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RIASSUNTO DE “I PROMESSI SPOSI” - brunocamaioni.com

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Bruno Camaioni<br />

<strong>RIASSUNTO</strong> <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />

di Alessandro Manzoni<br />

con <strong>com</strong>mento estetico e morale


Anagogica<br />

Opere di Bruno Camaioni<br />

Notizie sull'autore<br />

Bruno Camaioni è nato a Grottammare (AP) nel 1917, si è laureato in Lettere<br />

all'Università di Roma nel 1940, ha insegnato in varie città italiane, ed era preside<br />

di un liceo classico quando è andato in pensione. Ha scritto diverse opere (poesie,<br />

romanzi, studi sul Manzoni, opuscoli su argomenti religiosi ecc.) che non ha mai<br />

pubblicato, facendole circolare solo tra parenti, amici e conoscenti.<br />

Uno di costoro, ritenendo che esse siano interessanti e anche formative per i<br />

valori che inculcano, ha preso l'iniziativa di metterle man mano in rete, affinché<br />

chiunque le possa leggere liberamente e senza spese.<br />

Solo la sua autobiografia, scritta per insistenza dei figli, non sarà per ora resa<br />

nota, per ovvi motivi di discrezione. Dopo la sua morte anch'essa sarà messa in<br />

rete, per chi vorrà conoscere meglio quest'uomo che intendeva restare ignorato.<br />

Note sul diritto d'autore<br />

Delle opere pubblicate di Bruno Camaioni ne è consentita la copia e la<br />

distribuzione gratuita, su qualsiasi supporto, preservandone l'integrità (inclusa la<br />

presente dicitura) e citandone l'autore.<br />

Opere attualmente disponibili in rete (anche attraverso eMule):<br />

• Il Problema del Male - Riflessioni<br />

• Eremita a Orgosolo - Romanzo<br />

• L'Aiuola Contesa - Romanzo<br />

• Riassunto de "I Promessi Sposi" - Riassunto con <strong>com</strong>mento estetico e<br />

morale (*)<br />

• I Personaggi de' "I Promessi Sposi" (*)<br />

Opere depositate ad aprile 2005 e novembre 2005 (*).<br />

2


<strong>RIASSUNTO</strong> <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />

di Alessandro Manzoni<br />

con <strong>com</strong>mento estetico e morale<br />

II Edizione riveduta e corretta<br />

Giugno 2005<br />

3


PREFAZIONE<br />

Questo libro è nato nella scuola e mira a essere utile soprattutto agli studenti;<br />

ciò non esclude che esso possa riuscire vantaggioso a tutti coloro che vogliano<br />

approfondire la loro conoscenza del romanzo, il quale è ormai universalmente<br />

riconosciuto, oltre che opera sublime di poesia, anche autorevole testo di lingua e<br />

libro di riflessione morale e religiosa, e quindi mezzo di arricchimento spirituale<br />

e di formazione interiore; la mia opera mira a facilitare a studenti e a non<br />

studenti la lettura e il godimento del capolavoro manzoniano, di <strong>com</strong>prensione<br />

non facile per chi non abbia un po’ di cultura.<br />

Una lettura attenta del romanzo vale ad aprire le menti, specie dei giovanetti,<br />

ai seri problemi dell’esistenza, e a infondere nel loro animo il concetto che la vita<br />

è per tutti un impegno che va preso con fiducia , ma anche con alto senso di<br />

responsabilità.<br />

Il Manzoni in quest’opera ci ha dato la risposta cristiana al problema della<br />

vita e del dolore umano, il quale viene interpretato religiosamente <strong>com</strong>e mezzo di<br />

purificazione e di intima elevazione. E questa concezione cristiana della vita<br />

l’Autore non ce la inculca per mezzo di esortazioni oratorie, ma con la forza<br />

misteriosa che si sprigiona dall’intreccio, dai personaggi e dagli episodi, pervasi<br />

da un potente afflato poetico e religioso.<br />

Sic<strong>com</strong>e il libro vuol riuscire utile innanzi tutto agli studenti, di ogni capitolo<br />

si è fatto un sunto breve ma sufficiente per avere un’idea adeguata di tutta la<br />

trama; al sunto è intercalato, dove occorre, un sobrio <strong>com</strong>mento critico, di<br />

carattere estetico, storico e morale, allo scopo di mettere in risalto le peculiari<br />

bellezze del romanzo, e anche (perché no?) notare qualche punto meno felice,<br />

poiché non si pretenderà davvero che in tutta l’opera il Manzoni tocchi<br />

invariabilmente le vette della poesia o anche solamente dell’arte. Fu detto che<br />

anche l’ottimo Omero qualche volta sonnecchia; lo stesso può dirsi del Nostro, e<br />

questa ammissione non toglie nulla alla sua grandezza, da tutti oggi riconosciuta.<br />

Naturalmente questi riassunti non mirano affatto a sostituire la lettura del<br />

capolavoro, indulgendo alla pigrizia mentale di qualche studente, ma solo a<br />

guidare lo studio del romanzo, allo scopo di renderlo, sì, più facile, ma anche più<br />

profondo e perciò più proficuo.<br />

A me basta la soddisfazione di aver fatto opera utile e, forse, anche di aver<br />

detto qualcosa di nuovo nel vasto e rigoglioso campo dell’esegesi manzoniana.<br />

Ma questo vedrà chi vorrà dedicare alla mia fatica uno sguardo non frettoloso.<br />

Voglio sperare che ciò avvenga.<br />

4


VITA E OPERE DI ALESSANDRO MANZONI<br />

Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal conte Pietro e da<br />

Giulia Beccarla, figlia di Cesare Beccarla, famoso illuminista italiano, autore del<br />

celebre trattato “Dei delitti e delle pene”, con cui demolì i pregiudizi giuridici e<br />

psicologici che erano alla base della tortura e della pena di morte. Il matrimonio<br />

dei genitori non era stato felice, anche perché il padre era più anziano della madre<br />

di ben 25 anni, e più ancora per l’in<strong>com</strong>patibilità dei due caratteri: il padre, uomo<br />

pacifico, amava la vita ritirata e la quiete della campagna, mentre la madre, donna<br />

molto intelligente e irrequieta, desiderava brillare nei salotti mondani della<br />

capitale lombarda. Perciò Alessandro fu messo in collegio sin dal 1791, prima a<br />

Merate presso i Padri Somaschi, dove restò fino al 1796, quindi a Lugano (Canton<br />

Ticino) presso il Collegio S.Antonio, tenuto anch’esso dagli stessi religiosi. Il<br />

ragazzo passò quivi due anni, poi altri tre a Milano, nel Collegio Longone (o dei<br />

nobili), tenuto dai Padri Barnabiti.<br />

Nel 1801 Alessandro uscì definitivamente dal collegio e visse a Milano,<br />

affidato alle cure di una zia, mentre la madre, separata legalmente dal marito sin<br />

dal 1792, era andata a convivere a Parigi col conte Carlo Imbonati; il padre poi<br />

viveva preferibilmente in villa, <strong>com</strong>e allora si diceva, e si curava poco<br />

dell’educazione del figlio. Questi, a Milano, frequentò soprattutto Francesco Lo<br />

Monaco, Vincenzo Cuoco e il Monti, ma si diede anche al gioco, dal quale fu poi<br />

allontanato dal Monti, che egli ammirava moltissimo.<br />

Nel 1801 il giovinetto <strong>com</strong>pone il “Trionfo della Libertà”, poemetto di quattro<br />

canti in terzine, dedicato appunto al Monti. Il sedicenne poeta, fervido di spiriti<br />

rivoluzionari, si scaglia in esso contro i tiranni (il Pontefice in Roma, i Borboni a<br />

Napoli e in Sicilia ecc.) e contro la superstizione che è il principale puntello della<br />

tirannide.<br />

Tra il 1803 e il 1804 <strong>com</strong>pone quattro “Sermoni” in versi sciolti, nei quali<br />

satireggia la corruzione contemporanea, la goffa albagia dei nuovi arricchiti, la<br />

smania dilagante di <strong>com</strong>porre versi, indice di decadimento del gusto. Queste<br />

satire, anche se rozze, già mostrano nel giovane diciannovenne l’interesse per i<br />

problemi morali e una certa serietà di intenti.<br />

Nello stesso anno 1803 <strong>com</strong>pone l”Adda”, una specie di epistola metrica,<br />

indirizzata al Monti, in cui lo stesso fiume Adda personificato si rivolge al<br />

“Cantor di Basville”, invitandolo a soggiornare sulle sue rive, dove era appunto<br />

situata la villa del Manzoni, nei pressi di Lecco. Dall’ottobre 1803 al marzo<br />

successivo il Poeta soggiorna a Venezia, dove si innamora di una donna più<br />

anziana di lui, la quale saggiamente lo invita a riprendere gli studi.<br />

Nel 1805 morì a Parigi il conte Carlo Imbonati, lasciando erede universale dei<br />

propri beni la madre di Alessandro, la quale ac<strong>com</strong>pagnò in Italia le ceneri del<br />

Conte, ma tornò ben presto a Parigi, portando questa volta con sé il figlio, che<br />

5


iniziò, per così dire, una nuova vita nella “città dei lumi”, accanto alla diletta<br />

madre.<br />

Alla madre dedica il carme consolatorio <strong>“I</strong>n morte di Carlo Imbonati”, scritto<br />

verso la fine del 1805 e pubblicato a Parigi l’anno successivo, nel quale<br />

immagina che il morto Conte (già cantato a 11 anni dal Parini nell’ode<br />

“L’Educazione”) gli appaia in una visione notturna e lo esorti ad amare la poesia e<br />

ad apprezzare soprattutto la dignità morale. In questo carme non c’è ancora vera<br />

poesia, ma già si sente un anelito morale che prelude alle opere maggiori.<br />

Il 17 marzo del 1807 muore a Milano il padre, ed egli giunge troppo tardi per<br />

raccoglierne l’ultimo respiro; l’anno successivo, il 6 febbraio, sposa a Milano<br />

Enrichetta Blondel, non ancor diciassettenne, di famiglia protestante di Ginevra,<br />

per cui il matrimonio viene celebrato secondo il rito calvinista. Quindi gli sposi si<br />

recano a Parigi, dove nasce la primogenita Giulia (che andrà poi sposa a Massimo<br />

D’Azeglio), prima di ben nove 1 figli, di cui però solo due, Enrico e Vittoria,<br />

sopravvivranno al padre.<br />

A Parigi il Manzoni conobbe e frequentò gli uomini più illustri di quel tempo,<br />

e si legò in intima amicizia con Claudio Fauriel, insigne storico e letterato, il quale<br />

ebbe grande importanza nella sua formazione storica, critica e artistica.<br />

Il 1810 è l’anno della cosiddetta conversione del Manzoni, che è trascinato<br />

dall’esempio della moglie, la quale aveva abiurato il Calvinismo per abbracciare il<br />

Cattolicesimo; in seguito a ciò il matrimonio dei giovanissimi coniugi fu<br />

ricelebrato secondo il rito cattolico. Non è forse ozioso osservare che la<br />

primogenita Giulia, nata nel dicembre del 1808, era stata battezzata nella Chiesa<br />

cattolica; ciò vuol dire che sin dalla fine di quell’anno qualcosa stava maturando<br />

in casa Manzoni nei riguardi della religione.<br />

Nell’agosto del 1810 il Manzoni torna definitivamente a Milano, e lascia nella<br />

metropoli francese quell’aria di scetticismo e di razionalismo che vi aveva per<br />

tanti anni respirato. Da questo anno in poi tutta la produzione letteraria del Nostro,<br />

<strong>com</strong>e anche la sua vita privata, sarà ispirata a un profondo convincimento<br />

religioso.<br />

Diamo perciò uno sguardo alla produzione poetica anteriore al 1810, per citare<br />

quelle opere cui non abbiamo ancora accennato. Ricordiamo innanzi tutto i<br />

sonetti: “Ritratto di sé stesso” (1801) che ci dà l’immagine fisica e morale del<br />

Manzoni sedicenne; “A Francesco Lo Monaco” (1801) in cui accenna alle<br />

dolorose vicende dell’esule lucano, suo amico, che era scampato per caso al<br />

supplizio, dopo aver preso parte alla rivoluzione napoletana del 1799; “Alla sua<br />

donna” (1802) in cui dichiara alla sua amata che, per lei, egli è divenuto schivo di<br />

ogni bassezza, per rendersi degno del “celeste e puro foco” che gli occhi di lei<br />

hanno acceso nel suo petto. Sic<strong>com</strong>e siamo sicuri della data di <strong>com</strong>posizione di<br />

questo sonetto, esso non può essere stato ispirato dalla dama veneziana, <strong>com</strong>e<br />

1<br />

I figli di Enrichetta furono in realtà 10, se si conta una bambina, Luigia M.Vittoria, nata il 5-9-<br />

1811 e morta lo stesso giorno.<br />

6


pensa il De Gubernatis, ma da quell’angelica Luigina, giovinetta genovese, della<br />

quale Alessandro si innamorò appunto nel 1802, e per la quale serbò vivissimi<br />

sentimenti di devozione. Probabilmente per la stessa ragazza (sorella del marchese<br />

Ermes Visconti) il Manzoni scrisse un’ode, di cui si ignora la data (1804?), che<br />

<strong>com</strong>incia col verso: “ Qual su le Cinzie cime”. Sicuramente del 1802 è invece il<br />

sonetto “Alla Musa”, in cui all’imberbe poeta balena vivo il miraggio della gloria<br />

letteraria per cui egli formula l’augurio che, se non raggiungerà la cima e cadrà<br />

lungo l’erta, “Dicasi almen: Su l’orma propria ei giace!” Queste fiere parole<br />

vennero poi riportate tali e quali nel “Carme in morte di Carlo Imbonati “ al verso<br />

206. Con molta probabilità è del 1804 il “Frammento di un’ode alle Muse”, in cui<br />

il Poeta esprime ancora il suo anelito alla gloria poetica e letteraria, confessando<br />

che “nove fanciulle d’immortal bellezza” gli hanno preso il cuore, il quale però è<br />

ancora incerto chi di esse seguire, cioè a quale genere di poesia dedicarsi.<br />

Rimane da accennare al poemetto mitologico “Urania” (scritto a Parigi tra il<br />

1806 e il 1809, anno in cui fu pubblicato a Milano), ultima concessione del<br />

Manzoni al gusto classicheggiante e all’influsso del Monti. Il <strong>com</strong>ponimento, di<br />

stampo neoclassico, è di poco anteriore al poemetto “Le Grazie” del Foscolo, con<br />

il quale ha qualche identità di concetti. Attraverso le parole di consolazione che la<br />

musa Urania rivolge al poeta Pindaro, sconfortato per essere stato vinto nella gara<br />

olimpica dalla giovinetta Corinna, il Manzoni esalta la funzione civilizzatrice<br />

delle Grazie e delle Muse, volta a ingentilire i rozzi costumi degli uomini.<br />

L’Autore stesso era molto malcontento dei suoi versi, <strong>com</strong>e scrisse al Fauriel in<br />

data 6 settembre 1809, poiché essi mancavano di qualsiasi interesse; e confessava<br />

all’amico: “ne farò forse di peggiori, ma di uguali mai più.”<br />

Solo per scrupolo di <strong>com</strong>pletezza, accenniamo al carme in endecasillabi sciolti<br />

“A Parteneide” (1809 - 1810 ?) in cui, rispondendo al poeta danese Baggesen, il<br />

quale lo aveva invitato a tradurre in italiano il suo poema idillico in dodici canti,<br />

intitolato appunto “Parteneide”, scritto in tedesco e già tradotto in francese dal<br />

Fauriel, il Manzoni loda metaforicamente la bellezza dell’opera segnalatagli, ma<br />

si esime per il momento dall’accettare l’incarico, non ritenendosi ancora preparato<br />

a un siffatto lavoro, mentre altre opere incalzano nel suo spirito e urgono per<br />

venire alla luce. In effetti il Nostro, dopo il ritrovamento della Fede sincera, era<br />

tutto preso da un profondo travaglio interiore, e si sentiva tutt’altro che disposto a<br />

dar veste italiana a dei pensieri altrui ormai ben lontani dal suo nuovo sentire.<br />

Infatti dal 1810 al 1812 il Manzoni non scrive alcunché, tutto preso dal faticoso<br />

<strong>com</strong>pito, che egli sente <strong>com</strong>e un dovere morale, di rivedere tutta la sua cultura<br />

illuministica e neoclassica alla luce della sua nuova coscienza religiosa, illuminata<br />

da un Cattolicesimo puro e sereno, e nello stesso tempo severo e integrale. Egli<br />

anela a una poesia più viva e più vera, non mirante al solo diletto, proprio e altrui,<br />

ma a una presa di coscienza delle grandi verità della vita e della storia,<br />

dell’individuo e della società; egli però non trova subito la sua nuova strada,<br />

irretito <strong>com</strong>’è ancora dalla tradizione letteraria, dalla quale non riesce a liberarsi<br />

del tutto. Ma il travaglio interiore non tardò a dare i suoi frutti.<br />

7


Traendo appunto ispirazione dalla Fede, rifioritagli nel cuore fervida e pura, il<br />

Manzoni scrisse, tra il 1812 e il 1815, quattro “ Inni Sacri” in questo ordine: “La<br />

Risurrezione”, ”Il Nome di Maria”, <strong>“I</strong>l Natale”, “La Passione”; invece “La<br />

Pentecoste”, in cui l’Autore tocca la vetta della sua poesia religiosa, fu pubblicata<br />

nel 1822. Gli <strong>“I</strong>nni Sacri” avrebbero dovuto essere almeno dodici, a celebrazione<br />

delle principali feste religiose, ma il Nostro fece bene a non scriverne altri, poiché<br />

non avrebbe potuto far altro che ripetersi e decadere quindi da quella sublime<br />

vetta poetica toccata con “La Pentecoste”. Infatti, oltre questi cinque inni,<br />

abbiamo solo un frammento intitolato “L’Ognissanti” e un altro ancora sul<br />

“Natale” (del 1833) che evidentemente il Poeta voleva rifare, non soddisfatto della<br />

prima stesura; ma oramai la sua vena era esaurita ed egli non fece ulteriori<br />

tentativi in questo campo.<br />

Riguardo alla sua vita esteriore abbiamo ben poco da dire, poiché il Manzoni<br />

era alieno dalla vita pubblica, dalla quale lo stornava anche la sua malferma<br />

salute. Quindi c’è ben poco da ricordare, all’infuori delle date di nascita dei suoi<br />

numerosi figli, delle date di morte di ben sette tra essi, 2 della data di morte della<br />

sua diletta Enrichetta (25 dicembre 1833) e della seconda moglie, Teresa Borri<br />

vedova Stampa (1861) , che egli aveva sposato nel 1837. La vita del grande Poeta<br />

fu disseminata di lutti, tra cui la perdita dell’adorata madre (1841), tutti sopportati<br />

con cristiana rassegnazione. Pur così provato dal dolore, egli seguì sempre con<br />

intima trepidazione le sorti dell’amata Patria, che volle libera e indipendente;<br />

perciò nell’aprile del 1814 sottoscrisse la protesta dei Milanesi contro il Senato<br />

del Regno Italico, il quale voleva chiedere alle Potenze vittoriose su Napoleone<br />

l’elezione di Eugenio Beauharnais a re d’Italia, mentre il Manzoni e gli altri<br />

firmatari volevano che fossero convocati i <strong>com</strong>izi elettorali, soli rappresentanti<br />

legittimi della Nazione, perché decidessero la forma istituzionale dello Stato.<br />

Di questo periodo è la canzone “Aprile 1814” in cui, esprimendo un severo<br />

giudizio sul governo francese, fautore di libertà a parole ma di fatto oppressivo e<br />

predatore, auspica che le Potenze vincitrici ascoltino la voce degli autentici<br />

rappresentanti del popolo italiano, che anela alla libertà e all’indipendenza. Ma<br />

purtroppo i voti del Poeta non furono ascoltati in “alto loco”, ed egli, amareggiato<br />

per i tristi fatti che seguirono, non ebbe neppure l’animo di correggere e abbellire<br />

i suoi versi, i quali risentono in verità della tradizione classicheggiante e dei<br />

fremiti misogallici dell’Alfieri. Perciò la canzone può considerarsi un abbozzo<br />

piuttosto che un frammento.<br />

Nell’anno successivo grandi speranze il Manzoni ripose nel tentativo di<br />

Gioacchino Murat di unificare l’Italia contro le mire annessionistiche degli<br />

Austriaci; infatti abbiamo un frammento di canzone (5 aprile 1815) intitolata<br />

appunto <strong>“I</strong>l proclama di Rimini”: solo questo animoso principe, dice in sostanza<br />

l’Autore, può con l’aiuto di Dio ridurre a unità le disperse forze degli Italiani,<br />

2 I figli morti al Manzoni furono a rigore 10, se contiamo, oltre a Luigia M.Vittoria (per la quale<br />

v.nota a pag. 5), anche le due gemelle avute dalla seconda moglie, delle quali una nata morta,<br />

l’altra vissuta poche ore.<br />

8


<strong>com</strong>e fece Mosè con il popolo ebreo, poiché Dio stesso infonde ardore e forza in<br />

chi <strong>com</strong>batte per la libertà della sua terra. Ma purtroppo anche questa generosa<br />

speranza svanì in pochi giorni, e il frammento fu pubblicato solo nel 1848,<br />

assieme con l’ode “Marzo 1821”, la quale fu scritta in occasione dei moti<br />

piemontesi di quell’anno, che fecero sperare ai patrioti lombardi l’abolizione<br />

dell’odioso confine del Ticino e l’unificazione delle due regioni. Il fausto evento<br />

si verificherà solo nel 1848, ma purtroppo per pochi mesi, in seguito alla prima<br />

guerra dell’indipendenza nazionale.<br />

Prima di parlare delle tragedie, accenniamo a un <strong>com</strong>ponimento ironico,<br />

“L’ira di Apollo” , che il Manzoni scrisse, per sé e per gli amici, nel 1818,<br />

entrando nella polemica suscitata nel 1816 dalla pubblicazione della “Lettera<br />

semiseria di Crisostomo” di Giovanni Berchet, la quale costituì, per così dire, il<br />

“manifesto” del romanticismo milanese, cui aderiva il nostro Poeta. Egli<br />

immagina in quest’ode che Apollo scenda dal cielo, irritatissimo contro Milano<br />

che vuol distruggere; ma per fortuna il dio viene placato, con un linguaggio<br />

riboccante di mitologia, dal nostro Poeta che lo convince a punire solo il sacrilego<br />

Crisostomo; e la condanna sarà davvero terribile: gli sia eternamente interdetto<br />

l’uso della retorica e della mitologia classica! “Santi Numi, egli è spacciato!”<br />

esclama esterrefatto l’Autore, mentre sul volto del dio spunta il sorriso della<br />

vittoria.<br />

Dal 1816 al 1819 il Manzoni lavorò alla sua prima tragedia, <strong>“I</strong>l Conte di<br />

Carmagnola”, in endecasillabi sciolti, pubblicata a Milano nel 1820. In essa viene<br />

introdotto per la prima volta il coro (“La battaglia di Maclodio”), ben diverso da<br />

quello delle tragedie greche, in cui rappresentava un personaggio collettivo che<br />

recitava cantando e danzando, e interveniva anche nel dialogo; il coro manzoniano<br />

è il <strong>com</strong>mento lirico-morale dell’azione, da parte dell’Autore; un cantuccio dove<br />

egli possa parlare in persona propria per sfogare i suoi sentimenti, onde respingere<br />

meglio la tentazione di introdursi direttamente nell’azione e di prestare<br />

arbitrariamente i propri sentimenti ai vari personaggi, che egli invece si sforza di<br />

collocare in una prospettiva storica e il più possibile obbiettiva. La tragedia narra<br />

la drammatica vicenda del capitano di ventura Francesco Bussone, conte di<br />

Carmagnola, il quale dopo essere stato al servizio del Visconti passò al soldo dei<br />

Veneziani, sconfiggendo i Milanesi nella battaglia di Maclodio (1427); ma caduto<br />

in sospetto della Serenissima per aver liberato i prigionieri, fu arrestato e<br />

condannato a morte innocente, almeno per quanto pensa l’Autore. In questa<br />

tragedia il Poeta affronta il tema del dolore e dell’ingiustizia degli uomini, e dà a<br />

esso la soluzione cristiana della rassegnazione e del perdono: il Conte va incontro<br />

alla morte sereno, fidando in Dio, e con dolci parole d’amore inculca il sentimento<br />

del perdono nei cuori esacerbati della moglie e della figlia.<br />

Nel 1819 il Manzoni pubblica la prima parte delle “Osservazioni sulla morale<br />

cattolica” per confutare lo storico ginevrino Sismondi, il quale aveva attribuito<br />

alla morale cattolica la colpa della decadenza italiana. L’opera però non fu<br />

<strong>com</strong>pletata; solo nel 1855 l’Autore aggiunse una vasta appendice al capitolo terzo,<br />

9


col titolo:”Del sistema che fonda la morale sull’utilità” in cui confuta<br />

l’utilitarismo del filosofo inglese Bentham.<br />

Dal 1820 al 1822 il Poeta lavora alla <strong>com</strong>posizione della tragedia “Adelchi”,<br />

pubblicata a Milano nel 1822. L’argomento è tratto dal crollo del dominio<br />

longobardo in Italia per opera dei Franchi (anni 772 - 774). La rivalità politica tra<br />

Carlo, re dei Franchi, e Desiderio, re dei Longobardi, è inasprita dal ripudio, da<br />

parte del primo, della sposa Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi;<br />

Carlo scende in Italia, vince i Longobardi alle Chiuse di Val di Susa, insegue i<br />

fuggitivi tra la gioia degli oppressi Italiani. Ma il Poeta, nel primo coro (“Dagli<br />

atrii muscosi, dai fori cadenti”) li disillude, affermando che i Franchi non sono<br />

venuti a liberarli, ma a conquistare terre e sudditi: non potranno essere liberi, gli<br />

Italiani, se non quando impugneranno essi stessi le armi per operare il proprio<br />

riscatto. Mentre l’eroico Adelchi muore nel vano tentativo di difendere Verona<br />

(qui il Poeta si allontana dalla verità storica, perché Adelchi fuggì a<br />

Costantinopoli a implorare soccorso), l’infelice Ermengarda (o Desiderata) si<br />

spegne rasserenata nel convento, dove volontariamente si è chiusa per trovare<br />

pace al suo travaglio interiore, acuito dalla sempre viva passione amorosa.<br />

L’amore per Carlo, anche se misconosciuto e ferito dal superbo ripudio, non si è<br />

mai sopito nel suo animo tenero a appassionato, che pur tra le preghiere e i pii<br />

canti delle vergini torna con accorata nostalgia ai giorni felici passati a fianco di<br />

Carlo. Ma la fede in Dio le fa alfine dimenticare ogni affetto terreno<br />

nell’abbandono all’amore eterno di Dio. Nel secondo coro della tragedia (“Sparsa<br />

le trecce morbide” ) il Poeta ci rappresenta liricamente i sentimenti che<br />

travagliavano l’animo di Ermengarda, che “la provvida sventura” ascrisse tra<br />

quanti subiscono ingiustizie e violenze, per farla partecipe della salvezza eterna<br />

che Dio ha promesso agli umili e a quelli che soffrono per Lui. “L’Adelchi” è da<br />

tutti i critici riconosciuta tragedia meglio riuscita della precedente, sia per la trama<br />

più intensamente drammatica, sia per i caratteri più poeticamente efficaci e<br />

rilevati, sia per il sentimento religioso che più profondamente la pervade.<br />

Circa la vita esteriore del Manzoni, ricorderemo che nell’ottobre del 1819 egli<br />

si recò a Parigi con tutta la famiglia, sperando, con la mutazione del clima e delle<br />

condizioni di vita, un qualche giovamento ai disturbi nervosi che lo affliggevano,<br />

provocandogli delle vertigini, che l’obbligavano talora a passare intere giornate<br />

inoperoso; ma ritornò a Milano nell’agosto del 1820, non certamente guarito<br />

della sua nevrosi la quale lo tormentò per tutto il resto della vita. Un altro viaggio<br />

di tutta la famiglia Manzoni avvenne verso la metà di luglio del 1827, subito<br />

dopo la pubblicazione del romanzo: ne fu meta Firenze, dove voleva “risciacquare<br />

i suoi cenci nell’Arno”; e nel viaggio di andata passò per Genova.<br />

E ora diciamo poche parole sul capolavoro manzoniano, dando le notizie<br />

essenziali sulla sua <strong>com</strong>posizione e pubblicazione. Il Manzoni <strong>com</strong>incia a scrivere<br />

il romanzo il 24 aprile 1821 e lo conduce a <strong>com</strong>pimento il 17 settembre 1823; il<br />

manoscritto, che reca il titolo “Fermo e Lucia” , è dato a leggere a pochi amici<br />

intimi, tra cui il Grossi e il Fauriel. Verso la fine del 1824 il Manzoni inizia,<br />

presso la tipografia V.Ferrario di Milano (che aveva già stampato le due tragedie),<br />

10


la stampa del romanzo che intanto, durante la ricopiatura del manoscritto, aveva<br />

assunto il titolo “Gli Sposi Promessi”; ma questo titolo non resisterà fino al<br />

termine della stampa, che fu lunga e laboriosa, soprattutto perché l’Autore,<br />

insaziabile limatore della sua opera, apportava continue modifiche al testo anche<br />

sulle bozze di stampa. Sicché quando finalmente il romanzo vide la luce, nel<br />

giugno del 1827 (perciò questa prima edizione fu poi detta “ventisettana”), in tre<br />

tomi, con la data 1825-1827, aveva già sul frontespizio il glorioso titolo definitivo<br />

<strong>“I</strong> Promessi Sposi”.<br />

Ma <strong>com</strong>inciò quasi subito la correzione del romanzo, specialmente dal punto<br />

di vista linguistico, in preparazione di una seconda edizione dell’opera, cui<br />

prelude il viaggio a Firenze. Però solo nel 1840-42 fu pubblicata la seconda<br />

edizione del romanzo, in Milano, presso la tipografia Guglielmini-Radaelli, a<br />

fascicoli illustrati con disegni del Gonin, con aggiunta, in appendice, “La storia<br />

della colonna infame”, scritta nel 1829. Questa breve monografia rievoca la storia<br />

di un processo, celebrato durante la peste di Milano del 1630, contro due presunti<br />

untori, Guglielmo Piazza e Giangia<strong>com</strong>o Mora, i quali, sottoposti alla tortura, pur<br />

essendo innocenti, ammisero le accuse e furono perciò giustiziati; la casa del<br />

Mora venne demolita e sull’area rimasta libera fu eretta una colonna a eterna<br />

infamia del suo nome. Il Manzoni, con un’attenta disamina dei documenti<br />

processuali, perviene alla conclusione che, anche con i rozzi e inadeguati<br />

ordinamenti giudiziari del tempo, i giudici non potevano giungere alla condanna<br />

di due innocenti, se non fossero stati travolti dalla passione e dall’odio generale<br />

contro gli untori, da cui il loro giudizio fu traviato, rendendoli per così dire ciechi<br />

davanti alle evidenti prove dell’innocenza dei due imputati. Tanto sono funesti i<br />

pregiudizi uniti alle pressioni popolari!<br />

La famosa ode <strong>“I</strong>l cinque maggio 1821” fu <strong>com</strong>posta dal 17 al 19 luglio di<br />

quell’anno, cioè subito dopo la pubblicazione, fatta dalla “Gazzetta di Milano”il<br />

16 di quel mese, della notizia della morte di Napoleone, avvenuta a Sant’Elena<br />

appunto il 5 maggio 1821. Il Manzoni fu così colpito dalla notizia, che in meno di<br />

tre giorni <strong>com</strong>pose e corresse, senza più ritoccarla, questa poesia, che uscì per le<br />

stampe l’anno successivo a Lugano. Il Poeta immagina la vita del grande esule<br />

nella piccola isola sperduta nell’Atlantico: il Bonaparte è oppresso dai ricordi di<br />

una vita titanica, di contro alla forzata inerzia del presente; egli sarebbe preso dal<br />

più cupo abbattimento, se la Fede, non mai spenta nel suo cuore e ora rifiorita<br />

nella sventura, non lo consolasse avviandolo “pei floridi sentier della speranza”,<br />

innalzandolo ai pensieri celesti: anche il grande Corso, <strong>com</strong>e Ermengarda, è<br />

rigenerato nella sventura, purificato dal dolore.<br />

Il 23 marzo 1848 il Manzoni, che nel 1838 non aveva accettato<br />

un’onorificenza austriaca, firma l’indirizzo dei Milanesi a Carlo Alberto per<br />

sollecitarne l’intervento in difesa dei Lombardi insorti, e pubblica, <strong>com</strong>e appunto<br />

si è detto, l’ode “Marzo 1821” assieme al frammento <strong>“I</strong>l proclama di Rimini” , per<br />

giovare alla causa nazionale con le sue ardenti parole, non potendo farlo col<br />

braccio. Però il figlio Filippo, il più giovane dei figli maschi, partecipa<br />

attivamente alla lotta delle “Cinque Giornate” e, fatto prigioniero, viene tradotto<br />

11


in Austria, con grave apprensione del padre, ed è in seguito liberato solo in<br />

cambio degli ostaggi austriaci rimasti in mano agli insorti milanesi.<br />

Nel 1845 il Manzoni aveva pubblicato la dissertazione, <strong>com</strong>inciata sin dal 1828,<br />

“Del romanzo storico e in genere dei <strong>com</strong>ponimenti misti di storia e di<br />

invenzione”, in cui l’Autore, severo critico della sua stessa opera, condanna in<br />

sede teorica le opere letterarie che si <strong>com</strong>pongono di storia e di fantasia, perché<br />

costituiscono un genere ibrido che contiene in sé insanabili contraddizioni. Merita<br />

un cenno anche il dialogo “Dell’invenzione”, <strong>com</strong>posto nel 1841, e influenzato<br />

dalla filosofia del suo grande amico Antonio Rosmini. In esso il Manzoni afferma<br />

che l’artista trova (dal latino inventio=trovamento) non crea l’oggetto della sua<br />

opera; e per capire dove l’idea era prima di venirgli in mente, egli deve risalire,<br />

consapevolmente o no, al Dio creatore del tutto. Pur in mezzo a una certa aridità<br />

di argomentazione, spira nel dialogo un profondo senso religioso, assieme al<br />

riconoscimento della saggia guida della filosofia.<br />

Dopo il 1846 e fin quasi alla morte il Manzoni è particolarmente preso dal<br />

problema della lingua, sul quale aveva <strong>com</strong>inciato a scrivere, ancor prima del<br />

romanzo, un libro, condotto poi innanzi assai lentamente per eccesso di scrupolo,<br />

e lasciato poi in<strong>com</strong>piuto e inedito; fu pubblicato solo nel 1923 dal Bulferetti col<br />

titolo “Sentir messa”, derivato, un po’ artificiosamente, dalla citazione con cui<br />

l’Autore inizia la trattazione, la quale mira a dimostrare che la lingua italiana deve<br />

essere quella dell’uso toscano. Nelle opere del 1846 e successive sul problema<br />

della lingua italiana (varie lettere e relazioni che non è il caso di citare) il Manzoni<br />

precisa che la lingua italiana deve essere il fiorentino delle persone colte, lingua<br />

che praticamente egli aveva adottata nel suo romanzo e imposta universalmente<br />

nella penisola con la persuasione della sua grande arte e con l’immenso successo<br />

del suo capolavoro. Anche in tal modo, cioè unificando la lingua in tutte le regioni<br />

italiane, egli contribuì efficacemente all’unità nazionale, della quale fu<br />

considerato meritatamente un paladino, per cui grati nel 1859 andarono a fargli<br />

visita i due massimi artefici del nostro Risorgimento, il Cavour e il Garibaldi. E<br />

quando finalmente, con la seconda guerra d’indipendenza, la Lombardia è unita al<br />

Piemonte, il Nostro è nominato senatore del Regno e, nonostante gli acciacchi<br />

dell’età, si reca a Torino nel giugno del 1860 a prestare il giuramento di rito; torna<br />

nella capitale sabauda nel febbraio del 1861 per partecipare alla storica seduta in<br />

cui fu proclamato il Regno d’Italia, e di nuovo nel dicembre del 1864 per votare a<br />

favore del trasferimento della capitale a Firenze, <strong>com</strong>e buon auspicio per il<br />

raggiungimento di Roma, verso la quale la tappa di Firenze era considerata solo<br />

<strong>com</strong>e un avvicinamento. Per i suoi meriti politici e letterari gli fu anche assegnata<br />

una pensione nazionale, <strong>com</strong>e in seguito sarà fatto per il Carducci. Il grande poeta<br />

e romanziere si spense il 22 maggio 1873 a Milano, che dieci anni dopo gli<br />

dedicò un monumento in Piazza San Fedele.<br />

Oltre che al problema della lingua, il Manzoni si dedicò anche alle ricerche<br />

storiche, e in questo campo citiamo il “Discorso sopra alcuni punti della storia<br />

longobardica in Italia”, steso verso la fine del 1821, quando lavorava al<br />

<strong>com</strong>pimento dell’”Adelchi”, la cui trama si rifà appunto alla fine della<br />

12


dominazione dei Longobardi nel nostro Paese. Fu pubblicato postumo nel 1889 il<br />

“Saggio <strong>com</strong>parativo su la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana<br />

del 1859”, in cui il Manzoni dimostra che la rivoluzione italiana fu più legittima<br />

di fronte alla storia e al diritto, e anche più feconda di risultati, perché fondata<br />

organicamente sull’unità delle aspirazioni di tutto un popolo, mentre quella<br />

francese nel suo svolgimento tumultuoso degenerò assai presto nel dispotismo,<br />

tradendo così gli ideali originari.<br />

Il Manzoni è a buon diritto ritenuto il nostro più grande scrittore romantico; e<br />

del Romanticismo egli fu anche un teorico, dato che la sua natura meditativa lo<br />

portava ad approfondire tutti i problemi e gli indirizzi con i quali la sua attività<br />

artistica lo portava a contatto. Del 1823 è lo scritto “Sul Romanticismo. Lettera al<br />

marchese Cesare d’Azeglio”, in cui afferma che il nuovo indirizzo ha una parte<br />

negativa, su cui tutti gli assertori di esso sono concordi, nel condannare la<br />

mitologia, l’imitazione servile dei classici, le regole pseudo-aristoteliche sull’unità<br />

di tempo e di luogo; e una parte positiva, sulla quale l’Autore ammette che c’è una<br />

certa disparità di vedute e d’intenti, ma aggiunge che tutti i romantici sono<br />

d’accordo che la poesia deve proporsi per oggetto il vero e deve essere quanto più<br />

è possibile popolare, per interessare il maggior numero di persone, e non soltanto i<br />

dotti e i letterati, <strong>com</strong>e purtroppo avveniva per la produzione artistica del<br />

neoclassicismo.<br />

Riguardo alle <strong>com</strong>posizioni poetiche, dobbiamo dire che la vena della poesia,<br />

dopo la mirabile “Pentecoste” (1822) e il non meno mirabile coro “La morte di<br />

Ermengarda”, dello stesso anno,si esaurì nel Manzoni quasi <strong>com</strong>pletamente; in<br />

data posteriore abbiamo il già citato “Natale del 1833” in cui, ricordando quel<br />

doloroso giorno in cui morì la sua diletta Enrichetta, canta non più l’inno di gioia,<br />

ma l’inno di adorazione verso il “Fanciul severo” che viene in questo mondo a<br />

piangere e a morire, e col suo esempio ci insegna ad accettare il dolore, legge<br />

della vita cristianamente intesa; ma l’inno è un semplice frammento, sul quale<br />

“cecidere manus” 3 , <strong>com</strong>e appunto scrisse in calce al foglio lo stesso Autore.<br />

Abbiamo anche accennato al frammento dell’inno sacro “Ognissanti” di cui il<br />

Poeta inviò quattro strofe alla scrittrice francese Luisa Colet: in esse vuol<br />

significare che nelle nascoste virtù dei pii solitari, le quali al mondo sembrano<br />

sterili, c’è tanto merito quanta bellezza c’è in quel fiore che spiega solo davanti a<br />

Dio<br />

“la pompa del pinto suo velo;<br />

che spande ai deserti del cielo<br />

gli olezzi del calice e muor.”<br />

Sono dei bei versi e forse gli ultimi del grande Poeta, se è vero che furono scritti<br />

nel 1847, <strong>com</strong>e assicurò la seconda moglie del Manzoni. Precedentemente<br />

3 = caddero (stanche ) le mani.<br />

13


abbiamo (del 1832?) delle “Strofe per una prima Comunione” che egli non seppe<br />

rifiutare all’insistenza di qualche amico, quando ormai l’ispirazione poetica si era<br />

esaurita, e dalla sua penna non poté uscire che una mediocre poesiola d’occasione;<br />

e infine ricordiamo un breve epigramma “Per la morte dell’amico Vincenzo<br />

Monti” (1828), nel quale manda il suo estremo vale all’estinto “a cui largì<br />

Natura/Il cor di Dante e del suo Duca il canto!”Evidentemente il sentimento<br />

dell’amicizia e l’ammirazione sincera facevano velo al giudizio del Manzoni, che<br />

perciò i posteri non hanno condiviso.<br />

Tale è la personalità e l’opera del Manzoni, che tutti concordemente giudicano<br />

grande poeta, insigne patriota, mirabile esempio di virtù civiche e di devozione<br />

alla sua fede religiosa, cui conformò con rigoroso impegno tutta la sua esistenza,<br />

che fu lunga, interiormente travagliata e disseminata di domestici lutti, ma sempre<br />

ispirata all’ideale cristiano, che egli aveva assunto <strong>com</strong>e norma di arte e di vita<br />

dopo il suo ritorno sincero e fervido alla Fede.<br />

14


NOTA CRITICA SU <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />

Circa il giudizio dei critici sul romanzo diremo poche notizie essenziali. A<br />

tutti è noto che non sempre un capolavoro è riconosciuto <strong>com</strong>e tale al suo<br />

apparire; e a questa sorte non si sottrasse punto quello manzoniano.<br />

Infatti, quando il romanzo apparve, in tre volumi, nel 1827, mentre il Goethe<br />

riconosceva subito la sua grandezza (“questo libro ci fa passare di continuo dalla<br />

tenerezza all’ammirazione, e dall’ammirazione alla tenerezza”), il Leopardi (il<br />

quale però in una lettera confessava di averne sentito leggere solo alcune pagine)<br />

sosteneva che esso valeva poco e che le persone di buon gusto lo trovavano molto<br />

inferiore all’aspettazione.<br />

Certamente alla serenità di giudizio del grande Recanatese fu di ostacolo il suo<br />

cupo pessimismo, che irrideva a ogni idealismo (e nel romanzo troviamo l’ideale<br />

calato nel reale, secondo una felice espressione di Francesco De Sanctis) e<br />

particolarmente alla concezione della Provvidenza divina che veglia sulle sorti<br />

umane, mentre lui era convinto che uno spietato destino di infelicità in<strong>com</strong>be sui<br />

miseri mortali, e che il dolore umano non ha alcuna giustificazione né causale né<br />

finalistica. E avendo lui saputo o intuito, dalle poche pagine sentite leggere, che<br />

l’ispirazione cristiana pervade tutta la trama del romanzo, si può capire <strong>com</strong>e non<br />

abbia voluto neppure leggerlo tutto, per valutarlo più serenamente, e si sia lasciato<br />

andare con leggerezza a quell’affrettato giudizio negativo.<br />

Se non ci meraviglia troppo l’opinione del Leopardi, per le predette<br />

considerazioni, non potremmo dire lo stesso del giudizio espresso da Luigi<br />

Settembrini nelle sue “Lezioni di Letteratura Italiana”, perché evidentemente dato<br />

dopo maturo esame e, per così dire, “ex cathedra”, data la sua qualità di paludato<br />

docente universitario.<br />

Egli afferma addirittura che <strong>“I</strong> Promessi Sposi sono il libro della reazione” e che il<br />

Manzoni, anche involontariamente, viene a “consigliare la sommessione nella<br />

servitù, la negazione della patria e di ogni generoso sentimento civile.”<br />

Evidentemente il Settembrini non ha <strong>com</strong>preso l’intimo senso della storia<br />

manzoniana, che è invece una condanna della tirannide nell’anelito verso la<br />

libertà nella giustizia, sia per i singoli cittadini sia per le nazioni tutte.<br />

Ben diverso è invece il giudizio di Francesco De Sanctis, il quale afferma che<br />

il motivo ispiratore del romanzo “è una concezione eminentemente patriottica,<br />

democratica e religiosa.” Il De Sanctis aveva <strong>com</strong>preso appieno il significato<br />

profondo dell’opera manzoniana, mentre il Settembrini era stato fuorviato da<br />

pregiudizi e dalle sue idee anticlericali. 4<br />

4 Un riconoscimento del valore morale ed estetico della “verità” manzoniana si ebbe da parte di<br />

Giuseppe Verdi il quale, parlando un giorno del nostro Autore, così si espresse: «Quell’uomo ha<br />

scritto un libro vero quanto la verità. Oh se gli artisti potessero capire una volta questo vero, non vi<br />

15


Un esempio tipico dei contrastanti giudizi sul romanzo lo troviamo nella<br />

critica di Benedetto Croce il quale, riprendendo un giudizio, limitativo del valore<br />

dell’opera, espresso da Giovita Scalvini nel 1829, dice testualmente: <strong>“I</strong>n quel<br />

romanzo non si fa sentire nella sua forza o nel suo libero moto nessuno di quelli<br />

che si chiamano gli affetti e le passioni umane”; per cui il romanzo è da lui<br />

definito opera oratoria e non poetica. Ma lo stesso Croce, dopo più maturo esame,<br />

smentisce il suo avventato giudizio in un saggio pubblicato sullo “Spettatore<br />

Italiano” nel maggio del 1952, nel quale afferma: “Per parte mia, soglio rileggere<br />

questo libro periodicamente e ne traggo sempre <strong>com</strong>mozione e conforto, e sempre<br />

rinnovata ammirazione per la perfezione della sua forma.” Dopo aver accennato a<br />

questo “ben chiaro mea culpa” del Croce (sono sue precise parole), aggiungiamo<br />

soltanto che gli altri massimi critici del Manzoni sono Luigi Russo, Attilio<br />

Momigliano, Giuseppe Petronio, Piero Nardi e Cesare Angelini, i quali ci hanno<br />

dato anche dei pregevoli <strong>com</strong>menti de <strong>“I</strong> Promessi Sposi”. Molti critici si sono<br />

chiesti se i protagonisti del romanzo siano proprio gli sposi promessi o qualche<br />

altro; per il Momigliano, per esempio, la vera protagonista del capolavoro<br />

manzoniano è la Divina Provvidenza, mentre per il Russo “il protagonista vero è il<br />

sentimento, lo stato d’animo dello scrittore”, così <strong>com</strong>e protagonista immanente in<br />

ogni pagina del romanzo è il Seicento, questo secolo pieno di violenza, boria,<br />

vanità e ribalderia. Nella vivace e verace rappresentazione di questo secolo<br />

pomposo e ipocrita, prepotente ed egoista, si svolge tutta la polemica politica,<br />

civile e sociale del Manzoni, che con la sua opera educò intere generazioni<br />

all’avversione per il dominio straniero e all’amore per una società libera e giusta,<br />

fraterna e solidale, ordinata con leggi sagge, eque e ragionevoli. Se si seguisse la<br />

legge cristiana, sembra dirci il Manzoni, la realizzazione di una tale società non<br />

sarebbe un’utopia.<br />

sarebbero più musicisti dell’avvenire e del passato; né pittori veristi, realisti, idealisti; né poeti<br />

classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri.»<br />

16


INTRODUZIONE <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />

Il Manzoni premette al primo capitolo del romanzo una “introduzione”, in cui<br />

riporta un brano del manoscritto secentesco che egli finge di aver ritrovato e di<br />

voler pubblicare così <strong>com</strong>’è, poiché la storia in esso narrata gli sembra degna di<br />

essere conosciuta. Accintosi alla copiatura del manoscritto, a un certo punto si<br />

inceppa davanti a una parola indecifrabile, per cui deve necessariamente<br />

interrompere. La pausa lo induce a riflettere meglio sul da farsi, ed egli si<br />

domanda: “Quando avrò sostenuto l’eroica fatica di trascrivere e pubblicare<br />

questa storia, si troverà poi chi sarà disposto a leggerla? Essa è veramente bella,<br />

ma lo stile barocco in cui è scritta è talmente tronfio e sciatto, che difficilmente ci<br />

sarà uno disposto a sostenere l’eroica fatica di leggerla. Perciò lasciamola stare, e<br />

buon per me che mi sono interrotto appena al principio e non ho perduto il mio<br />

tempo in questa laboriosa e vana copiatura.” Però, mentre sta per riporre il<br />

manoscritto, prova rincrescimento che una storia così interessante debba rimanere<br />

sconosciuta; e allora si domanda: “Perché, invece di ricopiarla, non la riscrivo in<br />

stile moderno? Certamente non fo torto a nessuno, poiché il manoscritto è<br />

anonimo.” La decisione è subito presa, perché appare del tutto logica e opportuna.<br />

“Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza<br />

del libro medesimo.”Queste argute parole dell’Autore ci fanno capire, un po’ in<br />

enigma, che la storia del manoscritto è mera invenzione, che cioè il manoscritto<br />

non esiste e che la trama del romanzo è stata immaginata dal principio alla fine<br />

dal Manzoni. Sappiamo però che egli fu indotto a scriverlo dalla lettura di una<br />

grida spagnola del 15 ottobre 1627, nella quale il governatore di Milano don<br />

Gonzalo Fernandez de Cordova minaccia le massime pene contro i prepotenti che<br />

<strong>com</strong>mettono “oppressioni, concussioni e atti tirannici”, <strong>com</strong>e per esempio “che<br />

seguano o non seguano matrimoni” e inoltre che “quel prete non faccia quello che<br />

è obbligato per l’ufficio suo” ecc. Questa grida, letta in un’opera di Melchiorre<br />

Gioia, dette al Manzoni, secondo quanto ci conferma il figliastro Stefano Stampa,<br />

la prima idea del romanzo. Tuttavia non tutti i critici sono convinti che il<br />

manoscritto anonimo sia una pura invenzione. Il Getto, per esempio, sostiene che<br />

il Nostro deve aver letto “l’Historia del Cavalier Perduto” del vicentino Pace<br />

Pasini, pubblicata a Venezia nel 1644, poiché in questa storia trova molte<br />

somiglianze sostanziali e formali con l’introduzione barocca stilata con tanta<br />

bravura dal Manzoni. La mia modesta opinione è che, se anche il Nostro abbia<br />

conosciuto la detta opera (cosa tutt’altro che certa), non ne ha ricevuto che<br />

qualche spunto marginale, per cui essa non può davvero dirsi (<strong>com</strong>e qualcuno ha<br />

sostenuto) la fonte del romanzo. Comunque, per noi è molto più importante<br />

vedere per quali motivi l’Autore sia ricorso all’espediente del rinvenuto<br />

manoscritto. Essi possono essere due: in primo luogo, per dare un sapore storico a<br />

tutto il racconto, secondo le esigenze del romanzo storico, che il Manzoni sentiva<br />

impellenti; in secondo luogo, per un motivo prettamente artistico, cioè mettere tra<br />

17


sé e il lettore un terzo personaggio, <strong>com</strong>e un “alter ego”, che gli permettesse di<br />

fare le sue osservazioni o esprimere i suoi sentimenti in modo più discreto o più<br />

arguto, <strong>com</strong>e dietro a un <strong>com</strong>odo paravento. Certamente, questo pretesto<br />

dell’anonimo scrittore non era affatto necessario, né per fini storici né per<br />

esigenze artistiche, ma nessuno può affermare che esso sia del tutto inutile e vano.<br />

Abbiamo detto che il Manzoni, dopo un po’ d’incertezza, decise di pubblicare<br />

l’opera in lingua moderna, cioè in lingua viva. Oggi per noi questo concetto di<br />

“lingua viva” è abbastanza ovvio e chiaro, ma al tempo in cui il Manzoni scriveva,<br />

i letterati non erano affatto d’accordo sul concetto di tale lingua né sull’uso di essa<br />

negli scritti letterari. Infatti da una parte c’erano i puristi, riuniti nell’Accademia<br />

della Crusca, che pretendevano una lingua aulica, cioè arcaica, sul tipo di quella<br />

che era stata usata dai grandi scrittori italiani dal Trecento al Cinquecento; mentre<br />

i novatori volevano un linguaggio vivo, vicino a quello effettivamente parlato. Ma<br />

parlato da chi e dove? A questo riguardo non tutti erano concordi; e il Manzoni<br />

decise saggiamente e praticamente la controversia adottando il linguaggio<br />

fiorentino parlato dalle persone colte; detto linguaggio, soprattutto per merito<br />

della grande notorietà del romanzo, divenne in breve tempo la lingua nazionale<br />

italiana, universalmente riconosciuta e adottata; per cui il Manzoni può essere<br />

giustamente chiamato, dopo Dante, il secondo Padre della nostra lingua, colui che<br />

l’ha resa veramente popolare, avvicinando d’un colpo e arditamente la lingua<br />

scritta a quella parlata.<br />

18


CAPITOLO I<br />

Il Manzoni <strong>com</strong>incia il romanzo con la descrizione della regione dove si<br />

svolgerà la trama dell’azione: è una zona molto familiare all’Autore, che<br />

possedeva presso Pescarenico, sulla riva sinistra del lago di Lecco, una villa<br />

chiamata “ Il Caleotto”, dove era solito passare ogni anno parecchi mesi di<br />

villeggiatura. Siamo sulle rive del braccio meridionale del lago di Como (braccio<br />

chiamato anche lago di Lecco), il quale si restringe appunto a Lecco, in modo da<br />

sembrare fiume, e poi si riallarga nel lago di Garlate, finché si restringe ancora e<br />

definitivamente, ricostituendo il fiume Adda, che poi con lucido serpeggiamento<br />

scende a gettarsi nel maestoso Po.<br />

L’Autore descrive particolarmente il territorio di Lecco, formato da una breve<br />

costiera in lieve pendio, e poi da colline e valloncelli che si appoggiano alle falde<br />

di due monti contigui, il San Martino e il Resegone. Sulla riva sinistra del lago e<br />

sulle alture sono sparsi i villaggi, di cui uno è quello abitato dagli sposi promessi,<br />

cioè Renzo o Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella. Questo paesetto è in collina,<br />

ma non molto distante da Pescarenico, villaggio di pescatori sul lago, dove si<br />

trova anche un convento di Cappuccini. Il paesetto degli sposi è affidato alla cura<br />

spirituale di don Abbondio, il quale si è fatto prete senza vocazione, per seguire<br />

l’intenzione dei genitori e anche per entrare in una casta privilegiata, in cui avesse<br />

da poter vivere con un certo agio e tranquillamente, essendo appunto difeso dal<br />

prestigio, allora altissimo, del clero.<br />

Don Abbondio ci appare subito <strong>com</strong>e un egoista, che pur di non correre<br />

pericolo lui, è pronto a venir meno ai suoi doveri più sacrosanti. Egli non è<br />

cattivo, ma si preoccupa solo di sé stesso, e per tutta la vita ha solo badato a<br />

costituirsi un tenore di vita <strong>com</strong>odo e sicuro. Questo sistema, realizzato con<br />

assidua cura, è un po’ il suo capolavoro, una specie di metodo filosofico del viver<br />

tranquillo, del quale è fiero, perché lo ritiene eccellente e infallibile; e non si<br />

perita di prendersela con i suoi confratelli che seguono ben altro sistema, che cioè<br />

si espongono a disagi e pericoli per aiutare il prossimo. Il motto del nostro curato<br />

è invece questo: evitare ogni contrasto, cedere nei contrasti che malauguratamente<br />

non si son potuti evitare. I suoi colleghi, zelanti per il bene delle anime, sono per<br />

lui degli irrequieti ambiziosi, della gente senza prudenza e senza umiltà, mentre<br />

lui attua veramente il dettame evangelico! Don Abbondio ha ormai organizzato la<br />

sua vita in un sistema di abitudini che per lui rappresentano <strong>com</strong>e una seconda<br />

natura. Tra queste care abitudini c’è la passeggiata vespertina che, tempo<br />

permettendo, gli fa acquistare, col moderato esercizio fisico, un discreto appetito<br />

per la cenetta allietata da un vino squisito, che gli concilia un gradevole sonno<br />

sino all’indomani. Domani poi la giornata ri<strong>com</strong>incerà secondo lo schema<br />

abituale, che a don Abbondio, uomo pacifico, non ingenera affatto noia, ma anzi<br />

infonde una tranquilla sicurezza di lieto benessere. Ma ecco che questo quieto<br />

19


sistema di vita in un batter d’occhio viene travolto nell’infausto vespro del 7<br />

novembre 1628.<br />

Quella sera, tornando bel bello dalla passeggiata verso casa, incontra “due<br />

bravi” che gli ordinano, pena la morte, di non celebrare, né l’indomani né mai, il<br />

matrimonio tra Renzo e Lucia.<br />

I bravi erano soldati privati dei nobili e dei ricchi signori i quali se ne<br />

servivano, oltre che per difesa, anche e soprattutto per imporre la loro volontà<br />

superba e capricciosa, specialmente nelle campagne, dove l’autorità governativa<br />

era del tutto inefficace o addirittura inesistente. I governatori spagnoli avevano<br />

emanato delle “gride” (cioè bandi o decreti che venivano gridati dai banditori<br />

nelle vie e nelle piazze) severissime contro questi soldatacci fuorilegge, ma senza<br />

nessun effetto, perché tutta la nobiltà, che era poi la classe dirigente, era coalizzata<br />

nell’eludere la legge, in quanto tutti i nobili signori, <strong>com</strong>presi i senatori e i<br />

magistrati, avevano più o meno sfacciatamente i loro bravi, vestiti e protetti dalle<br />

loro sgargianti livree. Il Manzoni riporta alcuni squarci delle gride del tempo, in<br />

cui i governatori, dopo aver sciorinato tutti i loro titoli nobiliari, tuonano contro i<br />

bravi, <strong>com</strong>minando nei loro riguardi le pene più gravi e più arbitrarie; ma questi<br />

ripetuti decreti servivano solo a dimostrare pomposamente l’impotenza dei loro<br />

tronfi e plurititolati promulgatori.<br />

Don Abbondio, davanti all’inaspettato ordine, rimane <strong>com</strong>e fulminato. Che<br />

fare? Egli vorrebbe guadagnar tempo, rispondendo in modo evasivo, ma i due<br />

loschi figuri esigono una chiara e impegnativa risposta da riportare al loro<br />

padrone, l’illustrissimo signor don Rodrigo!<br />

“Disposto sempre all’obbedienza…” balbetta il povero curato, e i due si<br />

allontanano soddisfatti, mentre il malcapitato vorrebbe, ora che ha ingoiato il<br />

rospo, trattenerli per trattare… spiegare… Ma quelli lo piantano in asso, e il<br />

poveretto torna a casa stralunato e balordo, per cui la serva, a vederlo con quel<br />

viso, si accorge subito che è accaduto qualcosa di grave. Incalza perciò il padrone<br />

con le sue domande, e il curato, dopo essersi difeso sempre più debolmente,<br />

finisce per rivelare il penoso e pericoloso segreto, facendo però giurare<br />

solennemente a Perpetua (questo è il nome della domestica) di non fiatare<br />

minimamente sulla cosa, dato che i bravi avevano imposto il più assoluto silenzio.<br />

Il dialogo tra il prete e la serva è vivacissimo, e ci mostra la grande abilità della<br />

donna la quale riesce ben presto ad aver ragione della paura gelosa del suo<br />

padrone, il quale ha ancor presenti davanti agli occhi i due bravacci che gli<br />

avevano minacciosamente <strong>com</strong>andato:<br />

“E soprattutto non dica a nessuno di questo avviso, che gli abbiamo dato per il suo<br />

bene. Sarebbe <strong>com</strong>e fare quel tal matrimonio!”<br />

Ma il fatto sta, <strong>com</strong>e acutamente osserva il Manzoni, che forse non era minore il<br />

bisogno di don Abbondio di confidarsi con qualcuno, che la curiosità di Perpetua<br />

di sapere che cosa fosse successo al padrone.<br />

Perpetua è una zitella di oltre quarant’anni, curiosa e ciarliera ma non priva di<br />

un certo buon senso, che ci tiene a far credere che non si è voluta mai sposare, pur<br />

avendo avuto tanti buoni partiti, mentre le maligne <strong>com</strong>ari andavano dicendo che<br />

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non aveva mai trovato un cane che l’avesse voluta. Ma a parte questa<br />

<strong>com</strong>prensibile suscettibilità di zitella, non le manca certo l’intelligenza e il senso<br />

pratico delle cose, <strong>com</strong>e si rileva dal dialogo. Infatti a un certo punto, nella foga<br />

del discorso, inavvertitamente tocca un tasto falso, affermando che, se vuol<br />

sapere l’accaduto, non è per ciarlarne in giro, perché essa sa tenere il segreto. Qui<br />

don Abbondio le dà sulla voce: “Brava! <strong>com</strong>e quando…” Evidentemente in altre<br />

occasioni ella non aveva saputo affatto conservare il segreto; ma l’abile serva non<br />

si s<strong>com</strong>pone per tanto poco e corre subito ai ripari, trovando questa volta il tasto<br />

giusto e infallibile: “Se voglio sapere, è perché le voglio bene e voglio aiutarla, e<br />

magari darle un consiglio.” E il consiglio che essa dà, anche se è rigettato<br />

sprezzantemente dal padrone, è invece ottimo, l’unico che don Abbondio potesse<br />

prendere, se non voleva fare né il vigliacco (obbedendo a puntino a don Rodrigo)<br />

né l’eroe (<strong>com</strong>piendo ugualmente il suo dovere di sacerdote). Perpetua infatti gli<br />

consiglia di rivolgersi all’arcivescovo cardinal Federigo Borromeo, che tutti<br />

dicono un santo e anche un uomo di polso, il quale sa difendere i suoi curati. Ma<br />

don Abbondio, accecato dalla paura, le grida iroso: “Quando mi fosse toccata una<br />

schioppettata, il Cardinale me la toglierebbe?” La serva però prontamente lo<br />

rimbecca: “Eh! le schioppettate non si danno via <strong>com</strong>e confetti!” Il can che abbaia<br />

non morde, dice in sostanza Perpetua; saggio pensiero che ritroveremo, con altre<br />

parole, in bocca allo stesso cardinal Borromeo; il che dimostra che il buon senso<br />

<strong>com</strong>une si ritrova sia nei dotti sia negli indotti, ma la paura e l’egoismo possono<br />

farlo obliterare o sparire del tutto, <strong>com</strong>e appunto in don Abbondio.<br />

In questo primo capitolo possiamo già ammirare l’ironia manzoniana,<br />

soprattutto quando parla dei soldati spagnoli ì quali “insegnavano la modestia alle<br />

fanciulle e alle donne del paese”, per dire che le seducevano o tentavano con ogni<br />

mezzo di conquistarle, “accarezzavano le spalle di qualche padre o marito”, cioè<br />

picchiavano e malmenavano quei poveri padri o mariti che cercavano di difendere<br />

le loro donne dai loro turpi disegni, “e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di<br />

spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della<br />

vendemmia”, per significare che la truppa prepotente saccheggiava letteralmente i<br />

vigneti, frustrando crudelmente le ansie e le lunghe fatiche di quei disgraziati<br />

coltivatori: questo era il dominio spagnolo in Italia!<br />

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CAPITOLO II<br />

Il capitolo <strong>com</strong>incia con un ricordo storico, con evidente intento ironico: si<br />

dice che il Principe di Condé abbia dormito profondamente la notte precedente la<br />

battaglia di Rocroi; ma ciò avvenne perché, oltre ad essere molto stanco, egli<br />

aveva dato tutte le disposizioni per il giorno seguente, cioè aveva già preparato il<br />

suo piano di battaglia, del quale, possiamo intuire, era anche molto soddisfatto;<br />

invece don Abbondio sapeva soltanto che il giorno seguente ci sarebbe stata la<br />

battaglia, cioè lo scontro con Renzo. Dopo questo umoristico confronto tra il<br />

grande condottiero francese e il vile prete della sua storia, il Manzoni continua<br />

dicendo che il poveraccio spese gran parte della notte a preparare il suo piano di<br />

battaglia: indurre Renzo, con delle scuse plausibili, ad aspettare un po’ di tempo,<br />

poiché tra cinque giorni <strong>com</strong>inciava l’Avvento Ambrosiano, tempo proibito per le<br />

nozze, le quali automaticamente sarebbero state rimandate a dopo l’Epifania.<br />

Dopo aver in qualche modo definito i pretesti da tirare in ballo per convincere<br />

il giovane ad aspettare, il curato poté finalmente chiudere occhio; ma che sonno!<br />

che sogni! Sonno agitato e interrotto, sogni arruffati e paurosi, ac<strong>com</strong>pagnati da<br />

incubi, che si susseguirono fino al mattino, allorché il poveretto si alzò e,<br />

confermatosi nel suo piano, si mise ad aspettare Renzo con timore e nello stesso<br />

tempo con impazienza, perché non vedeva l’ora di liberarsi da quel noioso<br />

pensiero.<br />

Renzo poteva avere circa vent’anni: aveva perduto i genitori in tenera età, ma<br />

aveva imparato bene il mestiere di filatore di seta e si poteva considerare, per quei<br />

tempi, quasi di condizione agiata, perché possedeva una casa e un poderetto, che<br />

coltivava lui stesso quando il filatoio restava chiuso. Era stato educato<br />

cristianamente, aveva una fede viva e uno schietto senso della giustizia; era<br />

insomma un bravo giovane, onesto e capace operaio, per di più parsimonioso e<br />

tanto innamorato della sua Lucia, cui si voleva legare per sempre davanti<br />

all’altare. Era finalmente giunto il giorno tanto desiderato! Vestito in gran gala, si<br />

presentò per tempo al curato, per sapere l’ora precisa della messa di nozze. Ma<br />

don Abbondio fece finta di cascar dalle nuvole, <strong>com</strong>e se non si fosse stabilito<br />

nulla, e disse che per quel giorno era impossibile, perché si dovevano ancora<br />

espletare molte formalità. Impastocchiando pretesti e citando articoli del Diritto<br />

Canonico, riesce a convincere Renzo che non tutto era in regola riguardo ai<br />

documenti e alle pubblicazioni, che perciò bisognava aver pazienza ancora per<br />

qualche giorno, e precisamente per una settimana.<br />

Renzo esce dalla canonica piuttosto irritato, e si avvia di mala voglia (per la<br />

prima volta!) verso la casa della fidanzata, per <strong>com</strong>unicare la triste e inaspettata<br />

notizia; ma per la strada incontra Perpetua, e subito la ferma per cercare di sapere<br />

da lei qualcosa di più, perché sospetta che sotto ci sia qualcosa di diverso da<br />

quello che il curato gli ha voluto far credere. E non si sbaglia: Perpetua, pur non<br />

spiattellando tutta la cruda verità, con delle allusioni anche troppo evidenti gli fa<br />

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capire che ci sono dei prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…e che è “mala<br />

cosa nascer povero”… Renzo ha già intuito la dura realtà e, deciso a saper tutto,<br />

torna indietro senza farsi scorgere dalla donna, sorprende il curato ancora nel<br />

salotto e con un fare deciso e minaccioso lo costringe a rivelare il nome del<br />

prepotente che non vuole che lui sposi Lucia. Quando lo sa, esce furioso dalla<br />

casa di don Abbondio, col cuore in tumulto, che in quel momento non batteva che<br />

per l’omicidio: avrebbe voluto andare al palazzotto del birbone e strozzarlo; ma<br />

era difficile penetrare in quella bicocca… allora immaginava di prendere il suo<br />

schioppo, appostarlo in un luogo solitario, stenderlo al suolo con un colpo e poi<br />

correre a mettersi in salvo in territorio veneto… il confine era vicino… Ma che<br />

sarebbe stato di Lucia?... A questo pensiero le bieche fantasie disparvero; ma che<br />

fare intanto? <strong>com</strong>e opporsi al turpe capriccio del signorotto? <strong>com</strong>e sposare la sua<br />

Lucia a onta delle minacce del potente e della viltà del parroco?<br />

Con in testa questi dolorosi pensieri giunge alla casa della promessa sposa, e<br />

sente subito il vocio proveniente da una stanza del primo piano: lì si erano date<br />

convegno le parenti e le amiche intorno a Lucia, la quale si vestiva per la<br />

cerimonia delle nozze sotto le mani esperte e amorevoli della madre. Renzo, così<br />

turbato <strong>com</strong>’era, non volle presentarsi a quella folla; perciò, avendo trovato nel<br />

cortiletto della casa una ragazzetta che plaudente gli veniva incontro, le diede<br />

l’incarico di avvertire Lucia, in segreto, che lui l’aspettava nella stanza del pian<br />

terreno. Bettina (così si chiamava la ragazzina) eseguì per benino la sua<br />

ambasciata; Lucia scese subito a basso, e vedendo il volto rabbuiato di Renzo<br />

<strong>com</strong>prese subito che era accaduto qualcosa di veramente grave. Lo sposo la<br />

informa brevemente dell’accaduto, e lei, udendo il nome di don Rodrigo, esclama:<br />

“Fino a questo segno!” Da queste parole Renzo <strong>com</strong>prende che c’è stato qualche<br />

precedente, e lo vuol sapere, ma Lucia pensa prima a congedar le amiche, onde<br />

restar soli. Lascia quindi lo sposo in <strong>com</strong>pagnia della madre, sopravvenuta nel<br />

frattempo, sale al piano di sopra e, atteggiando il viso a naturalezza, annuncia alle<br />

donne che il curato è malato e perciò il matrimonio è rimandato. Le <strong>com</strong>ari<br />

sciamano via, ma qualcuna più sospettosa, per accertarsi della cosa, si reca<br />

addirittura alla canonica, dove Perpetua dalla finestra risponde che il curato è a<br />

letto con un febbrone.<br />

Lucia, alla fine di questo capitolo, viene sobriamente descritta dall’Autore sia<br />

nel fisico che nel morale. Essa era vestita attillatamene con un busto di broccato a<br />

fiori e una gonna di filaticcio di seta, fittamente pieghettata; due calze vermiglie e<br />

due pianelle di seta a ricami <strong>com</strong>pletavano il suo ornamento di nozze. I neri e<br />

lunghi capelli erano spartiti nel mezzo da una sottile scriminatura e si<br />

ravvolgevano sulla nuca in molteplici trecce, tenute in ordine da molti spilloni<br />

d’argento che formavano <strong>com</strong>e i raggi di un’aureola, secondo il costume<br />

brianzolo. Intorno al collo portava una collana di granati, alternati con bottoni<br />

d’oro filigranato. Le maniche del busto erano, secondo la moda d’allora, staccate<br />

e allacciate con bei nastri. Del viso di Lucia il Manzoni accenna solo ai lunghi e<br />

neri sopraccigli e alla bocca che s’apriva al sorriso; per il resto dice<br />

semplicemente che essa era dotata di una “modesta bellezza”, e soprattutto era<br />

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adorna di pudore e di riservatezza, oltre che di una profonda religiosità, con un<br />

carattere dolce ma inflessibile contro il male e i suoi adescamenti.<br />

Il Nostro non indugia affatto nella descrizione fisica della sposa, né analizza il<br />

suo amore per Renzo; ma con discreti accenni ci fa capire che il suo affetto per lui<br />

era grande e puro, e aspettava di essere consacrato davanti all’altare per diventare<br />

santo e <strong>com</strong>pleto. Anche l’amore di Renzo era scevro di ogni bassezza, perché<br />

egli era un giovane onesto, educato nella morale cristiana; il suo cuore era schietto<br />

e alieno dalla violenza, ma al sentire che don Rodrigo voleva strappargli Lucia per<br />

i suoi turpi piaceri, non batté che per la vendetta e per l’omicidio. Subito però egli<br />

si riscosse inorridito da queste idee sanguinarie; e per fortuna aveva peccato solo<br />

nella fantasia e quasi senza avvedersene, tanto il suo animo era esasperato per<br />

l’infame soverchieria.<br />

A questo proposito il Manzoni osserva molto opportunamente: <strong>“I</strong> provocatori,<br />

i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei<br />

non solo del male che <strong>com</strong>mettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli<br />

animi degli offesi.” Questa osservazione morale suona <strong>com</strong>e severo monito per<br />

tutti coloro che, direttamente o indirettamente, corrompono o abbrutiscono o<br />

<strong>com</strong>unque depravano l’animo altrui; grave è la loro responsabilità, se non davanti<br />

agli uomini alla cui giustizia si può facilmente sfuggire, certamente davanti a Dio,<br />

giudice infallibile. E inversamente – si può dedurre dalle parole del Manzoni –<br />

grande è il merito di coloro che, con le parole o con le opere o con l’esempio,<br />

tendono a migliorare l’animo degli altri. Tra questi benemeriti della società un<br />

posto preminente spetta all’Autore, il quale con il suo romanzo ha elevato il<br />

livello morale di tanti lettori, inculcando nel loro cuore sentimenti di giustizia e di<br />

carità cristiana.<br />

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CAPITOLO III<br />

Lucia, congedate le donne, riferì alla madre e allo sposo che, qualche tempo<br />

prima, don Rodrigo in <strong>com</strong>pagnia di un altro signorotto (era il degno cugino conte<br />

Attilio) aveva cercato di fermarla con parole lusinghiere, mentre lei, tornando<br />

dalla filanda verso casa, era rimasta indietro alle <strong>com</strong>pagne; ma lei senza dargli<br />

minimamente retta aveva raggiunto in fretta le altre operaie, mentre don Attilio<br />

sghignazzava e l’altro diceva: “S<strong>com</strong>mettiamo.”<br />

Il giorno dopo i due si erano trovati allo stesso punto della strada, ma Lucia era al<br />

sicuro in mezzo alle <strong>com</strong>pagne; per fortuna quel giorno era l’ultimo del lavoro<br />

alla filanda, e Lucia, <strong>com</strong>e prima poté, raccontò tutto al suo confessore Padre<br />

Cristoforo, cappuccino del convento di Pescarenico, situato a circa due miglia dal<br />

villaggio degli sposi. Padre Cristoforo aveva consigliato alla ragazza di rimanere<br />

in casa, per non farsi più vedere da colui, di pregare e di affrettare le nozze, nella<br />

speranza che don Rodrigo si dimenticasse presto di lei, <strong>com</strong>e di un capriccio<br />

passeggero. Ma purtroppo i fatti smentivano questa speranza. Lucia termina il<br />

doloroso racconto nelle lagrime, mentre lo sposo, vinto dall’ira, lancia improperi<br />

contro l’avversario, stringendo il manico del suo coltello e gridando: “Questa è<br />

l’ultima che fa quell’assassino!” Ma viene finalmente calmato dalla promessa<br />

sposa con queste semplici ma ispirate parole: <strong>“I</strong>l Signore c’è anche per i poveri; e<br />

<strong>com</strong>e volete che ci aiuti, se facciam del male?”<br />

Agnese, più esperta, propone di ricorrere a un uomo di legge; lei ne conosce<br />

uno di Lecco, soprannominato Azzecca-garbugli, il quale ha saputo trarre tante<br />

persone da impicci anche peggiori. Gli sposi accettano fiduciosi il consiglio, e<br />

Renzo, presi i quattro capponi destinati al pranzo delle nozze (perché – avverte<br />

Agnese – non bisogna mai andare con le mani vuote da quei signori!) si reca a<br />

Lecco per consultarsi con l’avvocato.<br />

Il Manzoni fa a questo un’acuta osservazione: le povere bestie, che Renzo portava<br />

in mano, venivano scosse e sballottate dal braccio del giovane, il quale<br />

camminava <strong>com</strong>e fuor di sé, tutto agitato da tante passioni, di cui gli innocenti<br />

polli sopportavano il contraccolpo; ma i capponi intanto – e qui notiamo l’amaro<br />

umorismo dello Scrittore – s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, <strong>com</strong>e<br />

accade troppo sovente fra <strong>com</strong>pagni di sventura.<br />

Giunto al borgo (Lecco nel Seicento era ancora un modesto centro abitato),<br />

Renzo trova facilmente la casa dell’avvocato e viene introdotto nel suo studio,<br />

uno stanzone polveroso con pochi vecchi mobili, nel quale il tavolo di lavoro è<br />

ingombro “di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride”, tutto però in un<br />

disordine indescrivibile. Il dottore accoglie bonariamente il suo cliente, poiché<br />

questa era la sua tattica ipocrita, e Renzo, nella sua semplicità campagnola,<br />

volendo subito venire al nocciolo della questione, chiede senz’altro “se, a<br />

minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale”. L’avvocato,<br />

che ha frainteso, credendo che la prepotenza Renzo l’abbia fatta e non subita, si fa<br />

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molto serio, e risponde che il reato è grave, contemplato in cento gride, di cui una<br />

proprio dell’anno prima, che gli vuol mostrare per impressionarlo maggiormente.<br />

Per trovarla “cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su,<br />

<strong>com</strong>e se mettesse grano in uno staio” e trovatala finalmente, la lesse con molta<br />

enfasi e grave significazione al suo cliente. Ma vedendo che questi, invece di<br />

spaventarsi per le terribili pene <strong>com</strong>minate (“pena pecuniaria e corporale, ancora<br />

di relegazione e di galera e fino alla morte, all’arbitrio dell’Eccellenza Sua – cioè<br />

il Governatore – o del Senato”) quasi se ne rallegra, pensa che sia un delinquente<br />

matricolato che si ride delle gride, e perciò gli dice: “Vi siete però fatto tagliare il<br />

ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva<br />

bisogno.”<br />

Bisogna sapere che allora tutti i bravi e i delinquenti in genere portavano una<br />

lunga zazzera, onde servirsene <strong>com</strong>e di una maschera, per non farsi riconoscere,<br />

quando attuavano i loro colpi. Normalmente la portavano raccolta sotto una<br />

reticella, donde la liberavano al momento dell’azione. I governatori di Milano<br />

avevano tuonato con le loro gride anche contro i ciuffi, sperando così di<br />

sterminare i facinorosi d’ogni specie, e se l’erano presa anche con i barbieri che<br />

lasciassero ai loro clienti i capelli più lunghi dell’ordinario (“pena di cento scudi o<br />

di tre tratti di corda da essere dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale,<br />

all’arbitrio <strong>com</strong>e sopra”) <strong>com</strong>e se i poveretti potessero ottenere quello che la forza<br />

pubblica era impotente a imporre.<br />

Comunque dalle parole dell’avvocato Renzo capisce l’equivoco in cui egli è<br />

caduto, e si affretta a chiarirlo, dicendo che non è stato lui a minacciare il<br />

curato… lui non fa di queste cose, né ha mai portato il ciuffo… ma quel<br />

prepotente di don Rodrigo… A questa rivelazione il dottore va in bestia, e<br />

sdegnato caccia via in malo modo il povero Renzo al quale fa anche restituire gli<br />

sventurati capponi, con cui il malcapitato torna al suo villaggio più sconvolto e<br />

amareggiato che mai, intuendo press’a poco il motivo per cui l’avvocato si era a<br />

un tratto inalberato nell’udire il riverito nome del signorotto.<br />

Nel frattempo, nella casetta di Agnese, Lucia ha esposto l’dea di avvertire<br />

dell’accaduto il padre Cristoforo; ma <strong>com</strong>e fare? Mentre pensano al modo, viene<br />

fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, per la solita cerca delle noci, con cui<br />

allora facevano olio (<strong>com</strong>mestibile per condimento). Lucia pensa subito di servirsi<br />

del frate converso per avvertire il suo confessore, e perciò dà una bella quantità di<br />

noci, affinché fra Galdino possa tornar presto al convento; ché altrimenti, dovendo<br />

andare in giro ancora per un bel po’, per riempire le sue bisacce, probabilmente si<br />

sarebbe dimenticato dell’ambasciata, con tutte le chiacchiere che avrebbe fatte e<br />

intese nella varie case… Infatti al cercatore piaceva discorrere, e spesso ripeteva<br />

un fatto miracoloso, avvenuto in un convento di cappuccini in Romagna, anche<br />

perché l’episodio edificante era molto adatto a suscitare la generosità dei<br />

benefattori. E quel giorno lo raccontò ad Agnese. In quel convento di Romagna<br />

dunque viveva un santo frate, chiamato Padre Macario. Costui un giorno,<br />

passando per il campo di un benefattore del convento, vide che si accingeva a<br />

sradicare un grande noce che non dava mai frutto. Il frate lo pregò di risparmiare<br />

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l’albero, perché l’anno successivo avrebbe portato più noci che foglie; e così fu.<br />

Però il buon uomo – che aveva promesso al convento una metà del raccolto del<br />

noce – morì prima di poterlo bacchiare, e quando il frate cercatore si presentò al<br />

figlio, un cinico scapestrato, per avere la parte pattuita, fu cacciato via con parole<br />

di scherno. Ma il Signore lo punì per il suo irreligioso egoismo; infatti un giorno,<br />

avendo gozzovigliato con amici dello stesso pelo, dopo aver raccontato il fatto<br />

ridendo della bella pretesa dei frati, volle mostrar loro quel gran mucchio di noci,<br />

ma trovò… un gran mucchio di foglie secche. Gran lezione eh! E il convento –<br />

soggiunse fra Galdino – invece di perderci ci guadagnò, perché, dopo il duplice<br />

miracolo, tutti furono più generosi, tanto che un benefattore, mosso a pietà del<br />

frate torzone, che ogni giorno vedeva tornare al convento tutto curvo sotto il peso,<br />

regalò al convento un asino, e così il povero fraticello cessò di far lui… il somaro.<br />

Agnese, non sufficientemente colpita dalla morale dell’episodio, quando vide<br />

Lucia dar tutte quelle noci, fece un viso di rimprovero, e quando il cercatore fu<br />

uscito, esclamò: “Tutte quelle noci, in quest’anno!” Lucia le disse il motivo della<br />

generosa offerta, che la madre approvò pienamente, aggiungendo: “E poi è tutta<br />

carità che porta sempre buon frutto.” Agnese infatti, dice a questo punto il<br />

Manzoni, “coi suoi difettucci era una gran buona donna, e si sarebbe, <strong>com</strong>e si<br />

dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua<br />

<strong>com</strong>piacenza.”<br />

Intanto tornò Renzo tutto indignato, e non si rasserenò neppure al pensiero che<br />

il padre Cristoforo si sarebbe adoperato per loro, tanto era sconvolto e<br />

amareggiato dall’umana ingiustizia; sicché egli non ha fiducia nel soccorso del<br />

frate, e sente più che mai forte la tentazione di farsi giustizia da sé. La giornata,<br />

che doveva essere di festa e di gioia, finisce per il giovane nel più cupo sconforto,<br />

mentre le donne hanno molta fiducia nell’azione del Padre.<br />

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CAPITOLO IV<br />

Il mattino del giorno successivo, 9 novembre 1628, allo spuntar del sole, padre<br />

Cristoforo, avvertito da fra Galdino, uscì frettoloso dal convento per salire alla<br />

casetta di Agnese. La scena naturale era lieta: cielo nitido, monti che si<br />

stagliavano nell’azzurro intenso del cielo, vigne e campi coltivati ai lati della via,<br />

e una brezzolina autunnale che asciugava la guazza notturna e investiva gradevole<br />

il viso del viandante mattutino. E’ la tipica estate di San Martino; ma lo spettacolo<br />

umano su quella lieta scena naturale era tutt’altro che lieto: mendichi macilenti, di<br />

cui alcuni spinti a elemosinare dall’incipiente carestia, contadini che lavoravano la<br />

terra senza l’usata letizia, che seminavano “con risparmio e a malincuore, <strong>com</strong>e<br />

chi arrischia cosa che troppo gli preme”, fanciulli scarni; anche le vacche erano<br />

magre, per la penuria dei pascoli, dovuta alla persistente siccità. La triste scena<br />

umana accresceva la mestizia del frate, il quale presentiva che a Lucia era<br />

successo qualcosa di grave.<br />

A questo punto il Manzoni traccia una breve biografia di Padre Cristoforo, che<br />

allora era vicino ai sessant’anni. Prima di entrare nell’Ordine dei Cappuccini si<br />

chiamava Ludovico, ed era figlio unico di un ricco mercante di tessuti, il quale a<br />

una certa età aveva lasciato il <strong>com</strong>mercio trovandosi bastevolmente ricco e non<br />

avendo bisogno di guadagnare ancora. Stranamente, da quel momento <strong>com</strong>inciò a<br />

odiare la sua precedente attività, a vergognarsene <strong>com</strong>e di una turpe macchia da<br />

dimenticare, dato che non la si poteva cancellare, “non riflettendo mai – osserva<br />

argutamente l’Autore – che il vendere non è cosa più ridicola che il <strong>com</strong>prare.” I<br />

suoi amici e ospiti dovevano mettere una grande attenzione per evitare ogni<br />

minimo accenno – diretto o indiretto – al mestiere precedente del padrone di casa,<br />

che intanto si era dato a vivere da gran signore, facendo impartire al figlio<br />

un’educazione cavalleresca, senza badare a spese, in emulazione con i nobili della<br />

città. Ma in tal modo l’ex-mercante amareggiava sé e gli altri, vivendo nel<br />

perpetuo sospetto che essi ricordassero quello che lui era stato e ridessero di lui,<br />

mentre “il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli <strong>com</strong>parivano sempre nella<br />

memoria, <strong>com</strong>e l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense e il<br />

sorriso dei parassiti.” Tra questi un tale, un brutto giorno, stuzzicato durante il<br />

banchetto dall’anfitrione in mezzo all’allegria generale, si lasciò scappare: “Eh! io<br />

fo l’orecchio del mercante!” Lui stesso rimase colpito dalla parola che gli era<br />

sfuggita, e tentò invano di riavviare la conversazione che era stata troncata in un<br />

silenzio imbarazzante; tutti i convitati allibirono scandalizzati, scorgendo la faccia<br />

scura del padrone di casa; l’allegria finì per quel giorno in un silenzio glaciale, e<br />

l’autore dello scandalo se ne andò mortificatissimo e da quel giorno non fu più<br />

invitato.<br />

Quando il padre morì, Ludovico era ancora giovinetto; educato signorilmente,<br />

voleva stare con i figli dei nobili, alla loro pari; ma questi, pieni dell’orgoglio di<br />

casta, lo consideravano al di sotto, anche se era forse più ricco di loro.<br />

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Sicché Ludovico dovette ingoiare molti amari bocconi e, fattosi giovane, con un<br />

grande desiderio di rivalsa <strong>com</strong>inciò a <strong>com</strong>petere con i rampolli della nobiltà in<br />

lusso, cavalli, carrozze, banchetti, festini e numero di bravi, profondendo a piene<br />

mani il suo pingue patrimonio, pur di apparire più di loro. A poco a poco<br />

<strong>com</strong>inciò a <strong>com</strong>petere con loro in cose più gravi e pericolose, emulandoli in<br />

potenza oltre che in ricchezza, e si mise ad attraversare i loro disegni, a<br />

contrastare le loro prepotenze, a farsi difensore e paladino delle vittime di quelli.<br />

