vede / una fetta sottile.<br />

LA SODDISFAZIONE<br />

Mi dai la soddisfazione / di una vongola vuota.<br />

Cumè la léuna<br />

Ta n pu dmandè<br />

d’andè dalòngh da te.<br />

Euna cumè la léuna<br />

tal nòti ad me u s vòid<br />

una fitìna stóila.


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

170<br />

La dóta<br />

I cavéll pulóid i arléus te sòul<br />

cavéll ad ragàza<br />

da imbastói curòid<br />

che la nòna e la ma a l s’aracmànda.<br />

La mi dóta l’è un fas ad spóin.<br />

PRECIPIZIO<br />

È come cambiarsi d’abito senza uscire /<br />

prendere le misure a un dispiacere. / Questa<br />

vita che per precipizio / ha la sponda di un letto<br />

/ o la riva di un pensiero.<br />

LA DOTE<br />

I capelli puliti brillano nel sole / capelli di<br />

ragazza / da imbastirci corredi / che la nonna e<br />

la mamma si raccomandano. / La mia dote è<br />

un fascio di spini.<br />

Precipóizi<br />

L’è cumè mudès senza scapè<br />

tó al miséuri m’un dispiasòir.<br />

Sta vóita che par precipóizi<br />

l’à la spònda d’un lèt<br />

o la róiva d’un pensìr.


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

171<br />

Sparguiéd<br />

Dal vólti ta t sint sparguiéd<br />

e t fiuréss t’un fòs.<br />

UNA CESTA<br />

Lasciatemi lì / dove mi avete vista / come<br />

quella cesta / coi gomitoli di lana / con i ferri<br />

infilzati.<br />

Tacapàn<br />

Cumpàgn di gazótt ch’i dórma in vòul<br />

tacapàn<br />

tl’aria férma d’un armèri.<br />

SPARSO<br />

A volte di senti sparso/ e fiorisci in un fosso.<br />

Una zèsta<br />

Lasém a lè<br />

do ch’ a m’avói vést<br />

cumè cla zèsta<br />

s’i ghéffal ad lèna<br />

s’i férr instécch.<br />

ATTACCAPANNI<br />

Simili ad uccelli che dormono in volo /<br />

attaccapanni / nell’aria ferma di un armadio.


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

172<br />

Nuvèmbri<br />

L’aria fóina<br />

ch’la vén zò da e’ mòunt<br />

l’è cumè nòiva sòura la tu fàza.<br />

Nuvèmbri ti campsènt<br />

u s radàna.<br />

Al tu pavéuri al càsca<br />

a zantnèra, a mièra<br />

cumè fòi sòura i viél.<br />

A péunt i mi ócc<br />

ti ócc d’un petròs.<br />

ANCHE I GIRASOLI<br />

C’è un momento / in cui non capisci / se sono<br />

fuochi giù al mare / o tuoni su in montagna. /<br />

anche i girasoli non sanno più dove guardare /<br />

e gli uccelli da nido ti entrano in casa.<br />

NOVEMBRE<br />

L’aria fine / che scende giù dal monte / è come<br />

neve sopra la tua faccia. / Novembre nei<br />

cimiteri si riordina. / Le tue paure fioccano / a<br />

centinaia, a migliaia / come foglie sopra i viali.<br />

/ Punto i miei occhi / negli occhi di un<br />

pettirosso.<br />

Enca i giraséul<br />

U i è un mumént<br />

che ta n capéss<br />

s’l’è fugh zò a maròina<br />

o téun so in muntàgna<br />

Ènca i giraséul i n sa piò duvò guardè<br />

e i gazótt da nóid<br />

i t’òintra ad chèsa.


Da Sòta la guaza (Sotto la rugiada), 2010<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

173<br />

Al spòusi zòvni<br />

Al spòusi zòvni l’è pavaiòti<br />

ch’a l pérd l’arzént pr’una fulèda ad<br />

vént<br />

gòzli d’àqua<br />

ch’ a l róiga un vóidar<br />

la matòina prèst.<br />

LE ZIE<br />

Nel buio della vita / con il rosario tra le mani /<br />

hanno vegliato / un dolore alla volta. /<br />

Conoscono la radice di ogni fiore. / Le zie<br />

hanno la scorza dei cipressi / e quando<br />

piangono / resina e miele.<br />

Un pèl<br />

Dal vólti t’ arvènz<br />

cmè éun ad chi pèl<br />

ma la bòca de pòunt.<br />

Quand la vóita la n t lasa i ségn<br />

la t làsa agli òmbri.<br />

LE GIOVANI SPOSE<br />

Le giovani spose sono falene / che perdono<br />

l’argento per una folata di vento / gocce<br />

d’acqua / che rigano un vetro / al mattino<br />

presto.<br />

Al Zéi<br />

Te schéur dla vóita<br />

sla curòuna tal mèni<br />

a gli à fat la vègia<br />

m’un dispiasòir a la vólta.<br />

A l cnos la radga d’ogni fiòur.<br />

Al zéi a gli à la scórza di arzipréss<br />

e quant al piénz<br />

ràisna e mél.<br />

UN PALO<br />

A volte rimani / come uno di quei pali / alla<br />

bocca del ponte. / Quando la vita non ti lascia i<br />

segni / ti lascia le ombre.


Su Sòta la guaza<br />

“O’ vést che t’avivi ti occ una<br />

févra lizìra”<br />

(Giuliana Rocchi)<br />

Nell’arco di un decennio, o poco più, 1999-2010, la giovanissima Annalisa Teodorani, nata a Rimini nel 1978 e naturalizzata a Santarcangelo di<br />

Romagna, lontana dai clamori delle grandi vie della comunicazione letteraria, ma nell’alveo fecondo di una delle grandi couches della poesia<br />

mondiale, e oltremodo seguita affettuosamente da lettori di rango (Andrea Brigliadori, Caterina Camporesi, Franco Casadei, Pietro Civitareale,<br />

Narda Fattori, Gianni Fucci, Gianfranco Lauretano, Gianfranco Miro Gori), dal suo laboratorio appartato e molto discreto sulle opere e i giorni,<br />

ha prodotto e percorso, con l’attuale, tre raccolte di versi dal «timbro riconoscibile e distintivo» (sono parole di Narda Fattori che appaiono<br />

nella nota in retrocopertina a Par senza gnént): il momento, credo, è opportuno per un consuntivo o per una lettura d’insieme.<br />

Anche Sòta la guàza, Sotto la rugiada, come le precedenti raccolte, Par senza gnént, Per nulla (introduzione di Gianni Fucci, nota in<br />

retrocopertina di Narda Fattori, Luisè Editore, Rimini 1999) e La chèrta da zugh, La carta da gioco (presentazione di Andrea Brigliadori,<br />

postfazione di Narda Fattori, Il Ponte Vecchio, Cesena 2004) colpisce per l’esiguità del numero dei testi: nel primo libro 30, nel secondo 28, e in<br />

questo, 25; una vena apparentemente parsimoniosa e parca, ma pure una tenacia e una tenuta notevoli; e, per inciso, la parsimonia è persino<br />

nella scelta dei titoli che ricade in tutti e tre i casi sugli enunciati di componimenti eponimi. Leggo infatti le tre suites come parte di un tutto,<br />

tappe perimetrali e significative della caparbia edificazione di un possibile canzoniere; unius libri, di esistenza, di luoghi, di natura, e d’amore. A<br />

proposito, vale la pena riportare le affermazioni di uno dei più accreditati studiosi dei neodialettali romagnoli: «La Teodorani esprime una<br />

radicale e radicata fedeltà ad un sistema di vita improntato alla semplicità, dettato dai sentimenti ed ubbidiente a se stesso, nei termini di un<br />

linguaggio coerente nei suoi stilemi, con un contesto culturale consolidato, refrattario a certe contaminazioni neologistiche e a forzature<br />

sintattiche» (Cfr. Pietro Civitareale, in Poeti in romagnolo nel secondo Novecento, La Mandragora, Imola 2005, pp.106-108; argomentazioni<br />

riprese in, Poeti in romagnolo del Novecento, a cura di Pietro Civitareale, Confine, Roma 2006, pp. 17-18).<br />

