Arcipelago Itaca 7
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VETRINA<br />
Il talento<br />
della<br />
malattia<br />
di<br />
Alessandro<br />
Moscè<br />
33<br />
Lo strappo non era solo nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Cambiava la voce, che divenne rauca,e il<br />
corpo, con la prima peluria addosso. Le ascelle sudate emanavano una puzza di acido. A un’età critica si<br />
aggiungeva l’imprevisto, arrogante come la voce del signor Paolucci che mi costringeva a fare le ripetute per<br />
un’ora. Entrai a far parte di un disordine che nasceva dentro di me. Non sempre bastava chiudere gli occhi e<br />
pensare ad altro. Mi aggrappavo alla sponda del letto, mi alzavo appena il sole sorgeva. Infilavo le ciabatte e<br />
andavo in bagno. Il bombolone si vedeva a occhio nudo. Orinavo, sperando che l’uscita del liquido sgonfiasse<br />
la pancia. Ma dopo aver finito, dopo aver tirato lo sciacquone, giungeva l’ennesima delusione. Sentivo delle<br />
fitte all’addome, come se non riuscissi più a contenere quell’involucro che diventava sempre più duro. In<br />
punta di piedi camminavo sul pavimento e tornavo a letto avvolto da una vibrazione irregolare.<br />
Un pomeriggio, mentre mio padre e mia madre erano usciti per prendere un po’ d’aria, li spiavo dalla<br />
finestra. Sul marciapiede li vedevo piccoli e sentivo il loro vociare attutito. Lungo il marciapiede diventavano<br />
minuscoli, fino a che scomparivano dietro le fronde di un ippocastano mosso dal vento ombroso. Forse li stavo<br />
perdendo. Tacevo del bombolone sulla pancia, non potevo rattristarli. Dentro casa rimanevano i suoni dello<br />
speaker televisivo come tonfi, mentre lungo il corridoio le pareti sembravano guardarmi all’altezza del ventre.<br />
Non poteva essere la crescita ad aver fatto ingrossare quella strana protuberanza. Vagavo tra la sala e il<br />
soggiorno, toccavo la pancia, ritraevo le mani, come in un vortice senza fine, risucchiato da un mesto timore.<br />
Stavo mentendo ai miei genitori e non dovevo. Li divoravo con gli occhi senza vergogna, ma quando ero sul<br />
punto di confessare che sulla pancia era cresciuta una ciste, rinunciavo, scappavo. Un sottile velo arrossiva le<br />
guance, mi stringeva la gola e serrava le labbra. Le parole venivano annientate, dovevo respirare a pieni<br />
polmoni. Mi riempivo il naso dell’odore della casa, mi scostavo come un gatto dalla cucina, riconoscevo<br />
l’errore e implodevo nella quiete.<br />
[…]<br />
*<br />
[…]<br />
Gennaro, di Napoli, subì l’amputazione della gamba destra. Quando tornò a casa, l’ultima volta, arrotolò il<br />
pantalone dei jeans fin sotto l’anca e lasciò una scarpa nell’armadio.<br />
- Tanto non mi serve più - diceva facendo spallucce e saltellando con le stampelle in mano.<br />
Renzo morì. Aveva il male alla colonna vertebrale. Era grassottello, rosso di capelli. Nel giro di due