Ma per opporsi alla loro prepotenza, doveva necessariamente usare anche lui la<br />

violenza, l’inganno, l’agguato, e circondarsi di bravi tra i più ribaldi e sfegatati;<br />

gli era giocoforza, <strong>com</strong>e ben dice l’Autore, “vivere coi birboni per amore della<br />

giustizia.”<br />

Una tale vita non poteva davvero soddisfare il suo animo schietto e avverso<br />

all’ingiustizia; sicché scontento di sé e disgustato di tutto, aveva più di una volta<br />

pensato a farsi frate. Un grave incidente gli fece realizzare questa idea, che<br />

altrimenti sarebbe forse rimasta una fantasia per tutta la vita.<br />

Un giorno, ac<strong>com</strong>pagnato da due bravi e dal suo maggiordomo Cristoforo, si<br />

incontrò per strada con un signorotto molto prepotente e superbo, da cui era odiato<br />

e che egli ricambiava di ugual sentimento, sebbene non avesse ancora avuto a<br />

contrastare con lui, “giacché – osserva argutamente il Manzoni – è uno dei<br />

vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare e di essere odiati, senza<br />

conoscersi.” Nell’incontrarsi, il burbanzoso signore pretendeva che Ludovico coi<br />

suoi si scansasse dal marciapiede verso il centro della strada, per far passare lui e<br />

il suo seguito di quattro bravi, mentre Ludovico credeva suo diritto non lasciare il<br />

marciapiede e non cedere il passo al nobile, per il fatto che camminava rasente al<br />

muro (e questo, secondo una consuetudine, lo autorizzava a non staccarsi dal detto<br />

muro davanti a chicchessia). In breve dalle minacce si passa agli insulti, e da<br />

questi alle armi, e la battaglia coinvolge, coi padroni, i loro bravi. Ludovico, che<br />

in quanto a numero si trovava in netto stato d’inferiorità, pensava più che altro a<br />

difendersi e a disarmare l’avversario principale, il quale invece cercava di<br />

ucciderlo a tutti i costi; a un certo punto il signorotto, vedendo il nemico già<br />

ferito, gli si scaglia addosso per finirlo con un gran fendente, ma il fedele<br />

Cristoforo si para in sua difesa, ricevendo lui il colpo mortale. Allora Ludovico<br />

non ci vide più, e istintivamente trafisse a sua volta l’avversario. I bravi delle due<br />

parti fuggirono, per non dover rendere conto alla giustizia, mentre Ludovico fu<br />

ac<strong>com</strong>pagnato a un vicino convento, dove venne rac<strong>com</strong>andato ai frati dai<br />

soccorritori, che avevano simpatia per lui, quale paladino della povera gente<br />

contro i prepotenti signorotti. Guarito delle ferite, egli pensò seriamente<br />

all’indirizzo da dare alla sua vita, e decise fermamente di farsi frate, per riparare il<br />

mal fatto a due famiglie con tutta una vita di penitenza e di opere buone. La<br />

richiesta fu accolta, perché la sua decisione era sincera e profonda, e non presa per<br />

timore o per altra considerazione umana. La giustizia umana non perseguitò<br />

l’omicida che si era volontariamente chiuso nel saio, anche perché egli era scusato<br />

dalla legittima difesa; inoltre in quei tempi il farsi frate appariva riparazione<br />

soddisfacente per qualsiasi reato, <strong>com</strong>e l’esilio per gli Ateniesi.<br />

29


Prima di partire da quella città, per raggiungere la sede del suo noviziato,<br />

Ludovico volle chiedere perdono al fratello dell’ucciso, il quale accettò l’atto di<br />

riparazione, che volle pubblico e solenne, pensando che nell’umiliazione del frate<br />

avrebbe ripreso aire il suo prestigio e avrebbe trovato uno sfogo il suo sdegno<br />

superbo; quindi invitò alla cerimonia tutta la parentela, perché godesse anch’essa<br />

di quella soddisfazione <strong>com</strong>une. Fra Cristoforo (che aveva assunto questo nome<br />

per ricordare il maggiordomo morto per lui) quando scorse, nel palazzo del<br />

signore,quel grand’apparato e ne intuì lo scopo, rimase turbato; ma fu solo un<br />

momento, poi pensò che l’umiliazione era per lui più che meritata, e chiese<br />

perdono con tanta sincera umiltà e con un dolore così vivo per il male <strong>com</strong>messo,<br />

che tutti i presenti, a <strong>com</strong>inciare dal fratello dell’ucciso, ne restarono <strong>com</strong>mossi e<br />

piamente edificati. E quella che, nelle intenzioni del padrone di casa, doveva<br />

essere una manifestazione di orgoglio e un accrescimento di prestigio mondano,<br />

divenne una predicazione di umiltà e di amore cristiano. Lo stesso fratello<br />

dell’ucciso, <strong>com</strong>e afferma il Manzoni, fu da quel giorno più posato e più affabile.<br />

Fra Cristoforo, invitato insistentemente ad accettare qualcosa (era stato<br />

preparato per l’occasione un sontuoso rinfresco per gli invitati) chiese che gli<br />

dessero in elemosina un pane, in pegno di perdono; del quale una parte mangiò e<br />

una parte conservò in un cofanetto, per ricordo del suo peccato e della doverosa<br />

espiazione, a cui tutta la vita era stata dedicata. Riguardo al ministero al quale si<br />

dedicò una volta consacrato sacerdote, l’Autore dice che egli, oltre a <strong>com</strong>piere<br />

scrupolosamente tutti gli incarichi che gli venivano affidati dai superiori, e a<br />

sottoporsi volentieri a quanto era imposto dalla regola dell’Ordine, non mancava<br />

mai di <strong>com</strong>piere altri due uffizi che si era imposti da sé: appianare contrasti e<br />

proteggere oppressi. A questi <strong>com</strong>piti egli era portato dalla sua natura impetuosa e<br />

onesta, che non poteva sopportare ingiustizie e prepotenze, quella natura per la<br />

quale, quando era ancora Ludovico, si era imbarcato in tante lotte contro i<br />

signorotti della sua città. Allora però <strong>com</strong>batteva con le stesse armi del nemico,<br />

con le armi della forza e della violenza; ora invece il frate lottava con armi ben<br />

diverse, fornite dalla fede e dalla cristiana fortezza, e accanto all’umiltà, alla carità<br />

e al perdono metteva in opera anche il consiglio, la prudenza e l’ammonizione<br />

talora vibrata e irruente.<br />

Perciò non c’è da meravigliarsi se, alla chiamata di Lucia, corre sollecito alla<br />

sua casetta, presago di andare a sentire qualche tristo accidente; anche perché<br />

verso Lucia, di cui era da tempo direttore spirituale, egli portava una paterna<br />

sollecitudine, non scevra di ammirazione per la sua anima santa e pura, che lui<br />

aveva contribuito a rendere così eletta.<br />

30


CAPITOLO V<br />

Padre Cristoforo, entrato nella casetta di Agnese, dopo un semplice e cordiale<br />

saluto chiede cosa è successo; Lucia é in lagrime, tanto è il turbamento di<br />

quell’animo semplice e inesperto del male; per cui la madre fa la sua dolorosa<br />

relazione, ascoltando la quale il frate non trattiene il suo doloroso stupore misto di<br />

indignazione. Quand’ebbe udito tutto, esclamò con tono di affettuosa pietà:<br />

“Poverette! Dio vi ha visitate.” Parole semplici, ma pregne di significato: nella<br />

prima esclamazione si avverte tutta la partecipazione intima e sentita al loro<br />

dolore, la <strong>com</strong>prensione della loro pena; le parole successive esprimono la<br />

valutazione cristiana del dolore, considerato appunto una visita di Dio, quindi<br />

<strong>com</strong>e una cosa non da odiare, ma piuttosto da amare, non da fuggire, ma piuttosto<br />

da ricercare, o almeno da accettare con fiduciosa rassegnazione. Infatti il dolore,<br />

che è conseguenza del peccato, oltre che mezzo di espiazione, è per il cristiano<br />

anche un efficace strumento di perfezionamento morale e di elevazione interiore.<br />

Esso è, per così dire, <strong>com</strong>e il fuoco impetuoso che raffina il nobile metallo. Dopo<br />

quelle parole sgorgategli dal cuore, fra Cristoforo si concentra, pensando al modo<br />

migliore di aiutare le poverette. Metter vergogna o anche fare paura a don<br />

Abbondio, con ammonizioni e minacce spirituali? Fatica sprecata: quale paura<br />

potrebbe essere per lui equivalente a quella di una schioppettata? Scrivere<br />

all’Arcivescovo? Ci vuol tempo; e intanto, se don Rodrigo passava all’uso della<br />

forza, <strong>com</strong>e resistergli? Nemmeno i suoi confratelli di Pescarenico sarebbero stati<br />

tutti dalla sua parte, e tanto meno quelli di Milano, perché don Rodrigo e i suoi<br />

parenti di Milano facevano gli amici del convento, i fautori dei Cappuccini; e<br />

probabilmente gli altri frati lo avrebbero tacciato di irrequieto e turbolento, se non<br />

addirittura di amante dei contrasti e attaccabrighe!<br />

Insomma, dopo aver riflettuto un po’, il partito migliore gli sembrò quello di<br />

andare addirittura dal signorotto, per cercare di smuoverlo dal suo turpe capriccio,<br />

con le preghiere o anche con le minacce, spirituali e temporali, qualora non avesse<br />

voluto ascoltare le suppliche. Era una cosa ben difficile che un prepotente di<br />

quella fatta si arrendesse a preghiere disarmate, ma valeva la pena tentare; se non<br />

altro, il colloquio gli sarebbe servito per sondare le intenzioni di don Rodrigo, per<br />

scoprire fino a che punto fosse intestardito. Quando il frate, avendo ormai preso la<br />

decisione, alzò il viso per <strong>com</strong>unicarla alle donne, vide Renzo che era giunto da<br />

qualche minuto, ma era rimasto silenzioso in disparte per non disturbare il Padre il<br />

quale, a testa china, ponderava i pro e i contro dei vari partiti. Dopo il cordiale<br />

saluto del frate, il giovane si lasciò scappare delle parole amare contro gli amici<br />

del mondo, i quali prima, allorché non c’era pericolo in vista, gli promettevano di<br />

sostenerlo contro chiunque, pronti anche a eliminare il suo eventuale avversario…<br />

mentre ora, saputo che il nemico è don Rodrigo, si ritiravano pavidi… Ma<br />

vedendo il volto del Padre rabbuiarsi a queste parole, Renzo <strong>com</strong>prese subito che<br />

esse non erano davvero degne di un cristiano, e confuso cercava di mutarne il<br />

31


senso, ma invano. Fra Cristoforo lo redarguì aspramente, ammonendolo che con<br />

questo suo <strong>com</strong>portamento vendicativo egli rischiava di perdere il solo Amico che<br />

poteva e voleva aiutarlo… ma doveva confidare in Lui e in Lui solo, deponendo<br />

ogni odio e ogni proposito di vendetta. Renzo, pentito delle sue idee di violenza,<br />

promette di fidare nel Signore e di farsi guidare dal suo ministro; e allora le<br />

donne, anch’esse gravemente turbate dalle irose parole del giovane, traggono un<br />

respiro si sollievo. Quindi il frate espone il suo disegno e subito si congeda dai<br />

suoi protetti, avendo fretta di tornare al convento.<br />

Giunse infatti in tempo per cantar sesta coi confratelli, e immediatamente, dopo<br />

aver pranzato, si mise in cammino verso il palazzotto di don Rodrigo, distante<br />

circa quattro miglia da Pescarenico. L’edificio sorgeva alla sommità di un poggio,<br />

ed era di costruzione così massiccia da assomigliare a una bicocca. Lo si<br />

raggiungeva per mezzo di una strada a chiocciola che aggirava il colle, e aveva sul<br />

davanti un’ampia spianata. Ai piedi dell’altura si aggruppavano delle misere<br />

casupole abitate dai contadini del signorotto, i quali erano abituati alle armi non<br />

meno dei bravi e dovevano considerarsi, per così dire, le sue truppe di riserva. Sui<br />

due battenti del portone del palazzotto erano inchiodati, con l’ali aperte, due<br />

grandi avvoltoi, simbolo evidente delle abitudini fiere e rapaci del padrone.<br />

Quando il frate arrivò sulla spianata, vide il portone chiuso, e arguendo che il<br />

signore stava ancora pranzando, si disponeva ad aspettare; ma uno dei due bravi di<br />

guardia, che in qualche occasione si era ricoverato in convento essendo braccato<br />

dai birri, lo invitò pressantemente a venir pure avanti, picchiando nello stesso<br />

tempo all’uscio. Venne ad aprire un vecchio servitore, che fungeva da<br />

cerimoniere, il quale, vedendo che l’importuno era il frate, smise subito di<br />

borbottare, acquietò i cani e introdusse l’ospite, ma non poté tenersi<br />

dall’esprimere la sua meraviglia per la presenza del religioso in quella casa: “Lei<br />

qui? Sarà per far del bene… Del bene se ne può far per tutto.” Da queste poche<br />

parole <strong>com</strong>prendiamo che il vecchio servo è un brav’uomo, l’unico di quella casa,<br />

tollerato lì, <strong>com</strong>e spiega l’Autore, per due soli motivi: perché aveva una sviscerata<br />

devozione al casato, avendo servito il padre di don Rodrigo, che era un<br />

valentuomo, e perché aveva una gran pratica del cerimoniale, per cui nei giorni di<br />

ricevimento diventava persona importante e indispensabile.<br />

Il servitore condusse il frate sino al locale attiguo alla sala del convito e quivi,<br />

essendosi proprio in quel momento aperta la porta, il cappuccino fu scorto da don<br />

Attilio mentre voleva ritirarsi per non disturbare a quell’ora; ed essendo stato<br />

invitato con insistenza dal conte, dovette entrare suo malgrado, pur <strong>com</strong>prendendo<br />

che non era quello il momento adatto per espletare la sua missione. Fatto sedere<br />

accanto al padrone di casa, il frate gli disse sommessamente che desiderava<br />

parlargli, con suo <strong>com</strong>odo, di una questione importante; e don Rodrigo lo assicurò<br />

che avrebbero parlato in seguito, ma che intanto accettasse da bere. Davanti<br />

all’insistenza del signore, fra Cristoforo, cui conveniva <strong>com</strong>piacerlo in quanto<br />

fosse possibile, accettò il vino offertogli, che <strong>com</strong>inciò a centellinare, per mostrare<br />

che non aveva alcuna fretta.<br />

32


Al banchetto partecipavano, assieme a don Rodrigo e al conte Attilio, che<br />

sedevano fianco a fianco su un lato lungo della tavola, il podestà di Lecco e<br />

l’avvocato Azzecca-garbugli, che si fronteggiavano ai lati corti della mensa<br />

rettangolare, mentre di fronte ai due cugini stavano “due convitati oscuri”, <strong>com</strong>e<br />

dice il Manzoni, cioè due parassiti, invitati per far numero, il cui <strong>com</strong>pito era solo<br />

quello di mangiare e di magnificare cibi e bevande assieme all’opulenza del<br />

nobile convitante, e inoltre di “sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un<br />

<strong>com</strong>mensale, a cui un altro non contraddicesse”.<br />

Mentre il frate, seduto accanto a don Rodrigo ma un po’ discosto dalla tavola,<br />

sorbiva calmo il suo calice, si riaccese la disputa che, all’ingresso del Padre, si era<br />

momentaneamente placata. Essa verteva su un punto di cavalleria: un nobile di<br />

Spagna aveva inviato recentemente una sfida a un cavaliere milanese; il latore del<br />

cartello, non trovando in casa lo sfidato, rimise il foglio, senza chiedergliene il<br />

permesso, nelle mani del fratello del destinatario, il quale, ritenendosi offeso da<br />

questa mancanza di riguardo, diede per tutta risposta delle sonore bastonate<br />

all’incauto ambasciatore il quale questa volta, contrariamente al noto proverbio,<br />

portò la pena della sua missione. Don Attilio, nella sua burbanza nobiliare e anche<br />

per un tantino di orgoglio milanese nei riguardi del portatore e del cavaliere, che<br />

erano spagnoli, sosteneva che quelle legnate erano legittime, anzi sacrosante; il<br />

Podestà, nella sua prosopopea di leguleio e anche di funzionario legato, per<br />

interessi se non pure per nascita, agli Spagnoli dominatori, affermava che l’azione<br />

del cavaliere milanese era abominevole e contraria a tutte le regole della cavalleria<br />

e del diritto internazionale, perché la persona dell’ambasciatore -jure gentium- è<br />

sacra e inviolabile.<br />

Sic<strong>com</strong>e la disputa si riscaldava sempre più, e don Attilio, nella foga<br />

incontrollata del discorso, non si teneva dall’offendere ormai apertamente il<br />

Podestà, il quale evidentemente non era di estrazione nobiliare, don Rodrigo, per<br />

sopire la discussione, propose di deferire la contesa a un arbitro, cioè al padre<br />

Cristoforo. Questi si schermisce allegando la sua in<strong>com</strong>petenza in materia di<br />

cavalleria, ma dinanzi alle ripetute insistenze del padrone di casa, dice che il suo<br />

modesto parere é che non ci dovrebbero essere né sfide né duelli né bastonate.<br />

Questa opinione suscitò l’incredulità e la delusione generale, e soprattutto l’ironia<br />

del Conte, il quale tacciò il frate di ingenuità e di scarsa conoscenza del mondo;<br />

ma don Rodrigo,volendo evitare che la contesa si riaccendesse, perché a lui<br />

premeva non alienarsi l’amicizia del Podestà, cioè la benevola connivenza della<br />

massima autorità governativa del territorio di Lecco, incaricò scherzosamente<br />

l’avvocato, che per difendere ogni assunto era una cima, di giustificare il parere<br />

del frate. Il dottor Azzecca-garbugli, chiamato in causa, rispose cerimoniosamente<br />

che il parere del Cappuccino non era adeguato a una disputa cavalleresca, pur<br />

avendo il suo peso dal punto di vista religioso; secondo lui il frate aveva voluto,<br />

con una battuta scherzosa, togliersi dall’impaccio di dare una sentenza in una<br />

materia lontana dal suo ministero. Allora don Rodrigo, sempre allo scopo di<br />

stornare il discorso da quell’argomento scottante, accennò alla guerra che si stava<br />

<strong>com</strong>battendo per la successione al ducato di Mantova, aggiungendo che a Milano<br />

33


correvano voci di ac<strong>com</strong>odamento. Ma purtroppo anche a questo proposito si<br />

riaccende l’antagonismo ideologico fra il Conte e il Podestà; infatti questi nega<br />

ogni possibilità di accordo, sostenendo di essere ben informato, in quanto amico<br />

intimo del capitano spagnolo <strong>com</strong>andante la guarnigione di Lecco, il quale a sua<br />

volta è una creatura del Primo Ministro di Madrid, nientemeno che il conte<br />

d’Olivares, detto il Conte duca. Don Attilio a sua volta sostiene che ogni giorno a<br />

Milano gli capita di parlare con personaggi molto più altolocati e informati di un<br />

semplice capitano di guarnigione, e può quindi assicurare che sono avviate<br />

trattative, specie per opera del Papa… In un batter d’occhio la disputa si rinfocola<br />

e rischia di arrivare a un punto di rottura, ma don Rodrigo dà d’occhio al cugino,<br />

facendogli capire che, per amor suo, cessi dal contraddire il Podestà; e solo allora<br />

questi, avendo campo libero, poté tessere una sperticata lode del Conte duca,<br />

irridendo alle mene di quel povero Cardinale di Richelieu che s’illudeva di poter<br />

<strong>com</strong>petere con un Olivares.<br />

Don Rodrigo, per mettere fine a questo elogio che non piaceva al cugino, il<br />

quale ormai non stava più alle mosse e gli faceva gli occhiacci, propose di fare un<br />

brindisi in onore del Conte duca. Il Podestà accolse la proposta con orgoglio ed<br />

entusiasmo, “perché – dice ironicamente il Manzoni – tutto ciò che si faceva o si<br />

diceva in onore del Conte duca, lo riteneva in parte <strong>com</strong>e fatto a sé.” E volle lui<br />

stesso esprimere nel brindisi i voti dei presenti, mentre il dottore si assunse il<br />

<strong>com</strong>pito di tessere l’elogio del vino – anzi del nettare – di don Rodrigo. Ma le<br />

parole laudative dell’avvocato, il quale a un certo punto affermò che la carestia<br />

era bandita per sempre dal palazzo del signor don Rodrigo, richiamarono<br />

l’attenzione e il discorso su questo doloroso argomento. Qui tutti erano d’accordo<br />

che la penuria era causata dai fornai e dai cinici incettatori di derrate, contro i<br />

quali bisognava agire subito. Ma anche a questo proposito si riaccende la contesa<br />

tra il Conte e il Podestà: il primo grida che bisogna impiccarli senza misericordia<br />

e senza formalità, il secondo chiede dei buoni processi (cioè con la tortura e le<br />

altre belle garanzie legali); finché il padrone di casa si alza e chiede licenza agli<br />

ospiti di appartarsi per il colloquio che aveva promesso al Padre.<br />

34


CAPITOLO VI<br />

Condotto il visitatore in un’altra stanza, senza invitarlo ad ac<strong>com</strong>odarsi, e<br />

quindi mostrando chiaramente l’intenzione di spicciarsi, don Rodrigo con tono<br />

duro e imperioso chiese: <strong>“I</strong>n che posso obbedirla?” Al tono sgarbato della voce<br />

del suo interlocutore, che contrastava fortemente con la gentilezza manierata della<br />

formola, fra Cristoforo si sentì <strong>com</strong>e sferzato, e stava per rispondere per le rime,<br />

quando si ricordò per chi e per che cosa stava lì, e propose di essere il più umile, il<br />

più calmo e il più prudente possibile, per cercare di convincere con le buone il<br />

signore a desistere dal non certo onorevole impegno.<br />

Però si accorse subito che il proposito era oltremodo difficile, perché il suo<br />

interlocutore cercava di offenderlo, per far degenerare il colloquio in contesa,<br />

onde far perdere le staffe al frate e quindi avere il pretesto di metterlo alla porta<br />

prima che potesse venire al nocciolo della questione. Infatti, avendo fra Cristoforo<br />

fatto appello all’onore e alla coscienza del signore, in difesa di una ragazza<br />

perseguitata, questi con tono risentito rispose che non aveva alcuna intenzione di<br />

confessarsi da lui, e in quanto all’onore, lui ne era il solo geloso custode, e<br />

chiunque ardisse occuparsene sarebbe stato da lui considerato <strong>com</strong>e il peggiore<br />

nemico di esso.<br />

Fra Cristoforo ingoia l’offesa e, raddoppiando la circospezione, rinnova le<br />

preghiere e le suppliche in nome di Dio, “per quel Dio, al cui cospetto dobbiamo<br />

tutti <strong>com</strong>parire”; ma il signorotto lo interrompe brusco, dicendo che non tollera<br />

uno che gli viene a fare la spia in casa.<br />

Queste parole ingiuriose fecero venir le vampe sul volto del frate; eppure, con un<br />

supremo sforzo di autocontrollo, egli riuscì a contenersi e, senza raccoglier<br />

l’offesa, a insistere nella preghiera di lasciar in pace la ragazza, accennando<br />

ancora alla responsabilità che il signore aveva davanti a Dio e alla Sua giustizia,<br />

anche se poteva eludere la legge umana. Allora don Rodrigo, con insinuazione<br />

maligna, disse che se c’era qualche ragazza che gli premeva, andasse a fare le sue<br />

confidenze a qualche altro, e non infastidisse più a lungo un gentiluomo; e fece<br />

atto di andarsene. Ma fra Cristoforo, senza mostrarsi offeso, rispose che quella<br />

ragazza gli stava a cuore spiritualmente non più di lui stesso, e tornò a pregarlo<br />

con accorata insistenza. A questo punto don Rodrigo, volendo farla finita, ben<br />

sapendo che, alla sua proposta, il frate non avrebbe più saputo dominarsi, disse al<br />

suo interlocutore di convincere detta ragazza a venire spontaneamente nel suo<br />

palazzo, mettendosi sotto la sua protezione, così nessuno avrebbe più osato<br />

importunarla… A queste parole il frate non riuscì più a trattenere il suo sdegno<br />

lungamente represso; ogni proposito di calma e di pazienza fu dimenticato, e<br />

anche il suo aspetto esteriore fu trasformato: il viso si accese, gli occhi<br />

lampeggiarono, il busto si fece eretto, e con fiera positura egli rispose che la<br />

ragazza era sotto la protezione di Dio e sicura dalle sue grinfie. Dicendo queste<br />

parole assunse il tono di sfida, di accusa e di minaccia proprio degli inesorabili<br />

35


profeti dell’Antico Testamento (“con la prosopopea di Nathan” dice il Manzoni),<br />

e aggiunse alzando la voce: “Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in<br />

quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…”<br />

Don Rodrigo, preso da spavento per l’infausta profezia che si annunziava, la<br />

troncò immediatamente, investendo il Cappuccino con le minacce e gli insulti più<br />

volgari e truculenti: “Escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone<br />

incappucciato… ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti<br />

salva dalle carezze che si fanno ai tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le<br />

tue gambe, per questa volta; e la vedremo”. Con quest’ultima frase mostrò di<br />

accettare in pieno la sfida a proposito di Lucia, per cui il suo possesso diventava<br />

per lui, da quel momento, anche un punto di onore.<br />

Fra Cristoforo ricevette gli improperi senza s<strong>com</strong>porsi, non rispondendo nulla,<br />

perché ormai ogni parola era inutile, e la sua missione era fallita: di questo<br />

soltanto era addolorato e profondamente amareggiato, non dei brucianti insulti,<br />

che sembrava non lo riguardassero, perché tutta la sua vita era associata all’idea di<br />

umiliazione e abnegazione di sé stesso.<br />

Mentre usciva per la porta indicatagli con cenno imperioso dal padrone di<br />

casa, vide il vecchio servitore che si ritirava lungo il muro, evidentemente per non<br />

farsi scorgere dal signore. Quindi, ac<strong>com</strong>pagnando il frate all’uscita, gli disse in<br />

gran mistero, e chiedendo il segreto, che aveva qualcosa da <strong>com</strong>unicargli in<br />

merito all’argomento del colloquio, e che sarebbe andato al convento non appena<br />

avesse appurato che cosa di preciso si stava preparando contro Lucia, perché<br />

qualcosa in aria c’era di sicuro. E soggiunse: “Mi tocca a vedere e a sentir cose…!<br />

cose di fuoco! Ma io vorrei salvar l’anima mia.” Fra Cristoforo lo benedisse e lo<br />

pregò di andare al convento l’indomani per rivelargli tutto ciò che si stava<br />

tramando; quindi uscì da quella casa con questo pegno di assistenza che il Signore<br />

gli aveva concesso proprio in quel luogo, dove meno se lo sarebbe aspettato; e<br />

questo addolcì alquanto la sua amara delusione.<br />

A proposito del vecchio servitore, il Manzoni accenna al problema morale<br />

posto dal suo <strong>com</strong>portamento verso il proprio padrone: gli era lecito origliare, per<br />

conoscere lo scopo della visita del Cappuccino? E noi potremmo anche chiederci:<br />

gli era lecito fare la spia, attraversare i disegni del padrone, contravvenendo al<br />

dovere della fedeltà? “Questioni importanti – dice l’Autore – ma che il lettore<br />

risolverà da sé, se ne ha voglia.” Il Manzoni però, mentre sembra volersene lavare<br />

le mani, ci mette sulla buona strada della soluzione di questo problema morale,<br />

quando dice che ogni regola ha la sua eccezione. Infatti il servo agiva a fin di<br />

bene: egli aveva saputo qualcosa a proposito di Lucia, che cioè si tramava contro<br />

l’innocente per insozzarne la purezza; aveva intuito che il frate era venuto per<br />

quella cosa, e volle accertarsene tendendo l’orecchio al buco della serratura;<br />

avutane la certezza, si mise subito a disposizione del frate per salvare quella<br />

poveretta insidiata dal suo padrone. Sentiva di doverlo fare per coscienza, mentre<br />

il dovere di fedeltà in questo caso non lo vincolava più, poiché nessuno può essere<br />

tenuto a essere collaboratore o connivente con gli operatori di iniquità. Infatti la<br />

morale cristiana ci insegna che non dobbiamo più ubbidire ai superiori quando ci<br />

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<strong>com</strong>andano cose ingiuste o cattive; e in tal caso siamo anche sciolti dal vincolo di<br />

fedeltà, anche se avessimo esplicitamente giurato di essere fedeli e ubbidienti.<br />

Mentre il frate si batteva per la causa di Lucia nel palazzotto di don Rodrigo,<br />

nella casetta di Agnese si ventilava un altro progetto: il matrimonio di sorpresa.<br />

L’esperta vedova assicurò la figlia e il futuro genero che, se si presentavano al<br />

parroco con due testimoni e pronunciavano una certa formula, con cui<br />

dichiaravano la loro volontà di essere marito e moglie, il matrimonio era valido<br />

<strong>com</strong>e se l’avesse celebrato il Papa. I promessi sposi rimasero meravigliati e quasi<br />

increduli, ma Agnese confermò la cosa anche con un esempio, accaduto in paese<br />

molti anni prima; sicché Renzo abbracciò il partito con entusiasmo, perché il<br />

progetto gli sembrava a tutta prima facile e sbrigativo. Lucia invece non sembrava<br />

affatto convinta. Il suo ragionamento era semplice ma inoppugnabile: se la cosa è<br />

lecita, perché non dirlo al Padre? se lecita non è, non dobbiamo farla. Agnese<br />

ribatté che mai avrebbe dato un consiglio contro la legge di Dio; certo quel tipo di<br />

matrimonio era <strong>com</strong>e un’eccezione alla regola generale, ma non era colpa loro se<br />

la via normale era loro preclusa; la colpa era del curato che non voleva fare il suo<br />

dovere, per obbedire a un prepotente senza timor di Dio…<br />

Renzo, ormai tutto preso dall’idea, pensò subito ai testimoni e al modo<br />

d’introdursi nella casa del curato, poiché questo gli sembrava il punto più difficile,<br />

dato che don Abbondio se ne stava tappato in casa, certamente anche per il<br />

sospetto che i due promessi potessero ricorrere alla via eccezionale del<br />

matrimonio clandestino. “Le tribolazioni aguzzano il cervello”, osserva il<br />

Manzoni, aggiungendo che Renzo il quale, fino a quel giorno, non aveva avuto<br />

occasione di aguzzare il suo, non essendosi mai trovato in circostanze critiche, in<br />

questa situazione difficile aveva escogitato un piano davvero magistrale. Sapeva<br />

che Tonio, un suo amico, doveva a don Abbondio 25 lire per fitto di un campo, e<br />

pensò che, se il debitore si fosse presentato di prima sera alla porta della canonica<br />

per pagare quella somma, sarebbe stato certamente introdotto, nonostante il<br />

sospetto del parroco, poiché la sua ben nota avidità non avrebbe voluto perdere la<br />

buona occasione, a lungo aspettata. Con Tonio poteva entrare anche un altro,<br />

<strong>com</strong>e ac<strong>com</strong>pagnatore, dato che portava quel denaro; e dietro i due avrebbero<br />

potuto insinuarsi, data l’oscurità, i promessi sposi.<br />

Per concertare meglio il piano di azione col suo principale collaboratore,<br />

Renzo andò a casa sua, e lo trovò che si accingeva a desinare, per cui lo invitò a<br />

cenare con lui all’osteria, per non disturbare il resto della famiglia; proposta tanto<br />

più gradita, in quanto la carestia si faceva già sentire nella povera casa di Tonio, e<br />

la piccola polenta di gran saraceno, appena scodellata sulla tafferìa di faggio, non<br />

avrebbe potuto saziare la fame della numerosa famiglia. Una volta all’osteria<br />

(“luogo di delizie” per gli abitanti del paesello, i quali però si erano disavvezzati<br />

ad essa a causa della penuria), dopo aver mangiato quello che trovarono e scolato<br />

un boccale di vino, Renzo espose il suo piano che il <strong>com</strong>pagno accolse con<br />

entusiasmo e gratitudine: si trattava di pagare il debito, che don Abbondio gli<br />

rinfacciava in ogni incontro, e di riavere la collana d’oro della moglie, pretesa<br />

<strong>com</strong>e pegno dal parroco, che evidentemente non accordava fiducia alle sue<br />

37


pecorelle, la quale sarebbe stata barattata in altrettanta polenta, per sfamarsi<br />

almeno per qualche mese. Per il secondo testimone Tonio propose il fratello<br />

Gervaso, in verità un po’ tonto; ma gli avrebbe insegnato lui ben bene il da farsi…<br />

Renzo tornò a casa della fidanzata, contento di aver avviato il suo progetto in<br />

modo così favorevole. Ma c’era ancora una difficoltà, <strong>com</strong>e fece giustamente<br />

rilevare Agnese: Perpetua avrebbe fatto entrare i due fratelli, latori della somma;<br />

ma avrebbe fatto entrare i due promessi? anzi avrà ordine di tenerli ben lontani!...<br />

Il giovane si trovò impicciato davanti a questa difficoltà, ma la brava Agnese disse<br />

che aveva trovato lei il mezzo per distrarre la serva del curato: si sarebbe trovata lì<br />

<strong>com</strong>e se fosse di passaggio, e dopo averla salutata, mentre apriva ai due testimoni,<br />

le avrebbe toccato un tasto a cui era molto suscettibile, una certa corda che<br />

avrebbe sicuramente dato il suo suono: bastava accennare dubitativamente ai<br />

matrimoni che lei diceva di aver rifiutati!<br />

Renzo ringraziò con trasporto la futura suocera: “Benedetta voi! l’ho sempre<br />

detto che siete nostro aiuto in tutto.” Restava però un’ultima e più grave difficoltà,<br />

che frustrava tutte le precedenti brillanti soluzioni escogitate dai due, alleati alla<br />

buona riuscita dell’impresa: Lucia restava ferma nel suo diniego! Le sue parole<br />

erano accorate ma salde nel suo proposito: “Ah Renzo! non abbiam <strong>com</strong>inciato<br />

così. Io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio,<br />

all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il<br />

bandolo d’aiutarci, meglio che non possiam far noi, con tutte codeste furberie? E<br />

perché far misteri al padre Cristoforo?”<br />

Mentre la madre e il fidanzato cercavano invano di convincerla, si sentì il<br />

calpestio dei sandali e il fruscio del saio del frate, che stava giungendo frettoloso;<br />

per cui azzittirono, e Agnese pregò sommessamente la figlia di non dir niente al<br />

Padre, della cosa.<br />

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CAPITOLO VII<br />

Il padre Cristoforo, dice il Manzoni, giungeva <strong>com</strong>e un bravo capitano che,<br />

perduta senza sua colpa una battaglia, non perde la testa, ma si reca con prontezza<br />

là dove il bisogno lo chiama. Con poche parole informa dell’essenziale i suoi cari<br />

protetti: “Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio:<br />

e già ho qualche pegno della sua protezione.” Le donne accolsero con dolente<br />

rassegnazione la triste notizia, ma Renzo fu sopraffatto dall’ira, e voleva sapere, il<br />

poveretto, quali ragioni aveva portato, quel cane, per sostenere la sua turpe<br />

pretesa… Come se i prepotenti dovessero dire i motivi delle loro azioni ingiuste e<br />

violente.<br />

Fra Cristoforo non si sdegnò per questo scatto del giovane, il quale era fuori di sé;<br />

sapeva ben mettersi nei suoi panni, e lo <strong>com</strong>pativa con tutto il cuore; ma lo esortò<br />

affettuosamente ad avere pazienza e fiducia nel Signore, a concederGli il tempo<br />

che si voleva prendere per far trionfare la giustizia. Quindi si congedò dopo aver<br />

pregato Renzo di andare l’indomani al convento (o di mandare, in caso di<br />

impedimento, qualche persona fidata) per sapere che cosa bisognasse fare, in base<br />

alle notizie che lui stesso sperava di ricevere. Uscito dalla casetta, si affrettò verso<br />

il convento, per giungervi prima dell’imbrunire, onde non meritare qualche<br />

punizione che potesse limitare, il giorno dopo, la sua libertà di movimento, della<br />

quale aveva assoluto bisogno per agire efficacemente in difesa di Lucia.<br />

Costei, partito il Padre, subito parlò con fiducia del “pegno” a cui il frate<br />

aveva accennato, per aiutarli, e disse che bisognava fidarsi di lui, perché non<br />

prometteva invano; ma Agnese replicò che doveva essere ben misera cosa, una<br />

cosa campata in aria, perché altrimenti il Padre avrebbe dovuto precisarla meglio<br />

o almeno dirla a lei in disparte. Renzo poi fu travolto dall’ira, che davanti a fra<br />

Cristoforo aveva a stento trattenuta, e <strong>com</strong>e fuor di sé andava gridando che<br />

l’avrebbe trovato lui il mezzo di risolvere la cosa e liberare nello stesso tempo il<br />

paese tutto, avesse pur mille diavoli in corpo quel dannato… Lucia, a queste<br />

parole ben troppo chiare, ebbe un sussulto di orrore che la paralizzò per qualche<br />

momento, ma poi vinse il suo terrore, e cercava di far tornare Renzo in sé, ma<br />

infine il pianto le impedì di continuare. Anche Agnese si adoperava per calmare il<br />

giovane; ma si vedeva che la sua paura non era tanto per l’omicidio in sé, per la<br />

responsabilità di Renzo davanti a Dio, quanto per il pericolo insito nella sua<br />

realizzazione e per le conseguenze che ne deriverebbero davanti alla giustizia<br />

umana. Alla figlia invece faceva orrore l’azione in sé e la grave offesa della legge<br />

di Dio, che è legge di perdono e di amore. Agnese invita Renzo a riflettere che il<br />

proposito truce non è facilmente realizzabile: “Non vi ricordate quante braccia ha<br />

al suo <strong>com</strong>ando colui? E quand’anche… Dio liberi!... contro i poveri c’è sempre<br />

giustizia.”<br />

Davanti al reiterato proposito del fidanzato di uccidere quel cane assassino,<br />

per poi mettersi in salvo oltre il confine, ac<strong>com</strong>pagnato dalle benedizioni della<br />

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gente, Lucia trova la forza di parlare, e si esprime con molta fermezza: lei si era<br />

promessa a un giovane timorato di Dio; ma uno che avesse <strong>com</strong>messo un’offesa<br />

così grave contro la legge divina, fosse anche al sicuro da ogni vendetta o<br />

giustizia degli uomini, non l’avrebbe mai sposato! ”E bene! – gridò Renzo col<br />

viso più che mai stravolto – io non v’avrò; ma non v’avrà neanche lui. Io qui<br />

senza voi, e lui a casa del …” La ragazza, udendo queste terribili parole, tornò alle<br />

suppliche, al pianto, e infine si gettò in ginocchio davanti allo sposo,<br />

scongiurandolo di non farla morire di angoscia. Ma Renzo che probabilmente, pur<br />

nella furia dell’ira, intuiva di poter approfittare della paura di lei per indurla al<br />

matrimonio clandestino, con voce dura le disse: “Che bene mi volete voi?... Non<br />

v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!” Lucia questa volta è vinta, e<br />

risponde immediatamente che sarebbe andata dal parroco, anche subito se lo<br />

voleva, purché tornasse quello di prima; davanti alla promessa della sposa l’ira di<br />

Renzo sbollì quasi a un tratto, e Agnese fu doppiamente contenta, e per Renzo<br />

tornato finalmente in sé, e per Lucia che si era infine convinta. E probabilmente<br />

anche la ragazza non era del tutto scontenta di essere stata costretta ad<br />

acconsentire, perché amava Renzo, e purtroppo il matrimonio clandestino era<br />

ormai l’unico mezzo per diventare subito sua moglie. Intanto si era fatta notte, e<br />

Renzo lasciò la casetta delle sue care donne.<br />

Il giorno seguente ci tornò di buon’ora, per prendere gli ultimi accordi con<br />

Agnese, in quanto Lucia rimaneva del tutto passiva all’elaborazione del piano, pur<br />

promettendo che avrebbe fatto tutto quello che occorreva, nel modo migliore che<br />

saprebbe. A Pescarenico, per ricevere eventuali avvisi da padre Cristoforo, Renzo<br />

non volle andare, sia perché doveva ancora “accudire all’affare”, sia perché<br />

temeva che il Padre gli potesse leggere in viso la novità che si preparava per<br />

quella sera. Sicché Agnese decise di mandare Menico, un lontano nipote di circa<br />

dodici anni, ragazzo molto sveglio e da poterci fare affidamento. Lo chiese ai<br />

genitori, gli fece fare un’abbondante colazione, e quindi lo mandò al convento,<br />

ammonendolo di restare sempre lì a disposizione di fra Cristoforo, senza andare al<br />

lago a veder pescare o per giocare lui stesso a rimbalzello, che era la sua<br />

specialità. “Poh! zia; non son poi un ragazzo.” In queste parole Menico mostra<br />

una serietà superiore alla sua età; egli si sente investito di un <strong>com</strong>pito importante e<br />

delicato, e se ne vuol mostrare degno; rassomiglia un po’ a Bettina la quale,<br />

allorché fu pregata dallo sposo di recare quell’ambasciata segreta a Lucia, si<br />

affrettò a eseguirla col massimo impegno, “lieta e superba d’avere una<br />

<strong>com</strong>missione segreta” per la sposa.<br />

Per tutta la mattinata però si videro ronzare intorno alla casetta di Agnese dei<br />

viandanti sconosciuti i quali, passando a passo lento davanti alla porta di strada,<br />

gettavano qua e là degli sguardi esplorativi. Uno poi, vestito da mendicante, ma<br />

non “rifinito né cencioso <strong>com</strong>e i suoi pari”, entrò addirittura nella casetta, con la<br />

scusa di avere un po’ di carità; ricevuto un pezzo di pane, si attardò a fare<br />

domande indiscrete alle quali Agnese, per nulla ingenua, rispose evasivamente o<br />

al contrario delle verità. Mentre se ne andava, finse di sbagliar uscio e imboccò<br />

quello che dava alla scala; richiamato prontamente indietro e indicatagli la porta<br />

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giusta, se ne uscì scusandosi “con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei<br />

lineamenti duri di quella faccia.”<br />

Per capire chi fossero il finto mendico e gli altri spioni, dobbiamo tornare un<br />

poco indietro nel racconto, cioè al momento in cui don Rodrigo, fremente d’ira e<br />

d’orrore, vide allontanarsi dalla sua casa l’aborrito frate. Per cercare di calmarsi,<br />

camminava a passi concitati su e giù per la stanza, tappezzata dei ritratti dei suoi<br />

antenati: un capitano, terrore dei nemici ma anche dei propri soldati; un<br />

magistrato, terrore dei litiganti e degli avvocati; una matrona, terrore delle sue<br />

cameriere; perfino un abate, terrore dei suoi monaci; insomma tutta gente che<br />

aveva incusso paura e la spirava ancora dai visi accigliati. Tanto più il puntiglioso<br />

signore si arrabbiava con sé stesso, per non aver reagito convenientemente contro<br />

l’ardire del frate, che aveva osato inveire contro di lui con l’aspetto di un profeta<br />

biblico. Ma pure, ripensando a quell’inizio di profezia (“Verrà un giorno…”), si<br />

sentiva accapponare la pelle, preso da un misterioso spavento, e in certi momenti<br />

pensava anche di rinunciare e alla vendetta e alla passione sensuale, che ormai<br />

diventava tormentosa. Per farsi passar la mattana, uscì a passeggio con un buon<br />

seguito, quindi si recò in una casa di amici, dove fu ricevuto con molto rispetto, e<br />

tornò al palazzotto molto tardi. Era ad attenderlo il malefico cugino, il quale<br />

<strong>com</strong>inciò a punzecchiarlo circa la s<strong>com</strong>messa (doveva pagare una grossa somma,<br />

se per il giorno di San Martino – 11 novembre – la ragazza non fosse già in suo<br />

possesso) e circa la visita del frate il quale, secondo l’ironico don Attilio, avrebbe<br />

niente di meno convertito quel libertino di Rodrigo. Questi troncò con aria di sfida<br />

quei frizzi molesti, dicendo che la data di San Martino avrebbe deciso della<br />

s<strong>com</strong>messa, che lui era pronto a raddoppiare, tanto era sicuro di vincerla; il che<br />

lasciò tra incredulo e attonito il conte, ignaro di quanto si stava tramando.<br />

“La mattina seguente – dice il Manzoni – don Rodrigo si destò don Rodrigo”,<br />

vale a dire con la sua albagia, e con la passione più viva che mai: le ubbie, le<br />

paure per quell’esordio di profezia del maledetto frate erano svanite col sonno e<br />

coi sogni della notte, e lui si sentiva forte e più sicuro che mai. Chiamò il fedele<br />

(tale lo credeva) luogotenente, il Griso, un assassino il quale aveva ottenuto<br />

l’impunità indossando la sua livrea e mettendosi al suo incondizionato servizio, e<br />

gli <strong>com</strong>andò che entro quella giornata (era il 10 novembre) o meglio prima<br />

dell’alba dell’indomani, la ragazza che lui sapeva doveva trovarsi già nel palazzo.<br />

Ed ecco il Griso iniziare immediatamente l’opera di ricognizione del terreno in cui<br />

avrebbe dovuto operare la notte successiva, e credette bene di poterlo fare meglio<br />

sotto mentite spoglie; ecco i suoi degni accoliti gironzolare, quali onesti viandanti,<br />

intorno alla povera casetta, per rendersi conto della sua posizione. Espletata la<br />

fase esplorativa, si passa a quella operativa: il piano del ratto viene congegnato in<br />

ogni particolare tra il Griso e il suo padrone, che gli rac<strong>com</strong>anda pressantemente,<br />

facendolo responsabile, di usare ogni rispetto alla ragazza, di non torcerle un<br />

capello.<br />

Il vecchio servitore, che stava all’erta, riuscì infine a sapere quello che si<br />

preparava per la notte quando questa era ormai vicina, ma non volle mancare al<br />

suo impegno, e uscito con la scusa di prendere una boccata d’aria, corse al<br />

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convento a portarne l’avviso al Padre, mentre già un’avanguardia del corpo di<br />

spedizione era andata ad appostarsi in un casolare abbandonato, appena fuori del<br />

paese e non distante dalla casetta di Agnese. Più tardi sarebbe partito il grosso<br />

della truppa con il Griso, e infine fu condotta al casolare una bussola per<br />

trasportare la prigioniera. Quando furono tutti riuniti nella base di partenza, il<br />

Griso ne mandò tre all’osteria del villaggio in ispezione, per vedere se ci fossero<br />

novità da segnalare, e avvertire quando tutti gli abitanti fossero a letto. Mentre i<br />

tre birboni giungevano all’osteria e si postavano, uno alla porta a spiare e due<br />

dentro a giocare alla morra, Renzo si recò dalle donne, per dire che andava<br />

all’osteria con Tonio e Gervaso, per offrire loro la cena, <strong>com</strong>e aveva promesso:<br />

loro si tenessero pronte e si facessero coraggio, specie Lucia.<br />

Quando il giovane giunse all’osteria coi suoi ospiti, trovò il bravo (travestito)<br />

che sbarrava spavaldamente metà porta, e per non attaccar lite, dato che aveva ben<br />

altro a cui pensare in quel momento, si adattò a entrare di traverso, <strong>com</strong>e fecero i<br />

suoi due amici. Dentro poi vide l’altra bella coppia, che smisero subito di giocare<br />

per squadrarlo fieramente. Parve a Renzo che i tre <strong>com</strong>pagnoni si scambiassero<br />

uno sguardo d’intesa, per cui s’insospettì, ma non sapeva che cosa pensare di quei<br />

forestieri. Comunque prese posto con i suoi ac<strong>com</strong>pagnatori, e all’oste, che si era<br />

presentato per servirli, chiese sottovoce chi fossero quei signori; quegli rispose di<br />

non conoscerli, mentre sapeva benissimo che erano bravi di don Rodrigo, anche se<br />

senza livrea e apparentemente disarmati. Quando poi l’oste fu tornato in cucina<br />

per prendere le vivande, uno dei bravacci gli si accostò e gli chiese con fare poco<br />

cerimonioso chi fossero i nuovi venuti, e naturalmente venne subito accontentato.<br />

A questo proposito l’Autore mette in luce il diverso modo di <strong>com</strong>portarsi<br />

dell’oste, il quale affermava a ogni piè sospinto di essere amico dei galantuomini,<br />

ma in realtà “usava molto maggior <strong>com</strong>piacenza con quelli che avessero<br />

riputazione o sembianza di birboni.” Purtroppo il mondo va così anche oggi!<br />

Quando Renzo, dopo aver cenato con poco appetito, uscì dall’osteria, si<br />

accorse con allarme che i due bravi che aveva lasciati dentro si erano messi invece<br />

a seguirlo; allora si fermò deciso, per vedere una buona volta che cosa volessero.<br />

Ma quelli, che avevano avuto l’intenzione di sorprenderlo e di conciarlo ben bene,<br />

secondo le istruzioni del padrone al Griso nel caso che fosse loro capitato nelle<br />

mani, visto che il giovane s’era accorto di loro, si fermarono indecisi, quindi<br />

pensarono bene di rinunciare al loro progetto, per non guastare per caso il piano<br />

principale con la loro estemporanea iniziativa. Infatti nel villaggio c’era ancora<br />

molta gente in giro, e la situazione non era propizia alla realizzazione del loro<br />

proposito, che pur avrebbe potuto procurar loro un lauto premio dal signore.<br />

Allorché Renzo con i testimoni giunse alla casetta della fidanzata, costei si<br />

trovava in tale stato di prostrazione morale e di spavento, che era decisa a soffrire<br />

ogni cosa pur di non acconsentire a quanto aveva pur promesso; ma quando tutti si<br />

avviarono senza alcuna esitazione, non seppe opporsi, né dire alcunché, e anche<br />

lei si mosse con gli altri <strong>com</strong>e un’insensata. Presero per i campi, per non<br />

attraversare il paese, volendo evitare di esser visti da alcuno, e dalle viottole<br />

sbucarono nei pressi della canonica. Qui si divisero: avanti Tonio e Gervaso (“che<br />

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non sapeva far nulla da sé, - osserva umoristicamente il Manzoni – e senza il<br />

quale non si poteva far nulla”), Agnese un po’ più indietro, per impadronirsi di<br />

Perpetua non appena fosse apparsa sulla porta, i promessi ancora più indietro,<br />

nascosti dall’angolo dell’edificio.<br />

Al picchio di Tonio, Perpetua si affacciò alla finestra, chiedendo chi fosse a<br />

quell’ora; Tonio si fece riconoscere, aggiungendo che doveva parlare col curato.<br />

“E’ ora da cristiani questa? – disse bruscamente la donna – Tornate domani.”<br />

Allora Tonio disse che aveva riscosso proprio allora venticinque lire e veniva a<br />

pagare il suo debito; però, se l’ora era indiscreta, se ne andava a casa, ma il curato<br />

avrebbe dovuto poi pazientare ancora un bel po’, perché quei soldi gli servivano<br />

per tante cose, e prima di tutto per mangiare: per questo era venuto pur a quell’ora<br />

tarda, ché altrimenti non avrebbe resistito alla tentazione di investirli in farina.<br />

Allora Perpetua, cadendo nella trappola, lo pregò di aspettare, finché andava a<br />

riferire al padrone. Si poteva s<strong>com</strong>mettere che costui, così avido di denaro, non si<br />

sarebbe fatto sfuggire il debitore volenteroso; perciò Agnese si avvicinò ai due<br />

fratelli e <strong>com</strong>inciò a ciarlare con Tonio, fingendo di essersi imbattuta con lui<br />

tornando dal villaggio vicino. I due promessi sposi rimasero soli dietro la<br />

cantonata, e Lucia, appoggiata al braccio dello sposo, tremava <strong>com</strong>e una foglia,<br />

sia per quello che stava per fare, che la sua coscienza non poteva approvare, sia<br />

per il fatto di trovarsi, per la prima volta, tanto familiarmente sola con lui, mentre<br />

pur sperava di diventare sua moglie entro pochi minuti. Ma non erano le nozze<br />

che lei aveva sognato!<br />

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CAPITOLO VIII<br />

Perpetua andò a riferire al padrone, immerso nella lettura di un panegirico di<br />

San Carlo; anche lui brontolò che l’ora era indiscreta, ma aggiunse subito che non<br />

bisognava lasciarsi sfuggire la buona occasione, che chi sa quando si sarebbe<br />

ripresentata. Quando la serva scese e aprì l’uscio per far entrare i due fratelli,<br />

Agnese la salutò e aggiunse che veniva dal paesetto vicino, e che aveva fatto tardi<br />

proprio per difenderla dalle calunnie delle pettegole, poiché “una donna di quelle<br />

che non sanno le cose, e vogliono parlare” sosteneva che lei era rimasta zitella,<br />

perché non aveva mai trovato uno che la volesse. Questa corda aveva larghe<br />

risonanze nell’animo di Perpetua, la quale subito abboccò l’amo e s’ingolfò,<br />

appartatasi con l’amica, nel racconto dettagliato di tutti i partiti che le si erano<br />

presentati e che lei aveva puntualmente rifiutati. Sicché ad Agnese non fu<br />

difficile, nel fervore del racconto, allontanarla sempre più dalla porta e condurla in<br />

un punto della strada da dove non si poteva più vedere l’uscio della canonica.<br />

Allora la donna tossì forte, <strong>com</strong>e era stato convenuto, e Renzo e Lucia si<br />

affrettarono a entrare e raggiungere i due che si erano attardati nella scala.<br />

Arrivati tutti sopra, Tonio entrò nello studio di don Abbondio col fratello; i<br />

due promessi rimasero fuori, accostati al muro, nella penombra: immaginate il<br />

gran battere del cuore di Lucia! Consegnate che ebbe le berlinghe, che il curato<br />

contò e ricontò osservandole a una a una nel timore che ce ne fosse qualcuna<br />

falsa, il villano – scarpe grosse e cervello fino – non si accontentò di riavere la<br />

collana della moglie, ma pretese anche la ricevuta del pagamento: non si sa mai!<br />

Mentre don Abbondio, pur borbottando, scriveva la quietanza, i due fratelli, ritti<br />

davanti al tavolo, gli chiudevano la visuale; in questo punto Renzo e Lucia<br />

entrarono in punta di piedi nella stanza e si nascosero dietro ai testimoni. Tutto<br />

stava riuscendo a pennello, secondo i piani. Allorché il curato, finito di scrivere il<br />

foglietto, alzò la testa e stese la mano per consegnarlo a Tonio, questi e il fratello<br />

si scostarono lateralmente, e in mezzo a loro apparvero a un tratto i due promessi!<br />

Renzo non perse tempo, e pronunciò subito la sua formula:<br />

“Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie.”<br />

Ma Lucia aveva appena <strong>com</strong>inciato a dire timidamente le sue parole sacramentali,<br />

che don Abbondio, reagendo immediatamente dopo il primo sbalordimento, la<br />

investì e, per così dire, la imbacuccò col tappeto del tavolo che aveva ghermito in<br />

furia, rovesciando sul pavimento tutto ciò che c’era sopra, <strong>com</strong>presa la lucerna<br />

che subito si spense immergendo nelle tenebre quella scena tragi<strong>com</strong>ica. Mentre il<br />

curato usciva a salvamento, sempre gridando aiuto, e si barricava in una stanza<br />

più interna, invocando Perpetua a squarciagola, nello studio la scena era<br />

indescrivibile, tra Renzo che cercava di calmare e indurre alla ragione il parroco,<br />

dopo aver tentato invano di bloccarlo, Lucia che, mortificatissima, pregava il<br />

fidanzato di tornare a casa, Tonio che cercava di ripescare la sua ricevuta, caduta a<br />

terra nella ressa, e infine Gervaso che gridava e saltellava <strong>com</strong>e un ossesso. A<br />

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questo punto l’Autore fa un’acuta riflessione: Renzo sembra l’oppressore, perché<br />

s’è introdotto con l’inganno in casa altrui; don Abbondio appare la vittima,<br />

sorpresa in casa propria mentre badava pacificamente ai fatti suoi; nella realtà<br />

invece le posizioni dovevano essere esattamente invertite; e conclude<br />

amaramente: “Così va spesso il mondo…”<br />

Don Abbondio, vedendo che Renzo non si ritirava, ma insisteva a bussare alla<br />

porta della stanza nella quale si era chiuso a chiave, pensò bene di aprire la<br />

finestra e di gridare aiuto verso la piazzetta, nella speranza che qualcuno lo udisse.<br />

Lo udì infatti il sagrestano Ambrogio il quale, svegliato dalle sgangherate grida, si<br />

affacciò al finestrino del suo bugigattolo, e vedendo che era il curato a invocar<br />

soccorso, non se la sentì di accorrere lui solo, ma ritenne più sicuro radunar molta<br />

gente; corse perciò mezzo vestito al campanile e, afferrata la corda della campana<br />

più grossa, <strong>com</strong>inciò a sonare a martello con tutta la forza che gli dava lo<br />

spavento. A questo punto la scena si amplia e si <strong>com</strong>plica, diventando uno<br />

spettacolo corale, nella cui descrizione il Manzoni manifesta la sua grande abilità<br />

di arguto narratore, con un racconto veramente affascinante, e d’icastica evidenza,<br />

di questa “notte degl’imbrogli e dei sotterfugi.” Noi cercheremo di sintetizzare il<br />

vivace racconto.<br />

Innanzi tutto dobbiamo tornare un po’ indietro, per vedere che cosa hanno<br />

fatto nel frattempo i “bravi” incaricati del rapimento di Lucia. I tre di essi che<br />

avevano passato la serata all’osteria, quando videro le strade deserte, fecero un<br />

giretto per il paese per accertarsi che tutti gli usci fossero chiusi, quindi tornarono<br />

in fretta al casolare dove fecero la loro relazione al Griso. Questi, che per la<br />

bisogna si era vestito da pellegrino, subito si mise in marcia alla volta della<br />

casetta, seguito da tutti i suoi uomini. Giunto all’uscio di strada, picchiò con<br />

l’intenzione di presentarsi <strong>com</strong>e un pellegrino sperduto, che chiedeva ricovero per<br />

quella notte. Nessuno risponde; allora si forza la porta, si invade il cortiletto, si<br />

bussa all’uscio di casa. Sic<strong>com</strong>e anche questa volta nessuno risponde, dato che gli<br />

abitanti erano usciti per la loro spedizione poco prima dell’arrivo degli invasori, il<br />

Griso fa forzare anche questa porta, e penetrano tutti nella casetta, eccetto due<br />

lasciati di guardia all’uscio di strada.<br />

Frugano nelle stanze terrene: niente! Si precipitano per le scale, entrano nelle<br />

stanze del primo piano: nessuno! Frugano dappertutto, mettendo ogni cosa<br />

sottosopra: niente! Il Griso è desolato.<br />

Intanto Menico giunge trafelato per recare alle donne e a Renzo, da parte di<br />

Padre Cristoforo, l’avviso di lasciare immediatamente la casa e di rifugiarsi al<br />

convento; fa per picchiare alla porta di strada, ma essa cede e si spalanca da sola;<br />

mentre era esitante, viene afferrato dai due manigoldi lì postati, i quali gli<br />

intimano di non fiatare: lui invece caccia un urlo per lo spavento. I birboni gli<br />

tappano subito la bocca e lo minacciano col coltellaccio, ma proprio in quel<br />

momento risuonano i rintocchi della campana a martello. Chi è in difetto, è in<br />

sospetto: i due malandrini, pensando che si suoni l’allarme contro di loro,<br />

rimangono attoniti, e quasi senza accorgersene lasciano andare il ragazzo, il quale<br />

fugge verso il campanile, dove avrebbe certamente trovato qualcuno. Trovò infatti<br />

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Renzo, Lucia e Agnese, che ai rintocchi pensarono bene di lasciare la casa del<br />

curato per tornare in fretta alla loro, prima che giungesse gente. Riconosciutili al<br />

chiaro di luna, Menico, con la voce alterata dallo spavento, disse loro di non<br />

andare a casa, che era invasa, ma di recarsi subito al convento, dove fra Cristoforo<br />

li attendeva. I poveretti capirono subito più di quanto il ragazzo avesse detto, e<br />

senza frapporre indugio presero per i campi in direzione del luogo indicato.<br />

Nella casetta di Agnese, i lugubri rintocchi avevano seminato lo s<strong>com</strong>piglio<br />

tra i bravi, che subito batterono in ritirata, la quale si sarebbe mutata in rotta senza<br />

l’autoritario intervento del Griso che svergognò un po’ i suoi uomini che si erano<br />

fatti prendere dal panico. Intanto la gente <strong>com</strong>inciò ad accorrere verso il sagrato, e<br />

i primi giunti diedero una voce al campanaro per sapere che fosse successo.<br />

Ambrogio, visto che erano accorsi già parecchi, lasciò la corda della campana e<br />

dall’interno corse ad aprire la porta della chiesa. Ai soccorritori disse che era stata<br />

assalita la casa del curato; sicché tutti si rivolsero verso di quella, e si<br />

meravigliarono non poco nel vederla chiusa e silenziosa. Dentro, don Abbondio<br />

stava rimproverando la serva, la quale con la sua imprudenza e leggerezza l’aveva<br />

esposto a sì gran pericolo; quando si sentì chiamare a voce di popolo, si affacciò e<br />

disse: “Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.” Quindi richiuse la<br />

finestra e non si fece più vedere.<br />

Mentre la gente, brontolando a voce più o meno alta, si allontana<br />

sparpagliandosi, giunge uno tutto trafelato, il quale annuncia con voce rotta che la<br />

casa di Agnese Mondella è invasa da gente armata: si decide di correre in aiuto.<br />

Trovano la casetta vuota, ma con le tracce fresche dell’invasione, e pensando che<br />

le due donne siano state rapite, si propone di eseguire subito una battuta nei<br />

dintorni per raggiungere i rapitori. Ma mentre ci si raccoglie e ci si prepara a<br />

partire, esce uno a dire che Agnese e Lucia si son messe in salvo. La vaga notizia<br />

è subito creduta, perché rispondente al desiderio e all’interesse di ciascuno, e ben<br />

presto la schiera dei villani si disperde, tornando ognuno volentieri alla propria<br />

casa, senza doversi battere con malfattori armati di tutto punto, mentre loro non<br />

avevano altro che forconi e qualche vecchio fucile quasi inservibile.<br />

In questo frattempo Renzo, Agnese, Lucia e Manico (Tonio e Gervaso erano<br />

frettolosamente tornati a casa loro) si erano allontanati di un buon tratto dal<br />

villaggio, per cui rallentarono il passo, e Agnese volle sapere da Renzo <strong>com</strong>’era<br />

andata. Quindi si fecero ripetere meglio da Menico che cosa gli aveva detto il<br />

Padre e che cosa aveva visto nella loro casetta; e nel sentirlo rabbrividirono tutti,<br />

specie Lucia, ed ebbero per il ragazzo parole di affettuoso ringraziamento per<br />

quanto aveva fatto per loro. Regalatolo generosamente, lo rimandarono a casa,<br />

affinché i suoi genitori non stessero più in ansia per lui, a quell’ora ormai tarda.<br />

Essi invece ripresero la strada verso il convento, e dopo poco ci arrivarono.<br />

Dentro la chiesa del convento, lasciata socchiusa, vegliavano in attesa fra<br />

Cristoforo e il laico sagrestano, il quale però era preoccupato per questa infrazione<br />

alla Regola, secondo la quale a quell’ora dovevano essere già coricati, e chiusa la<br />

porta della chiesa. Quando poi, con Renzo, vide entrare le due donne, fra Fazio<br />

(così si chiamava il sagrestano) non si tenne più, ed espresse al confratello il suo<br />

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scandalo per questo fatto enorme: stare di notte in chiesa con donne! Fra<br />

Cristoforo, dimenticando in quel momento che il laico non conosceva il latino,<br />

rispose semplicemente: “Omnia munda mundis.” Risposta molto pertinente: ogni<br />

azione è pura per chi la <strong>com</strong>pie con purezza d’intenti, cioè non bisogna badare<br />

alle apparenze, ma alla sostanza di un fatto, e soprattutto alle intenzioni con cui lo<br />

si fa. Il sagrestano però non sapeva il latino; ma proprio questa ignoranza <strong>com</strong>pì<br />

il miracolo di mettere a tacere fra Fazio. Egli infatti pensò che in quelle arcane<br />

parole ci fosse la risposta a tutti i suoi dubbi, e s’acquetò rinunciando a fare altre<br />

obiezioni.<br />

Fra Cristoforo, vedendo che i suoi protetti erano in salvo, ne ringraziò Dio con<br />

loro, quindi pregò anche per chi li aveva condotti a quel duro passo, perché<br />

essenza del Cristianesimo è appunto l’amare quelli che ci perseguitano, pregando<br />

il Signore per la loro conversione. Dopo aver pregato tutti in ginocchio con molta<br />

<strong>com</strong>mozione, si alzarono, e il frate disse che per loro aveva trovato un ricovero<br />

temporaneo, poiché sperava che tra poco sarebbero potuti tornare con sicurezza<br />

alle loro case. Le donne si sarebbero recate a Monza, dove il guardiano dei<br />

Cappuccini, per il quale consegnava loro una lettera, avrebbe procurato loro un<br />

rifugio sicuro e onorato; Renzo invece doveva proseguire per Milano, per<br />

recapitare un’altra lettera di fra Cristoforo al padre Bonaventura da Lodi,<br />

cappuccino del convento di Porta Orientale, il quale si sarebbe occupato di lui,<br />

procurandogli possibilmente anche da lavorare. Oltre alle due lettere, il buon<br />

Padre aveva anche pensato ai mezzi per il loro viaggio: alla foce del torrente<br />

Bione avrebbero trovato un barcaiolo che li traghetterebbe alla riva opposta del<br />

lago, dove avrebbero trovato un barrocciaio che li trasporterebbe direttamente a<br />

Monza, e li ac<strong>com</strong>pagnerebbe anche al convento dei Cappuccini. Tanto aveva<br />

saputo organizzare in poche ore la paterna sollecitudine del santo frate! Tanto può<br />

la carità!<br />

Durante l’attraversamento del lago, che in quel punto è stretto e sembra fiume,<br />

la <strong>com</strong>mozione con la nostalgia attanagliò i poveri fuggitivi, e soprattutto Lucia,<br />

che rivolse un accorato addio ai suoi monti, al suo lago, ai torrenti rumorosi, al<br />

paesello natio che era tutto il suo mondo, alla sua casa dove tante volte aveva<br />

atteso con trepido desiderio la consueta visita del suo promesso sposo, alla casa<br />

stessa di Renzo, dove già sarebbe dovuta andare ad abitare per “un soggiorno<br />

tranquillo e perpetuo di sposa”, alla chiesa, dove il suo animo si era tante volte<br />

rasserenato nella preghiera e nella meditazione, dove col solenne rito del<br />

matrimonio “il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto.”<br />

Ma questi mesti e pur soavi pensieri, che dall’Autore sono espressi con<br />

impareggiabile afflato lirico, terminano con una certezza, la dolce certezza del<br />

cristiano: si abbandona il dolce nido e le care abitudini, ma Dio è dappertutto “e<br />

non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più<br />

grande.”<br />

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CAPITOLO IX<br />

Quando la barca urtò alla riva opposta, Lucia si riscosse da quella specie di<br />

nostalgico e accorato incantamento, asciugò le lagrime che le avevano rigato le<br />

gote e, scesa con gli altri dal battello, riprese il triste viaggio notturno verso<br />

Monza col biroccio che trovarono pronto per loro. Il biroccio o barroccio,<br />

adoperato ancor oggi nelle campagne specialmente nell’Italia meridionale, è una<br />

rustica vettura senza molle, che serve per il trasporto delle derrate; quindi per i<br />

profughi il viaggio fu molto disagevole, essendo sballottati per diverse ore sopra<br />

quel rigido carretto, su quelle strade disuguali e piene di buche. C’era inoltre la<br />

paura di fare qualche brutto incontro, con malandrini o briganti o addirittura con i<br />

bravi di don Rodrigo. E’ vero che questi si erano ritirati precipitosamente al<br />

palazzotto, ma i poveri fuggitivi non lo sapevano, e temevano sempre di essere<br />

inseguiti da essi. Finalmente, poco dopo l’alba, giunsero a Monza, e dopo essersi<br />

rifocillati in un’osteria si recarono al convento dei Cappuccini, senza Renzo che<br />

era già ripartito per Milano.<br />

Il padre guardiano, quando ebbe letto l’indirizzo della lettera a lui consegnata,<br />

riconobbe subito la calligrafia dell’amico Cristoforo, ed ebbe un’esclamazione di<br />

lieta sorpresa; ma mentre leggeva il contenuto della missiva, il suo volto<br />

assumeva un atteggiamento ora afflitto ora sdegnato; finito di leggere, dopo aver<br />

rivolto in disparte poche domande ad Agnese, disse che l’unica soluzione del loro<br />

caso era di ricorrere alla Signora, per pregarla di accoglierle nel suo monastero,<br />

dove sarebbero state molto sicure. Ottenuto il consenso delle interessate, si mosse<br />

verso il monastero indicato, dopo aver pregato le donne di seguirlo a debita<br />

distanza, per non far ciarlare la gente. Il buon frate voleva evitare, anche presso<br />

qualche spirito meschino, l’eventuale scandalo di farsi vedere in giro con donne:<br />

egli era convinto che bisogna evitare non solo il male, ma possibilmente anche<br />

l’apparenza del male, la quale potrebbe dare a qualcuno delle cattive suggestioni.<br />

E’ vero che “omnia munda mundis”, <strong>com</strong>e aveva detto padre Cristoforo, ma<br />

quando è possibile bisogna evitare di scandalizzare qualche spirito<br />

impressionabile anche con la semplice apparenza del male.<br />

Durante il cammino le donne chiesero al barocciaio, che faceva loro da guida,<br />

chi fosse la Signora. Il brav’uomo rispose che era una suora, non ancora badessa e<br />

neppure priora, essendo ancora molto giovane, ma di grande influenza sia dentro<br />

che fuori il convento, poiché era figlia del principe X, feudatario di Monza, anche<br />

se attualmente risiedeva a Milano. Aggiunse che questa nobile famiglia era<br />

oriunda dalla Spagna “dove son quelli che <strong>com</strong>andano”; e concluse il suo vivace<br />

ragguaglio con queste rassicuranti parole: ”e perciò, se quel buon religioso lì,<br />

ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete<br />

sicure <strong>com</strong>e sull’altare.”<br />

Giunti che furono al monastero di clausura dove si trovava la Signora, il<br />

Guardiano andò solo a implorare la grazia e, ottenutala, introdusse le donne, dopo<br />

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aver congedato il barocciaio, pregandolo di ripassare al convento tra un paio di<br />

ore a prendere la risposta per il padre Cristoforo. Agnese e Lucia ringraziarono<br />

con tutto il cuore il bravo carrettiere per quanto aveva fatto per loro, senza voler<br />

accettare alcun <strong>com</strong>penso. Infatti quel mattino, allorché Renzo, appena smontati<br />

all’osteria, cercò di fargli accettare del denaro <strong>com</strong>e mancia per il suo fastidio,<br />

egli ritirò in fretta la mano poiché, <strong>com</strong>e dice il Manzoni, mirava a “un’altra<br />

ri<strong>com</strong>pensa, più lontana, ma più abbondante.” Lo stesso aveva fatto, la sera prima,<br />

il barcaiolo di Pescarenico, il quale “ritirò la mano, quasi con ribrezzo, <strong>com</strong>e se<br />

gli fosse proposto di rubare.” Tutt’e due erano stati plasmati dall’ardente carità di<br />

fra Cristoforo; il Manzoni, presentandoceli così semplici e generosi, ci vuol quasi<br />

insegnare che tra gli umili popolani spesso ci sono esempi luminosi di virtù<br />

cristiana, mentre purtroppo è difficile trovarne fra i ricchi e i potenti. Sembra l’eco<br />

della terribile affermazione di Cristo nel Vangelo: “E’ più facile che un cammello<br />

passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.”<br />

Quando Lucia, assieme alla madre e al padre guardiano, entrò nel parlatorio<br />

del monastero, si meravigliò molto di non vedervi nessuna suora, ma poi,<br />

osservando meglio, si accorse che una monaca stava ritta dietro una specie di<br />

finestra protetta da una doppia grata. La ragazza non era mai stata in un<br />

monastero, per cui provava un senso di soggezione, misto a una certa curiosità.<br />

A questo punto l’Autore delinea il ritratto fisico della Signora con molta<br />

sobrietà, dicendo che la suora, la quale poteva avere circa 25 anni, “faceva a prima<br />

vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi,<br />

s<strong>com</strong>posta.” Si notava subito che non era molto ligia né alla lettera né allo spirito<br />

della Regola che pur aveva abbracciata: infatti dalla bianca benda frontale usciva<br />

su una tempia una ciocca di capelli, e il saio era attillato e non a sacco <strong>com</strong>e<br />

prescritto dal regolamento. Ma soprattutto i gesti e le parole dimostravano una<br />

monaca singolare: altera, inquieta, tormentata da qualche pensiero segreto, da<br />

qualche gran passione inconfessabile. Gli occhi soprattutto dimostravano i torbidi<br />

sentimenti del suo animo: “si fissavano talora in viso alle persone, con<br />

un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta <strong>com</strong>e per cercare un<br />

nascondiglio.” Ora sembrava che implorassero pietà, ora dimostravano un astio<br />

feroce; ora, fissandosi <strong>com</strong>e distratti, facevano intravedere ”il travaglio d’un<br />

pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello<br />

che gli oggetti circostanti.” Anche i moti delle labbra “erano, <strong>com</strong>e quelli degli<br />

occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero.”<br />

Ma ciò che impressionò maggiormente Lucia, pudica e riservata <strong>com</strong>’era, fu il<br />

tono spregiudicato delle domande della Signora, non frenata neppure dalla<br />

presenza di un provetto cappuccino. Avendo ella saputo da costui che la giovane<br />

era dovuta fuggire dal suo paese per sottrarsi alla persecuzione di un cavaliere<br />

prepotente, chiese addirittura a Lucia “se questo cavaliere era un persecutore<br />

odioso”. La domanda rivelava una certa torbida curiosità e, per così dire, un<br />

dubbio maligno, che tolsero a Lucia ogni franchezza, per cui non poté che<br />

balbettare qualche parola di risposta. Allora Agnese, venendo in aiuto della<br />

povera impacciata, si affrettò a dire che la figlia era promessa a un bravo giovane<br />

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della loro condizione, “timorato di Dio e ben avviato”, ma quel cavaliere aveva<br />

impedito il matrimonio minacciando il curato… La Signora interruppe la mal<br />

cauta ”con un atto altero e iracondo”, dicendo che i genitori “hanno sempre una<br />

risposta da dare in nome dei loro figlioli!” A questo punto Lucia si fece coraggio,<br />

anche per non far pensare male della mamma, e confermò che prendeva quel<br />

giovane di sua spontanea volontà, e che avrebbe voluto piuttosto morire anziché<br />

cadere nelle mani di quel signore che la perseguitava, al quale perdonava tuttavia<br />

di cuore tutto il male che le aveva fatto…<br />

Alle parole di Lucia l’ira della Signora si raddolcì, e disse che aveva già<br />

pensato <strong>com</strong>e poterle allogare nel monastero, finché ne avessero avuto bisogno.<br />

Sic<strong>com</strong>e la fattoressa (la donna di fiducia che manteneva i contatti del monastero<br />

con l’esterno e ne curava gli interessi) aveva maritata sua figlia, le due donne<br />

avrebbero occupato la stanza lasciata da quella, e fatto quei pochi servizi che colei<br />

ordinariamente eseguiva. Ne doveva parlare alla madre badessa, ma dava<br />

<strong>com</strong>unque la cosa per fatta, data la sua influenza presso la superiora. Quindi<br />

ac<strong>com</strong>iatò il Guardiano, licenziò Agnese, ma ritenne Lucia, perché voleva<br />

conoscere più dettagliatamente la sua storia, per appagare la propria curiosità<br />

morbosa; ”e i suoi discorsi – dice il Manzoni – divennero a poco a poco così strani<br />

che, invece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la<br />

storia antecedente di questa infelice.”<br />

Diciamo subito che, per la storia della Signora, il Manzoni ha tenuto presente<br />

un personaggio storico, suor Virginia de Leyva, ma ha lavorato anche con libera<br />

fantasia; fra l’altro ne ha posticipato le drammatiche vicende di alcuni decenni,<br />

per cui la Monaca di Monza è un tipico personaggio misto di storia e di<br />

immaginazione. Essa, secondo l’Autore, era l’ultima figlia di un principe di<br />

origine spagnola, uno dei più ricchi e influenti signori di Milano, e anche<br />

feudatario della città di Monza e del suo territorio. Costui aveva destinati alla vita<br />

religiosa i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare – secondo la<br />

consuetudine del maggiorasco o maggiorascato – tutta la proprietà al primogenito<br />

“destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè dei figlioli, per tormentarsi a<br />

tormentarli nella stessa maniera.” Perciò ella era ancora nel seno della madre,<br />

“che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita.”<br />

Quando nacque, le misero nome Gertrude, “una santa d’alti natali”, e i primi<br />

suoi giocattoli furono bambole in abito monacale. A sei anni fu chiusa, “per<br />

educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale”, nel monastero<br />

di Monza, abbastanza lontano dalla famiglia, ma nello stesso tempo tale da offrirle<br />

ogni <strong>com</strong>odità e distinzione, essendo il genitore – <strong>com</strong>e abbiamo detto – signore<br />

feudale di quella città. La badessa e alcune monache faccendiere, alle quali era<br />

gradita la prospettiva di avere una principessa tra di loro, e quindi la protezione<br />

dei suoi potenti parenti, accettarono ben volentieri l’incarico di farla diventare<br />

suora “con la minor possibile cognizione di ciò che faceva”. Quindi fecero di tutto<br />

per farle piacere quella vita: carezze e moine, chicche a non finire, posto distinto a<br />

tavola e in camerata, trattamento speciale in tutto. Ma purtroppo assieme a<br />

Gertrude erano lì educate altre fanciulle, generalmente di famiglia borghese, che<br />

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non erano affatto destinate al chiostro; esse non invidiavano la loro <strong>com</strong>pagna, per<br />

quanto costei magnificasse loro il suo futuro di madre badessa, perché nutrivano<br />

ideali ben diversi: “alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può<br />

somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie<br />

e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, <strong>com</strong>e dicevano allora,<br />

di villeggiature, di vestiti, di carrozze.” Queste immagini splendenti e suggestive<br />

scossero e ben presto fugarono le idee precedenti di Gertrude, e a poco a poco<br />

anche per lei la vita mondana acquistò un fascino irresistibile. Che dire poi<br />

quando, varcate le soglie dell’adolescenza, alle fantasticherie mondane si<br />

aggiunsero le vive esigenze del cuore e i primi turbamenti della pubertà! Gertrude<br />

ormai <strong>com</strong>prendeva benissimo che non era nata per farsi suora, che non aveva la<br />

minima vocazione per la vita claustrale; ma <strong>com</strong>e opporsi ai genitori, <strong>com</strong>e negare<br />

al padre quel consenso che egli teneva per certo? Solo la religione, se fosse stata<br />

da lei sentita veramente, avrebbe potuto darle la forza di abbracciare, senza<br />

disperarsi, una vita di rinuncia e di mortificazione; ma la religione che avevano<br />

insegnata a Gertrude, sia a casa che in convento, era puramente formale e<br />

decorativa, “una larva <strong>com</strong>e l’altre” che pullulavano nella sua fervida fantasia<br />

Questa larva tuttavia si levava talora minacciosa nell’animo instabile<br />

dell’adolescente, e allora ella pensava che fosse una colpa opporsi alla volontà dei<br />

suoi genitori, per vivere una vita più piacevole, in mezzo ai pericoli e alle<br />

tentazioni del mondo; in quei momenti la ragazza sentiva <strong>com</strong>e un <strong>com</strong>plesso di<br />

colpa, ed era disposta a espiare il suo peccato di desiderio vestendo<br />

spontaneamente l’abito monacale. Si approfittò di uno di questi momenti di<br />

turbamento e scrupolo religioso, prodotto, <strong>com</strong>e ho detto, dal <strong>com</strong>plesso di colpa<br />

insinuatole da chi ne aveva interesse, per farle sottoscrivere la domanda, diretta al<br />

Vicario delle monache, di essere esaminata sulla vocazione, onde poter prendere il<br />

velo: era il primo passo formale sulla via del chiostro. Ma la domanda non era<br />

giunta ancora all’ecclesiastico cui era diretta, che la poveretta se n’era già pentita<br />

amaramente. Che fare? Consigliatasi con alcune <strong>com</strong>pagne, con cui da qualche<br />

tempo osava confidarsi, scrisse una lettera al principe suo padre, per informarlo<br />

che non si sentiva più inclinazione per la vita monacale. Fatta recapitare la lettera<br />

per vie traverse, <strong>com</strong>inciò ad aspettare con trepidazione la risposta, che non<br />

giunse mai; sennonché dopo alcuni giorni la badessa la chiamò nella sua cella e,<br />

con aria di mistero, le parlò di una gran collera del principe per il suo fallo, cui<br />

alluse con un senso di orrore; aggiunse che però, pentendosi e portandosi bene in<br />

futuro, poteva sperare il perdono. “La giovinetta intese, e non osò domandar più in<br />

là.” Avrebbe dovuto ribellarsi, dir le sue buone ragioni, <strong>com</strong>battere contro la<br />

coalizione ipocrita e brutale della famiglia e del monastero; ma <strong>com</strong>e avrebbe<br />

potuto?<br />

Sic<strong>com</strong>e l’esame della vocazione da parte del sacerdote incaricato doveva<br />

avvenire almeno un anno dopo la presentazione della domanda, e dopo che la<br />

ragazza avesse dimorato almeno un mese fuori del monastero, venne finalmente il<br />

giorno che Gertrude fu riportata in famiglia, a Milano, per trascorrervi il periodo<br />

di tempo prescritto. Ma la più amara delusione l’aspettava: in casa fu considerata<br />

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<strong>com</strong>e una rea, una reietta, un disonore della famiglia; “un anatema misterioso<br />

pareva che pesasse sopra di lei.” Altro che festini, ricevimenti, conversazioni e le<br />

altre cose meravigliose che aveva fantasticate in convento! Non usciva di casa<br />

mai, neppure per la messa, che le facevano ascoltare da una grata aperta su una<br />

chiesa attigua. E anche la servitù la trattava con distacco e freddezza, obbedendo a<br />

precisi ordini del principe; e quanto più la ragazza sentiva bisogno di affetto e di<br />

confidenza, e magari ne mendicava, tanto più si vedeva allontanata e dimenticata,<br />

<strong>com</strong>e se fosse un’estranea appena tollerata. Solo un paggio mostrava per Gertrude<br />

un certo timido rispetto, una certa muta simpatia, che poteva essere o diventare<br />

amore. L’atteggiamento del ragazzo non sfuggì certamente a Gertrude, che da<br />

quel momento si sentì più forte, più sicura, più tranquilla, <strong>com</strong>e colei che credeva<br />

di aver trovato quello che tanto affannosamente bramava. Il padre sospettò che<br />

sotto questo mutamento di umore ci doveva essere qualcosa; fu raddoppiata allora<br />

la vigilanza, e purtroppo un giorno la ragazza fu sorpresa mentre scriveva una<br />

lettera al paggio. Il foglio le fu tolto di mano da una cameriera che la spiava, e<br />

portato al principe. Il cuore di Gertrude era in tumulto, agitato da un misto di<br />

rabbia, vergogna e paura.<br />

La punizione fu dura e immediata: essere rinchiusa nella sua stessa camera,<br />

sotto la guardia di quella cameriera odiosa, che diveniva così la sua carceriera e la<br />

sua aguzzina, rinnovandole ogni momento con la sua stessa presenza l’acerba<br />

memoria del fallo, che le parole con cui il padre aveva ac<strong>com</strong>pagnato la pena<br />

avevano ingigantito, infondendole un senso di rimorso e di terrore quasi per cosa<br />

irreparabile. Il paggio fu subito cacciato dal palazzo, e per monito solenne il<br />

principe gli sonò due schiaffi nel congedarlo, onde togliere al ragazzo ogni<br />

tentazione di vantarsi della piccola avventura o anche semplicemente di farne<br />

parola.<br />

Dopo quattro o cinque giorni di duro e assoluto isolamento, che parvero alla<br />

ragazza un’eternità popolata di incubi paurosi, la poveretta non ne poteva più, e<br />

dovette capitolare. Alla sua età sentiva “un bisogno prepotente di vedere altri visi,<br />

di sentire altre parola, d’esser trattata diversamente.” Inoltre la larva della<br />

religione, risvegliata e resa formidabile dal senso di colpa, le imponeva ora di<br />

abbracciare la clausura proprio per espiazione del suo terribile fallo: l’innocente<br />

letterina al principe azzurro dei suoi sogni si era trasformata nella mente della<br />

poverina, per la malefica e interessata suggestione esterna, in una colpa<br />

vergognosa e quasi mostruosa! Allora si decise: riprese la penna fatale e scrisse al<br />

padre, chiedendo accoratamente perdono e dicendosi pronta a fare tutto ciò che a<br />

lui piacesse disporre.<br />

Con la resa incondizionata di Gertrude termina questo capitolo, nel quale è<br />

delineata in maniera davvero icastica e impressionante la spietata figura del padre,<br />

che con arte mefistofelica costringe la povera figliola, non ancora quindicenne, a<br />

prendere il velo che aborriva. Eppure così agendo egli credeva di provvedere nel<br />

miglior modo al decoro del suo nobile casato, che doveva apparire a tutti onorato<br />

e degno di stima: ecco la tipica ipocrisia di quel secolo corrotto, che mirava solo<br />

alle apparenze esteriori.<br />

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CAPITOLO X<br />

In questo capitolo il Manzoni continua e porta a termine, cioè al drammatico<br />

epilogo che già s’intravede dalla fine del capitolo precedente, la penosa storia di<br />

Gertrude, vittima della volontà del padre, il quale a sua volta era vittima dei<br />

pregiudizi del tempo e di una falsa visione del prestigio della sua nobile famiglia.<br />

La narrazione dettagliata dei fatti, ora dolorosi ora orribili, della cosiddetta<br />