Un elemento di coesione è dato dalla formularità dei testi: in ognuna delle tre raccolte, ad esempio, l’ultima composizione si riconnette con la<br />

prima per corrispondenza lessicale, per una immagine, o tropo. Nel primo libro, è il caso di un animale e di una immagine metaforica: nel testo<br />

ancillare si tratta di una ‘gattina’, ‘un gomitolo di pelo rossiccio’, che ritroviamo nell’ultimo testo trasmutati rispettivamente in un ‘gatto nero’ e<br />

nella metafora ‘un gomitolo di sogni’; mentre nel libro successivo, ricorre nel primo testo la metafora del ‘filo di mare’ ripresa nell’ultimo, dove<br />

si fa ‘filo lucente’. Parimenti, ora, il lettore di Sòta la guàza, potrà constatare l’assoluta corrispondenza stabilita tra il primo e l’ultimo testo: in<br />

questo caso, tuttavia, con uno scarto rispetto ai precedenti, la corrispondenza viene data non già dal lessico in frequenza bensì dall’orizzonte di<br />

riferimento: il primo testo Al zéi, Le zie, si apre con la metafora del ‘buio della vita’, oscurità che nell’ultimo, Murt, I morti, sta nella sinonimia<br />

della privazione della possibilità di vedere lontano, unitamente a una associazione o accostamento tra vecchiaia e fine della vita, con<br />

l’immagine delle anziane zie intente a recitare il rosario e quella conclusiva della sedia che prende la forma dei pensieri, sedia come correlativo<br />

oggettivo di una condizione. La curiosità del lettore, almeno questo è un auspicio, farà sì che questi possa scoprire, sotto la «apparente dimessa<br />

veste lessicale» (Cfr. Gianni Fucci, introduzione a Par senza gnènt, cit.), una fitta trama di riferimenti e di coordinate testuali e tematiche<br />

ricorrenti.<br />

All’esiguità del numero dei testi, di cui sopra, corrisponde pure la brevità: composizioni in versi ipometri e informali o liberi, divincolati dalla<br />

metrica e da esigenze di rima o musicalità; non di rado i testi sono singoli, castigatissimi versi-frasi monorematiche, o distici, mentre rarissimi<br />

(3, in tutta la produzione) quelli che sforano la pagina. Come per i versi e per la lunghezza, così per l’aggettivazione, mai in eccesso, e ridotta<br />

all’essenziale.<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

174


Su Sòta la guaza<br />

all’essenziale. Ma di una pratica di sottrazione, risente la sintassi, in genere piana, elementare, eppure caratterizzata da frequenti salti o<br />

cortocircuiti di senso (pregrammaticali, quasi di oralità) favoriti dal ricorso a un immaginario vegetale e animale. Di un millimetrico continuare<br />

‘a levare’, d’altro canto, ci dicono gli stessi testi, e particolarmente rivelatore è Paróli, Parole, che ricorda, per l’esercizio di pazienza e<br />

caparbietà, la laboriosità parsimoniosa di una civiltà contadina: A campémm sparagnénd. / I dói che al tartaréughi / a l chémpa una màsa<br />

perché li n zcòr, Viviamo risparmiando. / Dicono che le tartarughe / campano molto perché non parlano.<br />

Soffermandomi ancora sugli apparati di paratesto, e prima di entrare nel libro, una ulteriore spia è nei titoli delle raccolte, che fanno a vario<br />

grado riferimento a ricognizioni minime, a realtà marginali o ad attitudini secondarie: spie programmatiche di un orizzonte di riferimento che<br />

passa per strade non affollate, che ignora una dimensione metropolitana, (nessuna traccia di frequentazioni di città) ed evita l’avvitamento a<br />

grandi temi. In altre parole, già nei titoli è possibile cogliere l’attitudine a una humilitas, l’aderenza a un humus, un tenersi bassa, un osservare e<br />

dire le cose con pensieri e immagini quanto più vicini all’oggetto, o alla sua idea, un argomentare il proprio sentire con una lingua che ha per<br />

habitus l’understatement, in un procedimento di rastremazione e fine lima che producono una lingua basica, priva di compiacimenti, e non<br />

esibita. Si deve a Gianfranco Miro Gori, nella recensione a Par senza gnént (“Il corriere di Romagna”, giovedì 6 gennaio 2000) il richiamo alle<br />

«humiles myricae, i bassi tamerischi, che Pascoli - per citare un poeta vicino a noi nel tempo e nello spazio - riprese da Virgilio; alle cose e alle<br />

persone da poco; agli episodi minori o comunque non degni di Storia».<br />

Ma è la stessa Teodorani, invitata a dare una testimonianza su Giuliana Rocchi, a dirci nella doppia rivelazione della scoperta decisiva della<br />

poesia della sua concittadina e della natura della sua propria: «Nella casa dove trascorrevo gran parte dei miei pomeriggi di svago e presso cui<br />

Giuliana godeva di grande stima, quelle poche righe scritte in quella strana grafia (- o’ vést che t’avivi ti occ una févra lizìra, ho visto che avevi<br />

negli occhi una febbre leggera -, n.d.r.) mi incuriosivano e mi contrariavano allo stesso tempo. Non capivo bene che senso avessero eppure<br />

esercitavano su di me un fascino antico. La presa di coscienza di una grafia dialettale mi rese consapevole di quanto io fossi immersa in quella<br />

realtà umile e proletaria che sola si esprimeva attraverso il dialetto ma ne divenni anche profondamente gelosa. Mi infastidivano l’incoerenza e<br />

lo snobismo di chi cercava il dialetto scritto come un vezzo, decidendo razionalmente di non parlarlo quando ce l’aveva dentro, prendendo<br />

dunque a schiaffi la mia storia personale che sola passava attraverso quel buco, permettendosi di correggere, come già faceva la maestra delle<br />

elementari, le mie storpiature dialettali della lingua italiana» (Annalisa Teodorani, «E’ bén dabon»: il mio ricordo di Giuliana Rocchi, “Il parlar<br />

franco”, anno VII, n. 7, 2007, pp. 27-28).<br />

Anche in sede critica, a conferma delle parole della nostra, nella recensione di Caterina Camporesi (Par senza gnént, “Il parlar franco”, anno II,<br />

n. 2, 2002, pp. 135-136) e nell’intervento di Gianfranco Lauretano (La giovane speranza del dialetto, “Il parlar franco”, anno IV, n. 4, 2004, pp.<br />

116-118) è presente il richiamo alla Rocchi e a una ‘matrice popolare’. Mentre Andrea Brigliadori nella sua prefazione (cit.) accenna a un<br />

‘battito’ che si confonde ‘col ritmo collettivo della vita delle Contrade’.<br />

Si deve comunque a Gianni Fucci, primo grande lettore e sostenitore della Teodorani, l’aver segnato un solco critico, e un viatico, nella lettura<br />

della giovane voce. Nella introduzione al primo libro della nostra, la perizia del poeta romagnolo evidenzia, tra i molti rilievi, il portato popolare<br />

e ‘rurale della sua lingua: «Il suo è un santarcangiolese dalle sonorità più aspre dovute a lemmi e dittonghi arcaici di ascendenza rurale, in un<br />

contado che si può localizzare nel tratto di territorio comunale situato attorno al fiume Uso, con le frazioni di Canonica, Stradone-Gessi,<br />

Montalbano e Ciola Corniale che, rispetto a quello degli altri santarcangiolesi citati (Tonino Guerra, Lello Baldini, Nino Pedretti, Giuliana Rocchi,<br />

lo stesso Fucci, ndr.) attesta, in riferimento ai dittonghi: zantóil per zantéil (gentile), aróiva per aréiva (arriva)…» facendo seguire un lungo<br />

elenco di variazioni nella dittongazione, come pure la varietà nei lemmi.<br />

Grazie a Gianni Fucci che ha fornito le coordinate, è più agevole comprendere Annalisa Teodorani nelle sue scelte linguistiche, e pure nei suoi<br />

addentellati<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

175


Su Sòta la guaza<br />

addentellati di territorio: è in qualche modo possibile circoscrivere in una precisa area di Santarcangelo la matrice linguistica, la delimitazione di<br />

una couche geoantropologica, che sta ab origine di questa esperienza. Alcune grandi vicende poetiche ci ricordano che l’aver delimitato e<br />

focalizzato il proprio sguardo su uno specifico orizzonte fisico, tematico, affettivo, immaginativo, ontologico, ha significato delineare una<br />

autenticità di dire irredimibile nello stigma della propria unicità: da Giovanni Pascoli a Biagio Marin e Albino Pierro, da Tonino Guerra a Andrea<br />

Zanzotto, da Tolmino Baldassari a Attilio Bertolucci e a Umberto Piersanti, ma anche in due relativamente giovani neodialettali come Ivan Crico<br />

e Fabio Franzin, per stare a nomi a noi prossimi, in cui un sentimento precipuo dell’essere dentro il paesaggio e dentro una storia di civiltà e<br />

natura, assume una valenza eminentemente destinale, non già nel senso di una Historisch, bensì in una più intima e decisiva Geschichtlich.<br />

