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Arcipelago Itaca 7

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Su Fabrica e Co’e man monche<br />

[…] Il disoccupato diventa l’immagine della “solitudine del cittadino globale”, vittima di poteri, di ragioni, di scopi a lui ignoti, dipendente, come<br />

i protagonisti dei romanzi di Kafka da un misterioso destino “non a misura d’uomo”, disperso su un pianeta, diventato improvvisamente opaco.<br />

Alla condizione di “sfruttato”, che pure conferiva identità, segue la condizione di “essere-per-il-nulla”, di individuo privo di progettualità, privo<br />

di valore umano, di capacità di incidere sulla produzione materiale e sulla relazione sentimentale, sfiduciato, inutile, inadeguato nei confronti<br />

del suo essere uomo, dell’essere padre, dell’essere marito, dell’essere cittadino, amico, parente … […] E il cittadino globale si sente, pertanto,<br />

straniero in patria, emigrante nella terra in cui è nato, «parché i ghe fa sparìr el domàn» («perché gli viene cancellato un futuro»). Questa è la<br />

vita, questa è la vera poesia. Si potrà discutere all’infinito di estetica, di poetica, di retorica, si potranno individuare le metafore evangeliche e le<br />

occorrenze lessicali, ma non si potrà mettere in dubbio che il lavoro di Franzin non nasce da elucubrazioni mentali, da progetti letterari; pulsa di<br />

tragedia; è poesia che nasce dal sangue, dalle lacrime, dal disfacimento di esistenze, dall’annullamento dell’individuo. Ci troviamo di fronte ad<br />

una lirica universale, perché non si lascia sedurre né da proclami politici e tanto meno da rivolte ideologiche; qui la tragedia germina sulla pelle<br />

di persone concrete, di luoghi reali, di situazioni palpabili. […]<br />

Giuliano Ladolfi, in “Atelier” n. 62, 2011<br />

* * *<br />

[…] Partiamo dunque dal titolo, ’E man, ‘Le mani’, che si presta a qualche ragionevole congettura sulla istintiva riarticolazione della tradizione<br />

letteraria della poetica di Franzin, che guarda, sì, senza nostalgie neometriciste, alle forme di una tradizione (da Giotti a Marin a Zanzotto…),<br />

com’è stato più volte appurato da altri attenti lettori (ricordo almeno Manuel Cohen e Edoardo Zuccato), e non perde i contatti con una lingua<br />

‘lirica’, che non significa patinata, se è vero che recupera, oltre le soglie di un immaginario standardizzato, una sua energia referenziale.<br />

Tornando al titolo, ne ’E man’ non è impossibile riascoltare la bella mano di Laura, trascorsa dal Canzoniere petrarchesco attraverso le ampie<br />

rotte della poesia cortigiana quattrocentesca (basti ricordare Giusto de’ Conti, che ne farà il nodo tematico della sua produzione di rime), lungo<br />

i molteplici rivoli del petrarchismo cinquecentesco. La bella mano dell’amata si riaffacciava, come l’elegante fantasma di un’epoca lontanissima,<br />

e non saprei quanto (e non mi pare sia necessario saperlo) casualmente, anche nel titolo rude intenso di Co’e man monche. Ma dal singolare al<br />

plurale, dalla sineddoche alla metafora, dalla ‘mano’ bianca e tersa di una donna irraggiungibile, persino intangibile, alle ‘mani’ sporche, sudate<br />

sulle presse, fra gli ingranaggi unti, offese e mutilate degli operai, insomma da un simbolismo smaterializzato a un realismo materialista, la<br />

poesia di Franzin mi sembra che realizzi pienamente un lungo percorso partito a Novecento inoltrato - per lo meno da Tre operai di Carlo<br />

Bernari - che legge nel nostro corpo non un destino ultraterreno, ma il segno di una distinzione di classe, di una condizione stigmatizzata dalla<br />

storia, come per esempio - si legga Na cica drio cheàlta pa - nei «calli» che hanno indurito la nostra sensibilità al mondo, o - pensiamo a Dopo<br />

dó mesi de cassa integrazhión - in quell’«eczema», in quel «prurito» che squama via la pelle, inchiodando le mani a un «vuoto» che trascende la<br />

diagnosi del dermatologo, la rassicurante esegesi degli effetti psicosomatici. Queste stesse mani che difendono il lavoro servono però a<br />

prendere l’eucarestia e a pregare un dio che non pare tanto trattenuto lontano dagli affari umani quanto perduto in qualche angolo<br />

dell’universo. È il dio del silenzio, scrive Franzin in Pan e paròe («Fàme saver se te son caro, / se te me tièn de cont, fàea / anca ti ’a tò part…»),<br />

che lascia il poeta in attesa, «co’e man / vèrte che la spète, al scuro, / co’e fete de chel pan. Za duro». Dal primo all’ultimo testo di questa<br />

silloge ci troviamo davanti a un personaggio che gesticola, afferra e lascia, cerca con le sue mani un modo per trattenere intorno a sé un mondo<br />

che sfugge, cambia direzione, ribalta le premesse, perde senso. Mani che lavorano e mollano pezzi … o grattano via dal corpo una bellezza …;<br />

mani che cercano di riavvolgere la fragile catena biologica delle generazioni, travolte, ovvero ‘stravolte’ da un succedersi slogato di esistenze<br />

che si incontrano solo nello spazio privato ma generoso di una pagina… […]<br />

Salvatore Ritrovato, in Guardando per terra - Voci della poesia contemporanea in dialetto, Lietocolle, 2011<br />

Fabio<br />

Franzin<br />

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