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Arcipelago Itaca 7

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Da Ricordo di Giovanni Giudici<br />

Di Goffredo Fofi<br />

«Benigno o no, lettore mio, / Come o quale tu sia stato, / Da amico voglio dirti addio. / Qualunque cosa abbia<br />

cercato / In queste strofe buttate là, / O di memorie un’ansietà, / O sollievo dalle fatiche, /Quadri vivi, parole<br />

ardite, / Qualche grammaticale errore, / Dio voglia che in questo libretto, / Per i tuoi sogni, per diletto, / Per<br />

recensioni, per il cuore, / Un granello abbia rinvenuto. / E qui ti lascio e ti saluto!».<br />

Sono i versi che compaiono alla fine dell’Eugenio Onieghin di Puškin, quelli con i quali Puškin si congedava dal suo<br />

lettore. La traduzione (del 1990, per Garzanti) è di Giovanni Giudici, il poeta ligure-milanese da poco scomparso,<br />

una traduzione che secondo Folena andava giudicata «come una poesia sua», di Giudici. E in effetti il colloquio di<br />

Giudici con Puškin ha dato origine a un’esperienza che sembrò, a chi leggeva l’Onieghin conoscendo la precedente<br />

versione di Lo Gatto in endecasillabi, una musica nuova, una riappropriazione della bellezza del verso grazie alla<br />

sua musicalità: cantabile era la poesia di Giudici, e cantabile quella originale di Puškin. Cantabile, ironica e<br />

autoironica, “facile” e “democratica” come facili e democratici sono i classici se riportati alla lingua comune<br />

quando questo è possibile, comune come lo era quando essi scrivevano, in una leggibilità liberata dalla pesante<br />

polvere del tempo.<br />

Giovanni Giudici è stato uno dei nostri maggiori poeti, di una stagione grande […]. La generazione è quella dei<br />

Sereni, dei Fortini, cresciuta tra Montale e Noventa, e nel caso di Giudici più Noventa che Montale. È la<br />

generazione che personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare da quando, richiamato in Italia da<br />

Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi per fare con loro i “Quaderni piacentini”, ho trovato tra i collaboratori più<br />

assidui della rivista Fortini e Sereni, Giudici e Zanzotto, Bandini, Raboni e Majorino. Con alterne vicende ne sono<br />

nate amicizie durature, fatte anche - per lo scalpitare della gioventù (arrivavo da Parigi forte di nouvelle vague e di<br />

nascente situazionismo, e mia base era la Torino dei “Quaderni rossi” e degli immigrati) - di occasionali scontri<br />

(soprattutto con Fortini, ovvio, e quasi sempre con grandi riaccostamenti) e di progressivi distacchi (da Raboni, il<br />

meno “aperto” di quel gruppo). Il poeta che più avevo amato prima di conoscerli era stato Sereni, concentrazione<br />

densa, non pacificata, ma quello di cui diventai più facilmente amico fu Giudici che, per aiutarmi nel mio<br />

inserimento milanese, mi faceva tradurre testi pubblicitari dal francese all’italiano e viceversa per l’Olivetti, per cui<br />

lavorava. Giudici mi voleva come suo collaboratore fisso, perché, nello stesso ufficio, avremmo potuto alternarci e<br />

prendere il nostro tempo, parlare di tutto, ma per farmi assumere dovevo prima passare da Ivrea. Un’amica mi ci<br />

accompagnò in macchina da Torino costringendomi a mettere giacca e cravatta del marito, e lì due simpatici<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

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