Le radici popolari e rurali, ràdghi, parola chiave dell’autrice, danno motivo della natura di questa poesia: sobria e raccolta, dove la discrezione<br />

più che l’allusività, ha la tonalità di una lancinante mitezza, quando ad esempio affronta l’amore, e dove la grazia è dolente, e il dolore è<br />

composto, affidato a immagini concrete, efficaci nella loro ispida nudità: un fas ad spóin (un fascio di spine), o dove anche la contentezza è a<br />

metà, cuntantèza a mità. È una poesia di dolcezze contenute e acuminate, come spesso in Giuliana Rocchi, ma come pure in una tutta al<br />

femminile grande triade neodialettale di riferimento: Franca Grisoni, Ida Vallerugo e Assunta Finiguerra, e i cui campi tematici delimitati vanno<br />

dal femminile al domestico-rurale con una campionatura di lessico in frequenza che comprende: lanzùl (lenzuolo), dòta (dote), curòid (corredi),<br />

cantòun d’un zinalòun (lembo di grembiule), ghéffal ad lèna (gomitoli di lana), férr instécc (ferri infilzati), mulèti (mollette), tacapàn<br />

(attaccapanni), armèri (armadio), scaràna (sedia), màchina da cusói (macchina da cucire), stóvva a cherosene (stufa), furminènt (fiammifero),<br />

chèsa (casa), capàn (capanno). Anche la religiosità, attesta origini popolari, come le anziane che recitano il rosario, la coròuna, grèdi di cunsinèri<br />

(grate di confessionali), il cristico fas ad spóin (fascio di spine), Nadèl (Natale), mirécal (miracolo), campani (campane), campsènt (cimiteri).<br />

Così, pure nella strumentazione retorica appare evidente l’originaria matrice popolare, chiaramente di oralità, eppure di eco sacroscritturale,<br />

nel frequente ricorso a figure di ripetizione, parallelismi e similitudini, che ne rappresentano un tratto distintivo della quiddità o stile.<br />

Similitudini spesso afferenti a campi semantici di natura e di paesaggio: ‘una come la luna’, ‘come foglie sopra il viale’, ‘come quando piove’,<br />

‘come la strada di un pomeriggio’, ‘come uno di quei pali alle bocche di ponte’, ‘come neve sopra la tua faccia’, ‘attaccapanni simili a uccelli’ (il<br />

lettore perdoni qui e sotto le citazioni in traduzione, dovute a esigenze di praticità).<br />

Accanto alla domestica e alla religiosa, una terza coordinata fondamentale o invariante afferisce al campo semantico della natura, nelle sue<br />

varie opzioni: vegetale, animale, esistenziale, atmosferica. Teodorani, annota Civitareale, «si ispira al ritmo delle stagioni, al dinamismo dei<br />

fenomeni naturali» (op.cit.); letta in questa ottica, i riferimenti ideali a una tradizione romagnola che vede in Aldo Spallicci il cantore di un<br />

mondo creaturale osservato nel trascorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, e a lei più attiguo, per sensibilità e più contemporaneo gusto di<br />

rastremazione e contrizione della effusività lirica, la poesia di Tolmino Baldassari, per una poetica di contenuto stupore nell’osservazione del<br />

cosmo. Ecco allora i richiami frequenti al mare, ora mér, ora maròina, alla montagna, muntàgna e mòunt, cielo, zìl, terra, tèra, luna, léuna, sole,<br />

sòul, o i molti richiami a eventi atmosferici: vento, pioggia, neve, buio, luce, notte, fuochi, tuoni o nominazione di eventi e occasioni: mattina<br />

presto, matóina prèst, pomeriggio, dopmezdè, novembre, nuvèmbri, Natale, Nadèl, fino alla nominazione botanica di piante frutti, o di parte di<br />

essi: cipressi, arcipréss, quercia, arvùra, fiore, fiòur, girasoli, giraséul, foglie di radicchio, fòi di radécc, mandarino, mandaròin, germogli, zarmòi,<br />

scorza, scórza, radici, ràdghi, resina, résna, miele, mél. O i riferimenti al mondo animale e creaturale: uccelli da nido, uccelli, pettirosso, falene,<br />

vongola, tartarughe.<br />

Eppure, a ben leggere, il lettore noterà, quanto il richiamo alla natura e al paesaggio, sia lontano da un gusto prezioso di certa lirica dialettale<br />

un po’ arretrata, o dalla oleografia di un paesaggio o contrada tradizionale. Nella Teodorani, l’osservazione del paesaggio e della comunità<br />

rinvia sempre a una dinamica esistenziale, «sotto cui vibra un pensiero tattile, olfattivo, nel significato letterale, di senso attivo, vibratile a<br />

cogliere”<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

176


Su Sòta la guaza<br />

cogliere» (Cfr. Narda Fattori, postfazione a La chèrta da zugh, cit.) una riverberazione di uno stato o stadio emozionale: in questo senso il<br />

rischio di un lirismo fine a se stesso è evitato dall’autrice il cui gusto e la cui natura tendono a evidenziare in più occasioni le incrinature del<br />

diamante grezzo: accade così frequentemente che a una dimensione apparentemente sospesa segua la tensione di un allarme di indicibile<br />

precarietà: il buio della vita, l’inverno che gela, la montagna che frana, il cadere in una buca, il fiorire in un fosso, il sentirsi disperso, sparso,<br />

sparguiéd, le paure che fioccano, una perdita di orientamento che spinge uccelli da nido dentro casa, spaesamenti come indicatori di una<br />

inquietudine irriducibile.<br />

Di questa inquietudine, udito e vista, attraverso gli organi della bocca e degli occhi, si fanno testimoni o scribi. La bocca, bòca, organo<br />

attraverso cui la phonè, intima e di memoria collettiva, articola suoni, continuamente in bilico tra paróli nóvi (nuove parole) e paróli antóighi<br />

(parole antiche), avverte la minaccia di un inverno, molto metaforico nella sua carica visionaria, e molto metafisico nella sua polisemia, che<br />

serra la bocca: t’à srè la bòca. Ma pure allude la voce a una comunità che non parla, n zcòr, o che viene registrata nella conversazione<br />

pomeridiana sull’uscio delle case, nel suo parlózz (siesta). Sonar e radar di questa inquietudine, e ulteriori strumenti di una acuminata<br />

decodifica del mondo e dei suoi allarmi, sono gli occhi. Gli occhi, correlativi del campo semantico della vista affrontato nelle sue varie<br />

declinazioni: vedere e esser visti, ma soprattutto, l’ansia destabilizzante del non poter vedere: ócc dè par dè i n vòid piò dalòng, occhi che<br />

giorno per giorno non vedono più lontano, come è detto nel testo finale e più marcatamente malinconico; o occhi come rispecchiamento, di<br />

alterità e di purezza, e levità: occ ad burdèll, occhi di bambino, specchi ustori di una condizione di fragilità, di paura o vicissitudine sospesa,<br />

come nella bellissima Nuvèmbri, Novembre: gli occhi della Teodorani incontrano l’altro da sé creaturale, ne condividono il freddo e la pena, la<br />

condizione terrestre e terrena dalle valenze di una stimmung attuale: a péunt i mi ócc / ti ócc d’un petròs, punto i miei occhi / negli occhi di un<br />

pettirosso.<br />

Nel palinsesto della poesia contemporanea, Annalisa Teodorani potrebbe apparire, per le sue scelte di campo, come un meteorite precipitato<br />

sulla parterre della poesia italiana. Il lettore paziente e curioso, potrà invece cogliere le domande, le inquietudini, i dubbi attivi di una giovane<br />

donna, di una voce limpida e sicura, molto consapevole dei propri mezzi espressivi, e molto decisa nella sua scelta linguistica e tematica radicali,<br />

in cui, per inciso, le ‘radici’ e i ‘vecchi’ si fanno correlativi oggettivi di una vocazione testarda, di una fedeltà a una appartenenza. Nei suoi versi<br />

ci racconta di un mondo affettivo, esistenziale e creaturale, della sua voce e dei suoi silenzi, delle sue ansie e dei suoi smarrimenti. Un mondo<br />

che molto ha da dirci, e che ci riguarda un po’ tutti da vicino.<br />

Manuel Cohen, Annalisa Teodorani - Gli occhi negli occhi di un pettirosso, in “La dimora del tempo sospeso - Repertorio delle voci”, maggio<br />

