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Arcipelago Itaca 7

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Da Ricordo di Giovanni Giudici<br />

laureati di Harvard mi fecero un colloquio al quale, credo, risposi con un candore per loro inatteso («Perché<br />

l’Olivetti?» «Perché sono disoccupato»). Dopo il colloquio, mi dissero che Volponi, direttore del personale, voleva<br />

conoscermi e mi accompagnarono da lui, che mi accolse espansivo, contento perché, essendo lui di Urbino e io di<br />

Gubbio, antica colonia dei Montefeltro, parlavamo un dialetto vicino ed eravamo cresciuti sullo stesso sfondo<br />

appenninico e contadino (ed entrambi, scoprimmo, conoscevamo assai bene per motivi di famiglia il mondo<br />

operaio delle fornaci di laterizi). Tornato a Milano, seppi da Giovanni che Volponi mi voleva a Ivrea, «per annoiarsi<br />

di meno a fare il dirigente» aggiunse Giovanni, ma io proprio non me la sentii: ero tornato in Italia da poco, ero<br />

infervorato dal progetto dei “Quaderni” e preferii il precariato milanese alla sicurezza eporediese, ma intanto<br />

l’amicizia con Giovanni si era consolidata, ed è continuata fino a quando la malattia non lo ha chiuso<br />

nell’incoscienza già molti anni fa, mentre quella con Paolo e sua moglie Giovina nacque più tardi, quando anche<br />

loro si fecero milanesi, una volta chiusa per sempre la grande stagione olivettiana.<br />

Giovanni amava la sincerità, e non nascondeva a nessuno degli amici i propri dilemmi e le scoperte, pubbliche e<br />

private. C’era in lui una forma di narcisismo sottile, che cercava complicità e condivisione, e la sua capacità di<br />

auto-ironia lo portava fin quasi all’auto-denigrazione su quelli che riteneva suoi difetti (da confessione cattolica e<br />

però pubblica, di chi tollera e si tollera nella comune coscienza dei limiti dell’umano, dell’imperfezione di tutti).<br />

Questa era una caratteristica del tutto insolita nell’ambiente culturale del tempo, che lo faceva resistere assai<br />

bene all’austerità fortiniana e che mi servì forse di modello per resistervi anch’io.<br />

Era infatti Fortini («sant’uomo, ma che pazienza!» diceva Grazia, citando Manzoni) un punto di riferimento per<br />

tutti, tra poesia e politica, di cui mi rendo conto oggi perché ci fosse così indispensabile. Giovanni era il contrario<br />

di Fortini (e che io chiami per nome l’uno e per cognome l’altro, anche se ho forse frequentato di più il secondo,<br />

vuol dire qualcosa...) ma a me sembrava che Giovanni fosse il più forte, perché sapeva andar d’accordo col suo<br />

super-io, accettando (ancora una volta, cattolicamente) i propri limiti, fidando nelle possibilità dell’uomo di<br />

cambiare qualcosa, perlomeno in quella precisa epoca storica che prometteva grandi cambiamenti, ma non<br />

trovandosi affatto spaesato e sconcertato più tardi di fronte al fallimento di quella promessa. Erano stati entrambi<br />

molto toccati, per esempio, e non solo loro, da Esperienze pastorali e da Lettera a una professoressa.<br />

Collaborò assiduamente con poesie, testi e consigli al lavoro di “Linea d’ombra”, negli infelici e ottusi anni ottanta<br />

della sconfitta, gli anni di Craxi e del nascente berlusconismo, e più tardi fu tra i sostenitori di “La Terra vista dalla<br />

Luna” (nel primo numero vi comparvero le poesie bene auguranti degli amici Zanzotto, Bandini, Giudici, Carmelo<br />

Bene e Amelia Rosselli, probabilmente l’ultima che ella scrisse) e quando fece 79 anni ci donò, per “Lo straniero”,<br />

Giovanni<br />

Giudici<br />

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