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Arcipelago Itaca 7

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Dalle opere di narrativa<br />

Marco<br />

Ercolani<br />

50<br />

Da Il tempo di Perseo, 2004<br />

10,5<br />

Talvolta, se la terra del sentiero è intatta, si accanisce, contro ogni prova di realtà, a inventare orme, sapendo che un<br />

giorno alla sua fantasia che un omicida si aggiri nel bosco risponderanno i piedi reali dell’assassino, calcati in quelle<br />

orme come guanti nelle dita.<br />

Ogni follia è un privato schema di verità a cui non si possono opporre alternative. Supporre un’analogia tra allucinazioni<br />

e immagini in libertà è ingenuo. Non è la libertà di immaginare che caratterizza il delirio ma tumori di immagini, che<br />

occupano spazio nella mente.<br />

L’esistenza umana si fonda sul bisogno di un forma plastica, vivente: nel momento della patologia o domina un rituale<br />

ossessivo, che irrigidisce, o un’idea delirante, che ne frantuma i confini.<br />

Un tempo voleva, con lo strumento della lingua, sperimentare le macerie del mondo. Poi capì che non aveva senso<br />

aggiungere violenza a violenza, che smembrare il tessuto fonetico per definire lo scempio di un corpo non era scandalo<br />

ma illustrazione. Allora comprese che ogni distruzione corrispondeva sempre, nel pensiero, una possibile ricreazione -<br />

parallela, obliqua, diversa.<br />

Come una gomma, la fantasia cancella il sogno precedente e aggiunge quello successivo. L’universo diventa di creta, di<br />

cera, si trasforma in un gioco che le dita possono plasmare, cambiare, distruggere. Ma la straordinaria leggerezza del<br />

gioco frana nel momento in cui una realtà inamovibile ci mette con le spalle al muro; e allora, delusi dalla nostra<br />

impotenza, desideriamo la morte. Non possiamo sostituire l’amico scomparso con un fantasma; né ricostruire libri e<br />

manoscritti che il fuoco ha incenerito; né reinventare le carezze che durante la notte ci facevano rabbrividire. Per cui, o<br />

cominciamo a vivere partendo da quelle macerie o ci togliamo la vita.<br />

Da Taala, 2004<br />

* * *<br />

Che cos'era Taala? È questo che mi chiedi? Era una città di cristallo e di pietra, di titanio e d'acciaio, fatta di leghe<br />

leggere, impensabili, mobili, sempre sul punto di slacciarsi, di vacillare, di afflosciarsi al suolo o di salire in volo,<br />

ondeggiare, farsi portar via dal vento. I muri delle case hanno angoli curvi. Non c'è riparo, a Taala, non un muro che<br />

difenda, una linea verticale, nessuna intimità. Tutto è scollato, aperto, eppure resta in piedi... La pietra, di notte, è un<br />

rifugio caldo. Ma, di giorno, è fredda, è uno specchio che paralizza... Qui cosa c'è? Delle sbarre? Una cella? Un ospedale?<br />

Ma se sapessi quante volte la città ci ha mostrato le facce più strane! Non è certo oggi la prima volta. Ricordo un

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