2010<br />

* * *<br />

…ciò che stupisce, incontrando Annalisa Teodorani e la sua poesia, è la pienezza umana e linguistica, quasi impensabile in una donna ancora<br />

molto giovane. C’è infatti, nelle sue poesie, una capacità di rappresentare luoghi, personaggi, vicende e sentimenti come solo una personalità<br />

matura e con gli occhi pieni di stupore sa interpretare.<br />

Ha fatto sue le storie di chi l’ha cresciuta, delle strade e dei vicoli dove ha vissuto la sua infanzia, cosicché l’innato talento le ha permesso di<br />

regalare a noi - già poco più che ventenne - pagine di una caratura poetica straordinaria, sia per la sostanza che per la forma.<br />

Nella sua nuova pubblicazione […] non mancano versi di una liricità commovente […], tuttavia, rispetto a La chèrta da zugh, prevale una forma<br />

più asciutta, concisa, tant’è che la lunghezza della maggior parte delle ventuno composizioni non supera i 7-8 versi. Questo cambiamento<br />

comprova che quello del poeta è anche un lavoro sulla propria scrittura, un approfondimento del pensiero e un modo di obbedire<br />

all’ispirazione che muta nel tempo.<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

177


Su Sòta la guaza<br />

all’ispirazione che muta nel tempo.<br />

Analizzando i testi, nel complesso prevale un certo scetticismo nei confronti della condizione umana e il suo destino. L’amore sembra non<br />

decollare nei suoi aspetti gioiosi, di letizia. Prevale l’esperienza del gelo del rapporto […], della solitudine […], della fugacità della giovinezza<br />

della sposa […]. Per non parlare della dote, un fascio di spine […]. Come pure ferisce il guardarsi cinico […].<br />

Una profonda verità rinveniamo in Cumè la léuna («Ta n pu dmandè / d’andè dalòngh da te»). Non possiamo chiedere di andare lontani da noi<br />

stessi, quasi che per risolvere i drammi del vivere basti partire; che sia sufficiente viaggiare per lasciare a casa tormenti e angosce. Una perla<br />

nella sua intensa brevità è senza dubbio Sparguiéd («Dal vólti ta t sint sparguiéd / e t fiuréss t’un fòs») in cui, in due semplici versi, si coglie la<br />

sensazione di inutilità, di non contare nulla per nessuno (buttato là, sparguiéd); eppure dentro questo abbandono germina un fiore, proprio nel<br />

luogo meno appropriato, un fosso; come a dire che non c’è condizione umana in cui non possa riaffiorare la speranza, la possibilità di nascere di<br />

nuovo.<br />

In un’esperienza di deserto e di sconcerto che cadenza gran parte della raccolta […], trova spazio comunque il desiderio di un accadimento che<br />

possa positivamente investire la vita […]. Un’invocazione che sembra trovare ascolto nella lirica che dà il titolo alla silloge, Sòta la guàza, dove si<br />

descrive la meraviglia della grazia di un germoglio sotto la rugiada («E te t’è la grèzia d’un zarmòi / sòta la guàza»). Fra l’altro la stessa prima<br />

lirica, Al zèi, - un vero gioiello - descrive la fatica del vivere («Te schéur dla vóita / sla curòuna tal mèni / a gli à fat la vègia / m’un dispiasòir par<br />

vólta»), ma anche la consapevolezza che la vita ha un destino da coltivare e far fiorire («A l cnòs la ràdga d’ogni fiòur»). […]<br />

Franco Casadei, in “Corriere cesenate”, settembre 2010<br />

* * *<br />

[…] Ricordando un grande poeta santarcangiolese, Raffaello Baldini, si può dire che la Teodorani ne abbia raccolto il vessillo: la sua poesia così<br />

icastica e parca al contrario di quella di Baldini, traboccante nel dire, così fermamente cementata all’oralità, contiene una visione del mondo<br />

molto simile, tutt’altro che consolatoria, di solitudine che pervade sia il soggetto che l’oggetto della scrittura.<br />

Già la doppiezza semantica del titolo del libro, ancora una volta verso di una poesia, induce a riflettere sul sottotraccia: la guàza, cioè la rugiada,<br />

è notturna, bagna un poco, induce a rabbrividire ma anche disseta e dà vita al germoglio in cui si identifica la poetessa; dunque dolore e<br />

sentimento di una compiutezza ancora da conquistare e al buio ma con la certezza di avere radici salde, lunghissime, come quelle della quercia<br />

dove immagina gli antenati ancora seduti , lei, loro vita che s’abbevera al tempo.<br />

Ma il tempo è anche dolore e vita che muore: le giovani spose , come le farfalle, perdono l’argento della loro spensieratezza e le loro lacrime<br />

rigano i vetri la mattina presto. In questa poesia brevissima le immagini dicono il mondo, il sentire, il vedere: certe mattinate d’autunno o<br />

d’inverno, per un fatto fisico di differenza di temperatura capita un fenomeno di condensazione all’interno delle case che sui vetri si rende<br />

visibile con gocce che scendono. Pur essendo poeta di pochi , pochissimi versi, Annalisa è poetessa lirica non sapienziale, epigrammatica.<br />

Ma tutte le ventiquattro poesie sono scritte all’insegna della visionarietà e del presagio; il dialetto è per sua natura una lingua scarna, Annalisa<br />

la rastrema ulteriormente ma regala a parole e frasi la figurazione metaforica operata su più strati di senso. […]<br />

Ormai si parla con parole che hanno perduto consistenza e capacità di penetrare nel dire: questa è una consapevolezza di molti poeti, in lingua<br />

e in dialetto. O forse sta proprio alla base della scelta di una lingua poco usata, per questo rimasta concreta e piena di storia, per un dire fuori<br />

da ogni cortigianeria e /o partigianeria. […]<br />

Narda Fattori, in “VDBD - Viadellebelledonne”, novembre 2011<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

178


Inediti<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

179<br />

Par tott i piént, par tott i fùgh<br />

Par tótt i piént<br />

ch’i n’à tróv niséuna cunsulaziòun<br />

e par tótt i fùgh ch’i s’è smórt da par lòu<br />

ma pròima i s’è purtè via inquèl.<br />

L’ULTIMO GOCCIO<br />

Ti ho visto nello specchio / con le mani nelle<br />

tasche mi aspettavi. / Non mi sono voltata / ho<br />

scambiato per amore / l’ultimo goccio / nel<br />

fondo del bicchiere.<br />

PER TUTTI I PIATTI, PER TUTTI I FUOCHI<br />

Per tutti i pianti / che non hanno trovato<br />

alcuna consolazione / e per tutti i roghi che si<br />

sono estinti da soli / ma prima si sono portati<br />

via tutto.<br />

L’éultum cécch<br />

A t’ò vést te spèc<br />

sal mèni tal bascòzi<br />

ta m’aspitìvi.<br />

A m’u n so vultè<br />

ò scambiè par amòur<br />

l’éultum cécch<br />

te fònd de bicìr.


Inediti<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

180<br />

Èli e ràdghi<br />

A t’ò niné<br />

fin a fèt indurmantè<br />

èli e ràdghi a l s’è invrucèdi.<br />

E t’una nòta pursì<br />

da la nèbia l’è scap fùra<br />

un pésgh in fiòur.<br />

ZOCCOLETTI GIALLI<br />

Se guardi da una fessura/ vedi che si muovono<br />

da soli./ Zoccoletti gialli, tre per due,/ e l’estate<br />

con tutti i suoi dentini.<br />

ALI E RADICI<br />

Ti ho cullato / fino a farti addormentare / ali e<br />

radici si sono intrecciate. / E in una notte<br />

qualunque / dalla nebbia è spuntato / un pesco<br />

in fiore.<br />

Zuclitìn zal<br />

Se t guérd da una fiséura<br />

t vòid ch’i va in zóir da par lòu.<br />

Zuclitìn zal, tre par do,<br />

e l’instèda sa tótt i su dintìn.


Inediti<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

181<br />

I tu murt<br />

Tl’òura che<br />

la pròima foschéa la bèsa la tèra<br />

tra quèl che t vòid<br />

e quèl che t pu imazinè<br />

fà còunt ch’i t vénga incòuntar lòu<br />

I tu murt<br />

a bràza ‘vérti cumè un vént dl’instèda.<br />

VOGLIA DI VITA<br />

Anche il colore dei tuoi occhi / si è stancato. / E<br />

ti vedo lontano / in fondo a una voglia di vita /<br />

che a volte ti duole.<br />

I TUOI MORTI<br />

Nell’ora in cui / la prima foschia sfiora la terra /<br />

tra ciò che vedi e ciò che puoi immaginare / fa’<br />

conto che ti vengano incontro loro / i tuoi morti<br />

/ a braccia aperte come un vento d’estate.<br />

Vòia ad vóita<br />

énca e’ culòur di tu ócc<br />

u s’è strach.<br />

E a t vègh dalòngh<br />

in chèva m’una vòia ad vóita<br />

che dal vólti la t fa mèl.


