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Arcipelago Itaca 7

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«I giovani come Giacomelli, nutriti da uno stile asciutto e castigato, hanno inteso immediatamente la caducità, la<br />

friabilità, di questo orecchiato Neo-realismo (…) hanno voluto approfondire il loro linguaggio espressivo, allo scopo di<br />

esulare dal campo - così schematico e convenzionale - della realtà, per toccare quello della verità. Una verità loro, però,<br />

non imposta da mode, da maniere altrui (…) Giacomelli non è un formalista (…) Il fotografo di Senigallia ha uno stile, il<br />

che significa che ha un proprio linguaggio e dunque un messaggio da comunicare al pubblico. Tale messaggio è tutt'altro<br />

che sradicato dalla realtà, dalla verità umana. Si pensi al magnifico reportage Vita d'ospizio: il più crudo, il più lancinante<br />

messaggio di pietà che la nostra fotografia ci abbia mai dato. Si pensi ai suoi nudi, non edonistici, non decorativi, non<br />

estetizzanti a quella maniera paesana e volgare che tanto disprezziamo: nudi che entrano nel mistero e nell'angoscia del<br />

sesso e comunicano una verità universale, insopprimibile: quella della tristezza, della gioiosa tristezza della carne. Si<br />

pensi, infine, alla purezza delle sue nature morte, al fulgido incanto dei suoi paesaggi. Questo è formalismo? Signori qui<br />

si vede male, anzi non si vede addirittura. Forse perché si è incapaci di cogliere la poesia di queste immagini. Poesia che<br />

esula anche dai confini - così tecnicistici, talora - della fotografia. Lo diceva (…) un collaboratore (…) su queste colonne:<br />

Giacomelli è un "caso" che poco ha da spartire con la fotografia. Un autore che penetra nel campo dell'espressione<br />

artistica, diremmo, in piena regola, con uno stile suo, inconfondibile, lirico (…) Giacomelli ha la stoffa del fotografo<br />

classico; il documento è trascurato per assumere classico; poi un senso profondo, vastissimo. Egli è pure uno dei pochi fotografi che abbia qualcosa da esprimere e che<br />

l'esprima con sentimenti suoi, e con uno stile personale (…) ecco dunque un vero artista della fotografia, le cui immagini non invecchieranno e figureranno benissimo<br />

in un volume - ancora da scrivere, purtroppo - dell'espressione fotografica, in Italia e all'estero.».<br />

Giuseppe Turroni, "Photo Magazin“, per la mostra alla biblioteca comunale di Milano, 1959.<br />

* * *<br />

«Vita d'ospizio. Ecco senza dubbio il vertice dell'esposizione. Questo servizio su uno ospizio di vecchi mette in valore tutto il genio di Mario Giacomelli. È per mezzo<br />

della poesia che il fotografo ha scavato il muro della desolazione e della solitudine, è per mezzo della comunicazione e un filo di delirio che egli ha penetrato questi<br />

esseri strappati alla vita attiva, alle speranze, all'avvenire (… ) ed è per questo che occorre ricordare l'esposizione di Giacomelli, il realismo reinventato dagli italiani<br />

verso l'anno 1944, si è a poco a poco, trasformato, grazie a dei cineasti come Rossellini o Visconti e a certi fotografi, in una conquista del reale.».<br />

S. Manbel, “Giovane fotografia”, per la mostra allo studio 28 di Parigi, 1962.<br />

* * *<br />

«L'intervento del suo occhio, del suo occhio-obbiettivo, scompone tutte le pianificazioni dell'abitudine, procede ad una rilettura del reale rivelandone una insospettata<br />

pregnanza di sensi riposti (…) infinite possibilità di trasformazione che sono insite negli oggetti quando essi sono veramente "visti", cioè focalizzati come fenomeni<br />

puri, insieme di facoltà sensoriali, al di là del loro uso pragmatico, della loro capacità di orientare i nostri comportamenti (…) l'obbiettivo (…) non più strumento per<br />

restituire una realtà esatta, addomesticata per i nostri bisogni, ma strumento per "obbiettare" autenticamente la realtà, gettarla di fronte, distanziarla e riceverla<br />

come sensibilità assoluta. Proviamo a fare un piccolo inventario delle metamorfosi, attingendole a quel grande tema-chiave di Giacomelli che si potrebbe definire della<br />

"terra desolata": le righe tracciate dalle spighe di un campo di grano diventano fili di una strana sostanza lanosa; la terra diventa un’insospettata materia lavica,<br />

pumicea o di altro indefinibile tessuto corroso e spumoso; un disegno nella neve diventa una improbabile radiografia della terra, la struttura di una foglia, o altro<br />

ancora. Questo potere d'intervenire sulla natura è così drastico e dittatoriale da mettere persino in discussione la natura stessa della fotografia, quello che si dice il suo<br />

specifico e che ha i suoi parametri nella lezione dei grandi reporter come Capa e Cartier-Bresson; i quali potrebbero apparire persino deludenti nel loro progetto di<br />

bloccare l'esistente dentro il tempo; mentre per un fotografo come Giacomelli, col suo prepotente istinto figurativo, si tratta di bloccare forme assolute fuori dal<br />

tempo.»<br />

Sandro Genovali, Un artista senigalliese: Mario Giacomelli, “Controvento”, 1978.

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