Monaca di Monza, costituisce una vistosa digressione nell’economia del romanzo;<br />

ma non si potrebbe dire che sia una digressione oziosa e neppure eccessiva. E’<br />

una storia umana, che è necessaria per <strong>com</strong>prendere il personaggio nella sua<br />

<strong>com</strong>plessa psicologia e anche nei suoi tragici errori, e nello stesso tempo ci offre<br />

un esempio fedele dell’ipocrisia e della tirannide, anche domestica, del Seicento,<br />

secolo fastoso e farisaico.<br />

In tutto il racconto si avverte la nota dolente che domina nell’animo dell’Autore:<br />

egli non scusa Gertrude, ma sente per lei una grande pietà cristiana, perché<br />

<strong>com</strong>prende che, per opporsi al sopruso paterno, ella avrebbe dovuto possedere una<br />

forza di volontà non facile a trovarsi in una ragazza di quindici anni; l’infelice<br />

avrebbe, sì, potuto trovare un aiuto o un rifugio nella fede, ma purtroppo questa<br />

non era in lei radicata, e non costituiva quindi un punto di forza, ma piuttosto di<br />

debolezza, perché, se la religione faceva sentire la sua voce, era la voce quasi<br />

superstiziosa dello scrupolo e del terrore dell’aldilà, che rafforzavano il <strong>com</strong>plesso<br />

di colpa così abilmente inculcatole e dal padre e dalle suore. Perciò l’atto di<br />

accusa il Manzoni lo formula soprattutto contro il principe-padre il quale, pur non<br />

dicendo mai esplicitamente alla figlia che doveva farsi monaca, tuttavia<br />

inesorabilmente, con arte perfida e costanza degna di miglior causa, la sospinge<br />

verso la clausura perpetua, ritenendo in tal modo di assolvere un suo preciso<br />

dovere, quello cioè di salvaguardare l’indivisibilità del patrimonio, onde tutelare il<br />

decoro del casato, basato allora soprattutto su una solida proprietà immobiliare.<br />

La divisione della proprietà familiare fra tutti i figli avrebbe, secondo il<br />

pregiudizio del secolo, non solo frantumato l’asse ereditario, ma rovinato il<br />

prestigio del casato.<br />

Ma torniamo al racconto della dolente vicenda. Quando il principe ricevette la<br />

lettera della figlia, e ne lesse il contenuto, i suoi occhi lampeggiarono di una mal<br />

contenuta gioia, che a noi ripugna, ed egli capì subito che bisognava approfittare<br />

immediatamente e sino in fondo di quella sì favorevole disposizione d’animo, di<br />

quel cedimento ottenuto con la dura reclusione e con la minaccia, ventilata in aria,<br />

di qualcosa di ancor più terribile. La ragazza si trovava – dice l’Autore con fine<br />

osservazione psicologica – in uno di quei momenti, frequenti nell’animo<br />

giovanile, in cui un poco d’insistenza “basta a ottenere ogni cosa che abbia<br />

apparenza di bene e di sacrificio.” Questi slanci della generosità dei giovani, che<br />

dovremmo solo ammirare e rispettare quasi con venerazione, sono invece<br />

egoisticamente e astutamente, se non perfidamente, aspettati e sfruttati da gente<br />

53


senza coscienza, per <strong>com</strong>promettere e legare per sempre una persona incauta e<br />

inesperta, che ancora non conosce le trappole del mondo.<br />

Gertrude, ammessa alla presenza del genitore, non seppe far altro che gettarsi<br />

alle sue ginocchia invocando il perdono; ma il principe, volendo battere ben bene<br />

il ferro mentr’era caldo, rispose ruvidamente che il perdono bisognava meritarlo.<br />

Il suo fallo era tale, e qui si mise a insistere su di esso ingigantendolo, che il<br />

rimedio poteva essere uno solo: il chiostro. Se pure egli in passato avesse avuto<br />

intenzione di maritarla, ora lei stessa ci aveva posto un ostacolo insormontabile<br />

con la sua condotta irresponsabile e scandalosa; e il suo onore di cavaliere non gli<br />

avrebbe mai e poi mai consentito di “regalare a un galantuomo una signorina che<br />

aveva dato un tal saggio di sé.” Nel sentire queste parole la povera ragazza era<br />

letteralmente annientata; allora il principe, sicuro di aver ottenuto l’effetto voluto,<br />

addolcì alquanto la voce, per dire che ora lei stessa <strong>com</strong>prendeva “che la vita del<br />

secolo era troppo piena di pericoli”… Gertrude annuì singhiozzando: “Ah sì!”<br />

Tanto bastò; il padre prese questo sì, di valore tanto limitato e contingente, per<br />

una decisione ferma e definitiva di prendere il velo, e subito mise in moto un<br />

meccanismo diabolico per realizzare al più presto il suo antico disegno, senza dar<br />

tempo e modo alla figliola di poterci ripensare.<br />

Chiama immediatamente la moglie e il primogenito, allo scopo di partecipare<br />

loro la sua gioia per la risoluzione di Gertrude, e intanto la ribadisce <strong>com</strong>e una<br />

decisione spontanea e irrevocabile: “è risoluta di prendere il velo.” La figliola<br />

avrebbe voluto spiegarsi, restituire al suo sì il suo vero valore, di riconoscimento<br />

del suo errore e di promessa di <strong>com</strong>portarsi in avvenire con più saggezza; ma “la<br />

persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità<br />

così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle<br />

menomamente.” E’ proprio così: le persone scaltre e spregiudicate spesso ci<br />

mettono davanti al fatto <strong>com</strong>piuto, approfittando della nostra timidezza o<br />

distrazione, facendo poi credere che non hanno fatto altro che eseguire il nostro<br />

volere!<br />

Per non perdere neppure un attimo di tempo, il principe, con la scusa di fare<br />

una bella passeggiata in carrozza, propose di andare senz’altro a Monza, per<br />

presentare alla madre badessa del convento la richiesta formale di accettazione<br />

nell’Ordine. Naturalmente la principessa e il principino si mostrarono entusiasti<br />

della proposta, ma avendo Gertrude mostrato una certa perplessità, il padre le<br />

chiese, con atto di grande degnazione, se voleva andare quel giorno o l’indomani.<br />

Qui si nota la raffinata astuzia del principe, il quale non chiede alla figlia se vuole<br />

andare e quando vuole andare, ma la mette ancora una volta davanti alla decisione<br />

già presa, dandole solo la possibilità di una breve dilazione. Gertrude<br />

naturalmente si prese quel piccolo respiro; ma intanto restava deciso, per la sua<br />

stessa scelta, che l’indomani sarebbe andata a fare la sua richiesta solenne al<br />

monastero; e per dare alla cosa una sanzione di irrevocabilità, il principe mandò<br />

subito un corriere ad annunciare alla badessa la loro visita per il giorno dopo:<br />

ormai non ci si poteva più tirare indietro.<br />

54


Intanto si fece sapere alla parentela che la ragazza si era rimessa dalla<br />

indisposizione (così era stata motivata e coonestata la sua relegazione) e<br />

contemporaneamente aveva definitivamente chiarito la sua decisione di prendere<br />

il velo; e i parenti vennero in frotta a fare il loro dovere, congratulandosi con lei e<br />

con la famiglia per il duplice fausto avvenimento. Sicché Gertrude, a ogni<br />

<strong>com</strong>plimento che accettava, non faceva che ribadire implicitamente ma<br />

solennemente l’impegno per il chiostro davanti a tutti i parenti. La poverina si<br />

vedeva sempre più <strong>com</strong>promessa, ma non ebbe, per abile macchinazione paterna,<br />

in tutto il resto della giornata un solo attimo di tregua, onde pensare ai casi suoi,<br />

per vedere che cosa si potesse tentare per fermare quella macchina fatale, che si<br />

era messa in moto così accelerato e inesorabile per schiacciarla: eppure lei non si<br />

sentiva di essere stritolata! Ma il principe non lasciò la presa sulla disgraziata<br />

figliola e, nel bel mezzo delle visite, si recò direttamente dal vicario delle<br />

monache, per concertare la data dell’esame della vocazione della figlia e, <strong>com</strong>’era<br />

da aspettarsi data la fretta paterna, fu fissato il dopodomani: le maglie della rete si<br />

erano ormai strette intorno alla povera vittima, e il padre aguzzino teneva<br />

saldamente in mano le corde dell’inesorabile trama.<br />

Alla sera Gertrude, dovendo andare a letto, volle almeno prendersi una<br />

soddisfazione, che certamente non le avrebbero negato in quella giornata in cui<br />

sembrava essere venuta così in auge, anche se in realtà era la vittima; volle cioè<br />

sbarazzarsi dell’odiosa cameriera che era stata la causa della sua prigionia, e per<br />

parecchi giorni era diventata la sua arcigna guardiana. Naturalmente fu subito<br />

accontentata, e fu assegnata al suo servizio una donna attempata, molto<br />

affezionata alla famiglia, che era stata già governante del principino, “nel quale<br />

aveva riposte tutte le sue <strong>com</strong>piacenze”. Ma ottenuto l’allontanamento di colei, la<br />

ragazza si meravigliò di trovare così poca soddisfazione in questa vendetta che<br />

pure aveva così ardentemente covato.<br />

Il giorno dopo dovette alzarsi presto per prepararsi al gran viaggio: la<br />

cameriera la preparò nell’abito, quindi il principe la lavorò nell’animo. Le disse e<br />

ripeté che tutto s’era fatto per sua libera scelta, e che ora bisognava continuare con<br />

franchezza e disinvoltura la strada intrapresa; quindi aggiunse: “La badessa vi<br />

domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere<br />

ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così<br />

amorevolmente.” Finalmente si partì; ma durante la strada da Milano a Monza più<br />

volte il padre tornò sull’argomento, ripetendo a Gertrude la suddetta formula di<br />

risposta, onde scolpirgliela bene in mente.<br />

Al monastero l’accoglienza fu solenne, e davanti all’ingresso si era anche<br />

riunita una folla acclamante il principe, feudatario della città. Tutte le suore erano<br />

a riceverlo, con la badessa in testa. Dopo i saluti e i convenevoli, la badessa chiese<br />

a Gertrude che cosa desiderasse lì, dove nulla poteva esserle negato; la poveretta<br />

stava per recitare le parole di risposta imparate ormai a memoria, allorché scorse,<br />

tra le educande presenti, una sua <strong>com</strong>pagna che con l’atteggiamento ironico del<br />

viso sembrava dicesse: “ah! la c’è cascata la brava.” In un attimo si sentì<br />

rimescolare il sangue in un impeto di ribellione, e cercò una risposta qualsiasi,<br />

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meno impegnativa; ma scorgendo il cipiglio del padre, che esprimeva impazienza<br />

e minaccia, si sentì venir meno il coraggio, e pronunciò precipitosamente la<br />

formula insegnatale: capitolò ancora una volta.<br />

La badessa disse che non poteva darle subito l’accettazione ufficiale, perché<br />

secondo la regola la domanda doveva essere approvata dal Capitolo delle<br />

consorelle; tuttavia Gertrude non poteva dubitare dell’esito della votazione, tanta<br />

era la stima che lì si aveva di lei e della sua famiglia. Quindi, dopo essersi<br />

congratulata della santa risoluzione, che per loro costituiva un onore e una gioia,<br />

invitò il principe in disparte nel parlatorio, per eseguire un’altra formalità:<br />

avvertire il genitore della postulante che, qualora in qualche modo forzasse la<br />

volontà della figlia, incorrerebbe nella s<strong>com</strong>unica più grave… ”Lei non può<br />

dubitare…” rispose untuosamente il principe, e la reverenda madre si ritenne<br />

paga. In questo incontro salta agli occhi l’ipocrisia dei due personaggi, degni<br />

rappresentanti di quel secolo farisaico, i quali, pur conoscendo benissimo la verità,<br />

cioè l’indegna coercizione della povera ragazza, fingono di ignorarla, e credono di<br />

mettersi la coscienza a posto ricorrendo a dei miseri sotterfugi.<br />

Il giorno dopo una più difficile prova attendeva l’infelice Gertrude: l’esame<br />

della sua vocazione da parte dell’ecclesiastico incaricato. Il padre non mancò di<br />

catechizzarla ben bene, inculcandole le risposte più appropriate alle probabili<br />

domande dell’esaminatore. Soprattutto però le rac<strong>com</strong>andò di rispondere con<br />

sicurezza e con pronta franchezza, ché altrimenti avrebbe fatto sorgere qualche<br />

dubbio nell’animo di quell’uomo dabbene… e allora egli, per tutelare il suo onore<br />

di gentiluomo, perché non si credesse che coartasse la volontà della figlia, sarebbe<br />

stato costretto a rivelare, suo malgrado, tutta la faccenda del paggio… da cui<br />

aveva avuto origine la sua risoluzione per il chiostro. Davanti a questa prospettiva<br />

orribile e vergognosa l’animo della povera ragazza rifuggiva terrorizzato; sicché<br />

non le rimaneva altra alternativa che continuare a mentire sino alla fine, sino al<br />

doloroso epilogo della clausura.<br />

L’esame dunque si svolse così <strong>com</strong>e il principe desiderava, e l’inquisitore “fu<br />

prima stanco d’interrogare – dice amaramente il Manzoni – che la sventurata di<br />

mentire”. Ottenuto il parere favorevole del vicario delle monache, nel monastero<br />

di Monza si poté tenere il solenne Capitolo che doveva decidere dell’accettazione<br />

o meno della domanda di Gertrude. Ma l’esito di questa votazione non<br />

preoccupava affatto il principe, che aveva in quel consesso delle zelanti e influenti<br />

collaboratrici; <strong>com</strong>’era da prevedersi, si ebbe la maggioranza dei due terzi,<br />

richiesta dalla Regola per l’ammissione della candidata.<br />

Ora rimaneva l’ultimo atto del dramma: la sposina, <strong>com</strong>e veniva chiamata<br />

allora la ragazza che stava per monacarsi, sotto la guida di una dama, che<br />

chiamavasi madrina, doveva visitare le chiese, i palazzi, i monumenti, i santuari,<br />

le ville, insomma le cose più notevoli della città, per vedere a che cosa rinunciava<br />

per sempre. All’uopo Gertrude dovette scegliere la madrina; e il non sapersi<br />

esimere da questa scelta fu un modo di ribadire indirettamente le sue catene, una<br />

conferma del suo proposito. Scelta la madrina, <strong>com</strong>inciarono le visite e le<br />

scarrozzate; ma il continuo girovagare non dava alla misera alcun sollievo, anzi<br />

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acuiva la sua sofferenza la vista di quel mondo per lei così allettante, ma dal quale<br />

ella era inesorabilmente esclusa. Era insomma un vero supplizio di Tantalo; tanto<br />

che “lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto<br />

che fosse possibile nel monastero.” Figurarsi se non fu subito accontentata! Il<br />

principe era fiero e soddisfatto; per la figliola <strong>com</strong>inciava un nuovo calvario. Fece<br />

il noviziato, dodici lunghi mesi di rodimento, dopo i quali doveva fare la<br />

professione solenne dei voti; ormai <strong>com</strong>e poteva tirarsi indietro? “Conveniva, o<br />

dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì<br />

tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.”<br />

A questo punto il Manzoni osserva che Gertrude, se si fosse rifugiata nella<br />

religione, avrebbe potuto vincere le inappagate passioni del suo animo, lenire il<br />

suo risentimento, e fare di necessità virtù; insomma “avrebbe potuto essere una<br />

monaca santa e contenta, <strong>com</strong>unque lo fosse divenuta.” Ma purtroppo la religione<br />

non era da lei sentita se non, talora, con terrore quasi superstizioso, per cui non le<br />

poteva dare nessun aiuto per vincere la sua disperazione; l’infelice, dibattendosi<br />

sotto il giogo, ne sentiva maggiormente il peso, mentre avvertiva in cuore un acre<br />

impeto di ribellione. Vedeva il fiore della sua giovinezza sfiorire sotto il saio, la<br />

sua bellezza appassire ignorata tra le gelose e tetre mura di un convento, e restare<br />

per sempre frustrato l’ardente desiderio di amore e di tenerezza che le divampava<br />

nel cuore. In tal modo il suo animo, fondamentalmente buono, si pervertiva<br />

paurosamente: odiava la famiglia, che l’aveva così brutalmente immolata<br />

sull’altare dell’interesse economico e del malinteso decoro esteriore, odiava le<br />

suore, che in gran parte avevano collaborato all’opera perfida e insidiosa, odiava<br />

le educande, che un giorno si sarebbero goduto quel mondo a lei interdetto. Così<br />

visse alcuni anni, lunghi e tristi anni, in un rammarichìo incessante per tutto ciò<br />

che le era stato spietatamente e subdolamente tolto: giovinezza, bellezza, piaceri,<br />

amore. Soprattutto amore, di cui il suo animo era assetato al punto da non far caso<br />

all’abisso che lo separa dalla passione sensuale che spesso lo contrabbanda;<br />

bastava un’occasione, perché l’infelice cadesse vittima di questa passione<br />

travolgente, e l’occasione per sua disgrazia si presentò. Uno scellerato giovane,<br />

che aveva la casa attigua al monastero, e da una finestrina aveva più volte notato<br />

Gertrude che gironzolava oziosa e triste nel sottostante cortile, osò un giorno<br />

rivolgerle la parola.<br />

“La sventurata rispose” – dice laconicamente l’Autore; e in queste poche ma<br />

doloranti parole è espresso pietosamente l’epilogo indegno del dramma di<br />

un’anima sacrificata allo stolto pregiudizio del prestigio nobiliare. Il dramma<br />

osceno e fosco è sottinteso; il Manzoni non dice di più di Gertrude, <strong>com</strong>e Dante<br />

non dice di più di Francesca. “Quel giorno più non vi leggemmo avante;” pietoso<br />

riserbo che obbedisce a un profondo sentimento morale e religioso.<br />

Lo spirito cristiano del nostro Autore rifugge dalla descrizione <strong>com</strong>piaciuta<br />

del peccato, poiché nessun vantaggio ne può derivare all’opera d’arte né dal punto<br />

di vista estetico né dal punto di vista etico; e ben fece egli a tagliare quelle pagine<br />

che nella prima stesura del romanzo aveva dedicato alla narrazione alquanto<br />

dettagliata della tresca della monaca con Egidio, <strong>com</strong>e viene chiamato l’empio<br />

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giovane. Il suo nome storico è invece Giampaolo Osio, il quale fu in seguito<br />

giustiziato per la sacrilega e scellerata relazione con suor Virginia de Leyva, che è<br />

il nome storico della manzoniana Gertrude. Costei, purtroppo, dopo la grave<br />

caduta, si macchia addirittura di un delitto: “abyssus abyssum invocat”. Una<br />

conversa, addetta al servizio di Gertrude, si era accorta di quanto avveniva di<br />

irregolare, e un giorno, essendo da lei bistrattata più del solito, si lasciò scappare<br />

una parola… che lei sapeva… e avrebbe parlato a tempo debito. La peccatrice da<br />

quel momento non prese più pace; e per non esporsi all’onta dell’eventuale<br />

rivelazione della sua colpa, d’accordo con Egidio, fece uccidere la poveretta, la<br />

quale venne nottetempo seppellita nello stesso orto del monastero, in una fossa<br />

abilmente camuffata.<br />

Nessuno seppe dare una spiegazione plausibile della sparizione della<br />

conversa; si fecero ricerche nel suo paese natale e in altri posti,ma con nessun<br />

esito. Corsero varie dicerie, finché, avendo una suora detto che forse si era<br />

rifugiata in Olanda (la quale, <strong>com</strong>e paese protestante, accoglieva ospitalmente chi<br />

mancava ai voti religiosi, che invece era perseguitato nei paesi cattolici), corse<br />

tale voce e fu da tutti ritenuta vera. Ma non certamente da Gertrude, che aveva<br />

continuamente davanti agli occhi il fantasma dell’uccisa, in atteggiamento orribile<br />

di condanna, mentre al suo orecchio sembravano risonare, continuamente giorno e<br />

notte, le sue spietate parole di accusa. Ora, rosa incessantemente dal tarlo del<br />

rimorso, avrebbe dato chi sa che cosa per averla, quella immagine, viva davanti a<br />

sé, dovesse ella pur fare la <strong>com</strong>pleta rivelazione delle sue turpitudini davanti a<br />

tutti! Quando Lucia fu ricoverata nel monastero, era passato circa un anno da quel<br />

delitto che non dava requie all’animo della Signora, la quale – ci assicura il<br />

Manzoni – fu indotta a proteggere la povera perseguitata, oltre che da altri ovvi<br />

motivi, <strong>com</strong>e ragioni di prestigio e opportunità di obbligarsi il Guardiano dei<br />

Cappuccini, anche perché provava “un certo sollievo nel far del bene a una<br />

creatura innocente.” Dunque nel suo cuore era ancora avvertita l’aspirazione al<br />

bene: non poteva ancora dirsi irrimediabilmente perduta, anche se ancora avvinta<br />

dalle dure e pesanti catene del peccato.<br />

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CAPITOLO XI<br />

Al principio di questo capitolo il Manzoni ci descrive l’inglorioso ritorno dei<br />

bravi al palazzotto di don Rodrigo: questi birboni delusi e mortificati, che tornano<br />

a mani vuote da un colpo così meticolosamente preparato e ritenuto così sicuro,<br />

sono appropriatamente assomigliati a un branco di segugi che , lasciatasi scappare<br />

una bella lepre, tornano mogi mogi verso il loro padrone furibondo. In verità il<br />

signorotto, che ignorava ancora il bell’esito dell’impresa, non era ancora furioso,<br />

ma si poteva s<strong>com</strong>mettere che lo sarebbe diventato all’annuncio del risultato; e in<br />

quei momenti nessuno di quei malandrini invidiava la posizione preminente del<br />

Griso, che avrebbe dovuto recargli la deludente notizia.<br />

Don Rodrigo dunque, in una stanza del piano di sopra, la quale godeva di<br />

ampia vista, camminava nervosamente avanti e indietro, in un’attesa piuttosto<br />

ansiosa, e ogni tanto guardava fuori dalla finestra, per vedere se i suoi uomini<br />

fossero di ritorno. Il suo animo era un po’ preoccupato per il rischio dell’impresa,<br />

che era la più grossa che finora avesse osato; ma si rassicurava pensando che il<br />

podestà era un amico, per cui Agnese e Renzo non avrebbero potuto ottener nulla<br />

dalla giustizia, caso mai fossero ricorsi alla legge. Anche gli avvocati, <strong>com</strong>e il<br />

nostro Azzecca-garbugli, erano tutti legati a lui da interessi vari, e certamente<br />

nessuno di loro avrebbe assunto la difesa di quei villani; dell’arrabbiato frate non<br />

si preoccupava un gran che, anche se non gli era uscito del tutto dalla memoria<br />

quel minaccioso esordio di profezia… E appunto per scacciare queste<br />

preoccupazioni poco allegre, concentrava il pensiero sull’oggetto delle sue brame,<br />

pensava alle lusinghe e alle parole che avrebbe adoperato per calmare la ragazza e<br />

ridurla alle sue voglie, e già pregustava il piacere della conquista.<br />

Ma ecco finalmente che i suoi fidi sono di ritorno: don Rodrigo ha un balzo:<br />

dall’alto scruta al chiaro di luna i suoi uomini: li conta; ci sono tutti, anche il<br />

Griso, ma non c’è la bussola, Lucia non c’è. Come una furia scende a pianterreno<br />

per riceverli <strong>com</strong>e si meritano, e investe in malo modo il suo luogotenente<br />

scornato, presentatosi a fare la relazione della sciagurata impresa. Il Griso però si<br />

difende bene: essere trattati così dopo aver fatto il proprio dovere e dopo aver<br />

arrischiato la vita in una pericolosa spedizione! Il padrone allora si calma e vuol<br />

sentire <strong>com</strong>’è andata. Ascoltato l’arruffato rapporto, sospetta subito che ci sia<br />

sotto una spia. Il Griso non l’esclude, ma dice che ci dev’essere anche<br />

qualcos’altro, che per ora non sa spiegarsi. Il padrone alla fine, per risarcirlo delle<br />

gratuite offese e dei cocenti insulti con cui lo aveva accolto, lo loda per il suo zelo<br />

e per <strong>com</strong>e si era <strong>com</strong>portato, e gli ordina per il giorno dopo di mandare due bravi<br />

al villaggio, per intimare al console (una specie di delegato del podestà di Lecco)<br />

di non far deposizione dell’accaduto, “per quanto aveva cara la speranza di morir<br />

di malattia”, e due altri a guardar che nessuno si avvicinasse al casolare, dove era<br />

rimasta la bussola, la quale sarebbe stata recuperata la notte successiva, per non<br />

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destar sospetto; lui stesso poi, con alcuni dei più abili e destri, doveva cercar di<br />

sapere che cosa di preciso fosse accaduto nel villaggio in quella strana notte.<br />

La mattina seguente, giorno di San Martino, mentre il Griso era già all’opera, i<br />

due nobili cugini s’incontrarono, e il conte Attilio con aria di trionfo ricordò la<br />

s<strong>com</strong>messa. Don Rodrigo rispose che era pronto a pagare, ma che non era quello<br />

che lo preoccupava per il momento; e raccontò tutto l’accaduto al degno cugino, il<br />

quale espresse subito il sospetto che c’era lo zampino del frate nella faccenda, e<br />

volle perciò sapere il tema del colloquio avuto con lui. Avutone un sommario<br />

ragguaglio, si disse molto meravigliato che avesse lasciato partire quel<br />

mascalzone incappucciato senza caricarlo di bastonate; <strong>com</strong>unque s’incaricò lui di<br />

sistemarlo per le feste, in un modo o nell’altro, per mezzo del Conte zio, membro<br />

influente del Consiglio Segreto. Questo conte Attilio, nella sua burbanza<br />

nobiliare, aveva proprio un debole per le bastonate da appioppare alla gente<br />

<strong>com</strong>une; tuttavia quel giorno egli, solitamente così sventato e ridanciano, si<br />

mostrò seriamente interessato ai casi del cugino, anche se sotto i baffi rideva del<br />

suo clamoroso smacco, che gli aveva pure fruttato dei bei soldi. Fu tanto<br />

servizievole verso di lui, che si disse disposto a render visita al Signor Podestà,<br />

per tenerlo buono buono in quelle circostanze, e anche per cancellare ogni suo<br />

eventuale risentimento per le stoccate del conte, poiché questo risentimento<br />

poteva ora danneggiare gli affari del caro cugino.<br />

Per il Griso e suoi accoliti non fu davvero difficile raccapezzare che cosa fosse<br />

accaduto nel villaggio degli sposi nella nottata precedente; troppe erano le persone<br />

che sapevano qualcosa, e non tutte sapevano tacere. Perpetua, per quanto Don<br />

Abbondio le <strong>com</strong>andasse di non fiatare, era troppo stizzita contro Agnese, che<br />

l’aveva infinocchiata in quel modo, per non lasciarsi sfuggire qualche parola sul<br />

tentativo degli sposi e soprattutto sull’ipocrisia di quella brava vedova; Gervaso<br />

aveva un gran voglia di parlare, perché gli sembrava di essere diventato<br />

finalmente una persona importante, avendo partecipato a una spedizione<br />

clandestina, e non bastavano le minacce di pugni da parte del fratello, per<br />

tappargli del tutto la bocca; Tonio stesso dové pur dire alla sua Tecla dove fosse<br />

andato a quell’ora tarda, e la moglie non era muta <strong>com</strong>e il marito l’avrebbe voluta<br />

in quella circostanza (e in chi sa quant’altre!). Chi non poté parlare affatto fu<br />

Menico, perché i genitori, spaventati oltremodo che il ragazzo avesse collaborato<br />

a mandare all’aria un piano di don Rodrigo, lo tennero per più giorni chiuso in<br />

casa; ma poi essi stessi si lasciarono scappare che gli sposi e Agnese si erano<br />

rifugiati a Pescarenico.<br />

Quello che per la gente del villaggio appariva inspiegabile era il fatto del<br />

pellegrino: due paesani lo avevano visto, quindi non potevano aver sognato; ma<br />

chi poteva essere? cosa era venuto a fare? <strong>com</strong>e mai si trovava con i malandrini?<br />

che fine aveva fatto? Si traevano varie ipotesi, taluna anche abbastanza azzeccata,<br />

ma la cosa rimaneva tuttavia misteriosa; per il Griso invece era quello il dato più<br />

certo, di cui poté servirsi <strong>com</strong>e punto di partenza per spiegare agevolmente ogni<br />

altra notizia che poté raccattare qua e là, onde cucirne una relazione per il suo<br />

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padrone, abbastanza <strong>com</strong>piuta e convincente, che pareva escludere, cosa per lui<br />

confortante, l’ipotesi di un tradimento di qualcuno dei suoi fidi servitori.<br />

Quando don Rodrigo ricevette le notizie recate dal Griso, nel sentire che i due<br />

promessi erano fuggiti insieme a Pescarenico dopo il fallito tentativo alla casa del<br />

curato, pensò che certamente erano andati a mettersi sotto la protezione del frate,<br />

ed ebbe un’esplosione d’ira contro padre Cristoforo, per la gelosia che in quel<br />

momento lo rodeva nel saperli insieme. Sic<strong>com</strong>e questo pensiero lo tormentava,<br />

spedì il fedel Griso a Pescarenico, per sapere dove fossero i due colombi, e per<br />

vedere che cosa si poteva fare ancora. La sera stessa il suo luogotenente gli poté<br />

portare la notizia che le donne si erano rifugiate a Monza, mentre Renzo aveva<br />

proseguito il cammino alla volta di Milano. La certezza che Renzo si era separato<br />

dalla fidanzata calmò alquanto la sua gelosia, ma non acquietò affatto la passione<br />

principale, nella quale ora entrava anche un puntiglio di onore, <strong>com</strong>e una sfida<br />

contro il frate, da cui non poteva lasciarsi vincere, se non voleva perdere la faccia.<br />

Il Manzoni si sofferma, in una pagina di bonaria lepidezza, a spiegarci <strong>com</strong>e<br />

mai il Griso abbia potuto a Pescarenico, nel regno spirituale del frate, pescare così<br />

presto le notizie che gli interessavano. Il passo <strong>com</strong>incia con un tono disteso:<br />

“Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle<br />

consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto.” Chi confida<br />

una cosa gelosa, rac<strong>com</strong>anda il silenzio; ma generalmente esso non è inteso in<br />

senso assoluto, ché altrimenti la consolazione si arresterebbe al confidante, il che<br />

non è giusto, ma nel senso di non riferire la notizia se non ad amico ugualmente<br />

fidato, e imponendogli la stessa condizione di serbare il segreto, il quale diventa<br />

in breve, <strong>com</strong>e si dice, il segreto di Pulcinella. Gli amici poi non sono a coppie<br />

isolate, <strong>com</strong>e i colombi, ma generalmente ognuno ne ha parecchi, e “ci sono degli<br />

uomini privilegiati – aggiunge argutamente l’Autore – che li contano a centinaia”;<br />

così il segreto gira vorticosamente per questa interminabile catena dell’amicizia, e<br />

giunge prima o poi anche alle orecchie, molto attente, di colui al quale, chi ha<br />

confidato per primo la delicata notizia, non avrebbe voluto mai e poi mai che<br />

giungesse. Ma per ottener con certezza questo risultato, avrebbe dovuto lui per<br />

primo privarsi della dolce consolazione di confidare un segreto. Sta dunque il<br />

fatto che il buon barocciaio, tornando verso sera a Pescarenico, s’imbatté in un<br />

amico fidato, al quale, così parlando e senza vanto, confidò il servizio che aveva<br />

reso a quei poveretti per preghiera del santo frate; e da amico fidato ad amico<br />

fidato, la notizia giunse poche ore dopo a don Rodrigo, portata dal diligente Griso<br />

il quale credeva che finalmente la faccenda fosse, almeno per lui, chiusa.<br />

Ma il suo padrone non si dà ancora pace: vuol sapere in quale monastero di<br />

Monza è ricoverata Lucia, e che cosa si può tentare per rapirla; e ne incarica<br />

ancora una volta il suo caporalaccio. Questi però inaspettatamente tentenna: in<br />

quella città egli aveva suscitato molti odi, per avervi <strong>com</strong>messo molti reati, tra cui<br />

un omicidio, per il quale sulla sua testa pendeva una taglia di ben cento scudi,<br />

somma allettante anche per qualche collega della malavita che così poteva anche<br />

guadagnarsi l’impunità… Propone insomma di mandare un altro. Don Rodrigo<br />

esce addirittura dai gangheri per l’improvvisa viltà dell’uomo tutto suo, e lo<br />

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ampogna con acerbo sarcasmo: “Tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore<br />

appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta!” Il Griso, punto sul vivo,<br />

non può tirarsi indietro, e l’indomani parte per questa terza esplorazione,<br />

apparentemente “con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo<br />

Monza e le taglie e le donne e i capricci dei padroni.”<br />

Non va solo, ma con due dei suoi migliori uomini, che gli guardino le spalle, e<br />

si avanza cauto e sospettoso nella città in cui non spira buon’aria per lui, <strong>com</strong>e il<br />

lupo che, cacciato dalla fame, lascia i boschi montani e si avventura nell’aperta<br />

pianura, avvicinandosi all’ovile ben custodito, incerto tra “l’ardore della preda e il<br />

terrore della caccia.” Mentre il Griso svolgeva a Monza la sua missione<br />

esplorativa, don Rodrigo pensava <strong>com</strong>e potesse impedire a Renzo di tornare in<br />

paese e di riunirsi con la sua fidanzata: si poteva, per mezzo del podestà, dare un<br />

significato sedizioso al tentativo in casa del parroco, e spiccare quindi contro di<br />

lui un bel mandato di cattura, che lo dissuadesse dal tornare dalle sue parti; ma poi<br />

pensò che non gli conveniva rimestare quella faccenda, alla quale era connesso il<br />

suo tentativo di ratto, che poteva quindi venire in luce e <strong>com</strong>prometterlo. Decise<br />

perciò di parlarne col suo avvocato, il degno dottor Azzecca –garbugli, perché<br />

trovasse lui qualche garbuglio, qualche cavillo, qualche trappola per rovinare<br />

definitivamente il povero fuggitivo, che turbava ancora i suoi sonni.<br />

Ma proprio nel momento in cui il signorotto pensava al modo di<br />

<strong>com</strong>promettere Renzo con la giustizia con qualche denuncia menzognera, proprio<br />

costui si adoperava inconsciamente a servirlo meglio di qualunque avvocato,<br />

rimanendo preso in Milano nelle trappole della legge. Abbiamo detto che il<br />

giovane, la mattina di San Martino, riprese a piedi, da Monza, il cammino verso la<br />

metropoli lombarda, triste e sconsolato per la dolorosa separazione da Lucia, che<br />

chi sa quando sarebbe finita. Per la strada (circa dieci miglia) ogni tanto lo<br />

riprendeva la rabbia contro chi era la causa di tutti i suoi guai; ma poi si ricordava<br />

della promessa e della preghiera che aveva fatto col frate nella chiesa del<br />

convento, e allora si pentiva della sua ira e tornava a perdonare il suo nemico:<br />

“tanto che – osserva bonariamente il Manzoni – in quel viaggio, ebbe ammazzato<br />

in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte.”<br />

Quando fu vicino alla città, vide levarsi dalla pianura, isolata, la gran mole del<br />

duomo, considerato allora giustamente l’ottava meraviglia del mondo, e rimase lì<br />

incantato a guardarlo; poi, avvicinandosi di più, vide campanili, torri e cupole,<br />

finché sboccò nei pressi delle mura. Qui chiese rispettosamente a un viandante,<br />

che veniva in senso opposto, quale via dovesse prendere “per andare al convento<br />

dei cappuccini dove sta il padre Bonaventura”. Nella sua ingenuità il montanaro<br />

pensa che a Milano ci sia un solo convento di Cappuccini, <strong>com</strong>e dalle sue parti, e<br />

che tutti conoscano il padre Bonaventura, <strong>com</strong>e appunto a Pescarenico e dintorni<br />

non c’era nessuno che non conoscesse fra Cristoforo. Il brav’uomo a cui Renzo si<br />

rivolse, pazientemente chiese in quale convento fosse quel frate; e avendogli il<br />

giovane, per tutta risposta, mostrata la lettera di padre Cristoforo, che nel recapito<br />

aveva scritto “Porta Orientale”, disse che fortunatamente quel convento era molto<br />

vicino, e gli indicò con garbo e chiarezza la strada da seguire.<br />

62


Renzo restò molto ammirato della cortesia dei cittadini verso i campagnoli,<br />

non immaginando di essere giunto a Milano in una circostanza tutta speciale, “un<br />

giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti”, cioè in cui la borghesia e anche la<br />

nobiltà – solitamente così prepotente e boriosa – avevano gran paura dei popolani,<br />

che sembravano essersi scatenati con furia improvvisa e selvaggia. Si meravigliò<br />

anche che, entrando da porta Orientale, i gabellieri non lo avessero fermato,<br />

poiché aveva sentito tanto parlare degli interrogatori e delle perquisizioni a cui<br />

dovevano sottostare le persone che venivano dalla campagna, per poter entrare in<br />

città. Ma la sua meraviglia crebbe ancor più quando vide per terra una striscia di<br />

polvere bianca, che sembrava neve, ma neve non poteva essere di certo; aveva<br />

l’aspetto di farina, ma Renzo non poteva credere che in tempo di carestia<br />

gettassero la farina; palpatala, si accertò che era farina davvero, e non si<br />

raccapezzava <strong>com</strong>e potessero sciuparla così: era forse entrato nel paese della<br />

cuccagna, mentre da loro già si lesinava il pane di granturco? Che dire poi<br />

quando, un po’ più avanti, vide a terra addirittura dei pani, bianchissimi, di quelli<br />

che non mangiava se non nelle grandi ricorrenze! La grazia di Dio non va<br />

sprecata: quindi, chinatosi a raccoglierli, se ne mise due in tasca e uno sotto i<br />

denti, ché il lungo cammino gli aveva risvegliato un discreto appetito. Facendo ciò<br />

pensò tra sé: se trovo il padrone, glieli pagherò.<br />

Mentre sgranocchiando quel pane saporito avanzava verso l’interno della città,<br />

vide venire un uomo con un sacco di farina sulle spalle, una donna con la sottana<br />

rimboccata in alto e tutta piena di farina, e un ragazzo con in testa un paniere<br />

troppo pieno di pagnotte, per cui ogni tanto ne cadeva qualcuna. Da questa vista<br />

Renzo ebbe finalmente la chiave del mistero del pane e della farina seminati per<br />

terra; capì immediatamente “che quello era un giorno di conquista, vale a dire che<br />

ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in<br />

pagamento.”<br />

Per amore di verità, bisogna pur dire che Renzo non ne fu affatto scontento; ciò<br />

non fa meraviglia: egli era tanto amareggiato contro la società ingiusta e<br />

sopraffattrice, dominata dai prepotenti, che vedeva di buon occhio ogni<br />

sconvolgimento che potesse in qualche modo mutarla; e poi era convintissimo che<br />

incettatori e fornai fossero la causa della penuria, per cui si faceva bene a strappar<br />

loro con la violenza quello che essi non volevano cedere a prezzo ragionevole. Se<br />

le autorità non provvedevano, il popolo doveva provvedere da solo.<br />

In mezzo a questi pensieri giunse al convento, dove il portinaio gli disse che il<br />

padre Bonaventura non era in casa, e lo invitò ad aspettarlo in chiesa, dove<br />

potrebbe fare un po’ di bene con la preghiera. Renzo si dirige verso la chiesa,<br />

volendo dare ascolto al buon consiglio, ma poi ci ripensa: vuol dare prima<br />

un’occhiata al tumulto. Si ferma su due piedi, aguzzando gli occhi verso il<br />

brulichìo lontano e tendendo contemporaneamente l’orecchio al confuso rumore.<br />

<strong>“I</strong>l vortice attrasse lo spettatore”. Con questa frase lapidaria il Manzoni scolpisce<br />

la scena e ci dà anche un’idea efficace del fascino che quel tumulto di popolo<br />

esercitò subito sul nostro popolano, tanto da fargli dimenticare il buon proposito<br />

di entrare in chiesa a pregare. E da questa curiosità morbosa, da questa<br />

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trascuratezza della preghiera deriveranno a Renzo i guai peggiori, guai che lui<br />

stesso si tirerà addosso, per ingenuità e inesperienza, cioè per eccessiva fiducia<br />

nell’altrui buona fede. <strong>“I</strong>l vortice attrasse lo spettatore”: poche parole che rendono<br />

appieno una scena e uno stato d’animo, senza bisogno d’altri particolari. Sono<br />

parole gravide di senso, parole insostituibili e indimenticabili, <strong>com</strong>e quelle scritte<br />

a proposito di Gertrude, lusingata dal turpe Egidio: “La sventurata rispose.” E’ la<br />

tentazione che attrae <strong>com</strong>e un vortice ineluttabile chi poco poco si ferma a<br />

guardare, chi poco poco indugia allettato dalla dolce voce della sirena; è una<br />

sirena che non perdona chi l’ascolta. Renzo è ammaliato dallo spettacolo, non sa<br />

resistere alla curiosità e anche al desiderio di fare qualcosa anche lui: e<br />

sbocconcellando il suo pane fragrante si avvia voglioso verso il tumulto.<br />

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CAPITOLO XII<br />

Il Manzoni al principio di questo capitolo ritorna sul tema della carestia, di cui<br />

si era parlato durante il banchetto in casa di don Rodrigo; e ne elenca con lucido<br />

esame le cause.<br />

La prima causa era evidentemente naturale: le avverse condizioni atmosferiche<br />

avevano danneggiato il raccolto, e non solo nel Milanese. Ma le avversità<br />

stagionali erano state aggravate dallo sperpero e dal guasto della guerra del<br />

Monferrato, e soprattutto dal <strong>com</strong>portamento delle truppe spagnole, in tutto simile<br />

a quello di un nemico invasore. Naturalmente ne facevano le spese, in primo<br />

luogo, i poveri contadini, specie nella zona più vicina alle operazioni militari, per<br />

cui i poderi venivano abbandonati, e i coloni, invece di procurare il vitto per sé e<br />

per gli altri, andavano ad accattarlo in città. L’abbandono della terra era un triste<br />

fenomeno che si andava verificando ovunque, anche senza la guerra, “perché le<br />

insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e un’insensatezza del pari<br />

sterminate,” rendevano impossibile la vita ai lavoratori dei campi, sottoposti a<br />

infinite vessazioni, di imposte e di requisizioni e anche di prestazioni personali<br />

gratuite per eseguire pesanti lavori. Il 1628 era il secondo anno di raccolto scarso;<br />

l’anno precedente si era tirato avanti con le scorte accumulate; ma il grano<br />

raccolto, del tutto insufficiente al bisogno, era stato in gran parte requisito per il<br />

fabbisogno delle truppe, sicché la carestia si fece ben presto sentire già<br />

nell’autunno, specie a Milano.<br />

Con la penuria venne inevitabile, e anche salutare, il rincaro del pane. Il nostro<br />

Autore è liberale anche in economia, e per lui quindi il prezzo naturale è quello<br />

derivante dall’incontro tra domanda e offerta, cioè tra produzione e consumo:<br />

diminuendo l’offerta, il prezzo tende a salire, <strong>com</strong>e accenna a diminuire in caso<br />

contrario. Si può anche, è vero, avere un prezzo artificiale di una derrata, un<br />

prezzo per così dire politico; ma allora lo Stato lo deve rendere possibile con<br />

adeguati provvedimenti, <strong>com</strong>e indennizzi, agevolazioni fiscali, eccetera; perché<br />

un prezzo deve essere remunerativo, e nessuno può essere costretto a lavorare in<br />

perdita per sempre, e neppure per lungo tempo. Non sarebbe giusto e neppure<br />

umanamente possibile. In caso di scarsità di una data merce, il rincaro è quindi<br />

inevitabile e anche economicamente utile, perché serve automaticamente a ridurne<br />

il consumo, mentre il prezzo vile ne permetterebbe un eccessivo consumo, o<br />

addirittura lo spreco.<br />

Ma purtroppo avviene quasi sempre che, quando una merce <strong>com</strong>incia a<br />

scarseggiare, sorge in alcuni la tentazione o la voglia di approfittarne per ottenere<br />

illeciti profitti: sono gli incettatori, i bagarini e i contrabbandieri, sempre pronti a<br />

speculare sul bisogno altrui, sordi al senso del dovere e della solidarietà sociale.<br />

Lo Stato ne deve stroncare l’attività e impedire i loro pingui quanto ingiusti<br />

guadagni, ma con provvedimenti oculati e soprattutto tempestivi, operando<br />

sempre nel campo del ragionevole e del fattibile, senza ricorrere a ordinanze le<br />

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quali, appunto perché ingiuste o illogiche o irrealizzabili, rimangono lettera morta.<br />

Il Manzoni vuole appunto mettere in risalto l’insipienza e l’irragionevolezza dei<br />

provvedimenti annonari delle autorità milanesi, i quali peggiorano la situazione, e<br />

d’altra parte anche la passionalità, i pregiudizi e la stolta condotta della gente<br />

ignorante o prevenuta. La stessa severa ma obiettiva critica l’Autore farà, <strong>com</strong>e<br />

vedremo, nei riguardi dei provvedimenti presi dalle autorità governative in<br />

occasione della peste, ma anche a proposito del <strong>com</strong>portamento del popolo in<br />

quella dolorosa circostanza. Il Manzoni non perdona a chi non ha il senso del<br />

dovere o non è all’altezza della situazione o dei <strong>com</strong>piti della sua carica: ogni<br />

carica, secondo la morale cristiana, è un servizio per gli altri, che deve essere<br />

prestato con <strong>com</strong>petenza e abnegazione.<br />

Il prezzo del grano era dunque salito tanto, che il pane (il quale allora<br />

costituiva quasi l’unico alimento della povera gente) si vendeva a un prezzo poco<br />

accessibile ai popolani indigenti, che non erano disposti a pazientare più oltre.<br />

Infatti <strong>com</strong>inciarono a fare delle dimostrazioni, chiedendo minacciosamente che si<br />

ponesse presto rimedio a questa situazione insopportabile. I magistrati stessi<br />

capivano che un tale stato di cose non poteva continuare.<br />

Sic<strong>com</strong>e il Governatore, don Gonzalo Fernandez de Cordova, era impegnato<br />

nell’assedio di Casale Monferrato, il gran cancelliere Antonio Ferrèr, suo vicario,<br />

pensò di ovviare all’inconveniente fissando al pane un prezzo forzoso, che<br />

sarebbe stato giusto, se il grano si fosse venduto a 33 lire il moggio, <strong>com</strong>e nei<br />

tempi migliori, mentre allora era salito sino a 80 lire, e anche più.<br />

Provvedimento stolto e illogico, oltre che ingiusto, il quale sarebbe rimasto<br />

naturalmente inefficace per la stessa resistenza delle cose, se non ci fosse stata una<br />

moltitudine affamata e minacciosa, che non permetteva davvero che venisse elusa<br />

un’ordinanza a essa così favorevole. E sic<strong>com</strong>e i popolani erano rimasti per tanto<br />

tempo a denti asciutti, ora volevano rifarsi con quella specie di cuccagna, anche<br />

perché prevedevano in confuso che la cosa era troppo bella per poter durare. Ma<br />

per i disgraziati fornai erano insulti minacciosi, soprallavoro e perdita; <strong>com</strong>e<br />

avrebbero potuto tirare avanti così? Fecero perciò presenti le loro giuste ragioni, e<br />

minacciarono, se non fossero state accolte, “di gettare la pala nel forno, e<br />

andarsene”, perché nessuno può a lungo lavorare per scapitarci.<br />

Ma Antonio Ferrèr era cocciuto, non sentiva ragioni, e non voleva revocare il<br />

suo bel calmiere, soprattutto perché temeva, nel caso lo avesse fatto, l’ira della<br />

folla, di cui prima si era procurato il favore a spese dei fornai, ai quali fece vaghe<br />

promesse di risarcimento del danno subito a causa del prezzo politico del pane. I<br />

fornai allora ricorsero al Consiglio dei decurioni (una magistratura municipale<br />

formata da 60 nobili, scelti dieci per porta o rione, donde il nome), i quali<br />

scrissero al Governatore informandolo dell’inconveniente e invocando il suo<br />

intervento. Ma don Gonzalo, “ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della<br />

guerra”, non volle perdere il suo prezioso tempo per rimediare a quel pasticcio, e<br />

incaricò una <strong>com</strong>missione, da lui nominata all’uopo, di fissare al pane un prezzo<br />

più equo, “da poterci campar tanto una parte che l’altra”. I <strong>com</strong>ponenti della<br />

giunta, riunitisi, fecero, dopo molti sospiri e tergiversazioni, ciò che era purtroppo<br />

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inevitabile quanto pericoloso, vale a dire rincararono il pane: “i fornai<br />

respirarono, ma il popolo imbestialì.” E’ questa una delle frasi scultoree del<br />

Manzoni: poche parole pregne di significato, che rappresentano con icastica<br />

efficacia la minacciosa situazione, che poteva divenire da un momento all’altro<br />

esplosiva. Ciò che avvenne. Già il giorno 10 novembre, precedente a quello in cui<br />

Renzo giunse a Milano, si erano visti per le strade della città i prodromi di una<br />

sommossa. L’indomani, sin dalle prime ore del mattino, il centro cittadino era<br />

ingombro di gruppi di gente eccitata, tra cui molti, ai quali prudevano le mani,<br />

non volevano lasciarsi sfuggire l’occasione di approfittare, nel proprio interesse,<br />

dell’indignazione generale.<br />

Bastava una scintilla, per appiccare l’incendio a quella specie di barile di<br />

polvere rappresentato dalla moltitudine esasperata; e l’occasione venne appunto<br />

con l’uscita dai forni delle gerle piene di fragranti pagnotte, portate dai garzoni<br />

ai soliti clienti. I poveri garzoni vengono bloccati e malmenati: il pane va a ruba.<br />

Molti avevano così conquistato una pagnotta, ma molto più numerosi erano quelli<br />

rimasti con l’acquolina in bocca; e purtroppo in mezzo alla folla eccitata c’erano i<br />

soliti profittatori, gli agitatori, che volevano spingere le cose al peggio, per<br />

pescare nel torbido. “Al forno! al forno!” si grida da più parti. Lì vicino ce n’era<br />

appunto uno, chiamato “il forno delle grucce”; la moltitudine, guidata dagli<br />

scalmanati, si riversa in quella direzione, e il personale del forno fa appena in<br />

tempo a mandare ad avvertire il Capitano di giustizia, e a chiudersi dentro in fretta<br />

e furia, barricandosi alla meglio.<br />

I più accesi tra i dimostranti avevano appena <strong>com</strong>inciato il lavoro per<br />

abbattere la porta, quando giunse il Capitano con un manipolo di alabardieri. Egli<br />

fa allontanare un po’ la folla e cerca di ridurla alla ragione con ammonimenti e<br />

preghiere, conditi di minacce. Ma la folla è sorda, la calca preme intorno a lui che,<br />

sentendosi quasi soffocare, e temendo di usare la forza data la scarsezza dei suoi<br />

uomini, grida a quei di dentro che aprano. I difensori obbediscono, i battenti si<br />

scostano offrendo uno spiraglio, per il quale s’infila il Capitano, trascinandosi<br />

dietro, uno alla volta, gli alabardieri che trattengono la folla con le picche<br />

abbassate sui petti dei dimostranti. Sgusciato dentro l’ultimo soldato, la porta<br />

viene riappuntellata in fretta, mentre il Capitano sale al piano di sopra;<br />

affacciatosi a una finestra, riprende la predica, mista di lodi e di rampogne; ma<br />

erano parole gettate all’aria. Infatti quelli di sotto, incuranti sia degli elogi che dei<br />

rimproveri, avevano ripreso alacremente la loro opera di guastatori, allo scopo di<br />

forzare la porta; e allora il Capitano a esortare e minacciare: “Vedo, vedo:<br />

giudizio! badate bene! è un delitto grosso… Vergogna!... Sentite, sentite: siete<br />

stati sempre buoni fi… Ah canaglia!” Questo repentino mutamento di linguaggio<br />

fu dovuto a un sasso, lanciato da uno di quei bravi figlioli, che lo ferì alla tempia<br />

destra, costringendolo a ritirarsi precipitosamente e a richiudere la finestra,<br />

rinunciando a ogni ulteriore tentativo di persuadere o di costringere quegli<br />

scalmanati a desistere.<br />

Ma i padroni e i garzoni del forno, vedendo inefficace la protezione della forza<br />

pubblica, mossi dalla disperazione nel veder manomessa impunemente la cosa<br />

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loro, <strong>com</strong>inciarono a minacciare dalle finestre gli scassinatori, con in pugno le<br />

pietre di cui avevano fatto provvista. Vedendo che le minacce non servivano a<br />

nulla, tanto che la gente continuava a guastare, senza nemmeno voltarsi in su,<br />

<strong>com</strong>inciarono a gettare le pietre davvero. La grandine di pietre risultò micidiale:<br />

neppure una andava a vuoto, tanto la calca era fitta: due rimasero uccisi e parecchi<br />

furono feriti più o meno gravemente. Ma, <strong>com</strong>e dice Virgilio, “furor arma<br />

ministrat”; la vista del sangue non fece fuggire la moltitudine, né del resto ciò<br />

sarebbe stato possibile in quel serra serra, ma la aizzò maggiormente. La turba<br />

inferocita si gettò in un impeto folle contro i battenti malconci: in pochi minuti la<br />

porta fu sfondata, le inferriate delle finestre divelte, gli infissi infranti, e la marea<br />

urlante entrò dalla porta e dalle finestre per fare man bassa di tutto.<br />

Fortunatamente, nella ressa di far bottino, furono dimenticati i sanguinosi<br />

propositi di far vendetta contro i fornai, che poterono riparare in soffitta assieme<br />

al Capitano e ai suoi alabardieri; alcuni, non sentendosi sicuri neppure lì, uscirono<br />

dagli abbaini sui tetti, cercando di allontanarsi da quella casa camminando sui<br />

coppi.<br />

Tutto andò a ruba nel forno invaso: pane, farina, pasta appena intrisa; nella<br />

fretta furiosa della conquista molta farina va a terra e viene calpestata; i<br />

saccheggiatori si ostacolano a vicenda nell’ardore della preda: qualcuno, più<br />

furbo, trascurando la merce, corre al cassetto dei denari, fa saltare la serratura, si<br />

riempie le tasche di moneta contante, e lesto corre a casa per mettere al sicuro il<br />

bottino, per tornare poi a prendere il pane o la farina, se ne resterà. Ma i più<br />

rimangono a mani vuote e a “denti secchi”, <strong>com</strong>e dice appunto il Manzoni, e per<br />

sfogarsi danno di piglio a quei poveri arnesi dello stiglio, li fracassano per un<br />

gusto vandalico e quindi li portano fuori <strong>com</strong>e un trofeo di vittoria, per farne poi<br />

un bel falò proprio in piazza del Duomo, in mezzo a una moltitudine acclamante<br />

al pane a buon mercato.<br />

Il nostro Renzo giunse al forno “delle grucce” quando già il saccheggio era<br />

finito per esaurimento della merce e di materiale vario, e vedendo la scena di<br />

devastazione, nel suo buon senso di montanaro disse tra sé: “Questa poi non è una<br />

bella cosa; se concian così tutti i forni, dove vogliono fare il pane? Ne’ pozzi?”<br />

Quindi, seguendo un saccheggiatore ritardatario, che portava sulle spalle un fascio<br />

di tavole spaccate e scheggiate, giunse anche lui a vedere gli ultimi guizzi di<br />

quella gran fiammata, intorno alla quale la folla eccitata alternava evviva e grida<br />

di morte: ”Crepi la provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!” Evidentemente la<br />

giunta che doveva crepare era quella che aveva rincarato il pane, mentre la<br />

provvisione (organo del Governo, che – sotto la direzione di un vicario del<br />

Governatore – si occupava dell’annona) doveva crepare anch’essa, perché non<br />

aveva assicurato pane a buon mercato. “Viva il pane!” ripetevano i tumultuanti a<br />

squarciagola, ma, “per far vivere il pane”, osserva bonariamente il Manzoni, non<br />

serve troppo la distruzione dei forni e lo sperperìo della farina esistente, che<br />

andava invece oculatamente razionata. La folla esaltata però non capiva certe<br />

sottigliezze: Renzo invece, la cui mente non era ancora ottenebrata dalla passione,<br />

<strong>com</strong>prende di primo acchito quanto era irragionevole la condotta della folla, la<br />

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quale non agogna che il saccheggio. Infatti, non appena qualche facinoroso ebbe<br />

sparsa la voce che poco lontano, al Cordusio, era assalito un altro forno, tutti si<br />

diressero verso quella parte, per saziare la loro brama di rapina e di devastazione.<br />

Renzo si mosse con la retroguardia di quell’esercito disordinato e tumultuante,<br />

sempre con il proposito di starsene fuori dalla calca; anzi a un certo punto pensò<br />

se non fosse meglio tornare al convento, per accudire ai fatti propri. Purtroppo<br />

anche questa volta vinse nel suo animo quella maledetta curiosità, causa di tanti<br />

guai, vizio non soltanto femminile. Ma il forno del Cordusio, che per precauzione<br />

aveva già chiuso i battenti, non era affatto assediato: pochi vogliosi stavano alla<br />

larga, perché alle finestre c’era gente ben armata, decisa a difendersi in modo più<br />

efficace che con un lancio di pietre. Arriva intanto l’avanguardia dei predatori,<br />

vede la mala parata, si arresta indecisa: chi non vuole arrischiare la vita, chi<br />

invece spinge e anima gli altri gridando: “avanti! avanti!” In questa pausa di<br />

esitazione e di contrasti, un facinoroso che non si rassegnava ad andarsene a mani<br />

vuote, lancia la sua maledetta proposta: “C’è qui vicino la casa del vicario di<br />

provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco;” la proposta è accolta con<br />

alte grida di approvazione generale, <strong>com</strong>e se l’impresa fosse stata concertata da<br />

tempo, e la turba tumultuosa si avvia verso la casa indicata.<br />

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CAPITOLO XIII<br />

Il Manzoni, ora che la vita di un uomo è in pericolo, attenua il tono ironico del<br />

capitolo precedente, <strong>com</strong>preso <strong>com</strong>’è di pietà umana e cristiana per lo “sventurato<br />

vicario”, contro il quale i malintenzionati vogliono sfogare la loro brama di<br />

violenza e di saccheggio. Questo magistrato, scelto ogni anno dal Governatore tra<br />

sei nobili proposti dal Consiglio dei decurioni, era contemporaneamente<br />

presidente di questo consesso e del Tribunale di provvisione, <strong>com</strong>posto a sua volta<br />

da dodici nobili, il quale si occupava principalmente dell’approvvigionamento dei<br />

viveri. E’ molto probabile che, della giunta che rincarò il pane, fosse stato<br />

presidente il povero vicario, appunto per la sua specifica responsabilità e<br />

<strong>com</strong>petenza; contro di lui così si riversò l’odiosità di un provvedimento purtroppo<br />

inevitabile quanto sgradito. Egli veniva dunque a essere il capro espiatorio di una<br />

situazione da lui non creata, e di colpe in gran parte non sue; donde il senso di<br />

pietà che pervade queste pagine in cui si parla del mortale pericolo da lui corso<br />

per lo scatenarsi del furore popolare. L’Autore però, di tanto in tanto, <strong>com</strong>e per<br />

scaricare la tensione drammatica del racconto, getta giù una frase o una battuta<br />

ironica o umoristica, per evitare di cadere nel patetico.<br />

Il poveretto stava facendo il chilo di un pranzo consumato con poco appetito,<br />

“e senza pan fresco”, preoccupato per i gravi fatti della giornata, che lo<br />

riguardavano direttamente, ma ben lontano dal sospettare che la tempesta si<br />

dovesse riversare su di lui. La sua era una difficile digestione, sia per la tensione<br />

nervosa sia per il pane raffermo che era stato servito a tavola, al posto del pane<br />

fresco predato dai dimostranti. Egli seguiva con ansia l’evolversi della situazione,<br />

ma, <strong>com</strong>e abbiamo detto, non pensava minimamente che il turbine si dovesse<br />

abbattere così paurosamente contro di lui, che si sentiva non colpevole della<br />

deplorevole situazione.<br />

Qualche onest’uomo (non ne manca mai, per grazia di Dio, neppure nelle<br />

accolte più equivoche) precorse la folla per portare al vicario l’avviso del<br />

pericolo; ma mentre egli pensa al modo di fuggire, risulta evidente che ogni fuga è<br />

preclusa, poiché già l’avanguardia degli assalitori è giunta davanti al palazzo; si fa<br />

appena in tempo a sbarrare le porte e le finestre del pianterreno con pali e puntelli.<br />

Mentre la servitù improvvisa la difesa, lo sventurato padrone si rifugia<br />

precipitosamente in soffitta, dove da un pertugio spia verso la strada; e vedendo<br />

quella gran folla scalmanata e inferocita, decisa a linciarlo, cerca tremando il<br />

nascondiglio più sicuro e lì si rannicchia con la morte nel cuore, tendendo<br />

l’orecchio alle grida, se mai cessassero o si affievolissero almeno. Ma gli urli<br />

selvaggi infittivano e raddoppiavano d’intensità, rintronando sinistramente nel<br />

vuoto del cortile e accrescendo ogni momento l’angoscia del meschino che,<br />

disperato, si rac<strong>com</strong>andava a Dio.<br />

Renzo questa volta si cacciò deliberatamente nel fitto della folla tumultuante,<br />

perché, avendo sentito esprimere, da qualche brav’uomo, il proposito di evitare il<br />

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linciaggio, subito decise di adoperarsi lui pure a questo scopo, per quanto fosse<br />

anch’egli convinto che il vicario era il responsabile della carestia, “per quella<br />

funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti.”<br />

Questa osservazione del Manzoni contiene, oltre a un acuto giudizio psicologico,<br />

un indiretto monito a non lasciasi mai trascinare, accecati dalla passionalità e dai<br />

pregiudizi, ad azioni inconsulte, ma a cercare di rimanere, per quanto è possibile,<br />

sereni e obiettivi, soprattutto quando siamo turbati da qualche sentimento<br />

appassionato.<br />

Le autorità, avendo saputo quasi subito dell’attacco alla casa del vicario,<br />

chiesero aiuto al <strong>com</strong>andante della guarnigione spagnola, il quale mandò un<br />

plotoncino di micheletti (fanti armati di fucile) al <strong>com</strong>ando di un ufficiale. Questi,<br />

avendo ricevuto l’ordine di evitare l’uso delle armi, si trovò in una situazione<br />

difficile: avrebbe dovuto rompere la calca e raggiungere il palazzo, per arrestare i<br />

guastatori; ma l’impresa era rischiosa: avrebbero i soldati avuto abbastanza<br />

energia da aprire la folla rimanendo essi stessi <strong>com</strong>patti? E se per caso si fossero<br />

disuniti? sarebbero rimasti alla mercé della folla esasperata, con i fucili che nella<br />

ressa diventavano inservibili. Perciò l’ufficiale fece arrestare il reparto ai margini<br />

del tumulto, indeciso sul da farsi; e la sua indecisione fu subito interpretata per<br />

paura. Perciò, quando egli fece a quelli che aveva davanti l’intimazione di<br />

sgombrare, non ottenne nessun risultato apprezzabile, perché la gente, avendo<br />

<strong>com</strong>preso che aveva paura, non se la dava per inteso, o si scostava appena, mentre<br />

quelli che stavano davanti alla porta non si erano neppure accorti dei soldati, e<br />

continuavano indisturbati il loro assalto ai muri e agli infissi con scalpelli,<br />

martelli, paletti, pietre e, chi altro non aveva, con le unghie;e il lavoro era a buon<br />

punto.<br />

Tra i tumultuanti più inveleniti spiccava un vecchio vituperevole che, con gli<br />

occhi stralunati e con la bava in bocca, gridava che avrebbe crocifisso<br />

l’affamatore alla sua porta; e infatti brandiva davanti alla folla schiamazzante un<br />

martello e quattro grandi chiodi, con in faccia un ghigno diabolico, che faceva un<br />

orrido contrasto con la canizie della sua testa. A sentire le sue ripugnanti parole,<br />

Renzo non poté tenersi dal reagire; senza pensare affatto all’umore della folla che<br />

aveva intorno, gridò contro quell’energumeno: “Vergogna! Vogliam noi rubare il<br />

mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se<br />

facciamo di queste atrocità?” Non l’avesse mai detto! Uno del fondaccio, avendo<br />

sentito quelle sacrosante parole, <strong>com</strong>incia a inveire contro di lui, e aizza gli altri a<br />

fare la festa a quel cane traditore, a quel nemico del popolo, a quella spia del<br />

vicario. Renzo capì subito che doveva sparire di lì immediatamente, se voleva<br />

evitare guai seri, dato che la folla quel giorno era male intenzionata davvero; per<br />

sua fortuna c’erano vicino anche dei buoni cristiani, i quali cercarono di<br />

confondere, con le loro, quelle grida omicide, e di far sgattaiolar via Renzo da<br />

quel luogo, dove non spirava buon’aria per lui. Ma ciò che lo aiutò di più fu una<br />

lunga scala a pioli che veniva portata in quel momento, la quale polarizzò<br />

l’attenzione generale, avanzando con difficoltà, a strappi e a balzelloni, in mezzo<br />

alla calca. Mentre “la macchina fatale” (reminiscenza virgiliana), passando sopra<br />

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le teste, si avvicinava ai muri da scalare, il nostro montanaro, lavorando di gomiti<br />

a più non posso, si allontanava dal pericolo, e poté finalmente respirare un po’ al<br />

largo, ormai deciso a non rischiare più oltre, e a tornare al convento.<br />

Ma ecco che in carrozza, senza scorta alcuna, giunge il gran cancelliere<br />

Antonio Ferrèr, preoccupato per la vita del vicario e desideroso di salvarlo, anche<br />

perché sentiva di essere lui la causa, pur indiretta e involontaria, della furia<br />

popolare. Con questo gesto abbastanza coraggioso la figura del Ferrèr si riscatta<br />

dalla mediocrità boriosa e insipiente che gli abbiamo attribuito a prima vista; dal<br />

<strong>com</strong>portamento abile e altruista che tenne in occasione del tumulto possiamo<br />

desumere che, con la sua tariffa del pane, aveva preso un dirizzone in buona fede,<br />

o per inesperienza o per amore di popolarità, ora che era lui a governare Milano al<br />

posto di don Gonzalo, odiato dal popolo; <strong>com</strong>unque, conclude il Manzoni,<br />

“veniva a spender bene una popolarità mal acquistata”; e il personaggio ci diventa<br />

subito alquanto simpatico.<br />

A questo punto del racconto l’Autore si sofferma a fare una profonda analisi<br />

dei tumulti popolari, valida ancor oggi. In essi si distinguono sempre tre categorie<br />

di dimostranti: innanzi tutto quelli che vogliono spingere le cose al peggio, per<br />

passione per odio per scellerato disegno, oppure per interesse; ad essi si<br />

oppongono coloro che non vogliono eccessi, per un certo senso di moderazione o<br />

per spirito cristiano, oppure perché legati in qualche modo alle persone o cose<br />

minacciate; tra queste due categorie si frappone la terza, di gran lunga la più<br />

massiccia numericamente; però essa rimane passiva, <strong>com</strong>e una massa amorfa, e si<br />

lascia influenzare o addirittura dominare dagli attivisti del male o anche del bene,<br />

secondo le circostanze. Naturalmente sia gli uni sia gli altri si danno battaglia per<br />

trascinare dalla loro parte questa massa, perché essa appunto, decidendosi in un<br />

senso o nell’altro, assegna col suo peso schiacciante la vittoria a coloro che hanno<br />

saputo conquistarla. Con pittoresca similitudine il Manzoni dice che le due parti<br />

attive “sono quasi due anime nemiche, che <strong>com</strong>battono per entrare in quel<br />

corpaccio” rappresentato dalla massa indecisa la quale, senza un’anima, buona o<br />

cattiva che sia, non potrebbe determinarsi a nulla, e resterebbe <strong>com</strong>e paralizzata.<br />

Ora l’arrivo del cancelliere Ferrèr diede a un tratto il vantaggio alla parte<br />

buona, che invece fino allora appariva perdente, e ormai doveva battere in ritirata,<br />

poco poco che quello straordinario aiuto avesse tardato. Il Ferrèr era entrato nelle<br />

grazie del popolo per quella sua “meta” (così chiamano a Milano il prezzo del<br />

calmiere) sul pane, così popolare; diceva che veniva per portare in prigione il<br />

vicario; veniva solo e disarmato (i micheletti erano postati dalla parte opposta<br />

della calca), confidando nell’affetto dei cittadini: tutto questo gli conciliò subito la<br />

simpatia quasi generale. Non si creda però che non ci fossero gli oppositori, gli<br />

scontenti che la cosa si risolvesse così miseramente, mentre loro avevano fatto<br />

ben altro disegno, di preda o di sangue; ma questi fautori del soqquadro furono a<br />

poco poco zittiti, rimproverati, sopraffatti. In un primo momento i sostenitori di<br />

Ferrèr diedero loro sulla voce, tacciandoli di nemici del popolo, poiché il gran<br />

Cancelliere era l’amico del popolo; quindi, divenuti ormai padroni della<br />

situazione, diedero anche sulle mani ai più scalmanati, strappando loro le armi di<br />

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vario genere con cui si accanivano intorno a quel disgraziato portone, che ormai<br />

non reggeva più all’attacco disordinato ma violento dei guastatori.<br />

Non occorre dire che Renzo fu subito per Ferrèr, quello “che aiuta a far le<br />

gride” (aveva letto il suo nome in calce alla grida mostratagli dal dottor Azzeccagarbugli);<br />

e con le sue robuste spalle di alpigiano si fece largo sino alla carrozza, e<br />

subito si mise a far luogo davanti ad essa con un ardore veramente entusiastico,<br />

tanto che gli toccò più di un sorriso di intelligenza e di riconoscenza da parte del<br />

gran Cancelliere, al quale il giovane, nella sua ingenuità, credeva già di essere<br />

diventato grande amico, tanto è vero che il giorno dopo, arrestato dai birri,<br />

protesterà di voler essere condotto da Ferrèr, aggiungendo quasi con fierezza:<br />

“Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.”<br />

Antonio Ferrèr, per tutto quel tragitto in mezzo alla calca, non fece altro che<br />

affacciarsi ora a destra ora a sinistra, distribuendo alla folla, con i sorrisi e i<br />

ringraziamenti, le parole che sapeva più accette: pane e giustizia. A dire il vero<br />

questo gran Cancelliere, in siffatto rischioso frangente, ci appare molto abile, e<br />

l’abilità deriva dall’intelligenza; per cui siamo portati a credere che il calmiere sul<br />

pane sia stato un atto da lui calcolato per guadagnarsi d’un colpo il favore dei<br />

sudditi e la stima dei superiori, onde poter scalzare dalla carica di governatore don<br />

Gonzalo, la cui quotazione era ormai in ribasso per il cattivo esito dell’assedio di<br />

Casale. Fu dunque un gesto calcolato, anche nel suo rischio? Non sappiamo; ma<br />

certo quello che il Ferrèr non calcolò bene fu la reazione dei fornai, che non<br />

abbozzarono affatto, <strong>com</strong>e lui sperava, ma per mezzo del consiglio dei decurioni<br />

ricorsero al Governatore, e ottennero alfine l’abrogazione di quel prezzo iniquo.<br />

Perciò, se calcolo ci fu, esso non riuscì bene al Ferrèr, al quale però rimase la<br />

simpatia popolare: magra consolazione per il suo piano ambizioso.<br />

Renzo dunque dimenticò ancora una volta il proposito di tornare al convento,<br />

e questa volta, lo dobbiamo dire a onor del vero, non per morbosa curiosità, ma a<br />

fin di bene, cioè per aiutare il gran Cancelliere nel suo disegno di salvare la vita<br />

allo sventurato vicario. La carrozza, scortata dai volenterosi, arriva finalmente<br />

davanti al portone del palazzo, dove i fautori della giustizia legale, sopraffacendo<br />

i sostenitori della giustizia sommaria, hanno fatto un po’ di largo, trattenendo<br />

indietro la folla. Antonio Ferrèr appare sul predellino, fa ampi cenni di saluto,<br />

ac<strong>com</strong>pagnati da profondi inchini di ringraziamento; quindi con tanto di toga<br />

scende dalla carrozza e si dirige eretto e sicuro verso la porta, che viene aperta<br />

quanto basti per farlo entrare, e immediatamente richiusa, tanto che lo strascico<br />

della toga rischiò di rimanere prigioniero tra i battenti che venivano<br />

frettolosamente riaccostati e riappuntellati alla meglio. Il vicario, più morto che<br />

vivo, viene portato giù a braccia dai servitori, anche loro atterriti, i quali non la<br />

finiscono di ringraziare Sua Eccellenza assieme al loro padrone, a cui solo in<br />

presenza di Ferrèr è tornato un po’ di polso e di colorito. Il gran Cancelliere tronca<br />

i ringraziamenti dicendo che non c’è tempo da perdere e, fatto alla meglio<br />

coraggio al vicario, se lo trascina dietro verso la carrozza nascondendolo con la<br />

sua persona, mentre i suoi bravi sostenitori, che nel frattempo hanno trattenuto la<br />

folla, cercano anche loro di coprire l’affamatore del popolo, levando in aria le<br />

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mani e i cappelli, onde impedire l’odiosa vista a quelli di dietro, non tutti bene<br />

intenzionati. “La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era<br />

accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni.” Il dramma si è concluso<br />

felicemente.<br />

La via del ritorno fu più facile, perché era rimasta aperta una certa traccia del<br />

percorso precedente, sempre ad opera dei volenterosi, i quali questa volta non<br />

dovettero faticar troppo per aprire alla carrozza un varco sufficiente, per cui essa<br />

poté procedere senza intoppi, anche se lentamente. Mentre il vicario se ne stava<br />

tutto rannicchiato in fondo al sedile, per non farsi vedere, Antonio Ferrèr si dava<br />

invece da fare per attirar su di sé l’attenzione della folla, ripetendo le parole e le<br />

frasi più adatte per conciliarsene o conservarsene il favore. Sicché in tutto il<br />

viaggio di ritorno tenne col suo “mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel<br />

tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai.” La concione era di tanto in<br />

tanto inframmezzata di qualche frase spagnola, che diceva sottovoce al suo<br />

<strong>com</strong>pagno, perché non si offendesse di certe espressioni che doveva concedere<br />

alla moltitudine: “Esto lo digo por su bien.”<br />

Ora che il vicario è ormai salvo, anche il tono narrativo del Manzoni si<br />

trasforma, divenendo arguto e disteso, sorridente e faceto, <strong>com</strong>e di chi gode di<br />

essere uscito da un incubo. Abbiamo visto <strong>com</strong>e fa dell’umorismo su Renzo, che<br />

crede di essere diventato in un batter d’occhio un intimo amico del gran<br />

Cancelliere; ma non risparmia lo stesso Ferrèr il quale presenta “un viso tutto<br />

ridente, tutto umile, tutto amoroso”, che riservava solo al suo sovrano Filippo IV;<br />

ma per estrema necessità “fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione”,<br />

veramente straordinaria e imprevedibile, a favore dei suoi sudditi; quel giorno<br />

infatti <strong>com</strong>andava la piazza. Anche sui personaggi minori si rivolge<br />

l’osservazione arguta e divertita dell’Autore: vediamo Pedro, il cocchiere<br />

spagnolo, il quale “sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa,<br />

<strong>com</strong>e se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile dimenava<br />

adagio adagio la frusta.” Vediamo l’ufficiale del picchetto spagnolo, il quale,<br />

vedendo arrivare la carrozza, schiera in fretta i micheletti per presentare le armi al<br />

gran Cancelliere, che per tutto ringraziamento gli dice: “beso a usted las manos”,<br />

cioè bacio le mani a vossignoria”. Il subalterno <strong>com</strong>prese il tono piuttosto ironico<br />

della frase, che date le circostanze voleva dire: m’avete dato un bell’aiuto!<br />

L’ufficiale, impacciato, si irrigidì nel saluto militare, stringendosi nelle spalle per<br />

la mortificazione. La più bella figura la fece Pedro che, passando tra quelle due ali<br />

di soldati che davano gli onori militari, si riprese immediatamente dallo<br />

sbalordimento, si ricordò chi era e chi conduceva, e senza tante cerimonie mise i<br />

cavalli di carriera, per cui chi non voleva essere arrotato dovette scantonare in<br />

tempo: l’autorità riprendeva il suo rango.<br />

Essendo ormai al largo, fuori del pericolo, il vicario si raddrizza, si ri<strong>com</strong>pone,<br />

respira finalmente a pieni polmoni e può alfine parlare; ma le sue prime parole<br />

rivelano ancora il terrore che lo domina: protesta di non volerne saper più niente<br />

della carica e della vita cittadina, di volersi ritirare in una grotta, “lontano da<br />

questa gente bestiale”, a vivere <strong>com</strong>e eremita. Antonio Ferrèr gli risponde, con un<br />

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certo tono autorevole, che dovrà fare quello che sarà più conveniente per il<br />

servizio di Sua Maestà. Passata la tempesta e ritornata la forza nelle mani solite,<br />

avrà il vicario mantenuto il suo proposito di rinunciare agli agi e alle pompe dei<br />

ricchi nobili investiti di alte cariche? Chi sa! Il Manzoni afferma di non saperne<br />

nulla; noi nutriamo seri dubbi su queste promesse da marinaio.<br />

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CAPITOLO XIV<br />

Renzo ac<strong>com</strong>pagnò sino alla fine la carrozza del gran Cancelliere, e<br />

seguendola di corsa <strong>com</strong>e un lacchè passò anche lui tra i soldati che presentavano<br />

le armi, <strong>com</strong>e in trionfo; e in verità si sentiva in quel momento un personaggio<br />

molto importante, perché aveva contribuito così efficacemente al successo di<br />

Ferrèr, del quale credeva proprio di essere entrato nelle grazie. La folla <strong>com</strong>inciò<br />

a sbandarsi, e molti si dirigevano alle loro case, perché ormai il sole tramontava<br />

ed essi si sentivano stracchi e affamati (meno quei pochi che avevano fatto<br />

bottino) dopo tanto gridare e tumultuare; forse più della fame sentivano l’arsura<br />

della gola. Si formavano vari capannelli di uomini che parlavano animatamente,<br />

<strong>com</strong>mentando secondo i loro punti di vista i grandi fatti della giornata, e magari<br />

prendendo gli accordi per l’indomani.<br />

Naturalmente non tutti erano contenti del salvataggio operato da Ferrèr; quelli<br />

a cui pizzicavano fortemente le mani, e si vedevano defraudati di quanto stavano<br />

già per conquistare, brontolavano o addirittura bestemmiavano per una fine così<br />

meschina di un’azione così promettente. I più inveleniti ripresero a tempestare il<br />

portone del palazzo, che era stato di nuovo chiuso e puntellato alla meglio,<br />

volendo almeno dare il sacco alla casa, ora che la vittima era sfuggita alla loro<br />

furia. Ma i micheletti, essendo la folla diradata, avanzarono senza troppa difficoltà<br />

e vennero a postarsi proprio davanti al palazzo, sicché i facinorosi dovettero -<br />

obtorto collo – scantonare di qua o di là, mentre i soldati prendevano posizione a<br />

difesa del portone malconcio, facendo sfumare ogni speranza di saccheggio.<br />

Renzo pensò che ormai era troppo tardi per tornare al convento, e che gli<br />

conveniva cercare una locanda per quella notte. Mentre camminava per trovarne<br />

una, s’imbatté in un crocchio di persone che discutevano su ciò che era stato fatto<br />

e su quello che bisognava fare. Dopo essere stato un poco ad ascoltare, non poté<br />

tenersi dal partecipare anche lui alla discussione, perché gli pareva di averne<br />

diritto ormai, dopo tutto quello che aveva fatto per il gran Cancelliere, e di avere<br />

anche delle cose interessanti da dire. Poiché l’argomento della conversazione<br />

gliene offriva il destro, Renzo, perduta ogni soggezione, si introduce nel discorso<br />

e parla con crescente fiducia nei propri mezzi oratori. Il suo discorso, a dire il<br />

vero, appare arguto e colorito nell’espressione, e anche abbastanza assennato nella<br />

sostanza, sicché egli finisce col polarizzare l’attenzione di quella piccola<br />

assemblea con le sue parole ingenuamente appassionate, che riscuotono alla fine<br />

l’approvazione quasi generale. Egli è ormai convinto che si può cambiare il<br />

mondo e che, per realizzare una cosa, basta farla entrare in testa ai dimostranti, i<br />

quali poi col loro vocione minaccioso – magari aiutato dalle mani – la imporranno<br />

ai governanti.<br />

Egli <strong>com</strong>incia chiedendo di poter dire anche lui il suo modesto parere; poi<br />

continua affermando che tante sono le bricconerie che si fanno contro il popolo, e<br />

non soltanto nel fatto del pane, ma in ogni campo; e non soltanto a Milano, ma<br />

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anche e ancor più nelle campagne e nei paesi: questo perché “c’è una mano di<br />

tiranni, che fanno proprio al rovescio dei dieci <strong>com</strong>andamenti” e <strong>com</strong>piono ogni<br />

sorta di angherie contro la povera gente che non fa loro alcun male, ma vuole solo<br />

lavorare e vivere in grazia di Dio. E questi signorotti prepotenti formano tra di<br />

loro una lega, per sostenersi nelle loro malefatte, spesso anche con la connivenza<br />

delle autorità; e pure gli uomini di legge sono a loro legati per interessi, e non si<br />

curano di far fare giustizia ai poveri perseguitati. Le gride ci sono, e parlano<br />

chiaro, elencando tutti i reati, proprio <strong>com</strong>e avvengono, e <strong>com</strong>minando per<br />

ognuno la giusta pena; ma chi le applica o qual poveretto le può far valere contro i<br />

potenti signori? Se un popolano si rivolge a un avvocato per far valere i suoi diritti<br />

contro un signorotto, <strong>com</strong>e canta la grida, non viene ascoltato o, peggio, è<br />

cacciato in malo modo. Renzo parla appassionatamente, e i suoi casi personali,<br />

<strong>com</strong>e si può facilmente notare, alimentano la sua disordinata ma pur vivace<br />

oratoria, poiché la lingua batte dove il dente duole. A conclusione del suo<br />

infervorato discorso propone che il giorno dopo si vada da Ferrèr, perché quello é<br />

un galantuomo, per denunciargli tutte le malefatte dei signorotti e dei dottori della<br />

legge “scribi e farisei”, e dargli una mano per ripulire da simile gentaglia la città e<br />

tutto il ducato, applicando le leggi con giustizia e verso tutti, in modo da poter<br />

vivere un po’ più da cristiani. La perorazione di Renzo fu salutata da un coro di<br />

applausi, tanto era fervida e appassionata; ma non mancò qualche criticone o<br />

qualche scontento, gente che si era mossa per il pane, e non voleva <strong>com</strong>plicare le<br />

cose presentando altre richieste, sul tipo di quelle del forestiero.<br />

Comunque, sic<strong>com</strong>e era già buio, la <strong>com</strong>itiva si sciolse, dandosi<br />

l’appuntamento per l’indomani in piazza del Duomo. Avendo Renzo domandato<br />

se qualcuno sapesse indicargli un ‘osteria nelle vicinanze, un tale si offrì subito di<br />

ac<strong>com</strong>pagnarvelo. Costui era un birro travestito, uno dei molti che erano stati<br />

sguinzagliati per la città sin dall’inizio del tumulto, per osservare e riferire chi<br />

fossero gli istigatori e i caporioni della rivolta, onde poterli arrestare non appena<br />

la situazione si fosse normalizzata. Il bargello aveva ascoltato il montanaro, e<br />

subito lo aveva scelto per sua vittima, perché gli era sembrato “un reo buon<br />

uomo”, uno da potersi facilmente arrestare, incriminare e magari impiccare, dopo<br />

avergli fatto confessare con la tortura tutti i delitti che si voleva. Ci fece dunque<br />

assegnamento e decise di non lasciarselo sfuggire, il merlotto di campagna; e così<br />

avrebbe fatto coi suoi superiori un’ottima figura, senza rischiare nulla; mentre con<br />

i veri facinorosi si rischiava troppo, per cui conveniva lasciarli in pace. Quando lo<br />

sprovveduto Renzo chiese di essere ac<strong>com</strong>pagnato a una locanda, il bargello tentò<br />

il colpo magistrale di condurre il forestiero dritto dritto in guardina, la più sicura<br />

ed economica delle locande; ma sfortunatamente il tiro gli andò fallito, perché il<br />

giovane, molto stanco, vista poco dopo un’insegna d’osteria, non volle più<br />

saperne di proseguire, ed entrò lì.<br />

Il suo ac<strong>com</strong>pagnatore, dopo aver tentato invano di dissuaderlo, dicendo che<br />

quell’osteria non faceva per lui, lo seguì, non volendo lasciare la preda senza<br />

avergli almeno cavato di bocca le generalità, onde denunciarlo ai superiori.<br />

Cammin facendo aveva saputo che Renzo era del territorio di Lecco, e ora<br />

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avrebbe cercato di sapere il resto. Il nostro giovane, vedendo che lo sconosciuto<br />

non aveva voglia di lasciarlo, lo invitò a bere un bicchiere con lui, e quegli accettò<br />

ben volentieri, anzi lo precedette nel locale, <strong>com</strong>e pratico del luogo. L’oste andò<br />

incontro ai nuovi venuti; vedendo il bargello, lo maledisse in cuor suo, perché<br />

veniva a ficcare il naso proprio nel suo esercizio e in una giornata <strong>com</strong>e quella.<br />