Da A Silvia -<br />

Serie composta tra il 1987 e il 1988<br />

con fotografie realizzate a Senigallia<br />

e a Recanati ,<br />

nella casa di Giacomo Leopardi


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

182<br />

1.<br />

Sono arenato sugli atolli dove esplodono le bombe del B52 che non sono riusciti a richiamare. Se la chiave<br />

strutturale del Dottor Stranamore è il coito, i funghi di quelle esplosioni nucleari sono orgasmi, schizzi di<br />

sperma nella vagina della terra. Ma questa lettura divertente e dissacrante non mi ha mai convinto sino in<br />

fondo. La cifra sessuale mi sembra piuttosto una sorta di controcanto alla follia della corsa agli armamenti.<br />

Sesso e volontà di dominio, orgia del potere, colonizzano la mente del militare, come ognuno che abbia a che<br />

fare con questa corporazione sa bene: il generale padre di famiglia, timorato di dio, pronto a rimproverare<br />

figli e nipoti per una parola volgare, comunica con i suoi soldati per mezzo di un codice pornolalico; e come<br />

prova di intimità raggiunta la prima cosa che dice al vicino, sino a poco prima solo un estraneo, è «A me delle<br />

donne piace il culo». E quando quello, un po’ seccato dal cambio di registro di uno che fino ad allora non<br />

aveva parlato che di patria e famiglia, gli domanda seccamente «Anche di tua moglie?» non sa fare di meglio<br />

che mettersi a sghignazzare e alza il bicchiere per l’ennesimo brindisi. «Al culo delle donne.» brindano D’altra<br />

parte, sessuale è la fobia di Ripper, il generale psicopatico che scatena la guerra nucleare. Per sfuggire alla<br />

cospirazione comunista internazionale tesa a diluire e contaminare gli umori vitali più preziosi, gli americani<br />

devono bere acqua pura, cioè acqua piovana o distillata, come fa lui che ha intuito il pericolo prima degli<br />

altri. Come se n’era accorto? Se n’era accorto quando durante il coito aveva avvertito una certa stanchezza,<br />

un vuoto dentro, quelli erano sintomi della perniciosa perdita d’essenze. Le donne infatti cercano nell’uomo<br />

la linfa vitale, quella che Ripper, avendo capito tutto, ora negava loro.<br />

La guerra dunque come psicopatologia della vita quotidiana. Ma l’ossessione sessuale, suggerita fin dalle<br />

famose immagini falliche delle prime scene, musi e proboscidi degli aerei, è solo, appunto, il controcanto<br />

sarcastico alla struttura portante della narrazione, quella che corrisponde alla logica dei “giochi” di guerra,<br />

impotente e folle. Come la narrazione del film dimostra. Come dimostra tutto il cinema di Kubrick, autore di<br />

Orizzonti di gloria. Parodia, piuttosto che analogia. Da questo punto di vista allora, considerato che i nemici<br />

non si vedono mai, fatta eccezione del caricaturale ambasciatore, il ‘corpo a corpo con i russi’ teorizzato da<br />

Ripper al momento dello scatenamento dei bombardieri strategici, non è altro che una colossale<br />

masturbazione meccanica, «Venga qui, mi tenga la cinghia…».


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

183<br />

Quando sto bene, le parole mi vengono facili. Eppure sono qui a domandarmi se riuscirò mai a finirlo<br />

questo libro.<br />

Sono il primo a svegliarmi. Voglio vedere il mare. Il sole è ancora dietro la collina di pini, il mattino è<br />

fresco. Scendo sino al porto in cerca di un bar. Finalmente ne trovo uno aperto nella piazzetta sull'Aurelia.<br />

Una coppia di vecchi sta facendo colazione con cappuccino e brioche. Mentre prendo il caffè guardo le<br />

barche, barche di ogni tipo e misura. All’inizio del molo una bacheca con la lunga lista d'attesa per i posti che<br />

si rendessero liberi. Un pescatore col secchio libera la barca dall'acqua piovuta durante la notte.<br />

«Buon anno, signore.»<br />

«Buon anno a lei.»<br />

Ora è giorno limpido. Voglio raggiungere la spiaggia e toccare il mare. Bisogna aggirare la scogliera e<br />

seguire per un paio di chilometri la statale. Il traffico, per fortuna, è ancora molto scarso e camminare è un<br />

piacere. La spiaggia è oltre una macchia di lecci. È ghiaia minuscola e levigatissima. Mi siedo a fumare la<br />

prima sigaretta. Ho voluto aspettare per godermela ora, così, in riva al mare. Mi ci è voluto molto a capirlo,<br />

ma ci sono arrivato: sto bene da solo. Per fare ciò che devo non devo avere nessuno tra i piedi. Ecco, decidere<br />

è facile. Mi alzo. Seguendo il ritmo delle onde, mi avvicino all’acqua schiumosa e la tocco prima che la ghiaia<br />

e la forte pendenza la inghiottano. Un uomo con i capelli bianchi sbuca dalla macchia di lecci e si precipita<br />

verso il mare, si piega a toccare l'acqua e scappa via. Sembra un altro me che fugge. Mentre io non desidero<br />

che stare fermo, guardare il tempo che corre, pensare ai fatti miei. La psicologa mi ha detto, «Pensa per te».<br />

È il momento di prenderla sul serio e farlo davvero, pensare per me.<br />

In albergo agli amici dico, «Me ne torno in Sicilia.»<br />

«Sei grullo, te ne vai ora?»<br />

«Ora, me ne vado.»<br />

«Che hai da fare?»<br />

«Vado a finire il libro.»<br />

«Allora sei grullo davvero.»<br />

Questo è il nostro saluto. Metto in valigia le mie poche cose, vado alla stazione e prendo il primo treno


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

184<br />

diretto a sud. I passeggeri continuano a scambiarsi gli auguri di capodanno. Siamo davvero pochi su questo<br />

treno il mattino di festa, così posso coltivare il silenzio.<br />

È da non credere come si dimentichino certe facce e certi nomi. Delle ragazze che vengono a trovarmi allo<br />

studio molte mi sembrano sconosciute e devo farmi ripetere il nome per tentare d'associarlo a qualche<br />

ricordo, spesso impreciso, fra l'altro, o del tutto errato. Ultimamente c’è Letizia, ragazza severa, un po'<br />

depressa, una che sta male per il lavoro che non ama. Vorrei a volte non si facesse più vedere, ma io non<br />

sono uno che riesce a cacciare le donne. Sono fatto così, nei confronti delle donne non riesco ad essere<br />

aggressivo, anzi indulgo a una certa passività. Mi lascio innamorare, ecco tutto. Tendo una rete in cui sono il<br />

primo a cadere. E questo mi piace, perché ogni volta è come entrare in un gineceo, nel mondo delle donne<br />

consacrato alla vita, e al piacere. Nell’amare infatti, come tutti sanno, anche soffrire è parte del piacere.<br />

Posso pensare che sia un modo di essere del desiderio, che poi è desiderio di essere, questo mio lasciarmi<br />

innamorare. Aspetto per non essere travolto dal desiderio, o perché l’oggetto d’amore non ne resti bruciato.<br />

Comunque sia, questa è la mia radice nella vita.<br />

Spettacolare congiunzione di astri in un azzurro limpido per il gelo. Venere è affiancata da Giove, l'una<br />

d'un bianco latte, l'altro vira verso il rosso. A prima vista sembra un aeroplano in fase d'atterraggio. Da Villa<br />

Giulia sto scendendo verso il Ponte a mare. Mi fermo a traguardare con i comignoli di una casa e le cime dei<br />

pini del Foro italico. Sembra inchiodato al cielo, Giove. Io alla terra. Al bar, dove compro le sigarette,<br />

domando se qualcuno s'intende di stelle. Gli avventori e il barista s'affacciano sull'uscio e guardano stupiti.<br />

Non sanno. Non hanno visto mai nulla di simile. L'indomani i telegiornali diranno che in migliaia hanno<br />

telefonato a giornali, polizia e osservatorio astronomico. Tanti hanno temuto l'arrivo dei marziani.<br />

