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Arcipelago Itaca 7

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Su Sòta la guaza<br />

all’essenziale. Ma di una pratica di sottrazione, risente la sintassi, in genere piana, elementare, eppure caratterizzata da frequenti salti o<br />

cortocircuiti di senso (pregrammaticali, quasi di oralità) favoriti dal ricorso a un immaginario vegetale e animale. Di un millimetrico continuare<br />

‘a levare’, d’altro canto, ci dicono gli stessi testi, e particolarmente rivelatore è Paróli, Parole, che ricorda, per l’esercizio di pazienza e<br />

caparbietà, la laboriosità parsimoniosa di una civiltà contadina: A campémm sparagnénd. / I dói che al tartaréughi / a l chémpa una màsa<br />

perché li n zcòr, Viviamo risparmiando. / Dicono che le tartarughe / campano molto perché non parlano.<br />

Soffermandomi ancora sugli apparati di paratesto, e prima di entrare nel libro, una ulteriore spia è nei titoli delle raccolte, che fanno a vario<br />

grado riferimento a ricognizioni minime, a realtà marginali o ad attitudini secondarie: spie programmatiche di un orizzonte di riferimento che<br />

passa per strade non affollate, che ignora una dimensione metropolitana, (nessuna traccia di frequentazioni di città) ed evita l’avvitamento a<br />

grandi temi. In altre parole, già nei titoli è possibile cogliere l’attitudine a una humilitas, l’aderenza a un humus, un tenersi bassa, un osservare e<br />

dire le cose con pensieri e immagini quanto più vicini all’oggetto, o alla sua idea, un argomentare il proprio sentire con una lingua che ha per<br />

habitus l’understatement, in un procedimento di rastremazione e fine lima che producono una lingua basica, priva di compiacimenti, e non<br />

esibita. Si deve a Gianfranco Miro Gori, nella recensione a Par senza gnént (“Il corriere di Romagna”, giovedì 6 gennaio 2000) il richiamo alle<br />

«humiles myricae, i bassi tamerischi, che Pascoli - per citare un poeta vicino a noi nel tempo e nello spazio - riprese da Virgilio; alle cose e alle<br />

persone da poco; agli episodi minori o comunque non degni di Storia».<br />

Ma è la stessa Teodorani, invitata a dare una testimonianza su Giuliana Rocchi, a dirci nella doppia rivelazione della scoperta decisiva della<br />

poesia della sua concittadina e della natura della sua propria: «Nella casa dove trascorrevo gran parte dei miei pomeriggi di svago e presso cui<br />

Giuliana godeva di grande stima, quelle poche righe scritte in quella strana grafia (- o’ vést che t’avivi ti occ una févra lizìra, ho visto che avevi<br />

negli occhi una febbre leggera -, n.d.r.) mi incuriosivano e mi contrariavano allo stesso tempo. Non capivo bene che senso avessero eppure<br />

esercitavano su di me un fascino antico. La presa di coscienza di una grafia dialettale mi rese consapevole di quanto io fossi immersa in quella<br />

realtà umile e proletaria che sola si esprimeva attraverso il dialetto ma ne divenni anche profondamente gelosa. Mi infastidivano l’incoerenza e<br />

lo snobismo di chi cercava il dialetto scritto come un vezzo, decidendo razionalmente di non parlarlo quando ce l’aveva dentro, prendendo<br />

dunque a schiaffi la mia storia personale che sola passava attraverso quel buco, permettendosi di correggere, come già faceva la maestra delle<br />

elementari, le mie storpiature dialettali della lingua italiana» (Annalisa Teodorani, «E’ bén dabon»: il mio ricordo di Giuliana Rocchi, “Il parlar<br />

franco”, anno VII, n. 7, 2007, pp. 27-28).<br />

Anche in sede critica, a conferma delle parole della nostra, nella recensione di Caterina Camporesi (Par senza gnént, “Il parlar franco”, anno II,<br />

n. 2, 2002, pp. 135-136) e nell’intervento di Gianfranco Lauretano (La giovane speranza del dialetto, “Il parlar franco”, anno IV, n. 4, 2004, pp.<br />

116-118) è presente il richiamo alla Rocchi e a una ‘matrice popolare’. Mentre Andrea Brigliadori nella sua prefazione (cit.) accenna a un<br />

‘battito’ che si confonde ‘col ritmo collettivo della vita delle Contrade’.<br />

Si deve comunque a Gianni Fucci, primo grande lettore e sostenitore della Teodorani, l’aver segnato un solco critico, e un viatico, nella lettura<br />

della giovane voce. Nella introduzione al primo libro della nostra, la perizia del poeta romagnolo evidenzia, tra i molti rilievi, il portato popolare<br />

e ‘rurale della sua lingua: «Il suo è un santarcangiolese dalle sonorità più aspre dovute a lemmi e dittonghi arcaici di ascendenza rurale, in un<br />

contado che si può localizzare nel tratto di territorio comunale situato attorno al fiume Uso, con le frazioni di Canonica, Stradone-Gessi,<br />

Montalbano e Ciola Corniale che, rispetto a quello degli altri santarcangiolesi citati (Tonino Guerra, Lello Baldini, Nino Pedretti, Giuliana Rocchi,<br />

lo stesso Fucci, ndr.) attesta, in riferimento ai dittonghi: zantóil per zantéil (gentile), aróiva per aréiva (arriva)…» facendo seguire un lungo<br />

elenco di variazioni nella dittongazione, come pure la varietà nei lemmi.<br />

Grazie a Gianni Fucci che ha fornito le coordinate, è più agevole comprendere Annalisa Teodorani nelle sue scelte linguistiche, e pure nei suoi<br />

addentellati<br />

Annalisa<br />

Teodorani<br />

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