Dando poi un’occhiata a Renzo, pensò che, venendo con un tal cacciatore, doveva<br />

essere o cane o lepre, cioè o <strong>com</strong>pagno o vittima: lo avrebbe saputo subito, ed era<br />

un po’ curioso di saperlo.<br />

Renzo si sedette di fronte alla sua guida, e ordinò innanzi tutto un fiasco di<br />

vino; tanta era l’arsura della sua gola, che in poco tempo ne tracannò parecchi<br />

bicchieri, quasi senza accorgersene, mescendo anche allo sconosciuto, che però<br />

bevve appena, per tenersi ben in sé. Quando poi l’oste, servendogli un piatto di<br />

stufato, disse che pane non ce n’era quel giorno, il giovane si ricordò della<br />

pagnotta che ancora aveva in tasca e, mostrandola agli avventori, esclamò che al<br />

pane ci aveva pensato la provvidenza. Un coro di applausi e di risa salutò le parole<br />

di Renzo, il quale volle precisare che aveva trovato quella pagnotta per terra, ma<br />

naturalmente nessuno ci credette, essendo tutti più che convinti che egli l’avesse<br />

sgraffignata in qualche forno.<br />

L’ac<strong>com</strong>pagnatore poi disse all’oste di preparare un buon letto al suo amico,<br />

che doveva alloggiare lì; allora il locandiere, secondo che prescriveva la legge,<br />

andò subito al suo banco a prendere carta, penna e calamaio; quindi, fattosi<br />

davanti a Renzo, gli chiese di dirgli nome, cognome e paese di origine. Il giovane,<br />

ormai alticcio, cascò dalle nuvole, e chiese il motivo per cui doveva dire chi era;<br />

saputo che lo prescriveva una grida (che l’oste volle mostrargli e leggere, nei passi<br />

salienti), disse che se le gride che parlano bene, cioè a favore del popolo, non sono<br />

osservate, tanto meno debbono valere quelle che parlano male, costituendo <strong>com</strong>e<br />

delle trappole per la povera gente. Egli aveva le sue buone ragioni per non rivelare<br />

le sue generalità: “se un furfantone – aggiunse – volesse saper dov’io sono, per<br />

farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi.”<br />

La faccia a cui alludeva era quella del “re moro incatenato per la gola” che<br />

campeggiava nello stemma del governatore don Gonzalo, stampato in testa al<br />

decreto. Ormai incapace di controllare le sue parole, Renzo si <strong>com</strong>promette<br />

sempre più, esclamando tra applausi e risate: “Vuol dire quella faccia: <strong>com</strong>anda<br />

chi può, e ubbidisce chi vuole.” Il bargello non rideva, ma neppure contraddiceva:<br />

mentalmente prendeva nota di tutto.<br />

L’oste insisteva per avere il nome del forestiero, ma questi non se la dava per<br />

inteso, anzi alzava sempre più la voce per farsi ragione, vedendo che i presenti lo<br />

sostenevano rumorosamente; per cui l’ac<strong>com</strong>pagnatore di Renzo disse all’oste di<br />

non insistere ormai. Questi, che si mostrava così zelante solo perché era presente<br />

il birro, desistette ben volentieri: ora si sentiva con le spalle protette, e nessuno<br />

avrebbe potuto accusarlo di non aver rispettato la grida. Se ne tornò quindi<br />

placidamente sotto la gran cappa del camino, pensando che la lepre (cioè Renzo)<br />

era capitato proprio in brutte mani, ma che lui non voleva andarci di mezzo:<br />

peggio per lui!<br />

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Il nostro giovane, vedendo l’oste ritirarsi, assaporò la vittoria e, nel suo stato<br />

euforico, non la finiva di predicare, polarizzando l’attenzione generale. Ora ce<br />

l’aveva contro la penna, che i governanti vogliono si adoperi a ogni piè sospinto,<br />

per rendere tutto più difficile ai poveri analfabeti. Uno dei presenti disse<br />

facetamente che la ragione era semplicissima: quei signori mangiavano tante<br />

oche, che qualcosa dovevano pur fare delle loro penne. Renzo sorrise alla battuta<br />

spiritosa, ma rispose che la ragione vera era un’altra: la penna la tengono loro,<br />

perché solo loro sanno scrivere; sicché le parole che essi dicono, <strong>com</strong>e per<br />

esempio le promesse, volano via senza che alcuno le possa fissare sulla carta,<br />

mentre le parole che dice un povero diavolo, te le infilzano per aria con la penna e<br />

le inchiodano sulla carta, per servirsene poi contro di lui. Quindi il giovane,<br />

continuando tutto infervorato la sua requisitoria contro i vizi della classe<br />

dominante, se la prese contro l’altra maledetta abitudine di servirsi del<br />

“latinorum” per imbrogliare meglio la gente ignorante, e si mostrò dolente che<br />

avesse un po’ questa brutta abitudine anche il gran Cancelliere, che per il resto era<br />

certamente una brava persona. E’ evidente che Renzo aveva confuso lo spagnolo<br />

di Ferrèr col latino di don Abbondio; ma tant’è, per lui ogni linguaggio diverso<br />

dal volgare era “latinorum”, vale a dire una cosa in<strong>com</strong>prensibile, una trappola<br />

insomma, per cui ne doveva essere abolito l’uso.<br />

Già l’ora era tarda e Renzo ormai brillo, per cui il bargello non disperava di<br />

aver ragione della sua istintiva ritrosia al nome e cognome. E per vincerla,<br />

dobbiamo riconoscerlo, ne pensò una davvero magistrale: ritornando sul tema del<br />

pane, disse che, se <strong>com</strong>andasse lui, metterebbe in atto un sistema rigoroso, per cui<br />

ognuno avesse la stessa quantità di pane, ricco o povero che egli fosse. Innanzi<br />

tutto si doveva imporre un prezzo onesto, da poterci campare da una parte e<br />

dall’altra, e poi dare a ogni famiglia una tessera annonaria: il tal dei tali, con<br />

moglie e tanti figli, abbia pane tanto e paghi tanto. E per rendere la proposta più<br />

chiara, venne al pratico:<br />

“A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio<br />

Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figlioli… A voi, per<br />

esempio, dovrebbero fare un biglietto per … il vostro nome?” Renzo abbocca<br />

l’amo e spiattella allo sconosciuto il suo nome senza nemmeno accorgersene, tutto<br />

preso dalla novità del progetto, che pure era fondato essenzialmente sulla penna e<br />

sulla carta, oltre che sul nome e cognome e mestiere della gente.<br />

Il sedicente spadaio, ottenuto finalmente il suo scopo, subito si allontana,<br />

senza accettare un secondo bicchiere di vino, che Renzo gli ha riempito, e va<br />

diritto al Palazzo di Giustizia a denunciare, <strong>com</strong>e istigatore di tumulti, Lorenzo<br />

Tramaglino, l’ingenuo merlotto caduto nella sua rete. Il bargello è soddisfatto, e i<br />

suoi superiori sono contenti del suo lavoro.<br />

Mentre il bargello faceva al notaio criminale la sua deposizione contro di lui,<br />

l’ignaro giovane, rimasto nell’osteria, continuava a trincare e a ciarlare: “vino e<br />

parole – dice il Manzoni argutamente – continuarono ad andare, l’uno in giù, e<br />

l’altre in su, senza misura né regola.” Ma, <strong>com</strong>e sempre avviene nell’ubriachezza,<br />

all’euforia loquace successe ben presto la depressione psichica, ac<strong>com</strong>pagnata da<br />

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impaccio nel parlare. Ormai la parlantina era finita: le parole gli uscivano a stento,<br />

e il tono stesso della voce era alterato; le immagini e i pensieri gli si<br />

confondevano, e finire le frasi riusciva per lui oltremodo difficile. Ma per fortuna<br />

gli era rimasta <strong>com</strong>e un’attenzione istintiva a evitare i nomi, sicché anche quelli<br />

che più profondamente erano scolpiti nel suo cuore, cioè quelli cari della fidanzata<br />

e del buon Cappuccino, non furono pronunciati in quella bettola né dati in pasto a<br />

quei beoni sghignazzanti, per quanto essi lo andassero stuzzicando per farlo<br />

parlare dei fatti suoi, ché ormai l’ingenuo montanaro era diventato lo zimbello<br />

della chiassosa brigata. Non pronunciò neppure i nomi discàri di don Rodrigo e di<br />

don Abbondio, per quanto talora alludesse a essi nel suo ormai incontrollato<br />

cicalare.<br />

A proposito dell’ubriacatura di Renzo, il Manzoni fa un’acuta osservazione: il<br />

giovane era sempre stato sobrio nel bere, e la prima volta che alzò il gomito prese<br />

una sbornia solenne, causa di tanti guai, per cui se ne ricordò poi per un pezzo.<br />

Quindi le buone abitudini hanno anche il vantaggio che, quando uno se ne<br />

allontana anche poco, subito ne sente le conseguenze, e l’errore gli serve <strong>com</strong>e<br />

lezione salutare per l’avvenire.<br />

80


CAPITOLO XV<br />

L’oste della “luna piena” (il quale, con tutti i suoi difetti, appare nel<br />

<strong>com</strong>plesso più galantuomo dell’oste del villaggio degli sposi), vedendo che i tristi<br />

camerati non la smettevano di prendersi gioco del forestiero, né questi di<br />

tracannare bicchieri e di parlare sempre più sconnessamente, decise di far cessare<br />

quella storia ormai disgustosa e anche pericolosa per lui, perché da un momento<br />

all’altro poteva verificarsi qualche disordine oppure l’intervento della forza<br />

pubblica. Avvicinatosi perciò a Renzo, dopo aver invitato gli altri a lasciarlo in<br />

pace, lo pregò di andare a letto. Il giovane sulle prime sembrava che non capisse,<br />

ma poi, tornatogli un attimo di lucidità, si accorse che ormai la testa non gli<br />

funzionava più, e si sentiva stracco morto, per cui era una buona idea farsi una<br />

lunga dormita per rimettersi in sesto. Fino a quel momento, sentendosi una certa<br />

languidezza di corpo e di mente, aveva cercato di rimettersi in sesto ricorrendo al<br />

vino, per un errore molto <strong>com</strong>une in simili casi; ma ora capisce che il bicchiere<br />

non gli può dare nessun aiuto, e sente forte il richiamo del letto. A un tratto volle<br />

alzarsi, ma vacillò, e sarebbe caduto senza l’intervento dell’oste, che poi lo<br />

ac<strong>com</strong>pagnò al piano di sopra, dov’era la camera a lui destinata.<br />

Vedendo il letto, Renzo si rallegrò, assaporando la bella dormita, tanto più che<br />

la notte precedente l’aveva passata sul disagiato carretto, e cercò di fare una<br />

carezza all’oste in ringraziamento per l’ospitalità, ma aggiunse che quel tiro del<br />

nome non era però da galantuomo. L’altro, vedendo con meraviglia che il cliente<br />

connetteva abbastanza, e sapendo per esperienza che gli ubriachi talora cambiano<br />

repentinamente di umore e di opinione, tentò di nuovo di farsi dire il nome, in<br />

tono conciliante: non per la grida, ma per lui, in pegno d’amicizia. Renzo invece<br />

non intendeva farsi un amico a quella condizione e, alteratosi immediatamente,<br />

<strong>com</strong>inciò a sbraitare, gridando verso il basso, per farsi sentire dagli avventori, che<br />

l’oste etra anche lui “della lega”. Questi corse ai ripari trascinando il giovane<br />

verso il letto, dicendo che aveva parlato per scherzo; Renzo, che ormai non si<br />

reggeva più in piedi, si calmò e cadde pesantemente sul letto. L’oste l’aiutò a<br />

spogliarsi e, trovato nel farsetto il borsellino, pensò di concludere almeno<br />

quell’altro affare, strettamente privato ma per lui più interessante, di farsi pagare,<br />

perché il giorno dopo forse non gli sarebbe stato più possibile, una volta che il<br />

forestiero fosse stato arrestato, e il borsellino fosse caduto in mano dei birri. In<br />

quanto al pagare il montanaro non si fece affatto pregare, ritenendola cosa più che<br />

giusta; e l’oste, fatto mentalmente il conto, disse a quanto ammontava, e si pagò<br />

lui stesso, ma onestamente, senza approfittarsi affatto dello stato confusionale del<br />

suo ospite. Mentre questi già russava, il brav’uomo si trattenne alquanto a<br />

contemplarlo, “per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare<br />

un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore”; quindi, sfogando il suo<br />

malumore a lungo represso, lo salutò <strong>com</strong>e meritava: “Pezzo d’asino! sei andato<br />

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proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai.” Per sua<br />

fortuna, l’asino non poteva più tirar calci.<br />

Quando uscì, chiuse la porta a chiave, perché l’ospite non avesse a scappare,<br />

ora che ne era lui, volente o nolente, il custode; chiamata quindi sul pianerottolo la<br />

moglie, le disse di prendere il suo posto, poiché lui doveva purtroppo andare a<br />

fare la denuncia di quel benedetto forestiero. Le rac<strong>com</strong>andò la prudenza, cioè di<br />

far finta di non sentire le frasi sediziose oppure offensive che si dicevano contro i<br />

governanti, per non avere grattacapi né subito né in seguito. La donna rispose che<br />

non era una bambina, e certe cose le capiva benissimo anche da sé. Il marito prese<br />

mantello e cappello, si armò di un poderoso bastone, e si avviò sollecito verso il<br />

Palazzo di Giustizia. Le strade non erano ancora deserte, <strong>com</strong>e gli altri giorni alla<br />

stessa ora, ma sparse di capannelli di gente che parlottava; più in là, incontrando<br />

una pattuglia di soldati, tornò col pensiero al forestiero, che nientemeno si era<br />

messo in testa di cambiare il mondo con quattro grida, eliminando le ingiustizie in<br />

un batter d’occhio, per via di tumulto; ma il Governo aveva la forza, e avrebbe<br />

fatto presto ritornare in senno quei quattro scalmanati.<br />

Si può dire che durante tutto il percorso l’oste apostrofò mentalmente “quel<br />

testardo di un montanaro”, che si era voluto rovinare per forza, tentando di<br />

<strong>com</strong>promettere anche lui, che non c’entrava minimamente e badava solo ai fatti<br />

suoi. Però anche in questa muta rampogna si può notare una certa naturale onestà<br />

dell’oste, un senso di <strong>com</strong>patimento verso il forestiero, che ritiene in sostanza un<br />

illuso in buona fede, più vittima delle circostanze che reo degno di pena. Dice<br />

infatti tra sé che, se non fosse venuto con quella spia, lui avrebbe chiuso un occhio<br />

per quella sera, e l’indomani, a mente serena, gli avrebbe fatto intendere la<br />

ragione del nome e cognome; ma essendoci di mezzo colui, doveva per forza<br />

denunciarlo, se non voleva passar guai.<br />

Anche nel presentare la denuncia l’oste è galantuomo, e diciamo anche abile e<br />

destro, e tanto sicuro di sé, da ribattere francamente le esagerazioni e insinuazioni<br />

del notaio criminale (una specie di ufficiale di polizia giudiziaria), al quale fa la<br />

sua deposizione. Dice semplicemente che nel suo esercizio si è presentato un<br />

forestiero che, dovendo alloggiare, e avendogli lui perciò chiesto le generalità,<br />

non ha voluto declinarle, nonostante la sua insistenza. Il notaio rispose che già lo<br />

sapeva, e conosceva anche il nome di quel sedizioso (qui l’oste non poté non<br />

esprimere la sua meraviglia); ma aggiunse subito in atteggiamento severo che la<br />

denuncia era reticente; infatti quel tizio aveva portato all’osteria una quantità di<br />

pane rubato, aveva proferito ingiurie contro le gride e perfino offese contro lo<br />

stemma del Governatore. L’oste però si difende bene e anche con puntiglio:<br />

innanzi tutto precisa che colui aveva portato una sola pagnotta, che nessuno<br />

poteva affermare con certezza che fosse stata rubata; quanto poi alle sue parole,<br />

<strong>com</strong>e poteva lui averle udite, in mezzo al baccano, dovendo pensare a servire<br />

tanta gente? Lui badava a fare l’oste, e doveva cercare soprattutto che ognuno<br />

pagasse: al resto non s’interessava. L’ordine pubblico era <strong>com</strong>petenza del<br />

Governo: lui aveva cercato di fare il suo dovere.<br />

82


In definitiva questo locandiere, con la sua faccia lucida e pienotta, con i suoi<br />

occhietti chiari e scrutatori, ci riesce quasi simpatico, appunto perché tien testa<br />

bravamente al notaio criminale, e cerca di essere giusto nei riguardi del forestiero,<br />

che pur gli ha dato tanto fastidio; uno meno onesto si sarebbe sfogato aggravando<br />

le accuse, anche per farsi bello davanti al funzionario di polizia: lui invece dice la<br />

pura verità, cercando di non <strong>com</strong>promettere lo sconosciuto, verso il quale sente<br />

una certa indulgenza, appunto perché lo sa vittima più che reo.<br />

Allo spuntar del giorno successivo, 12 novembre 1628, il notaio criminale che<br />

aveva ricevuto la denuncia, assieme a due birri, andò all’osteria per arrestare<br />

Renzo e tradurlo alle carceri. Il giovane dormiva della grossa, e chissà quando si<br />

sarebbe svegliato, se i birri non lo avessero scosso sgarbatamente. Aperti a stento<br />

gli occhi, vide quelle tre figure, e credette di sognare; e sic<strong>com</strong>e quel sogno non<br />

gli piaceva affatto, cercò di svegliarsi del tutto e di guardar meglio, con gli occhi<br />

così tra i peli. Allora sentì l’uomo in cappa nera che diceva: “Ah! avete sentito<br />

una volta, Lorenzo Tramaglino?”<br />

Renzo cadde dalle nuvole: che cosa era successo? che volevano quelli da lui?<br />

<strong>com</strong>e mai sapevano il suo nome, che egli aveva tanto gelosamente taciuto a tutti?<br />

Alle sue meravigliate domande quelli risposero bruscamente che si vestisse subito<br />

subito e li seguisse senza tante ciarle. La ragione dell’arresto? la sentirà dal Signor<br />

Capitano di Giustizia. Ma Renzo non aveva alcuna voglia di andare con loro, e<br />

cercava di guadagnar tempo, per valutare bene la situazione in cui si trovava. Capì<br />

a un dipresso che il non aver voluto dire il suo nome, <strong>com</strong>e prescriveva la grida,<br />

era la causa di tutto, ma non si capacitava <strong>com</strong>e mai la Giustizia, dalla sera alla<br />

mattina, avesse talmente cambiato registro, da venire a colpo sicuro ad arrestare<br />

uno di quelli che il giorno prima aveva avuto più voce in capitolo; <strong>com</strong>e poi<br />

avessero fatto a sapere il suo nome, era per Renzo un vero mistero.<br />

I birri, stanchi di pazientare, gli misero le mani addosso, ma il giovane protestò<br />

che si sapeva vestire da solo; e infatti <strong>com</strong>inciò a ripescare sul letto i suoi<br />

indumenti, che erano “<strong>com</strong>e gli avanzi d’un naufragio sul lido”. Ma osservando<br />

che dalle tasche del farsetto erano spariti il borsellino e la lettera di Padre<br />

Cristoforo, pretese ad alta voce di riavere la roba sua, e il notaio, non volendo<br />

irritarlo, lo accontentò, aggiungendo di aver fiducia in lui e di voler fare per lui<br />

questa eccezione. Ma Renzo, ormai stizzito, borbottò sottovoce: “bazzicate tanto<br />

coi ladri, che avete un poco imparato il mestiere.” I birri, trattenuti da un cenno<br />

del notaio, dovettero ingoiare l’insulto. Se il giovane si mostrava così strafottente,<br />

era perché aveva già capito che i rappresentanti della Giustizia non erano troppo<br />

sicuri del fatto loro, perché in strada la situazione non era propriamente calma. E<br />

infatti non gli sfuggì che il notaio era tutto attento ai rumori esterni, e a un certo<br />

punto non poté tenersi dall’aprire l’impannata, essendo giunto dalla via un<br />

frastuono minaccioso: era un crocchio che, all’intimazione di sciogliersi, lo faceva<br />

a stento e mugugnando in tono di protesta; ma quello che al notaio parve molto<br />

preoccupante era che i soldati si mostravano cortesi.<br />

A Renzo non sfuggiva nulla, e già nella sua mente si delineava il proposito di<br />

liberarsi di coloro. Per quanto il notaio volesse atteggiarsi ad amico, e gli<br />

83


assicurasse che l’arresto era una semplice formalità, per cui avrebbe dovuto<br />

rispondere a poche domande prima di essere libero di andarsene per i fatti propri,<br />

egli <strong>com</strong>prendeva che quelle erano chiacchiere per tenerlo buono, ma che le cose<br />

non si mettevano bene per lui, una volta nelle grinfie della polizia: ne sapeva<br />

abbastanza della giustizia del suo paese, la quale risparmiava i veri delinquenti e<br />

si accaniva contro i poveri ingenui. Perciò non credette a nessuna di quelle parole<br />

untuose del notaio, che gli consigliava, per suo bene, di essere prudente e<br />

riservato, di non dar nell’occhio per la strada, anzi di non farsi neppure scorgere,<br />

così nessuno gli baderebbe e non si saprebbe nemmeno che era stato nelle mani<br />

della polizia: la sua reputazione era in tal modo salva!<br />

Quando, all’uscita dall’osteria, i birri gli misero i manichini (una specie di<br />

manette di corda cosparsa di nodi, così chiamati “per quell’ipocrita figura<br />

d’eufemismo”), il nostro giovane cercò di divincolarsi, protestando a voce alta;<br />

ma poi si calmò, o meglio finse di calmarsi, alle parole concilianti del notaio, il<br />

quale disse che i birri facevano il loro dovere, che anche quella era una formalità<br />

indispensabile: loro purtroppo non potevano trattare la gente <strong>com</strong>e dettava il<br />

cuore, ché altrimenti ne porterebbero per primi la pena! Renzo s’acquetò <strong>com</strong>e un<br />

cavallo indocile cui sia stata messa la mordacchia, ma naturalmente era pronto a<br />

sparar calci alla prima occasione favorevole; la quale non si fece attendere. Gente<br />

ne passava per la strada, a due, a tre, in gruppo; altri erano fermi in crocchio, e si<br />

vedeva che non erano pacifici cittadini che se ne stessero per i fatti loro, ma<br />

persone intenzionate a ri<strong>com</strong>inciare la storia del giorno prima; ciò accresceva la<br />

preoccupazione del notaio, il quale si pentiva di non aver lasciato il prigioniero<br />

nella locanda, in custodia dei birri, per andare a prendere nuove istruzioni o<br />

almeno dei rinforzi. Questo pensiero gli era venuto, perché non era uno sciocco,<br />

ma poi aveva temuto di apparire pauroso e buon a nulla, per cui aveva deciso di<br />

portar via l’arrestato, anche rischiando un po’, ma sperando che la cosa si<br />

risolverebbe senza gravi inconvenienti. Ora però vedeva che le cose si mettevano<br />

male per lui, e affinché la situazione non precipitasse, andava sussurrando<br />

all’orecchio di Renzo che stesse calmo, che non si facesse notare, per non<br />

rovinare il suo onore, ché tra un’ora sarebbe libero, tanto più che lui stesso<br />

avrebbe parlato in sua difesa. Da questo <strong>com</strong>portamento sballato del notaio, dice il<br />

Manzoni, nessuno concluda che fosse uno sciocco; era anzi un furbo matricolato,<br />

ma tant’è, anche i furbi, quando hanno perso la calma, ne <strong>com</strong>mettono delle<br />

grosse, di cui a sangue freddo riderebbero volentieri essi stessi. Per cui,<br />

conclude argutamente l’Autore, cercate di non perdere mai le staffe o, meglio,<br />

cercate di essere sempre voi i più forti; ammonizione rivolta ai furbi,<br />

naturalmente.<br />

Quando Renzo vide tre che venivano verso di lui con i visi alterati, <strong>com</strong>inciò a<br />

contorcersi, a sporgersi avanti e indietro, tossicchiando, per farsi notare. Quelli si<br />

fermano, per vedere di che si tratta, e con loro altri e poi altri; il notaio consiglia,<br />

prega il prigioniero di badare a sé, di non rovinare la sua reputazione; i birri,<br />

pensando che fosse meglio usare la maniera forte, danno una stretta ai manichini,<br />

girando i due legnetti terminali che tenevano stretti nella mano. Renzo grida, cerca<br />

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di divincolarsi; la gente si accalca intorno minacciosa e blocca la pattuglia. Il<br />

notaio getta la maschera dell’ipocrisia, e cerca di convincere i presenti a non<br />

ostacolare il corso della giustizia: “E’ un malvivente, è un ladro colto sul fatto!”<br />

Ma Renzo non si lascia certamente sfuggire l’occasione propizia, e subito grida a<br />

sua volta: “Figlioli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e<br />

giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate,<br />

figlioli!”<br />

L’aiuto non si fa attendere: <strong>com</strong>incia all’intorno, col pigia pigia, un gridare<br />

minaccioso, un urtare violento; i birri, per non essere travolti, lasciano i manichini<br />

e cercano di guadagnare il largo. Anche il notaio cerca di fare lo stesso, ma per lui<br />

la cosa riesce più difficile per colpa della cappa nera, che lo impaccia e lo rende<br />

riconoscibile. Cercava tuttavia di assumere un atteggiamento indifferente, <strong>com</strong>e di<br />

chi si fosse trovato lì per puro caso; e incontrando lo sguardo di uno che lo<br />

squadrava minacciosamente, con un tono innocente gli chiese: “Cos’è stato?” “Uh<br />

corvaccio!” fu la risposta di colui, che l’aveva ben riconosciuto; e a urtoni gli altri<br />

spintonandolo lo cacciarono via proprio <strong>com</strong>e un brutto corvo della malora; ma a<br />

lui quegli urtoni violenti parvero soavi, perché anche per mezzo di essi poté<br />

uscire a salvamento: buon per lui!<br />

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CAPITOLO XVI<br />

Renzo, liberatosi dei manichini, se la diede a gambe tra la folla che gli faceva<br />

largo; alcuni gl’indicarono, lì vicino, un convento e una chiesa, dove avrebbe<br />

potuto rifugiarsi; ma il giovane, sin dal primo momento che aveva pensato alla<br />

possibilità di una fuga, aveva deciso di raggiungere il Bergamasco: in una chiesa o<br />

in un convento non ci si sarebbe cacciato se non quando avesse avuto i birri<br />

proprio alle calcagna. Perciò si allontanò di gran carriera da quel luogo in una<br />

direzione qualsiasi, con l’intenzione di farsi insegnar la strada in seguito, laddove<br />

lo potesse fare senza destar sospetto.<br />

Quando, dopo una lunga galoppata, ritenne di essere giunto in un punto dove<br />

era sicuro che nessuno lo conosceva, né poteva essere giunta la notizia della sua<br />

fuga, rallentò il passo sino ad assumere un’andatura normale. Ma, per chiedere la<br />

strada di Bergamo, doveva trovare una persona che gli ispirasse fiducia, che non<br />

fosse né un cicalone curioso, né un sospettoso, né un malevolo che potesse<br />

tendergli qualche trappola; per questo, <strong>com</strong>e dice il Manzoni, “dovette fare forse<br />

dieci giudizi fisionomici, prima di trovare la figura che gli paresse a proposito.”<br />

Allorché vide uno che veniva frettoloso, parlando tra sé, lo giudicò un uomo<br />

sincero, che non avrebbe né ingannato né fatto perder tempo, e quindi con buona<br />

grazia gli chiese da quale parte dovesse prendere per andare a Bergamo. Colui gli<br />

indicò la strada da percorrere, con pronta gentilezza; e Renzo, ringraziatolo con<br />

semplici ma sentite parole, si avviò per la direzione mostratagli; giunse in breve<br />

in piazza del Duomo, rifece il cammino del giorno precedente e si avvicinò a<br />

porta Orientale. Ma avendo sulla soglia di questa intravisto dei soldati, fu preso da<br />

paura, e fu lì lì per entrare nel convento dei Cappuccini, che aveva davanti, dove<br />

sarebbe stato certamente ben accolto per via di quella lettera al padre<br />

Bonaventura; ma vinse la paura e la tentazione, pensando che i due birri non lo<br />

avevano potuto precedere, per appostarsi a quella porta, e degli altri nessuno lo<br />

conosceva né sapeva certamente che cosa aveva fatto. Fattosi perciò coraggio, e<br />

fischiettando in sordina per darsi un’aria indifferente, passò attraverso la porta col<br />

viso impavido ma col cuore che gli batteva, <strong>com</strong>e si dice, in gola.<br />

Per sua fortuna i gabellieri e i soldati non si preoccupavano di chi usciva,<br />

mentre avevano ordine di non far entrare gente che venisse per approfittare del<br />

tumulto; quindi nessuno badò a Renzo il quale però, appena uscito, lasciò la strada<br />

maestra e prese una viottola a destra, per far perdere le sue tracce agli eventuali<br />

inseguitori. Allorché fu sicuro di non essere inseguito, poté pensare un po’ meglio<br />

ai casi suoi; e riflettendo al fatto del nome, si ricordò a un dipresso <strong>com</strong>e il finto<br />

spadaio, così gentile e manieroso, gliel’aveva carpito con quel suo bel ritrovato<br />

della carta annonaria; ma ormai al passato non c’era rimedio e bisognava pensare<br />

al futuro, e innanzi tutto a trovare quella benedetta strada per Bergamo.<br />

Necessariamente doveva rivolgersi a qualche passante; anche questa volta scrutò<br />

bene i volti di quelli che incontrava, e quando trovò uno che gli dava affidamento,<br />

86


gli rivolse senz’altro la sua domanda. Quegli, avvertitolo che era <strong>com</strong>pletamente<br />

fuori strada, gli indicò <strong>com</strong>e dovesse fare per raggiungere la via maestra; ma<br />

Renzo, non volendo percorrerla per paura di brutti incontri, si propose di<br />

fiancheggiarla senza perderla di vista. Sic<strong>com</strong>e però la cosa non gli riusciva, e non<br />

si sentiva di star continuamente a domandare la strada di Bergamo, perché poteva<br />

destar sospetto (chi è in difetto è in sospetto), pensò di conoscere con qualche<br />

astuzia il nome di un paese del ducato di Milano, ma posto sul confine, del quale<br />

potesse chiedere liberamente e dove si potesse andare anche per vie secondarie: da<br />

esso sarebbe poi passato nel territorio di Bergamo.<br />

Si era ormai verso mezzogiorno, e l’appetito gli si faceva sentire, per cui,<br />

avendo visto “pendere una frasca da una casuccia solitaria” (la frasca era nelle<br />

campagne e nei villaggi insegna d’osteria), pensò che lì avrebbe potuto rifocillarsi<br />

e anche scoprire il nome di quel paese che gli interessava. L’ostessa, una vecchia<br />

curiosa <strong>com</strong>e le sue pari, gli poté offrire solo pane e formaggio, avendo Renzo<br />

rifiutato il vino, col quale ancora ce l’aveva, per il brutto tiro che gli aveva giocato<br />

il giorno prima; ma appena il cliente si fu seduto a tavola, <strong>com</strong>inciò subito a<br />

tempestarlo di domande sui gran fatti di Milano, di cui era giunta fin là la notizia.<br />

Il nostro giovane non solo seppe eluderle destramente, ma si servì anche della<br />

curiosità della donna per raggiungere il suo intento. Avendogli infatti colei<br />

domandato dove fosse diretto, rispose che doveva andare in parecchi posti e, se gli<br />

restava un po’ di tempo, anche in “quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di<br />

Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano…” e s’interruppe fingendo<br />

di non ricordarne il nome; e la vecchia, prontamente intervenendo, suggerì:<br />

“Gorgonzola, volete dire.” Lo stratagemma era pienamente riuscito.<br />

Renzo ripeté il nome, <strong>com</strong>e se gli tornasse in mente proprio in quel momento,<br />

ma in effetti per imprimerselo bene nella memoria; ottenuto ormai il suo scopo ed<br />

essendosi rimesso un po’ in forze con quel magro pasto, ripartì senza indugio col<br />

morale risollevato, dopo essersi fatta insegnare la strada verso questa<br />

provvidenziale Gorgonzola, distante da lì, a detta dell’ostessa, una decina di<br />

miglia. Vi arrivò finalmente un’ora prima del tramonto. Aveva deciso di fare qui<br />

un pasto più sostanzioso, per rimettersi subito in cammino verso l’Adda, la quale<br />

sapeva che, per un certo tratto, faceva da confine tra il ducato di Milano e la<br />

Serenissima, da cui dipendeva appunto Bergamo; non sapeva però dove fosse<br />

questo tratto; <strong>com</strong>unque, confine o no, avrebbe dovuto attraversare quel fiume, e<br />

per lui non sarebbe stata impresa facile. Pensò che qualche notizia utile al<br />

riguardo avrebbe potuto attingerla, con un po’ d’astuzia, all’osteria dove si<br />

sarebbe fermato a mangiare un boccone. Dopo il recente successo con la vecchia,<br />

gli era molto cresciuta la fiducia nella sua destrezza: non gli mancavano<br />

intelligenza e tatto.<br />

Vista un’insegna d’osteria, entrò e all’oste, presentatosi a servirlo, chiese da<br />

mangiare e anche una mezzetta di vino, ché ormai il lungo cammino aveva<br />

cancellato il rancore che aveva concepito contro il dono di Bacco. Alcuni<br />

sfaccendati del paese, che stavano lì in attesa di notizie fresche da Milano,<br />

attorniarono subito il viaggiatore, e uno gli chiese se veniva da Milano. Il giovane,<br />

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sorpreso, cercò di eludere la domanda per lui fastidiosa e <strong>com</strong>promettente:<br />

“Milano, da quel che ho sentito dire… non dev’essere un luogo da andarci in<br />

questi momenti…”<br />

Quindi, avendo ormai pensato la sua risposta, disse che non aveva notizie sui<br />

tumulti, perché lui veniva da Liscate (il nome di questo paese lo aveva saputo<br />

mentre lo attraversava); il curioso, deluso, desistette da ulteriori domande, e<br />

Renzo trasse un respiro di sollievo.<br />

Essendo l’oste tornato per portargli le vivande, il giovane gli chiese, con aria<br />

affettatamente indifferente, quanta strada ci fosse per giungere all’Adda. L’uomo,<br />

che doveva essere un curioso incorreggibile, innanzi tutto volle sapere se dovesse<br />

passarla; quindi, alla risposta affermativa del forestiero, chiese ancora se volesse<br />

passare dal ponte di Cassano o sulla chiatta di Canonica, “i luoghi dove passano i<br />

galantuomini, la gente che può dar conto di sé.” Davanti a siffatta domanda,<br />

ac<strong>com</strong>pagnata da tal <strong>com</strong>mento, Renzo <strong>com</strong>inciò a sentirsi a disagio, e rispose<br />

non senza imbarazzo: “Dove si sia… Domando così per curiosità.” Avendo quegli<br />

risposto che, sia per l’uno che per l’altro luogo, c’erano circa sei miglia, Renzo,<br />

fingendo di meravigliarsi della distanza, domandò se ci fossero delle scorciatoie<br />

verso qualche altro punto del fiume, dove fosse possibile traghettare. L’oste<br />

rispose che ce n’erano senz’altro, ma contemporaneamente gli ficcò “in viso due<br />

occhi pieni d’una curiosità maliziosa”, per cui il giovane non insistette nelle<br />

domande e pensò solo a mangiare in fretta per riprendere il suo cammino.<br />

Intanto gli sfaccendati che erano nel locale avevano ripreso a parlottare tra<br />

loro, rammaricandosi di essere all’oscuro di quanto avveniva nella capitale, e<br />

concertando alcuni di recarvisi l’indomani, per chiarirsi dei fatti di cui era là<br />

giunta solo una vaga notizia, che aveva acuita più che soddisfatta la loro curiosità.<br />

Mentre prendono questi accordi, sentono uno scalpitìo di zoccoli, e corrono<br />

sull’uscio a vedere: era un mercante milanese che, recandosi spesso a Bergamo<br />

per i suoi affari, era solito pernottare in quella locanda; ai curiosi in attesa balenò<br />

subito la speranza di veder soddisfatta la loro sete di notizie. Il mercante smontò<br />

e, barattati i saluti con quegli sfaccendati che ormai conosceva per la lunga<br />

consuetudine, chiese all’oste, accorso anche lui sollecito, il suo solito boccone e la<br />

sua solita camera, se era libera. Appena si fu seduto, i presenti gli si strinsero<br />

intorno, tempestandolo di domande sugli avvenimenti di Milano, che egli aveva<br />

lasciato solo da poche ore.<br />

Il mercante rispose molto volentieri, poiché anche a lui piaceva parlare e<br />

mostrarsi informato, <strong>com</strong>e piace in generale a tutti, eccetto che abbiano delle<br />

buone ragioni per tacere, e il nostro Renzo era appunto uno di questi. Raccontò<br />

dunque i fatti della mattinata, stante che i suoi ascoltatori conoscevano già –<br />

grosso modo – quelli del giorno precedente. Ordunque di prima mattina – disse in<br />

sostanza il mercante mentre consumava lentamente la sua cena – quei facinorosi<br />

che non erano ancora contenti delle prodezze del giorno prima, <strong>com</strong>inciarono a<br />

riunirsi nei luoghi convenuti e, quando furono in buon numero, si diressero alla<br />

casa del vicario di provvisione, con la ferma intenzione di saccheggiarla. Ma i<br />

vogliosi trovarono la strada chiusa da una barricata, dietro la quale erano allineati<br />

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i micheletti con gli archibugi spianati, pronti a riceverli degnamente con una salva<br />

in loro onore. Peccato! non si aspettavano tanto onore, e dovettero tornare<br />

indietro; ma erano inviperiti e si sentivano prudere le mani, per cui si riversarono<br />

nel Cordusio e diedero il sacco a quel forno sul quale non avevano potuto metter<br />

le mani il giorno precedente. Il povero forno era in quel momento aperto, e vi si<br />

distribuiva regolarmente il pane agli avventori sotto la vigilanza di alcuni nobili, a<br />

ciò deputati dalle autorità. In un battibaleno tutto va a ruffa raffa; quindi<br />

<strong>com</strong>inciano, al solito, a portar fuori lo stiglio, per farne un bel falò in piazza del<br />

Duomo, allorché “uno più manigoldo degli altri” propone di far di tutto un bel<br />

mucchio nel forno stesso, e di appiccare così il fuoco a tutta la casa. Detto fatto; il<br />

truce proposito sta per essere attuato, quando uno che abita dirimpetto ha<br />

un’ispirazione dal cielo: prende un crocifisso e lo appende all’archetto di una<br />

finestra, quindi accende sul davanzale due candele benedette. A Milano, per<br />

grazia del Cielo, c’è ancora del timor di Dio: molti guardano in su, a Cristo in<br />

croce, e si sentono toccati nel cuore, mentre la voce della coscienza li rimorde e<br />

per i passati trascorsi e per quanto stanno per fare. Mentre sono così indecisi, ecco<br />

giungere tutti i canonici del Duomo, in paramenti solenni, processionalmente<br />

dietro la croce, portata da uno di loro, e si mettono a predicare chi in una parte, chi<br />

in un’altra: ma, figlioli, che state facendo? dov’è il santo timor di Dio? questo è<br />

l’esempio che date ai vostri figli? Tornate a casa, ché il pane è stato fissato a un<br />

prezzo più basso di prima; l’avviso è affisso a tutte le cantonate!... Ed era vero:<br />

con un soldo si ha una pagnotta di otto once! Una vera cuccagna: speriamo che<br />

duri!<br />

Però non ho detto tutto – continua infervorato il loquace mercante – ora viene<br />

il bello. Sapete? é una cabala tutta ben preparata dalla Francia per danneggiare la<br />

Spagna, perché i Navarrini (così allora erano chiamati spregiativamente i<br />

Francesi) sanno che qui a Milano è la forza del nostro re don Filippo IV. Quelli<br />

che hanno istigato la gente, sono forestieri; a proposito, la polizia ne ha arrestato<br />

uno in una locanda, (Renzo che ascolta col fiato sospeso ha <strong>com</strong>e un tuffo al<br />

cuore, e per poco non si tradisce), un diavolo il quale andava predicando<br />

d’ammazzare tutti i signori, che aveva con sé un fascio di lettere, in cui era<br />

descritto tutto il piano e si facevano anche i nomi dei <strong>com</strong>plici, per cui si dice che<br />

ci andranno di mezzo molte persone. Però, mentre lo conducevano in prigione,<br />

questo delinquente è stato liberato con la violenza dai suoi <strong>com</strong>plici “che facevano<br />

la ronda intorno all’osteria”. Si sa di certo che i capi della sedizione saranno<br />

impiccati; e ci voleva davvero un esempio per certa gente! Avevano preso la bella<br />

abitudine di entrare nelle botteghe, servirsi di prepotenza e dare busse in<br />

pagamento; non si poteva più andare avanti così! Ora tutti quelli che hanno preso<br />

parte al tumulto si sono tappati in casa, per la paura di essere nel numero di coloro<br />

che dovranno dare spettacolo, appesi alle forche; la città, quando io sono partito,<br />

era deserta e muta, proprio <strong>com</strong>e un convento.<br />

Gli ascoltatori erano rimasti molto impressionati, specialmente dalle ultime<br />

notizie; e mentre prima si rammaricavano di non essere andati a Milano, e alcuni<br />

si proponevano di andarci l’indomani, ora, al sentir mentovare le forche, si<br />

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allegravano di non esserci andati, e quasi se ne vantavano <strong>com</strong>e dimostrazione<br />

della loro saggezza e del loro attaccamento alla famiglia. E Renzo? Al poverino<br />

“quel poco mangiare era andato in tanto veleno”, dice il Manzoni senza<br />

esagerare; quando il mercante aveva accennato a lui, istintivamente aveva dato un<br />

guizzo, <strong>com</strong>e per fuggire; e buon per lui che in quel momento tutti pendevano<br />

dalla bocca del narratore, ché altrimenti sarebbe stato scoperto. In breve riuscì a<br />

controllarsi, ma decise di andarsene subito, non appena il mercante fosse passato<br />

ad altri argomenti. Quando dunque colui <strong>com</strong>inciò a parlar d’altro, egli chiamò<br />

con un cenno l’oste, pagò lo scotto senza tirare sul conto, e di buon passo si<br />

diresse dalla parte opposta a quella da cui era venuto, senza chiedere neppure la<br />

strada. Ciò che aveva udito all’osteria non solo lo aveva turbato, ma anche gli<br />

aveva messo nell’animo, con lo sdegno per le menzogne accumulate contro di lui,<br />

un senso di indefinita paura.<br />

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CAPITOLO XVII<br />

Il Manzoni inizia questo capitolo osservando che spesso basta una sola voglia<br />

insoddisfatta, per tenere in angustia un uomo; figuratevi poi se le voglie sono due,<br />

e per di più opposte, <strong>com</strong>e quelle che agitavano il nostro giovane all’uscita<br />

dall’osteria di Gorgonzola: quella di nascondersi e quella di scappare. Lasciato il<br />

paese all’avemaria, da principio incontrava qualche viandante ma, pieno di<br />

sospetto <strong>com</strong>’era, non si azzardava a chiedere la strada verso l’Adda; in seguito,<br />

quando le tenebre, stendendo un opaco velo su uomini e cose, lo liberarono da<br />

questo timore, non trovò più nessuno a cui poter chiedere, e dovette procedere,<br />

<strong>com</strong>e si dice, a lume di naso. Alla prima viottola che incontrò volle lasciare la<br />

strada maestra, per quanto l’oscurità che s’infittiva sempre più lo mettesse ormai<br />

al riparo da brutti incontri; e mentre camminava frettoloso, ripensava a tutte quelle<br />

belle notizie che il mercante aveva sciorinato nell’osteria, per fare il sapientone, e<br />

si accalorava contro di lui in un muto monologo: <strong>“I</strong>o fare il diavolo! Io<br />

ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io!” E continuava con aperto e<br />

amaro rinfaccio: ”sappiate che, intanto che voi stavate a guardare la vostra<br />

bottega, io mi facevo schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di<br />

provvisione…” Quindi passava a un tono di ironica canzonatura circa il gran<br />

fascio di lettere che sarebbe rimasto in mano della giustizia, con dentro esposta<br />

tutta la cabala; si trattava invece di una sola lettera, scritta da un degno frate a un<br />

suo confratello per aiuto di un povero perseguitato, e la lettera era ancora in suo<br />

possesso. E terminava la sua requisitoria con un monito severo: “imparate a<br />

parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo.”<br />

Ma sfogata alquanto la sua stizza con questo soliloquio, Renzo capì che il suo<br />

nemico ormai non era il mercante, ma la stessa situazione in cui si era cacciato, la<br />

quale appariva talmente intricata, da non potersi sbrogliare senza qualche<br />

fortunato evento. Si trattava di raggiungere l’Adda così tra le tenebre, senza un<br />

indizio, senza una direttrice, quasi a tentoni; e poi, una volta trovato questo<br />

benedetto fiume, si trattava di passarlo; chi gli poteva poi assicurare che il fiume<br />

faceva in quel punto da confine? Qualora non facesse da confine, si sarebbe<br />

presentata una nuova difficoltà nell’attraversamento del confine terrestre, che<br />

certamente sarebbe ben guardato da doganieri e soldati, i quali potevano essere<br />

già avvertiti della sua fuga: ormai era passata un’intera giornata! A tutto questo<br />

s’aggiungeva il freddo, che si faceva sentire sempre più, avendo egli vestiti<br />

leggeri, quelli appunto che aveva indossato per il matrimonio di sorpresa; inoltre<br />

gli davano una sensazione sempre più molesta, e quasi dolorosa, sia il buio, reso<br />

più pauroso dal fioco lume della luna offuscata dalla nuvolaglia, sia la solitudine,<br />

che diveniva di momento in momento più ossessiva, sia infine la stanchezza, che<br />

ormai gli si faceva sentire acutamente dentro le ossa, rotte dal continuo e<br />

affannoso camminare.<br />

91


Avrebbe voluto cercar ricovero in qualche cascina di contadini, ma<br />

avvicinandosi e sentendo i cani latrare furiosamente, non ne aveva più il coraggio,<br />

temendo di essere scambiato per ladro o bandito, e ricever quindi una mala<br />

accoglienza. Continuò dunque il suo cammino sempre più stanco e sempre più di<br />

mala voglia, sperando solo di poter udire, da un momento all’altro, il rumore del<br />

fiume tanto sospirato. “L’Adda ha buona voce – pensava per confortarsi; e,<br />

quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni.” Perciò ogni tanto<br />

si fermava in ascolto.<br />

A un certo punto si accorse che i campi coltivati erano finiti, e s’inoltrò in una<br />

sodaglia ricoperta di erbe alte e, qua e là, di arbusti, il che poteva far pensare a un<br />

fiume vicino. La brughiera più in là diventava macchia e, a poco a poco, bosco.<br />

Qui il buio diventava più fitto, e la fioca luce della luna, filtrando debolmente tra<br />

il denso fogliame, disegnava al suolo delle ombre dai contorni incerti, quasi delle<br />

figure mostruose che eccitavano la sua fantasia. A poco a poco l’uggia, che Renzo<br />

ormai da tempo provava nel proseguire per quel cammino così alla cieca, si mutò<br />

in ribrezzo che, aggiunto al freddo, gli faceva accapponare la pelle e battere i<br />

denti; a un certo punto <strong>com</strong>inciò a sentir paura, e infine fu preso da un terrore<br />

indefinito e irragionevole. Si fermò ansante, con gli occhi sbarrati e i capelli irti: il<br />

panico aveva paralizzato il suo corpo e la sua mente; stava per perdere il controllo<br />

di sé stesso e darsi a fuga precipitosa e incontrollata; “ma atterrito, più che d’ogni<br />

altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli <strong>com</strong>andò che<br />

reggesse.” Ripresosi da quel momento di smarrimento, pensò più serenamente al<br />

da farsi; il meglio gli sembrava tornare indietro e cercare un ricovero tra gli<br />

uomini; ma in quel vasto silenzio, calmatosi alquanto il pulsare impetuoso del<br />

cuore, udì a un tratto uno sciabordìo di acque; tese le orecchie col fiato sospeso:<br />

sì, era la voce amica dell’Adda! Subito si sentì un altro: angoscia, stanchezza,<br />

freddo, tutto era s<strong>com</strong>parso in un momento; e seguendo coll’udito lo sciaquìo del<br />

fiume, in poco tempo ne raggiunse la riva.<br />

Guardò se ci fosse qualche barca, in modo da poter passare subito, ma non ne vide<br />

nessuna; né era il caso di tentare il guado, perché con l’Adda non si scherza;<br />

decise perciò di tornare indietro, per passare il resto della notte al coperto, ché a<br />

passare altre lunghe ore all’addiaccio non avrebbe resistito. Aveva notato,<br />

venendo, una capanna nei campi, quasi al confine della sodaglia: lì avrebbe potuto<br />

evitare, in parte, il rigore della notte. E così fece; ritrovata la capanna, ci entrò e<br />

vide appesa al tetto una specie d’amaca, fatta di ritorte; ma non si curò di salirci,<br />

gli parve abbastanza potersi sdraiare sulla paglia accumulata per terra.<br />

Però, prima di coricarsi, s’inginocchiò per dire le sue orazioni, e chiese<br />

perdono a Dio di non averle dette la sera prima, per cui aveva avuto poi quel bel<br />

risveglio; si disse pentito anche dell’imprudenza e dell’intemperanza che avevano<br />

causato i suoi guai; quindi si distese sulla paglia, cercando di addormentarsi. Ma<br />

non ci riusciva, tante erano le immagini che gli si affollavano nella fantasia, tanti<br />

erano i pensieri che lo assillavano; e poi c’era il freddo, che anche lì dentro si<br />

faceva sentire abbastanza, e gli faceva ogni tanto battere i denti. Per difendersi da<br />

esso, si coprì <strong>com</strong>pletamente di paglia, a guisa di coltre, ma poco gli giovò, e<br />

92


imase insonne a rabbrividire nell’oscurità. Le immagini, le figure umane che gli<br />

sfilavano davanti agli occhi della mente, erano tutte brutte o antipatiche, meno tre:<br />

Lucia, Agnese e padre Cristoforo. Ma anche nel contemplare queste, quanta<br />

nostalgia, quanta tristezza! Si ricordò che quella doveva essere la quinta notte<br />

delle sue nozze: ma dove e <strong>com</strong>e si trovava? in che modo avrebbe potuto riunirsi a<br />

Lucia, ora che c’era di mezzo anche la cattura? Cercava però di cacciare tutte le<br />

preoccupazioni, pensando che il Signore è infinitamente misericordioso, e non lo<br />

avrebbe abbandonato. Lo confortava soprattutto la soave immagine della<br />

fidanzata: “Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un<br />

pezzo!”<br />

Disperando ormai di prender sonno, sospirava tremando e battendo i denti il<br />

ritorno della luce, e contava il lento scorrere delle ore per mezzo dei rintocchi di<br />

un orologio (forse quello del campanile di Trezzo), i quali giungevano distinti<br />

sino a lui nell’ampio silenzio della notte. Quando furono le cinque del mattino, si<br />

alzò <strong>com</strong>e aveva deciso; disse in ginocchio una breve ma fervorosa preghiera,<br />

quindi si rialzò pieno di fiducia, si stirò in lungo e in largo, cercando di rianimare<br />

le membra intirizzite, e finalmente riprese il cammino verso l’Adda. Il cielo<br />

prometteva una bella giornata, anche se dei cirri e dei lievi cumuli color viola<br />

variegavano qua e là il vasto azzurro, tingendosi verso oriente di un rosso che in<br />

basso si faceva sempre più acceso: “quel cielo di Lombardia – dice con<br />

<strong>com</strong>piacenza provinciale il Manzoni – così bello quando è bello, così splendido,<br />

così in pace.” Ma il nostro giovane non aveva né tempo né animo, in quel<br />

momento, per contemplare lo spettacolo dell’alba, tutto attento <strong>com</strong>’era a<br />

rintracciare il sentiero, e soprattutto a evitare pericoli e brutti incontri. In poco<br />

tempo rifece il cammino della sera precedente, e giunse sulla riva cosparsa di<br />

macchie. Dall’alto dell’argine vede giù nell’acqua una barchetta, che si muove<br />

lentamente contro corrente. Scende giù sul greto e dà una voce al barcaiolo,<br />

chiedendo che approdi. Colui, dopo essersi assicurato che non c’è all’intorno<br />

nessun occhio indiscreto, si dirige alla volta di Renzo.<br />

L’Autore ci dice che questo pescatore era spesso pregato di tragittare qualche<br />

contrabbandiere o fuoruscito, e lo faceva non tanto per amore del poco e non<br />

sicuro <strong>com</strong>penso, quanto per non farsi dei nemici tra quella gente vendicativa; ma<br />

naturalmente non voleva rischiare di essere visto da birri o spie, e quindi passare<br />

dei guai per la sua condiscendenza. Renzo, che era in trepida attesa della barca,<br />

non appena questa toccò terra, subito ci saltò dentro, e supplicò il barcaiolo di<br />

tragittarlo, dietro <strong>com</strong>penso, all’altra riva. Quegli aveva già intuito l’intenzione<br />

del cliente, e voltò subito la prua verso il largo. Renzo, vedendo nella barca un<br />

remo di riserva, lo afferrò di slancio e lo mise in opera con tanto garbo e perizia,<br />

che il pescatore lo fece fare volentieri, vedendo che era quasi del mestiere. Ora<br />

che il passaggio dell’Adda era questione di minuti, un dubbio offuscava la gioia<br />

del nostro giovane, se cioè il fiume faceva lì da confine o no; chiestone al<br />

barcaiolo, e saputo che la riva a cui stavano per approdare era bergamasca, vale a<br />

dire territorio veneto, non poté trattenere un’esclamazione di gioia: viva san<br />

Marco! Il protettore di Venezia gli appariva <strong>com</strong>e un salvatore.<br />

93


Quando la prora toccò la riva veneta, Renzo balzò a terra senza indugio e<br />

<strong>com</strong>pensò il buon pescatore con una berlinga, che per il suo magro borsellino fu<br />

un bel sacrificio, ma egli lo fece volentieri, dato il grande servizio che colui gli<br />

aveva reso. Mentre la barca riprendeva il largo, il giovane s’incamminò verso<br />

Bergamo, già indicatagli dal barcaiolo, la quale appariva <strong>com</strong>e “una macchia<br />

biancastra sul pendio del monte”; ma prima di mettersi in via apostrofò<br />

stizzosamente il territorio che lasciava: “Sta lì, maledetto paese.” La patria lo<br />

perseguitava, e lui la sentiva <strong>com</strong>e nemica; ma pensando a chi lasciava in quel<br />

paese, si rattristò e guardò con un certo struggimento l’acqua che gli scorreva<br />

davanti, pensando che era passata sotto il ponte di Lecco, proprio vicino al suo<br />

paese, che gli era caro nonostante tutto.<br />

Si riscosse quasi subito, cacciò quei pensieri melanconici, e si avviò risoluto;<br />

al primo viandante che incontrò chiese senza esitazione la via per giungere al<br />

paese di Bortolo, che era molto vicino a Bergamo. Bortolo, suo cugino, là<br />

emigrato da molti anni, aveva fatto fortuna, diventando, da semplice filatore di<br />

seta, primo lavorante e factotum del proprietario, che se lo teneva caro per la sua<br />

capacità e onestà. Aveva più volte invitato Renzo a trasferirsi anche lui in quel<br />

paese, assicurandogli un lavoro molto redditizio, ma il nostro non gli aveva mai<br />

dato ascolto, perché non voleva distaccarsi da Lucia, alla quale il suo cuore era<br />

legato anche prima del fidanzamento. Ora invece Renzo arrivava quando meno<br />

Bortolo lo avrebbe voluto, poiché il lavoro era scarso per tutti a causa della<br />

carestia e del conseguente ristagno economico.<br />

Il paese di Bortolo distava dall’Adda poco meno di dieci miglia, e allorché<br />

Renzo ebbe fatto il più del cammino, si sentì un discreto appetito, per cui pensò di<br />

rifocillarsi prima di giungere dal cugino, per non presentarsi così affamato. Contò<br />

gli spiccioli che gli erano rimasti e vide che poteva permettersi un pranzetto<br />

sostanzioso; entrò quindi in un’osteria e consumò un pasto frugale, ma sufficiente<br />

a rimetterlo in forze e di buon umore. Pagato il conto, gli rimase ancora qualcosa,<br />

che uscendo dal locale diede volentieri a una famiglia la quale, ridotta in miseria<br />

dalla carestia, tendeva la mano lì sulla porta. “La refezione e l’opera buona<br />

(giacché siam <strong>com</strong>posti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i<br />

suoi pensieri.“ dice a questo punto il Manzoni, e ben a ragione; se infatti la<br />

Provvidenza si era servita degli ultimi spiccioli di un povero fuoruscito per<br />

sostentare in quel giorno quella famiglia, <strong>com</strong>e avrebbe poi potuto abbandonare<br />

colui del quale si era servito a questo scopo, ispirandogli un sì vivo sentimento di<br />

carità cristiana?<br />

Quando Renzo arriva finalmente al paese del cugino, riconosce subito<br />

l’edificio della filanda, abbastanza caratteristico; entrato, chiede se lavora lì un<br />

certo Bortolo Castagneri, e gli viene indicato dov’è “il signor Bortolo”, facendo<br />

con ciò intuire la carica che quegli ricopre nell’opificio. Dopo un “oh” di<br />

meraviglia e un affettuoso abbraccio, Bortolo trae in disparte il cugino, e si<br />

rammarica con lui che sia venuto senza avvertirlo, in un momento non proprio<br />

adatto per trovare lavoro. Renzo gli espone il motivo della sua improvvisata,<br />

raccontandogli in succinto i fatti che lo avevano costretto a lasciare il paesello<br />

94


assieme a Lucia e Agnese. A sentire quelle dolorose vicende, e anche le<br />

disavventure di Milano, Bortolo, <strong>com</strong>mosso, fece coraggio al cugino, dicendogli<br />

che poteva far sicuro affidamento su lui; e aggiunse con cordiale semplicità: “Dio<br />

m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo ai parenti e agli amici, a<br />

chi ne farò?” Quindi espose al cugino la situazione della zona, dove la carestia e la<br />

crisi economica si facevano bensì sentire, ma non <strong>com</strong>e nel Milanese, poiché le<br />

autorità avevano preso dei provvedimenti opportuni per ovviare al disagio, o<br />

almeno evitare il peggio. Riguardo al lavoro, sebbene esso scarseggiasse molto,<br />

espresse la speranza che il suo padrone, che era di buon cuore, sentendo i guai di<br />

Renzo, lo avrebbe assunto ugualmente, anche per fare un piacere a lui, a cui<br />

riconosceva di dover la prosperità dell’azienda. Però avvertì il cugino che i<br />

lavoratori del Milanese lì erano chiamati “baggiani” (che equivaleva a “babbei”),<br />

e che quindi bisognava essere preparati a sorbirsi quel bel titolo. Renzo rispose<br />

che quell’epiteto lo avrebbero dato, lui immaginava, solo a chi se lo lasciava<br />

appioppare senza reagire, o che fosse davvero rozzo e ignorante, ma non a un<br />

bravo operaio che sapeva il suo mestiere e aveva del sale in zucca. A Bortolo ci<br />

volle del bello e del buono per convincere il suscettibile cugino che, per i<br />

Bergamaschi, tutti quelli del Milanese erano baggiani, e quelli abili e intelligenti<br />

anche più baggiani degli altri, perché ormai “baggiano” era per loro <strong>com</strong>e un<br />

titolo onorifico; per persuaderlo meglio aggiunse che, se non era disposto a<br />

succhiarsi quel titolo, non poteva vivere lì, perché sarebbe stata una sequela di liti<br />

e peggio.<br />

Renzo si mostrò alfine rassegnato “a succiarsi del baggiano a tutto pasto”,<br />

dato che era inevitabile; allora il cugino disse che ormai non vedeva altre<br />

difficoltà, e presentò senz’altro l’ospite al padrone, “un buon bergamascone<br />

all’antica, un uomo di cuor largo”, il quale lo accolse cordialmente, e<br />

naturalmente non si fece pregare per dare un lavoro a uno che gli veniva così<br />

caldamente rac<strong>com</strong>andato ed espressamente garantito dal suo bravo factotum.<br />

Renzo si è così sistemato e, per il momento, non ha problemi per il suo<br />

mantenimento; ma lo assillavano sempre i pensieri per l’avvenire, se voleva, <strong>com</strong>e<br />

fermamente voleva, ricongiungersi con Lucia e sposarla, anche a costo di lotte e<br />

sacrifici! Lui però era ora bandito, lei lontana: <strong>com</strong>e avrebbe potuto superare, a un<br />

tempo, il rigore cieco della legge e la prepotenza dell’orgoglioso signorotto, che<br />

certamente non si sarebbe rassegnato allo smacco subito, e sarebbe ricorso a ogni<br />

mezzo, pur di soddisfare il suo turpe capriccio?<br />

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CAPITOLO XVIII<br />

Lo stesso giorno, 13 novembre 1628, in cui Renzo giunse al paese di Bortolo,<br />

arrivò al podestà di Lecco un corriere espresso, con un ordine del capitano di<br />

Giustizia, stilato nel bel latino curialesco del tempo, di far ricerca diligente del<br />

filatore di seta Lorenzo Tramaglino, che risultava abitante in detto territorio,<br />

anche se non si poteva precisare il paese; di arrestarlo se fosse per caso tornato al<br />

suo paese, e <strong>com</strong>unque di fare una rigorosa perquisizione all’abitazione di lui,<br />

sequestrando tutto ciò che possa servire a incriminarlo, e assumendo nello stesso<br />

tempo accurate informazioni della sua condotta sediziosa. Il Podestà, dopo aver<br />

appurato, senza troppa difficoltà, in quale paese del suo territorio il Tramaglino<br />

abitava, si recò alla sua casa con un notaio e una scorta di birri; questi, sfondato<br />

l’uscio, iniziarono la perquisizione, cioè misero tutto sottosopra, “<strong>com</strong>e in una<br />

città presa d’assalto”, ma non trovarono nulla di <strong>com</strong>promettente all’infuori,<br />

supponiamo, dello schioppo, che del resto allora, <strong>com</strong>e oggi, era <strong>com</strong>unissimo<br />

nelle case dei contadini e dei montanari. Figuratevi l’impressione che questa<br />

spedizione della giustizia fece sui <strong>com</strong>paesani di Renzo, i quali, conoscendolo per<br />

giovane quieto e onesto, non sapevano che cosa pensare, e sospettavano che fosse<br />

“una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo<br />

povero rivale.” A questo proposito l’Autore osserva acutamente che quando si<br />

giudica per semplice induzione, senza cognizione dei fatti, si è talora ingiusti<br />

anche verso i rei: infatti don Rodrigo, pur avendo tutto l’interesse e anche<br />

l’intenzione di nuocere al suo rivale, non aveva avuto alcuna parte nei guai di<br />

Renzo.<br />

E’ un invito alla prudenza e alla serenità nei giudizi e nelle condanne, che vale per<br />

tutti e non soltanto per la polizia e per i giudici.<br />

Il superbo signorotto, è vero, non aveva alcuna colpa della disgrazia di Renzo<br />

il quale si era dato, <strong>com</strong>e si dice, la zappa sui piedi; ma saputala, se ne rallegrò,<br />

<strong>com</strong>e se fosse stata opera sua, specialmente col suo degno cugino, il conte Attilio,<br />

il quale aveva intanto rimandata la partenza per Milano, per non rischiare di<br />

assaggiare in città quelle bastonate di cui era, almeno verbalmente, così largo<br />

donatore, quando si trattava di plebei indifesi che erano, a suo dire, tutti<br />

mascalzoni bastonabilissimi. Questa volta, nel clima bollente di Milano, il<br />

burbanzoso conte avrebbe corso il pericolo di riceverne un assaggio sulle sue<br />

illustri spalle, invece che darne sulla schiena degli ignobili, rei soltanto di non<br />

avere il sangue blu nelle vene.<br />

Fra Cristoforo, quando riseppe della perquisizione poliziesca in casa di Renzo,<br />

fu amaramente sorpreso, e scrisse al padre Bonaventura, sperando di sapere da lui<br />

qualcosa di preciso; ma il suo confratello poté solo <strong>com</strong>unicargli che, il giorno di<br />

San Martino, un forestiero si era presentato al convento chiedendo di lui, ma non<br />

avendolo trovato, se n’era andato senza più far ritorno. Il padre Cristoforo,<br />

conoscendo bene il giovane e il suo carattere onesto, ma anche impetuoso e talora<br />

96


imprudente, intuì subito che egli, più che reo, era stato vittima delle circostanze e<br />

della sua indole focosa e risentita, specialmente nello stato d’animo in cui si<br />

trovava per la recente ingiustizia patita.<br />

Quando la situazione nella capitale fu ritornata del tutto calma, don Attilio si<br />

decise a partire, incitando il cugino a non desistere dalla sua impresa, poiché egli<br />

lo avrebbe, in un modo o nell’altro, sbarazzato dell’arrabbiato frate, ora che la<br />

giustizia lo aveva liberato dell’abietto rivale, del quale anche la sposa, <strong>com</strong>e tutto<br />

il resto, poteva ormai considerarsi “<strong>com</strong>e roba di rubello”, cioè preda del primo<br />

che ci mettesse le unghie. Infatti il ribelle, il sedizioso, <strong>com</strong>e Renzo era<br />

considerato, non aveva più nessuna tutela legale, e tutto ciò che gli apparteneva<br />

era premio del delatore o possesso del primo occupante; e in realtà avvenne che la<br />

casa di Renzo fu letteralmente saccheggiata, prima dalla forza pubblica e poi dai<br />

cinici profittatori, i quali misero le mani senza scrupolo anche sulla sua vigna.<br />

Poco dopo la partenza del conte Attilio, tornò il Griso da Monza, e riferì che<br />

Lucia e la madre erano ricoverate nel monastero della Signora, sotto la sua<br />

protezione, che la ragazza non usciva mai, neppure per sentire la Messa, che<br />

ascoltava da una grata assieme alle suore. Queste notizie misero di cattivo umore<br />

don Rodrigo, perché un monastero, e soprattutto quel monastero, con una<br />

principessa per protettrice, era un osso troppo duro per i suoi denti; sicché tutti gli<br />

altri punti favorevoli venivano a un colpo annullati da questo ostacolo imprevisto.<br />

Come espugnare quel sacro ricovero? <strong>com</strong>e aver ragione di una principessa?<br />

Sapeva che c’era uno che ci sarebbe certamente riuscito, “un tale, le cui mani<br />

arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo,<br />

per cui la difficoltà delle imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé.”<br />

Questo è il primo accenno al fosco personaggio che il Manzoni chiama<br />

“innominato”, pur essendo personaggio storico, appunto perché vuole lasciarlo,<br />

almeno in parte, nel dominio della libera fantasia. Storicamente non è altro che<br />

Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Chiara d’Adda, il quale dopo essere<br />

stato bandito dallo Stato di Milano, era audacemente tornato nel ducato, e viveva<br />

impavido e temuto in un inespugnabile castello sul confine, dal quale, <strong>com</strong>e<br />

un’aquila dal suo nido insanguinato, dominava tutto il territorio circostante con la<br />

sua sfrenata violenza, appoggiata su uno stuolo di bravi tra i più risoluti e feroci.<br />

Don Rodrigo pensò dunque di ricorrere a costui, ma rimase per alcuni giorni in<br />

forse, data la gravità del passo, perché quel signore si metteva bensì a<br />

disposizione degli amici, ma esigeva poi anche che costoro restassero a sua<br />

<strong>com</strong>pleta disposizione, e gli obbedissero in tutto e per tutto, qualunque cosa egli<br />

<strong>com</strong>andasse: e in questo era terribilmente intransigente. Inoltre egli era un<br />

bandito, un pubblico nemico, e l’aver dei rapporti con lui poteva provocare delle<br />

rappresaglie da parte delle autorità costituite. Don Rodrigo voleva godersi la vita<br />

in città, abitarvi rispettato e riverito così <strong>com</strong>e in campagna, in mezzo ai suoi<br />

possedimenti, essere amico dei pubblici magistrati, per averne appunto<br />

l’indulgenza o la connivenza alle sue malefatte, per cui non poteva mettersi in urto<br />

con i rappresentanti del potere; inoltre era nipote di un membro influente del<br />

Consiglio segreto, e non doveva permettersi queste scandalose e pericolose<br />

97


amicizie o relazioni: ne sarebbe stato <strong>com</strong>promesso anche il prestigio del suo<br />

illustre zio, il quale certamente non gli avrebbe perdonato una simile colpa! Ma<br />

pochi giorni dopo l’incerto signorotto ricevette una lettera del cugino “che faceva<br />

un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature” in mezzo alla brillante<br />

società, se l’avesse data vinta a un villano e a un frate; anzi ora ambedue costoro<br />

erano stati messi fuori <strong>com</strong>battimento, il primo dalla polizia, il secondo dal Conte<br />

zio membro del Consiglio segreto; infatti lo informava che il maledetto frate era<br />

stato trasferito in un convento molto lontano. Poco dopo ricevette un’altra bella<br />

notizia: Agnese era tornata al paese, lasciando la figlia, la quale rimaneva in tal<br />

modo un po’ meno protetta, lontana dalla gonna della madre, donna esperta e<br />

risoluta. Questi fatti fecero alfine passare il Rubicone a don Rodrigo, il quale<br />

ritenne inevitabile imbarcarsi in sì pericolosa amicizia, se voleva da una parte<br />

soddisfare il suo puntiglio e il suo infame capriccio, dall’altra evitare le grandi<br />

canzonature dei giovani signori milanesi, che il cugino aveva pensato a informare<br />

a puntino di tutto: perdere la faccia davanti ad essi sarebbe equivalso a una morte<br />

civile! Ma ora torniamo un poco a Lucia, e rendiamo conto dei casi cui abbiamo<br />

accennato.<br />

Le grandi notizie dei fatti di Milano erano naturalmente giunte a Monza “e per<br />

conseguenza anche nel monastero”, per mezzo della fattoressa la quale teneva “un<br />

orecchio alla strada e uno al monastero”, facendo volentieri da tramite e in un<br />

senso e nell’altro. Le nuove venivano partecipate alle due donne, sapendo che<br />

Renzo era giunto a Milano proprio il giorno del tumulto. L’ansia di esse divenne<br />

viva preoccupazione, specialmente per Lucia, quando la fattoressa disse loro che<br />

uno di quelli che dovevano essere impiccati, <strong>com</strong>e caporioni della sedizione, era<br />

di Lecco o dei dintorni; ma allorché, qualche tempo dopo, annunciò che quel<br />

facinoroso era proprio del loro paese e si chiamava Tramaglino, a Lucia, <strong>com</strong>e<br />

fulminata dalla notizia, cadde il lavoro dalle mani. Per fortuna la fattoressa era un<br />

po’ distante da lei, e Agnese, alla quale stava parlando, riuscì a contenersi, a non<br />

tradire in volto la dolorosa emozione dell’animo; alla domanda se lo conoscesse,<br />

rispose con apparente indifferenza che in un villaggio tutti si conoscono, per cui<br />

lei si meravigliava molto del fatto, in quanto quel giovane era conosciuto <strong>com</strong>e un<br />

tipo tranquillo e onesto.<br />

Quando madre e figlia rimasero sole, potete immaginare quali furono i loro<br />

discorsi, quanto tristi i loro <strong>com</strong>menti! Non sapevano proprio cosa pensare: <strong>com</strong>e<br />

una tale enormità poteva essere successa, e quali ne sarebbero state le<br />

conseguenze? Per Lucia l’angoscioso discorso finiva talora nelle lagrime, e la<br />

stessa madre non sapeva che dire per consolarla. Un certo sollievo lo recò loro<br />

padre Cristoforo il quale, servendosi di un pescivendolo di Pescarenico che si<br />

recava a Milano a vender la sua merce, fece sapere che stava cercando di aver più<br />

sicure notizie di Renzo; loro intanto confidassero in Dio, sicure che Egli non<br />

avrebbe abbandonato i tribolati, mentre lui avrebbe fatto quanto era umanamente<br />

possibile in loro favore, e <strong>com</strong>unque ogni settimana avrebbe mandato altre<br />

notizie, o con quello o con un altro messo.<br />

98


Una distrazione dai tristi e talora tormentosi pensieri che l’assillavano, Lucia<br />

la trovava nel lavoro assiduo e anche, talvolta, nella conversazione familiare che<br />

aveva con Gertrude, la quale la faceva chiamare ogni tanto nel suo parlatorio<br />

privato, e si lasciava andare con lei a confidenze sul suo passato incolpevole,<br />

soprattutto circa il modo con cui era stata rinchiusa lì; sicché “quella prima<br />

maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in <strong>com</strong>passione.” La Signora<br />

avrebbe voluto che anche la ragazza, a sua volta, le raccontasse la sua storia<br />

sentimentale, ma per lei era impossibile trattare un simile argomento, in cui non<br />

entravano “tirannia, insidie, patimenti, cose brutte e dolorose, ma che pur si<br />

potevan nominare”, ma quei moti ineffabili del cuore, quei soavi sensi originati<br />

dall’amore: parola che Lucia, nella sua pudica riservatezza, non riusciva proprio a<br />

pronunciare, parlando di sé.<br />

A questo proposito possiamo osservare che lo stesso ritegno, il medesimo<br />

pudore mostra il Manzoni nel parlare d’amore: in tutto il romanzo egli accenna<br />

appena delicatamente alle dolci emozioni che suscita nell’animo questo potente<br />

sentimento, e ancor più sobriamente, con vigile castigatezza, ai turbamenti del<br />

cuore e dei sensi prodotti dalla passione sensuale, dal richiamo del sesso, che<br />

volgarmente chiamasi amore, con evidente degradazione di questo grande<br />

sentimento. Alcuni critici, non escluso il Croce, hanno rimproverato al Manzoni<br />

questo spirito puritano, che lo indusse a eliminare senza rimpianto, nell’edizione<br />

definitiva, quelle parti della storia di Gertrude che parevano indulgere alla<br />

descrizione della passione erotica; secondo costoro egli avrebbe, per così dire,<br />

tarpato le ali alla sua fantasia, precludendosi molte possibilità di poetica<br />

emozione. Io non concordo con essi. Il Manzoni, pur con sobrie e talora indirette<br />

espressioni, ci fa sentire la potenza e la soavità dell’emozione d’amore, quello<br />

vero, più di tanti altri poeti e prosatori che hanno dedicato intere pagine alla sua<br />

descrizione; del resto lo stesso Autore, a chi gli rimproverava questa eccessiva<br />

sobrietà, rispondeva argutamente che il mondo è così pieno di amore, che questo<br />

sentimento non ha proprio bisogno di essere incrementato dalle opere letterarie.<br />

Queste invece, purtroppo, hanno sempre speculato su questo sentimento, o peggio<br />

sulle sue deviazioni più o meno morbose, più o meno peccaminose, più o meno<br />

piccanti. Il Nostro respinge l’erotismo, non ha bisogno di questo ingrediente per<br />

far piacere il suo romanzo; egli intese far opera d’arte e di poesia, esprimere tutto<br />

il suo mondo interiore, il suo sentimento profondo, che era sentimento religioso,<br />

visione cristiana del mondo e della vita, appunto <strong>com</strong>e intese far Dante. E il suo<br />

romanzo, appunto perché motivato dal profondo, si traduce inconsapevolmente in<br />

opera di profonda edificazione morale, <strong>com</strong>e la “Divina Commedia”, pur<br />

rimanendo opera squisitamente poetica e per nulla oratoria, <strong>com</strong>e invece il primo<br />

Croce voleva sostenere.<br />

Per il Manzoni l’amore è un sentimento sublime e quasi divino, perché è una<br />

derivazione dell’amore verso Dio, e non va perciò deturpato o sfruttato in alcun<br />

modo: egli accenna ad esso in modo delicato, ma vivo e potente, sia nel romanzo<br />

sia nelle tragedie. Basta ripensare a certe espressioni, volutamente castigate ma di<br />

grande potenza evocatrice, dell’ ”Addio, monti” e del coro “Morte di<br />

99


Ermengarda”, solo paragonabili alle espressioni, fuggevoli ma potenti, di un<br />

Dante (“quali dolci pensier, quanto desìo” a proposito di Paolo e Francesca) e di<br />

un Leopardi (“che speranze, che cori, o Silvia mia!”). I grandi poeti sono stati<br />

sempre sobri, pur potentemente suggestivi ed emotivi, nella trattazione dei temi<br />

d’amore; e il Manzoni ci ha dato una grande lezione di austerità, dimostrando col<br />

suo esempio che la vera opera d’arte non ha bisogno di simili ammennicoli,<br />

necessari ai pennivendoli che scrivono a scopo di cassetta, sfruttando i sentimenti<br />

deteriori, o peggio i bassi istinti, che covano nell’animo umano. I bassi istinti<br />

vanno invece frenati e corretti, anche mediante la missione civilizzatrice dell’arte,<br />

e non, <strong>com</strong>e avviene oggi, esaltati e sfacciatamente spacciati <strong>com</strong>e i valori più<br />

genuini dell’uomo. La lezione civile e cristiana del Manzoni purtroppo non è<br />

stata minimamente ascoltata dai romanzieri e cineasti di oggi, i quali, col pretesto<br />

della libertà dell’arte ma in realtà a scopo di lucro disonesto, depravano sempre<br />

più le passioni, scatenando i più bassi istinti con la più immonda pornografia, alla<br />

quale il cinema offre le sue immagini lubriche e allettanti.<br />

Tornando a Gertrude, diremo che anche lei provava un certo sollievo nel<br />

parlare con la sua protetta, la quale le mostrava tanta gratitudine e affetto sincero;<br />

il far del bene a una creatura così innocente era, per la colpevole e inquieta<br />

monaca, un mezzo quasi inconscio di espiazione e, per così dire, un pegno di<br />

grazia e di perdono.<br />

Il pesciaiolo di Pescarenico tornò, <strong>com</strong>e aveva promesso, la seconda<br />

settimana, recando i saluti di fra Cristoforo e la conferma della fuga di Renzo,<br />

intorno al quale però il padre non poteva dare alcuna nuova, non avendone<br />

ricevuto, <strong>com</strong>e invece sperava, dal suo confratello di Milano; <strong>com</strong>unque<br />

cercherebbe di averne e di <strong>com</strong>unicarle loro con lo stesso mezzo. Ma la terza<br />

settimana non si presentò al convento né quel pescivendolo né altri a portare<br />

notizie da parte del buon frate; questo fatto accrebbe l’inquietudine delle povere<br />

ricoverate, e Agnese decise di dare una capatina al loro paese, per venire in chiaro<br />

del mancato invio di notizie da parte di padre Cristoforo. Ormai esse vivevano per<br />

queste notizie, perché facevano ogni assegnamento sull’opera del frate il quale,<br />

unico, alimentava le loro speranze. Prive di notizie da parte di lui, che erano<br />

l’unico modo con cui esse erano legate al mondo esterno, le poverette si sentivano<br />

<strong>com</strong>e sperdute e mancanti di ogni conforto. Perciò Lucia, per quanto le dolesse<br />

rimanere, anche per pochi giorni, priva della mamma, ne approvò la decisione,<br />

perché capiva che quello era l’unico mezzo per sapere qualcosa di positivo. Per<br />

raggiungere il paese, Agnese pensò di chiedere un passaggio al solito<br />

pescivendolo, che di norma il venerdì passava col suo biroccio per Monza,<br />

ritornando da Milano; lo aspettò sulla via e lo pregò del favore, che quegli fece<br />

molto volentieri. Giunta a Pescarenico, la buona donna volle subito vedere fra<br />

Cristoforo e, recatasi al convento, ne chiese a fra Galdino che venne ad aprire. Il<br />

laico le rispose che il padre non c’era, e chissà quando e se sarebbe tornato,<br />

essendo stato mandato a predicare a Rimini, una città molto ma molto lontana. La<br />

povera donna rimase annichilita, tanto era lontana dall’immaginare una simile<br />

iattura; fra Galdino, intuendo la sua desolazione, le propose di chiamare qualche<br />

100


altro padre a cui rivolgersi per consiglio, poiché ce n’erano nel convento di assai<br />

valenti. Ma Agnese non ne volle sapere, dicendo che solo fra Cristoforo era quello<br />

che conosceva i loro bisogni e già si stava adoperando per loro: gli altri che cosa<br />

le avrebbero potuto fare? E così la derelitta s’incamminò verso il suo villaggio,<br />

turbata e smarrita “<strong>com</strong>e il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.”<br />

Fra Galdino aveva spiegato ad Agnese l’improvvisa partenza di padre<br />

Cristoforo, con una richiesta, venuta da Rimini, di un buon predicatore; in realtà il<br />

suo allontanamento era stato chiesto al Padre provinciale di Milano dal Conte zio<br />

del Consiglio segreto, su istigazione di don Attilio. Questi, <strong>com</strong>e aveva promesso<br />

al cugino, era andato a trovare lo zio <strong>com</strong>une, per presentargli gli ossequi suoi e di<br />

don Rodrigo, a proposito del quale disse che doveva informare lo zio di una<br />

spiacevole questione, la quale rischiava di degenerare in lotta aperta, gravida di<br />

imprevedibili conseguenze, se il signore zio non l’ac<strong>com</strong>odava subito con la sua<br />

opera illuminata e influente. Ecco di che cosa si trattava: un arrabbiato cappuccino<br />

di Pescarenico aveva <strong>com</strong>inciato a cozzare contro don Rodrigo, a minacciarlo, ad<br />

aizzargli contro i villani, per via di una ragazza che gli stava molto a cuore, chi sa<br />

perché, e che riteneva insidiata da lui, che tutt’al più le aveva rivolto qualche<br />

<strong>com</strong>plimento galante, incontrandola, così per scherzo. Il Conte zio disse che<br />

evidentemente il frate non sapeva che don Rodrigo era suo nipote… e sarebbe<br />

bastato farglielo sapere per mutare l’ostilità in ossequio…<br />

A questo punto possiamo osservare, assieme alla capacità di don Attilio di<br />

mentire spudoratamente, anche la sua diabolica abilità nell’intrappolare lo zio, per<br />

ridurlo ai suoi voleri, facendo leva sulla sua boria nobiliare e sulla sua<br />

suscettibilità di influente uomo politico. Infatti, alle ultime parole dello zio,<br />

replica che il frate era benissimo al corrente del legame di parentela, e per questo<br />

ci provava più gusto a perseguitare don Rodrigo, andando dicendo che lui se ne<br />

rideva “dei grandi e dei politici, e che il cordone di San Francesco tien legate<br />

anche le spade…” Bastò questa insinuazione bugiarda perché la condanna dello<br />

sconosciuto frate fosse decretata nel cuore del burbanzoso signore, ferito a morte<br />

nel suo orgoglio. Ma il nipote non si ritenne pago: volle accendere ancora di più<br />

l’animo dello zio contro l’avversario, affinché il colpo non fallisse e fosse<br />

mortale. Fece un po’ la storia del soggetto prima che entrasse in convento,<br />

dipingendolo <strong>com</strong>e un vile plebeo che, avendo ereditato quattro soldi, si era messo<br />

a <strong>com</strong>petere con i nobili, ma non potendo spuntarla, una volta, ne ammazzò uno,<br />

onde, per salvarsi dal capestro, si fece frate; e aggiunse la grave circostanza che il<br />

medesimo era anche il protettore di quel Lorenzo Tramaglino, gran caporione<br />

della sedizione milanese: infatti il famigerato ribelle, che abitava nei pressi di<br />

Pescarenico, recava appunto una lettera del pericoloso frate. Lo zio fu ben lieto di<br />

conoscere questo particolare, per lui molto favorevole e quasi risolutivo; e il<br />

cinico don Attilio, veramente machiavellico, per coronare la sua opera, aggiunse<br />

che il cugino, offeso così crudelmente, era fuori dei gangheri e voleva farsi<br />

giustizia da sé, assolutamente e subito, per cui il signore zio doveva agire senza<br />

indugio, se voleva evitare un colpo di testa da parte del nipote. Quindi, con<br />

raffinata scaltrezza, aggiunse di sapere che il signore zio era amico del Provinciale<br />

101


dei Cappuccini, il quale aveva, <strong>com</strong>’era naturale, “una gran deferenza per lui”; per<br />

cui, se egli reputava che, in quel caso,la migliore soluzione fosse far trasferire il<br />

frate, in due parole l’avrebbe potuto ottenere. A questo consiglio così scoperto, la<br />

boria ombrosa del nobile uomo politico si adontò; un po’ ruvidamente disse al<br />

nipote di lasciarne il pensiero a chi di dovere. Don Attilio, il quale si aspettava<br />

senz’altro questo risentimento, ma non aveva lo stesso voluto tralasciare di fare la<br />

proposta, tanto poco si fidava della perspicacia dello zio, fece le sue umili scuse<br />

d’aver osato, lui così ignorante, dare un parere a un uomo tanto sapiente, ma<br />

aggiunse di averlo fatto senza pensarci, per l’amore che portava alla dignità della<br />

famiglia, così volgarmente offesa dall’odioso frate; quindi porse allo zio i<br />

deferenti omaggi propri e del cugino, e si licenziò contento, poiché aveva istigato<br />

a dovere l’animo dello zio contro il nemico, per cui poteva stare sicuro che il frate<br />

era spacciato: ormai era questione di giorni, ma l’ora per lui era sonata.<br />

A conclusione di questo capitolo abbozziamo un confronto tra i due degni<br />

cugini: il conte Attilio è evidentemente più scanzonato e più superficiale nelle sue<br />

passioni, ma anche più scaltro e sicuro di sé; cinico e vanitoso, e soprattutto<br />

orgoglioso del suo titolo nobiliare, desiderava godersi la vita ridendo di tutti e di<br />

tutto; don Rodrigo è più schiavo delle sue passioni, più cupo, più preoccupato<br />

delle difficoltà e degli ostacoli, e quindi meno capace di godersi la vita<br />

spensieratamente, <strong>com</strong>e pur avrebbe desiderato. In questa sua inquietudine<br />

c’entrava probabilmente l’educazione religiosa che aveva ricevuto, nella<br />

fanciullezza, dal padre, il quale era stato un galantuomo; una tale educazione, pur<br />

soffocata dalle passioni della gioventù e dalla ricerca dei piaceri, aveva lasciato<br />

qualche residuo nel suo subcosciente, <strong>com</strong>e di qualcosa che, pur obliterato o<br />

calpestato, era però vero e ineluttabile. Da questa specie di coscienza di colpa<br />

deriva, per esempio, il vago terrore che la tronca profezia di fra Cristoforo infonde<br />

nel suo animo, al punto da esser tentato di troncar tutto; se non lo fa, è soprattutto<br />

per orgoglio, per non darla vinta al frate: e chi accende il suo orgoglio è il suo<br />

genio malefico, don Attilio, il quale invece non ha in sé alcun seme buono, che<br />

possa fruttare redenzione. Don Rodrigo potrebbe redimersi; e lo stesso padre<br />

Cristoforo, additandolo a Renzo nel lazzaretto, in <strong>com</strong>a sul suo giaciglio, dice<br />

pensoso e pietoso: “Può esser gastigo, può esser misericordia.” Egli aveva fatto il<br />

piacere unico scopo della sua esistenza, ma il senso del dovere era nel fondo del<br />

suo animo, anche se seppellito dalle passioni, alimentate dall’ambiente superbo e<br />

cinicamente edonistico in cui gli piaceva vivere.<br />

102


CAPITOLO XIX<br />

Il Manzoni <strong>com</strong>incia questo capitolo con una similitudine: <strong>com</strong>e chi trova<br />

un’erbaccia in un campo, non potrebbe mai stabilire con assoluta certezza se il<br />

seme è maturato nello stesso terreno o c’è stato trasportato dal vento oppure da un<br />

uccello, così nessuno potrebbe dire se la decisione del Conte zio di rivolgersi al<br />