Attacca bottone con me e non la finisce più. Ci tiene a dirmi che fa l’artista, che viene da Pisa, che da<br />

giovane ha fatto la corte a Gianfranco perché era un uomo davvero seducente. «Bell'uomo» confermo.<br />

«Inaccessibile» fa lei. La sto ad ascoltare perché le voglio chiedere un’informazione. Dopo che ho presentato<br />

il libro che Gianfranco ha scritto negli ultimi mesi di vita, una donna ha letto alcune poesie. Porta occhiali<br />

grandi e scuri, sta piegata su se stessa come una vecchia. Ma la sua voce è espressione del corpo profondo,


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

185<br />

fatta di vibrazioni mai udite, una bellezza assoluta che mi s’incide nella mente. A questa seccatrice che mi sta<br />

appiccicata e non mi molla domando se la conosce. «È Sara,» dice «mia figlia». Non occorre che domandi<br />

altro o l’incoraggi a parlarmene, perché la sua chiacchiera è inarrestabile. Ma ora sono ben disposto ad<br />

ascoltarla. Mi dice che Sara non voleva leggere, che è un brutto periodo per lei, che sta male. «Si sente<br />

troppo coinvolta, ha perso il marito». Tutto ciò lo dice senza compassione, con un distacco totale come si<br />

trattasse di un capriccio della figlia. Questo sguardo freddo su ciò che appartiene al passato di Sara mi<br />

contagia, neanch’io ho interesse per altro che non sia dentro il presente cono di luce da cui proviene la voce<br />

che m’incanta. Sara si è alzata dal tavolo e io non la perdo d’occhio. Non è più ripiegata su se stessa. Ha una<br />

figura bella, chiusa nel suo nero. Va verso la porta ed è tutto un entrare e uscire dalla sala, come aspettasse<br />

qualcuno.<br />

Col pretesto di salutare un amico, riesco a liberarmi della madre, e raggiungo Sara che si è fermata a<br />

fumare sulla soglia.<br />

«Tua madre m'ha detto che non volevi leggere. »<br />

«M'hanno avvertita solo due giorni fa, non c'era tempo di provare.»<br />

«La tua lettura è stata emozionante.»<br />

«Grazie.»<br />

«Brava come sei, non c’era motivo che avessi timore a leggere per un pubblico come questo.»<br />

«Devo dire che ho una certa soggezione verso questi intellettuali.»<br />

«Intellettuali? Mi sembra un’esagerazione.»<br />

È inquieta, Sara. Interrompe la conversazione scusandosi e s'allontana in cerca di qualcosa. La seguo con<br />

gli occhi finché non svolta l'angolo. La sento, sta parlando con qualcuno. Ora lo so, sono sedotto dalla sua<br />

voce.<br />

Torna mentre dal ristorante portano i vassoi per il buffet. Per la gioia di me impaziente che la sto<br />

aspettando, Sara si ferma. Finalmente si toglie gli occhiali. È bella. Occhi castani, scuri, brillanti. Pelle<br />

luminosa sotto i capelli neri. Muovendosi attorno alla tavola imbandita ora è lei a guardarmi e a sorridere.<br />

Disegno perfetto delle labbra nel viso armonioso. E ad attaccare discorso per dirmi che ama la Sicilia e i<br />

siciliani, che nell'isola si è davvero riconosciuta, che, nonostante ne stia spesso lontana, qui resta la radice dei<br />

suoi sentimenti. La voce mi incanta. Sara mi versa da bere, mi viene vicino, parlando mi prende le mani.


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

186<br />

«Devo andare,» dice all’improvviso «ma dobbiamo sentirci.»<br />

«Promesso.»<br />

Mi scrive sull'agenda indirizzo e telefono. È una via di Palermo, verso piazza Marina. E subito mi manca.<br />

Come se il suono di quella voce avesse trovato i suoi propri recettori nelle cellule del mio corpo. Sono già in<br />

crisi di astinenza. È andata via senza la madre. Così posso illudermi di tenermi in contatto con Sara, sentendo<br />

parlare di lei da quella chiacchierona. Di Pisa è la madre, mentre il padre è un avvocato palermitano, perciò<br />

hanno casa in città, anche se le due donne, fin dall’adolescenza di Sara hanno vissuto in Toscana, dato che i<br />

genitori erano e sono separati di fatto. Di quelle separazioni però che non lacerano mai del tutto i legami,<br />

anzi nel tempo li rafforzano, tanto che negli ultimi anni, da vecchi - si può dire -, prima che la tragedia<br />

colpisse la figlia, hanno vissuto insieme nelle due case, un po’ qui un po’ là. La quale tragedia - apprendo -<br />

non è roba di ieri, come mi sembrava di aver capito, ma di qualche anno fa. Solo che Sara non si è del tutto<br />

ripresa o - insinua con un filo di malignità - si è affezionata al nero perché le dona.<br />

La chiamo al numero che mi ha scritto sull’agenda. Risponde un’anonima segreteria telefonica. Provo e<br />

riprovo, giorni e giorni. Non c’è la voce di Sara. Irraggiungibile, come la felicità. Devo lasciar perdere, mi dico.<br />

Ho il lavoro da portare avanti.<br />

Sfogliando l'agenda ho trovato il foglietto delle poesie che Letizia mi ha portato quando è passata per gli<br />

auguri. È scritto con calligrafia microscopica, come fosse un messaggio segreto da far circolare tra carcerati o<br />

affiliati a una setta segreta. Vuole sapere che ne penso, in realtà desidera che quelle parole arrivino a me. In<br />

quelle parole domina l'angoscia più cupa che schiaccia il respiro. Si ripete l'immagine ossessiva della<br />

morticina, lei, e i ragni neri pelosi che le camminano sulla pancia, l'urlo mentre cerca di divincolarsi dalle reti,<br />

l'urlo che squarcia lo spazio e acuisce i sensi sino a un piacere doloroso. Da quest'orgasmo cifrato discendono<br />

immagini di luce, il sole innanzitutto, anche se dura solo un attimo.<br />

Allora, la chiamo. Pensate che sono uno che si contraddice? Avete ragione. Con una donna devo parlare.<br />

Questa è una voce ragazza.<br />

«Dài, vieni a trovarmi» l’imploro quasi.<br />

Quando le parlo del piacere doloroso e delle immagini solari che danno una prospettiva di speranza,


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Da<br />

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il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

187<br />

Letizia trova un tono di voce calmo e caldo per domandare, «Allora, c'è una via d'uscita?»<br />

«Certo, è quella che vedi. Sei ancora una ragazza che gioca con ossessioni di cartapesta, ma autentica mi<br />

sembra la ricerca di una via di libertà.»<br />

«Ti pare che questo sia un mondo in cui si possa essere felici?»<br />

Una domanda che immerge in una di quelle discussioni che si fanno da ragazzi, sulle ‘cose fondamentali’.<br />

Su una cosa siamo d’accordo. Lei è convinta, nonostante il pessimismo esibito, che non è importante saper<br />

dare risposte alle domande sulla felicità, quanto sapere vivere il presente. Il fatto che la felicità non sia<br />

possibile - aggiungo io - non uccide la speranza della felicità, la gioia di cogliere l'attimo di sole, la bellezza,<br />

l'amore.<br />

Letizia ci prende gusto, a me fa piacere ripercorrere il terreno delle illusioni.<br />

«E la poesia?»<br />

«È speranza di felicità la poesia. È verità. Se no è nulla.»<br />

«Si dice che da ragazzi tutti scrivano poesie.»<br />

«Chissà s’è poi vero! Io, per esempio, non ne ho mai scritte. Vero è che da adulti le scrivono i poeti e gli<br />

imbecilli. La poesia dei poeti , secondo me, ha una sua propria necessità, nel senso che dice di noi, della vita,<br />

qualcosa di non detto prima, che alla vita dà un qualche senso anche quando sembra negarlo, perché le<br />

parole della poesia ordinano l'esperienza del mondo.»<br />

«Perciò scrivo.»<br />

«Ma non avere fretta. Per arrivare al senso le parole, come la vita, devono sedimentarsi nella mente,<br />

dentro il corpo desiderio e pensiero, e trovare la loro musica insieme alla loro necessità. Se vuoi giungere a<br />

tanta bellezza, cerca di darti tempo e coltiva una mente aperta. Intanto, separati dall'odore di morticina e<br />

abbraccia il sole.»<br />

A Letizia posso, anzi devo dirlo. Tengo per me la consapevolezza che la vita eccede le potenzialità della<br />

parola. Sarà per questo che scrivo questo diario, e non poesie. Nessun discorso è definitivo, nessuno<br />

definisce per davvero la vita.<br />

Chiamo Sara, e sempre risponde la segreteria. Ho bisogno di sentire quella voce. Come se potesse<br />

rimediare a qualcosa di essenziale che manca alla mia vita. È amore? Ora, non voglio nessuno fra i piedi. Ma