Provinciale dei cappuccini, per aver ragione di padre Cristoforo, sia sorta “dal<br />

fondo naturale del suo cervello o dall’insinuazione di Attilio.” Però possiamo<br />

esser certi che, anche senza l’ispirazione del nipote, il Conte ci sarebbe arrivato<br />

anche da solo, tanto la soluzione era adatta al suo temperamento di diplomatico,<br />

abituato all’intrigo o al <strong>com</strong>promesso del “do ut des”. Egli sapeva che contro un<br />

frate non era utile la forza legale, perché il clero regolare e secolare era del tutto<br />

immune dalla giurisdizione dello Stato, quasi uno Stato nello Stato, per cui, se si<br />

voleva un risultato sollecito e sicuro, era opportuno agire per via di influenze e di<br />

amicizie. Proprio <strong>com</strong>e aveva detto don Attilio al titubante cugino: “Bisogna saper<br />

raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente<br />

dare un carico di bastonate a un membro.” Questo aveva cinicamente sentenziato<br />

il conte Attilio, quello delle bastonate a ogni piè sospinto, e lo zio ne mette in<br />

pratica la massima con arte sopraffina, elaborata in decenni di vita politica.<br />

Tra lui e il Provinciale correva una vecchia conoscenza; s’incontravano di<br />

rado, ma sempre con formali dimostrazioni di ossequio, sia da una parte che<br />

dall’altra, e con “esibizioni sperticate di servizi”; ora era appunto venuta<br />

l’occasione di chiedere un favore al Provinciale; ma il Conte voleva essere sicuro<br />

del successo, e nello stesso tempo non pagare lo scotto, se gli riusciva, facendo<br />

credere di far lui un servizio al Padre, invece di riceverlo. Il Conte metteva nel<br />

trattare tutti i suoi affari “un grande studio, una grand’arte, di gran parole”, e in<br />

genere riusciva a spuntare i suoi impegni, anche perché si trovava in posizione di<br />

forza, cioè nobile, ricco e membro influente del Consiglio segreto, per cui era<br />

molto vicino al Governatore; infatti questa consulta, <strong>com</strong>posta “di tredici<br />

personaggi di toga e di spada” (il Conte era togato, cioè proveniente dalla<br />

Magistratura), coadiuvava il Governatore nel disbrigo degli affari e ne faceva le<br />

veci, in caso di vacanza o di impedimento.<br />

La figura del Conte zio è stata variamente giudicata dai critici; per alcuni egli<br />

era davvero un gran politicone, mentre per altri era una testa di legno, che non<br />

aveva altra qualità all’infuori del sussiego e della boriosa vanità. Mi sembra che<br />

sia gli uni sia gli altri esagerino: veramente il Conte non era una cima per<br />

intelligenza, e di ciò forse lui stesso era consapevole, per cui alla carenza naturale<br />

supplica con artifici che gli donavano una “species” 5 , anche se non molto era il<br />

5 species = grande aspetto.<br />

103


“cerebrum” 6 ; il suo aspetto era piuttosto goffo, ma egli con una certa prosopopea<br />

solenne aveva saputo mascherare questo “fondo di goffaggine dipintogli in viso<br />

dalla natura.” Tutti i suoi atteggiamenti, tutte le sue parole erano studiate per<br />

impressionare i suoi interlocutori, e quindi accrescere il suo prestigio, e non c’era<br />

il suo pari “nel farlo valere e nel farlo rendere con gli altri.” Quindi dobbiamo<br />

concludere che era un uomo abile, che aveva saputo sfruttare al massimo le sue<br />

poche doti: una di quelle mezze figure che destramente si sanno fare largo anche<br />

fra i più dotati, e finiscono per primeggiare, oggi <strong>com</strong>e allora, perché nella società<br />

prevalgono quasi sempre non gli uomini più capaci, ma i più abili o meglio i più<br />

furbi. I capaci sono generalmente onesti, e disdegnando i mezzi subdoli e sleali,<br />

finiscono spesso col soc<strong>com</strong>bere davanti agli spregiudicati arrivisti.<br />

Ordunque il Conte, preparato il suo piano minuziosamente, invitò a pranzo il<br />

Provinciale; e per impressionarlo gli fece trovare a tavola alcuni parenti molto<br />

titolati, i quali sia col loro contegno solenne, sia col parlare di cose grandi in<br />

termini familiari, insinuavano nell’uditore “l’idea della superiorità e della<br />

potenza.” Durante il pasto il padrone di casa parlò naturalmente dell’evento più<br />

clamoroso della sua carriera, un suo viaggio a Madrid, in occasione di una<br />

missione a corte, in cui ricevette una calorosa accoglienza. Ma il Padre<br />

provinciale non permise che parlasse sempre lui, pavoneggiandosi; a un certo<br />

punto, con grande abilità, deviò la conversazione dalla Spagna e, di regno in<br />

regno, la portò su Roma e sulla corte pontificia, dove il papa regnante, Urbano<br />

VIII, era fratello del Cardinale Barberini, cappuccino, per far capire che i<br />

Cappuccini erano influenti, avendo un protettore d’eccezione, fratello addirittura<br />

del sommo pontefice e lui stesso cardinale di Santa Romana Chiesa. Il Provinciale<br />

insomma vuol mettere in evidenza che anche lui, cioè l’Ordine a cui appartiene,<br />

ha il suo prestigio da difendere, avendo intuito che il Conte intende<br />

impressionarlo con le sue grandigie. La conversazione tra i due appare sin dal<br />

principio <strong>com</strong>e un duello verbale, che dalle prime avvisaglie si presenta<br />

interessante e molto equilibrato, poiché nell’abile schermaglia il Provinciale<br />

ribatte colpo con colpo, non concedendo alcun vantaggio all’avversario.<br />

La figura del Padre provinciale è stata anch’essa variamente interpretata:<br />

alcuni critici dicono che è un inetto, che si fa mettere nel sacco dal Conte, mentre<br />

altri affermano che si rivela abile e capace, non indegno della sua carica. A me<br />

sembra che egli sia di intelligenza superiore a quella del suo interlocutore, e sia<br />

anche abilissimo dialettico; ma la sua debolezza e vulnerabilità deriva dal fatto<br />

che anche lui è un politico, cioè disposto al <strong>com</strong>promesso, campione e vittima del<br />

“do ut des”. Già accettando il lusinghiero invito del conte si disponeva a<br />

<strong>com</strong>piacerlo in qualche cosa, che poteva costituire per lui un sacrificio, pur con<br />

l’intenzione di ricevere, a breve o lunga scadenza, il contraccambio del piacere<br />

che ora gli veniva chiesto. Egli ribatte gli argomenti del Conte, ma al solo scopo<br />

di dimostrargli che le ragioni della sua richiesta non sono valide, e lui potrebbe<br />

6 Cerebrum = cervello, intelligenza.<br />

104


non accoglierla; ma cede in pegno di amicizia; in altre parole egli resiste solo<br />

tatticamente, per accrescere il valore venale di quanto concede. Il suo<br />

<strong>com</strong>portamento è <strong>com</strong>prensibile, ma tuttavia biasimevole dal punto di vista<br />

morale: egli, per mantenersi indipendente, <strong>com</strong>e era suo dovere, non doveva<br />

accettare alcun invito, scusandosi con destrezza, né tanto meno doveva coltivare<br />

amicizie altolocate con l’intenzione di averne dei vantaggi, magari anche per<br />

l’Ordine, poiché queste relazioni avrebbero necessariamente portato a<br />

<strong>com</strong>promessi non sempre moralmente accettabili.<br />

Finito il pranzo, il Conte invitò il Provinciale in un salotto appartato, per<br />

parlare “d’un affare di <strong>com</strong>une interesse”, e senza troppi preamboli gli chiese se<br />

nel convento di Pescarenico c’era un certo padre Cristoforo; l’altro rispose<br />

affermativamente. Il piano del Conte, <strong>com</strong>e si desume dalle prime battute del<br />

dialogo, era di ottenere l’allontanamento del cappuccino, non <strong>com</strong>e favore che lui<br />

chiedeva, ma quasi quasi <strong>com</strong>e favore che lui faceva, in quanto dava al<br />

Provinciale, con un avviso amichevole, la possibilità di evitare rimproveri o<br />

peggio; ma questo disegno, abbastanza abile, viene frustrato con superiore abilità<br />

dal Provinciale.<br />

Il Conte <strong>com</strong>incia col dire che “da certi ragguagli” gli risulta che questo frate è<br />

amico dei contrasti, che non ha quella prudenza… quei riguardi… Subito il<br />

Provinciale intuisce lo scopo del colloquio, e pensa: “Ho inteso: è un impegno.”<br />

Ma non cede affatto alle prime richieste, perché vuol vendere caro il favore che<br />

alla fine concederà, appunto per farlo apparire più importante. Perciò ribatte<br />

subito che le sue informazioni, che sono di prima mano, presentano il cappuccino<br />

in una luce molto diversa: è un frate universalmente stimato, esemplare, sia in<br />

convento sia fuori, nei contatti coi fedeli. Il Conte torna alla carica con<br />

un’artiglieria più pesante: il frate, dato <strong>com</strong>e esemplare, proteggeva Lorenzo<br />

Tramaglino, “quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia.” Il<br />

Provinciale accusa mentalmente il colpo, ma ribatte che, la missione dei religiosi,<br />

è proprio quella di cercare le pecorelle smarrite, i traviati, per ricondurli sulla retta<br />

via, all’ovile. Ma il Conte incalza, insinuando che il Governatore potrebbe venire<br />

a conoscenza della scandalosa circostanza, fare un passo presso la Santa Sede, e<br />

da questa venire a lui, responsabile della Provincia Cappuccina, un biasimo per<br />

non aver punito e trasferito un soggetto così imprudente, a dir poco: egli intendeva<br />

dargli un avviso amichevole, per evitare grane che avrebbero <strong>com</strong>promesso il<br />

prestigio e del Provinciale e dell’Ordine.<br />

Ma il provetto cappuccino non permette che la questione sia impostata in quei<br />

termini di larvata minaccia, e subito vuol dimostrare che non teme il ventilato<br />

pericolo; risponde perciò che, se si prenderanno buone informazioni, risulterà<br />

senza ombra di dubbio che il padre Cristoforo non ha avuto a che fare con quel<br />

sedizioso, se non per tentare di ricondurlo sulla strada del dovere e dell’onestà. Il<br />

Conte allora cerca di offuscare ulteriormente la figura del frate con delle maligne<br />

insinuazioni, ricordando i suoi falli di gioventù; ma il provinciale replica<br />

prontamente, affermando che, da quando porta l’abito, colui si è <strong>com</strong>portato in<br />

modo ammirevole, ed è anzi una gloria dell’Ordine poter trasformare un omicida<br />

105


in un uomo sommamente benefico. Come si vede, il padre ha reso vani tutti gli<br />

approcci dell’antagonista, demolendo le premesse che avrebbero permesso a<br />

costui di ottener facile vittoria.<br />

Il Conte <strong>com</strong>prende finalmente che per quella via non può approdare a nulla, e<br />

allora si scopre e chiede il favore, pur tentando ancora miseramente di non farlo<br />

apparire tale. Dice infatti che quel frate ha preso a cozzare con don Rodrigo, suo<br />

nipote, il quale, stanco per le continue provocazioni, è deciso a farsi giustizia da<br />

sé: lui è intervenuto “pro bono pacis”, perché questi contrasti inevitabilmente<br />

tirano in ballo tutta la parentela, coalizzata, <strong>com</strong>’è giusto, per tutelare la dignità<br />

del casato; ma lui sarebbe oltremodo dolente di doversi schierare contro i cari<br />

padri cappuccini, cui si sente legato fin dalla fanciullezza.<br />

Il Provinciale risponde che la cosa gli riesce nuova e gli dispiace moltissimo,<br />

ma bisogna tener conto che tutti si può sbagliare, “tanto da una parte, quanto<br />

dall’altra”; facendo intendere con queste parole che la colpa del contrasto<br />

potrebbe non essere del frate; aggiunge che, <strong>com</strong>unque, prenderà le sue<br />

informazioni e, se il frate risulterà colpevole, lo punirà secondo che vuole la<br />

Regola. Ma queste informazioni, questa eventuale punizione secondo le norme<br />

della Regola non possono certamente garbare al Conte, che vuole un<br />

provvedimento immediato e senza appello; perciò replica che, secondo prudenza,<br />

bisogna “sopire, troncare”, perché certe cose, a rimestarle, si fa peggio: occorre<br />

“allontanare il fuoco dalla paglia”; chiede insomma il trasferimento del frate in<br />

un convento piuttosto lontano.<br />

I trasferimenti per i cappuccini sono di ordinaria amministrazione, e non<br />

richiedono particolari motivazioni o giustificazioni; anzi il Provinciale, avendo<br />

avuto la richiesta di un predicatore da Rimini, avrebbe potuto senz’altro mandare<br />

padre Cristoforo, che godeva fama di valente quaresimalista; tuttavia non accetta<br />

subito la proposta, perché vuole mercanteggiare il suo assenso, per far pesare di<br />

più il favore concesso. Risponde perciò che, date le circostanze, un trasferimento<br />

può sembrare una punizione, e non si può punire senza aver accertato il torto;<br />

insiste insomma sulla necessità di assumere buone informazioni, avendo capito<br />

che queste non piacciono all’amico, evidentemente perché esse avrebbero potuto<br />

dare ragione al religioso.<br />

Il Conte allora cerca di minimizzare la faccenda: punizione? macché<br />

punizione! “Un provvedimento prudenziale, un ripiego di <strong>com</strong>une convenienza.”<br />

E quando il Provinciale obbietta che il nipote potrebbe menarne vanto, <strong>com</strong>e di<br />

una vittoria, il Conte assicura che don Rodrigo non avrebbe saputo assolutamente<br />

nulla di quanto era passato tra loro due: nella sua carica di alta responsabilità egli<br />

era ben uso a mantenere il segreto, perciò di lui poteva fidarsi. Il Provinciale, pur<br />

non fidandosi affatto della discrezione del suo interlocutore (conosce bene le<br />

bugie dei politicanti!), è ormai disposto a rendere il grande servizio, perché ci<br />

trova la sua convenienza: trasferendo fra Cristoforo egli farà, <strong>com</strong>e si dice, un<br />

viaggio e due servizi; solo pone la condizione che don Rodrigo faccia, per<br />

l’occasione, qualche straordinaria dimostrazione di deferenza e di amicizia verso<br />

l’Ordine; e il Conte deve prometterlo, pur dicendo che non ce ne sarebbe bisogno,<br />

106


perché il nipote è stato sempre molto inclinato verso i Cappuccini, seguendo in ciò<br />

il genio dello zio; e conclude offrendo i suoi servigi: “Se posso qualche cosa,<br />

tanto io, <strong>com</strong>e la famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…”<br />

Implicitamente il Conte riconosce di aver ricevuto un favore e si mostra<br />

pronto a ricambiarlo; perciò non mi sembra esatto parlare di vincitore e di vinto,<br />

in questo incontro, <strong>com</strong>e si esprime lo stesso Manzoni; io parlerei di collusione tra<br />

i due, mentre la grande sconfitta è la giustizia. Questo si verifica quando si accetta<br />

la deleteria influenza della politica negli affari religiosi, poiché il clero, entrando<br />

negli intrighi politici, non può non tradire il proprio ministero nella prospettiva di<br />

benefici temporali e immediati, perdendo di vista i valori eterni e insostituibili.<br />

Per questo miserabile e detestabile interesse terreno il Provinciale s’indusse ad<br />

allontanare, su due piedi, il protettore di due poveri perseguitati, che rimangono in<br />

balia dei prepotenti, al solo scopo di <strong>com</strong>piacere un uomo influente, da cui<br />

avrebbe potuto in seguito avere dei favori, e forse non per l’Ordine, ma per sé o<br />

per i propri familiari! Egli non è un vinto, perché non risulta inferiore<br />

all’avversario, e acconsente infine alla pressante richiesta solo per accendere una<br />

valida ipoteca sull’avvenire, cioè per obbligarsi il signor Conte: tradisce il proprio<br />

dovere per una miserabile prospettiva di tornaconto materiale. Cose del Seicento?<br />

Mah!<br />

Il fatto sta che poche sere dopo giunge al convento di Pescarenico un<br />

cappuccino di Milano, latore di un ordine del Provinciale: fra Cristoforo deve<br />

andare a Rimini, a predicarvi la Quaresima; nella lettera al Guardiano, che<br />

ac<strong>com</strong>pagnava l’ “obbedienza” cioè l’ordine di trasferimento, si diceva, tra le altre<br />

istruzioni, che il detto padre doveva interrompere ogni affare che avesse avviato e<br />

non mantenere corrispondenza con persone del luogo. Il Guardiano per quella sera<br />

non disse nulla a fra Cristoforo, non per farlo dormire tranquillo, <strong>com</strong>e pensa<br />

qualche critico, ma proprio per non permettergli di avvertire qualcuno o mandare<br />

qualche messaggio o lasciare qualche lettera per i suoi protetti; lo lascia<br />

all’oscuro, io penso, per aderire pienamente alle intenzioni del superiore. La<br />

mattina seguente gli mostra l’obbedienza (che richiedeva un adempimento<br />

pronto, rispettoso e assoluto, in base al voto di obbedienza), e gli dice di partire<br />

immediatamente alla volta di Rimini assieme col latore del plico, destinatogli<br />

<strong>com</strong>e <strong>com</strong>pagno, dandogli appena il tempo di andare nella sua cella “a prender la<br />

sporta, il bastone, il sudario e la cintura”, che costituivano il corredo ordinario dei<br />

cappuccini nei lunghi viaggi a piedi.<br />

Per il nostro frate, <strong>com</strong>e può immaginarsi, fu davvero un brutto colpo, un<br />

fulmine a ciel sereno: i suoi superiori lo ritenevano colpevole (era evidentemente<br />

un trasferimento punitivo), e lo condannavano senza nemmeno ascoltarlo! Quanta<br />

amarezza poi nell’intuire il retroscena mercantesco di un simile provvedimento,<br />

nel costatare l’acquiescenza del Provinciale alle richieste ingiuste dei nobili<br />

prepotenti e intriganti! Ma per lui questa umiliazione era nulla; gli doleva<br />

soprattutto abbandonare quei poveretti tribolati e insidiati: cosa sarebbe stato di<br />

loro? Ma pensò alla Divina Provvidenza, e si rasserenò: i miseri sono sotto la<br />

protezione di Dio, Onnipotente e Misericordioso, di cui lui era stato un semplice<br />

107


strumento, un inetto rappresentante. Si accusò perciò di presunzione: si era<br />

ritenuto un mezzo necessario e insostituibile!<br />

La duplice fausta notizia, della partenza del frate e del ritorno di Agnese al suo<br />

paesello, fecero decidere don Rodrigo, <strong>com</strong>e si è detto, a ricorrere per aiuto<br />

all’Innominato. Il Manzoni alla fine del capitolo si ferma a delineare la figura di<br />

questo fosco personaggio, servendosi anche di qualche cronaca del tempo, e<br />

soprattutto della voluminosa “Storia patria” del Ripamonti, stilata in un discreto<br />

latino. Noi non aggiungeremo molto a quanto abbiamo già detto su di lui;<br />

metteremo solo in risalto alcuni tratti che ci mostrano questo tiranno ben diverso,<br />

per esempio, da don Rodrigo, e piuttosto simile nell’animo e nel carattere al<br />

giovane Lodovico; solo che Lodovico non era nobile, ed era quindi tormentato da<br />

un <strong>com</strong>plesso d’inferiorità che, non preoccupava davvero il ricco feudatario<br />

Bernardino Visconti. In tutt’e due notiamo, fin dalla prima giovinezza, “un misto<br />

sentimento di sdegno e d’invidia impaziente” alla vista di tanti tiranni, di tanta<br />

ingiustizia e prepotenza: quindi il fondo dell’animo era in ambedue onesto e<br />

generoso. Purtroppo tutt’e due s’imbarcarono ben presto nella gara della potenza<br />

terrena, che doveva sfociare inevitabilmente nella violenza e nel delitto.<br />

Lodovico sentì subito disgusto di una simile gara di prepotenza, e l’occasione<br />

dell’involontario omicidio provocò in lui una crisi che gli fece prendere per tempo<br />

la strada del pentimento e dell’espiazione. Il Visconti invece s’entusiasmava<br />

sempre più nella lotta, e il vincere era per lui l’unico scopo dell’esistenza, la più<br />

grande soddisfazione della vita. Nei dintorni del suo castello tutti i tiranni, grandi<br />

e piccoli, avevano dovuto fare i conti con lui, e scegliere tra la sua amicizia, che<br />

<strong>com</strong>portava sottomissione e obbedienza, e la sua inimicizia, che equivaleva a una<br />

sentenza capitale. Nei contrasti, nelle lotte private che s’ingaggiavano in quella<br />

società violenta, molti ricorrevano a lui: chi aveva torto si rac<strong>com</strong>andava a lui per<br />

aver ragione, chi aveva ragione si rivolgeva a lui per impedire che lo facesse<br />

l’avversario; in molti casi ricorrevano al suo patrocinio ambedue i contendenti, ed<br />

egli allora era praticamente l’arbitro della questione. Qualche volta avveniva pure<br />

che ricorresse a lui un povero perseguitato, e lui, che in fondo era generoso e<br />

odiava l’altrui prepotenza, costringeva il persecutore a smetterla e, se non<br />

obbediva subito, lo conciava male; e in quelle occasioni il suo nome era<br />

benedetto. Ma per lo più era maledetto ed esecrato, perché a poco a poco egli era<br />

diventato un appaltatore di delitti, un esecutore cinico e spietato, anche per conto<br />

di principi stranieri, che in qualche occasione gli mandarono rinforzi di uomini,<br />

che operassero al suo <strong>com</strong>ando. La reputazione del suo potere era diffusa a tal<br />

punto, che spesso venivano attribuiti a lui anche i colpi di altri tiranni, e ciò<br />

ingigantiva la sua fama; sicché era divenuto l’oggetto di orripilanti racconti e di<br />

fosche leggende popolari. Le autorità ormai non osavano più nulla contro di lui,<br />

dal momento che i birri che si erano avventurati nel suo dominio, che<br />

<strong>com</strong>prendeva un vasto territorio intorno al castello, non erano più tornati indietro.<br />

Il suo piacere era <strong>com</strong>andare, essere il più potente di tutti, essere universalmente<br />

temuto; il suo scopo era spuntarla in ogni occasione, riuscire il più forte in<br />

qualsiasi scontro. Per don Rodrigo invece la tirannide non era lo scopo<br />

108


dell’esistenza, ma il mezzo per godersi la vita; egli non avrebbe tollerato di<br />

passare la vita solitario in un tetro castello, pur <strong>com</strong>e un re, perché amava troppo i<br />

piaceri della società brillante e le <strong>com</strong>odità della vita cittadina. Ma questa volta il<br />

tirannello, se voleva spuntarla e soddisfare i suoi capricci, doveva ricorrere al<br />

fosco tiranno, umiliarsi davanti al temuto bandito. Don Rodrigo si piegò alla<br />

necessità, e una mattina, in equipaggiamento da caccia, onde nascondere la sua<br />

intenzione ai suoi stessi bravi, si recò al castello dell’Innominato a chiedere il gran<br />

favore, il rapimento di Lucia dal monastero della Signora.<br />

109


CAPITOLO XX<br />

Don Rodrigo, <strong>com</strong>e abbiamo detto, era stato per molti giorni indeciso se<br />

ricorrere o no all’Innominato, e in qualche momento aveva anche pensato di<br />

lasciar perdere tutto e andarsene a Milano a dimenticare nei piaceri quella<br />

passione; ma in città gli amici gli avrebbero riso in faccia, poiché il cugino aveva<br />

già sonato la tromba, mettendo tutti al corrente del suo capriccio per la bella<br />

montanara: <strong>com</strong>e sostenere un simile affronto? All’Innominato egli aveva fatto<br />

qualche favore, ed era sicuro che ne avrebbe ricevuto volentieri il contraccambio;<br />

tuttavia don Rodrigo non voleva legarsi troppo a quell’uomo fosco, a quel<br />

bandito, anche per non incorrere nello sdegno del Conte zio, rappresentante<br />

dell’autorità costituita. L’Innominato faceva il tiranno ribelle, in odio al Governo<br />

e alla legge, mentre don Rodrigo voleva infrangere la legge solo quando gli<br />

servisse per soddisfare i suoi capricci, e nello stesso tempo coltivava l’amicizia<br />

delle autorità (<strong>com</strong>e il podestà di Lecco) e delle persone influenti, per essere, in<br />

ogni caso, anche quando agiva illegalmente, uno “di quelli che hanno sempre<br />

ragione”. Per questo aveva sempre cercato di tenere nascosta la sua amicizia con<br />

l’Innominato; e se anche qualcosa ne era trapelato, lui poteva giustificarsi<br />

adducendo lo stato di necessità, poiché per vivere in campagna, a poche miglia dal<br />

suo castello, doveva necessariamente diventargli amico. E su questa inevitabile<br />

relazione le autorità di Governo, e lo stesso Conte zio, dovevano chiudere un<br />

occhio, poiché non riuscendo essi ad aver ragione di quel bandito ribelle,<br />

dovevano pur permettere che ognuno provvedesse da sé ai casi suoi, dal momento<br />

che mettersi contro colui era cosa troppo pericolosa.<br />

Il castello dell’Innominato, situato alla sommità di un poggio sporgente da una<br />

giogaia di monti, dominava una valle stretta e ombrosa, in cui scorreva un torrente<br />

che faceva da confine tra il Ducato di Milano e la Serenissima Repubblica veneta.<br />

Il poggio era praticabile solo dal lato della valle, da cui una strada serpeggiante<br />

saliva sino al castello. Dall’alto di questo il selvaggio signore dominava tutta la<br />

vallata, e dalle feritoie praticate nelle mura egli poteva sparare cento volte contro<br />

chi avesse osato muovere all’assalto di quella fortezza, che risultava pertanto<br />

veramente imprendibile. La forza pubblica infatti, dopo aver fatto qualche<br />

tentativo di snidarlo di là, aveva desistito per evitare nuove perdite di uomini. Ma<br />

questi fatti erano ormai antichi: da tanti anni nessuno più lo aveva molestato,<br />

nessun birro era più apparso nemmeno nella valle, e la sua presenza lì sul confine,<br />

nel suo invincibile maniero, non veniva più contrastata in alcun modo, e appariva<br />

pertanto quasi tollerata “de facto”, anche se non accettata “de jure”. L’inazione<br />

del Governo aveva naturalmente consolidato la posizione del fiero bandito.<br />

Ai piedi del colle, nel punto dove aveva inizio la ripida strada, o piuttosto<br />

sentiero, tutto “a gomiti e a giravolte”, che saliva al castello, c’era una taverna,<br />

adibita a posto di guardia, il cui presidio era costituito da tre bravi e da un<br />

ragazzaccio “armato <strong>com</strong>e un saracino”, il quale imparava la professione di<br />

110


ibaldo in quella bella <strong>com</strong>pagnia. Quando don Rodrigo giunse in vicinanza di<br />

questa taverna, chiamata con tetro augurio “la Malanotte”, il ragazzaccio “allevato<br />

alle forche” saltò fuori, allo scalpitio del cavallo, e vista quella <strong>com</strong>pagnia che si<br />

avvicinava, corse dentro a informare il capoposto. Questi, venuto fuori<br />

immediatamente a vedere chi fossero i sopraggiungenti, avendo riconosciuto in<br />

testa al gruppo un amico del suo padrone, gli fece un cenno di saluto, che don<br />

Rodrigo ricambiò “con molto garbo”. Saputo quindi dal caporalaccio che il<br />

signore era al castello, scese da cavallo e si tolse da tracolla la carabina,<br />

consegnandola a uno del seguito, perché sapeva bene che non si poteva andare<br />

lassù con le armi; lo stesso fece il Griso, che lo doveva ac<strong>com</strong>pagnare lungo l’erta<br />

fino al castello. Quindi, dopo aver regalato alcuni scudi al capoposto, da dividere<br />

con la sua brigata, e alcune berlinghe ai propri uomini, affinché potessero<br />

nell’attesa giocare lì a carte e a denari con i loro colleghi, prese la salita di buon<br />

passo, seguito dal “fedel Griso”, che vedremo rivelarsi tutt’altro che fedele nel<br />

momento cruciale.<br />

Arrivato al castello, dovette lasciare il suo caporalaccio alla porta, perché<br />

questi erano gli ordini inviolabili di quella fortezza, in cui vigeva una dura<br />

disciplina di tipo militare.<br />

Fu fatto passare attraverso molte stanze piene di armi di ogni tipo, e finalmente,<br />

dopo breve attesa, fu introdotto dal signore,. Questi, rispondendo al suo saluto, lo<br />

squadrò tutto, osservandogli particolarmente il viso e le mani, per scoprire che<br />

intenzione avesse e se portasse armi. Faceva ciò con tutti quelli che gli si<br />

presentavano, per abitudine da lungo tempo acquisita, che ormai per lui era<br />

diventata una specie di istinto, da cui non avrebbe saputo discostarsi neppure<br />

volendolo. Infatti, essendo in urto con tutta la società, l’Innominato era costretto a<br />

guardarsi da tutti, anche dagli amici, nel timore di un tradimento. E questo esame<br />

sospettoso e inquisitorio dei suoi visitatori era ormai per lui tanto abituale, che lo<br />

faceva senza avvedersene e con tutti indistintamente: conseguenza del sospetto<br />

incessante che opprime i tiranni.<br />

I nostro Autore ci dà anche una raffigurazione fisica dell’Innominato:<br />

alto,bruno, calvo, robusto, viso rugoso, bianchi i pochi capelli rimasti; all’aspetto<br />

fisico, forse gli si dava più dei sessant’anni che aveva, ma dal suo sguardo duro e<br />

penetrante e da quelle fattezze aitanti traluceva “una forza di corpo e d’animo, che<br />

sarebbe stata straordinaria in un giovine.”<br />

Don Rodrigo gli disse subito che veniva per aiuto: non riuscendo a spuntarla<br />

in un impegno, dal quale non poteva d’altronde ritirarsi senza disonore, ricorreva<br />

all’opera di lui, che non prometteva mai invano; e disse in succinto di che si<br />

trattava. Sapendo poi che la difficoltà delle imprese era per il suo interlocutore un<br />

incentivo per assumersele, si mise a esagerare gli ostacoli che in quella si<br />

presentavano: un centro cittadino, un monastero di clausura, la protezione della<br />

Signora e il fatto che la ragazza non usciva assolutamente mai. L’Innominato non<br />

lo lasciò continuare, e accettò senz’altro di prendere l’impresa su di sé; quindi,<br />

senza entrare in particolari, congedò l’amico assicurandolo che tra pochi giorni<br />

avrebbe avuto qualche notizia in proposito. Questa sicurezza in un’impresa<br />

111


tutt’altro che facile derivava all’orgoglioso signore dal fatto che quel tale Egidio,<br />

che aveva sedotto Gertrude e intratteneva tuttora una relazione con lei, era uno dei<br />

suoi più diretti dipendenti; perciò l’Innominato, che era al corrente di tutto e<br />

conosceva il legame delittuoso che avvinceva i due, non poteva dubitare dell’esito<br />

dell’impresa, e aveva perciò così facilmente dato la sua parola.<br />

Ma non appena il visitatore se ne fu andato, subito il signore si pentì di aver<br />

fatto quella promessa, di essersi impegnato a sangue freddo in una nuova<br />

scelleratezza, mentre da un certo tempo le scelleratezze del passato gli<br />

procuravano, se non un vero e proprio rimorso, certo una scontentezza, una<br />

molestia, un fastidio mai prima provati; anzi prima, nel considerare la serie dei<br />

suoi misfatti, provava un senso di orgogliosa fierezza. Solo in giovinezza, ai primi<br />

delitti, aveva provato una certa qual ripugnanza, ma l’aveva vinta presto, al<br />

pensiero che tutti i signori <strong>com</strong>pivano violenze e prepotenze delittuose, per cui<br />

anche lui ne poteva e doveva fare, se non voleva rimanere al disotto. Si era quindi<br />

impegnato in una gara feroce di delitti con i suoi pari, e in poco tempo li aveva<br />

superati tutti, costringendoli o a ritirarsi malconci dalla lotta o a cercare la sua<br />

amicizia, sempre però da subordinati satelliti. Da allora egli era stato il primo nel<br />

male, solo innanzi a tutti, e questo primato universalmente riconosciuto era stato<br />

per lui il più ambito premio e la più grande soddisfazione della vita. Ora però<br />

quella fierezza e quella soddisfazione non la sentiva più, e si vedeva nell’arco<br />

discendente della vita; ogni tanto gli tornava in mente un molesto pensiero:<br />

invecchiare, morire; e poi?<br />

Quel Dio di cui gli avevano qualche volta parlato quand’era piccolo, e di cui<br />

in seguito non si era mai più curato, vivendo <strong>com</strong>e non esistesse né Lui né la sua<br />

legge, ora gli si faceva talora sentire nell’animo <strong>com</strong>e una potenza misteriosa ma<br />

ineluttabile, e anche la sua legge gli si presentava ora <strong>com</strong>e qualcosa di fisso e<br />

inevitabile; e gli si affacciava alla coscienza l’eventualità di doversi presentare<br />

dopo la morte davanti a un Giudice assoluto e infallibile, che lo giudicherebbe<br />

per quanto aveva fatto, indipendentemente dal cattivo esempio altrui.<br />

Del resto, se agli inizi egli poteva essere stato influenzato dall’altrui violenza, era<br />

pur vero che aveva agito sempre per propria volontà, in una feroce emulazione dei<br />

peggiori, che egli in breve aveva uguagliato e superato di molto. Ora gli si<br />

affacciava alla mente l’idea molesta di una responsabilità personale, di un giudizio<br />

personale, al quale tenga dietro necessariamente una sanzione personale per tutto<br />

il male fatto, per le sofferenze procurate, per il sangue sparso!<br />

Questi terribili pensieri che talora gli assediavano la mente, e che egli cercava<br />

sempre di <strong>com</strong>battere senza mai riuscire a sconfiggerli, gli procuravano da tempo<br />

una certa inquietudine, che lo rendeva tanto esitante e incerto, quanto prima era<br />

stato deciso e risoluto; ma per orgoglio nascondeva questa sua nuova debolezza<br />

sotto la maschera di una più cupa ferocia, di una più spietata determinazione.<br />

Aveva subito promesso a don Rodrigo di accollarsi l’impresa, proprio per<br />

impedire al suo animo ogni vacillamento e ogni ripensamento, che lo avrebbe<br />

fatto decadere da quella fama di uomo invincibile e sicuro, che si era guadagnata<br />

portando a termine con spietata sicurezza una lunga catena di delitti. Ora che don<br />

112


Rodrigo era partito, sentiva di nuovo quell’uggia del passato e quell’esitazione per<br />

il presente, che gli davano <strong>com</strong>e una smania insopportabile; per precludersi ogni<br />

adito al ripensamento, fece chiamare immediatamente il Nibbio, il capo dei suoi<br />

bravi, e lo mandò da Egidio a Monza, per ordinargli che cosa doveva fare. Lo<br />

scellerato giovane, basandosi sulla collaborazione di Gertrude, rispose che la cosa<br />

era facile: mandasse per il tale giorno una carrozza con due o tre bravi ben<br />

travestiti, ché lui penserebbe al resto. Per lui era scontata l’adesione della Signora<br />

al piano delittuoso.<br />

Quando Egidio chiese a Gertrude di sacrificare Lucia, ella ne provò orrore e<br />

cercò di esimersi, perché contribuire alla rovina della ragazza, alla quale si era in<br />

certo modo affezionata, le appariva davvero enorme e insopportabile; ma alla fine<br />

non poté sottrarsi alla ferrea schiavitù del vizio, poiché non aveva la forza di<br />

ribellarsi del tutto, spezzando quelle catene del peccato e del delitto, le quali<br />

ormai la tenevano prigioniera. A questo proposito il Manzoni fa un’acuta<br />

osservazione psicologica: <strong>“I</strong>l delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui<br />

non divien forte se non chi se ne ribella interamente.” Gertrude non seppe o non<br />

volle rompere definitivamente col suo tirannico amante, temendo forse le<br />

conseguenze di una simile ribellione, e dovette perciò obbedire alla dura<br />

imposizione.<br />

Si avvicinava l’ora stabilita per il proditorio rapimento di Lucia; Gertrude,<br />

chiamatala nel proprio parlatorio, le faceva più carezze del solito, <strong>com</strong>e il pastore<br />

accarezza l’agnella mentre, belante e tremante, la conduce fuori dell’ovile per<br />

consegnarla al macellaio. L’ingenua ragazza accettava con gratitudine e<br />

ricambiava quelle carezze “con tenerezza crescente”, appunto <strong>com</strong>e l’agnella,<br />

avviata al macello, si volta ignara a leccare la mano dell’interessato pastore. Dopo<br />

le carezze, la Signora chiese a Lucia di farle un piacere: andare al convento dei<br />

cappuccini per avvertire il Guardiano che doveva parlargli. La poverina, a simile<br />

richiesta, rimase <strong>com</strong>e sbigottita, e per quanto provasse verso la Signora una<br />

grande soggezione, non esitò a esprimere la sua ripugnanza: sola, senza la madre,<br />

per una strada solitaria e quasi sconosciuta… Ma l’altra, “ammaestrata a una scola<br />

infernale”, si mostrò molto meravigliata, e quasi offesa, che non volesse farle<br />

questo piccolo favore, mentre lei gliene faceva di ben più grandi: e poi, di che si<br />

trattava? quattro passi, di pieno giorno, per una strada percorsa pochi giorni<br />

prima; un percorso tanto semplice, che non si poteva addirittura sbagliare!<br />

A queste parole Lucia, mortificata e sconvolta, disse che sarebbe andata: se<br />

però la fattoressa, vedendola uscire per la prima volta, le chiedeva dove andasse,<br />

che cosa doveva rispondere? La Signora le suggerì una bugia, e ciò accrebbe il<br />

turbamento della poverina, che si avviò rassegnata: “e bene; anderò. Dio m’aiuti!”<br />

Ma quando Lucia, tutta sbalordita, stava uscendo dalla stanza, la Signora, che “la<br />

seguiva con l’occhio fisso e torbido”, improvvisamente la richiamò, <strong>com</strong>e<br />

sopraffatta dal pensiero di quel nero tradimento. Ma quando la ragazza fu tornata<br />

davanti alla grata per sentire che cosa volesse, già quel pensiero era stato cacciato<br />

dall’animo di Gertrude da un altro pensiero, “un pensiero avvezzo a predominare”<br />

per mezzo della passione peccaminosa che aveva soggiogato e reso schiavo<br />

113


l’animo della sciagurata. Fingendo allora di non essere contenta delle istruzioni<br />

datele, gliele ripeté, ricordandole la strada da seguire; quindi la congedò di<br />

nuovo, senza più ripensamenti.<br />

Vedendo Lucia costretta in tal modo, con vera violenza morale, a uscire dal<br />

monastero per cadere nell’agguato preparato contro di lei, ci viene in mente l’altro<br />

caso di violenza morale, quando la poverina fu indotta al matrimonio clandestino.<br />

Là Renzo con le sue escandescenze, con le sue terribili minacce, che forse<br />

coscientemente accentuò, costrinse la fidanzata a fare ciò che la sua coscienza non<br />

poteva approvare; qua la tiranna della volontà di Lucia adopera non le minacce,<br />

ma prima le carezze, quindi la meravigliata incredulità di trovare<br />

dell’ingratitudine in colei che aveva tanto beneficato e in cui confidava. Nell’uno<br />

e nell’altro caso la poverina cede per evitare il peggio: a Renzo, perché non<br />

credesse che non l’amava abbastanza, e non <strong>com</strong>mettesse per rabbia qualche atto<br />

inconsulto; a Gertrude, per mostrarle la sua gratitudine, di cui lei aveva dubitato.<br />

Nell’una e nell’altra occasione il suo cedimento è ac<strong>com</strong>pagnato da tanta<br />

sofferenza morale, ma anche da un accorato abbandono nelle mani di Dio, Padre<br />

misericordioso. Ella è convinta di non agire bene, e prevede che ciò che fa non<br />

potrà andare a buon fine; e infatti le conseguenze sono in ambedue i casi tristi: là<br />

il matrimonio fallisce, qua ella cade nella trappola e viene rapita. Ma proprio per<br />

la sua profonda sofferenza e per la sua grande fiducia, il Signore non l’abbandona,<br />

ma la salva, traendo il bene dal male, <strong>com</strong>e sa far solo Lui.<br />

Nel primo caso infatti ella sfugge, proprio a causa del matrimonio clandestino, al<br />

rapimento organizzato da don Rodrigo; nel secondo caso ella cade tra le grinfie<br />

dei bravi dell’Innominato, ma con le sue angosciate parole, col suo pianto, con le<br />

sue accorate preghiere turba prima il Nibbio e poi lo stesso signore, portando a<br />

soluzione positiva la crisi spirituale che lo travagliava da tempo. Per mezzo delle<br />

semplici ma toccanti parole della prigioniera, l’animo dell’Innominato si apre alla<br />

speranza, e passa dalla fosca disperazione notturna alla consolante fiducia nel<br />

perdono divino. La sofferenza di Lucia è quindi strumento di salvezza.<br />

Ma torniamo al racconto. La ragazza, uscendo dal convento, per fortuna non<br />

fu vista dalla fattoressa, e così non si trovò nell’impaccio di dover dire una bugia,<br />

che le ripugnava grandemente, e “tutta raccolta e un po’ tremante” si avviò per la<br />

strada indicatale. Uscita dalla porta del borgo, dovette farsi coraggio per inoltrarsi<br />

in una strada solitaria, poiché, dopo quel primo incontro con don Rodrigo, le<br />

strade le facevano paura, e questo sentimento era andato via via crescendo per le<br />

dolorose vicende che le erano accadute. Ma vedendo, nella strada che conduceva<br />

al convento, una carrozza ferma e due viaggiatori a terra, che sembravano incerti<br />

della via, si sentì alquanto rincorata e procedette più speditamente e meno<br />

preoccupata.<br />

Quando fu nei pressi della carrozza, uno dei due viaggiatori le chiese<br />

cortesemente qual era la strada per Monza; mentre Lucia si voltava per indicarla,<br />

l’altro la prese istantaneamente per la vita e la cacciò nella carrozza, sebbene lei<br />

gridando cercasse di divincolarsi; una volta dentro un altro tristo la inchiodò nel<br />

fondo del sedile, davanti a sé, mentre un terzo con un fazzoletto le tappò la bocca.<br />

114


Il Nibbio, colui che l’aveva presa a tradimento, entrò subito anche lui in carrozza<br />

e chiuse in fretta lo sportello, mentre il cocchiere faceva partire i cavalli di gran<br />

carriera. Colui che “aveva fatta quella domanda traditora” a Lucia era un bravo di<br />

Egidio, il quale rimase un momento sul posto per accertarsi che nessuno avesse<br />

udito le grida; visto tutto calmo, sparì in un baleno anche lui, prendendo per i<br />

campi.<br />

Non mi proverò a descrivere lo stato d’animo della povera ragazza,<br />

sopraffatta dal terrore e dall’angoscia: ella intuiva confusamente la motivazione<br />

del suo rapimento, e ne inorridiva e tremava nelle più intime fibre del suo essere.<br />

Ribellandosi con tutte le forze a quella violenza cercava di divincolarsi per<br />

raggiungere lo sportello, ma delle braccia nerborute la ricacciavano indietro,<br />

mentre il fazzoletto le soffocava in gola il grido. Dopo ripetuti tentativi di liberarsi<br />

da quella morsa, si sentì mancare le forze, sbiancò in viso e svenne, facendo<br />

preoccupare alquanto quei manigoldi, perché sembrava proprio che fosse morta.<br />

Stavano intanto entrando in un bosco, solitamente infestato dai banditi, per cui il<br />

Nibbio ordinò di prendere dalla cassetta i tromboni e di tenerli pronti, ma dietro la<br />

schiena, per non spaventare la ragazza, una volta che fosse rinvenuta; <strong>com</strong>andò<br />

inoltre di non toccarla se non dietro suo ordine, perché a custodirla bastava lui; e<br />

lasciassero parlare lui solo.<br />

Quando la poverina si riebbe, penò alquanto a rendersi conto della sua terribile<br />

situazione; ma non appena ne fu pienamente consapevole, subito cercò, con una<br />

stratta, di gettarsi allo sportello; ma il Nibbio, che stava all’erta, l’afferrò<br />

immediatamente e la costrinse di nuovo a sedersi, minacciando di imbavagliarla<br />

col fazzoletto, se non la smetteva di gridare. Quindi, con la voce più dolce che<br />

poté, cercò di calmarla, assicurandola che essi non volevano farle alcun male, per<br />

cui doveva stare tranquilla. Lucia allora, con le lagrime agli occhi e con voce<br />

accorata, li supplicò di lasciarla andare, per l’amore di Dio e della Madonna: che<br />

cosa aveva loro fatto di male? perché la facevano soffrire così? se avevano una<br />

madre, una moglie, una figlia, pensassero a quello che esse patirebbero trovandosi<br />

in quello stato! Lei perdonava loro di cuore tutto quello che le avevano fatto, ma<br />

la lasciassero andare subito, anche in quel luogo sconosciuto: il Signore le<br />

avrebbe fatto ritrovare la sua strada. Vedendo che non davano retta, insisteva<br />

piangendo a scongiurarli con parole semplici ma toccanti: “Ricordatevi che<br />

dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia.”<br />

Ma sic<strong>com</strong>e quelli non sembravano affatto toccati dalle sue parole, Lucia si<br />

rivolse “a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini”, e incrociate le mani sul<br />

petto, si mise a pregare con molto fervore; quindi, presa la corona che portava<br />

sempre con sé, <strong>com</strong>inciò a recitare mentalmente il santo rosario con tutta la<br />

concentrazione di cui era capace. Ogni tanto interrompeva la preghiera per tornare<br />

a supplicare quegli uomini; ma vedendo che era sempre inutile, riprendeva con<br />

maggiore accoramento il suo rosario, tutta rannicchiata nell’angolo del sedile.<br />

Intanto nel castello l’Innominato attendeva l’esito della spedizione con una<br />

strana inquietudine: non dubitava affatto della sua riuscita, ché anzi poche imprese<br />

erano state altrettanto sicure; eppure sentiva crescere in cuore quel turbamento,<br />

115


quella specie di malessere che aveva provato subito dopo essersi impegnato con<br />

don Rodrigo. A questo punto possiamo fare un utile confronto tra l’Innominato, in<br />

attesa della carrozza, e don Rodrigo quando, nel suo palazzotto, attendeva da un<br />

momento all’altro l’arrivo della bussola con dentro la fanciulla, che il Griso era<br />

stato incaricato di rapire. Don Rodrigo allora si preoccupava solo dell’esito<br />

materiale dell’impresa, e si consolava pensando alle lusinghe che avrebbe usato<br />

per ridurre Lucia alle sue voglie, e già pregustava il piacere del soddisfacimento<br />

del suo turpe capriccio; l’Innominato invece è sicuro dell’esito felice del ratto, ma<br />

non ne prova alcuna soddisfazione, bensì un turbamento molesto, una<br />

preoccupazione quasi angosciosa.<br />

Quando vide, giù in fondo valle, <strong>com</strong>parire la carrozza, sentì <strong>com</strong>e un tuffo al<br />

cuore, e non resistendo più in quella sospensione tormentosa, decise di mandare<br />

uno dei suoi sgherri a ordinare al Nibbio di portare direttamente la ragazza da don<br />

Rodrigo. Mentre però stava per dare quell’ordine, sentì <strong>com</strong>e un “no imperioso”<br />

risonare nella sua mente; ma dovendo pur fare qualche cosa, per liberarsi<br />

dall’angoscia che l’attanagliava, fece chiamare una vecchia serva e le ordinò di<br />

scendere alla Malanotte con una bussola per rilevare la giovane che era nella<br />

carrozza, che avrebbe poi condotta in camera sua, dove ella avrebbe pernottato. Le<br />

<strong>com</strong>andò di non rivelare alla ragazza dove fosse né di chi era il castello, ma per il<br />

resto di accontentarla e di farle coraggio. La vecchia trasalì a quest’ordine,<br />

piuttosto insolito su quella bocca, e chiese che cosa doveva dire per far coraggio<br />

alla prigioniera. Il signore a questa domanda s’infuriò: “Hai tu mai sentito affanno<br />

di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in quei<br />

momenti? Dille quelle parole: trovale, alla malora. Va’.”<br />

La vecchia era nata nel castello, da un custode di esso, ed era cresciuta nella<br />

venerazione dei padroni, che per lei erano <strong>com</strong>e divinità in terra, e il castello era<br />

tutto il suo mondo. Allorché l’Innominato, divenuto padrone assoluto, <strong>com</strong>inciò a<br />

instaurare all’intorno una tirannide feroce e sanguinaria, ella ne provò “un<br />

sentimento più profondo di sommissione.” Fattasi ragazza da marito, aveva<br />

sposato un servitore della casa, il quale però non tornò più da una certa<br />

spedizione. La pronta e spietata vendetta che ne fece il signore accrebbe la sua<br />

totale sottomissione al potente padrone, che per lei era tutto. Rimasta vedova,<br />

aveva dovuto accudire agli sgherri, <strong>com</strong>pagni del suo morto marito; ma fattasi<br />

vecchia, era diventata un po’ lo zimbello di quei manigoldi, che usualmente la<br />

chiamavano “vecchia”, ma a questa parola aggiungevano sempre qualche epiteto<br />

di beffa e di scherno. Ma la donna, il cui animo si era depravato e indurito sempre<br />

più vivendo per tutta la vita in quell’ambiente sinistro, non si teneva affatto<br />

quegl’insulti, ma rispondeva pronta con altri improperi “in cui Satana avrebbe<br />

riconosciuto più del suo ingegno” che nelle parole degli insultatori. Non è da<br />

meravigliarsi che una donna simile si stupisse dell’ordine di far coraggio a una<br />

prigioniera, a meno che non fosse una principessa, e non sapesse in effetti <strong>com</strong>e<br />

doveva fare, quali parole usare per rincuorare una creatura. In quel castello ella<br />

aveva dovuto cucire, rattoppare, cucinare, ripulire, rigovernare, spazzare, medicar<br />

ferite, brontolare, sentire a dire parolacce; ma non le era mai capitato di dover<br />

116


consolare una persona dicendo qualche parola gentile e buona, e il suo cuore si era<br />

inacidito in quella vita vissuta, sin quasi dall’infanzia, senza alcuna luce spirituale,<br />

senza alcun barlume di carità. Tanto l’ambiente può depravare l’animo umano,<br />

fatto per intendere e amare!<br />

Comunque, di parole di consolazione, aveva allora bisogno non tanto Lucia,<br />

che aveva la sua Fede, quanto l’Innominato, il cui animo era attanagliato ormai<br />

dal rimorso, e non più soltanto dall’inquietudine e dalla sospensione penosa. E<br />

mentre la vecchia correva a eseguire i suoi ordini, lui per dominare l’impazienza<br />

tormentosa camminava nervosamente su e giù per la stanza, dove attendeva il<br />

Nibbio che doveva fargli la relazione dell’impresa.<br />

117


CAPITOLO XXI<br />

La vecchia giunse con la bussola alla Malanotte un po’ prima della carrozza la<br />

quale ormai, per la stanchezza dei cavalli, procedeva piuttosto lenta e, per lo stato<br />

d’animo dell’Innominato, addirittura “col passo della morte”; ordinò al Nibbio di<br />

trasferire nella bussola la prigioniera, che lei stessa invitò, con la miglior voce che<br />

poté, a scendere dalla carrozza e a seguirla, aggiungendo che aveva ordine di<br />

trattarla bene e di farle coraggio. Se non ci trovassimo davanti al doloroso calvario<br />

di Lucia, ci verrebbe davvero da ridere dinanzi alla rozzezza di questa donna la<br />

quale, per confortare la poveretta, non sa dire altro se non che ha ricevuto ordini<br />

di farle coraggio. Essa si preoccupa soltanto dell’ordine ricevuto, perché teme<br />

l’ira del padrone, e non fa che ripetere alla sconsolata giovane: “Glielo direte, eh?,<br />

che v’ho fatto coraggio?” E in seguito, per precostituirsi <strong>com</strong>e un alibi, continuerà<br />

ad ammonirla: ricordatevi che vi ho fatto coraggio… ricordatevi che vi ho invitato<br />

più volte a mangiare… ricordatevi che vi ho esortato ripetutamente a venire a<br />

letto… L’unica preoccupazione della sciagurata non era nei riguardi della<br />

poverina, il cui penare non la toccava affatto, perché non lo <strong>com</strong>prendeva, ma<br />

verso il padrone, che non avesse a rimproverarla o peggio. Ma non era colpa sua!<br />

Lucia, al fermarsi della carrozza, si riscosse <strong>com</strong>e da un tormentoso torpore, e<br />

alle parole della vecchia sconosciuta, temendo ormai ogni cosa nuova, provò uno<br />

spavento più cupo, per cui non mostrava nessuna intenzione di lasciare la<br />

carrozza; sicché dovettero prenderla e metterla di peso nella bussola. La vecchia<br />

vi entrò subito dopo, e i lettighieri avviarono le mule su per la salita. La ragazza<br />

allora, piena d’angoscia, chiese alla donna dove la conducesse; al che quel “ceffo<br />

sconosciuto e deforme”, cercando di fare la voce dolce e suadente, rispose che la<br />

portava da uno che voleva farle del bene, tanto che le aveva <strong>com</strong>andato di farle<br />

coraggio… Ma la poverina, più spaventata che mai, scongiurò la donna di<br />

lasciarla andare, di ac<strong>com</strong>pagnarla in qualche chiesa, in nome della Vergine<br />

Maria… Questo nome soave, non sentito e non invocato ormai da tanto tempo,<br />

fece nella mente della vecchia un’impressione indistinta, suscitando un vago e<br />

lontano ricordo, “<strong>com</strong>e la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da<br />

bambino”; e la similitudine, di icastica evidenza, rende appieno la pena per quella<br />

cecità spirituale.<br />

Intanto il Nibbio, raggiunto a piedi il castello, fece la sua relazione nello stile<br />

laconico a cui erano stati avvezzati dal padrone, il quale aveva organizzato il<br />

castello <strong>com</strong>e una fortezza e addestrato i suoi uomini <strong>com</strong>e dei veri soldati.<br />

L’impresa era riuscita perfettamente: “l’avviso a tempo, la donna a tempo,<br />

nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno <strong>com</strong>parso, il cocchiere pronto, i cavalli<br />

bravi, nessun incontro: ma…” Tutto era andato dunque nel modo migliore, però<br />

c’era un “ma” veramente inaspettato, un inconveniente del tutto insolito in simili<br />

imprese: quella povera ragazza aveva fatto al Nibbio, cuore certo non tenero, tanta<br />

<strong>com</strong>passione, che avrebbe cento volte preferito che l’ordine fosse stato piuttosto<br />

118


“di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in<br />

viso.” E aggiunse, l’intrepido luogotenente, che la <strong>com</strong>passione è un po’ <strong>com</strong>e la<br />

paura: guai a lasciarla entrare nel cuore! uno non è più un uomo! L’Innominato,<br />

sbalordito nel sentir parlare così quell’uomo solitamente così duro e deciso, gli<br />

chiese cosa mai avesse fatto colei per muoverlo a pietà. Saputo che per tutta la<br />

strada, che era durata più di quattr’ore, la poverina non aveva fatto altro che<br />

piangere e pregare, poi svenire <strong>com</strong>e morta, quindi di nuovo supplicare e dire<br />

certe parole da <strong>com</strong>muovere il cuore più duro, il signore pensò che la migliore<br />

cosa da fare era di sbarazzarsi subito di questa strana ragazza, che aveva fatto<br />

<strong>com</strong>passione al Nibbio, e ordinò a costui di montare immediatamente a cavallo<br />

per andare ad avvertire don Rodrigo che mandasse a prendere la donna, ma subito<br />

subito, ché altrimenti… Ma improvvisamente un “no interno più imperioso del<br />

primo” gli fece annullare l’ordine, per cui <strong>com</strong>andò al suo luogotenente di<br />

andarsene invece a riposare: l’indomani avrebbe saputo il da farsi.<br />

Fermiamoci un istante a considerare la figura del Nibbio, confrontandola con<br />

quella del Griso, suo collega, per così dire. Esprimendoci matematicamente, con<br />

una proporzione potremmo dire che il Nibbio sta al Griso <strong>com</strong>e l’Innominato sta a<br />

don Rodrigo: il Griso infatti è vile <strong>com</strong>e il suo padrone, e alla fine si rivelerà, lui,<br />

il fedelissimo, un abbietto traditore, e farà la fine che si merita; il Nibbio invece è,<br />

nel fondo dell’animo, generoso e magnanimo, proprio <strong>com</strong>e il suo signore; ha<br />

ancora, sotto la dura scorza del masnadiero, un cuore umano, che palpita e si<br />

<strong>com</strong>muove. Per quanto il Manzoni non parli più di lui dopo questo episodio,<br />

possiamo essere certi che il Nibbio, uomo franco e servitore fedele, rimarrà vicino<br />

al suo padrone anche nella conversione, inizio di una nuova vita, fatta di<br />

riparazione e di opere benefiche.<br />

Quando l’Innominato restò solo, dopo aver congedato il suo luogotenente,<br />

rimase lì a ripensare alla strana <strong>com</strong>passione di lui, e sempre più ne rimaneva<br />

stupito; per cui, ad evitare di essere contagiato, ribadì in cuor suo il proposito di<br />

mandare senz’altro al suo destino la ragazza, l’indomani mattina. Ma dal fondo<br />

del suo animo sorgeva e si faceva sentire sempre più vivo il desiderio di vederla,<br />

di sentire le sue parole; non era curiosità, ma <strong>com</strong>e uno strano bisogno, una specie<br />

d’attrazione inspiegabile, misteriosa quanto potente. Dopo aver resistito alquanto,<br />

dovette cedere a questo nuovo impulso, e s’avviò verso la camera della vecchia,<br />

dove Lucia era stata condotta; era convinto che non avrebbe dovuto farlo, eppure<br />

ci andava!<br />

Picchia con un calcio, facendo accorrere ad aprire la vecchia, che ne ha<br />

riconosciuto la voce; entrato, volge imperioso lo sguardo in giro e, alla fioca luce<br />

della lucerna, scorge la povera ragazza tutta raggomitolata sul pavimento,<br />

nell’angolo della stanza più buio e più lontano dalla porta. Subito ne prova un<br />

senso di <strong>com</strong>passione: a lui non aveva fatto niente di male, eppure la faceva<br />

soffrire così! Dopo aver rimproverato la serva per averla gettata là a terra <strong>com</strong>e<br />

uno straccio, si avvicinò a Lucia e le disse di alzarsi, una e due volete senza che la<br />

poverina si movesse; per cui, sdegnato per aver <strong>com</strong>andato invano, le gridò di<br />

mettersi in piedi con tono iracondo, tale da non ammettere né ripulsa né indugio.<br />

119


Allora l’infelicissima, prendendo per così dire vigore dal suo stesso spavento, si<br />

sgroppò ma, senza alzarsi, si inginocchiò davanti a lui dicendo: “Son qui:<br />

m’ammazzi.” Il signore, con voce tutt’un tratto raddolcita davanti a “quel viso<br />

turbato dall’accoramento e dal terrore”, disse che non voleva farle alcun male, con<br />

un tono quasi di scusa, che fece trasecolar la vecchia. Allora la ragazza, con<br />

accento disperato di rimprovero, gli domandò: “Perché mi fa patire le pene<br />

dell’inferno? Cosa le ho fatto io?”E vedendo una certa esitazione nel<br />

<strong>com</strong>portamento del signore, e la <strong>com</strong>passione interna trasparire pur dai duri<br />

lineamenti del suo volto, aggiunse con tono smorzato: “Sono una povera creatura:<br />

cosa le ho fatto? In nome di Dio…”<br />

A quel nome l’Innominato reagì, <strong>com</strong>e se fosse stato schiaffeggiato, perché<br />

appunto quel Dio lo perseguitava da tempo con la sua grazia, non dandogli più<br />

pace, mentre lui non voleva cedere, non voleva arrendersi, per non perdere la<br />

faccia davanti al mondo: pretendeva forse, con quel nome, di fargli paura? Ma la<br />

povera ragazza rispose con umile semplicità: “cosa posso pretendere io meschina,<br />

se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di<br />

misericordia!... Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia<br />

vita…” A queste parole <strong>com</strong>moventi il signore appariva esitante, per cui Lucia<br />

insistette con maggiore accoramento: “Non iscacci una buona ispirazione!... Se lei<br />

non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita;<br />

ma lei!... Forse un giorno anche lei… Ma no, no; pregherò sempre io il Signore<br />

che la preservi da ogni male… Se provasse lei a patir queste pene…”<br />

L’Innominato era turbato, tocco da quelle parole inaudite nelle più intime fibre<br />

dell’animo; la sua <strong>com</strong>mozione trasparì dal tono della voce con cui cercò di far<br />

coraggio alla ragazza, ripetendo che non intendeva farle alcun male, e che sarebbe<br />

tornato da lei l’indomani; intanto le avrebbero portato da mangiare, ché doveva<br />

averne molto bisogno…” No, no – disse precipitosamente Lucia – io muoio se<br />

alcuno entra qui; io muoio. Mi conduca lei in chiesa… quei passi Dio glieli<br />

conterà.”<br />

Non possiamo non notare, a questo punto, la fiducia che ormai la derelitta<br />

fanciulla nutre in colui che pur l’ha fatta rapire, per via d’inganno e di violenza;<br />

ella, che diffida di tutto e di tutti, tanto che non vuole neppure che qualcuno venga<br />

a portar da mangiare, si mostra disposta ad andare col signore, e lo prega<br />

addirittura di ac<strong>com</strong>pagnarla in una chiesa, <strong>com</strong>e potrebbe fare un padre con la<br />

figliola. Lucia, quest’anima pura e sensibile, questa prediletta della grazia divina,<br />

ha intuito che il Signore ha ormai conquistato l’animo del suo rapitore, il quale<br />

non le potrebbe più fare alcun male. E’ proprio il caso di ripetere: “beati i puri di<br />

cuore, poiché vedranno Dio!” Lucia già vede in Dio la futura conversione<br />

dell’uomo che l’ha in suo potere, e non ne dubita minimamente; e possiamo<br />

aggiungere che lei stessa è lo strumento, non del tutto inconsapevole, di questa<br />

mirabile mutazione interiore.<br />

Comunque l’Innominato, sentendo che ormai il suo cuore vacilla, e<br />

vergognandosi di dover cedere all’impeto della <strong>com</strong>mozione, si affretta ad<br />

andarsene; dopo aver assicurato, per dissipare il sospetto della fanciulla, che<br />

120


sarebbe venuta “una donna” a portar da mangiare, fugge quasi dalla presenza di<br />

lei, che tenta invano di trattenerlo. La poveretta, vedendo svanire la speranza di<br />

essere liberata dal potente signore, ripiombò nel più cupo abbattimento, e tornò a<br />

rincantucciarsi nel suo angolo buio. Poco dopo venne Marta, una cuoca del<br />

castello, a portare una paniera colma di cibo: delle pietanze scelte, ac<strong>com</strong>pagnate<br />

da una bottiglia di vino generoso. La vecchia si mise a decantare la squisitezza<br />

delle vivande, per indurre la prigioniera ad assaggiarne almeno, ma questa aveva<br />

altra voglia che di mangiare; si mosse solo per assicurarsi che la porta fosse ben<br />

chiusa, quindi tornò nel suo cantuccio piangendo sommessamente. La vecchia<br />

mangiò allora lei, e con grande voluttà, di quei cibi prelibati; quindi dopo aver<br />

invitato invano la ragazza ad andare a letto, invece di stare raggomitolata lì a terra,<br />

ci si coricò lei, assicurando che c’era posto sufficiente per tutt’e due, e dopo pochi<br />

minuti già russava con un rumore soffocato, <strong>com</strong>e di rantolo, che risonava<br />

sinistramente nel pauroso silenzio notturno.<br />

Lucia, raggomitolata nell’angolo, mortalmente stanca e sfiduciata, cadde a<br />

poco a poco in una specie di dormiveglia, punteggiato da incubi e da fantasmi<br />

spaventosi. Infine, quasi senza accorgersene, cadde sdraiata sul pavimento, vinta<br />

da un torpore più profondo. Ma ben presto si riscosse da quella specie di letargo, e<br />

penò alquanto a riconoscere il luogo dove si trovava, debolmente rischiarato, a<br />

guizzi, dalla lucerna che andava spegnendosi: il silenzio che dominava nella tetra<br />

prigione, era rotto solo dal respirare lento e arrantolato della vecchia, che aveva<br />

qualcosa di lugubre e di sinistro. Quell’atmosfera di quiete sospesa e paurosa,<br />

l’abbandono stesso in cui era lasciata, le incussero un più forte e indefinito<br />

spavento, tanto che desiderò di morire. Ma ben presto si riebbe da quello<br />

sconsolato abbattimento, pensando a Dio e alla Madonna, che non potevano<br />

averla abbandonata: il Signore e la Vergine Santa sapevano che lei era lì<br />

prigioniera e bisognosa di aiuto; alquanto riconfortata, cercò la corona e riprese la<br />

recita del rosario con più fervore del solito. A poco a poco la fiducia e la speranza<br />

le rifiorirono nell’animo; ma a un tratto pensò che poteva rendere la sua preghiera<br />

più accetta a Dio per mezzo di un sacrificio; e avendo alquanto riflettuto su ciò<br />

che potesse offrire di più caro, decise di far sacrificio a Dio del suo amore per<br />

Renzo, rinunciando per sempre a diventare sua moglie, col voto di verginità<br />

perpetua. E senza indugio, messasi in ginocchio, si rivolse con fervida preghiera<br />

alla Madre Celeste, facendo a Lei offerta del suo amore, rinunciando per sempre a<br />

“quel suo poveretto”, per esser da quel momento in poi tutta della Madonna.<br />

Pronunciate le parole del voto, si mise intorno al collo la corona, “<strong>com</strong>e<br />

un‘armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta”, la milizia mistica e gloriosa<br />

delle vergini. Rimessasi quindi a sedere sul pavimento, si sentì il cuore inondato<br />

da un nuovo senso di conforto, da una più forte fiducia nell’aiuto celeste: aveva<br />

offerto a Dio ciò che aveva di più prezioso, ed Egli non poteva abbandonarla in<br />

quel pericolo, in cui era caduta non per sua imprudenza, ma per l’altrui perfidia. E<br />

acquietandosele l’animo, anche il corpo riuscì finalmente ad assopirsi in un sonno<br />

vero e proprio, non più turbato da incubi paurosi. Ma torniamo all’Innominato.<br />

121


Uscito, o meglio fuggito dalla presenza di Lucia, diede ordine di recare alla<br />

prigioniera, probabilmente, quel pasto che era stato preparato per lui, non avendo<br />

affatto voglia di mangiare, sottosopra <strong>com</strong>’era nell’animo; ispezionati quindi,<br />

<strong>com</strong>e di consueto, i vari posti di guardia del castello, si ritirò nella sua camera,<br />

chiudendosi a chiave in gran fetta, <strong>com</strong>e se qualcuno lo inseguisse. Chi lo<br />

inseguiva non era altro che la grazia di Dio, contro la quale non servono le porte e<br />

le serrature. Si cacciò subito sotto le coperte, pur sapendo che non facilmente<br />

avrebbe chiuso occhio quella notte, tanto si sentiva sconvolto. Cominciò col<br />

rimproverarsi di aver voluto vedere quella fanciulla, <strong>com</strong>e se ciò fosse dipeso<br />

soltanto da una sua sciocca curiosità, e non piuttosto da un impulso prepotente<br />

dello spirito; cercò, minimizzando quanto gli stava succedendo, di riprendere il<br />

suo animo antico, la sicurezza imperturbata di un tempo: tante altre volte – diceva<br />

tra sé per rianimarsi – aveva sentito strillare o belare delle donne, capitate per loro<br />

sfortuna tra le sue grinfie, e le loro lagrime supplichevoli non l’avevano punto<br />

smosso dai suoi biechi propositi di violenza o di vendetta; questa che provava ora,<br />

era certamente una debolezza passeggera, che sarebbe svanita con le tenebre della<br />

notte. Cercava di farsi coraggio ripensando a tutte quelle imprese in cui aveva<br />

vinto i suoi nemici, rimanendo sordo alle preghiere e ai lamenti; ma otteneva<br />

l’effetto contrario: quelle azioni spietate, già suo vanto, ora gli apparivano odiose;<br />

provava, nel passarle in rassegna, non orgoglio e fierezza <strong>com</strong>e una volta, ma<br />

“una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento.” Allora pensava, con<br />

un senso di sollievo, che poteva almeno, se non cancellare le passate nefandezze,<br />

interrompere e riparare quella presente, liberare la fanciulla, chiederle perdono, sì,<br />

chiederle proprio perdono, se questo poteva servire a fargli trovare un po’ di pace,<br />

un qualche refrigerio. Ma poi si pentiva del suo pentimento, che gli appariva <strong>com</strong>e<br />

una vergognosa debolezza, e cercava di recalcitrare ancora, di non farsi sopraffare<br />

dalla “diavoleria” che aveva addosso; si mise perciò a pensare alle imprese che lo<br />

attendevano, a quelle che aveva già avviate ma non <strong>com</strong>piute, e si sforzava di<br />

concentrarsi in esse, studiando minutamente i relativi piani di azione, cosa che in<br />

altri tempi soleva occuparlo tutto, facendogli dimenticare ogni altro pensiero.<br />

Ma con terrore si accorse che quelle imprese non avevano per lui nessuna<br />

attrattiva, che non gl’importava più minimamente di condurle a termine, che la<br />

vittoria e l’affermazione della sua potenza ora non avevano per lui nessuna<br />

importanza. Passando in rassegna i suoi bravi, gli sembrava che non avesse più<br />

nulla da <strong>com</strong>andare a nessuno di loro; anzi il doverli rivedere, l’indomani, quegli<br />

spietati ministri dei suoi misfatti, gli dava già un senso di fastidio, quasi di nausea.<br />

E pensava al tempo futuro, al domani, al dopodomani, all’altro giorno ancora…<br />

tutto il tempo uguale, opprimente… senza aver nulla da fare, nulla da <strong>com</strong>andare,<br />

nulla di nuovo da aspettare se non la morte, e con il ricordo tormentoso dei suoi<br />

delitti… E poi la notte, che puntualmente sarebbe tornata dopo la breve luce,<br />

<strong>com</strong>e passarla, <strong>com</strong>e poter dormire con quegl’incubi paurosi, con quei fantasmi<br />

che non gli davano requie? L’idea di un’altra notte, simile a quella che stava<br />

passando, già lo terrorizzava. Riesaminava la propria vita, cercando di trovare<br />

qualche valore a cui appigliarsi, rievocava le sue imprese, i suoi misfatti, per<br />

122


trovarvi una motivazione; ma essi gli <strong>com</strong>parivano davanti <strong>com</strong>e qualcosa di<br />

enormemente irragionevole, di veramente mostruoso. Spogli dello stato d’animo,<br />

d’ira o d’odio o di vendetta o d’emulazione feroce, che li aveva provocati e<br />

ac<strong>com</strong>pagnati, essi gli apparivano ora brutti., inconcepibili, efferati; eppure lui li<br />

aveva voluti, preparati con fredda meticolosità, eseguiti con feroce<br />

determinazione; aveva goduto della loro riuscita,… erano suoi, erano lui!... non si<br />

sarebbe mai più liberato da quelle tormentose memorie, se non con la morte.<br />

Egli - lo sentiva – non si sarebbe mai più liberato di quel canchero che lo<br />

rodeva dentro, di quel morso lancinante e ormai irresistibile, perché il suo stesso<br />

pensiero, quasi fosse un altro io sorto a condannare l’antico, frugava sempre più<br />

spietatamente in quell’odioso passato. L’orrore che provava di quella sua vita,<br />

piena solo di delitti, crebbe sino ai limiti della sopportazione umana, sino alla più<br />

nera disperazione; non ne poteva più, e decise di farla finita. Prese in furia la<br />

pistola che teneva accanto al letto, armò convulsamente il cane e si appoggiò alla<br />

fronte la canna per farsi saltar le cervella. Ma sul momento di premere il grilletto,<br />

ebbe un sussulto, un attimo di indecisione, e abbassò l’arma; pensò, in un<br />

momento di lucidità mentale, a ciò che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, nel<br />

tempo che pure continuerebbe a scorrere, anche senza di lui. Immaginò il suo<br />

corpo esanime in balia di chi sa chi, la confusione, la baraonda nel castello<br />

all’incredibile notizia, pensò alle reazioni, ai <strong>com</strong>menti dei suoi amici e dei suoi<br />

nemici, a ciò che avrebbero pensato di lui i suoi stessi sudditi. La morte, in mezzo<br />

a quelle tenebre silenziose e nella più assoluta solitudine, gli appariva squallida e<br />

spaventosa… non avrebbe esitato a suicidarsi – ne era sicuro – se si fosse trovato<br />

alla luce del giorno, davanti alla gente… ma stando solo, nel buio, la morte gli<br />

faceva un altro effetto, gli faceva paura insomma. Strano, ma aveva paura di<br />

morire. E poi, ammesso che si fosse tolta la vita, quella vita insopportabile, che<br />

sarebbe stato di lui? se c’è la vita dell’anima, quella eterna, che sarebbe stato della<br />

sua vita? e se non c’è, se tutto finisce con la morte del corpo, perché tormentarsi<br />

per ciò che aveva fatto, perché darsi la morte? a chi doveva rendere conto e di che<br />

cosa?... Ma se la vita futura c’è, se Dio esiste, se l’anima è immortale, la sua dopo<br />

la morte del corpo sarebbe <strong>com</strong>parsa subito davanti al suo tribunale, per sottoporsi<br />

al suo infallibile giudizio… Neppure con la morte poteva dunque liberarsi da<br />

quella angosciosa oppressione, da quell’incertezza disperata? doveva continuare a<br />

vivere con l’inferno nel cuore?...<br />

Dopo aver più volte alzato e abbassato convulsamente il cane della pistola, la<br />

buttò via e, con le mani sulle tempie, tremava tutto e batteva i denti <strong>com</strong>e un<br />

bambino atterrito nelle tenebre. A un tratto ripensò a Lucia, la rivide nitida<br />

davanti agli occhi della mente, ma non più <strong>com</strong>e una povera fanciulla supplice e<br />

desolata, ma <strong>com</strong>e una soave creatura dispensatrice di grazie. Risentì le sue parole<br />

semplici e <strong>com</strong>moventi, che ora assumevano per lui un suono dolce e persuasivo:<br />

Dio perdona tante colpe per un’azione buona!... Sì, l’avrebbe liberata, le avrebbe<br />

chiesto perdono, avrebbe invocato dalle sue labbra altre parole di consolazione,<br />

<strong>com</strong>e quelle che ora gli riempivano l’animo di fiducia. Ma poi? che poteva ancora<br />

fare di bene? <strong>com</strong>e riparare a tanti delitti ormai consumati e irrevocabili? essi lo<br />

123


avrebbero sempre tormentato col lancinante rimorso, specie la notte, nell’insonnia<br />

angosciosa e insopportabile, popolata di mille fantasie spaventevoli! Come<br />

liberarsi da essi?... E che cosa avrebbe fatto della sua vita, se doveva pur vivere?<br />

Ora pensava di andarsene solo, lontano, dove nessuno lo conoscesse; doveva<br />

fuggire da quel luogo, dove ogni oggetto gli ricordava il tenebroso passato, andare<br />

lontano da quell’ambiente odioso!... Ma capiva che non poteva fuggire lontano da<br />

sé stesso, che lui sarebbe sempre stato lui, ovunque, e il canchero tormentoso del<br />

rimorso lo porterebbe sempre con sé, dovunque andasse, checché facesse… In<br />

certi momenti gli rispuntava, pur fioca, la speranza che tutto svanirebbe col tornar<br />

della luce, che era semplicemente un incubo notturno, che presto cesserebbe; ma<br />

poi sentiva che la luce del giorno, che ormai non poteva tardar troppo, non<br />

avrebbe certo migliorato la sua penosa situazione, anzi l’avrebbe peggiorata,<br />

mostrandolo ai suoi sudditi in quello stato di pietosa impotenza. Pur smaniava di<br />

far qualcosa, di togliersi da quell’inazione snervante; e sospirava allora la fine<br />

della notte, <strong>com</strong>e se l’alba dovesse portare la luce anche nel suo spirito.<br />

Mentre era in così penosa sospensione e ansietà d’animo, sentì uno scampanio<br />

lontano, che sembrava a festa, e per chi? chi era così allegro in questo mondo,<br />

mentre lui era in preda alla disperazione? “saltò fuori da quel covile di pruni”, e<br />

andò alla finestra a guardare: il cielo era coperto, e una caligine leggera velava i<br />

contorni delle montagne; laggiù nella strada si distinguevano dei viandanti, tutti<br />

diretti verso lo sbocco della valle, e si vedeva che camminavano a passo allegro,<br />

<strong>com</strong>e a un appuntamento festivo. Dove andavano coloro con tanta sollecitudine?<br />

che avevano da fare o da vedere di tanto interesse?... Chiamato un bravo, lo<br />

mandò a informarsi della novità: sentiva nel cuore <strong>com</strong>e un’ansia di sapere chi o<br />

che cosa potesse attrarre così, e dare quella gioia a tanta gente diversa.<br />

124


CAPITOLO XXII<br />

L’uomo, tornato poco dopo, gli riferì che quei viandanti erano diretti a un<br />

paese vicino, per vedere il cardinal Federigo Borromeo, che era giunto là in visita<br />

pastorale; la notizia si era sparsa il giorno prima nella vallata, e tutti volevano non<br />

perdere l’occasione di incontrasi con lui. Rimasto solo, l’Innominato restò alla<br />

finestra, attratto da quello spettacolo insolito, fisso a quella gente che, anche così<br />

da lontano, appariva mossa da un lieto entusiasmo; e la cosa gli sembrava così<br />

nuova, così strana! Per vedere un uomo dovevano mostrarsi così lieti! Eppure<br />

anche loro – pensava – avranno i propri guai, non certo <strong>com</strong>e i miei, ma sembra<br />

che li abbiano dimenticati in un trasporto di gioia… Come farà costui ad attirare e<br />

rendere allegre queste persone? distribuirà un po’ di denaro in elemosina!... Ma<br />

non tutti sono poveri costoro!... dirà anche delle parole buone, di quelle che<br />

sappiano consolare, che facciano scordare gli affanni… quelle parole che ci<br />

vorrebbero per me!... Se andassi anch’io?...<br />

Stette un momento in sospeso, a riflettere su quell’ipotesi che gli era venuta in<br />

mente quasi inavvertita, chi sa <strong>com</strong>e, ma che gli appariva sempre più accettabile,<br />

realizzabile, desiderabile, tanto che alla fine essa gli si presentò <strong>com</strong>e l’unica<br />

maniera di uscire da quello stato di sospensione tormentosa, in cui si dibatteva da<br />

tante ore ormai senza trovare una via d’uscita o almeno uno spiraglio di salvezza.<br />

Gli sembrava che quella sola potesse essere ormai la soluzione della sua crisi:<br />

andare a parlare con quell’uomo straordinario, sentire le sue parole, vedere che<br />

cosa avrebbe saputo dirgli per ridare la calma al suo animo…<br />

Presa così la decisione quasi d’impeto, <strong>com</strong>e trasportato da un’invincibile<br />

forza interiore, tagliò corto alle esitazioni e alle obiezioni che pure insorgevano a<br />

contrastare il suo improvviso proposito e, vestitosi rapidamente, uscì armato al<br />

modo solito, cioè con pugnale, due pistole e carabina, e s’avviò frettoloso verso la<br />

camera della vecchia, per vedere <strong>com</strong>e stesse la sua prigioniera, che ormai gli<br />

appariva in aspetto di salvatrice. Questa volta non picchiò brutalmente, <strong>com</strong>e la<br />

sera avanti, con un calcio alla porta, ma bussò sommessamente, facendo<br />

contemporaneamente sentire la sua voce: questo cambiamento nel<br />

<strong>com</strong>portamento è indice del profondo mutamento interiore che stava verificandosi<br />

in lui.<br />

La donna, riconosciuta la voce, corse ad aprire al padrone il quale, vedendo la<br />

ragazza addormentata a terra, rimproverò sottovoce la vecchia, che però protestò<br />

che lei aveva fatto di tutto per farla mangiare e andare a letto, ma inutilmente;<br />

<strong>com</strong>unque il signore le <strong>com</strong>andò di non disturbarla; quando si fosse svegliata,<br />

doveva dirle che lui sarebbe presto tornato per esaudire tutti i suoi desideri. La<br />

vecchia rimase sbalordita a queste parole, e sempre più si convinse che colei fosse<br />

qualche gran dama, vestita da contadina. Questa donna selvatica, tutta animalità<br />

primitiva, senza alcuna luce spirituale, non può minimamente pensare che il<br />

cambiamento del padrone possa derivare da una crisi di coscienza, da un<br />

125


pentimento insomma; essa pensa a un qualche evento esterno, che abbia fatto<br />

riconoscere nella contadinella addirittura una principessa. La sera prima, le<br />

insolite cortesie del signore verso la prigioniera, le ascrive alla giovinezza e<br />

bellezza della ragazza, e si rammarica stizzosamente di essere vecchia, lei, e di<br />

non ricevere simili gentilezze; ora questa mirabolante cedevolezza del suo<br />

padrone, tanto da promettere di <strong>com</strong>piere ogni suo desiderio, non sa motivarla che<br />

con la condizione sociale della prigioniera. La povera vecchia, abbrutita in<br />

quell’ambiente di violenza, non può minimamente pensare a una rigenerazione<br />

spirituale del dispotico padrone, e immagina la favola di una bella principessa,<br />

arrestata in veste di contadinella, ma poi insperatamente riconosciuta, proprio<br />

<strong>com</strong>e aveva sentito raccontare talora da bambina. La sua mente, purtroppo, non<br />

può intuire un dramma interiore, per il semplice motivo che “non percipit ea quae<br />

sunt spiritus”, e non può quindi immaginare di trovarsi davanti a una conversione.<br />

Poveretta! merita più <strong>com</strong>passione che condanna, perché nessuno aveva aperto gli<br />

occhi della sua mente sui veri valori della vita; quanti sono purtroppo quelli che<br />

sulla terra vivono, per ignoranza o altro motivo, in un tale stato di ottusità!<br />

L’Innominato, uscendo dalla stanza della vecchia, riprese la sua carabina che,<br />

per non spaventare Lucia, aveva appoggiato fuori in un angolo; quindi <strong>com</strong>andò a<br />

Marta (la donna che aveva portato da mangiare la sera precedente) di starsene<br />

nella stanza attigua, se mai la ragazza avesse bisogno di qualche cosa; ordinò poi<br />

a uno dei bravi di mettersi di guardia lì nel corridoio, perché nessuno osasse<br />

entrare dov’era Lucia, e infine uscì dal castello tutto solo, cosa piuttosto insolita.<br />

A questo punto non possiamo fare a meno di notare le precauzioni delicate e quasi<br />

paterne che l’Innominato prende, affinché la sua prigioniera non venga infastidita<br />

e neppure minimamente disturbata; ormai egli si sente responsabile di quella vita,<br />

di quella virtù, e non vuole che corra il benché minimo pericolo; anche queste<br />

premurose cautele testimoniano il suo animo mutato e la sua rispettosa<br />

ammirazione per la virtuosa fanciulla.<br />

Il Manzoni dice che l’Innominato, lasciato il castello, “prese la scesa, di<br />

corsa”; l’espressione ci sembra alquanto esagerata, ma ben illustra la santa fretta<br />

che ormai pungola l’uomo, tocco dalla grazia divina. I bravi che lo incontravano,<br />

in quello che era il suo piccolo regno, si fermavano salutando e attendendo ordini;<br />

ma lui non aveva ordini da impartire, e continuava la sua strada assorto e<br />

frettoloso, per cui i suoi sudditi non sapevano che cosa pensare, e per la sua uscita<br />

solitaria e per il portamento insolito: il suo viso, il suo sguardo, tutta la sua<br />

persona aveva qualcosa di nuovo e di strano. Quando, uscito dai suoi<br />

possedimenti, entrò nella strada pubblica, la gente si scappellava e gli faceva<br />

largo, meravigliandosi anch’essa di vederlo senza scorta, cosa più unica che rara.<br />

Al paese dov’era il Cardinale, distante dal castello quanto “una lunga<br />

passeggiata” (quindi un tre o quattro miglia, io penso) una gran folla gremiva le<br />

strade, ma al suo avvicinarsi si apriva silenziosa, facendo ala, sicché in breve il<br />

signore giunse alla canonica, dove aveva saputo che si trovava Federigo<br />

Borromeo. Lì entrò in un cortiletto, dove i preti in attesa lo guardarono con<br />

meraviglia non scevra di sospetto; posata la carabina in un canto, andò avanti e si<br />

126


affacciò in un salottino, dove si trovavano altri sacerdoti; a uno di questi chiese<br />

dove fosse il Cardinale, ché gli doveva parlare. L’interrogato, scusandosi col fatto<br />

di essere forestiero, ma in effetti perché non si voleva prendere la responsabilità di<br />

una risposta in una situazione così scabrosa, chiamò il cappellano crocifero, che<br />

fungeva praticamente da segretario del porporato. Il cappellano, che anche lui non<br />

sapeva <strong>com</strong>e regolarsi davanti a questa visita molto strana, per non dir sospetta,<br />

rispose balbettando che non sapeva se monsignore illustrissimo in quel momento<br />

si trovasse disposto… se insomma fosse libero e potesse riceverlo, e che andava a<br />

informarsi; così si tolse d’impaccio e, lasciando il signore in sospeso, si recò a<br />

riferire al suo superiore.<br />

A questo punto il Manzoni interrompe il racconto per tracciare un breve<br />

profilo biografico del Borromeo. La digressione non è lunga, e vale proprio la<br />

pena di leggerla, perché in questo mirabile personaggio l’Autore ha trovato<br />

l’attuazione di un ideale di vita cristiana che collima esattamente col suo; e ciò<br />

dona alle sue affermazioni, alle considerazioni e alle massime, che in questo<br />

scorcio di capitolo abbondano, una particolare forza di persuasione, un fascino<br />

tutto particolare. Per quanto don Alessandro (per gli amici milanesi don Lisander)<br />

inviti argutamente chi non vuol perdere un po’ di tempo a saltare al capitolo<br />

successivo, noi ci guarderemo bene dall’aderire all’invito, dato che ci siamo<br />

imbattuti in un personaggio storico che merita tutta la nostra riverente simpatia;<br />

quindi anche noi ci fermeremo volentieri a conoscere meglio questo santo presule,<br />

<strong>com</strong>e fa il viandante che, dopo una faticosa tappa attraverso un terreno desolato, si<br />

arresta volentieri “all’ombra di un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte<br />

d’acqua viva.” Non potremo non risentirne un benefico refrigerio!<br />

Federigo era nato nel 1564 da famiglia molto nobile e ricca, che possedeva<br />

feudi non soltanto in Lombardia, ma anche in Puglia e in altre parti d’Italia. Egli<br />

fu uno di quegli uomini rari che impiegarono un grande ingegno, un vasto<br />

patrimonio, i privilegi della nobiltà del casato, e soprattutto un’attività<br />

instancabile, “nella ricerca e nell’esercizio del meglio.” Con una bella similitudine<br />

il Manzoni assomiglia la sua vita a un ruscello montano che, scaturito limpido<br />

dalla roccia, attraversando vari terreni senza mai intorbidirsi, va infine a gettarsi<br />

nel fiume. Mentre però il ruscello permane limpido per fortunate circostanze,<br />

senza suo merito, il Borromeo si mantenne puro con la forza della sua volontà, col<br />

suo spirito di sacrificio, in mezzo alle varie tentazioni che gli venivano dalla<br />

nobiltà ac<strong>com</strong>pagnata da una grande ricchezza. Fin dalla puerizia prese sul serio<br />

quelle verità e quei precetti, inculcati dalla religione cristiana, “intorno alla vanità<br />

dei piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e ai veri beni”, quelle<br />

massime insomma che quasi tutti sentono, dalla bocca dei genitori o degli<br />

insegnanti o dei sacerdoti, e magari ripetono con maggiore o minore convinzione,<br />

ma che ben pochi attuano con impegno nella vita di ogni giorno. Egli, appena<br />

giovinetto, era già convinto che “la vita non è già destinata ad essere un peso per<br />

molti, e una festa per alcuni”, ma per tutti un serio impegno di impiegare bene i<br />

talenti che Dio e la natura ci hanno elargito, e dei quali siamo responsabili<br />

personalmente, <strong>com</strong>e individui, indipendentemente dal cattivo esempio che ci<br />

127


possa venire dagli altri, e magari da tutti gli altri. Persuaso di questa responsabilità<br />

personale che abbiamo nella vita, da condursi secondo una legge che, prima di<br />

essere codificata nella Rivelazione, è scolpita nella coscienza di ognuno, Federigo<br />

a 16 anni manifestò la volontà di dedicare la propria vita al servizio del prossimo,<br />

perché fosse “utile e santa”, per mezzo dell’apostolato ecclesiastico. Allora era<br />

ancora vivo il santo suo cugino Carlo, il cui esempio luminoso di virtù avrà certo<br />

influito beneficamente sulla formazione morale e spirituale del giovane<br />

seminarista, ma il Manzoni aggiunge, <strong>com</strong>e “cosa molto notabile che, dopo la<br />

morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allora di vent’anni,<br />

fosse mancata una guida e un censore.” Ciò dimostra che a quell’età era già<br />

sufficientemente formato.<br />

Compì i suoi studi nel Collegio Borromeo di Pavia, fondato dal cugino, dove<br />

si applicò assiduamente alle occupazioni prescritte, aggiungendone due altre di<br />

sua iniziativa, le quali rivelano il suo spirito veramente evangelico: insegnare la<br />

dottrina cristiana agli umili e assistere gli ammalati. A questo proposito<br />

ricordiamo che anche fra Cristoforo, quest’altro apostolo della carità, aveva<br />

aggiunto, a quelle impostegli dalla Regola e dal ministero sacerdotale, altre due<br />

occupazioni particolari: appianare le discordie e proteggere gli oppressi. Le opere<br />

di carità prescelte da questi due eroi della virtù denotano la diversità dei loro<br />

caratteri: più fiero e pugnace quello del Cappuccino, più pacato e mite quello<br />

dell’Arcivescovo.<br />

In collegio gli istitutori cercavano di fare a Federigo un trattamento<br />

particolare, quasi a un padrone di casa, pensando magari di farsi così ben volere;<br />

ma egli rifiutò ogni distinzione, e se quelli insistevano , non mancò di riprenderli,<br />

in nome di quei precetti di abnegazione e di umiltà, di uguaglianza e di giustizia,<br />

che loro stessi insegnavano. Ordinato sacerdote, era evidente che “la parentela e<br />

gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome<br />

stesso” di Borromeo, al quale Carlo aveva donato tanto lustro, gli avrebbero<br />

conciliato le dignità ecclesiastiche.<br />

Il Manzoni osserva acutamente che, se le qualità predette costituiscono “ciò che<br />

può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche”, Federigo possedeva anche<br />

“ciò che deve” o dovrebbe determinare la scelta dei superiori, vale a dire<br />

l’ingegno, la dottrina e la pietà. Ma egli, convinto di un’altra verità, che cioè non<br />

ci dovrebbe essere nessuna superiorità sugli altri, se non per servirli, evitava le<br />

cariche, non certo perché non volesse servire il prossimo, ma perché voleva<br />

servirlo da pari a pari, non stimandosi degno o capace di servirlo bene, una volta<br />

investito di più alta responsabilità, che rende il servizio stesso più arduo e<br />

delicato. Perciò rifiutò nel 1595 di diventare arcivescovo di Milano, cedendo poi<br />

solo all’espresso <strong>com</strong>ando del papa Clemente VIII. Quelli che sogliono schernire<br />

simili rifiuti, puntualmente seguiti dall’accettazione, e parlano irridenti di umiltà<br />

pelosa, non dovrebbero fare d’ogni erba un fascio, ma giudicare, dalle azioni e<br />

precedenti e successive del personaggio, della sua sincerità nell’opporre il rifiuto<br />

della nomina. “La vita è il paragone delle parole”, dice il Manzoni, e le parole di<br />

umiltà e di abnegazione, anche se sono usate pure dagli ipocriti, non cessano per<br />

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questo di essere belle e ammirevoli, “quando siano precedute e seguite da una vita<br />

di disinteresse e di sacrificio.”<br />

In quanto al disinteresse di Federigo arcivescovo, l’Autore cita questo fatto:<br />

sic<strong>com</strong>e era personalmente molto ricco, ritenne che il mantenimento suo e del suo<br />

seguito dovesse gravare sul suo patrimonio privato e non sulle rendite<br />

ecclesiastiche, che tutti dicono essere patrimonio dei poveri, ma che pochi presuli<br />

destinano solo a questo scopo, <strong>com</strong>e invece fece con estremo rigore Federigo<br />

delle rendite dell’archidiocesi. E per il suo mantenimento esigeva che si facesse la<br />

più rigida economia, onde avere mezzi finanziari più abbondanti per gli scopi<br />

benefici; per esempio, non smetteva un abito finché non fosse liso affatto,<br />

pretendendo solo che esso fosse decoroso e soprattutto pulito, poiché egli sapeva<br />

unire alle virtù della semplicità e della modestia quella d’una squisita pulizia:<br />

“due abitudini – osserva il Manzoni – notabili infatti, in quell’età sudicia e<br />

sfarzosa.”<br />

Qualcuno, da questi e simili tratti della sua personalità, potrebbe essere indotto<br />

ad attribuirgli una certa grettezza o angustia di vedute, se Federigo non avesse<br />

dimostrato di saper spendere in modo assai generoso e illuminato per realizzare<br />

opere grandiose, tra cui la Biblioteca Ambrosiana; chi concepì e realizzò una<br />

simile impresa non era davvero “una mente impaniata nelle minuzie; e incapace di<br />

disegni elevati”! Quell’opera fu realizzata con munificenza quasi regale; e mentre<br />

allora, nelle biblioteche d’Italia che pur si dicevano pubbliche, “i libri non eran<br />

nemmeno visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per<br />

gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento”, nella<br />

biblioteca istituita dal Borromeo, che pur poteva considerarsi privata, i libri e i<br />

manoscritti erano “esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e<br />

datogli anche da sedere, e carta, penne a calamaio, per prender gli appunti che gli<br />

potessero bisognare”; e tutto questo per ordine espresso del munifico fondatore.<br />

Cose che dimostrano insieme la sua larghezza di vedute, e la generosa gentilezza<br />

del suo animo verso gli studiosi. Queste doti insigni sono testimoniate anche da un<br />

altro episodio, che ci richiama alla mente la storia di Gertrude. Avendo infatti<br />

saputo che un nobile tiranneggiava la figlia per farle prendere il velo, mentre<br />

quella aveva intenzione di sposarsi, Federigo fece venire a sé il padre, ed<br />

essendosi questi giustificato dicendo di non avere i quattromila scudi necessari per<br />

maritarla decorosamente, gli diede senza esitazione la somma richiesta, reputando<br />

giustamente che nessuna somma materiale è eccessiva, se con essa si può evitare<br />

la perdizione di un’anima.<br />

Era affabile e alla mano con tutti, cordiale specialmente con i diseredati, verso<br />

i quali il mondo è così duro. Per questo suo <strong>com</strong>portamento familiare con i poveri<br />

“ebbe a <strong>com</strong>battere coi galantuomini del “ne quid nimis”, i quali, in ogni cosa,<br />

avrebbero voluto farlo star nei limiti, cioè nei loro limiti.” Uno di questi mentori,<br />

un giorno, mentre in una parrocchia di montagna istruiva un gruppo di fanciulli<br />

poveri, accarezzandoli paternamente, ritenne suo dovere avvertirlo che non li<br />

avvicinasse troppo, perché erano troppo sudici, <strong>com</strong>e se Federigo non avesse<br />

abbastanza sensibilità per accorgersene da solo né “abbastanza perspicacia, per<br />

129


trovar da sé quel ripiego così fino.” Ma purtroppo questo avviene spesso, osserva<br />

il Manzoni, agli uomini rivestiti di certe cariche: mentre difficilmente trovano chi<br />

li avverta delle loro mancanze, trovano benissimo chi li riprende per la loro<br />

generosa virtù.<br />

Qualcheduno potrebbe attribuire la soavità del suo <strong>com</strong>portamento, la<br />

pacatezza imperturbabile della sua condotta, la mitezza dei suoi tratti “a una<br />

felicità straordinaria di temperamento”; invece – assicura il Manzoni che si è ben<br />

documentato - “era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e<br />

risentita.” Fatto cardinale, partecipò a molti conclavi, senza mai aspirare “a quel<br />

posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà”; sicché in un certo<br />

conclave, avendogli un collega molto influente offerto il voto suo e del suo<br />

gruppo, rifiutò così recisamente, che quegli se ne ritrasse quasi offeso. E questa<br />

modestia, questa profonda umiltà erano evidenti in ogni circostanza della vita e<br />

della sua attività pastorale, anche nel modo garbato con cui evitava d’impicciarsi<br />

nei fatti e negli affari altrui, che non riguardassero il suo ministero, pur essendone<br />

talora vivamente richiesto: ”discrezione e ritegno non <strong>com</strong>une, <strong>com</strong>e ognuno sa,<br />

negli uomini zelatori del bene”, osserva acutamente il Manzoni a guisa di<br />

<strong>com</strong>mento. E spontaneo ci viene in mente il confronto tra Federigo e un’altra<br />

zelatrice del bene, ma fasulla, che incontreremo tra poco, donna Prassede; costei<br />

s’ingeriva a tutta forza e con ogni mezzo nelle cose che non la riguardavano,<br />

<strong>com</strong>e se fosse investita da una speciale missione divina per la salvezza<br />

dell’umanità, e con i suoi interventi maldestri e presuntuosi otteneva<br />

puntualmente l’effetto contrario alle sue pur buone intenzioni.<br />

Però, per quanto riguardava la sua missione pastorale, non solo non si tirava<br />

indietro, ma faceva animosamente il proprio dovere, e richiamava o anche puniva<br />

severamente chi, tra i suoi dipendenti, prevaricasse nelle mansioni affidategli; fu<br />

lui, per esempio, che scoprì e punì esemplarmente la grave prevaricazione della<br />

Monaca di Monza, che poi egli avviò sulla via della redenzione; e ben presto lo<br />

vedremo ammonire e rimproverare, paternamente ma anche con autorità, il nostro<br />

don Abbondio, che si era messo al servizio dell’iniquità invece che della carità e<br />

della giustizia, <strong>com</strong>e sarebbe stato suo preciso dovere.<br />

Alla fine del capitolo l’Autore, con scrupolo storico, avverte che un uomo<br />

così intelligente e saggio non andò tuttavia esente da errori o pregiudizi del<br />

secolo, dai quali ci sarebbe oltremodo piaciuto che egli si fosse allontanato. Ma, ci<br />

fa capire tra le righe don Lisander, staccarsi dalle opinioni del secolo, per intuire<br />

quelle verità che solo i secoli futuri, con lungo travaglio, renderanno evidenti, è<br />

solo concesso ai geni, e nessuno sostiene che il cardinal Borromeo sia stato uno di<br />

questi; egli fu però un uomo eminente, che si è dedicato con belle qualità di<br />

mente, ma soprattutto con un gran cuore, al miglioramento morale e materiale<br />

della società del suo tempo. E quest’uomo così caritatevole, così sollecito per il<br />

bene altrui e per i doveri della sua carica, seppe anche trovare il tempo per<br />

arricchire la sua mente con uno studio assiduo e appassionato; e di questa intensa<br />

attività intellettuale sono testimonianza circa cento opere, tra edite e inedite, in<br />

latino o in volgare, di vario argomento e di diversa importanza. Ma qui si affaccia<br />

130


un’obiezione: <strong>com</strong>e mai in un centinaio di opere non se n’è trovata alcuna di tale<br />

spicco, che abbia acquistato al suo autore una fama anche nella storia letteraria?<br />

L’obiezione è ragionevole, e si verrebbe tentati di cercare una risposta plausibile.<br />

“Le ragioni di questo fenomeno – osserva il Manzoni – si troverebbero con<br />

l’osservar molti fatti generali”, ma, aggiunge subito, “sarebbero molte e prolisse”<br />

e forse non facilmente accettate dall’opinione corrente; e quindi egli se ne lava<br />

elegantemente le mani, temendo di farci “arricciare il naso”.<br />

Una risposta all’obiezione, e valga quel che vale, tenteremo di darla noi,<br />

sforzandoci di cogliere quello che forse intendeva dire il nostro Autore. Per<br />

Federigo scrivere non nasce dal bisogno di esprimere sé stesso e il proprio mondo<br />

interiore, nella ricerca e nell’espressione del bello, mirando al solo piacere<br />

estetico; scrivere è per lui un servire con la penna alla sua missione pastorale, al<br />

suo lavoro educativo; quindi le sue opere, nate da un bisogno contingente, hanno<br />

uno scopo pratico e limitato, ed esulano perciò dal campo dell’arte. Scrivendo<br />

tante opere, il Cardinale non mirava certamente alla gloria letteraria, ma solo a<br />

illuminare, ammaestrare e correggere; insomma scrivere faceva parte del suo<br />

apostolato, perché con gli scritti egli rendeva più ampia e incisiva la sua missione<br />

di pastore delle anime.<br />

131


CAPITOLO XXIII<br />

Riprendendo il racconto, interrotto dalla parentesi biografica, il Manzoni ci<br />

dice che Federigo, amantissimo della cultura, stava appunto studiando, <strong>com</strong>e<br />

faceva in ogni ritaglio di tempo, quando il cappellano gli annunciò la strana visita.<br />

Col viso animato a un tratto dalla premura e dalla carità, rispose di introdurlo<br />

subito; ma l’inferiore, invece di obbedire, ritenne suo dovere ricordargli che colui<br />

era un bandito disperato, un appaltatore di delitti… e che poteva anche essere<br />

mandato… E aggiunse con tono di grave avvertimento: “Lo zelo fa de’ nemici,<br />

monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi<br />

che, un giorno o l’altro…” Ma il Cardinale lo interruppe con impazienza: “Oh,<br />

che disciplina è codesta, che i soldati esortino il generale ad aver paura?” E<br />

ricordato che San Carlo, non che riceverlo, sarebbe andato a trovarlo un tale<br />

individuo, ordinò di farlo entrare immediatamente, ché aveva già atteso troppo. Il<br />

cappellano, pur controvoglia, si mosse per eseguire il <strong>com</strong>ando; e avvicinandosi<br />

all’Innominato pensava che avrebbe dovuto almeno invitarlo a lasciare tutte le<br />

armi; ma non ne ebbe il coraggio, e introdusse senz’altro il visitatore nella stanza<br />

dov’era ad attenderlo Federigo, e a un cenno di questi subito si ritirò, non senza<br />

apprensione.<br />

L’Innominato, che era andato là non per un proposito preciso, ma <strong>com</strong>e<br />

trascinato da una forza inesplicabile, restava attonito e confuso, e anche stizzito<br />

con sé stesso, per la vergogna di esser venuto <strong>com</strong>e un colpevole, “e non trovava<br />

parole, né quasi ne cercava”; sentiva tuttavia il fascino e, nello stesso tempo, la<br />

soggezione della presenza del porporato, così solenne e maestoso, ma anche<br />

amorevole e bello di una bellezza tutta interiore, adorno <strong>com</strong>’era di “una specie di<br />

floridezza verginale”, pur tra i segni evidenti dell’astinenza. Federigo il quale,<br />

nell’aspetto fosco e turbato dell’ospite, scorgeva i segni della salutare crisi<br />

spirituale che lo aveva scosso e portato da lui, col volto illuminato dalla gioia lo<br />

ringraziò di avergli fatto quella bella visita, pur dovendosi rimproverare di non<br />

essere andato lui a trovarlo nel suo castello. Tra la crescente meraviglia del suo<br />

interlocutore, che rimaneva quasi muto ad ascoltare quelle parole ardenti di carità,<br />

aggiunse che però, se non era andato a fargli visita, aveva pianto e pregato tanto<br />

per lui traviato, e che Dio aveva fatto il miracolo, supplendo con la sua potenza e<br />

misericordia all’inerzia del suo servo; quindi lo pregò di non fargli sospirare<br />

ancora la buona notizia ch’era venuto a portargli. E avendo quegli replicato che<br />

non aveva nessuna buona nuova da <strong>com</strong>unicargli, bensì che aveva l’inferno nel<br />

cuore, il Cardinale placidamente, ma con tono pieno d’autorità, osservò che<br />

questo voleva dire che Dio gli aveva toccato il cuore, perché lo voleva tutto per<br />

Sé. Allora il contrito, quasi con impaziente invocazione di grazia e di luce<br />

interiore, esclamò: ”Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! se lo sentissi!” Federigo rispose<br />

che appunto in quell’angosciosa smania di desiderio doveva riconoscere la<br />

presenza di Dio, “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, perché Egli,<br />

132


mentre lo agitava non dandogli requie, gli faceva anche sentire, e quasi<br />

pregustare, una speranza ineffabile di pace e di consolazione. Allora, con accento<br />

tra supplichevole e disperato, il signore domandò che cosa voleva Dio da lui, che<br />

cosa poteva fare di lui peccatore. “Un segno della sua potenza e della sua bontà”,<br />

rispose con voce solenne e quasi ispirata il Cardinale: se lui, misero uomo, aveva<br />

saputo fare, nel male, grandi imprese, credeva che Dio non avrebbe potuto<br />

fargliene <strong>com</strong>piere, nel bene, di molto più grandi?<br />

Iddio avrebbe potenziato e nobilitato, con la sua grazia, le qualità che lui aveva<br />

finora impiegato a ordire tradimenti e delitti, cioè quella volontà impetuosa, quella<br />

imperturbata costanza, quel coraggio adamantino, che aveva purtroppo rivolto a<br />

vituperevoli azioni. E, tutto infervorato di carità, soggiunse: “cosa può Dio far di<br />

voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e <strong>com</strong>piere in voi l’opera della redenzione? Non<br />

son cose magnifiche e degne di Lui?”<br />

Il volto dell’Innominato, mentre Federigo pronunciava queste parole con<br />

accento ispirato e ardente di amore, divenne a poco a poco, da stravolto e turbato,<br />

prima attonito e intento, quindi <strong>com</strong>punto e infine profondamente <strong>com</strong>mosso,<br />

tanto che non poté resistere all’impeto dell’emozione che gli saliva dal cuore, e<br />

coprendosi il viso con le mani scoppiò in un pianto dirotto, mentre il Cardinale<br />

lodava e ringraziava in cuor suo il Signore per aver ammollito con la sua grazia<br />

quel cuore di pietra. Quindi tese cordialmente la mano all’Innominato, in segno di<br />

pace e di patto imperituro di bontà; quegli, non stimandosi degno di tanto, cercava<br />

di schermirsi, ritirando la sua, ma il porporato la prese e la strinse<br />

affettuosamente, affermando che quella destra avrebbe riparato tanti torti, avrebbe<br />

sparso tanti benefici, e si sarebbe tesa, disarmata e pacifica, verso tutti i nemici,<br />

per invitarli a un patto di pace e d’amore.<br />

E poiché il signore, ancor singhiozzante, lo invitava a non perdere più tempo<br />

con lui, mentre tutto un popolo di fedeli lo attendeva, ansioso di ascoltare le sue<br />

parole, l’arcivescovo rispose con gioconda dolcezza: “Lasciamo le novantanove<br />

pecorelle; sono al sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era<br />

smarrita…”, e così dicendo allargò amorevolmente le braccia per abbracciare quel<br />

figliol prodigo il quale, dopo aver “resistito un momento, cedette, <strong>com</strong>e vinto da<br />

quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di<br />

lui il suo volto tremante e mutato.” Terminato il <strong>com</strong>mosso abbraccio,<br />

l’Innominato disse che purtroppo non poteva che piangere e condannare la<br />

maggior parte dei suoi misfatti, ma alcuni per fortuna poteva interrompere o<br />

riparare, e uno disfare immediatamente. E raccontò brevemente, ma con parole di<br />

severa condanna contro la sua iniquità, il rapimento di Lucia, le sofferenze della<br />

poverina, le sue angosciate preghiere, che avevano scosso il suo cuore indurito,<br />

aggiungendo che la ragazza era ancora prigioniera nel castello.<br />

Il Cardinale, spinto da paterna sollecitudine, disse che non bisognava perdere<br />

tempo a liberare di pena la poveretta, e questa liberazione era <strong>com</strong>e un pegno del<br />

perdono di Dio, che nella sua infinità bontà gli aveva voluto concedere la<br />

consolazione di poter <strong>com</strong>piere subito un’opera buona, di riparare a un misfatto.<br />

Informatosi quindi del paese della ragazza, chiamò il cappellano; questi, che stava<br />

133


all’erta, accorse immediatamente e rimase quasi estatico nel mirare il viso mutato<br />

del signore; ma l’arcivescovo lo riscosse da quell’estasi, chiedendogli se tra i<br />

parroci presenti ci fosse quello del paese di Lucia. Avuta risposta affermativa, gli<br />

ordinò di farlo venire assieme al parroco lì del posto, ché aveva da dar loro degli<br />

incarichi. Il cappellano sollecito uscì e, presentandosi col volto ancora estatico<br />

davanti ai confratelli, che lo interrogavano con lo sguardo ansioso, esclamò con<br />

enfasi: “Haec mutatio dexterae Excelsi!” Quindi, riprendendo il controllo di sé<br />

stesso e riassumendo il tono della sua carica, disse che il Cardinale desiderava sia<br />

il curato lì del luogo che quello della parrocchia di X, e nominò il paese di Lucia.<br />

Il primo si fece subito avanti, mentre il secondo venne fuori a stento dal gruppo,<br />

dicendosi convinto che ci doveva essere un errore, perché lui non poteva aver<br />

nulla a che fare con le faccende di quel paese; ma avendo il cappellano replicato<br />

che non c’era errore di sorta, il povero don Abbondio dovette venir avanti, “con<br />

un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato.”<br />

Il cappellano gli mise un po’ di fretta, e introdusse i due parroci dall’arcivescovo.<br />

Questi si rivolse al curato del luogo, perché trovasse una brava donna, che doveva<br />

andare in lettiga al castello a rilevare una povera prigioniera, e gli disse in poche<br />

parole di chi si trattava: la poverina si trovava certamente in tale stato di<br />

prostrazione, che ci voleva “una donna di cuore e di testa” per rincuorarla, per<br />

rassicurarla, perché ogni novità poteva essere per lei causa di spavento maggiore.<br />

Quando il parroco fu uscito per trovare la donna adatta, Federigo si rivolse a don<br />

Abbondio, il quale gli s’era accostato il più possibile, appunto per stare lontano da<br />

quell’altro signore; il pavido curato, non ancora convinto che volesse proprio lui,<br />

disse senza troppi riguardi al Cardinale che lo avevano chiamato, ma che doveva<br />

esserci un equivoco. Il superiore gli rispose con affabilità che non c’era nessun<br />

errore, perché doveva <strong>com</strong>unicargli la lieta notizia che Lucia Mondella, che lui<br />

aveva certamente “pianta per smarrita”, era invece salva, in casa di quel suo<br />

amico, col quale doveva andare a prenderla, coadiuvato da una brava donna che il<br />

curato di quella parrocchia era andato a cercare.<br />

Don Abbondio, ci dispiace dirlo, invece di rallegrarsi per la notizia e per<br />

l’incarico delicato al quale era stato prescelto, riuscì a stento a nascondere<br />

l’amarezza dell’animo, che gli s’era dipinta sul viso in un versaccio di fastidio,<br />

per mezzo di un profondo inchino che fece subito <strong>com</strong>e in segno d’obbedienza al<br />

suo arcivescovo. Questi, avendo saputo poi da don Abbondio che la ragazza aveva<br />

a casa solo la madre, ordinò che fosse mandata a prendere con un barroccio da un<br />

uomo di giudizio, che sapesse farle capire l’accaduto senza impressionarla troppo.<br />

Sentendo ciò il nostro curato, pur di non andare al castello di quel signore, si offrì<br />

di recarsi lui a prendere Agnese, dicendo che era una donna molto sensibile e<br />

bisognava conoscerla bene per saperla prendere; ma il Cardinale ribadì che lui era<br />

troppo necessario per andare a prendere la povera prigioniera, la quale aveva<br />

bisogno di vedere subito una persona amica, di cui potesse proprio fidarsi:<br />

nessuno poteva sostituirlo in questa delicata in<strong>com</strong>benza.<br />

Ma non occorrevano davvero gli occhi perspicaci di Federigo per accorgersi<br />

che don Abbondio aveva paura di andare al castello con quel signore; e volendo<br />

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dissipare “quell’ombre codarde” del suo parroco, si avvicinò con cordiale<br />

confidenza all’Innominato e lo invitò a tornare da lui con quel sacerdote, per<br />

restare insieme tutta la giornata. Il signore accettò con gioia riconoscente,<br />

affermando con trasporto che aveva tanto bisogno di vederlo e di ascoltare le sue<br />

parole, che erano un balsamo per le ferite del suo animo. Federigo allora gli<br />

strinse amorevolmente la mano, <strong>com</strong>e in segno di reciproca promessa; e pensava<br />

che con queste dimostrazioni di amicizia sincera il codardo prete avrebbe<br />

finalmente capito la mirabile trasformazione che per grazia di Dio si era operata in<br />

quell’uomo, un tempo terribile. Vana speranza! Don Abbondio se ne restava<br />

mogio e un po’ imbronciato “<strong>com</strong>e un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar<br />

con sicurezza un suo cagnaccio… famoso per morsi”, assicurando che è una<br />

bestia quieta: il poverino non osa contraddire, ma neppure accostarsi, e vorrebbe<br />

non avere a che fare con quel bestione.<br />

Mentre il Cardinale si avviava per uscire, tenendo ancora per mano<br />

l’Innominato, gli parve che il curato fosse <strong>com</strong>e mortificato, e pensando che si<br />

mostrasse così perché gli sembrava di essere trascurato dal suo superiore, tutto<br />

preso dalla nuova amicizia, gli disse amorevolmente e con espressione di grande<br />

riguardo: “Signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon<br />

Padre; ma questo… questo perierat et inventus est”, alludendo molto<br />

opportunamente alla parabola del figliol prodigo. Don Abbondio, <strong>com</strong>e riscosso<br />

dai suoi tristi pensieri, avrebbe voluto rispondere qualcosa di pertinente, ma<br />

invano. “Oh quanto me ne rallegro!” fu tutto quello che riuscì a rispondere;<br />

un’esclamazione insulsa, che era poi chiaramente smentita dalla faccia che, pur<br />

controvoglia, mostrava.<br />

Potremmo qui confrontare l’espressione piuttosto banale che esce di bocca a<br />

don Abbondio in sì patetica circostanza, con il “Si figuri!” che, <strong>com</strong>e vedremo,<br />

scapperà detto al sarto del villaggio (cap. XXIV), quando il Cardinale gli chiede<br />

se è contento di ospitare Lucia per un po’ di giorni. Mentre però don Abbondio<br />

non ebbe mai a rammaricarsi delle sue parole piuttosto misere in così solenne<br />

circostanza, perché a lui premeva ben altro che fare una degna figura accanto a<br />

quei grandi personaggi, il povero sarto per tutto il resto della vita provò la<br />

mortificazione di non aver trovato, lui che sapeva leggere e scrivere, qualche<br />

espressione più scultoria per esprimere il suo stato d’animo di sincero e grato<br />

entusiasmo per la richiesta del presule.<br />

Quando i due grandi, con la <strong>com</strong>mozione dipinta vivamente sul viso,<br />

apparvero in mezzo ai sacerdoti in attesa, tutti furono tocchi da quella santa<br />

emozione di carità, e guardavano or l’uno or l’altro con estatica espressione di<br />

lieta ammirazione. Dietro i due personaggi apparve il goffo nostro curato, “a cui<br />

nessuno badò”, per vera fortuna, ché altrimenti avrebbero scorto in quella faccia il<br />

senso della noia del pavido egoista, che faceva uno stridente contrasto con la<br />

<strong>com</strong>mossa letizia di tutti i presenti.<br />

Proprio mentre Federigo si accingeva a congedarsi dall’ospite, il suo<br />

cameriere venne a riferirgli che la lettiga e le mule erano pronte, e si aspettava<br />

solo la donna, che il curato era andato a chiamare. Il Cardinale dispose che, non<br />

135


appena colui fosse tornato, curasse di mandare a prendere la madre della<br />

prigioniera, e che quindi il lettighiero si mettesse agli ordini del signore, per<br />

andare al castello. Detto questo, strinse di nuovo la mano con effusione<br />

all’Innominato, salutò con un cenno di sorriso don Abbondio, e finalmente<br />

s’avviò verso la chiesa, per il pontificale, seguito dal clero e dai fedeli osannanti.<br />

Don Abbondio e l’Innominato rimasero dunque, soli soli, ad aspettare l’arrivo<br />

della donna; il curato avrebbe voluto attaccar discorso, così per rompere il<br />

ghiaccio, ma non sapeva <strong>com</strong>e in<strong>com</strong>inciare, e intanto si stizziva con sé stesso e<br />

con Perpetua che lo aveva indotto a venire a ossequiare il Cardinale, mentre<br />

poteva benissimo farne a meno: se non le avesse dato retta, ora non si sarebbe<br />

trovato in quegl’impicci. L’Innominato era tutto concentrato nei suoi pensieri, ed<br />

era impaziente di correre a liberare la sua Lucia, sua ora in un senso molto diverso<br />

da quello di prima: non più la sua prigioniera, ma la sua benefattrice, colei che gli<br />

avrebbe propiziato la divina misericordia; e intanto la poverina soffriva chissà<br />

quanto per colpa sua… In mezzo a tanti pensieri che lo assillavano, il suo volto<br />

assumeva talvolta un’espressione così tormentata, che aggiungeva paura al già<br />

impaurito <strong>com</strong>pagno, che stava lì triste e impacciato.<br />

Finalmente l’arrivo della donna tolse don Abbondio dall’imbarazzo e il<br />

signore dall’attesa impaziente; si mossero dunque avviandosi verso le cavalcature<br />

approntate per loro. L’Innominato si era incamminato di buon passo, spinto dalla<br />

sollecitudine; ma quando, giunto alla porta della canonica, si accorse che il curato<br />

era rimasto indietro, si fermò per attenderlo, e lo fece passare avanti con un<br />

inchino umile e gentile: “cosa che rac<strong>com</strong>odò alquanto lo stomaco al povero<br />

tribolato.” Ma quella poca consolazione svanì in un momento, allorché il signore,<br />

andato a un angolo del cortiletto, riprese la sua carabina e se la mise speditamente<br />

ad armacollo. Arrivati al luogo dov’erano le mule, l’Innominato saltò agilmente in<br />

groppa a quella che gli fu presentata, mentre don Abbondio voleva assicurazione<br />

che la sua non avesse vizi; rassicurato dal cameriere del Cardinale, e da lui<br />

aiutato, finalmente fu issato sulla sella, e tutta la <strong>com</strong>itiva si avviò.<br />

Mentre passavano davanti alla chiesa, stipata di fedeli, nella piazzetta<br />

anch’essa piena zeppa di quanti non eran potuti entrare nel tempio, si levò tra la<br />

folla, che fece ala rispettosa, un mormorio di simpatia e quasi d’applauso. Davanti<br />

alla porta della chiesa, che era tutta spalancata, il signore si levò <strong>com</strong>puntamene il<br />

cappello per fare un profondo inchino; il curato lo imitò, ma sentendo il concerto<br />

delle voci e dell’organo, provò <strong>com</strong>e un’accorata tenerezza, non scevra d’invidia<br />

per i suoi confratelli che erano lì a cantare in letizia, mentre lui era sbalestrato<br />

chissà dove in una specie d’avventura molto rischiosa.<br />

Lasciato il paese alle loro spalle, s’inoltrarono nell’aperta campagna, e il<br />

disagio del povero prete cresceva man mano che si avvicinavano a quella valle<br />

famosa, dove c’erano quei bravi formidabili, senza paura e senza pietà, che<br />

ammazzare un prete l’avevano a opera meritoria! Il poveretto avrebbe anche<br />

questa volta voluto attaccar discorso, ma vedendo il suo <strong>com</strong>pagno molto<br />

concentrato nei suoi pensieri, non ritenne conveniente disturbarlo; sicché per tutto<br />

il viaggio si ridusse a parlare con sé stesso.<br />

136


Questo soliloquio di don Abbondio è uno dei passi più belli del romanzo,<br />

perché esso rivela, meglio di ogni analisi psicologica, lo stato d’animo del povero<br />

tribolato, di cui mette a nudo i pensieri e i sentimenti. Egli se la prese un po’ con<br />

tutti: con don Rodrigo, che poteva “andare in paradiso in carrozza”, e invece<br />

voleva “andare a casa del diavolo a piè zoppo”; con il suo illustrissimo <strong>com</strong>pagno<br />

di viaggio, il quale, “dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze”,<br />

non era ancora soddisfatto, se non lo metteva in subbuglio anche con la<br />

conversione, se pure era sincera, cosa di cui non si sentiva affatto sicuro; con il<br />

suo arcivescovo, che credeva subito alle parole di colui, e immediatamente<br />

imbarcava un povero curato, di cui avrebbe dovuto essere geloso, in una<br />

spedizione di quella sorta, senza avere la minima garanzia. Pensò anche a Lucia,<br />

provando un certo rammarico per i suoi guai; ma non c’era che dire, colei era<br />

proprio nata per la sua rovina, per amareggiargli, anche se involontariamente, i<br />

suoi ultimi anni!<br />

Quindi si metteva a osservare di sott’occhio il suo <strong>com</strong>pagno, per cercare di<br />

conoscere quali fossero i suoi intimi pensieri, ma rimaneva perplesso e dubbioso:<br />

“Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare<br />

Oloferne in persona.” Infatti sul volto dell’Innominato apparivano i segni<br />

dell’interno travaglio: ora di aborrimento del suo passato, ora di <strong>com</strong>punzione per<br />

i peccati, ora di fiducia per l’avvenire. Egli passava mentalmente in rassegna le<br />

sue imprese inique e violente, per vedere quelle che fossero in qualche modo<br />

riparabili, e si concentrava nella ricerca dei rimedi più adatti e più sicuri; poi<br />

pensava a Lucia, ma quel senso di tenerezza e di consolazione, che provava nel<br />

poterla liberare, era ac<strong>com</strong>pagnato da “un’impazienza mista d’angoscia”,<br />

pensando che la poverina intanto soffriva chi sa quanto, per colpa sua.<br />

Allorché, entrati nella stretta valle, <strong>com</strong>inciarono a incontrare i bravi del<br />

signore, don Abbondio si sentì <strong>com</strong>e Dante tra i diavoli di malebolge: gli<br />

sembrava che quei manigoldi, guardandolo con gli occhi grifagni, manifestassero<br />

una voglia matta di fargli la festa… Per sua fortuna c’era lì il padrone, col suo<br />

fiero cipiglio; non ci voleva meno di quello, per tenere a freno quei briganti! In<br />

quel momento il poveretto benediva quel cipiglio che poco prima gli aveva dato<br />

tanto fastidio. Oltrepassata la Malanotte, presero la salita e giunsero in breve alla<br />

spianata davanti al castello.<br />

Il padrone, col solo cenno degli occhi, teneva fermi e in rispetto i bravi di guardia,<br />

i quali erano rimasti attoniti, non sapendo che cosa pensare. Già erano stati<br />

sconcertati, il mattino, da quella partenza così insolita del signore; vedendolo ora<br />

ritornare con un prete e una lettiga sconosciuta, con dentro una donna, cadevano<br />

addirittura dalle nuvole: di chi era quella livrea e quello stemma, mai visti? dove<br />

aveva pescato quella bussola, con quel lettighiero? e quella donna? era una nuova<br />

preda? ma <strong>com</strong>e e dove l’aveva fatta, da solo?... A tutti questi interrogativi essi<br />

non trovavano una risposta, e stavano perciò <strong>com</strong>e sbalorditi e sospettosi, perché<br />

quelle novità, per loro, non lasciavano prevedere nulla di buono, tanto erano<br />

contrarie all’ordine solito e alla disciplina imperante da tempo immemorabile in<br />

quel castello.<br />

137


Quando la <strong>com</strong>itiva giunse al portone, il picchetto dei bravi fece ala al<br />

padrone, che era intanto passato in testa; oltrepassati due cortili, egli si fermò<br />

davanti alla porta interna. A un bravo, accorso per aiutarlo a smontare, <strong>com</strong>andò<br />

di mettersi lì di guardia, con l’ordine di non far avvicinare nessuno. Quindi balza<br />

a terra da solo, lega in fretta la mula all’inferriata e apre lo sportello della lettiga,<br />

dicendo sottovoce alla donna: “Consolatela subito; fatele subito capire che è<br />

libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito.” Avvicinatosi poi al curato, col<br />

volto rasserenato e quasi lieto per l’opera buona che finalmente può <strong>com</strong>piere, gli<br />

chiede scusa dell’in<strong>com</strong>odo che gli ha procurato, aggiungendo con un sospiro:<br />

“Lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina.” Il volto e le parole<br />

del signore furono un vero balsamo per don Abbondio, che egli aiutò anche<br />

gentilmente a scendere dalla cavalcatura, reggendogli la staffa con atto di<br />

spontanea umiltà. Tanto era alto il concetto che si era formato del sacerdote, quale<br />

ministro di Dio, a contatto con l’ardente carità del Cardinale! Ora egli capiva di<br />

avere davanti un povero prete, non davvero all’altezza di quell’altissimo<br />

ministero; ma la sua riverenza andava giustamente alla funzione, se non alla<br />

persona; e le sue parole e il suo umile gesto servirono a spoltrire alquanto don<br />

Abbondio, che <strong>com</strong>piva quell’opera buona così a malincorpo!<br />

L’Innominato legò con le sue mani anche all’inferriata la mula del curato e,<br />

dopo aver avvertito il lettighiero che aspettasse lì, ac<strong>com</strong>pagnò il prete e la donna<br />

alla camera dov’era Lucia.<br />

138


CAPITOLO XXIV<br />

Lucia s’era svegliata da poco, e aveva penato molto a rendersi conto della dura<br />

realtà, che rassomigliava molto a un sogno molto pauroso, che l’opprimeva con<br />

l’angoscia di un incubo. La vecchia le si avvicinò e, con voce affettatamente<br />

dolce, l’invitò a mangiare, poiché ne aveva tanto bisogno, pallida e sbattuta<br />

<strong>com</strong>’era. Ma la ragazza non ne volle sapere, dicendo che voleva tornare subito da<br />

sua madre; e chiese dove fosse il padrone. La serva rispose che era uscito, ma<br />

tornerebbe presto e l’accontenterebbe in tutto; al che Lucia replicò che voleva<br />

andar subito dalla mamma.<br />

Pochi istanti dopo si sente un picchio all’uscio, e la nota voce che<br />

sommessamente dice alla vecchia di aprire. Questa si affretta a obbedire, e il<br />

padrone la fa allontanare, mandandola in un’altra parte del castello, <strong>com</strong>e aveva<br />

fatto poco prima per Marta. Quindi fa entrare don Abbondio e la buona donna, per<br />

rianimare la povera prigioniera, la quale, turbata e impressionata <strong>com</strong>’era, in un<br />

primo momento guardò con sospetto e quasi con spavento i nuovi venuti, che vide<br />

indistintamente e <strong>com</strong>e attraverso una nebbia, a causa dell’esaurimento fisico che<br />

aveva indebolito i suoi riflessi. Quando nei nuovi arrivati ravvisò un prete e una<br />

donna, provò un certo sollievo, e fissando meglio don Abbondio, le sembrò di<br />

riconoscerlo, ma non osando credere ai suoi occhi restava <strong>com</strong>e incantata. La<br />

donna le si avvicinò con atteggiamento affettuoso e, prendendole le mani per<br />

aiutarla ad alzarsi, la invitava ad andare con loro. Ma Lucia, non conoscendola,<br />

resisteva alle sue premure, poiché non si sentiva di affidarsi a una sconosciuta; e<br />

si rivolse al suo curato, chiedendogli se fosse proprio lui, perché a lei sembrava di<br />

sognare, di essere <strong>com</strong>e fuor di sé. Don Abbondio la rassicurò che era proprio lui,<br />

e che era venuto a prenderla con quella buona donna, perché ormai era veramente<br />

libera. Allora la ragazza, riavutasi affatto, si alzò in piedi senza indugio, e con<br />

grande trasporto esclamò: “E’ dunque la Madonna che vi ha mandati.” Quindi<br />

chiese se potevano proprio andare, se nessuno si opporrebbe, né i bravi né altri; e<br />

ricordò che veramente il signore del castello gliel’aveva promesso. Il curato le<br />

rispose che colui era venuto apposta con loro, per liberarla, e che stava aspettando<br />

fuori della stanza; e fece quindi premura a Lucia, per non farlo attendere ancora,<br />

un signore così nobile!<br />

L’Innominato, sentendo parlar di sé, ritenne di farsi vedere, e si affacciò<br />

timidamente all’uscio. La ragazza non poté trattenere un istintivo senso di paura,<br />

per cui si strinse alla buona donna, nascondendole il viso in seno. A quel gesto il<br />

signore, che aveva fatto qualche passo per avvicinarsi, si fermò indeciso, abbassò<br />

gli occhi con <strong>com</strong>punzione, e interpretando l’atteggiamento di Lucia <strong>com</strong>e un<br />

muto rimprovero per ciò che lui le aveva fatto soffrire, mormorò umilmente: “E’<br />

vero: perdonatemi!” Intanto sia la donna che don Abbondio cercavano di fare<br />

coraggio a Lucia, dicendo che colui era diventato buono, tanto da chiederle scusa<br />

del male arrecatole; a queste parole la ragazza alzò gli occhi verso il signore, e<br />

139


vedendolo così mortificato, fu presa da un sentimento misto di pietà e di<br />

riconoscenza, e disse con voce soave: “Oh, il mio signore! Dio le renda merito<br />

della sua misericordia!” Queste parole scesero <strong>com</strong>e un balsamo nel cuore<br />

contrito dell’Innominato, che ringraziò <strong>com</strong>mosso; quindi si avviò, precedendo la<br />

donna, che portava sottobraccio Lucia, mentre don Abbondio s’incamminò per<br />

ultimo. Giunti al cortile, il signore, “con una certa gentilezza quasi timida”, volle<br />

aiutare la ragazza a salire sulla bussola, sorreggendola per un braccio. Lucia<br />

questa volta non sentì alcuna ripugnanza, poiché nel suo animo sensibile aveva<br />

già <strong>com</strong>preso quanto quell’uomo fosse mutato; infatti poche ore dopo, parlando di<br />

lui alla madre, dirà con convinzione: “ora è un santo.”<br />

L’Innominato aiutò anche don Abbondio a montare in sella, e la <strong>com</strong>itiva si<br />

mosse quando pure lui fu a cavallo. La sua fronte non era più atterrata e confusa,<br />

<strong>com</strong>e poco prima davanti alla sua prigioniera; il suo sguardo aveva ripreso la<br />

durezza necessaria a tenere in rispetto quella torma di giannizzeri, di cui nessuno<br />

si moveva, perché questo era l’ordine che il padrone dava con quelle occhiate<br />

imperiose e significative. Il fiero cipiglio del signore ormai non dava alcun<br />

fastidio al nostro curato, il quale aveva finalmente capito che esso era<br />

indispensabile per tenere all’ordine quel branco di briganti, tra i più sfegatati e<br />

feroci d’Italia. Infatti, <strong>com</strong>e s’uscì dalla valle, che costituiva <strong>com</strong>e il dominio<br />

dell’Innominato, e non videro più i suoi bravi , la sua fronte s’andò spianando, e<br />

anche don Abbondio poté respirare più liberamente, mentre prima, davanti a quei<br />

masnadieri che lo guardavano con certe occhiate, si sentiva <strong>com</strong>e oppresso, e<br />

pensava inorridito: se costoro immaginano che io sia venuto a convertire il loro<br />

padrone, e a togliere loro il pane, povero me! mi martirizzano! E lui, lo sappiamo,<br />

non si sentiva nessuna vocazione per il martirio, e non vedeva l’ora di essere fuori<br />

da quella faccenda.<br />

La brava donna invece si rivelò subito all’altezza della situazione; per cui<br />

possiamo ben dire che il suo parroco aveva fatto un’ottima scelta, dimostrando di<br />

avere buon fiuto. Infatti, appena entrata nella lettiga, con molta discrezione,<br />

abbassò le tendine, per sottrarre la ragazza a sguardi indiscreti e metterla quindi a<br />

suo agio; “prese poi affettuosamente le mani di Lucia, s’era messa a confortarla,<br />

con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza.” E vedendo che l’ignoranza<br />

degli avvenimenti, che la riguardavano, teneva ancora la poverina in uno stato di<br />

turbamento, il quale le impediva di godere pienamente la gioia della liberazione,<br />

pensò bene di dirle tutto quello che sapeva, e dell’Innominato che si era<br />

convertito, e del Cardinale il quale, essendo in visita pastorale alla sua parrocchia,<br />

aveva avuto un colloquio col signore che inaspettatamente era andato a trovarlo, e<br />

avendo saputo del suo rapimento, aveva subito mandato una sua lettiga, per<br />

prenderla e portarla nel paese dov’era lui. Lucia, conosciuto il nome del paese<br />

dov’erano diretti, molto vicino al suo, pensò subito a sua madre, esprimendo il<br />

desiderio di poterla presto rivedere; e la buona donna rispose <strong>com</strong>piacente che la<br />

manderebbero a prendere senz’altro, non sapendo che già ci aveva pensato il gran<br />

cuore del Cardinale. Poi aggiunse che era stata invitata a venire al castello dal suo<br />

curato, per incarico dell’Arcivescovo, concludendo che lei doveva davvero<br />

140


ingraziare Dio, perché era stata salvata in maniera proprio miracolosa, per un<br />

mirabile intervento della Divina Provvidenza. Le parole sincere, affettuose e<br />

infervorate della buona donna riuscirono nell’intento di rianimare Lucia, cosa che<br />

non era affatto riuscita, <strong>com</strong>e abbiamo visto, alla vecchia del castello. Quanta<br />

differenza tra le due donne! mentre nell’una ogni tenero sentimento è spento<br />

insieme alla religione, nell’altra ogni umano senso d’amore è vivificato e quasi<br />

sublimato dalla carità cristiana. Non vogliamo con questo affermare che la buona<br />

donna che andò a rilevare Lucia sia senza difetti; ha anch’essa le sue pecche,<br />

<strong>com</strong>e per esempio un certo senso di sé, un certo orgoglio; ma è tanto naturale e<br />

innocente questo orgoglietto, da apparire quasi simpatico, <strong>com</strong>e quando si rallegra<br />

di poter ospitare la ragazza senza alcuna preoccupazione economica, perché<br />

benestante. E’ anche una donna di molto intuito, che si è subito accorta del poco<br />

valore di don Abbondio, intorno al quale esprime un giudizio preciso, per nulla<br />

indulgente: “E trovandosi al nostro paese anche il vostro curato… ha pensato il<br />

signor cardinale di mandarlo anche lui in <strong>com</strong>pagnia; ma è stato di poco aiuto. Già<br />

l’avevo sentito dire ch’era un uomo da poco; ma in quest’occasione, ho dovuto<br />

proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa.” In queste parole<br />

un po’ maliziosette si avverte quel certo orgoglio di cui abbiamo parlato; infatti<br />

nell’affermazione che il curato è stato di poco aiuto, è implicita un’indiretta<br />

esaltazione del proprio ruolo. Si potrebbe dire anche, a voler giudicare con rigore,<br />

che la brava donna pecca contro la carità e l’umiltà evangelica, che c’impone di<br />

non criticare il prossimo; ma torno a dire che essa non è una santa, ma solo una<br />

buona donna, “una donna di cuore e di testa”, quale appunto la desiderava il<br />

Cardinale. Per certi aspetti del carattere ella rassomiglia a quella buona vedova<br />

che già conosciamo da un pezzo, la nostra Agnese, la quale anch’essa non ha<br />

troppi peli sulla lingua; e vedremo tra poco che non la modera affatto verso don<br />

Abbondio, che accusa dinanzi al cardinale di aver mancato al proprio dovere.<br />

Eppure Agnese è una donna timorata di Dio e caritatevole, e per tutto il resto<br />

irreprensibile; il suo unico difetto è di essere un po’ ciarliera, oltreché di manica<br />

larga riguardo alla liceità di certe azioni, <strong>com</strong>e il matrimonio di sorpresa. Direi<br />

però che la moglie del sarto è un tantino superiore <strong>com</strong>e spiritualità: la carità della<br />

vedova appare alquanto più angusta.<br />

A don Abbondio, durante il viaggio di ritorno, era naturalmente passata quella<br />

gran paura, specialmente quando fu del tutto fuori da quella brutta valle e dalle<br />

grinfie dei suoi temibili abitatori; ma il suo animo fu solo per poco del tutto<br />

sgombro da ogni preoccupazione. Poi subito si presentarono altri pensieri<br />

tormentosi, che prima erano, per così dire, latenti nelle pieghe del suo animo<br />

dominato dalla paura. Il Manzoni in proposito ci dà questa bellissima similitudine:<br />

“<strong>com</strong>e, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per<br />

qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce.” Il grand’albero finalmente<br />

sradicato è appunto “quella pauraccia” del castello, del suo padrone e dei suoi<br />

masnadieri, che gli aveva amareggiato il viaggio di andata; le erbacce nate al suo<br />

posto sono invece le nuove preoccupazioni, non così vistose, ma pur esse<br />

141


fastidiose, <strong>com</strong>e possono essere le eriche e le ortiche che ingombrano un<br />

passaggio obbligato.<br />

Nel viaggio di ritorno il nostro curato avvertì innanzi tutto la s<strong>com</strong>odità del<br />

cavalcare per quei greppi, lui che non c’era affatto abituato; e la mula, quasi per<br />

farlo apposta, voleva sempre camminare sul ciglio del sentiero, proprio sul<br />

burrone; sicché il poveretto, a ogni passo, temeva di essere catapultato nella<br />

voragine. Cercò ripetutamente, tirando le briglie, di far spostare quella testarda<br />

verso il centro della mulattiera, per non vedersi sotto gli occhi quell’abisso che gli<br />

dava le vertigini, ma non ci fu verso; sembrava che la bestia provasse un gusto<br />

matto a mettere gli zoccoli sull’orlo! E don Abbondio, dopo averla stizzosamente<br />

apostrofata in cuor suo: “hai anche tu quel maledetto gusto d’andar a cercare i<br />

pericoli, quando c’è tanto sentiero!”, desistette da ogni ulteriore tentativo e si<br />

lasciò “condurre a piacere altrui”, <strong>com</strong>’era suo destino. Infatti, proprio quella<br />

mattina, s’era lasciato indurre da Perpetua a recarsi nel paese dov’era il Cardinale,<br />

per ossequiarlo, mentre ne poteva benissimo fare a meno, secondo lui; e ora si<br />

rodeva contro “la signora Perpetua”, la serva padrona, non meno che contro la<br />

mula cerca-pericoli. Un’altra preoccupazione, meno immediata ma forse più<br />

grave, gli veniva da quel “bestione di don Rodrigo” il quale, non potendosela<br />

prendere né col Cardinale né con l’Innominato per il fallimento scandaloso e<br />

rumoroso della sua bell’impresa, poteva essere tentato di sfogarsi contro di lui,<br />

che non c’entrava per nulla. Ma tant’è! e conclude amaramente: <strong>“I</strong> colpi cascano<br />

sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria.” La sua filosofia pessimistica è resa più<br />

sconsolata dalla costatazione che il cencio è diventato proprio lui, lui che non<br />

s’impiccia mai di niente e di nessuno, lui che chiede soltanto di essere lasciato in<br />

pace. Ma tutti ce l’hanno con lui, sia i birboni che i santi! Anche il Cardinale, non<br />

poteva farne a meno di metterlo in ballo a quel modo? non bastavano il signore e<br />

la donna per andare a prendere Lucia?... E se poi Sua Eccellenza voleva andare a<br />

fondo della faccenda del matrimonio, chiedendogli conto della negata<br />

celebrazione? E se al Cardinale veniva in mente di fare della pubblicità su quella<br />

benedetta conversione, mettendo in mostra anche lui, che voleva essere<br />

dimenticato? Oh povero lui!... in questo caso don Rodrigo non gliela<br />

perdonerebbe certamente! Oppure doveva andare da lui, al palazzotto, a mettere in<br />

chiaro le cose, per abbonirlo, per fargli vedere che nella sgradevole circostanza si<br />

era trovato immischiato per mera obbedienza, tirato proprio per i capelli? Ma<br />

obbietta a sé stesso: “parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità. Oh<br />

santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il<br />

meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa <strong>com</strong>’è; e lascia poi fare a Perpetua a<br />

mandarla in giro.” Una volta tanto la loquacità della serva gli può essere utile,<br />

<strong>com</strong>e mezzo di pubblicità, dopo essergli stata tante volte dannosa! Il soliloquio<br />

termina con una costatazione molto triste: “Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da<br />

passarli male.”<br />

Le parole di don Abbondio meritano qualche <strong>com</strong>mento: egli dunque si<br />

scandalizza che qualcuno lo accusi di essere dalla parte degli iniqui; eppure lui – e<br />

glielo dimostrerà tra pochi giorni il suo arcivescovo – obbedendo puntualmente a<br />

142


don Rodrigo, si era schierato proprio dalla parte dell’iniquità, tradendo i suoi<br />

figlioli spirituali, affidati alle sue cure, i quali si fidavano del loro parroco, almeno<br />

prima che prevaricasse così sfacciatamente. L’iniquità, è vero, non gli dava degli<br />

spassi (e se glieli avesse dati, l’avrebbe seguita per questo?), ma essa gl’incuteva<br />

certamente un tale spavento, che ne subiva il <strong>com</strong>ando, collaborando praticamente<br />

con essa.<br />

Comunque, per evitare ogni pubblicità e ogni cerimonia inutile, don Abbondio<br />

decise di tornarsene subito a casa sua, una volta giunto al paese e condotta<br />

felicemente a termine la sua missione; e così fece. Non essendo il Cardinale<br />

ancora uscito di chiesa, il nostro curato lasciò all’Innominato i suoi ossequi e le<br />

sue scuse verso il superiore, dicendo che doveva assolutamente tornare alla sua<br />

parrocchia per affari urgenti; quindi ossequiò il signore e partì in fretta, dopo aver<br />

recuperato il “suo cavallo”, cioè il bastone, lasciato in un canto. L’Innominato<br />

rimase lì solo, attendendo che il Cardinale uscisse dalla chiesa.<br />

La buona donna fece condurre Lucia direttamente a casa sua, per rifocillarla, e<br />

intanto si <strong>com</strong>piaceva cordialmente con la ragazza per il fatto che quel giorno,<br />

considerato, in paese, festivo per la presenza dell’Arcivescovo, non c’era la gatta<br />

sul focolare, poiché tutti cercavano di festeggiare anche a tavola l’eccezionale<br />

avvenimento. Infatti, mettendo della legna minuta sotto il calderotto, in cui stava a<br />

cuocere un bel cappone, “fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella<br />

già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia.” Non senza una<br />

punta di <strong>com</strong>piacenza disse alla sua ospite che loro se la passavano benino; quindi<br />

aggiunse: “Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a<br />

tiro, e potrete ristorarvi un po’ meglio.” Notiamo volentieri il conversare cordiale<br />

e arguto della padrona di casa, tale da mettere davvero il buon umore in chi<br />

l’ascoltava; e ammiriamo anche la sua grande discrezione, segno di buon senso e<br />

di naturale intelligenza. Infatti non rivolse mai a Lucia una domanda curiosa, per<br />

quanto desiderasse sapere di lei tanti precedenti, che ignorava; ma l’alto senso<br />

della sua missione, che non era quella di cicalare, ma di consolare e rianimare, le<br />

fecero vincere la naturale curiosità. La finezza di questa brava donna è dimostrata<br />

anche dal bel garbo e dal notevole tatto con cui seppe mettere a suo agio l’ospite,<br />

una volta che l’ebbe condotta a casa sua. E Lucia, rimessasi un po’ in forze per il<br />

pasto, e soprattutto confortata dalla cordiale accoglienza, “andava intanto<br />

assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia:” la<br />

civetteria infatti non può albergare in un animo così profondamente religioso, e<br />

neppure un innocente desiderio di <strong>com</strong>parire; la ragazza riordina le sue vesti e i<br />

suoi capelli solo per un innato senso di decoro, per rispetto della sua persona,<br />

della casa che l’ospitava e dei suoi abitatori.<br />

Dopo aver rassettato le trecce, ri<strong>com</strong>pose il fazzoletto intorno al collo, e<br />

facendo questo le sue mani s’incontrarono con la corona, che la notte precedente<br />

si era messa al collo, dopo aver formulato il voto di verginità. La memoria della<br />

solenne promessa venne a un tratto a s<strong>com</strong>pigliarle le idee che aveva da poco<br />

faticosamente ri<strong>com</strong>poste, e il suo primo pensiero, quasi istintivo, fu di desolato<br />

pentimento: “Oh povera me, cos’ho fatto!” Questa è la Lucia reale, che si sente<br />

143


quasi perduta al pensiero di non poter più sposare l’uomo che ama; perciò non si<br />

dica che il Manzoni ha idealizzato troppo questo personaggio. Ma subito dopo<br />

ella si pentì del suo pentimento, capì che rammaricarsi di quel sacrificio, dopo<br />

aver ottenuto la grazia della liberazione, era un’ingratitudine, un sentimento<br />

egoistico e indegno di un cristiano; la sua fede, la rassegnazione abituale alla<br />

volontà di Dio, la salda fiducia che Egli l’avrebbe aiutata nel difficile <strong>com</strong>pito di<br />

mantenere quel voto, la salvarono da una costernazione senza speranza.<br />

Toltasi quindi la corona dal collo, la baciò con devozione e mentalmente<br />

confermò il voto, chiedendo insieme al Signore e alla Madonna anche la grazia di<br />

poterlo mantenere, dando rassegnazione sia a lei sia a Renzo. Ma al pensiero dello<br />

sposo promesso sentì <strong>com</strong>e un tuffo al cuore, fu lì lì per pentirsi, per disperarsi di<br />

nuovo; ma vinse lo scoramento con una fervida preghiera, con la quale chiese a<br />

Dio di liberarla da quei pensieri assillanti, da quelle immagini un tempo care, che<br />

ormai per lei costituivano solo una brutta tentazione. Riuscì a rasserenarsi<br />

alquanto, ma la tentazione, allontanata per quella volta, non era affatto vinta, e<br />

sarebbe tornata a tormentare il sensibile animo della ragazza, profondamente<br />

innamorata del suo Renzo. Povera Lucia, sì, per le sue sofferenze; ma anche<br />

ammirabile fanciulla, per la strenua lotta che seppe sostenere contro lo sconforto e<br />

contro il male, sostenuta solo dalla sua fede.<br />

A questo punto appare quasi inevitabile fare un confronto tra Lucia e<br />

Gertrude, tra la ragazza di campagna e la principessa. Costei era stata costretta al<br />

voto di verginità, e si sentiva perciò disperata, ricalcitrando sotto il giogo e<br />

sentendone per questo maggiormente l’oppressione, poiché non aveva il conforto<br />

della fede, che rende sopportabile ogni male scorgendo in esso un possibile bene;<br />

Lucia invece aveva fatto il voto spontaneamente, in un momento di disperazione<br />

in ogni mezzo umano, in un momento in cui ogni sacrificio le sembrava doveroso<br />

e anche facilmente sopportabile; ma in seguito non le sembrò più tale. Una volta<br />

liberata e tornata, per così dire, in una situazione normale, sente che ha sbagliato,<br />

facendo quel sacrificio supremo che certamente Dio non esigeva da lei, per<br />

liberarla; si pente ed è vicina a disperarsi, dovendo rinunciare per sempre a<br />

quell’amore così grande e così legittimo; ma la fede salda e la rassegnazione<br />

cristiana la sostengono e le rendono il giogo leggero e quasi soave. Questa fiducia<br />

in Dio è purtroppo mancata a Gertrude, per la quale la religione era “una larva<br />

<strong>com</strong>e l’altre.”<br />

Lucia stava ancora a tavola, quando tornò dalla chiesa la famigliola del sarto,<br />

cioè il capofamiglia, due bambine e un fanciullo. Solo per dovere di <strong>com</strong>pletezza<br />

dobbiamo rilevare che il Manzoni, a proposito di questa famiglia, cioè della sua<br />

<strong>com</strong>posizione, è incorso in una svista. Infatti nel capitolo XXIX, tornando a<br />

parlare di essa, fa capire che era formata da due ragazzi e una bambina,<br />

contrariamente a quanto dice nel presente capitolo: una piccola inesattezza, che<br />

non toglie nulla alla validità e alla poesia del romanzo. Può sembrare però strano<br />

che don Lisander, in genere così meticolosamente preciso, e per di più scrupoloso<br />

correttore del suo romanzo, di cui fece un paio di redazioni manoscritte e due<br />

edizioni a stampa (1827 e 1840 – 42), non si sia accorto né sia stato avvertito di<br />

144


questa inesattezza, della quale gli stessi <strong>com</strong>mentatori si sono accorti piuttosto<br />

tardi. Ma lasciando stare questo scambio di sesso, che ci fa un poco sorridere,<br />

diciamo qualcosa di questa, che è la seconda famiglia <strong>com</strong>pleta che <strong>com</strong>pare nel<br />

romanzo, dopo quella di Tonio (cap. VI). Quella che appare agli occhi di Renzo,<br />

venuto a cercare il suo testimone, è una povera famiglia di contadini , abbastanza<br />

numerosa, raccolta intorno a una piccola polenta bigia di gran saraceno, scodellata<br />

sulla tafferìa di faggio, la quale purtroppo non riuscirà a sfamarli del tutto. Essa è<br />

formata, oltre che dal capo famiglia, dallo scempiato fratello, dalla madre, dalla<br />

moglie e da “tre o quattro ragazzetti”. L’autore, non precisandone il numero,<br />

adopera proprio l’espressione di chi, vedendo un gruppo di marmocchi attorno al<br />

focolare, dove il padre rimena col matterello la magra polentuccia, non si mette a<br />

contarli, ma osserva soprattutto lo stato d’animo dei poveri bambini affamati, che<br />

stanno con i bramosi occhi fissi su quel nero paiolo! Questi figlioli ce li<br />

immaginiamo non solo denutriti, ma anche vestiti sommariamente con laceri<br />

indumenti, poiché se, a causa della carestia, si deve lesinare il cibo, non si<br />

spenderanno di certo denari per il vestiario! Invece la famiglia che si presenta ora<br />

agli occhi di Lucia potrebbe apparire, al confronto, molto benestante; e il<br />

Manzoni, con l’occhio meno preoccupato dall’aspetto di miseria che l’aveva<br />

colpito allora, osserva quasi <strong>com</strong>piaciuto ogni <strong>com</strong>ponente; non sono bambini<br />

mortificati dall’indigenza, <strong>com</strong>e quelli di Tonio, ma vispi e gioiosi: “due<br />

bambinette e un fanciullo entran saltando”. Qui, per grazia di Dio, i figlioli stanno<br />

bene nell’anima e nel corpo, perché vivono in un modesto benessere; entrano<br />

saltando e vociando, perché sono allegri, <strong>com</strong>e dovrebbero essere tutti i bambini,<br />

purché non manchi loro né l’affetto dei genitori né il necessario dal punto di vista<br />

materiale. Ai poveri figli di Tonio mancava proprio quest’ultima cosa, per cui non<br />

possono essere garruli e lieti, ma mogi mogi e muti stanno ad aspettare, con gli<br />

occhi sbarrati, che sia cotta quella polenta che purtroppo non sazierà la loro lunga<br />

fame. La pena dell’Autore davanti a questa scena è avvertibile tra le righe.<br />

Ma torniamo alla casa del sarto, dove entrano festanti i bambini, seguiti dal<br />

padre, che avanza “con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta<br />

in viso.” Il Manzoni ci dice subito che era “la miglior pasta del mondo”, ma<br />

questo non vuol dire che non abbia anche lui i suoi difettucci, tra cui principale un<br />

certo orgoglio di letterato. Infatti non era analfabeta, <strong>com</strong>e la maggior parte dei<br />

<strong>com</strong>paesani, e aveva letto più d’una volta la raccolta delle vite leggendarie degli<br />

antichi santi e anche alcuni romanzi cavallereschi, <strong>com</strong>e <strong>“I</strong>l Guerrin Meschino” e<br />

<strong>“I</strong> reali di Francia”, e per questo aveva acquistato in paese fama di “uomo di<br />

talento e di scienza”. Però lui faceva il modesto, e quando veniva lodato per la sua<br />

cultura, rispondeva “soltanto che aveva sbagliato vocazione; e che se fosse andato<br />

agli studi, in vece di tant’altri…!” Con queste parole il brav’uomo esaltava<br />

implicitamente la propria intelligenza, la quale sarebbe arrivata chi sa dove, se si<br />

fosse applicata alle lettere, invece che a fare vestiti per contadini.<br />

A parte questa piccola dose di vanità, egli era un buon cristiano, molto<br />

caritatevole, e aveva dato volentieri la sua approvazione al viaggio della moglie al<br />

castello, per prendere quella povera ragazza, che poi avrebbe anche ospitato con<br />

145


molto piacere. Tornava ora dalle funzioni di chiesa tutto entusiasta, perché la<br />

predica del Cardinale aveva “esaltati tutti i suoi buoni sentimenti.” La moglie gli<br />

presentò con <strong>com</strong>piacimento l’ospite, la quale si alzò da tavola impacciata, col<br />

viso rosso, balbettando qualche scusa; ma lui la mise subito a proprio agio,<br />

“facendole una gran festa”, affermando che lei aveva portato la benedizione di<br />

Dio in quella casa, mentre per loro era una gioia e un orgoglio poter ospitare una<br />

miracolata.<br />

Messisi tutti a tavola, durante il pasto il padrone di casa si mise a parlare con<br />

grande calore dei grandi avvenimenti della giornata, e soprattutto della mirabile<br />

predica dell’Arcivescovo, che aveva fatto piangere tutti, perché anche lui, il<br />

Porporato, aveva le lagrime agli occhi per la <strong>com</strong>mozione del momento. Oltre che<br />

della conversione di quel signore, pur senza nominarlo, egli aveva parlato della<br />

carestia, esortando tutti ad aiutarsi fraternamente, in spirito di carità, ma ad esser<br />

nello stesso tempo fiduciosi e contenti, nell’osservanza della santa legge di Dio,<br />

“perché la disgrazia non è il patire e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male.”<br />

E il Cardinale, aggiungeva il sarto, non faceva <strong>com</strong>e padre Zappata, che predicava<br />

bene e razzolava male, perché lui agiva appunto <strong>com</strong>e insegnava agli altri, ed era<br />

capace di togliersi il pane dalla bocca per sfamare i bisognosi. E aveva detto nella<br />

predica che non soltanto i ricchi dovevano sentire l’obbligo stretto di soccorrere il<br />

prossimo meno fortunato. A questo punto il buon uomo si fermò <strong>com</strong>e assorto nel<br />

pensiero della carità, doverosa per tutti i cristiani; e gli venne una buona<br />

ispirazione, ricordandosi di una povera vedova che abitava lì vicino, coi bambini<br />

da sfamare. Riempì perciò un piatto delle vivande che stavano a tavola, lo mise in<br />

un tovagliolo assieme a una pagnotta e, aggiuntovi un fiaschetto di vino, incaricò<br />

la bambina più grande di portar il tutto alla Maria; e aggiunse: “dille che è per<br />

stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia<br />

che tu le faccia l’elemosina. E non dire niente, se incontri qualcheduno.” A questo<br />

gesto di carità semplice e cordiale, fatto proprio secondo lo spirito evangelico,<br />

Lucia si <strong>com</strong>mosse sino alle lagrime, “e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice.”<br />

Le parole del suo ospite, ac<strong>com</strong>pagnate dalla premurosa azione caritativa, le<br />

avevano fatto un gran bene al cuore, infondendole anche più forza e più coraggio<br />

per mantenere il suo voto; la sua religiosità era per così dire sublimata<br />

dall’esempio altrui, per cui ella sentiva, nel gran sacrificio che offriva a Dio e alla<br />

Madonna, una certa “gioia austera e solenne.”<br />

Poco dopo venne alla casa del sarto il curato della parrocchia, per avvertire<br />

Lucia che Sua Eccellenza voleva vederla in giornata, e anche per ringraziare, in<br />

nome del superiore, la famiglia che le aveva offerto così pronta e squisita<br />

ospitalità. Chiese quindi alla ragazza se la madre fosse già arrivata; Lucia,<br />

sentendo che era stata mandata a prendere e ormai non poteva tardare, per la<br />

grande emozione scoppiò a piangere, e ci volle un bel po’ perché si potesse<br />

riavere dalla forte <strong>com</strong>mozione che l’inaspettata notizia le aveva procurato. Il<br />

curato infatti, per ordine del Cardinale, aveva mandato un barroccino, con un<br />

uomo assennato, a prendere Agnese la quale, sentendo il motivo dell’invio del<br />

mezzo, che il messo non sapeva ben circostanziare, era rimasta <strong>com</strong>e fuor di sé;<br />

146


quindi era salita in furia sul calesse, non vedendo l’ora di riabbracciare l’amata<br />

figliola. Lungo la strada, per fortuna, incontrò don Abbondio, che se ne tornava<br />

lemme lemme al paese, e da lui ebbe la certezza che Lucia era proprio salva, e si<br />

calmò alquanto. Il curato volle subito approfittare dell’occasione propizia, per<br />

ammonire la donna a non dir nulla all’Arcivescovo del matrimonio non celebrato,<br />

caso mai fossero ammesse, lei e la figlia, alla sua presenza, cosa non improbabile;<br />

Agnese però, vedendo che il parroco parlava nel suo solo interesse, lo piantò in<br />

asso, senza prometter nulla, avendo piuttosto intenzione di rivelar tutto.<br />

Non diciam nulla del <strong>com</strong>movente incontro di Lucia con la madre, dei reiterati<br />

abbracci, misti con lagrime di consolazione. Quando poi Agnese, sfogata la prima<br />

emozione, poté conoscere dalla viva voce della figlia tutto l’accaduto, riconobbe<br />

subito nel ratto un’impresa ordita da don Rodrigo, contro il quale si mise a<br />

inveire, appioppandogli gli epiteti che colui si meritava certamente, e augurando<br />

che Iddio lo pagasse secondo i meriti. Ma Lucia, anima veramente cristiana e<br />

quindi per nulla vendicativa, rimproverò dolcemente la madre: “No, no!<br />

preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, <strong>com</strong>e<br />

ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo.” E’<br />

proprio il caso di dire che la vendetta del cristiano è il perdono, ac<strong>com</strong>pagnato<br />

dalla preghiera per i persecutori.<br />

Nel racconto che fece alla madre Lucia tacque il particolare del voto, e aveva<br />

le sue buone ragioni; sapendo che la madre era un po’ ciarliera, voleva evitare che<br />

la cosa andasse per molte bocche; ma soprattutto, sapendo che la madre aveva la<br />

coscienza un po’ elastica, temeva che essa tirasse fuori “qualche sua regola larga”<br />

in fatto di morale, per dimostrarle che non era obbligata a mantenere quella<br />

promessa. E poi lei ne voleva parlare innanzi tutto a fra Cristoforo, suo padre<br />

spirituale, e stare al suo consiglio; e immaginate <strong>com</strong>e rimase male, quando seppe<br />

che era stato trasferito in un paese lontano lontano! Infine parlarono di Renzo, di<br />

cui si sapeva solo che era in salvo nel territorio bergamasco, ma dal quale non si<br />

era ancora avuta nessuna notizia positiva. Per la povera Lucia ormai<br />

quest’argomento era divenuto penoso, perché suscitava tutti i pensieri, e i desideri<br />

di un tempo, che doveva dimenticare; cercava perciò di cambiar discorso, e per<br />

fortuna proprio in quel momento fu annunziato l’arrivo imminente del Cardinale.<br />

Questi, finite le funzioni religiose, aveva desinato assieme all’Innominato, in<br />

un’accolta di sacerdoti, che non si saziavano di ammirare “quell’aspetto così<br />

ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento.” Alzatisi da<br />

tavola, i due personaggi ebbero un abboccamento molto più lungo del precedente,<br />

nel quale evidentemente toccarono i temi della nuova vita di riparazione e di<br />

edificazione religiosa e morale, che il signore aveva così risolutamente<br />

abbracciato. Quindi l’Innominato tornò al suo castello, a dare inizio al piano di<br />

rinnovamento che già aveva concepito, mentre il Cardinale chiese al curato di<br />

ac<strong>com</strong>pagnarlo a casa del sarto.<br />

Il buon prete, che era uno di quei tali galantuomini del “ne quid nimis”, rispose<br />

che Sua Eccellenza non si doveva affatto in<strong>com</strong>odare, perché li avrebbe subito<br />

fatti venire tutti, sia gli ospiti sia le due donne ospitate. L’Arcivescovo ribadì che<br />

147


voleva andare lui alla loro casa, e dovette insistere molto per convincere quel<br />

“curato guastamestieri (buon uomo del resto)” a lasciarlo fare, intendendo egli<br />

“con quella visita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo<br />

proprio ministero in un tempo.” Finezza di carità che, a quanto pare, non c’era<br />

nell’animo angusto di quel parroco.<br />

Quando i due, tanto differenti di dignità quanto di sensibilità evangelica,<br />

uscirono in strada diretti alla casa ospitale, subito si formò <strong>com</strong>e una processione<br />

di fedeli che volevano così onorare il loro presule, il quale avanzava a stento in<br />

mezzo alla folla sempre crescente, specie di bambini. che si facevano arditamente<br />

avanti, sgusciando tra gli adulti, per baciare la mano o toccare la porpora del loro<br />

pastore, che li accarezzava e benediceva paternamente assieme alla folla<br />

osannante. Vedendo la calca stringersi intorno al Cardinale, per tributargli il<br />

proprio affettuoso omaggio, il curato formalista gridava quasi scandalizzato: “Via,<br />

indietro, ritiratevi!” Ma il buon Federigo gli diceva dolcemente di lasciar fare, di<br />

non badare al cerimoniale, perché quei contatti diretti coi suoi fedeli, anche se<br />

faticosi, costituivano per lui <strong>com</strong>e un dovere paterno, e anche una gioia<br />

consolante. La scena ci ricorda quella del Vangelo, dei bambini che fanno ressa<br />

intorno a Gesù, e degli apostoli che cercano di allontanarli; e le parole<br />

dell’Arcivescovo riecheggiano il “Sinite parvulos venire ad me” che il Redentore<br />

oppose a quegli uomini zelanti, per allora, solo nell’impedire ai fanciulli il<br />

piacere di farsi accarezzare dal Buon Maestro, e a questi la gioia di trovarsi tra<br />

quelle anime candide ed entusiastiche.<br />

Tra la folla che ac<strong>com</strong>pagnava il Cardinale si trovava per caso anche il nostro<br />

buon sarto, il quale procedeva lentamente assieme agli altri, “con gli occhi fissi e<br />

con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe.” Ma quando vide che il<br />

Porporato entrava proprio a casa sua, si fece largo autorevolmente tra la calca ed<br />

entrò anche lui. Agnese e Lucia, che in quel momento erano sole, perché la<br />

padrona di casa era salita al piano di sopra, per preparare una camera per loro,<br />

davanti al Cardinale rimasero confuse e vergognose, vinte dalla soggezione e<br />

dall’emozione: l’improvvisa apparizione aveva loro mozzato la parola e quasi lo<br />

stesso respiro. Ma il sant’uomo con parole semplici e cordiali, con un fare<br />

familiare e premuroso, tolse subito alle poverine quella gran soggezione,<br />

mettendole ben presto a loro agio. Egli ricordò i patimenti della ragazza, ma anche<br />

i meriti che aveva acquistato soffrendo cristianamente per conservare la sua virtù,<br />

e aggiunse che questo suo dolore era servito per conquistare, con la grazia di Dio,<br />

il cuore di un peccatore il quale, cambiando vita, avrebbe anche sollevato dalle<br />

pene tanti poveri perseguitati e dato gloria a Dio con una vita di riparazione.<br />

In questo frattempo, mentre il sarto entrava dall’uscio di strada, la moglie<br />

scendeva dal primo piano; ma vedendo il presule a colloquio con le ospiti, con<br />

grande discrezione rimasero tutt’e due in disparte, per non disturbare. <strong>“I</strong>l<br />

Cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai<br />

conforti qualche domanda”, allo scopo di scoprire il modo migliore per poterle<br />

aiutare. Agnese, vedendo l’Arcivescovo così affabile e alla mano, si ricordò<br />

dell’egoismo di don Abbondio, sempre pronto a sacrificare gli altri pur di salvare<br />

148


il suo quieto vivere, e senza peli sulla lingua disse che tutti i preti dovrebbero<br />

essere <strong>com</strong>e Sua Eccellenza, pronti cioè ad aiutare la povera gente, e non a dare<br />

una mano per metterla nei pasticci. Il Cardinale naturalmente la mise alle strette,<br />

perché dicesse tutto quello che sapeva, e lei, che non aspettava altro, sciorinò tutti<br />

i panni sporchi del signor curato, non trascurando neppure il pretesto di dover<br />

rendere conto ai superiori, allegato dal vile prete per non fare il suo dovere. “Ah,<br />

Agnese!” esclama a questo punto il pur sempre indulgente Autore, dinanzi<br />

all’abilità, piuttosto malignetta, della “buona vedova” nell’ottenere che le fosse<br />

quasi imposto di vuotare il sacco. E quando l’ebbe vuotato con sua somma<br />

soddisfazione, sentendo dall’Arcivescovo che don Abbondio avrebbe dovuto<br />

rendere conto della cosa al suo superiore, finse di prendere le difese del curato, ma<br />

in definitiva non fece altro che rincarare la dose delle dure accuse. Sentiamola la<br />

malignetta: “Non lo sgridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a<br />

nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.” Naturalmente<br />

l’astuta Agnese tacque del tutto sul tentativo di matrimonio clandestino, perché<br />

non gli conveniva toccare quel tasto; ma Lucia, coscienza delicata, non poteva<br />

approvare questo sotterfugio, e confessò candidamente al Cardinale il male che<br />

anche loro avevano fatto, per il quale il Signore, secondo lei, li aveva poi castigati.<br />

E’ proprio il caso di esclamare con Dante: “O dignitosa coscienza e netta – Come<br />

t’è picciol fallo amaro morso!” 7 Il buon Federigo, ammirando la sincerità<br />

scrupolosa della ragazza, la consolò ed esortò a stare di buon animo, aggiungendo<br />

con dolcezza: “chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e<br />

pensa ad accusar sé medesimo?”<br />

Domandò quindi del fidanzato della giovane; e qui dovette rispondere la<br />

madre, perché, presa dalla vergogna, Lucia restava muta, “con la testa e gli occhi<br />

bassi”. Agnese raccontò <strong>com</strong>e il poveretto era dovuto fuggire dal suo paese, che<br />

cosa gli era capitato a Milano, dove era stato scambiato per un sedizioso, chi sa<br />

per quale imbroglio, perché era un bravo giovane, <strong>com</strong>e poteva testimoniare<br />

anche il signor curato; e concluse: <strong>“I</strong> poveri, ci vuol poco a farli <strong>com</strong>parir<br />

birboni.” Sacrosanta verità, <strong>com</strong>e riconobbe il Cardinale, il quale promise che<br />

avrebbe assunto informazioni del giovane, in cui difesa anche Lucia non si era più<br />

vergognata d’intervenire, per dovere di carità e di giustizia, affinché risultasse<br />

chiara e certa l’onestà di Renzo. Infatti, pur arrossendo, confermò in coscienza<br />

che era un giovane dabbene, fugando con le sue parole ogni eventuale dubbio<br />

dell’Arcivescovo.<br />

Questi chiese poi ai padroni di casa se potevano ospitare per qualche giorno le<br />

due donne; la moglie rispose subito, con calore, che lo facevano volentieri, ma il<br />

sarto voleva dare la sua adesione con una frase più scultorea, in modo da fare una<br />

gran bella figura in quella storica occasione. Ma purtroppo, per quanto frugasse<br />

nella sua mente, non trovò per l’occasione che un magro “si figuri!”, che in<br />

seguito gli amareggiò sempre, col suo importuno ricordo, la gioia e la<br />

7 Divina Commedia: Purg. III vv. 8-9<br />

149


consolazione di quella visita illustre. Il Cardinale, dopo aver ancora ringraziato,<br />

partì benedicendo la casa e i suoi abitatori. Tornato alla canonica, chiese al curato<br />

in che modo si potesse <strong>com</strong>pensare il buon sarto dell’ospitalità alle due forestiere,<br />

la quale in quei tempi di carestia non poteva che essere onerosa. L’interrogato<br />

rispose che quei bravi coniugi erano benestanti, e lo facevano certo molto<br />

volentieri, specie sapendo di far cosa gradita a Sua Eccellenza; del resto era sicuro<br />

che non avrebbero accettato alcuna ri<strong>com</strong>pensa. Allora il Cardinale domandò se il<br />

sarto avesse, tra i <strong>com</strong>paesani, dei crediti purtroppo non esigibili in quello stato di<br />

crisi agricola; avendo saputo che ne aveva parecchi, ordinò di fargliene avere il<br />

conto, perché intendeva pagarli lui tutti, e in seguito far lavorare il sarto per<br />

vestire i nullatenenti, pagando lui tutte le spese. In tal modo Federigo, con senso<br />

squisito di carità, nel mentre <strong>com</strong>pensava indirettamente e munificamente il<br />

brav’uomo per la sua opera buona, aiutava direttamente i poveri diseredati della<br />

parrocchia, o pagando i loro debiti o fornendoli di vestiti nell’imminenza<br />

dell’inverno. Un altro esempio del gran cuore di questo mirabile principe della<br />

Chiesa.<br />

Diremo ora in breve <strong>com</strong>e chiuse quella straordinaria giornata il neo<br />

convertito. Quando a sera egli tornò al castello, la sconvolgente notizia del<br />

cambiamento che si era operato in lui lo aveva preceduto; ma non per questo ad<br />

alcuno dei suoi sudditi venne in mente di poterglisi ribellare o anche soltanto<br />

mancargli di rispetto, oppure venir meno in qualche modo alla disciplina militare<br />

che regnava in quel posto da tempo immemorabile. A tutti i bravi che via via<br />

incontrava, il signore faceva cenno che lo seguissero, e “tutti venivan dietro con<br />

una sospensione nuova, e con la soggezione solita.” Giunto nel cortile del castello,<br />

emise il suo noto grido di richiamo, al quale tutti dovevano accorrere <strong>com</strong>e a un<br />

segnale di allarme. Fattili quindi riunire nella sala grande, parlò loro con<br />

semplicità , ma anche con franchezza e decisione: Dio gli aveva toccato il cuore,<br />

per cui aveva deciso di cambiar vita, di non <strong>com</strong>metter più delitti, ma piuttosto<br />

riparare al mal fatto; tutti gli ordini dati loro in passato erano revocati, e da quel<br />

momento in poi non potevano più far del male ad alcuno per suo <strong>com</strong>ando e sotto<br />

la sua protezione; erano liberi di restare con lui o d’andarsene; chi se n’andava<br />

avrebbe ricevuto il salario dovuto e in più una buonuscita, ma non doveva più<br />

tornare in quel luogo, se non per cambiar vita, ché in questo caso sarebbe sempre<br />

stato il benvenuto; chi rimaneva sarebbe stato per lui <strong>com</strong>e un fratello, e lui si<br />

sarebbe, se necessario, tolto il pane di bocca per sfamarlo; la vita che avevano<br />

condotto finora conduceva alla perdizione eterna; lui aveva già imboccata la<br />

strada opposta, quella del bene, che conduce alla salvezza, e augurava loro di<br />

poter fare lo stesso, con la grazia di Dio; egli lo pregava che illuminasse le loro<br />

coscienze, toccasse il loro cuore, <strong>com</strong>e aveva fatto a lui; ora andassero a dormire,<br />

perché la notte porta consiglio; l’indomani, uno per uno, li avrebbe fatti chiamare<br />

per conoscere la decisione di ciascuno.<br />

Tutti se ne andarono muti e pensierosi, riflettendo su quanto avevano udito; lui<br />

ispezionò, <strong>com</strong>e al solito, le varie parti del castello, quindi andò a coricarsi, per<br />

nulla preoccupato per aver lui stesso sciolto e infranto quella ferrea disciplina che<br />