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

188<br />

lei, mi dico, è una voce. Ho bisogno di ascoltarla. E in questo bisogno vedo il compimento di un destino. Devo<br />

rivederti, Sara.<br />

È salita quasi di corsa, perciò in cima alle scale ha un lieve affanno, e arrossisce un po' per l'imbarazzo e<br />

l'eccitazione. I piccoli capezzoli puntuti sotto la camicetta nera. Letizia gode dell'attenzione. Io dell'essere<br />

attento. La sua pelle è bruna, come quella delle beduine, le labbra scure piccole e brillanti, un bocciolo di<br />

rosa appena aperto; le gambe lunghe ma armoniche. La perfezione è il piede. Ha preso coraggio e ha tentato<br />

di forzare il divieto di venirmi a cercare. Le ho detto nel modo più chiaro e gentile che non la voglio in casa.<br />

Ma ora c’è.<br />

«Aspettami al bar, che fra qualche minuto scendo.»<br />

Al bar, mentre ci osserviamo, torniamo a speculare sul male del mondo, che in lei suscita stupore e un<br />

senso d'oscurità, alimentando una tensione in certi momenti esplosiva. La guardo e mi sorprende il ricordo<br />

della sua pelle. Come se la mente desiderasse sovrapporre al piacere presente il ricordo, per moltiplicarlo. O<br />

anestetizzarlo? È comunque un’onda di dolcezza. Letizia, nonostante il corpo di adolescente, offre grandi<br />

seni, e sodi. Minuta com’è, non te lo aspetti. Non ti aspetti questo piacere. Vista e tatto, mente e giudizio<br />

sono agitati nello stesso frullatore.<br />

«Vieni da me stasera?»<br />

È venuta per invitarmi. Mi preparerà il tabulè, le acciughe marinate. Tutto freddo, perché lei odia cucinare.<br />

Poi mi accompagnerà nella camera, dove ha preparato il materassino per i massaggi. Lei gode a toccarmi, io a<br />

essere toccato.<br />

Mi ha scritto un'altra lettera al nero Letizia, su carta pergamena bruciacchiata per fare tanto maledetta.<br />

Nulla c’è di nuovo, così non le rispondo. Ma poi si annuncia per telefono e mi lascio convincere a fissare un<br />

appuntamento.<br />

Lo scirocco ha trasformato Palermo in una città tropicale. Piove da tre giorni senza sosta, acquazzoni<br />

esplodono all’improvviso con la violenza degli uragani. La nuova pioggia sul terreno saturo d’acqua, sugli<br />

asfalti impermeabili, sulle fogne intasate, scivola via in onde sempre più alte che trasformano ogni strada in<br />

torrente e le più strette in fiumi. Ed è tutto un correre di garzoni dei negozi e fondachi e di padroni ad alzare


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Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

189<br />

dighe di assi tavole e sacchetti per tentare di dare riparo ai loro beni. Spesso inutilmente. L’acqua melmosa è<br />

negli scantinati, nei locali, nelle stanze.<br />

La tettoia della fermata degli autobus in piazza Politeama è però un riparo ancora sufficiente. Aspetto<br />

Letizia. Arriva in ritardo, così posso osservarla mentre attraversa tutta nera la piazza, percorre con passo<br />

lento i marciapiedi ed evita con scarti le pozze più profonde, anche se i suoi stivali alti sopra il ginocchio<br />

sembrerebbero adatti alla piena di un fiume. «Per intonarmi a te,» le dico «mi sono messo il vecchio<br />

montgomery».<br />

Letizia mi guida verso il bar all'angolo della piazza dove tutti la conoscono e la salutano. A tutti mi<br />

presenta. Le fa piacere stare con me. Me lo dice mentre ci sediamo a un tavolo e ordina due cappuccini.<br />

Sotto il cappotto ha una maglia anch'essa nera con grande scollatura a V e un top trasparente, nero, e<br />

fuseaux neri. Labbra e unghie viola. E per ornamento tanta chincaglieria metallica da aprirci un commercio di<br />

bijou. Certo non vuole passare inosservata. Desidera raccontare e racconta di nuovo la sua storia. Comincia<br />

con voce piana e calda, esibendo fogli dipinti, decorati, bruciati, fogli di lettere bucati dalle sigarette. Gioca<br />

con una fantasia di autodistruzione. «Ancora questa storia? Ma lascia perdere. Andiamo,» le dico «andiamo a<br />

vivere».<br />

Quando siamo fuori mi lascio portare. Letizia guida in scioltezza un’Alfa d’annata. «È di mia madre,» ci<br />

tiene a dire «io non posseggo nulla». Conosce tanti locali ma poi mi conduce al centro sociale di Ballarò dove<br />

ci dovrebbe essere l'incontro con un romanziere. Non c'è nulla, a parte il solito bar, la solita birra, il solito<br />

fumo. Solo tanto fango in più, a inzaccherarmi le scarpe e i pantaloni. Con il suo armamentario Letizia si lascia<br />

guardare. C'è un ceffo che la riconosce. Letizia lo allontana, «Vedi che sono in compagnia».<br />

«Un altro sballato che mi sbava dietro» commenta.<br />

«Quasi ne sono geloso» dico. «Ce ne possiamo andare».<br />

Ora Letizia si sente padrona della situazione e mi porta a spasso. Sceglie un locale che sembra la stiva<br />

d'una nave, abbandonata dall’equipaggio, perché ai tavoli non c’è nessuno. I baristi scrutano questa coppia<br />

curiosa, la ragazza dark e l'uomo col montgomery nero. Nella penombra di quel ventre di legno Letizia ordina<br />

il vino e prende le mie mani. L'attacco è sempre tragico, del genere amico scoppiato d'eroina, ma è di sé che<br />

vuole parlare. La storia con il tossico è il fantasma della libertà che lei rincorre impulsivamente per sfuggire<br />

all'ordine ossessivo della sua casa borghese.


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Da<br />

Tutto<br />

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di Giovanni<br />

Commare<br />

190<br />

«Sai come finiscono queste ribellioni giovanili? Si torna alla casa borghese. Intanto però puoi sperimentare<br />

chi sei, oltre il tuo animo scisso, oltre la mente fine. Qualcosa di buono può venirne fuori».<br />

Letizia si avvicina e mi bacia. L’aspettavo. Il ragno che tesse la tela, sono io o è lei?<br />

La mattina lo scirocco è cessato e ci sorprende una luce nitida che esalta le miserie e le bellezze delle case<br />

e della natura, quella selvaggia delle montagne verdastre alle nostre spalle, quella ordinata e strapazzata dei<br />

giardini urbani. Mentre facciamo colazione nella terrazza dei gelsomini da dove si vede il porto e il mare<br />

schiumoso in lontananza, Letizia tira fuori il suo lato solare. Mi racconta la sua adolescenza a Linguaglossa, le<br />

escursioni sull’Etna. Senza trucco, è una ragazza dallo sguardo tenero e curioso; gli occhi scuri, il portamento<br />

severo le danno un che di altezzoso, come ho visto nelle donne beduine.<br />

«Non credere davvero che io sia una morticina» dice. «Sono una ragazza che sa camminare sulle<br />

montagne e anche affacciarsi sulla bocca del vulcano.».<br />

«Ci credo, ci credo.»<br />

«So anche fare la pasta e i dolci.»<br />

«Vedo, e mangi con gusto.»<br />

«Io cerco il piacere.»<br />

«Non sai quanto sia felice di vedere dissolversi la maschera della donna dannata.»<br />

Letizia allora si alza, viene dietro le mie spalle e mi sussurra, «Io saprei fare felice un uomo.»<br />

«Non ne dubito. Sposerai un proprietario e farai tanti figli.»<br />

Si dovrebbe essere contenti di una giornata fatta d'incontri casuali, una giornata in cui i destini<br />

s'incrociano nelle strade del mondo senza alcuna ragione. Donde la felicità. Benché non tutti gli incontri siano<br />

felici.<br />

Mi lascio portare, mi lascio guidare dalle presenze femminili. A volte ho l’impressione di essermi perso e di<br />

non avere altra speranza di salvezza che le donne, come se loro ne avessero la chiave. Mi abbandono ai loro<br />

discorsi, ai loro sguardi, alle carezze come all’unica cosa che conti davvero. Nel disincanto, è l’unica vera<br />

felicità che mi è rimasta, o forse la speranza della felicità. Franco dice che sono un maniaco sessuale represso,