150


eggeva quella fortezza e teneva in soggezione quella guarnigione di briganti.<br />

Giunto in camera sua, si inginocchiò accanto al letto e si mise a pregare: le<br />

preghiere della sua infanzia innocente gli tornarono spontanee sulle labbra, ma<br />

con un sentimento nuovo, con una significazione profonda, con la <strong>com</strong>mozione di<br />

chi, dopo un lungo viaggio tempestoso, tocca finalmente le rive beate della sua<br />

infanzia. Ripensò a quand’era fanciullo felice, ignaro del male, e decise di<br />

riconquistare quell’innocenza per mezzo della mortificazione e del sacrificio.<br />

Messosi poi a letto, non tardò a prendere sonno. Ormai la sua coscienza si era<br />

calmata, il perdono di Dio gli aveva arriso consolatore, e perciò il sonno, che la<br />

notte precedente aveva sospirato invano, questa volta non si fece attendere, dopo<br />

quella lunga e faticosa giornata che l’aveva <strong>com</strong>pletamente cambiato.<br />

151


CAPITOLO XXV<br />

Il giorno dopo non solo nel paese che ospitava Lucia, ma in tutto il territorio di<br />

Lecco, non si faceva altro che parlare del miracolo, perché tale era ritenuto il fatto<br />

congiunto della conversione dell’Innominato e della liberazione della ragazza, la<br />

quale veniva popolarmente chiamata “la giovine del miracolo”; e tutti la volevano<br />

vedere, ma ella se ne stava ben ritirata nell’ospitale casa del sarto. Naturalmente<br />

nel villaggio degli sposi esplose l’odio popolare contro don Rodrigo, che tutti<br />

avevano ravvisato <strong>com</strong>e il mandante dell’infame rapimento; mentre prima non<br />

osavano parlarne male, per timore dei suoi bravi, ora sentendosi per così dire<br />

protetti da due illustri e potenti personaggi, <strong>com</strong>e l’Innominato e il Cardinale,<br />

rosolavano ben bene non solo lui, ma anche i suoi manutengoli, o amici che dir si<br />

voglia, quali il signor podestà di Lecco e il dottor Azzecca-garbugli. Mentre prima<br />

non si sdegnavano troppo o non si degnavano affatto per le prepotenze del<br />

signorotto, poiché lo sdegno non si poteva sfogare senza grave pericolo, ora<br />

invece i paesani sentivano appieno la sua iniquità, e l’indignazione latente esplose<br />

in aperta riprovazione. A questo proposito il Manzoni fa un’acuta osservazione, la<br />

quale ci spiega l’acquiescenza dei popoli a ogni specie di dittatura; acquiescenza<br />

che – post factum vel extra terminos – molto ci meraviglia, ma forse non ci<br />

meraviglierebbe affatto, se noi ci trovassimo in quello stato o fossimo vissuti in<br />

quel determinato periodo storico. Infatti gli uomini, afferma l’Autore, “quando<br />

l’indignazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran<br />

meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto.”<br />

Potremmo anzi aggiungere che questa sensibilità attutita è in questi casi una<br />

specie di grazia di Dio, la quale ci salva dalla disperazione per certe situazioni che<br />

non potremmo cambiare in nessun modo, neppure se ci prodigassimo <strong>com</strong>e eroi o<br />

ci sacrificassimo <strong>com</strong>e martiri.<br />

Don Rodrigo già scosso dalla notizia, per lui assolutamente imprevedibile,<br />

della conversione del suo potente alleato, inviperito per le dicerie che correvano<br />

sul suo conto, desideroso <strong>com</strong>’era di rialzare la propria riputazione dando una<br />

severa lezione a qualcuno dei più audaci mormoratori, aveva deciso di rimanere<br />

nel suo palazzotto a sfidare l’impopolarità e a preparare la vendetta. Ma quando<br />

seppe che il Cardinal Federigo sarebbe venuto in quel paese in visita pastorale,<br />

non volendo rendergli omaggio, cosa che il Conte zio avrebbe preteso, si affrettò<br />

ad andarsene a Milano, col proposito di tornar presto a far le sue vendette.<br />

L’Arcivescovo, continuando il suo giro di visite alle parrocchie, giunse anche<br />

al paese di Lucia, il quale era stato addobbato con rustica semplicità dagli abitanti,<br />

animati da grande entusiasmo soprattutto per essere i <strong>com</strong>paesani della “giovine<br />

del miracolo”. L’illustre ospite giunse di pomeriggio, e tutti i fedeli uscirono per<br />

accoglierlo, mentre arrivava in lettiga dalla borgata vicina. Don Abbondio avrebbe<br />

voluto mettere un po’ di ordine nella tumultuosa accoglienza popolare, formando<br />

una specie di corteo, ma visto che non riusciva a contenere l’entusiasmo del<br />

152


popolo, che traboccava da ogni parte, specie quando in fondo alla strada apparve<br />

la lettiga del Cardinale, indispettito tornò indietro brontolando contro quella<br />

spontanea dimostrazione di affetto, e andò ad attendere in chiesa. In questa<br />

Federigo entrò aprendosi a stento il varco in mezzo alla folla acclamante; e dopo<br />

essersi raccolto alquanto in preghiera, tenne ai presenti un breve sermone per<br />

prepararli nel modo migliore alle funzioni del giorno seguente, affinché fossero<br />

per tutti feconde di bene spirituale. Benedetta la folla, si ritirò nella canonica<br />

dove, tra l’altro, chiese al parroco informazioni sul fidanzato di Lucia. Don<br />

Abbondio, che aveva contro Renzo un po’ di ruggine, rispose che era “un giovane<br />

un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico”, pensando soprattutto al modo<br />

violento con cui gli aveva estorto, quel mattino, il nome di don Rodrigo; ma<br />

quando il superiore volle un giudizio morale più esplicito, dovette riconoscere che<br />

era onesto, aggiungendo che nemmeno lui capiva <strong>com</strong>e avesse potuto <strong>com</strong>piere in<br />

Milano le azioni di cui lo accusavano. Interrogato poi in merito a un eventuale<br />

ritorno di Lucia al paese, si disse d’accordo nel considerarlo scevro di ogni<br />

pericolo, finché fosse lì presente l’Arcivescovo; sicché fu dato ordine che una<br />

lettiga andasse l’indomani, di buon’ora, a rilevare le due donne, per permettere<br />

loro di godersi la loro casa almeno per alcuni giorni.<br />

Agnese e Lucia erano vissute nella casa del sarto al riparo da ogni pubblicità,<br />

per la squisita discrezione e l’amorevole attenzione di quei bravi coniugi, che<br />

seppero ben tutelare l’intimità delle loro ospiti. Madre e figlia conversavano tra di<br />

loro, e talora con la famiglia ospitale, sempre con affettuosa tenerezza. Agnese<br />

ogni tanto parlava di Renzo, credendo di far piacere alla figlia e di risollevarne il<br />

morale. Si diceva sicura che prima o poi il giovane si sarebbe fatto vivo, e allora,<br />

restando lui fermo nella sua promessa (e <strong>com</strong>e dubitarne?), si andava tutti nel<br />

bergamasco, per metter su casa in quel luogo, lontani da ogni pericolo e da ogni<br />

provocazione. Lucia però non si rallegrava sentendo questi discorsi pieni di rosee<br />

speranze, anzi sembrava che ne provasse <strong>com</strong>e una pena; in realtà ella sentiva che<br />

avrebbe dovuto rivelare alla mamma che non poteva più essere la moglie di quel<br />

poverino, ma non ne aveva il coraggio, sapendo quale dolore le avrebbe arrecato<br />

con tale inattesa rivelazione, e perciò rimandava da oggi a domani. A quei discorsi<br />

pieni di fiducia, a quelle prospettive così accarezzate, la poverina o non<br />

rispondeva niente o cercava di deviarli, affermando evasivamente che sperava<br />

solo di potersi presto ricongiungere definitivamente con lei; ma “le più volte il<br />

pianto veniva opportunamente a troncar” quell’argomento così spinoso per la<br />

ragazza. Essa cercava di distrarsi soprattutto col lavoro, oltre che con la preghiera,<br />

e chiedeva sempre alla padrona di casa che le desse qualcosa da cucire, non<br />

volendo rimanere mai inoperosa.<br />

Nelle vicinanze del paesetto del sarto villeggiavano due coniugi attempati,<br />

ricchi e di antica nobiltà: don Ferrante e donna Prassede. Costei voleva far del<br />

bene a tutti i costi; si sentiva investita, per così dire, da questa santa missione, che<br />

attuava però secondo le sue idee, che erano poche e in gran parte storte, ma dalle<br />

quali non declinava né punto né poco. Infatuata <strong>com</strong>’era, incorreva senza<br />

accorgersene in tre gravi errori: in primo luogo prendeva spesso per bene ciò che<br />

153


non lo era affatto; in secondo luogo, usava spesso dei mezzi che ottenevano<br />

l’effetto contrario di quello voluto; in terzo luogo, usava talora dei mezzi non<br />

leciti, persuasa che il fine santo per il quale agiva giustificasse ogni cosa. Con<br />

questi tre vizi di forma e di sostanza, ognun può capire che la sua smania di far del<br />

bene si risolveva spesso in una vera calamità per le persone alle quali rivolgeva la<br />

sua benigna attenzione. Avendo saputo di Lucia e delle sue vicissitudini, ebbe<br />

subito curiosità di conoscerla, subodorando un soggetto bisognoso delle sue<br />

benevole cure; e un giorno si decise a mandare una carrozza con il maggiordomo,<br />

per prendere madre e figlia. Costei non voleva andare, per la sua naturale<br />

riservatezza, ma questa volta il sarto, trattandosi che l’invito veniva da “una<br />

coppia d’alto affare”, e che la premurosa gentildonna “oltre il resto, era anche una<br />

santa”, mise in opera tutta la sua autorità perché Lucia non rifiutasse, coadiuvato<br />

in ciò calorosamente da Agnese, alla quale quel rigoroso isolamento era venuto<br />

ormai quasi in uggia, e voleva assolutamente che si accettasse l’onorifico invito.<br />

Donna Prassede fece loro un’accoglienza veramente cordiale, liberandole<br />

subito dalla soggezione che provavano davanti a persone estranee, e per di più<br />

nobili; ella s’informò benignamente di Lucia, e avendo saputo che il Cardinale<br />

aveva promesso di trovarle una sistemazione meno precaria, si offrì senz’altro di<br />

prenderla in casa sua, dove non sarebbe stata obbligata ad alcun servizio, ma<br />

avrebbe potuto, se lo desiderava, per suo passatempo, aiutare le altre donne nella<br />

cura della casa. Alle donne l’offerta parve vantaggiosa e degna perciò di essere<br />

accettata, previa approvazione dell’Arcivescovo, sia per la serietà e dignità della<br />

famiglia, sia per essere la villa a così poca distanza dal loro paese, sicché madre e<br />

figlia si sarebbero potute rivedere, se non prima, almeno alla prossima<br />

villeggiatura. Avendo ricevuto il loro consenso, non privo di un sentimento di<br />

gratitudine, la gentildonna assicurò che lei stessa avrebbe <strong>com</strong>unicato la nuova al<br />

Cardinale, onde ottenerne il consenso; quindi le congedò rinnovando “le<br />

gentilezze e le promesse.” Senza perdere tempo, infatti, donna Prassede si fece<br />

stendere una bella lettera da suo marito, che era un letterato il quale, in casa,<br />

<strong>com</strong>andava solo nel campo dell’ortografia, mentre in tutto il resto il bastone del<br />

<strong>com</strong>ando era saldamente in mano alla sua autorevole consorte, la quale temperava<br />

il suo arcigno impero con un’aria d’untuosa umiltà, che la faceva credere davvero<br />

una santa donna da chi non la conosceva a fondo. Essa si era prontamente offerta<br />

di ospitare la ragazza non solo per fare un’opera buona, e guadagnare stima e<br />

meriti presso il Cardinale, venendogli così spontaneamente incontro in una tale<br />

congiuntura, ma anche per raddrizzare il cervello a Lucia la quale, essendosi<br />

promessa a uno scampaforca, doveva necessariamente avere delle pecche; stava a<br />

lei individuarle e curarle: quella era la sua missione. Questo pregiudizio nei<br />

riguardi di Lucia, concepito al primo sentir parlare di lei, fu, a suo parere, subito<br />

confermato dal primo incontro con la ragazza, che giudicò molto caparbia e di<br />

temperamento passionale; per cui era convinta, nella sua presunzione, che le<br />

disgrazie che le erano successe erano una punizione di Dio per il suo errore, e un<br />

severo monito a che si staccasse per sempre da quel poco di buono, se non voleva<br />

incorrere in guai più gravi. E scambiando il giudizio di Dio col suo pregiudizio, si<br />

154


itenne anche investita direttamente dal Cielo della sacra missione di redimere<br />

quell’anima traviata, rimettendola sulla buona strada.<br />

La lettera per il Cardinale, ampollosamente stilata dal dotto consorte e da lei<br />

diligentemente ricopiata, fu inviata con sollecitudine alla casa del sarto, prima che<br />

le donne tornassero al loro paesello, con la preghiera di consegnarla esse stesse<br />

nelle mani dell’illustre destinatario. Lucia e Agnese furono accolte <strong>com</strong>e in<br />

trionfo dai loro <strong>com</strong>paesani, e vennero condotte subito alla presenza<br />

dell’Arcivescovo, al quale consegnarono la missiva di donna Prassede. Federigo<br />

la lesse subito, cercando di ricavare “il sugo del senso dai fiori di don Ferrante”;<br />

quindi, conoscendo quella famiglia abbastanza per esser sicuro che lì Lucia<br />

sarebbe immune da insidie e da pericoli, dette il suo assenso, sebbene avesse<br />

qualche notizia dell’aspra e invadente spiritualità di quella signora. Tuttavia<br />

Federigo non era il tipo di intromettersi negli affari altrui, per rifarli a suo modo, a<br />

meno che non avesse serie ragioni di intervenire, per evitare qualche male; accettò<br />

quindi la soluzione che gli veniva offerta con tanta premura. Consolò poi le donne<br />

in vista della nuova separazione che s’imponeva loro, la quale non poteva essere<br />

che dolorosa, e le esortò a confidare nel Signore, che non abbandona mai chi<br />

soffre per la causa della giustizia.<br />

Don Abbondio si rallegrava in cuor suo per il fatto che l’Arcivescovo, nel<br />

colloquio che aveva avuto con lui, non gli avesse chiesto conto del matrimonio<br />

non celebrato, ed era ormai sicuro che Agnese non aveva ciarlato (un vero<br />

miracolo!); ma purtroppo questa sua euforia fu amaramente troncata dopo le<br />

funzioni religiose del mattino, quand’egli si preoccupava ormai soltanto del<br />

solenne pranzo in onore del suo eminente ospite. Questi infatti lo fece<br />

inaspettatamente chiamare e, con l’aria di chi inizia un “discorso lungo e serio”,<br />

gli chiese a bruciapelo perché si era rifiutato di unire in matrimonio i due giovani<br />

fidanzati. Il curato cercò in un primo momento di eludere la precisa e stringente<br />

domanda con una risposta vaga e non impegnativa, dicendo che quello era un<br />

affare imbrogliato, in cui non ci si vedeva chiaro neppure allora, dopo tante tristi<br />

vicende; ma Federigo, quasi sdegnato davanti al meschino tentativo del suo<br />

dipendente, gli chiese recisamente se era vero o no che egli aveva rifiutato con<br />

falsi pretesti di celebrare quel matrimonio nel giorno stabilito. Il vile prete si fa<br />

“piccino piccino”, ma ancora recalcitra, non vuol confessare, e risponde che sono<br />

cose spinose, che ormai sono passate, e a rimestarle si fa peggio…; ma vedendo lo<br />

sguardo severo dell’Arcivescovo, non disposto a farsi menar per l’aia, aggiunge<br />

balbettando che Monsignore non vorrà la sua rovina, perché parlando rischia la<br />

morte… ma parlerà se Sua Eccellenza glielo <strong>com</strong>anda. E avendo questi ribadito la<br />

sua intenzione di sapere tutta la verità, il poveretto si accinge a narrare la dolorosa<br />

storia, con qualche omissione suggeritagli lì per lì dalla paura, per cui, invece di<br />

nominare don Rodrigo, disse che “un gran signore” sotto minaccia di morte gli<br />

aveva proibito di celebrare quel tale matrimonio.<br />

Allora il Cardinale, di fronte all’egoismo e alla viltà del suo parroco, “con<br />

accento ancor più grave” gli ricordò che la Chiesa, affidandogli il ministero<br />

sacerdotale, non gli aveva affatto dato sicurtà circa la vita del corpo, né gli aveva<br />

155


detto che, ove <strong>com</strong>inciasse il pericolo, lì cesserebbe il dovere; anzi gli aveva<br />

insegnato proprio il contrario, che cioè chi cerca di conservare la vita a spese della<br />

carità e della giustizia, la perde, mentre chi soffre per causa di Cristo, vince anche<br />

se apparentemente resta soc<strong>com</strong>bente. E se non sapeva questo, che cosa insegnava<br />

agli altri, quale era la buona novella che annunziava al popolo fedele?<br />

Don Abbondio, al suono di queste sante e infervorate parole, si sentiva “<strong>com</strong>e<br />

un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione<br />

sconosciuta”; quei concetti non gli riuscivano nuovi, li aveva più volte letti e<br />

ripetuti lui stesso; ma ora gli facevano un certo effetto, <strong>com</strong>e di precetti che vanno<br />

non solo proclamati, ma adempiuti. Però c’era lì quella pauraccia, che fungeva da<br />

avvocato difensore, la quale con la sua presenza non gli permetteva di aderire col<br />

cuore a quei bei precetti, e di sentire orrore per la sua meschinità e il suo egoismo,<br />

che lo avevano indotto alla prevaricazione, a tradire insieme il suo ministero e i<br />

suoi figlioli spirituali. E volendo ancora difendersi, rispose che non capiva che<br />

cosa ci si potesse guadagnare, in quella circostanza, a “voler fare il bravo”,<br />

essendo quello un signore con cui non si poteva “né vincerla né impattarla”, ma<br />

era inevitabile perdere. Ma avendo l’altro ribadito che “il soffrire per la giustizia”<br />

è la vittoria del cristiano, e tanto più del sacerdote, ministro della Grazia, don<br />

Abbondio <strong>com</strong>e per finirla, ammettendo i propri limiti, disse che forse aveva agito<br />

male, ma “il coraggio, uno non se lo può dare.” E credeva, con questo<br />

riconoscimento, di aver chiuso l’argomento; ma il santo Arcivescovo non si<br />

poteva accontentare di tanto poco, e replicò subito che, se non aveva il coraggio di<br />

lottare e soffrire per la giustizia e la carità, non avrebbe dovuto abbracciare quel<br />

ministero, che proprio questo impone; ma una volta divenuto sacerdote, anche<br />

senza averne le qualità e virtù necessarie, avrebbe potuto e dovuto acquistarle con<br />

la preghiera e i sacramenti; perché solo Dio è il nostro aiuto e la nostra forza,<br />

purché a Lui ricorriamo umili e fiduciosi, riconoscendo le nostre miserie: credeva<br />

forse che tutti quei martiri, che avevano affrontato la morte per Cristo, fossero<br />

tanto eroicamente forti solo per loro virtù naturale? La carne è debole in chiunque,<br />

e lo spirito deve vincere questa debolezza attingendo alla Fonte stessa della<br />

fortezza cristiana, ricorrendo per aiuto a Colui che ha tanto sofferto perché ci ha<br />

amato immensamente. Per essere forti bisogna dunque amare, amare Dio sopra<br />

ogni cosa e amare il prossimo <strong>com</strong>e noi stessi; e quando si ama non si ha paura,<br />

perché “l’amore è intrepido”. Se infatti lui li avesse amati quei suoi poveri<br />

parrocchiani insidiati dall’iniquo potente, non avrebbe temuto per sé, ma per loro;<br />

che cosa dunque gli aveva suggerito la carità? che cosa aveva fatto o almeno<br />

tentato per difenderli? Mentre don Abbondio crede di aver chiuso il discorso con<br />

l’ammissione della sua pochezza, il Cardinale vuole approfondire l’analisi del suo<br />

egoismo, al fine di ottenerne un vero pentimento, con un serio proposito di<br />

cambiamento; e perciò incalza il pavido prete con quelle precise domande.<br />

156


CAPITOLO XXVI<br />

Al principio di questo capitolo l’Autore mostra “una certa ripugnanza a<br />

proseguire” nel riferirci il colloquio, in cui l’Arcivescovo mette in campo “tanti<br />

bei precetti di fortezza e di carità”; ma poi si fa coraggio e decide di continuare,<br />

pensando che quelle per Federigo non erano soltanto delle belle parole, ma delle<br />

norme di vita, e i precetti erano ac<strong>com</strong>pagnati dalle azioni in ogni circostanza<br />

della vita. Egli dunque aveva chiesto al curato che cosa gli avesse suggerito “il<br />

timor santo e nobile per gli altri”, cioè l’amore per i suoi figlioli; ma don<br />

Abbondio taceva, perché lui aveva sentito soltanto l’amore egoistico, il timore per<br />

la propria vita, la preoccupazione per sé stesso; la carità perciò non poteva<br />

consigliargli nulla, in quanto non trovava posto in quel suo cuore sordo a ogni<br />

istanza altruistica.<br />

Il Cardinale <strong>com</strong>prese il significato di quel silenzio imbarazzato, e per far<br />

costatare al curato l’abiezione a cui era giunto, gli domandò se, oltre ad obbedire<br />

all’iniquità in tutto e per tutto, non avesse anche mendicato dei falsi pretesti,<br />

mettendo in campo i superiori, per non <strong>com</strong>piere il proprio dovere e ingannare<br />

quei poveretti. Don Abbondio, invece di confessare e di arrossire di confusione,<br />

sentiva solo una grande stizza per le “chiacchierone” che avevano fatto la spia,<br />

non tralasciando neppure questo particolare, pur di aggravare la sua posizione<br />

dinanzi al superiore. E anche contro costui se la prendeva, per il suo importuno<br />

rigore, stizzendosi soprattutto per il fatto che, mentre aveva gettato subito le<br />

braccia al collo a quel satanasso, dimenticando a un tratto tutte le sue malefatte,<br />

faceva poi tanto chiasso e scandalo con lui, “per una mezza bugia, detta al solo<br />

fine di salvar la pelle.” Ma vedendo che l’Arcivescovo era sempre in attesa della<br />

sua risposta, disse: “Ho mancato… ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella<br />

sorte?” Riconosce così la sua mancanza, ma la ritiene quasi di forza maggiore.<br />

Il Cardinale si mostrò giustamente meravigliato che egli ancora chiedesse che<br />

cosa doveva fare, dimostrando con ciò che non aveva ancora capito nulla: ebbene,<br />

doveva fare semplicemente il suo dovere, “amare e pregare”, e per il resto<br />

affidarsi a Dio; non ingannare i suoi parrocchiani, né tenerli all’oscuro del<br />

pericolo che correvano, ma avvertirli sollecitamente, e aiutarli a difendersi dalle<br />

insidie e dalla violenza: questo imponeva il dovere del pastore buono; se poi non<br />

si sentiva il coraggio necessario per sfidare l’iniquità, ne doveva informare il suo<br />

vescovo, il quale certamente non avrebbe preso pace, finché non avesse messo al<br />

sicuro e le pecore e il pastore minacciato. Don Abbondio ricordò tra sé, ma quasi<br />

con disprezzo, che questo d’informare l’Arcivescovo era stato appunto il<br />

peregrino parere di Perpetua; e non si rendeva conto che appunto questo<br />

coincidere dei due pareri, e del prelato e della serva, significava che la cosa<br />

appariva tanto ovvia, che ognuno ci poteva arrivare, meno lui naturalmente, che<br />

era accecato dalla paura e dall’egoismo.<br />

157


Il meschino davanti a questi argomenti di Federigo, al sentire quelle ardenti<br />

esortazioni alla carità, rimaneva un po’ confuso, ma interiormente non era affatto<br />

convinto, pensando che don Rodrigo era vivo e vegeto, arrabbiato più che mai,<br />

desideroso di vendetta e circondato di scherani pronti a tutto, mentre il Cardinale,<br />

in fin dei conti, poteva solo rimproverare, ammonire, magari anche punire, ma<br />

non adoperava certamente le armi. Il porporato continuò la grave ammonizione<br />

facendogli osservare che lo stesso prepotente signore, che osava dare quei<br />

<strong>com</strong>andi, si sarebbe ben guardato dal passare dalle minacce alle offese, quando<br />

avesse saputo che l’Arcivescovo era avvertito e stava all’erta; e aggiunse che,<br />

<strong>com</strong>e spesso si promette più di quanto si intenda mantenere, così si minaccia<br />

anche quello che poi non si oserebbe fare, perché “l’iniquità non si fonda soltanto<br />

sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui.” Erano proprio le<br />

assennate osservazioni di Perpetua, la quale davanti alla paura del padrone per<br />

un’eventuale schioppettata nella schiena, gli aveva detto con molto buon senso:<br />

“Eh! le schioppettate non si danno via <strong>com</strong>e confetti: e guai se questi cani<br />

dovessero mordere tutte le volte che abbaiano!” Ma il meschino prete ricalcitra<br />

ancora a ogni argomento e di ragione e di fede, perché nel suo intimo, col metro<br />

della sua morale, non si sente affatto colpevole; e insofferente della paternale del<br />

superiore, perché convinto di aver agito per legittima difesa, a un certo punto<br />

sbotta: “Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser nei panni<br />

d’un povero prete…” Come per dire, con una punta di rimprovero: belle parole le<br />

sue, ma la realtà è diversa, e tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare… Erano<br />

parole impertinenti e offensive, suggerite solo dalla stizza, e colui stesso che le<br />

aveva pronunciate si morse le labbra, non appena gli furono uscite di bocca, e<br />

desolato per il trascorso pensò tra sé: “ora viene la grandine”, aspettandosi la<br />

violenta e giusta reazione del superiore offeso. Quale non fu perciò la sua<br />

meraviglia allorché, alzando paventosamente lo sguardo al viso del Cardinale, non<br />

lo vide affatto in preda allo sdegno, ma atteggiato a “una gravità <strong>com</strong>punta e<br />

pensierosa”. Infatti il mite e umile Federigo non aveva affatto prese quelle parole<br />

<strong>com</strong>e un’offesa alla propria dignità e virtù, ma <strong>com</strong>e un richiamo a considerare le<br />

proprie debolezze, <strong>com</strong>e se il suo inferiore lo avesse ammonito: chi è senza<br />

peccati scagli la prima pietra. E senza adontarsi per l’impertinenza di quel<br />

meschino, umilmente riconosce che purtroppo questa è la misera e terribile<br />

condizione dei superiori, di dover esigere dagli altri quello che chissà se essi stessi<br />

hanno saputo fare o farebbero in una situazione simile; però aggiunse: “Ma guai<br />

s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del<br />

mio insegnamento!” Certamente però egli doveva dare ai sottoposti anche<br />

l’esempio, e non soltanto i precetti; perciò se il curato avesse costatato che lui, il<br />

suo vescovo, aveva in qualche occasione, per viltà o per rispetto umano,<br />

trascurato il proprio dovere, era in obbligo di avvertirlo; e lui avrebbe accolto il<br />

richiamo con animo grato, perché purtroppo “gli errori di quelli che presiedono<br />

son spesso più noti agli altri che a loro.” E detto questo, attese quello che il<br />

parroco avesse da dire su di lui, su qualche sua mancanza.<br />

158


Ma don Abbondio non apprezzava davvero la <strong>com</strong>punta umiltà del suo<br />

Arcivescovo, perché anche in forza di questa virtù egli continuava a tenerlo sulle<br />

spine, rimestando e indagando sul passato; e tra sé sbuffava: “Oh che sant’uomo!<br />

ma che tormento!” Poi per far dimenticare le sue stolte parole, ad alta voce esaltò<br />

“il petto forte, lo zelo imperterrito” del suo superiore, il quale replicò che non<br />

voleva delle lodi, le quali lo facevano tremare, ma un sincero riconoscimento della<br />

<strong>com</strong>une debolezza, insieme a una fervorosa preghiera al Signore, onde ottenere la<br />

forza di <strong>com</strong>piere sempre e ovunque i doveri della propria missione. Chiedeva al<br />

suo confratello, con la confessione di aver gravemente mancato al suo dovere, il<br />

fermo proposito di agire, d’allora in poi, secondo la santa legge della carità,<br />

attingendo alla preghiera, alla quotidiana meditazione e ai carismi sacramentali la<br />

grazia di non più prevaricare. Era un paterno e autorevole invito a redimersi.<br />

Ma quel sacerdote indegno, lungi dal fare una sincera confessione di colpa,<br />

pensò ad accusare e, dando libero sfogo alla sua stizza, disse che quelle tali<br />

persone, che avevano sparlato contro di lui, non avevano certamente rivelato di<br />

essersi introdotte a tradimento in casa sua, per fare un matrimonio irregolare. Alla<br />

meschinità del pretonzolo, il quale crede bene di difendersi accusando gli altri, noi<br />

contrapponiamo la magnanima sincerità di Lucia la quale, contrariamente<br />

all’opinione del suo curato, si era appunto accusata spontaneamente, e con vero<br />

patimento, di quella lieve colpa, <strong>com</strong>messa da lei malvolentieri e in stato di<br />

necessità. Così il Cardinale ebbe la misura esatta della miseria spirituale del suo<br />

parroco il quale, invece di recitare il “confiteor”, pensava ancora a scusarsi, e per<br />

di più lo faceva accusando delle persone tanto a lui superiori sia in onestà che in<br />

spirito cristiano. Il buon Federigo si sentiva veramente amareggiato e sfiduciato<br />

dinanzi a tale protervo e inqualificabile <strong>com</strong>portamento, quasi incredibile in un<br />

sacerdote; ma frenò lo sdegno del proprio animo, pensando che il suo dovere non<br />

era di condannare, ma di redimere, di ricuperare quel sacerdote alla santa missione<br />

di carità, di <strong>com</strong>muovere quel cuore chiuso dall’egoismo. E cercò di fargli capire<br />

che non doveva nutrire del risentimento contro quelle persone, solo perché si<br />

erano in un modo tanto <strong>com</strong>prensibile sfogate col loro vescovo; doveva piuttosto<br />

sentirsi grato verso di esse, perché gli avevano permesso di riconoscere la propria<br />

colpa, onde pentirsene e proporsi fermamente di cambiare, con l’aiuto di Dio. Li<br />

doveva amare quei poveretti, perché erano suoi figlioli, perché avevano tanto<br />

sofferto e ancora soffrivano, senza nessuna sicurezza dell’avvenire; li doveva<br />

amare paternamente, perché aveva bisogno del perdono divino, per ottenere il<br />

quale sarebbe oltremodo efficace la loro preghiera.<br />

Finalmente don Abbondio sente un po’ di rimorso, o meglio un po’ di<br />

scontentezza di sé e un po’ di amore per gli altri; il Cardinale aveva parlato con<br />

tanto cuore, con sì umile carità, che quell’animo gretto e arido si era alquanto<br />

aperto a sentimenti più cristiani e più fraterni: “sentiva un certo dispiacere di sé,<br />

una <strong>com</strong>passione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione.” L’uomo<br />

caparbiamente egocentrico si accende alquanto di carità accanto al santo suo<br />

vescovo, “<strong>com</strong>e lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato<br />

alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol<br />

159


saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia.” Tra le belle<br />

similitudini del romanzo, questa ci sembra la più calzante, la più efficace, la più<br />

icasticamente evidente e vigorosa.<br />

Federigo, accortosi che il curato ha finalmente aperto il suo cuore, già<br />

inaridito dall’egoismo, al soffio vivificatore dell’amore del prossimo, conclude<br />

esortandolo a perseverare in questo sentimento, essenziale per ogni cristiano e<br />

tanto più doveroso per un ministro di Dio, a recuperare il tempo perduto nel<br />

cammino verso la santità, verso la perfezione cristiana; e cerca infine di<br />

trascinarlo in alto in un anelito di ardente carità: “la mezzanotte è vicina; lo Sposo<br />

non può tardare; teniamo accese le nostre lampade.”<br />

Dobbiamo riconoscere che la personalità ieratica del Cardinale, nel colloquio<br />

con don Abbondio forse più che in quello con l’Innominato, esprime tutta la<br />

ricchezza e la pienezza del suo cuore magnanimo e santo, e senza nulla perdere<br />

della sua alta spiritualità, acquista una dimensione umana veramente sublime,<br />

specialmente alla fine, quando riesce a sollevare alquanto alla sua altezza quel<br />

prete meschino, ac<strong>com</strong>unandosi a lui, umiliandosi e confondendosi al suo fianco,<br />

esortandolo infine con parole ardenti e con accento profondamente ispirato:<br />

“Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vuoti, perché gli piaccia riempirli di<br />

quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida,<br />

piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo<br />

bisogno.” Penso che parole così sublimi mai siano state dette, se non forse da San<br />

Paolo, a esaltazione della carità, la quale è la virtù-cardine del cristiano, e oserei<br />

dire la virtù unica, poiché tutte le altre ci sono quando essa c’è, mentre senza di<br />

essa nessun’altra può sussistere; infatti, <strong>com</strong>e ben dice il Manzoni, è la stessa<br />

carità che, di volta in volta, si trasforma in quella virtù di cui abbiamo bisogno in<br />

un dato momento della nostra vita; che è <strong>com</strong>e dire che tutte le virtù cristiane<br />

derivano dal <strong>com</strong>andamento dell’amore.<br />

Il giorno seguente a questo colloquio giunse in paese donna Prassede, per<br />

prendere Lucia e ossequiare il Cardinale, “il quale gliela lodò, e rac<strong>com</strong>andò<br />

caldamente”, con molta probabilità perché avvertiva che ce n’era bisogno con<br />

quella donna di ruvida e intollerante spiritualità. Agnese si distaccò con dolore e<br />

con lagrime dalla figlia, promettendo di andarla a trovare nella villa ospitale,<br />

prima che la gentildonna rientrasse a Milano. Qualche giorno dopo giunse in<br />

paese il parroco del sarto, con una lettera dell’Innominato per il Cardinale, nella<br />

quale lo pregava di far accettare ad Agnese, per dote della figliola, i cento scudi<br />

che accludeva, aggiungendo che, se mai le donne avessero avuto bisogno di<br />

qualche cosa, facessero senz’altro assegnamento su di lui, che avrebbe considerato<br />

una vera grazia il poter loro essere utile in qualche modo.<br />

Federigo fece chiamare Agnese, cui consegnò il rotolo del danaro,<br />

ac<strong>com</strong>pagnandolo con l’offerta di servigi da parte di quel signore. La donna<br />

accettò senza far troppi <strong>com</strong>plimenti, e ringraziò di tutto cuore, pregando però il<br />

Cardinale di non dire nulla a nessuno di quei soldi… Il Porporato avrà risposto<br />

con un benevolo sorriso di assenso a questa ingenua, anche se inopportuna<br />

richiesta, senza minimamente adontarsene, tanto era mite e umile di cuore.<br />

160


Quale non fu la gioia e la meraviglia, per non dire lo sbalordimento attonito,<br />

della buona vedova allorché, chiusasi in casa, poté aprire quell’involto,<br />

contemplare e contare i cento scudi, tutti in una volta, mentre sì e no la poveretta<br />

ne aveva visto qualcuno, di tanto in tanto, nella sua lunga esistenza! Pensò subito<br />

a Lucia, perché con tutta quella grazia di Dio ogni cosa si poteva aggiustare, ogni<br />

difficoltà risolvere facilmente. Dopo essere per alcuni minuti rimasta lì<br />

trasognata, rifece diligentemente il rotolo, con molta difficoltà data la sua<br />

imperizia, e tutta emozionata lo nascose dentro al suo pagliericcio. Quando la sera<br />

si coricò, non riusciva a dormire, pensando al tesoro che teneva nascosto sotto; e<br />

quando finalmente, dopo aver per molte ore sognato a occhi aperti, riuscì a<br />

chiuder occhio, li vide in sogno, quei benedetti scudi!<br />

Il giorno dopo, di prima mattina, si mise subito in cammino, tanto era<br />

impaziente di andare a confidare la grande notizia alla sua Lucia. Non appena poté<br />

essere sola con lei, le rivelò tutto, mettendola anche a parte dei suoi lieti progetti<br />

per l’avvenire: non appena Renzo avesse dato notizia di sé, esse sarebbero andate<br />

là, e si sarebbe messa su casa in quel paese, lontano da ogni pericolo e da ogni<br />

tentazione, perché col denaro a tutto si trova rimedio… Però la figlia, invece di<br />

rallegrarsi a quella rosea prospettiva, sembrava impensierirsene, <strong>com</strong>e oppressa da<br />

una pena segreta; per cui Agnese le chiese preoccupata perché rimanesse così<br />

fredda davanti a quell’insperata fortuna, che poteva capovolgere la loro situazione<br />

e risolvere tutto per il meglio…<br />

La ragazza, la quale aveva già deciso di rivelare il voto alla madre in<br />

quell’incontro, che doveva essere anche l’ultimo per quell’anno, approfittò del<br />

discorso iniziato dalla madre, per dirle che purtroppo non poteva più sposare quel<br />

poverino. E, alla meraviglia angosciata di Agnese, spiegò <strong>com</strong>e in quella terribile<br />

notte, disperando di ogni salvezza, aveva proprio fatto voto a Dio e alla Madonna<br />

di rimanere vergine per tutta la vita; e tra le lagrime supplicò la madre di<br />

<strong>com</strong>prenderla, <strong>com</strong>patendola e aiutandola a mantenere quella solenne promessa<br />

che aveva fatto con piena e libera coscienza.<br />

La povera donna rimase annichilita e muta: l’improvvisa rivelazione<br />

sconvolgeva tutti i suoi piani, sui quali aveva tanto speranzosamente almanaccato<br />

sin dal giorno precedente; appena poté articolar parola, chiese costernata: “E ora<br />

cosa farai?” Agnese è moralmente crollata alla notizia veramente imprevista e<br />

imprevedibile, e si lascia scappare questa desolata domanda che potrebbe solo<br />

accrescere lo sgomento della figlia; ma questa per grazia di Dio ha già superato<br />

l’abbattimento dei primi giorni, e risponde alla madre che lei si è affidata<br />

<strong>com</strong>pletamente alla Divina Provvidenza, in cui confida: ormai non desidera altro,<br />

dopo la salvezza dell’anima, che tornare al più presto a vivere con lei. La prega<br />

teneramente, non appena avrà notizie di Renzo, di metterlo al corrente di questo<br />

impedimento, pregandolo di rassegnarsi a ciò che purtroppo è immutabile; le<br />

chiede infine, con maggiore accoramento, di <strong>com</strong>unicare anche a lei che Renzo ha<br />

scritto e sta bene, che è stato avvertito… e poi più nulla. Ma il suo cuore, <strong>com</strong>e<br />

osserva acutamente il Manzoni, “faceva ancora a mezzo con Renzo”, per quanto<br />

lei cercasse di dimenticarlo; sicché chiese alla madre ancora un altro piacere: di<br />

161


mandare una metà di quegli scudi a quel poverino che aveva perduto tutto, e<br />

andava in giro per il mondo, bisognoso di tutto.<br />

La buona donna aderì subito al desiderio della figliola, aggiungendo che era<br />

stata tanto contenta di quel denaro solo perché pensava che lei avrebbe potuto<br />

goderselo con il suo Renzo; ora che ciò non era più possibile, avrebbe volentieri<br />

aiutato quel poverino, per quanto capisse che quegli scudi non gli avrebbero fatto<br />

buon pro, ac<strong>com</strong>pagnati <strong>com</strong>’erano dalla notizia di dover rinunciare per sempre<br />

alla fidanzata. Quindi madre e figlia si separarono <strong>com</strong>mosse, con la promessa di<br />

rivedersi, al più tardi, alla prossima villeggiatura.<br />

Il Cardinale, <strong>com</strong>e aveva promesso alle donne, cercò di avere informazioni del<br />

fuoruscito; presumibilmente si rivolse a qualche ecclesiastico del Bergamasco, ma<br />

non ne ricevette che notizie vaghe e contraddittorie; e il fatto si spiega. Il<br />

Governatore di Milano aveva protestato energicamente presso l’ambasciatore<br />

veneto, perché un pericoloso ribelle, fuggito dalle mani della polizia, aveva<br />

trovato ricovero nel territorio della Repubblica. Il Governo veneto, che aveva<br />

interesse ad attirare gli operai tessili milanesi entro i propri confini, per<br />

incrementare la sua industria serica in concorrenza con quella lombarda,<br />

desiderava anche che costoro non avessero noie, qualunque fosse il motivo per cui<br />

avevano passato il confine. Perciò le autorità di Venezia, prima di indagare su<br />

questo espatrio clandestino, onde inviare una risposta ufficiale al loro<br />

ambasciatore, per interposta persona fecero sapere a Bortolo che era bene far<br />

cambiare aria al suo amico, per metterlo al sicuro da ogni ricerca. Il buon<br />

“baggiano” capì a volo, e immediatamente portò il cugino in un’altra filanda, a<br />

una quindicina di miglia da lì, dove lo rac<strong>com</strong>andò al proprietario, suo amico, al<br />

quale lo presentò col nome di Antonio Rivolta. Così il Governo della Serenissima<br />

poté <strong>com</strong>unicare a quello di Milano che, fatte diligenti ricerche in base alle<br />

informazioni fornite, risultava che nessun Lorenzo Tramaglino si era rifugiato nel<br />

territorio bergamasco. Finezze della politica, sempre vecchie e sempre nuove!<br />

Bortolo poi, a chi gli chiedeva del cugino, rispondeva che era partito senza dirgli<br />

niente, s<strong>com</strong>parso proprio all’improvviso: forse si era arruolato contro i Turchi,<br />

oppure era andato in Germania, chi sa! Quando poi gli furono chieste<br />

informazioni di Renzo per conto del Cardinale Borromeo, senza nominarlo ma<br />

facendo capire che si trattava di un personaggio importante, il signor Castagneri<br />

maggiormente si insospettì, non potendo conoscere le intenzioni benevole di quel<br />

tal personaggio, e sciorinò in una volta tutte le dicerie che sul conto del cugino<br />

aveva via via fabbricate e poste in giro per accontentar la gente.<br />

162


CAPITOLO XXVII<br />

In apertura di capitolo l’Autore torna a parlare della guerra di successione al<br />

Ducato di Mantova, alla quale ha già accennato di sfuggita altre volte, e della<br />

quale si era anche parlato durante il banchetto in casa di don Rodrigo. Ritorna più<br />

diffusamente sull’argomento, per meglio rendere conto del <strong>com</strong>portamento di don<br />

Gonzalo, governatore di Milano, nei riguardi dei tumulti di San Martino e delle<br />

persone in essi implicate, tra cui il nostro Renzo; perciò ne daremo un cenno<br />

anche noi, cercando di lumeggiare l’intricata vicenda.<br />

Alla morte del duca Vincenzo II Gonzaga, che non lasciava eredi, il ducato di<br />

Mantova e il Monferrato, che ne dipendeva, furono occupati dal parente più<br />

prossimo, Carlo Gonzaga, naturalizzato francese, quale duca di Nevers e Rhétel, e<br />

quindi protetto dal re di Francia Luigi XIII o meglio dal potente suo ministro<br />

Cardinale di Richelieu, il quale voleva naturalmente fare di quel duca una valida<br />

pedina della politica francese in Italia. Favorevoli al nuovo duca erano anche il<br />

papa Urbano VIII (Barberini) e la Repubblica di Venezia. Contrari a Carlo<br />

Gonzaga erano per converso il re di Spagna Filippo IV, cioè il suo primo ministro<br />

Conte d’Olivares il quale non poteva naturalmente vedere quella presenza<br />

francese ai fianchi del dominio spagnolo di Lombardia, e Ferdinando II<br />

d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, il quale si era sentito offeso dal<br />

fatto che il duca di Nevers si fosse insediato in Mantova senza richiedere la sua<br />

investitura, pur essendo quel ducato un feudo dell’Impero; quindi pretendeva che<br />

Carlo Gonzaga rimettesse a lui in deposito gli stati contestati; lui poi, valutati i<br />

titoli e le ragioni dei pretendenti, lo avrebbe assegnato a chi di diritto. L’aspirante<br />

sostenuto dalla Spagna era Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla, per Mantova,<br />

mentre per il Monferrato le simpatie spagnole andavano a Carlo Emanuele I, duca<br />

di Savoia, il quale pretendeva il Monferrato <strong>com</strong>e spettanza della figlia<br />

Margherita, che aveva sposato un Gonzaga e poi era rimasta vedova.<br />

Don Gonzalo Fernandez de Cordova, desideroso d’ingrandire il dominio<br />

spagnolo nella penisola, aveva stipulato un trattato col duca di Savoia, per<br />

occupare e dividersi il Monferrato, protestando però che l’occupazione era del<br />

tutto provvisoria, in attesa della decisione dell’Imperatore. Ma mentre il Duca<br />

aveva celermente e facilmente occupata la propria quota, don Gonzalo non<br />

riusciva a spuntarla contro Casale, per la vigorosa difesa degli assediati o forse<br />

anche per la sua inettitudine. Sicché Carlo Emanuele, col pretesto di volerlo<br />

aiutare, occupava or l’uno or l’altro dei paesi assegnati all’alleato, con grande<br />

dispetto di questo, il quale non osava però lagnarsene nel timore che il Duca, noto<br />

per le sue impennate, non facesse qualche voltafaccia.<br />

Sembra che il Manzoni, parlando dell’assedio di Casale Monferrato e di don<br />

Gonzalo, non sia stato storicamente obiettivo e imparziale, esprimendo un<br />

giudizio piuttosto canzonatorio nei riguardi di tutta la faccenda e soprattutto del<br />

Governatore di Milano, che qualcuno ha definito “una vittima storica” del nostro<br />

163


Autore. Infatti dai documenti dell’epoca risulterebbe che il Cordova, uomo pio e<br />

di buona cultura, aveva intrapreso il famigerato assedio di Casale contro sua<br />

volontà; nel romanzo invece lo si dice “voglioso oltremodo” di condurre quella<br />

guerra, per pura brama di gloria militare. Ma non vogliamo addentrarci nella<br />

polemica storica, artisticamente irrilevante; e diciamo soltanto che il<br />

Governatore, mentre era appunto ingolfato in quel maledetto assedio, fu<br />

richiamato a Milano dai tumulti di cui abbiamo parlato. Ivi gli fu presentata una<br />

relazione degli avvenimenti, e non gli fu taciuto che uno dei caporioni della<br />

sedizione si era rifugiato nel territorio bergamasco, dopo essere scappato dalle<br />

mani dei birri. Allora don Gonzalo, oltremodo irritato per gli aiuti che i Veneziani<br />

davano sotto mano al Duca di Nevers, pensò di approfittare della circostanza per<br />

fare con loro la voce grossa, per dimostrare che si sentiva forte nonostante i<br />

tumulti. Perciò presentò quella protesta della quale già conosciamo il seguito e il<br />

risultato del tutto negativo. Quando la risposta veneta gli venne inoltrata, al campo<br />

nei pressi di Casale, don Gonzalo, in tutt’altre faccende affaccendato, stentò<br />

finanche a ricordarsi del fatto.<br />

Tuttavia Renzo, il quale non poteva sapere che quella protesta e la<br />

conseguente ricerca era stata puramente dimostrativa, e che lui si era trovato<br />

immischiato in avvenimenti politici che trascendevano la sua modesta persona,<br />

temendo di essere rintracciato, se ne stette per molti mesi ben nascosto nel nuovo<br />

paese, pur pensando sempre al modo di far avere sue notizie ad Agnese, e di<br />

ricevere a sua volta notizie soprattutto di Lucia, perché erano giunte sino a lui<br />

alcune vaghe voci sui terribili casi che le erano occorsi. La prima difficoltà, per<br />

<strong>com</strong>unicare con le nostre donne, era per Renzo quella di trovare un segretario che<br />

scrivesse per lui, una persona veramente fidata; la seconda, di trovare un corriere<br />

ugualmente fidato, che s’incaricasse di recapitare la lettera. Dopo molte e diligenti<br />

ricerche, le due gravi difficoltà furono finalmente superate: la lettera fu scritta<br />

all’indirizzo di Agnese Mondella, ma venne inserita in una missiva diretta a Padre<br />

Cristoforo di Pescarenico, poiché Renzo non sapeva se la donna fosse ancora a<br />

Monza o fosse tornata in paese. La lettera giunse regolarmente al convento, ma<br />

qui il Guardiano probabilmente la cestinò, stante l’ordine del Provinciale che fra<br />

Cristoforo non mantenesse alcuna corrispondenza con gente del posto.<br />

Non vedendo giungere alcuna risposta, il giovane fece scrivere una seconda<br />

lettera, che accluse in un ‘altra diretta a un suo amico o parente di Lecco. La<br />

missiva giunse felicemente ad Agnese la quale corse a Maggianico, per farsela<br />

leggere dal cugino Alessio, “uomo di proposito” oltre che “letterato”, nel senso<br />

che conosceva quella “birberia” del leggere e scrivere. Nella lettera Renzo, dopo<br />

aver parlato della sua fuga, del cambiamento di paese e di nome, per l’avviso<br />

segreto ricevuto da Bortolo, passava a chiedere ansiosamente notizie di Lucia, e<br />

concludeva con promesse di fedeltà e con parole di fiducia nell’avvenire. Agnese<br />

s’accordò con Alessio, persona esperta oltre che seria, e insieme stilarono la<br />

risposta, che fu inviata e recapitata; s’iniziò così, tra lei e Renzo, un carteggio non<br />

regolare, ma continuato, pur tra mille difficoltà, di cui non ultima quella di capirsi<br />

attraverso lo stile dei vari scrivani, i quali non si rassegnavano affatto a essere<br />

164


strumenti passivi, ma pretendevano di interpretare, di migliorare, di correggere<br />

quello che veniva loro dettato; e preoccupandosi di dare una forma letteraria allo<br />

scritto, secondo le loro personali vedute, spesso non facevano altro che travisarne<br />

o annebbiarne il senso. La situazione si <strong>com</strong>plicava anche per il fatto che gli stessi<br />

interessati, trattando argomenti un po’ gelosi, che non volevano lasciar capire agli<br />

estranei, si esprimevano un po’ in enigma, con allusioni poco chiare, che elaborate<br />

dalla penna dei segretari si trasformavano in veri e propri rompicapo.<br />

Quando Agnese trovò un corriere molto fidato, mandò a Renzo i cinquanta<br />

scudi, secondo il desiderio di Lucia, con una lettera con cui gli spiegava il fatto<br />

del voto, per mezzo di circonlocuzioni poco chiare, e infine lo esortava a mettere<br />

il cuore in pace e non pensare più alla ragazza, la quale non poteva più essere<br />

moglie di nessuno. Immaginatevi l’emozione, o meglio la furia del giovane<br />

quando sentì la lettera, che si fece rileggere più volte, perché non si poteva<br />

capacitare della cosa, tanto essa gli sembrava strana e inaudita. Quindi, ancor tutto<br />

turbato per la nuova che lo aveva sconvolto, pretese che il “lettore interprete”<br />

prendesse subito la penna in mano e rispondesse che lui il cuore in pace non lo<br />

metterebbe mai, che Lucia doveva essere sua, che lui non voleva saperne di<br />

promesse, che la Madonna ci sta per aiutare i tribolati e per dispensare grazie,<br />

non per far mancare di parola; aggiungendo che non toccherebbe neppure uno di<br />

quegli scudi, che dovevano servire per dote della giovane.<br />

Quando Lucia seppe dalla madre “che quel tale era vivo e in salvo e<br />

avvertito” (del voto), provò una grande consolazione, e augurandosi che Renzo<br />

pensasse a dimenticarla, cercava anche lei di fare la stessa cosa, e ci riusciva fino<br />

a un certo punto, dedicandosi tutta alla preghiera e al lavoro. Ci sarebbe riuscita<br />

molto meglio, se non ci si fosse messa anche donna Prassede la quale, per fargli<br />

dimenticare il fidanzato, glielo dipingeva <strong>com</strong>e un “birbante venuto a Milano per<br />

rubare e scannare”, aggiungendo che certe ragazze hanno un debole per gli<br />

scapestrati, e quando ne hanno uno nel cuore, non se lo tolgono più. La povera<br />

giovane “con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che<br />

poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna”, cioè nella sua<br />

condizione di ospite beneficata, cercava di difendere il povero bistrattato, solo per<br />

senso di giustizia e di carità cristiana; e allora l’arcigna moralista incalzava<br />

maggiormente, adducendo questa umile difesa dell’assente <strong>com</strong>e prova lampante<br />

“che il suo cuore era ancora preso dietro a colui”, <strong>com</strong>e appunto lei sosteneva; e<br />

l’aspra reprimenda continuava per un pezzo, mentre la poverina tremava e<br />

piangeva. Ma l’ispida vecchia non si <strong>com</strong>moveva a quelle lagrime, e continuava<br />

imperterrita il suo rabbuffo, convinta che faceva un’opera meritoria, e che nel far<br />

del bene non bisogna farsi smuovere neppure dalle lagrime; allo stesso modo,<br />

osserva il Manzoni, i pianti supplichevoli potranno trattenere la spada di un<br />

nemico, ma non il bisturi d’un chirurgo, il cui dovere sacrosanto è di immergerlo<br />

nella carne dolorante del paziente, allo scopo di sanarlo. Per fortuna di Lucia<br />

queste baruffe non erano molto frequenti, perché la signora non doveva<br />

raddrizzare solo il suo cervello. C’era il resto della servitù, tutta gente piena di<br />

difetti, che donna Prassede doveva continuamente emendare secondo le sue<br />

165


personali vedute; c’erano soprattutto le cinque figlie le quali, pur non essendo in<br />

casa, le davano da fare e da pensare più che se ci fossero. Tre erano suore, per cui<br />

ella aveva tre monasteri da sorvegliare; due erano sposate, ed ecco due case da<br />

controllare e da guidare. Naturalmente e nelle due case e nei tre monasteri si<br />

faceva di tutto per evitare o eludere le sue premure opprimenti, i suoi interventi<br />

senza tatto e senza senno, le sue pretese odiose o balorde; ma lei continuava<br />

imperturbabile a intromettersi e a lottare, convinta <strong>com</strong>’era di essere investita di<br />

una missione speciale della Divina Provvidenza per la salvaguardia morale della<br />

società.<br />

Anche al signor marito l’arcigna matrona aveva cercato d’imporre il suo<br />

giogo, ma don Ferrante, tutto chiuso nei suoi studi, era riuscito a sfuggirgli,<br />

accontentandosi di lasciarla fare; e lei, dopo aver tentato a lungo di farselo umile<br />

ministro del suo dispotico governo, lo mise da parte, relegandolo in un cantuccio e<br />

chiamandolo uno schivafatiche, un fissato, un letterato: “titolo nel quale, insieme<br />

con la stizza, c’entrava anche un po’ di <strong>com</strong>piacenza”. Questo barlume di<br />

sentimento, vale a dire questa certa fierezza per il dotto marito, rende un po’ di<br />

dimensione umana a questa bigotta importuna e scriteriata, angusta e pretenziosa,<br />

la quale però in fondo non era cattiva; e lo vediamo anche nel suo <strong>com</strong>portamento<br />

verso la nostra dolce Lucia: è vero che le faceva di tanto in tanto quelle tali lavate<br />

di capo, ma “poi nel resto la trattava con gran dolcezza”; e la ragazza non provava<br />

alcun risentimento verso di lei, anche se molto doveva soffrire per quelle scenate<br />

irragionevoli che le toglievano la calma per parecchi giorni.<br />

Ma torniamo a don Ferrante, al quale l’Autore dedica la fine del capitolo,<br />

parlando diffusamente della sua biblioteca e dei suoi studi prediletti. Trattando di<br />

questi e di quella, il Manzoni attua forse meglio che altrove il suo verismo<br />

espressivo, esprimendosi cioè <strong>com</strong>e avrebbe potuto fare lo stesso don Ferrante,<br />

riportando per così dire i suoi giudizi, le idee cioè di un vacuo letterato del<br />

Seicento, che si è dedicato con assoluta serietà a imparare le nozioni di una<br />

cultura fasulla, già da tempo superata, ma nella quale egli credeva con la fede<br />

cieca dei cultori dell’”ipse dixit”. Infatti essa si basava sulla filosofia aristotelica,<br />

assunta tutta acriticamente <strong>com</strong>e fondamento di verità, dato che Aristotele era «il<br />

maestro di color che sanno» <strong>com</strong>e afferma Dante (Inf. IV,131). La più parte di<br />

queste nozioni, tanto faticosamente imparate quanto caparbiamente professate,<br />

sono delle vere e proprie sciocchezze, che ci fanno ridere di gusto. Per noi don<br />

Ferrante vale molto più <strong>com</strong>e uomo che <strong>com</strong>e dotto; egli ci torna alquanto<br />

simpatico per il fatto che “non gli piaceva né di <strong>com</strong>andare né d’ubbidire”,<br />

volendo essere del tutto indipendente; e perciò si era opposto vittoriosamente alla<br />

dittatura della signora moglie, almeno per quanto riguardava la sua persona; il<br />

che non è piccolo merito, se si tiene conto della personalità invadente di donna<br />

Prassede. E’ vero che talora le prestava la sua arte di letterato, stilando per lei<br />

delle lettere con la sua penna di raffinato dicitore, ma lo faceva solo nelle<br />

occasioni veramente importanti, e quando lui stesso era persuaso di ciò che voleva<br />

fargli scrivere; in caso contrario sapeva rifiutarsi anche in questo; e se lei insisteva<br />

sostenendo che la cosa era semplice e lampante, rispondeva sarcasticamente: “La<br />

166


s’ingegni, faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara.” Dopo l’uomo,<br />

prendiamo in esame il dotto.<br />

La sua biblioteca, dove “passava di grand’ore”, <strong>com</strong>prendeva quasi trecento<br />

volumi: “tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate”; lo scrive il Manzoni, ma,<br />

per il suo verismo espressivo, è <strong>com</strong>e se lo sentissimo affermare dalla voce<br />

enfatica di quel bolso letterato; infatti noi sappiamo che quel fior di roba era<br />

invece ciarpame librario. I volumi allineati in bella mostra sugli scaffali del suo<br />

studio rispecchiavano naturalmente i suoi gusti e le sue preferenze: astrologia,<br />

filosofia antica, filosofia naturale (cioè scienze naturali) , magia e stregoneria,<br />

storia, politica e soprattutto scienza cavalleresca, in cui era considerato un vero<br />

specialista, per cui veniva spesso invitato a decidere questioni d’onore, cioè<br />

contese di gentiluomini su punti di cavalleria, allora piuttosto frequenti, <strong>com</strong>e<br />

vediamo anche dal romanzo.<br />

I giudizi di don Ferrante sui vari autori ci fanno veramente sorridere; le sue<br />

nozioni scientifiche sulle sirene, sull’unica fenice, sulla salamandra che può stare<br />

nel fuoco senza bruciare, sulla remora, questo pesciolino che può fermare<br />

qualunque vascello, sul camaleonte che si ciba di aria, e altre simili fanfaluche, ci<br />

mettono addosso l’ilarità, e ci chiediamo attoniti <strong>com</strong>e nel secolo di Galileo si<br />

potesse ancora credere a siffatte corbellerie. Ma tanta balordaggine si spiega: il<br />

nostro studioso era un accanito aristotelico, un fanatico dell’ “ipse dixit”, e quindi<br />

tutte le antiche fole, avallate dalla Fisica di Aristotele, e in più i vari pregiudizi e<br />

le molte stupidaggini della tradizione scolastica, lui li credeva in base al principio<br />

d’autorità, anche se andavano contro la logica e l’esperienza. Del resto sappiamo<br />

quanto dové lottare e penare Galileo per far trionfare il metodo sperimentale<br />

contro il principio d’autorità, che per allora rimase inconcusso e vittorioso, mentre<br />

fu condannato <strong>com</strong>e eretico chi aveva osato confutarlo in nome della vera scienza,<br />

opponendosi alla pseudo-scienza dogmatica e libresca.<br />

Assolviamo quindi il povero don Ferrante, il quale almeno non inquisiva e non<br />

condannava la gente, ma si limitava a trinciare giudizi innocui quanto avventati,<br />

per soddisfazione sua e di pochi seguaci; e del resto, fra tanti libri dozzinali,<br />

aveva riservato un posto nella sua libreria anche per Machiavelli, “mariolo sì, ma<br />

profondo”. Per il nostro letterato però era di gran lunga superiore, in politica, don<br />

Valeriano Castiglione, del quale esaltava “quel libro piccino, ma tutto d’oro”, il<br />

capolavoro dei capolavori, vale a dire lo “Statista Regnante”. Questo giudizio, che<br />

riportiamo <strong>com</strong>e campione di tanti altri, pronunciati dal nostro dotto con uguale<br />

sicumera, può dimostrare da solo la cultura e la capacità critica di questo ridicolo<br />

letterato ammantato di serietà.<br />

Don Ferrante e donna Prassede sono personaggi inventati dalla fervida<br />

fantasia manzoniana. Ma non sono macchiette: sono rappresentativi di uomini e<br />

donne del Seicento, della società barocca, di questa età vacua e pretenziosa. Se il<br />

Manzoni ha insistito tanto a descriverne la tipologia, è perché uomini e donne<br />

simili non erano rari anche al suo tempo, e forse lui ne aveva conosciuti alcuni.<br />

167


CAPITOLO XXVIII<br />

Dopo i tumulti dei giorni 11 e 12 novembre “parve che l’abbondanza fosse<br />

tornata in Milano, <strong>com</strong>e per miracolo”: pane in quantità e a buon mercato, una<br />

vera pacchia! quelli che avevano adoperata la bocca per urlare o le mani per fare<br />

qualcosa di più redditizio, potevano essere contenti dell’esito, meno i pochi che<br />

erano stati arrestati, dei quali quattro furono poi impiccati il 24 dicembre, due<br />

davanti al forno delle grucce e due davanti alla casa del Vicario di provvisione,<br />

per salutare ammonimento di tutti coloro a cui pizzicavano le mani. Ma<br />

quell’abbondanza e quel prezzo così vile erano cose artificiose, che non potevan<br />

durare; e la gente, che press’a poco lo capiva, tanto più di dava ad approfittare<br />

della cuccagna, <strong>com</strong>prando pane, e soprattutto farina, quanta più ne poteva. Ed<br />

ecco perciò una sequela di gride che cercavano di porre riparo all’accaparramento,<br />

dovuto all’incertezza dell’avvenire e anche maggiormente al prezzo basso. Se il<br />

prezzo fosse stato giusto, sembra voler dire il Manzoni che in economia era<br />

liberista, cioè il prezzo stabilito naturalmente dall’incontro tra la domanda e<br />

l’offerta, tra la quantità esistente e il bisogno reale, le cose non sarebbero andate<br />

così, né si sarebbero verificati i tumulti. Quelle gride, emanate per impedire<br />

l’accaparramento, erano per di più balorde e ineseguibili; per esempio la prima,<br />

del 15 novembre, stabiliva che chi avesse grano o farina in casa non poteva più<br />

<strong>com</strong>prarne, e che non si doveva vender pane a nessuno in quantitativo superiore al<br />

fabbisogno di due giorni. Ma chi avrebbe ammesso di avere grano o farina in<br />

casa? e la quantità per due giorni <strong>com</strong>e e da chi poteva essere fissata? e chi<br />

impediva a uno di far credere di avere più persone a carico o di andare<br />

successivamente a rifornirsi presso vari forni? Queste semplici obiezioni<br />

dimostrano l’ingenuità della grida e la stoltezza dei loro autori; non c’è che dire: o<br />

si deve giungere a un severo sistema di tesseramento o è meglio affidarsi alla<br />

legge del mercato, cioè al sistema dell’equilibrio automatico della domanda con<br />

l’offerta, limitandosi a reprimere la speculazione al rialzo o al ribasso con mezzi<br />

economici e non polizieschi.<br />

Queste belle gride, di nessuna efficacia pratica, erano però tutte ac<strong>com</strong>pagnate<br />

da severe e arbitrarie <strong>com</strong>minazioni di pene, sempre aumentabili “ad libitum” del<br />

Governatore, le quali arrivavano sino a cinque anni di galera e peggio. Sic<strong>com</strong>e i<br />

condannati alla galera allora andavano effettivamente a remare nelle galere o<br />

galee, incatenati ai banchi, l’Autore osserva argutamente che, se quelle gride<br />

fossero state eseguite, “il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in<br />

mare, quanta ne possa avere ora la Gran Bretagna”. Tutti sanno che la marina<br />

inglese nella prima metà dell’Ottocento era la prima del mondo, e tale restò per<br />

tutto il secolo; il Manzoni dice dunque indirettamente che gli evasori di quelle<br />

ordinanze sciocche erano praticamente tutti i cittadini, i quali continuarono a<br />

<strong>com</strong>prare grano e farina cercando di aumentare, anziché scemare, le loro private<br />

riserve. In breve tempo il grano <strong>com</strong>inciò a scarseggiare, e si dovette ricorrere a<br />

168


mescolanze: si macinò il risone o riso vestito, e se ne miscelò la farina con quella<br />

di frumento. Ma bisognava pur trovare questo risone, e pagarlo; e il prezzo del<br />

riso era allora, <strong>com</strong>e del resto anche oggi, quasi il doppio di quello del grano,<br />

sicché risultava doppiamente impossibile mantenere quel prezzo da cuccagna, che<br />

naturalmente favoriva lo spreco e l’accaparramento, contro il quale nulla poteva,<br />

<strong>com</strong>e s’è dimostrato, la peregrina grida del 15 novembre. E sic<strong>com</strong>e da fuori<br />

Milano veniva gente in città, per approfittare di quel bengodi, ecco una grida del<br />

15 dicembre, che proibiva di esportare pane per più del valore di venti soldi. Ma<br />

vedete che governanti intelligenti! non si poteva portar fuori più di qualche<br />

pagnotta di pane, ma interi sacchi di farina sì, perché ciò non era proibito dalla<br />

grida; e per accorgersi di questa incredibile dimenticanza ci misero una settimana,<br />

poiché solo il 22 dello stesso mese si proibì, con altra grida, di esportare grano o<br />

farina. Comunque il prezzo non era più sostenibile, e decisero di aumentarlo; e<br />

probabilmente l’aumento fu decretato in con<strong>com</strong>itanza dell’impiccagione di quei<br />

quattro disgraziati; così vedendo i condannati dar calci all’aria, i cittadini erano<br />

indotti ad accettare senza fiatare il rincaro della vita. Sempre per via d’induzione,<br />

perché mancano documenti in proposito, io propendo a credere che l’aumento fu<br />

imposto immediatamente dopo l’esecuzione, avvenuta il 24 dicembre, poiché<br />

logicamente (nell’uso della forca sapevano essere logici!) i governanti avranno<br />

voluto dare prima l’esempio e il monito, e poi inasprire il prezzo, sicuri che<br />

nessuno avrebbe osato più protestare, né tanto meno si sarebbe mosso, dopo<br />

quell’avvertimento così persuasivo. E difatti nessuno fiatò.<br />

Comunque il pane, anche miscelato e a caro prezzo, scarseggiò sempre più,<br />

finché a poco a poco la carestia si fece sentire assieme alla disoccupazione e alla<br />

stasi di ogni attività produttiva, le quali costringevano all’accattonaggio anche<br />

laboriosi e onesti artigiani, e soprattutto i contadini, che affluivano sempre più<br />

numerosi in città a tender la mano, dopo aver perduto tutte le loro provviste per le<br />

violenze e l’avidità delle truppe, oltre che per l’esosità del fisco. Nell’inverno<br />

avanzato e nella primavera del 1629 lo spettacolo che presentava Milano era<br />

indescrivibile: “a ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le<br />

strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno<br />

perpetuo di patimenti.” La descrizione dell’Autore è così efficace, per icastica<br />

evidenza, che stringe veramente il cuore; in essa palpita l’accorata mestizia del<br />

cristiano per le miserie umane; è proprio il caso di ripetere con Virgilio: “sunt<br />

lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt.” 8<br />

Questo capitolo del romanzo, che a qualcuno può apparire di secondaria<br />

importanza, perché tratta avvenimenti generali, che non riguardano direttamente i<br />

nostri personaggi, è invece pur esso valido sul piano artistico e umano, pervaso<br />

<strong>com</strong>’è da una viva <strong>com</strong>mozione per la sofferenza degli uomini, dei nostri fratelli,<br />

sentita maggiormente per il fatto che tale degradazione della condizione umana<br />

non fu prevenuta né riparata, <strong>com</strong>e invece si poteva e si doveva, da parte delle<br />

8 = sono eventi lacrimevoli, e le miserie umane toccano il cuore.<br />

169


autorità. E tanto più vibra la <strong>com</strong>mossa ammirazione del Manzoni per chi, <strong>com</strong>e il<br />

Cardinale Federigo, in mezzo allo sbalordimento inoperoso dei pubblici poteri,<br />

operò efficacemente e mirabilmente per lenire la fame e le sofferenze, servendosi<br />

dei soli suoi mezzi, potenziati al massimo dallo spirito di’iniziativa e da un<br />

profondo senso della propria responsabilità. E l’Autore non può non esaltare, con<br />

ammirate e <strong>com</strong>mosse parole, “quella carità ardente e versatile” del buon pastore,<br />

la quale “doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto<br />

prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il bisogno.”<br />

Nel muovere al soccorso dei suoi diocesani il santo Arcivescovo mostrò infatti<br />

intelligente sollecitudine, spirito pratico, capacità organizzativa e soprattutto<br />

squisita sensibilità cristiana: si rivelò insomma un vero artista della carità.<br />

Cominciò col mobilitare i suoi mezzi finanziari, dato che egli “ricusava, per<br />

sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui”; destinò dunque alla carità<br />

anche le somme assegnate ad altre spese meno urgenti, e per avere disponibile più<br />

denaro che fosse possibile, impose la più stretta economia in tutte le spese<br />

correnti, a <strong>com</strong>inciare dal mantenimento suo, già così parsimonioso, e del suo<br />

seguito. Istituì nel vescovado lo stato maggiore, per così dire, di quella nuova<br />

crociata, diretta contro la fame e le sofferenze, e <strong>com</strong>inciò con l’organizzarvi una<br />

grande cucina, la quale era in grado di distribuire ogni giorno circa duemila<br />

scodelle di minestra di riso. Scelse poi sei sacerdoti, tra i più caritatevoli e anche<br />

fisicamente sani e robusti, dato il particolare servizio a cui erano destinati, i quali<br />

dovessero ogni giorno, a coppie, girare per la città, che all’uopo divise in tre zone,<br />

distribuendo aiuti. Questi bravi preti percorrevano indefessamente la zona loro<br />

assegnata, strada per strada, “con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più<br />

sottili e pronti ristorativi, e di vesti”, per sovvenire alle necessità più urgenti. E<br />

non si limitavano e rifocillare momentaneamente quelli che venivano meno per<br />

l’inedia, ma cercavano di pensare anche al domani degli indigenti, per i quali<br />

cercavano ricovero e mantenimento presso le case dei benestanti, i quali<br />

generalmente li accettavano gratuitamente, essendo il loro sentimento cristiano<br />

risvegliato ed esaltato dal buon esempio del clero. Se poi alla buona volontà degli<br />

ospitanti mancavano i mezzi materiali, i preti fissavano una pensione per i<br />

ricoverati e ne sborsavano subito un acconto; davano poi l’elenco delle persone<br />

così allogate ai parroci da cui dipendevano, affinché li visitassero periodicamente<br />

per confortarli e controllarne le condizioni fisiche e morali. Inoltre il Cardinale<br />

<strong>com</strong>prò, dove e <strong>com</strong>e poté, grandi quantità di grano e di altri cereali, che<br />

distribuiva avvedutamente in città e nei paesi dove più si faceva sentire la miseria;<br />

e nelle campagne, col grano, mandava anche del sale, che può trasformare in cibo<br />

anche le umili erbe del campo. Lui stesso poi vigilava personalmente su tutta<br />

l’organizzazione, visitando la città quartiere per quartiere e dispensando anch’egli<br />

aiuti; altri ne affidava ai vari curati, perché li distribuissero ai loro parrocchiani;<br />

insomma in ogni bisogno, in ogni circostanza dolorosa, in ogni strettezza rifulse<br />

radiosa l’inesausta carità di Federigo.<br />

Il Manzoni rileva, <strong>com</strong>e cosa degna di nota, che in mezzo a tanta sofferenza e<br />

a tanti stenti non ci fu mai neppure un cenno di rivolta; e ciò avvenne, osserva<br />

170


giustamente, non per il terrore di quei quattro impiccati, ma perché noi uomini<br />

generalmente “ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci<br />

curviamo in silenzio sotto gli estremi.” Una cosa simile, ma con intento ben<br />

diverso, aveva già osservata il Segretario Fiorentino, nella sua lucida analisi del<br />

principato assoluto.<br />

Sic<strong>com</strong>e la mortalità aumentava di giorno in giorno e si temeva un contagio, il<br />

tribunale di Sanità (formato da un presidente e da sei “conservatori” cioè tutelatori<br />

della salute pubblica; di questi due erano medici e quattro funzionari; tribunale si<br />

diceva allora anche nel senso di <strong>com</strong>missione o giunta, quale era appunto questa)<br />

fece presente a quello di Provvisione l’esigenza urgente che tutti gli accattoni<br />

fossero raccolti in diversi ospizi. Il tribunale di Provvisione ritenne più semplice e<br />

spedito riunirli tutti nel lazzaretto, “contro il parere della Sanità, la quale<br />

opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si<br />

voleva metter riparo.” Essendo prevalso il parere della Provvisione, in pochi<br />

giorni il lazzaretto si riempì di miserabili, in parte andatici spontaneamente, in<br />

parte condottici con la forza. Inopportunamente poi si volle dare ai birri un premio<br />

di dieci soldi per ogni accattone o vagabondo che avessero portato in quel luogo;<br />

disposizione che provocò non solo sperpero del pubblico denaro, proprio quando<br />

ce n’era tanto bisogno per altri usi più umani, ma anche una vera e propria caccia<br />

all’uomo, non scevra di violenze e di vessazioni, da parte dei birri avidi di denaro.<br />

Il Manzoni ci dà a questo punto una precisa e dettagliata descrizione del<br />

lazzaretto, tanto nitida ed esatta, che ci sembra davvero di averlo davanti quel<br />

grande recinto quasi quadrato, che misurava passi 500 per 485 ed era circondato<br />

<strong>com</strong>plessivamente da 288 stanzette; nella parte interna dell’edificio, su tre lati,<br />

girava “un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.” Nel<br />

centro del recinto c’era (l’edificio fu distrutto alla fine del settecento) una chiesa<br />

ottagonale, poggiata su arcate, sicché l’altare era visibile da ogni parte del vasto<br />

cortile. Il lazzaretto (così chiamato da San Lazzaro, protettore degli appestati) era<br />

stato costruito nel 1498 per ricoverarvi appunto gli ammalati di peste, che in quei<br />

tempi soleva <strong>com</strong>parire in Europa, or qua or là ora in gran parte di essa, da due a<br />

otto volte in un secolo. L’ultima peste nel Milanese si era verificata nel 1576 , e<br />

sic<strong>com</strong>e in essa S. Carlo Borromeo si prodigò eroicamente per curare i contagiati,<br />

fu poi <strong>com</strong>unemente chiamata “la peste di S. Carlo”: la forza della sua carità fece<br />

in modo che una calamità generale divenisse per lui <strong>com</strong>e un emblema o<br />

un’impresa gloriosa, perché in essa soprattutto rifulse l’inesausto suo amore per<br />

l’umanità sofferente. Il lazzaretto veniva utilizzato, in quegli anni, <strong>com</strong>e deposito<br />

delle merci soggette a controllo sanitario, perché provenienti da località infette;<br />

naturalmente, per sgombrare l’edificio, si dovette a un tratto rilasciare tutte queste<br />

mercanzie, contro ogni norma dell’igiene e del buon senso, oltre che contro i<br />

regolamenti della Sanità. Gli accattoni stipati in quelle 288 stanzette, di cui<br />

evidentemente una certa aliquota dové essere adibita ai servizi generali, furono in<br />

principio tremila, ma salirono ben presto per arrivare sin quasi a diecimila,<br />

soprattutto per le spietate e interessate retate della polizia. Ognuno può<br />

immaginare in quali condizioni potesse vivere tanta gente, diversa di sesso e d’età,<br />

171


<strong>com</strong>e di condizione e d’educazione, ammonticchiata, per così dire, in quel breve<br />

spazio, privo di ogni garanzia igienica e sanitaria. “Dormivano ammontati a venti<br />

a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di<br />

paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra”; per l’acqua erano costretti a ricorrere,<br />

in mancanza di acquedotto, a una gora che costeggiava il recinto, “bassa, lenta,<br />

dove anche motosa”, la quale poi in breve tempo divenne una vera e propria<br />

cloaca. In tali condizioni di sporcizia, di iponutrizione, di cibo pessimo e<br />

indigesto, non c’è da meravigliarsi che si diffondesse quasi subito tra i ricoverati<br />

un contagio pernicioso e mortale, che ad alcuni parve pestilenza, ma che forse era<br />

soltanto un’influenza piuttosto maligna o una specie di tifo petecchiale, alimentato<br />

dal sudiciume e dalla mancanza di ogni pur elementare profilassi. La conseguenza<br />

di questo stato di cose fu che “il numero giornaliero dei morti nel lazzaretto<br />

oltrepassò in poco tempo il centinaio.” Che fare? Non si trovò di meglio che dare<br />

un calcio a quanto si era <strong>com</strong>piuto “con tanta spesa, con tante vessazioni”:<br />

s’aprirono i cancelli, e i poveri prigionieri (il nome è appropriato) “scapparon<br />

fuori con una gioia furibonda”, meno naturalmente i malati e quelli che non si<br />

reggevano in piedi per la debolezza, in seguito alla lenta consunzione. “La città<br />

tornò a risonare dell’antico lamento, ma più debole e interrotto”, perché i<br />

mendicanti erano scemati di numero e così stremati nel fisico, <strong>com</strong>e abbattuti nel<br />

morale.<br />

Intanto giunse finalmente la messe dell’anno 1629: i contadini, che erano<br />

accorsi in città per sfamarsi, erano impazienti di tornare ai loro campi per quella<br />

sospirata mietitura; e il Cardinale, con cuore paterno e spirito pratico, diede a<br />

ognun d’essi una piccola somma e una falce messoria. Col nuovo raccolto cessò la<br />

carestia, mentre la mortalità, pur scemando, si prolungò sino all’autunno,<br />

allorquando si abbatté sulle misere terre del Ducato un nuovo flagello: la discesa<br />

dell’esercito alemanno, inviato dall’Imperatore contro il Nevers, che si era<br />

insediato a Mantova senza il suo beneplacito. Diamo conto succintamente di<br />

questi avvenimenti.<br />

Il Cardinale di Richelieu, presa La Rochelle e concluso un armistizio col Re<br />

d’Inghilterra, Carlo I Stuart, aveva convinto il suo re, Luigi XIII, a intervenire in<br />

Italia in aiuto del Duca di Nevers. Nel frattempo il Conte di Nassau, <strong>com</strong>missario<br />

imperiale, aveva già per tre volte intimato al predetto duca di consegnare Mantova<br />

nelle mani dell’Imperatore; non avendo il Nevers obbedito all’ingiunzione, sicuro<br />

<strong>com</strong>’era ormai dell’intervento francese, il <strong>com</strong>missario era ripartito<br />

minacciandogli la guerra. E infatti Ferdinando II, sdegnato per il rifiuto, ordinò<br />

l’invio contro Mantova di 35.000 uomini, di cui 7.000 cavalieri, al <strong>com</strong>ando del<br />

capitano italiano Conte Rambaldo di Collalto. Ma prima di questo esercito erano<br />

calati in Italia i Francesi, <strong>com</strong>andati dal loro stesso re, che aveva al suo fianco il<br />

Richelieu. Il Duca di Savoia, Carlo Emanuele I, aveva tentato di opporsi al<br />

passaggio di queste truppe, ma era stato vinto e aveva dovuto concludere col Re la<br />

disastrosa pace di Susa, per cui abbandonava il Monferrato, impegnandosi a far sì<br />

che don Gonzalo togliesse l’assedio a Casale, e in caso contrario a marciare contro<br />

di lui assieme ai Francesi. Il Cordova però cedette subito, e in Casale entrarono i<br />

172


soldati di Luigi XIII il quale, pago del successo, per consiglio del suo onnipotente<br />

primo ministro, ripassò le Alpi, lasciando però un forte presidio nella fortezza di<br />

Susa, per assicurarsi della fedeltà del Duca di Savoia col possesso di<br />

quell’importante valico.<br />

Sfortunatamente per il ducato di Milano, “mentre quell’esercito se n’andava<br />

da una parte, quello di Ferdinando s’avvicinava dall’altra”: erano i famigerati<br />

lanzichenecchi, luterani arrabbiati, spietati saccheggiatori dei paesi cattolici che<br />

cadevano sotto le loro grinfie. Essi calavano <strong>com</strong>e alleati degli Spagnoli, in<br />

quanto volevano togliere Mantova al Nevers, e <strong>com</strong>e tali avevano diritto all’<br />

“ospitazione” nel Milanese, cioè all’alloggio e alla fornitura dei viveri, i quali<br />

però avrebbero dovuto essere regolarmente pagati; in pratica quelle truppe, nel<br />

paese amico, si <strong>com</strong>portavano <strong>com</strong>e in un paese nemico, e percorrevano la<br />

regione saccheggiando, bruciando, stuprando. I miseri abitanti dei paesi per dove<br />

dovevano passare, fuggivano sui monti, cercando di salvare con la vita qualche<br />

provvista o qualche masserizia; ma talora anche la fuga era vana, perché quei<br />

briganti si arrampicavano pure sui monti a <strong>com</strong>piere le loro rapine e violenze. E<br />

quel che era peggio, in quelle bande si annidava sempre qualche focolaio di peste<br />

o di altra grave malattia epidemica, che veniva seminata per dove passavano.<br />

Perciò il tribunale di Sanità incaricò uno dei suoi membri, il medico<br />

Alessandro Tadino, “di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che<br />

sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all’assedio di<br />

Mantova.” Ma don Gonzalo (ammirate il suo bel senso di responsabilità) “rispose<br />

che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali<br />

s’era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto<br />

ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza”. Ma può<br />

sperare fiduciosamente nella Provvidenza – sembra voler dire il religiosissimo<br />

Autore in questo punto – solo chi da parte sua ha fatto quant’era nelle possibilità<br />

umane per evitare il male, non chi ad esso non oppone che vuote parole o, peggio,<br />

dimostra solo inerzia colposa e quasi connivente.<br />

Per evitare ogni contatto, e quindi contagio, da parte dei lanzi, i due medici<br />

della Sanità proposero di vietare “sotto severissime pene di <strong>com</strong>prar roba di<br />

nessuna sorte dai soldati ch’eran per passare”; ma non riuscirono a far approvare<br />

il bando dal presidente del tribunale stesso, e perciò non se ne fece nulla. Anche in<br />

questo caso, bel senso di responsabilità da parte di chi era preposto alla pubblica<br />

salute! Poco dopo l’abboccamento col medico Tadino, al quale diede la mirabile<br />

risposta che sopra abbiamo riportato, don Gonzalo fu rimosso dal governo di<br />

Milano, per l’insuccesso da lui subito nella guerra, e sostituito col genovese<br />

marchese Ambrogio Spinola. La partenza dalla città dell’impopolare Governatore<br />

suscitò una dimostrazione ostile con fitta sassaiola contro le carrozze, sua e del<br />

seguito, le quali a stento poterono guadagnare Porta Ticinese, donde uscirono a<br />

salvamento sotto una salva di pietre lanciate dai dimostranti, saliti sulle mura per<br />

dare al loro beneamato amministratore quell’ultimo lapideo saluto.<br />

Come abbiamo già detto, i soldati luterani si <strong>com</strong>portavano nei paesi cattolici<br />

con efferata violenza, per l’odio rinfocolato nel loro animo dalle lotte religiose<br />

173


che di tanto in tanto insanguinavano la Germania. Circa un secolo prima, nel<br />

1527, i lanzichenecchi avevano saccheggiato Roma nel modo barbaro che tutti<br />

conoscono; nel 1630 daranno il sacco alla città di Mantova, in maniera non meno<br />

efferata anche se meno famosa. Il saccheggio era ormai ad essi riconosciuto quasi<br />

<strong>com</strong>e un diritto sia dai loro <strong>com</strong>andanti sia dai principi che li assoldavano; esso<br />

era considerato <strong>com</strong>e un supplemento, tacitamente convenuto, del soldo loro<br />

dovuto, che non veniva mai pagato regolarmente o intero, per il fatto che i principi<br />

assoldavano sempre più uomini di quanti permettessero le loro finanze, nella<br />

speranza di vincere così la guerra e di <strong>com</strong>pensare le bande col saccheggio dei<br />

territori conquistati. E’ celebre in proposito la frase del Wallenstein, forse il più<br />

tristamente famoso di questi capitani di ventura: “esser più facile mantenere un<br />

esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila”; infatti un grande esercito<br />

ha la possibilità di vincere, e quindi <strong>com</strong>pensare i soldati col saccheggio: mentre il<br />

piccolo esercito ha poche possibilità di vincere, per cui è anche difficile che venga<br />

assoldato, poiché non ispira fiducia per la vittoria finale, ed è ancora più difficile<br />

che venga regolarmente pagato. L’affermazione del cinico Wallenstein ha dunque<br />

il suo fondamento di verità.<br />

I lanzi, <strong>com</strong>andati dal conte di Collalto, erano divisi in venti reggimenti, i<br />

quali si susseguivano, giorno dopo giorno, negli sfortunati paesi che segnavano<br />

l’itinerario dell’esercito imperiale. Considerando poi che per attraversare tutto il<br />