SOLO INEDITI<br />

Da<br />

Tutto<br />

il tempo<br />

di Giovanni<br />

Commare<br />

Giovanni<br />

Commare<br />

191<br />

perché a noi ci hanno rovinato la mamma e la rivoluzione.<br />

«Quale rivoluzione? Quella che non abbiamo fatto ?»<br />

«Se non è rivoluzione, è consolazione» ribatte.<br />

«Già» dico. «Se voglio, riesco ancora a non dormire solo».<br />

Di questo passo, però, il libro su Kubrick non lo finirò mai.<br />

[…]<br />

* * *<br />

Siciliano (è nato nel 1948 a Campobello di Mazara - TP), vive e lavora a Firenze.<br />

Ha pubblicato: Presenti e invisibili. Storie e dibattiti degli emigranti di Campobello, Feltrinelli, Milano,<br />

1978, in collaborazione con Chiara Sommavilla; L’azione distratta, con postfazione di G. Ciabatti,<br />

Cesati, Firenze, 1990 (segnalata al Premio Montale 1991); La distrazione, opera aperta, Firenze, 1998-<br />

1999; il poemetto Aspettando l’imbarco, in La clessidra, Novi Ligure, novembre 2002; La distrazione<br />

(Immagini - per un processo d’identificazione), Poetry Wave, Napoli 2004; La lingua batte, con<br />

prefazione di M. Biondi e una nota di D. Sparti, Passigli Editori, Firenze, 2006.<br />

È autore del saggio Il sonetto italiano del Novecento presentato al convegno “Le sonnet au risque du<br />

sonnet” (Université de Franche-Comté, Besançon, 8-10 dicembre 2004) e successivamente pubblicato<br />

in “Nuova Antologia” (n. 2240, ottobre-dicembre 2006).<br />

Suoi racconti e articoli sono usciti sulle riviste “Linea d’ombra”, “Paragone”, “NumerO”, “Il ponte”,<br />

“Allegoria”, “La clessidra”, “Lo straniero” e “Il grandevetro” di cui è anche redattore.<br />

Il brano scelto da Danilo Mandolini e qui presentato è l’anteprima del primo dei sette capitoli di cui si<br />

compone il racconto inedito intitolato, appunto, Tutto il tempo.


Da La mia vita intera -<br />

Serie composta tra il 1998 e il 2000<br />

con fotografie realizzate a Senigallia<br />

e nella campagna marchigiana


Collage William Butler Yeats<br />

192<br />

Easter, 1916<br />

I have met them at the close of the day<br />

Coming with vivid faces<br />

From counter or desk among grey<br />

Eighteenth-century houses.<br />

I have passed with a nod of the head<br />

Or polite meaningless words,<br />

Or have lingered awhile and said<br />

Polite meaningless words,<br />

And thought before I had done<br />

Of a mocking tale or a gibe<br />

To please a companion<br />

Around the fire at the club<br />

Being certain that they and I<br />

But lived where motley is worn:<br />

All changed, changed utterly:<br />

A terrible beauty is born.<br />

That woman’s days were spent<br />

In ignorant good-will,<br />

Her nights in argument<br />

Until her voice grew shrill.<br />

What voice more sweet than hers<br />

When, young and beautiful,<br />

She rode to harriers?<br />

This man had kept a school<br />

And rode our winged horse;<br />

This other his helper and friend<br />

Was coming into his force;<br />

He might have won fame in the end,<br />

So sensitive his nature seemed,<br />

So daring and sweet his thought.<br />

This other man I had dreamed<br />

A drunken, vainglorious lout.<br />

He had done most bitter wrong<br />

To some who are near my heart,<br />

Yet I know him in the song;<br />

He, too, has resigned his part<br />

In the casual comedy;<br />

He, too, has been changed in his turn,<br />

Transformed utterly:<br />

A terrible beauty is born.<br />

Hearts with one purpose alone<br />

Through summer and winter seem<br />

Enchanted to a stone<br />

To trouble the living stream.<br />

The horse that comes from the road,<br />

The rider, the birds that range<br />

From cloud to tumbling cloud,<br />

Minute by minute they change;<br />

A shadow of cloud on the stream<br />

Changes minute by minute,<br />

A horse-hoof slides on the brim,<br />

And a horse plashes within it;<br />

The long-legged moor-hens dive,<br />

And hens to moor-cocks call;<br />

Minute by minute they live:<br />

The stone’s in the midst of all.<br />

Too long a sacrifice<br />

Can make a stone of the heart.<br />

O when may it suffice?<br />

That is Heaven’s part, our part<br />

To murmur name upon name,<br />

As a mother names her child<br />

When sleep at last has come<br />

On limbs that had run wild.<br />

What is it but nightfall?<br />

No, no, not night but death;<br />

Was it needless death after all?<br />

For England may keep faith<br />

For all that is done and said.<br />

We know their dream; enough<br />

To know they dreamed and are dead;<br />

And what if excess of love<br />

Bewildered them till they died?<br />

I write it in a verse –<br />

Macdonagh and MacBride<br />

And Connolly and Pearse<br />

Now and in time to be,<br />

Wherever green is worn,<br />

Are changed, changed utterly:<br />

A terrible beauty is born.


ARCIPELAGO itaca prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria Lenti, Nicola Romano e<br />

Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e Lorenza Alba.<br />

ARCIPELAGO itaca seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano Mugnaini, Adelelmo Ruggieri e<br />

Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani e di un’opera di Pietro Spica.<br />

ARCIPELAGO itaca terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su Tolmino Baldassari, Danilo<br />

Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele Garbuglia e Massimo Morasso. Inediti di Enzo<br />

Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di Silvana Russo e Lucia Marcucci.<br />

ARCIPELAGO itaca quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio Balistreri), Danilo Mandolini<br />

su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli, Liliana Ugolini. Inediti di Marina Pizzi. Collage Charles<br />

Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito, Giovanna Ugolini, Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e Giordano Perelli.<br />

ARCIPELAGO itaca quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola), Rossella Maiore Tamponi (con<br />

note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con note di Danilo Mandolini e Adelelmo Ruggieri),<br />

Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De Lea, Evelina De Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva Taylor. Collage<br />

Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di Sauro Marini e di un’opera di Adriano Spatola.<br />

ARCIPELAGO itaca sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione dell’assegnazione del<br />

Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di Ferruccio Benzoni (con un articolo di Francesco Magnani, un’intervista<br />

all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina Babino (con una nota di Danilo Mandolini),<br />

Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di opere di<br />

Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca.<br />

ARCIPELAGO itaca settima apparizione. Un ricordo di Giovanni Giudici (con brani da una nota commemorativa di Goffredo Fofi),<br />

Alessandro Moscè (con una nota di Danilo Mandolini), Marco Ercolani, Fabio Franzin, Mariangela Guàtteri e Annalisa Teodorani.<br />

Inedito di Giovanni Commare. Collage William Butler Yeats. Riproduzioni di immagini di Mario Giacomelli.<br />

Per effettuare il download delle ultime apparizioni di ARCIPELAGO itaca: www.arcipelagoitaca.it/download.<br />

Per ricevere, a ½ e-mail, tutte le apparizioni di ARCIPELAGO itaca, inoltrare relativa richiesta a info@arcipelagoitaca.it.


Quando ti metterai in viaggio per <strong>Itaca</strong><br />

devi augurarti che la strada sia lunga<br />

fertile in avventure e in esperienze.<br />

Costantino Kavafis, <strong>Itaca</strong>


La piccola immagine in basso a destra nella seconda di copertina e in alto a sinistra nella terza di copertina raffigura la<br />

sagoma dell’isola di <strong>Itaca</strong>.<br />

Le note di Gio Ferri (68), Dario Capello (76) ed Alessio Franzin, figlio di Fabio, (116) sono, fino ad oggi, rimaste inedite.<br />

Guàtteri<br />

Ercolani<br />

Teodorani<br />

Mandolini<br />

Fofi<br />

Giacomelli<br />

Giudici<br />

Commare<br />

Moscè<br />

Yeats<br />

Franzin<br />

ARCIPELAGO itaca: Danilo Mandolini - Via Mons. D. Brizi, 4 - 60027 Osimo (AN).<br />

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