Ducato esso impiegava otto giorni di marcia, possiamo concludere che per circa<br />

un mese il Milanese soffrì di questa alluvione di predatori. Naturalmente i<br />

reggimenti d’avanguardia erano per questo rispetto i più fortunati, perché<br />

trovavano i paesi intatti, e potevano quindi rapinare con più profitto, soprattutto<br />

viveri e preziosi; mentre i reparti della retroguardia, non trovando ormai più nulla<br />

da saccheggiare, per la rabbia bruciavano e distruggevano tutto, e talora<br />

piombavano inaspettati su qualche paese un po’ lontano dal percorso di marcia,<br />

per fare man bassa e rifarsi così della loro scalogna. Ai danni materiali bisognava<br />

aggiungere, purtroppo, le violenze carnali, le percosse, le ferite e anche le<br />

uccisioni, tutte cose che restavano ugualmente ignorate e impunite. Realtà<br />

raccapriccianti di tutte le guerre, antiche e moderne; ma in questo caso esse<br />

venivano perpetrate in territorio alleato; immaginiamoci che cosa dette truppe<br />

avranno fatto in territorio nemico.<br />

174


CAPITOLO XXIX<br />

Tra i paesi abbandonati e quasi offerti al saccheggio dei lanzi, c’era purtroppo<br />

quello d’Agnese, la quale si rammaricava però non tanto per dover abbandonare la<br />

propria casa, quanto per non poter rivedere la sua Lucia, dato che donna Prassede<br />

non sarebbe andata in quell’autunno (del 1629) a villeggiare nel territorio di<br />

Lecco,che doveva appunto essere percorso dalle bande alemanne. Nell’imminenza<br />

dell’arrivo di queste, il panico si era diffuso in tutta la zona, e la povera vedova<br />

risolvette subito di mettersi in salvo sui monti, tanto più in grazia di quegli scudi,<br />

essendo noto che soprattutto quelli che avevano dei soldi erano “esposti insieme<br />

alla violenza degli stranieri e all’insidie dei paesani.” E’ vero che di quei soldi<br />

nessuno sapeva niente all’infuori di don Abbondio, dal quale la buona donna era<br />

andata, ogni tanto, a spicciolarne uno, lasciandogli sempre qualcosa per i meno<br />

abbienti; ma, <strong>com</strong>e osserva acutamente il Manzoni, “i danari nascosti tengono il<br />

possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui.”<br />

Orbene Agnese pensò innanzi tutto agli scudi, che si cucì ben bene all’interno<br />

del busto, quindi si mise a nascondere alla meglio ciò che non poteva portare con<br />

sé, sempre col pensiero al piccolo tesoro che aveva indosso. A un tratto si ricordò<br />

di chi glieli aveva donati, il quale le aveva in quella occasione fatto dire, dal<br />

Cardinale, di poter far conto su di lui per qualunque necessità, e le venne subito in<br />

mente che il castello di quel signore sarebbe stato il più sicuro rifugio contro ogni<br />

violenza e ogni insidia. Avendo deciso di andarci, e pensando al modo di farsi<br />

riconoscere dal padrone del castello, concluse che la cosa migliore era parlarne al<br />

curato, proponendogli di andare insieme lassù, dove sarebbero stati certamente<br />

bene accolti. Presa la decisione, si mise in spalla una gerletta con biancheria e un<br />

po’ di cibarie, e si avviò alla canonica per fare la sua proposta.<br />

Don Abbondio, alle terribili notizie che circolavano sui lanzi, aveva<br />

letteralmente perduta la testa. “Chi non ha visto don Abbondio” in quel giorno,<br />

afferma con umorismo l’Autore, “non sa bene cosa sia impiccio e spavento.”<br />

Risolvette subito di fuggire, “prima di tutti e più di tutti”, ma sospettoso e pauroso<br />

<strong>com</strong>’era, in ogni strada da prendere, in ogni rifugio da raggiungere, trovava<br />

difficoltà e pericoli formidabili. Pensava a un ricovero che gli ispirasse fiducia;<br />

ma quale? Andare sui monti? ma se i lanzichenecchi ci si arrampicavano <strong>com</strong>e<br />

gatti, poco poco che subodorassero la buona preda! Passare il lago? ma se faceva<br />

paura, tant’era tempestoso! e poi le barche erano ormai partite tutte, stracariche,<br />

col pericolo di affondare. Raggiungere il territorio bergamasco? ma lì<br />

scorrazzavano i “cappelletti”, mandati dalla Serenissima a proteggere il confine; e<br />

quelli erano diavoli in carne e ossa! Non sapendo che partito prendere, voleva<br />

consigliarsi con Perpetua, la quale però non gli dava retta, tutta indaffarata<br />

<strong>com</strong>’era a nascondere la roba più di valore; la poveretta, turbata e scalmanata per<br />

la fatica, era in quella circostanza meno trattabile del solito, e se il padrone<br />

cercava di trattenerla, gli dava sulla voce <strong>com</strong>e a un ragazzino. Il curato allora,<br />

175


non ottenendo udienza neppure presso Perpetua, si affacciava alla finestra e si<br />

rivolgeva alla gente che passava, curva sotto il peso delle povere masserizie,<br />

implorando “con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero” che gli<br />

trovassero qualche cavalcatura, che lo aspettassero almeno, per fargli da scorta;<br />

ma vedendo che coloro o non gli davano nemmeno ascolto o gli rispondevano che<br />

s’ingegnasse <strong>com</strong>e gli altri, borbottava contro l’egoismo dei parrocchiani: “Oh<br />

che gente! che cuori! non c’è carità: ognun pensa a sé; e a me nessuno vuol<br />

pensare”. Non capiva il nostro curato, il quale non si peritava di tacciare gli altri<br />

di egoismo, che l’egoista era proprio lui, che voleva gli altri al suo servizio,<br />

mentre avrebbe dovuto lui prodigarsi per i suoi parrocchiani, e soprattutto pensare<br />

alla chiesa. A questo riguardo rabbrividiamo nel sentire le sue ciniche parole: “Al<br />

popolo tocca custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di cuore per la loro<br />

chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.” Vogliamo credere<br />

almeno che avrà pensato a togliere dal ciborio il Sacramento, per salvarlo dalla<br />

sicura profanazione dei protestanti, che si accanivano soprattutto contro<br />

l’Eucarestia; ma l’Autore nulla dice in proposito, e noi dobbiamo purtroppo<br />

dubitarne, conoscendo il suo zelo sacerdotale. Se si dimenticò del Sacramento,<br />

non si dimenticò certamente del suo tesoro, che prelevò dallo scrigno e consegnò<br />

alla serva perché lo seppellisse nell’orto.<br />

Quand’ebbe <strong>com</strong>piuto quest’ultimo e più importante occultamento, Perpetua<br />

preparò una gerla con dentro un po’ di viveri e della biancheria per sé e per il<br />

padrone; quindi, con tono risoluto, disse al curato che andasse a prendere il<br />

breviario, il cappello e il bastone, per mettersi subito in strada. Don Abbondio<br />

sembrava proprio intontito, non avendo ancora deciso dove andare, e ci volle tutta<br />

l’autorità della donna per farlo muovere. Finalmente anche lui fu pronto, ma<br />

proprio mentre si accingevano a lasciare la canonica, ecco arrivare Agnese, la<br />

quale fece subito la sua proposta di rifugiarsi al castello, che Perpetua accolse con<br />

entusiasmo, <strong>com</strong>e una vera ispirazione del Signore, mentre il padrone non ne era<br />

troppo convinto. Prima chiese se era convertito davvero; non ostante tutto quello<br />

che ha visto e sentito lui stesso, egli nutre ancora dei sospetti: chi sa – pensava<br />

forse tra sé – la sua conversione potrebbe essere stato un fuoco di paglia. Poi,<br />

rassicurato da Agnese nei riguardi della conversione, obiettò che, andando lassù,<br />

rischiavano di mettersi in gabbia, di esser cioè assediati dagli alemanni, e forse<br />

anche dai cappelletti, bramosi di metter le mani su una preda tanto allettante. Ma<br />

Perpetua gli rimproverò questo suo continuo sospettare, dicendo che non era<br />

capace d’altro che d’impicciare e ostacolare ogni cosa con le sue sciocche<br />

obiezioni, con i suoi ragionamenti inconcludenti. Si decise dunque di mettersi la<br />

strada tra le gambe alla volta del castello; ma don Abbondio pretendeva ora che<br />

trovassero qualcuno per servirgli di scorta; il che fece perdere la pazienza alla<br />

serva, la quale gli dette ancora sulla voce, dimostrandogli quanto fosse assurda la<br />

sua pretesa, che intanto faceva loro perdere del tempo prezioso.<br />

Messisi finalmente in cammino, il curato se ne stette per un buon tratto zitto e<br />

mogio, guardandosi intorno con sospetto, nel timore di qualche brutto incontro.<br />

Ma a mano a mano che s’allontanavano dalla zona pericolosa, essendo scemata<br />

176


quella gran paura, si fece in lui sentire più forte la stizza contro tutti e contro tutto.<br />

Cominciò dunque a brontolare contro il Duca di Nevers “che avrebbe potuto stare<br />

in Francia a godersela”, contro l’Imperatore “che avrebbe dovuto aver giudizio<br />

per gli altri, lasciar correre l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli”, e<br />

soprattutto contro il Cordova “a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani<br />

i flagelli dal paese”, e invece lui stesso ce li attirava, per il gusto matto di fare la<br />

guerra. Ma Perpetua gli fece osservare che erano ciarle oziose e inconcludenti;<br />

piuttosto lei si rammaricava di aver dimenticato di nascondere la tal cosa, di aver<br />

occultato male la tal altra… Allora il padrone, “ormai sicuro della vita, quanto<br />

bastava per poter angustiarsi della roba”, <strong>com</strong>inciò a inveire contro di lei,<br />

chiedendogli ironicamente dove avesse avuto la testa, per dimenticarsi di quelle<br />

cose; la serva però, non sopportando tanta sicumera, si fermò “mettendo i pugni<br />

sui fianchi”, con un atteggiamento aggressivo, e ritorse violentemente il<br />

rimprovero su di lui, perché, semmai, era stato lui che gliel’aveva fatta perdere la<br />

testa, con le sue ubbie e ciarle insulse, mentre invece avrebbe potuto aiutarla e<br />

farle coraggio, invece di disanimarla con le sue paure irragionevoli. Dopo un tale<br />

sfogo della donna, don Abbondio si guardò bene dal tornare su quell’argomento,<br />

in cui era sicuramente perdente.<br />

Giunti in prossimità del paese del sarto, decisero di fermarsi un momento per<br />

salutarlo, tanto ormai erano fuori pericolo; e ricevettero un’accoglienza molto<br />

cordiale, poiché “rammentavano una buona azione.” A questo proposito il<br />

Manzoni riporta, attribuendola all’anonimo, una massima che vale la pena riferire:<br />

“fate del bene a quanti più potete; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar dei visi<br />

che vi mettano allegria”. Sic<strong>com</strong>e era l’ora di pranzo, i viaggiatori furono invitati<br />

a mangiare un boccone; ma le donne dissero che avevano portato qualcosa, e non<br />

volevano recar disturbo; ma per restare un po’ in <strong>com</strong>pagnia, si decise<br />

“d’accozzare il pentolino”, cioè di riunire le cibarie e di magiare tutti insieme. Il<br />

sarto si diede da fare per onorare gli ospiti: mandò una bambina a “diricciar<br />

quattro castagne primaticce”, un ragazzo a cogliere le pesche e un altro a trovar<br />

sull’albero quattro fichi maturi, mentre lui andò in cantina a spillare, per<br />

l’occasione, il suo vino migliore. Abbiamo già rilevato, nel riassunto del capitolo<br />

XXIV, la svista dell’Autore circa i tre figli del sarto: là, due bambinette e un<br />

fanciullo; qua, una bambina e due ragazzi. Potremmo ora aggiungere che il<br />

divario esiste anche nei riguardi dell’età, perché bambinetta non è propriamente<br />

bambina, e fanciullo non corrisponde a ragazzo; è pur vero che è passato un anno,<br />

dal primo incontro, ma mi sembra che questi benedetti figlioli siano cresciuti un<br />

po’ troppo in fretta. Torniamo però a ripetere che queste sviste non tolgono nulla<br />

al valore artistico e poetico del romanzo, sono anzi, per così dire, delle piacevoli<br />

novità: infatti anche i nei possono donare a un bel viso di donna, purché non siano<br />

posticci, ma naturali; e a nessuno è finora passato per la mente il sospetto che don<br />

Lisander abbia volutamente <strong>com</strong>messo il pasticcio, per vedere quando gli<br />

onorevoli critici se ne sarebbero accorti. A quanto mi risulta, essi si sono accorti<br />

della svista piuttosto tardi, <strong>com</strong>unque dopo la morte dell’Autore, il quale pertanto,<br />

177


stando a quest’azzardata ipotesi, potrà aver sorriso della miopia degli occhiuti<br />

revisori, che non avevano saputo trovare il proverbiale pelo nell’uovo.<br />

Quando don Abbondio disse dov’erano diretti, il sarto approvò la decisione,<br />

affermando che lassù potevano considerarsi “sicuri <strong>com</strong>e in chiesa”; ma il nostro<br />

curato nutriva ancora dei dubbi sulle disposizioni di quel signore, e <strong>com</strong>e<br />

l’apostolo Tommaso cercava una conferma definitiva e autorevole; perciò uscì in<br />

un’esclamazione: ”Gran bella conversione! e si mantiene, n’è vero? si mantiene.”<br />

A quanto pare, per don Abbondio risultava quasi strano che quel tale si<br />

mantenesse sulla buona strada. Per fortuna il buon sarto, certamente ben<br />

informato, poté dissipare tutte le sue residue apprensioni, parlando<br />

magnificamente e “alla distesa della santa vita dell’Innominato, e <strong>com</strong>e,<br />

dall’essere il flagello dei contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.”<br />

C’era però un’altra cosa che tormentava il vile prete: lui, il signore, poteva anche<br />

essere un santo; ma i suoi giannizzeri? non si sa mai, essi gli avrebbero potuto fare<br />

qualche brutto tiro, magari per vendicarsi della conversione del loro padrone, a<br />

loro certo non gradita, tanto più che lo avrebbero riconosciuto, e potevano<br />

avercela con lui! Perciò, per scoprire paese, chiese con aria d’indifferenza, ma con<br />

interna ansietà: “E quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?...”<br />

Anche per questo dubbio la risposta del sarto fu molto rassicurante: “Sfrattati la<br />

più parte; e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma <strong>com</strong>e! In somma è<br />

diventato quel castello una Tebaide”. La citazione della Tebaide non era fatta a<br />

caso; il nostro letterato voleva con essa ricordare all’ecclesiastico che lui aveva<br />

letto il Leggendario dei santi; e anzi si offrì di prestargli qualche libro per passare<br />

meglio il tempo lassù al castello, ma don Abbondio declinò l’offerta, dicendo che<br />

in simili circostanze” si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto.”<br />

Il bravo sarto fece poi vedere agli ospiti un ritratto del Cardinale, che teneva<br />

appeso a un battente della porta sia per ricordo del personaggio sia per poter dire<br />

ai visitatori che però non era somigliante, perché lui lo aveva visto con tutto<br />

<strong>com</strong>odo in quella stessa stanza, dove si era degnato una volta di entrare. Questo<br />

egli ripeteva a tutti con giusto vanto; peccato che in quella storica occasione non<br />

aveva avuto tempo di immortalarsi con qualche bella frase! Di questo si<br />

rammaricava profondamente, e chi sa che cosa avrebbe dato perché gli si offrisse<br />

un’altra occasione d’incontrarsi con un uomo così eminente! anche agli ospiti<br />

espresse questo suo desiderio: “Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra<br />

volta, un po’ più con <strong>com</strong>odo.” Questo soprattutto avrebbe voluto: un po’ più di<br />

tempo, per fare la sua figura; la fretta guasta tutto.<br />

Il buon uomo si adoperò quindi per trovare un baroccio, affinché il parroco e<br />

le donne potessero <strong>com</strong>piere con maggiore <strong>com</strong>odità la strada che ancora<br />

rimaneva per giungere alla meta; procurato il mezzo, aiutò a salirvi gli ospiti, i<br />

quali si congedarono con la promessa di fare lì un’altra fermatina al loro ritorno<br />

dal castello.<br />

Il Manzoni nell’ultima parte del capitolo si dilunga a parlare della nuova vita<br />

dell’Innominato, tutta spesa a “<strong>com</strong>pensar danni, chieder pace, soccorrer poveri”.<br />

Pur essendo divenuto inerme e inoffensivo, esponendosi volutamente a qualsiasi<br />

178


offesa, “era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua<br />

sicurezza, tante braccia e il suo.” La gente, che tanto lo aveva temuto e magari<br />

odiato, ora lo ammirava e quasi venerava, sicché lui doveva cercare di “non<br />

abbassarsi troppo, per non essere troppo esaltato”. Anche la forza pubblica non<br />

osò levare le mani contro uno che spontaneamente si era disarmato, che aveva lui<br />

stesso condannato con orrore il proprio passato di violenza, cercando di riparare<br />

con ogni mezzo al male <strong>com</strong>piuto: infierire ora contro di lui sarebbe parsa una<br />

viltà, e anche un’offesa all’opinione pubblica e soprattutto al cardinale Borromeo,<br />

che tanta parte aveva avuto nel mutamento di quella vita, da rovinosa in benefica.<br />

<strong>“I</strong> rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si<br />

dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà… Gli odi, anche i più rozzi e<br />

rabbiosi, si sentivano <strong>com</strong>e legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica<br />

per l’uomo penitente.”<br />

Anche tra i suoi accoliti, sottoposti e <strong>com</strong>plici di ogni grado, la conversione<br />

dell’Innominato aveva prodotto stizza e disagio, ma non odio né disprezzo: essi<br />

pensavano che egli “aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragione di<br />

lagnarsene”. Costoro se la prendevano piuttosto col Cardinale, al punto da sentire<br />

un sordo rancore contro di lui, perché “s’era mischiato nei loro affari, per<br />

guastarli”. Dei bravi, quelli che non s’erano potuti adattare alla nuova vita, se<br />

n’erano andati a cercare un nuovo padrone o ad arrolarsi in qualche esercito<br />

belligerante o anche a fare il bandito di strada, da solo oppure con altri. Di quelli<br />

rimasti, “i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella<br />

prima età”, gli altri erano diventati servitori, ma venivano considerati dal padrone<br />

quasi <strong>com</strong>e fratelli; tutti poi, “quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro<br />

padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e<br />

rispettati.”<br />

Allorché, alla calata dei lanzichenecchi, alcuni profughi vennero al suo<br />

castello a chiedere asilo, il signore li accolse “con espressioni piuttosto di<br />

riconoscenza che di cortesia”; e pensando che in quella triste circostanza poteva<br />

fare del bene a parecchi, fece spargere la voce che il castello era aperto per<br />

chiunque vi si volesse rifugiare, e si mise subito all’opera per renderlo adatto a<br />

ospitare il maggior numero possibile di fuggiaschi. Le ampie sale divennero<br />

dormitori, mentre i magazzini del pian terreno furono trasformati in cucine e<br />

depositi per le masserizie dei profughi. E affinché i soldati non osassero venir<br />

lassù a molestare i ricoverati, mise il castello in assetto di guerra, organizzandone<br />

la difesa nel modo più efficace. Allo scopo riarmò i servitori, mobilitò i suoi<br />

contadini, assegnando loro le armi, che giacevano ormai accantonate in soffitta;<br />

stabilì turni di guardia nei punti più importanti e della valle e del castello,<br />

sorvegliando personalmente che tutto fosse eseguito con diligenza e con<br />

disciplina. Per non far mancare il cibo a tanta gente, di cui una buona parte non<br />

sarebbe stata in grado di provvedersene, accumulò nel castello notevoli scorte di<br />

viveri, spendendo senza risparmio “per ispesar gli ospiti che Dio gli manderebbe”.<br />

In mezzo a quella guarnigione di armati, assoggettatisi spontaneamente a una<br />

disciplina quasi militare, egli solo, capitano indiscusso e venerato del minuscolo<br />

179


esercito, volle restare sempre disarmato, “fosse voto, fosse proposito”. I poveri<br />

fuggitivi, che giungevano in gran numero al castello, “o lo avessero già visto, o lo<br />

vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i<br />

guai e i timori che li avevano spinti lassù.”<br />

180


CAPITOLO XXX<br />

I nostri fuggiaschi, ripartiti dal paese del sarto in baroccio, <strong>com</strong>inciarono ben<br />

presto a incontrare <strong>com</strong>pagni di sventura, anch’essi diretti al castello. <strong>“I</strong>n<br />

circostanze simili, tutti quelli che s’incontrano, è <strong>com</strong>e se si conoscessero”.<br />

Perciò, nell’affiatamento creato dalla <strong>com</strong>une sventura, le donne sentirono <strong>com</strong>e<br />

un sollievo; e ricevendo le ultime notizie sull’avanzata dei lanzi, seppero pure che,<br />

dall’imboccatura opposta della valle, era anche maggiore la folla dei profughi<br />

diretti al castello. Sentir questo fece piacere ad Agnese e Perpetua, perché esse<br />

pensavano che “nei pericoli, è meglio essere in molti”; ma non era affatto dello<br />

stesso parere don Abbondio, il quale <strong>com</strong>inciò a borbottar sottovoce che il<br />

radunarsi di tanta gente in uno stesso luogo, vi avrebbe attirato certamente i<br />

soldati, i quali crederebbero che lì magari ci siano dei tesori; tanto più che tutti<br />

portavano via il meglio, e nelle case non rimaneva niente di valore, che potesse<br />

soddisfare l’avidità dei predatori. Egli avrebbe quasi preteso che la gente lasciasse<br />

le case ben guarnite di roba, perché i saccheggiatori fossero contenti del bottino e<br />

non corressero dietro ai fuggitivi; nel suo inqualificabile egoismo giunse perfino<br />

a chiamare quei poveri sventurati, che facevano la loro stessa strada, col nome di<br />

seccatori, di pecoroni che vanno l’uno dietro l’altro senza discernimento e senza<br />

ragione. Ma Agnese lo rimbeccò prontamente: “a questo modo, anche loro<br />

potrebbero dir lo stesso di noi;” osservazione molto giusta, alla quale lui non poté<br />

replicare nulla, per cui dovette tacere su quell’argomento. Ma tacque per poco. Il<br />

suo disappunto per quella folla di profughi si mutò in disgusto, in disagio<br />

insopportabile allorquando, all’imboccatura della famigerata valle, notò un forte<br />

posto di guardia, una vera guarnigione armata di tutto punto e arroccata in una<br />

casa, <strong>com</strong>e in una caserma. Pieno di sbigottimento davanti a quella messa in scena<br />

militaresca, pensò tra sé: “Ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere<br />

altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa<br />

vuol fare? vuol fare la guerra? vuol fare il re, lui?<br />

Le donne invece a quella vista si erano rinfrancate, e Perpetua aveva<br />

esclamato tutta <strong>com</strong>piaciuta: “Vede ora, signor padrone, se c’è della brava gente<br />

qui, che ci saprà difendere”. Ma don Abbondio l’aveva zittita irosamente, anche<br />

se sottovoce, dicendo che quello era uno sfidare, un provocare i lanzichenecchi i<br />

quali, se per caso – Dio non voglia! – arrivavano a saperlo, sarebbero certamente<br />

venuti al castello, perché per loro andare ad assalire una fortezza era “<strong>com</strong>e<br />

andare a nozze”, tanto più con la prospettiva di fare lì un ricco bottino. Alla<br />

Malanotte, dove era postato un altro picchetto di soldati, il baroccio si fermò per<br />

farli scendere; e di lì proseguirono a piedi la salita. Agnese mirava attonita quei<br />

posti selvaggi, che si era finora raffigurati con la fantasia, ogni volta che pensava<br />

alle sofferenze di Lucia durante il suo rapimento; ora poi, vedendoli nella realtà,<br />

ne provava una forte <strong>com</strong>mozione, e a un certo punto esclamò: “Oh signor curato!<br />

a pensare che la mia Lucia è passata per questa strada!” Ma don Abbondio aveva<br />

181


imposto anche a lei di tacere, dicendo che non bisognava toccare quelle memorie,<br />

ora che erano entro il dominio di quel signore; e con tono solenne d’ammonizione<br />

per tutte e due aggiunse che ai signori, anche se sono reputati santi, non si può<br />

dire senza riguardo tutto ciò che passa per la testa; che lì dovevano parlar poco o<br />

niente, perché tacendo non si sbaglia mai, e soprattutto “far sempre viso ridente, e<br />

approvare tutto quello che si vede”. Quindi ricordò ad Agnese di pensare piuttosto<br />

a ringraziare il signore per il bene che le aveva fatto, con l’invio di tutti quegli<br />

scudi; ma la donna gli rispose che ci aveva già pensato, perché le buone creanze le<br />

conosceva, senza bisogno di essere imboccata.<br />

Poco dopo s’incontrarono con l’Innominato, che stava scendendo a valle per<br />

uno dei suoi normali giri d’ispezione; visti i nuovi ospiti, si avvicinò ad essi<br />

premuroso, e fece la più cordiale accoglienza a don Abbondio. Questi gli disse<br />

che, confidando nella sua gentilezza, aveva osato venire a dargli del fastidio, e si<br />

era anche presa la libertà di condurre la propria governante e la madre di Lucia,<br />

alla quale egli aveva già fatto del bene… Il signore, confuso per quella presenza<br />

inaspettata, replicò: “Del bene, io!... Voi, mi fate del bene, a venir qui… da me…<br />

in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione”. Agnese disse<br />

che veniva a in<strong>com</strong>odarlo e anche a ringraziarlo per il beneficio; ma l’Innominato<br />

troncò le parole di ringraziamento, domandando con premura notizie della<br />

figliola; quindi, tornando indietro, volle lui stesso ac<strong>com</strong>pagnarli al castello, per<br />

provvedere personalmente alla loro sistemazione. Mentre salivano, chiese al<br />

parroco se i lanzichenecchi fossero giunti alla sua parrocchia. Don Abbondio<br />

rispose che non li aveva voluti aspettare, quei diavoli, per i quali accoppare un<br />

prete cattolico sarebbe stato un piacere e un merito. Il signore gli fece coraggio,<br />

dicendo che lì non sarebbero venuti a dar fastidio; ma che, se ci volessero provare,<br />

erano pronti a ricacciarli. Il curato non fece alcun <strong>com</strong>mento, tenendo ben<br />

nascosto il suo malumore per quei propositi guerreschi; quindi, indicando i monti<br />

dirimpetto, chiese se era vero che anche su quelli si aggirassero altri soldati poco<br />

rac<strong>com</strong>andabili, al servizio della Repubblica Veneta. L’Innominato confermò la<br />

notizia, aggiungendo però che il castello era ben guarnito anche contro i loro<br />

eventuali assalti. Immaginate voi <strong>com</strong>e il pavido prete rimanesse allibito di fronte<br />

alla (secondo lui) spavalderia del signore, che sembrava contento di trovarsi tra<br />

due fuochi, per dimostrare la sua potenza; il poveretto invece si rodeva dentro, e<br />

chi sa quanto si pentiva di essersi cacciato in quella situazione pericolosa, sempre<br />

per dar retta a due pettegole; e amaramente <strong>com</strong>mentava tra sé con stizza: “E<br />

costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo!” A<br />

questo punto ci viene spontanea un’osservazione: don Abbondio si scandalizza<br />

degli altri, ha da ridire su tutto e su tutti, <strong>com</strong>e in questo caso sull’Innominato,<br />

mentre l’individuo scandaloso è proprio lui: pauroso, egoista, scontento sempre.<br />

Era scontento di quel gran concorso di profughi al castello; ma si potrebbe<br />

s<strong>com</strong>mettere che gli sarebbe anche dispiaciuto di restare solo, temendo di<br />

rimanere senza aiuto; gli dava ombra e sospetto quell’apprestamento difensivo<br />

organizzato dal premuroso signore che l’ospitava; ma molto probabilmente<br />

avrebbe trovato da ridire anche se il castello fosse stato lasciato sguarnito,<br />

182


temendo di rimanere indifeso in caso di un assalto. Questo eterno brontolone e<br />

incorreggibile egoista, quest’uomo scandalosamente vile e insensibile ai suoi<br />

doveri e alla propria responsabilità, è purtroppo l’esemplare tipico di tanti uomini<br />

anche del mondo di oggi, che non vivono che per sé, sordi agli altrui bisogni,<br />

intolleranti di tutto ciò che minimamente fa ombra alla loro mentalità meschina ed<br />

egoistica.<br />

L’Innominato condusse dunque gli ospiti alle stanze loro assegnate, le donne<br />

nel quartiere loro riservato, don Abbondio in una di quelle camere riservate agli<br />

ecclesiastici. Il signore aveva preparato ogni cosa con diligenza e generosità, in<br />

modo che tutto funzionasse nel modo migliore, e gli ospiti si trovassero a loro<br />

agio; possiamo ben dire che, <strong>com</strong>e nella carestia e successivamente nella peste<br />

rifulse la carità intelligente e fervida di Federigo, così durante la calata dei<br />

lanzichenecchi brillò la carità squisita e premurosa, larga e previggente del grande<br />

convertito. Tutto il castello, <strong>com</strong>e abbiamo accennato, era stato sistemato e<br />

organizzato nel modo più funzionale, affinché potesse accogliere quanta più gente<br />

fosse possibile, dando loro un minimo di <strong>com</strong>odità. Parlando di questa<br />

sistemazione, il Manzoni ci traccia per così dire una pianta del castello: esso era<br />

all’incirca rettangolare, con due cortili interni, uno dalla parte davanti, uno dalla<br />

parte di dietro, <strong>com</strong>unicanti attraverso un andito aperto nel corpo mediano<br />

dell’edificio, proprio in corrispondenza della porta che dava sulla spianata. Le<br />

stanze che si affacciavano sul cortile anteriore e sulla spianata erano state<br />

destinate agli uomini, e di queste alcune riservate ai sacerdoti che fossero capitati<br />

lassù; le camere che davano sul cortile posteriore furono assegnate alle donne,<br />

mentre il corpo di mezzo fu utilizzato per deposito dei viveri e per custodire le<br />

suppellettili che i fuggitivi avessero portato con sé, per salvarle dalla furia<br />

devastatrice dei nuovi vandali.<br />

Poco più di tre settimane rimasero i nostri nel castello; a dir il vero, non ci fu<br />

giorno che non sonasse l’allarme, ma per fortuna non si verificò mai alcun<br />

incidente o scontro vero e proprio. Quando veniva dato l’allarme, perché lanzi o<br />

cappelletti erano stati visti nei dintorni, l’Innominato mandava subito da quella<br />

parte degli esploratori a cavallo, per rendersi conto dell’entità del pericolo; se poi<br />

se ne rivelava il bisogno, partiva lui stesso con un drappello di fanti, che era<br />

tenuto sempre pronto per ogni evenienza; lui disarmato alla testa di un reparto<br />

armato di tutto punto: spettacolo insolito e ammirabile. La causa di questi ripetuti<br />

allarmi erano generalmente dei soldati sbandati, che si erano spinti al saccheggio<br />

dei paesi posti fuori dell’itinerario di marcia; essi, vedendosi venire addosso<br />

quella truppa così marziale e decisa, se la battevano senza fare resistenza. Un<br />

giorno l’intervento dell’Innominato valse a salvare un intero paese, che veniva<br />

saccheggiato da una torma di soldati di vari reparti, allontanatisi dalle bandiere e<br />

riunitisi per dare il sacco ai paesi non abbandonati dagli abitanti, perché piuttosto<br />

lontani dalla direttrice di marcia dell’esercito invasore; i poveri abitanti, colti di<br />

sorpresa, venivano spogliati degli averi ed esposti alla violenza di una soldataglia<br />

avida e licenziosa. Ma per quella volta i loro piani non riuscirono. Per fortuna del<br />

paese, l’Innominato si trovava nelle vicinanze, intento a scacciare alcuni<br />

183


saccheggiatori isolati, “per insegnar loro a non venir più da quelle parti”; appena<br />

ricevuta la pressante invocazione di aiuto, egli agì da prode ed esperto<br />

<strong>com</strong>andante. Dopo aver rincuorato i suoi con poche ma efficaci parole, li<br />

condusse contro quei ribaldi con tanta celerità e impeto, che coloro non pensarono<br />

neppure un momento ad accettare la battaglia, per salvare il loro bottino, ma<br />

fuggirono alla rinfusa, abbandonando ogni cosa. Il signore li inseguì per un lungo<br />

tratto, per togliere loro ogni possibilità e ogni ardire di tornare sulla preda che<br />

avevano dovuto abbandonare sul posto; quindi fermò il suo reparto su un luogo<br />

elevato, donde si assicurò che coloro si allontanassero definitivamente. Quando li<br />

ebbe visti sparire in lontananza, tornò sui suoi passi e, attraversando il paese così<br />

insperabilmente salvato, fu ac<strong>com</strong>pagnato dagli applausi e dalle benedizioni degli<br />

scampati, giusto <strong>com</strong>penso per la sua sollecitudine e per il suo coraggio.<br />

“Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di<br />

condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine<br />

d’importanza”. Questo perché il padrone di casa aveva messo su<br />

un’organizzazione efficiente anche dal punto di vista disciplinare, disponendo<br />

sentinelle nei luoghi più opportuni, e delegando poi gli ecclesiastici e le persone<br />

più autorevoli a invigilare nei vari quartieri, soprattutto per quanto riguardava<br />

l’ordine e la disciplina nei dormitori, nelle cucine e nei magazzini dei viveri, a cui<br />

era preposto personale fidato e responsabile. Lui poi era presente dappertutto, e<br />

non si limitava a <strong>com</strong>andare e a disporre, ma si accertava sempre dell’esecuzione<br />

di ogni suo ordine, correggendo e intervenendo personalmente là dove ce ne fosse<br />

bisogno; il che avveniva di rado. Infatti i suoi dipendenti erano in genere zelanti e<br />

irreprensibili, anche perché sapevano di dover rendere conto a lui di ogni cosa; del<br />

resto non erano più i “bravi” di un tempo, ma uomini nuovi nell’animo, i quali<br />

avevano volontariamente abbracciato gli stessi ideali di onestà e di giustizia del<br />

loro padrone; e questo rendeva ogni cosa più facile nel funzionamento di quel<br />

ricovero.<br />

Nella valle erano sorte locande e osterie; chi aveva denari e buona educazione,<br />

andava a mangiare laggiù, per non pesare troppo sull’ospitalità del signore; chi<br />

invece mancava di moneta o di discrezione, mangiava alla mensa <strong>com</strong>une che<br />

veniva imbandita ogni giorno a spese dell’Innominato: vi si distribuiva pane,<br />

minestra e vino. Alcune tavole poi venivano servite a parte per gli ospiti di<br />

riguardo, tra i quali figuravano i nostri fuggitivi. Agnese e Perpetua però,<br />

dimostrando ancora una volta il loro buon senso e la loro grande discrezione,<br />

avevano insistito per “essere impiegate nei servizi che richiedeva una così grande<br />

ospitalità”; così nel mentre si rendevano utili, avevano anche modo di non<br />

annoiarsi, essendo occupate gran parte della giornata; nel tempo libero<br />

chiacchieravano “con certe amiche che s’eran fatte, o col povero don Abbondio.<br />

Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli faceva<br />

<strong>com</strong>pagnia.”<br />

Fermiamoci un po’ a considerare queste scarne parole: “non aveva nulla da<br />

fare”. Evidentemente l’Innominato non gli aveva dato nessuna in<strong>com</strong>benza<br />

particolare. Lo fece per riguardo, o meglio perché aveva ormai conosciuto la sua<br />

184


nullità? Oh, quanto meschino gli doveva apparire quel prete, dopo aver conosciuto<br />

e ammirato lo spirito apostolico del Cardinale! Se questo fantoccio di sacerdote<br />

avesse avuto un po’ di senso del dovere e anche un po’ di discrezione, che non si<br />

peritava di rac<strong>com</strong>andare alle due donne, si sarebbe adoperato anche lui<br />

attivamente al buon andamento di tutte le operazioni, e soprattutto avrebbe sentito<br />

il dovere di organizzare l’assistenza religiosa tra i ricoverati, i quali chi sa quanto<br />

bisogno avevano del conforto divino, mediante la preghiera, le funzioni religiose e<br />

i sacramenti. Egli invece passava le lunghe ore in <strong>com</strong>pagnia della sua paura, non<br />

preoccupandosi affatto delle condizioni materiali e spirituali di tanti poveri<br />

cristiani. Quando poi era stanco di starsene in panciolle, usciva fuori a girovagare<br />

sulla spianata e lungo i fianchi del maniero, per scoprir qualche anfratto, qualche<br />

nascondiglio sicuro, dove rifugiarsi in caso di un attacco; perché aveva sempre<br />

quella pauraccia di trovarsi in un parapiglia, essendo il castello, a suo parere, tra<br />

due fuochi, da una parte i lanzichenecchi, dall’altra i cappelletti; perciò non osò<br />

mai discendere nella valle, per non avere qualche brutto incontro o con gli uni o<br />

con gli altri.<br />

Le notizie dei passaggi e dei <strong>com</strong>portamenti dei vari reggimenti arrivavano fin<br />

lassù, giorno dopo giorno. Finalmente giunse la notizia che era passata per il<br />

ponte di Lecco anche la retroguardia, <strong>com</strong>andata dal capitano italiano Galasso.<br />

Terminato il pericolo di uno sconfinamento degli imperiali in territorio veneto, fu<br />

ritirato dal confine anche lo squadrone volante dei cappelletti della Serenissima, e<br />

tutto il paese, da una parte e dall’altra, restò libero. La gente <strong>com</strong>inciò a lasciare<br />

l’ospitale rifugio, e Perpetua sollecitava il padrone a non indugiare la partenza,<br />

perché altrimenti i ladri paesani avrebbero <strong>com</strong>pletato l’opera di rapina; ma lui<br />

tenne duro, temendo di potersi incontrare per strada con qualche pericoloso<br />

sbandato: “quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la<br />

vinceva”; e così avvenne che i nostri furono proprio gli ultimi a partire, <strong>com</strong>e<br />

erano stati tra i primi ad arrivare.<br />

L’Innominato mostrò ancora una volta la sua squisita gentilezza, facendo<br />

trovar pronta per loro una carrozza alla Malanotte, dove volle ac<strong>com</strong>pagnarli di<br />

persona. Nel calesse aveva fatto mettere della biancheria per Agnese alla quale, in<br />

disparte, “fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che<br />

troverebbe in casa”. La donna non voleva accettarli, dicendo che ne aveva<br />

addosso ancora di quelli vecchi, ma il signore insistette che prendesse anche i<br />

nuovi, perché ne avrebbe avuto certamente bisogno; quindi con voce accorata le<br />

diede i suoi saluti per la figlia: “Quando vedrete quella vostra buona, povera<br />

Lucia… già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele<br />

adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in<br />

tanta benedizione per lei.”<br />

Durante il viaggio di ritorno a casa fecero una fermatina alla casa del buon<br />

sarto, ma solo per scambiare i saluti e apprendere qualche notizia sul passaggio<br />

delle truppe, avvenuto a non molta distanza da lì; ripartirono dopo la breve sosta,<br />

e poco dopo videro purtroppo coi propri occhi <strong>com</strong>e erano ridotti i campi e le<br />

case. Sulla campagna sembrava che si fosse rovesciata una fitta e violenta<br />

185


grandine, ac<strong>com</strong>pagnata <strong>com</strong>e da un uragano; le case erano ridotte peggio di<br />

stalle; lo spettacolo era desolante: usci sfondati, finestre infrante, masserizie<br />

bruciate o fracassate. L’aria era dappertutto greve e maleodorante; ma da alcune<br />

case, usate <strong>com</strong>e cessi, uscivano zaffate di puzzo insopportabile. “La gente, chi a<br />

buttar fuori porcherie, chi a rac<strong>com</strong>odar le imposte alla meglio, chi in crocchio a<br />

lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli<br />

sportelli, per chieder l’elemosina”. Spettacolo di spaventosa miseria, che stringeva<br />

veramente il cuore; ma purtroppo era solo il presagio delle sofferenze future.<br />

Con queste scene davanti agli occhi, giunsero al paese già preparati e<br />

rassegnati, e trovarono quello che ormai si aspettavano; ma la canonica era stata<br />

presa particolarmente di mira da quegli anticristi; avevano rotto tutto, insozzato<br />

ogni locale, bruciato o reso inservibile ogni mobile. Le pareti erano state istoriate<br />

con caricature di preti, fatte col carbone; e i soldatacci si erano adoperati “a farli<br />

orribili e ridicoli: intento che, per la verità, non poteva andar fallito a tali artisti”.<br />

Non parliamo poi delle figure oscene e dei disegni sacrileghi!<br />

Il padrone e la serva entrarono “senza aiuto di chiavi”, stringendosi il naso con<br />

le dita, non resistendo al tanfo di quella latrina, e badando bene dove posavano i<br />

piedi in mezzo a tanto stomachevole luridume; ma la descrizione dettagliata dello<br />

scempio che trovarono dentro, ce la possiamo risparmiare; basta riportare il<br />

<strong>com</strong>mento istintivo di Perpetua: “Ah porci!”. Da quel porcile dovettero uscir<br />

subito, riparando nell’orto, per non esser soffocati dal lezzo. Ma lì videro la cosa<br />

peggiore, che dette il colpo di grazia al povero don Abbondio: il suo gruzzolo era<br />

stato portato via! Sotto il fico c’era una buca aperta, e del tesoro, messo insieme in<br />

decenni di taccagneria, neppure l’ombra. Figuratevi con che risentimento il<br />

derubato si scagliò contro la serva, accusandola di non aver nascosto bene il<br />

denaro; ma questa non se la tenne, ma contrattaccò con violenza, <strong>com</strong>e al solito,<br />

senza peli sulla lingua, riversando tutta la colpa su di lui, non d’altro capace che<br />

d’impicciare e brontolare e far perdere la testa alla gente che ha da fare. Il curato<br />

dovette dunque tacere e tenersi per sé la sua stizza. Perpetua poi, nei giorni<br />

successivi, “a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di<br />

certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio dei soldati,<br />

erano invece sane e salve in casa di gente del paese”, e voleva assolutamente che<br />

don Abbondio richiedesse il suo. Ma costui era sordo da quell’orecchio, dato che<br />

“la sua roba era in mano di birboni”, cioè di quei tali da cui voleva stare sempre<br />

alla larga. E così cessò anche di lamentarsi di qualche cosa che non trovasse più,<br />

perché, se apriva bocca, la serva pronta lo rimbeccava, dicendo che quella cosa<br />

era in casa della data persona: andasse perciò a richiederla; se non ne aveva il<br />

coraggio, la smettesse almeno di belarne. Il povero curato capì l’antifona, e non<br />

toccò più quest’argomento, per evitare simili risposte, e anche più pepate: la<br />

zitella diventava sempre più acida!<br />

Questo capitolo, col precedente, serve mirabilmente per <strong>com</strong>pletare e rifinire<br />

la figura di don Abbondio, pavido e brontolone, egoista e smidollato; e ne vien<br />

fuori un vero capolavoro di <strong>com</strong>icità e di umorismo, ma anche, da parte del<br />

Manzoni, di pensosa e indulgente analisi delle umane miserie, perché un po’ di<br />

186


questo vile prete può essere o è, anche se ci riesce difficile ammetterlo, in<br />

ciascuno di noi.<br />

187


CAPITOLO XXXI<br />

Questo capitolo, assieme al successivo, può considerarsi una piccola ma<br />

accurata monografia della peste del 1630 nel Milanese, la quale fu chiamata anche<br />

“la peste del cardinale Federigo Borromeo”, così <strong>com</strong>e la precedente, del 1576,<br />

era stata denominata “la peste di San Carlo”. Il Manzoni a questo proposito<br />

esclama: “tanto è forte la carità!” Essa infatti può, “d’una calamità per tutti, far<br />

per un uomo <strong>com</strong>e un’impresa; nominarla da lui, <strong>com</strong>e una conquista o una<br />

scoperta”. La memoria delle azioni caritative di questi due santi arcivescovi fu più<br />

memorabile dei mali stessi, perché essi li affrontarono con la forza della carità, e<br />

amorevolmente, umilmente si eressero a “guida, soccorso, esempio, vittima<br />

volontaria” a favore di tutti i sofferenti, che solo in loro trovarono un po’ di<br />

conforto.<br />

L’Autore, appassionato <strong>com</strong>’era della ricerca storica, ha voluto darci di quella<br />

peste una relazione il più possibile esatta e <strong>com</strong>pleta, derivandola dalle memorie<br />

del tempo e dai pochi documenti ufficiali. In questi due capitoli prevale<br />

naturalmente il gusto dello storico, <strong>com</strong>e nella precedente descrizione della<br />

carestia; ma con lo storico è presente, quasi in ogni pagina, anche il pensatore e il<br />

cristiano, che guarda con infinita <strong>com</strong>passione alle miserie, alle debolezze e agli<br />

errori umani, che sono da <strong>com</strong>patire più che da condannare, meno che là dove si<br />

constati l’evidente malafede di qualcuno.<br />

Tra le molte cronache contemporanee, tutte più o meno difettose, ma tutte utili<br />

alla storia, appunto perché originali, di prima mano, e quindi fornite sempre di<br />

quella “forza viva, propria e, per dir così, in<strong>com</strong>unicabile”, che deriva dall’aver<br />

visto e sentito, il Manzoni segue soprattutto quella, in latino, di Giuseppe<br />

Ripamonti, e quella, in volgare, del medico Alessandro Tadino, che era appunto<br />

uno dei due medici del tribunale di Sanità, e quindi il più interessato a prevenire e<br />

curare il contagio. L’altro medico della Sanità era Senatore Settala, figlio del<br />

famoso protofisico Lodovico Settala, “allora poco men che ottuagenario”, ma<br />

ancora sulla breccia, il quale aveva visto la peste precedente e “n’era stato uno dei<br />

più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo, dei più riputati curatori.”<br />

La peste dunque, <strong>com</strong>e si era temuto e <strong>com</strong>e il medico Tadino aveva<br />

prospettato al Governatore, era davvero entrata nel Milanese al seguito delle<br />

bande alemanne, e dalla Lombardia “invase e spopolò una buona parte d’Italia”;<br />

ancora una volta si ripeteva per l’infelice penisola il biblico triplice flagello: fame,<br />

guerra e peste. Infatti lungo l’itinerario percorso dall’esercito teutonico erano stati<br />

trovati dei cadaveri nelle case abitate dalla soldataglia, e alcuni anche per le<br />

strade: era <strong>com</strong>e un seminìo di contagio. Poco dopo in quei paesi <strong>com</strong>inciarono a<br />

morire persone isolate, e talora famiglie intere, di mali violenti, strani, con sintomi<br />

sconosciuti, quali lividi e bubboni, con febbri altissime, ac<strong>com</strong>pagnate da delirio<br />

oppure da una specie di letargo. Però quelli che 53 anni avanti avevano visto la<br />

peste di San Carlo, conoscevano bene i segni inconfondibili del terribile morbo, e<br />

188


primo tra tutti il protofisico Lodovico Settàla, già nominato, il quale ritenne suo<br />

dovere, in data 20 ottobre 1629, avvertire il tribunale di Sanità che a Chiuso “era<br />

scoppiato indubitabilmente il contagio”. Ma non fu preso alcun provvedimento;<br />

eppure quella voce era la più autorevole che ci potesse essere, perché il Settàla,<br />

oltre che medico primario (questo significava protofisico), era stato un illustre<br />

docente universitario e aveva <strong>com</strong>posto diversi trattati di medicina, per cui era<br />

considerato un luminare della materia.<br />

Sic<strong>com</strong>e giunsero pochi giorni dopo preoccupanti avvisi di mortalità, con<br />

somiglianti sintomi, da Lecco e da Bellano, la Sanità dovette scuotersi dalla sua<br />

inerzia; ma si limitò a inviare un <strong>com</strong>missario che, facendosi ac<strong>com</strong>pagnare da un<br />

medico di Como, si recasse sul posto a indagare. Purtroppo sia il <strong>com</strong>missario,<br />

ignaro di medicina, sia il medico che lo ac<strong>com</strong>pagnava, non meno ignorante in<br />

materia nonostante la qualifica, si fecero infinocchiare da un barbiere di Bellano,<br />

il quale sosteneva che il decesso con quei sintomi era “effetto consueto<br />

dell’emanazioni autunnali delle paludi” e, dove paludi non ci fossero, “effetto dei<br />

disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli Alemanni”. E questa bella<br />

spiegazione scientifica fu avallata, pare, anche dalla Sanità, che si mise l’animo in<br />

pace e non cercò oltre, per allora.<br />

Ma poiché consimili e peggiori notizie <strong>com</strong>inciarono a piovere anche da altri<br />

paesi più vicini a Milano, la Sanità mandò a indagare in loco due suoi membri, di<br />

cui uno, per fortuna, medico esperto e diligente, e precisamente il già nominato<br />

Alessandro Tadino. Costoro condussero una severa inchiesta nei paesi loro<br />

indicati, e trovarono dappertutto i sinistri e inequivocabili marchi della peste.<br />

Senza aspettare che fosse terminato il loro giro d’ispezione, si affrettarono a<br />

<strong>com</strong>unicare la loro certezza alla Sanità, la quale il 30 ottobre prescrisse una<br />

bolletta sanitaria per tutti quelli che volessero entrare in Milano, al fine di tener<br />

lontani dalla città quanti provenissero dai paesi già invasi dal morbo. Ma per<br />

rendere operante questa deliberazione del tribunale di Sanità, occorreva<br />

un’apposita grida, che fu stesa solo il 23 novembre e pubblicata nientemeno che il<br />

29 di quel mese, cioè 30 giorni precisi dopo la deliberazione della Sanità! Era il<br />

proverbiale chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati: nel frattempo la<br />

peste era già entrata a Milano.<br />

Molto probabilmente questo inspiegabile ritardo nell’emanare la grida fu<br />

dovuto a un personale intervento del Governatore il quale, volendo celebrare<br />

solenni feste per la nascita dell’Infante (feste indette infatti con grida del 18<br />

novembre), non riteneva conveniente allarmare l’opinione pubblica e mettere in<br />

orgasmo la città con quella prescrizione delle bollette, vale a dire dei certificati<br />

medici da esibire da parte di chiunque volesse entrare in Milano; altrimenti la<br />

festa non sarebbe più stata così solenne e generale, senza l’accorrere di spettatori<br />

da tutti i paesi del Ducato! Ma c’è di più per bollare l’insensibilità del nuovo<br />

Governatore, il già nominato marchese Ambrogio Spinola; il 14 novembre il<br />

Tadino e il suo <strong>com</strong>pagno, di ritorno dal giro d’ispezione, ricevettero dal tribunale<br />

di Sanità l’incarico di prospettare al Governatore la gravità della situazione e<br />

l’urgenza dei rimedi. “V’andarono e riportarono: aver lui di tali nuove provato<br />

189


molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser<br />

più pressanti”. E infatti da una parte aveva ripreso l’assedio di Casale, per lavare<br />

l’onta del suo predecessore, dall’altra si preparava a indire feste grandiose e<br />

universali per la felice nascita del principe ereditario di Spagna! Lo Spinola<br />

apparve dunque, in quanto a insensibilità morale e civile, per nulla dissimile dal<br />

Cordova; eppure il nuovo Governatore era italiano di nascita, e ci si sarebbe<br />

aspettata da lui una maggiore premura per le condizioni dei concittadini. Ma,<br />

<strong>com</strong>e ben sappiamo, allora il sentimento nazionale albergava solo nell’animo di<br />

pochi eminenti Italiani; tuttavia, se non carità di patria, da un governatore era<br />

lecito attendersi almeno un po’ di senso di responsabilità della propria carica;<br />

senso di responsabilità che invece dimostrò il Cardinale, per quanto non fosse sua<br />

materia, prescrivendo con lettera pastorale ai parroci “che ammonissero più e più<br />

volte” i fedeli del pericolo del contagio e “dell’obbligo stretto di rivelare ogni<br />

simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette”. Luminoso esempio di<br />

spirito di iniziativa di fronte all’inerzia delle autorità.<br />

In mezzo alle centinaia di migliaia di vittime senza nome, buttate nelle fosse<br />

<strong>com</strong>uni, il Tadino e il Ripamonti vollero tramandare ai posteri il nome di colui<br />

che introdusse la peste a Milano: fu un soldato italiano al servizio degli Spagnoli,<br />

il quale, avendo <strong>com</strong>prato o rubato ai lanzi delle vesti, entrò nella città con un<br />

gran fagotto di detta mercanzia, e andò ad alloggiare presso parenti, nel borgo di<br />

Porta Orientale, proprio vicino al convento dei Cappuccini, al quale il nostro<br />

Renzo aveva bussato quella malaugurata mattina di San Martino. Il soldato<br />

sventurato, e portator di sventure, “appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo<br />

spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in<br />

sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì”. Sic<strong>com</strong>e nell’ospedale<br />

caddero ammalati di peste i due infermieri e il frate che avevano assistito il<br />

poveretto, furono prese le debite precauzioni, che valsero a evitare il propagarsi<br />

del contagio in quel luogo. La Sanità fece inoltre segregare in casa la famiglia che<br />

aveva ospitato il soldato, bruciare il letto in cui aveva dormito e i suoi vestiti. Ma<br />

ciò non valse ad arrestare il contagio, ormai penetrato in città.<br />

Infatti il soldato, prima di andare in quella casa di suoi parenti, aveva<br />

girovagato per Milano, e del virus della peste “ne aveva lasciato di fuori un<br />

seminìo che non tardò a germogliare”. E sic<strong>com</strong>e la Sanità ordinava sequestri in<br />

casa degli ammalati e delle loro famiglie, la distruzione con le fiamme di tutti i<br />

panni e dei letti, con relativi materassi, lenzuola e coperte, oppure il trasferimento<br />

al lazzaretto di tutti i familiari e magari di tutti i coinquilini di coloro che<br />

cadevano ammalati, sorse <strong>com</strong>e una gara accanita a trafugar e a nasconder robe,<br />

una cieca determinazione di non denunciare casi di peste, spesso con la<br />

connivenza interessata dei vigili sanitari o addirittura dei medici, non ancora tutti<br />

convinti del contagio. Anzi quei medici i quali erano convinti che si trattava di<br />

peste, vennero in odio al popolo, soprattutto i due della Sanità, che avevano dato il<br />

primo disperato allarme, e il padre di uno di essi, il già nominato protofisico<br />

Lodovico Settala. Questi un brutto giorno, mentre si recava in bussola a visitare i<br />

suoi ammalati, rischiò di venir linciato: la folla inferocita lo bloccò per strada,<br />

190


inveendo con insulti e gridando che lui, e gli altri che la pensavano <strong>com</strong>e lui,<br />

erano nemici della patria, ma che lui era “il capo di coloro che volevano per forza<br />

che ci fosse la peste”, per far cassetta sullo spavento della gente. Niente di più<br />

falso, perché egli curava spesso gratuitamente, ed era sommamente modesto e<br />

benefico; ma non gli valse nulla, perché la folla irragionevole diventava sempre<br />

più minacciosa e rabbiosa; sicché “i portantini, vedendo la mala parata,<br />

ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina”.<br />

Il Manzoni a questo punto osserva che questo trattamento “gli toccò per aver<br />

veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di<br />

persone”; mentre invece aveva incontrato il favore e l’approvazione popolare<br />

qualche tempo prima, quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far<br />

torturare, tanagliare e bruciare, <strong>com</strong>e strega, una povera infelice sventurata”.<br />

Infatti anche l’illustre protofisico seguiva, in certi campi, gli stolti pregiudizi del<br />

suo secolo, tra cui il più rovinoso era quello dell’esistenza delle streghe,<br />

generalmente povere donne malate di nervi o addirittura alienate, che venivano<br />

bruciate vive dopo orrendi supplizi, mentre avrebbero avuto bisogno di amorevoli<br />

cure.<br />

Verso la fine di marzo del 1630 la morbilità, con i ben noti segni, e la<br />

mortalità crebbe a tal punto in tutti i rioni della città, che riusciva invero difficile<br />

non ammettere il contagio; ma chi non voleva che si parlasse di peste, per non<br />

dover riconoscere il proprio errore, trovò la circonlocuzione di febbri maligne,<br />

febbri pestilenti: “miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva<br />

gran danno”, perché non ammetteva quello che era più importante ammettere e far<br />

sapere a tutti, che cioè quella malattia si propagava per contatto o con persone o<br />

con cose infette. Se questo dato importantissimo fosse stato ben chiaro per tutti sin<br />

dal principio del morbo, questo poteva essere circoscritto o <strong>com</strong>battuto<br />

efficacemente.<br />

Avendo la Sanità prescritto che tutti i contagiati vi fossero portati, il lazzaretto<br />

rigurgitava di ammalati; e sebbene la maggioranza di essi morisse in pochi giorni,<br />

tuttavia l’afflusso dei nuovi arrivati era tale, che il numero <strong>com</strong>plessivo dei<br />

ricoverati andò enormemente crescendo, creando gravi problemi di carattere<br />

sanitario, logistico e disciplinare. La Sanità, sotto la cui autorità erano la direzione<br />

e l’amministrazione di quell’immenso noso<strong>com</strong>io, non sapendo <strong>com</strong>e<br />

provvedervi, pensò di affidarlo ai Cappuccini. Furono designati a reggerlo padre<br />

Felice Casati, <strong>com</strong>e direttore, e padre Michele Pozzobonelli, <strong>com</strong>e suo assistente;<br />

poi vi accorsero altri frati a mano a mano che il bisogno crebbe; “e furono in quel<br />

luogo sovrintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardaroba,<br />

lavandai, tutto ciò che occorresse.”<br />

Fu certamente uno strano ripiego affidare un simile ospedale a uomini che,<br />

per la loro formazione e per la stessa finalità dell’Ordine, erano molto lontani da<br />

simili in<strong>com</strong>benze. “Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità<br />

che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder<br />

quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente.” E su questa bravura basta<br />

riportare una sola citazione, quella di Alessandro Tadino, testimone oculare, il<br />

191


quale <strong>com</strong>e medico e membro della Sanità era anche in grado di giudicare<br />

obiettivamente e con cognizione di causa. Egli dunque così afferma (traduciamo<br />

dal suo italiano secentesco-lombardo): “che se questi Padri ivi non si trovavano, al<br />

sicuro tutta la Città annichilita si trovava; poiché fu cosa miracolosa l’aver questi<br />

Padri fatto in così poco spazio di tempo tante cose per beneficio pubblico, che non<br />

avendo avuto aiuto, o almeno poco dalla città, con la sua (=loro) industria e<br />

prudenza avevano mantenuto nel Lazzaretto tante migliaia di poveri”. A detta del<br />

Ripamonti, infatti, i ricoverati in quel noso<strong>com</strong>io furono <strong>com</strong>plessivamente<br />

50.000 nei sette mesi che ne ebbe la direzione il padre Felice.<br />

Ormai più nessuno negava la peste e il contagio; anche perché <strong>com</strong>inciarono<br />

ad ammalarsi e a morire dei cittadini appartenenti alla borghesia e alla nobiltà, e<br />

non più soltanto i popolani, <strong>com</strong>e al principio dell’epidemia. Si ammalarono, tra<br />

gli altri, tutti i familiari e la servitù del protofisico Settala: di tanti scamparono<br />

solo lui e un figliolo. Ma purtroppo, mentre si riconosce la peste, ci si attacca<br />

l’idea che sia propagata con venefizi e malefizi, o addirittura con arti e operazioni<br />

diaboliche. Era questo un terreno fertile di mille ubbìe, in cui la fantasia popolare<br />

era abituata a esercitarsi sin dalla notte dei tempi. Ma purtroppo anche le persone<br />

autorevoli erano vittime di questi fatali pregiudizi. C’era stato anche il fatto che<br />

l’anno prima era giunto da Madrid un dispaccio, firmato personalmente dal Re,<br />

che ordinava di stare all’erta e fare ricerche, perché erano scappati dalla capitale<br />

spagnola “quattro francesi, ricercati <strong>com</strong>e sospetti di spargere unguenti velenosi,<br />

pestiferi”. Questo dispaccio, che era stato <strong>com</strong>unicato anche alle autorità<br />

subalterne, aveva già fatto nascere nella popolazione il “sospetto indeterminato<br />

d’una frode scellerata”: quando poi la peste scoppiò davvero, i più ritennero che<br />

fosse stata provocata con empio divisamento, magari dimenticando di averla<br />

temuta, e forse anche predetta, in occasione della discesa delle truppe imperiali. Il<br />

Manzoni cita due casi di pretese “unzioni” a scopo venefico e pestifero (e “untori”<br />

furono chiamati quei fantomatici agenti nemici che si diceva le andassero<br />

facendo). Il primo si verificò la sera del 17 maggio 1630, nel duomo: ad alcuni<br />

sembrò di vedere degli sconosciuti che andavano ungendo una transenna. La cosa<br />

fu denunciata alla Sanità; e per quanto il presidente di questa, accorso di persona a<br />

ispezionare assieme ad alcuni subalterni, non avesse trovato nulla di sospetto,<br />

tuttavia, più per cautela che per bisogno, sia la transenna che le panche (ad<br />

abundantiam!) furono portate fuori e sottoposte ad accurato lavaggio. “Quel<br />

volume di roba accatastata – osserva giustamente l’Autore – produsse una<br />

grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così<br />

facilmente un argomento”. Il lavaggio, incautamente ordinato, dette credito al<br />

sospetto di unzione, il sospetto si mutò subito, nei più, in certezza; e l’episodio,<br />

passando di bocca in bocca, fu ingrandito in modo, che si disse in giro, <strong>com</strong>e cosa<br />

certa, che nel duomo erano state unte transenne, panche, pareti, e financo le corde<br />

delle campane. Ma il giorno seguente i cittadini che uscirono mattinieri videro un<br />

più orrendo spettacolo: muri e porte “per lunghissimi tratti e in ogni parte della<br />

città” erano imbrattati con una poltiglia giallognola e quasi biancastra, applicata<br />

evidentemente con spugne o pennelli. A quella vista la città fu presa dal panico,<br />

192


ma per fortuna la Sanità non aveva ancora perso la testa. Furono fatti esami,<br />

eseguiti esperimenti su cani: non si trovò che quella sudiceria recasse alcun male;<br />

e in una lettera al Governatore il tribunale di Sanità espresse il parere che<br />

quell’imbrattamento fosse stato atto più di insolenti temerari che di scellerati:<br />

insomma uno scherzo di cattivo genere. Ciò non pertanto la Sanità pubblicò un<br />

bando, con cui si prometteva “premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore<br />

o gli autori del fatto”, senza accennare affatto, <strong>com</strong>e sarebbe stato doveroso, a<br />

“quella ragionevole e acquietante congettura” che giustamente avevano<br />

prospettata al Governatore. Perché? Questo silenzio si può spiegare solo<br />

considerando che alla Sanità faceva, in certo qual modo, <strong>com</strong>odo che la grande<br />

epidemia fosse attribuita a un infame disegno, piuttosto che alla sua incapacità di<br />

prevenirla prima e di isolarla dopo.<br />

E così la fantasia popolare, eccitata più che calmata dalla grida, poté<br />

immaginare che quell’unzione fosse o una vendetta di don Gonzalo, per gli insulti<br />

ricevuti alla sua partenza da Milano, o un espediente di quel diabolico Cardinale<br />

di Richelieu per impadronirsi del Ducato senza colpo ferire. Tuttavia c’era un<br />

certo numero di persone le quali non erano ancora convinte che ci fosse la peste,<br />

che esistesse il contagio, e quindi non vedevano alcuna necessità di precauzioni,<br />

onde evitare il contatto con persone o cose infette. Costoro andavano blaterando<br />

che, se fosse davvero peste, tutti gli ammalati sarebbero morti, mentre era<br />

innegabile che alcuni, anche se pochi, guarivano. ”Per levare ogni dubbio, trovò il<br />

tribunale della Sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare<br />

agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo”. Essendo in quei<br />

giorni morta di peste un’intera famiglia, i cadaveri ignudi, deposti su di un carro,<br />

furono portati al cimitero di San Gregorio in un giorno in cui era là affluito quasi<br />

tutto il popolo, per una <strong>com</strong>memorazione funebre dei morti della peste<br />

precedente, seppelliti appunto in quel camposanto. Era una ricorrenza tradizionale<br />

molto sentita, che richiamava ogni anno una grande affluenza di fedeli. Costoro si<br />

trovarono ad assistere all’imprevisto e macabro spettacolo; così ognuno poté<br />

vedere nei cadaveri “il marchio manifesto della pestilenza”. Si ottenne,<br />

naturalmente, l’effetto voluto, ma in modo inopportuno e brutale: “un grido di<br />

ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro… La peste fu più<br />

creduta… e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.”<br />

Il Manzoni, nella chiusa del capitolo, nota che molte idee, parecchie verità<br />

hanno avuto un destino simile al contrastato riconoscimento della peste di Milano<br />

del 1630: prima negate, poi ammesse a metà, poi ammesse per intero, ma già<br />

storpiate o corrotte da qualche pregiudizio, dovuto a ignoranza o interesse, il quale<br />

rappresentava <strong>com</strong>e una vendetta postuma di quella certa mentalità che non<br />

voleva assolutamente accettarle, ed era stata poi smentita dalla realtà dei fatti. Per<br />

nostra fortuna – osserva l’Autore – non sono molte le verità che hanno<br />

conquistato la loro evidenza e ottenuto credito a un prezzo così caro <strong>com</strong>e la peste<br />

in parola. Come andrebbero meglio le cose per l’umanità se, invece di seguire i<br />

pregiudizi o le apparenze o le dicerie, si ricorresse al “metodo proposto da tanto<br />

tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Se non erro,<br />

193


il Manzoni ci vuole richiamare bonariamente al metodo scientifico, basato<br />

sull’osservazione, sull’esperimento e sul confronto; metodo affermato appunto<br />

nel Seicento, dal Galilei, ma anch’esso riconosciuto tardi, dopo essere costato al<br />

sommo matematico tante sofferenze e innumerevoli guai. Ecco dunque un monito<br />

che dobbiamo accogliere: pensare, prima di parlare, “per non venir sanza<br />

consiglio a l’arco”, 9 <strong>com</strong>e dice Dante. ”Ma parlare – conclude don Lisander con<br />

un sorriso d’arguzia – è talmente più facile di tutte quell’altre cose insieme, che<br />

anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da <strong>com</strong>patire.”<br />

9 Divina Commedia: Purg. VI v.131<br />

194


CAPITOLO XXXII<br />

Poiché riusciva ormai impossibile provvedere ai bisogni della città con i mezzi<br />

finanziari ordinari, il Consiglio dei Decurioni (una magistratura municipale,<br />

<strong>com</strong>posta di nobili, che durò sino al 1796) il 4 maggio 1630 decise di ricorrere al<br />

governatore Spinola, impegnato nell’assedio di Casale, per ottenere speciali<br />

stanziamenti e provvidenze da parte del Governo. Il 22 di quel mese (un po’ tardi,<br />

dal giorno in cui era stata presa la decisione) due <strong>com</strong>ponenti di quel consiglio,<br />

all’uopo delegati, si recarono al quartier generale e fecero al Governatore le<br />

seguenti richieste: fosse sospesa la riscossione delle tasse, data la miseria<br />

generale per la paralisi di ogni attività economica; le spese straordinarie per la<br />

peste fossero a carico dell’Erario e non del Municipio, <strong>com</strong>e del resto era stato<br />

stabilito da un decreto di CarloV; si informasse il Re delle miserie della città e del<br />

Ducato, per sollecitarne un intervento finanziario adeguato; “dispensasse da nuovi<br />

alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati”. Lo Spinola per risposta<br />

diede delle belle parole, facendo delle promesse molto vaghe. Il Gran Cancelliere<br />

Ferrér allora gli scrisse, per <strong>com</strong>unicargli lo sconforto dei decurioni e di tutta la<br />

città in seguito ai risultati deludenti dell’ambasceria, ma lo Spinola non fece nulla<br />

di concreto; anzi, per non essere più seccato da quelle questioni, per lui del tutto<br />

marginali, trasferì addirittura la sua autorità al Ferrèr medesimo, lavandosene così<br />

le mani, onde dedicarsi <strong>com</strong>pletamente alla guerra. Questa poi, dopo aver portato<br />

nel Milanese la peste (che uccise un milione di persone, a dir poco), “dopo aver<br />

desolati i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il<br />

sacco atroce di Mantova; finì col riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il<br />

quale la guerra era stata intrapresa.” Solo che il Nevers dovette cedere una piccola<br />

porzione di territorio all’altro pretendente, Ferrante duca di Guastalla, e un pezzo<br />

di Monferrato al duca di Savoia, il quale a sua volta cedette Pinerolo ai Francesi;<br />

<strong>com</strong>pensi diretti per la Spagna non ce ne furono, e praticamente si ebbe una<br />

diminuzione del suo prestigio in Italia.<br />

Il Consiglio dei Decurioni aveva anche deciso di chiedere al Cardinale di<br />

autorizzare una processione solenne col corpo di San Carlo, per ottenere<br />

l’intercessione del Santo a favore dell’infelice città. Federigo rifiutò per molte<br />

buone ragioni: innanzi tutto non approvava quella cieca fiducia, espressa nella<br />

richiesta, che il morbo dovesse cessare con la processione; era poi sicuro che, se la<br />

grazia non si fosse ottenuta (<strong>com</strong>e poteva essere, perché Dio concede o non le<br />

grazie, secondo i suoi imperscrutabili disegni), i fanatici, cioè quelli che se ne<br />

ritenevano sicuri, si sarebbero scandalizzati, e anche il popolo fedele ne sarebbe<br />

rimasto turbato; infine era preoccupato per eventuali unzioni: infatti se gli untori<br />

esistevano davvero, nella processione avrebbero avuto agio di attuare i loro<br />

scellerati disegni, e <strong>com</strong>unque “il radunarsi tanta gente non poteva che spander<br />

sempre più il contagio: pericolo ben più reale.”<br />

195


Il Cardinale mostrava personalmente di credere più al pericolo reale del<br />

contagio che a quello eventuale degli untori; ma sta il fatto che il sospetto delle<br />

unzioni non solo si era ridestato col crescere della mortalità, ma si era anche<br />

generalizzato. Ormai i più credevano che, se quelle prime unzioni, di cui abbiamo<br />

riferito, non avevano avuto effetti catastrofici, era perché erano stati tentativi di<br />

novizi; ma ora, si diceva, l’arte venefica si era perfezionata, ed era capace di<br />

produrre una polvere sottilissima e invisibile, che si attaccava ai panni e alle<br />

calzature di chi camminava per le strade anche con la massima circospezione. Il<br />

Manzoni riporta, dal Ripamonti, due episodi, per dimostrare <strong>com</strong>e ormai il<br />

sospetto di veder ovunque untori aveva veramente stravolto le menti. Nella chiesa<br />

di Sant’Antonio, durante una solenne cerimonia religiosa, un vecchio<br />

ultraottantenne, prima di sedersi, aveva avuto l’infausta idea di spolverare la<br />

panca col lembo del mantello: bastò questo gesto, abbastanza abituale, per far<br />

travedere alcune donne che erano lì vicino, le quali subito gridarono: “dalli<br />

all’untore!” I presenti, eccitati da quelle grida spiritate, piombano sul malcapitato,<br />

lo trascinano fuori a pugni e a calci e infine, mezzo morto, lo consegnano al<br />

giudice per la tortura, perché confessi il suo delitto sotto i tratti di corda; ma per<br />

fortuna la morte lo liberò prima che fosse sottoposto al supplizio. Il secondo caso,<br />

che avvenne proprio il giorno dopo, non ebbe, fortunatamente, un epilogo così<br />

deplorevole. Già abbiamo detto che, e per la guerra in corso e per la<br />

<strong>com</strong>unicazione giunta da Madrid, i Francesi erano particolarmente sospettati del<br />

veneficio. Orbene tre giovani francesi, ben riconoscibili alla foggia del vestire,<br />

stavano <strong>com</strong>e turisti osservando “quella gran macchina del duomo”, considerato<br />

allora l’ottava meraviglia del mondo per quanto non fosse ancora <strong>com</strong>e lo<br />

ammiriamo oggi; qualcuno dei passanti si ferma insospettito, altri fanno lo stesso,<br />

e ben presto si forma un crocchio di malintenzionati. Bastò che uno dei tre<br />

toccasse col dito la facciata, per accertarsi che fosse marmo, per scatenare coloro<br />

che stavano lì a osservarli con occhio sospettoso: piombarono loro addosso <strong>com</strong>e<br />

furie e, tempestandoli di percosse, li condussero al Palazzo di Giustizia. Per loro<br />

buona sorte esso era lì vicino, ché altrimenti non ci sarebbero giunti vivi; e per<br />

maggiore fortuna trovarono giudici equanimi che, trovatili innocenti, li<br />

rilasciarono.<br />

Intanto i Decurioni, per nulla disarmati dal rifiuto del Cardinale, insistevano<br />

reiterando la loro richiesta, “che il voto pubblico secondava rumorosamente”.<br />

L’insistenza delle autorità e del popolo fu tale, che Federigo ritenne a un certo<br />

punto che fosse più pericoloso mantenere il rifiuto, che cedere alle pressioni che<br />

gli venivano da ogni parte. Infatti, se la peste durava ancora, avrebbero detto che<br />

egli non aveva voluto farla cessare, permettendo la processione. Non è che egli si<br />

preoccupasse dell’impopolarità, ma temeva il danno per la fede della gente<br />

semplice. Ormai il voto popolare era unanime, ed era giocoforza accontentarlo,<br />

affidandosi alla misericordia di Dio, che volesse per sua bontà concedere la grazia<br />

tanto attesa, anche se non era davvero da cristiani collegare fanaticamente la<br />

concessione di questa grazia all’uso di un mezzo arbitrario, quale quello della<br />

processione. Il tribunale di Sanità si sarebbe dovuto sentire in dovere di proibirla,<br />

196


per il pericolo del contagio; ma esso non fece alcuna obiezione, forse per non<br />

rischiare l’odiosità popolare.<br />

La solenne processione si fece l’11 giugno, e durò dall’alba, quando uscì dal<br />

duomo col corpo di San Carlo, al pomeriggio, allorché vi rientrò dopo aver<br />

percorse tutte le principali vie della città. Il corteo si snodò lentamente, con<br />

grande solennità, partecipandovi, col Cardinale, tutte le autorità e gran parte del<br />

popolo; le vie erano addobbate sfarzosamente, <strong>com</strong>e nelle maggiori solennità e nei<br />

tempi migliori; anche la fede e la pietà dei partecipanti era stata, in gran parte,<br />

viva e sincera.<br />

Ma nei giorni successivi, “mentre appunto regnava quella presuntuosa fiducia,<br />

anzi in molti una fanatica sicurezza” nel miracolo, <strong>com</strong>e se avessero fatto un<br />

contratto con Dio, la mortalità crebbe “con un salto così subitaneo, che non ci fu<br />

chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima”. Si disse<br />

subito che, mescolati alla folla dei fedeli, gli untori avevano avuto agio di<br />

spargere le loro polveri finissime e invisibili, sì da infettare e contaminare gran<br />

parte dei partecipanti, tanto più che molti, per penitenza, andavano quel giorno a<br />

piedi nudi. I ricoverati nel lazzaretto salirono in poco tempo da 2.000 a 16.000; la<br />

mortalità giornaliera da 500 a oltre 3.500; la popolazione di Milano, che era prima<br />

della peste di 250.000 abitanti, fu alla fine ridotta a 64.000 anime.<br />

Ormai riusciva sempre più difficile trovare il personale occorrente per il<br />

lazzaretto e per sgomberare le vie e le case dai morti e dagli ammalati;<br />

scarseggiavano anche le medicine, i viveri e i medici. Il personale subalterno della<br />

Sanità era formato da monatti e apparitori: gli uni erano addetti ai servizi più umili<br />

e faticosi, <strong>com</strong>e trasportare o seppellire cadaveri, condurre al lazzaretto gli<br />

ammalati, accudire ai bisogni dei ricoverati; gli altri, <strong>com</strong>e fa capire la parola,<br />

dovevano precedere i carri, che andavano raccogliendo i morti o gli ammalati,<br />

sonando il campanello per avvertimento, affinché i passanti si ritirassero, onde<br />

evitare il contagio, e quelli che avevano in casa dei morti o dei malati<br />

approfittassero del passaggio del carro per il trasporto dei loro cari al cimitero o al<br />

lazzaretto. Sugli uni e sugli altri vigilavano i <strong>com</strong>missari, che erano agli ordini<br />

diretti della Sanità. Ma scarseggiando soprattutto i monatti, e per riempire i vuoti<br />

provocati anche tra essi dalla mortalità e per l’accresciuto bisogno, veniva arrolata<br />

gente della peggiore risma, allettata non tanto dai salari quanto dalla rapina e dalla<br />

licenza. I monatti dunque erano ormai divenuti arbitri della situazione, i veri<br />

padroni di Milano: entravano liberamente nelle case, taglieggiavano i sani con<br />

minacce e violenze, si rifiutavano di portar via i cadaveri, magari già in<br />

putrefazione, se non a un certo prezzo, si facevano pagare profumatamente per<br />

consentire che i malati venissero curati in casa, contro il regolamento; alcuni<br />

rubavano a man salva, altri sfogavano la loro libidine sulle donne indifese. “Si<br />

disse, e l’afferma anche il Tadino, che monatti e apparitori lasciassero cadere<br />

apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta<br />

per essi un’entrata, un regno, una festa”. E se gli sventurati cittadini, per<br />

difendersi dalle angherie dei monatti, ricorrevano ai birri, cadevano, <strong>com</strong>e si dice,<br />

dalla padella nella brace, perché anche costoro erano in gran parte nuovi assunti,<br />

197


al posto di quelli portati via dal contagio, e avevano indossato la divisa più che<br />

altro per avidità di guadagno: gente equivoca o di peggiore specie, che<br />

approfittavano della loro autorità per entrare nelle case e farne di tutti i colori, in<br />

<strong>com</strong>butta con i monatti e con gli altri elementi della malavita.<br />

Assieme all’aumento della perversità umana si verificò, per grazia di Dio,<br />

anche una sublimazione della virtù in genere e della carità in specie, soprattutto da<br />

parte degli ecclesiastici, stimolati ed esaltati dall’esempio trascinatore del loro<br />

Arcivescovo, il quale così scriveva in una lettera di esortazione ai parroci: “siate<br />

disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa<br />

figliolanza vostra: andate con amore incontro alla peste, <strong>com</strong>e a un premio, <strong>com</strong>e<br />

a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo”. E non erano belle<br />

parole, ma quello che lui faceva ogni giorno, con semplicità e dedizione mirabile.<br />

Pregato insistentemente, da autorità, parenti e finanche principi circonvicini, di<br />

lasciare Milano, per ritirarsi in qualche villa di campagna, finché la furia della<br />

peste non fosse esaurita, non diede affatto ascolto a queste voci codarde, che lo<br />

invitavano, per così dire, alla diserzione di fronte al pericolo; anzi si cacciò più<br />

animosamente in mezzo alla peste, incurante del contagio, per visitare ogni giorno<br />

malati e sequestrati, per portare a tutti aiuto materiale e conforto morale, in<br />

<strong>com</strong>unione spirituale con i sofferenti. Percorreva ogni giorno le strade della città,<br />

entrando in tutte le case dove si patisse, vigilando, ammonendo, lodando,<br />

esortando, piangendo col suo popolo; sicché restò “meravigliato anche lui alla<br />

fine, d’esserne uscito illeso”. La carità operosa del Cardinale, dei sacerdoti e dei<br />

cappuccini del lazzaretto valse a evitare che il disastro assumesse le proporzioni di<br />

una catastrofe. A un certo punto mancarono gli uomini per raccogliere i cadaveri<br />

nelle strade e nelle case; non c’erano neppure le fosse per seppellirli. Non sapendo<br />

più <strong>com</strong>e rimediare, “il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le<br />

lagrime agli occhi, a quei due bravi frati” preposti al lazzaretto; e padre Michele<br />

s’impegnò di sgombrargli, in quattro giorni, la città dai cadaveri, e in otto di<br />

preparargli fosse sufficienti al bisogno futuro: e mantenne la promessa. Forza<br />

della carità!<br />

Nella città desolata dall’epidemia, assieme con la carità degli uni e la<br />

malvagità degli altri, crebbe anche la pazzia o meglio il delirio collettivo. Il<br />

popolo fantasticava di untori, sui quali correvano di bocca in bocca delle storie,<br />

date per certe, che invece erano frutto di menti stravolte e di animi esagitati, vere<br />

e proprie favole in cui spesso entrava anche il diavolo con tutta la sua corte di<br />

demoni. I dotti blateravano di influsso malefico di <strong>com</strong>ete, di cui una era apparsa<br />

nel 1628, un’altra nel 1630 nel colmo della peste; deploravano la fatale<br />

congiunzione di Saturno con Giove, parlavano di magie, attingendo<br />

un’inesauribile messe di bieche fantasie dalle “Disquisizioni Magiche” del gesuita<br />

belga Martino Delrio, il quale con questo suo trattato diede, per più di un secolo,<br />

“norma e impulso potente” ai processi contro le streghe, con il loro strascico di<br />

“legali, orribili, non interrotte carneficine”. Giustamente il Manzoni chiama<br />

“funesto” questo religioso dalla fantasia esaltata, il quale, dando corpo alle ombre,<br />

198


armò il truce sospetto popolare e religioso, perché si sfogasse nel sangue di povere<br />

donne innocenti.<br />

Ma naturalmente non tutti furono travolti da queste bieche fantasie del volgo,<br />

o da questi ugualmente funesti deliramenti dei dotti; c’era della gente savia la<br />

quale non credeva né agli untori né alle arti magiche o venefiche, ma se ne stava<br />

zitta, per non esporsi inutilmente a scherni o, peggio, a sospetti di connivenza<br />

interessata. Questo afferma il Muratori, che lo sapeva da buona fonte; si vede<br />

dunque che “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso<br />

<strong>com</strong>une”, cioè della voce pubblica, della vociaccia del popolo, che in questo caso<br />

non era certamente la voce di Dio, bensì del più fanatico pregiudizio.<br />

Ci si potrebbe chiedere di qual parere fosse il cardinal Federigo circa le<br />

unzioni. Ludovico Muratori e Pietro Verri, storici molto obiettivi, affermano che<br />

egli dubitava dell’esistenza di untori e di unzioni; il Manzoni, pur con tutto il<br />

desiderio che aveva di far fare una bella figura al mirabile Arcivescovo, riconosce<br />

sinceramente, avendo <strong>com</strong>pulsato i suoi scritti, che egli, pur essendo stato in<br />

principio piuttosto incredulo, in seguito inclinò a credere che nella cosa ci fosse<br />

qualcosa di vero, pur in mezzo alle inevitabili esagerazioni. E questo prova quale<br />

potenza di influsso possa avere un pregiudizio, se universalmente creduto, anche<br />

sulle menti più equilibrate e sugli animi più retti. Anche questi cedono talora<br />

all’opinione pubblica o all’impulso trascinatore di un sentimento universale, che<br />

soggioga per così dire, col cuore, anche la ragione. E questo possiamo dire anche<br />

a proposito del cedere di Federigo alla richiesta generale di effettuare la<br />

processione: certo agì egli in perfetta buona fede, in quella occasione, e se errore<br />

ci fu, è tutto da imputarsi all’intelletto, e da scusarne pienamente la coscienza.<br />

Ma era impossibile che tutti, o quasi, credessero agli untori, senza che<br />

qualcuno dicesse di averli visti. Ormai la gente era suggestionata; questo timore<br />

delle unzioni era divenuto un incubo continuo, per cui molti appestati in delirio,<br />

con la mente stravolta dall’altissima febbre, andavan farneticando di unzioni e<br />

facevano addirittura gesti da untori; il che faceva credere anche ai familiari che<br />

essi fossero stati nascostamente degli untori, e confermava quindi la credenza<br />

ormai universale. A poco a poco il sospetto di unzione dilagò anche nell’interno<br />

delle case, e ci si guardò dai parenti più stretti: nessun legame di affetto o di<br />

sangue fu ritenuto tanto saldo, da non dare adito all’atroce dubbio. “Cosa orribile<br />

a dirsi! – esclama il Ripamonti – la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano,<br />

<strong>com</strong>e agguati, <strong>com</strong>e nascondigli del venefizio.”<br />

In tutte le pestilenze verificatesi in Italia e all’estero, in quel secolo e nel<br />

precedente, “furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove<br />

qualcheduno, dove molti infelici, <strong>com</strong>e rei d’aver propagata la peste, con polveri,<br />

o con unguenti, o con malie, o con tutto ciò insieme”. Anche la peste di Milano<br />

del 1630 ebbe simili vittime del pregiudizio e del fanatismo; e sui processi contro<br />

gli untori di Milano il Manzoni ha voluto scrivere una monografia, alla quale si<br />

accenna verso la fine di questo capitolo. Essa fu pubblicata <strong>com</strong>e appendice<br />

all’edizione definitiva del romanzo (1840 – 42) col titolo di “Storia della colonna<br />

infame”.<br />

199


In questo opuscolo l’Autore, in polemica con quanto Pietro Verri aveva affermato<br />

nelle “Osservazioni sulla tortura”, sostiene che la condanna dei due presunti untori<br />

milanesi, il barbiere Giangia<strong>com</strong>o Mora e il <strong>com</strong>missario di Sanità Guglielmo<br />

Piazza, fu dovuta non tanto alle primitive e barbariche istituzioni giudiziarie del<br />

tempo, quanto alla volontà di condannare a ogni costo. La passione generale e la<br />

necessità di dare finalmente un esempio, dopo tanto gridare che s’era fatto contro<br />

le unzioni, aveva talmente stravolto le menti e suggestionato gli animi dei giudici,<br />

che essi, pur di condannare, violarono anche le disposizioni vigenti, che pur non<br />

erano fatte per difendere l’innocenza degli imputati dalla strapotenza di giudici<br />

prevenuti. Quei due poveri innocenti dovevano essere condannati: le autorità e il<br />

popolo inferocito dalla calamità non avrebbe tollerato un’assoluzione! E fu<br />

condanna veramente raccapricciante: furono innanzi tutto tagliate loro le mani, ree<br />

di aver manipolato e sparso le polveri venefiche, quindi i loro corpi sanguinolenti<br />

furono straziati con tenaglie roventi, e infine furono sgozzati dopo sei ore di lento<br />

e inumano martirio. La casa del Mora venne rasa al suolo, e sull’area rimasta<br />

libera fu eretta una colonna a eterna sua infamia, per indicare il luogo <strong>com</strong>e<br />

maledetto e inabitabile. Con questa barbarica esecuzione fu saziata la sete<br />

popolare di vendetta contro gli odiati untori, mentre le autorità governative<br />

potevano, grazie al verdetto dei giudici, trarre un respiro di sollievo e sentirsi la<br />

coscienza in pace: se la peste recava tanto danno e menava tanta strage, la colpa<br />

era di quei diabolici e inafferrabili untori; avevano, dopo lunga e snervante<br />

ricerca, finalmente messo le mani su due di essi, due soli, purtroppo; ma la<br />

condanna era stata veramente esemplare, tale da scoraggiare chiunque osasse<br />

attentare alla pubblica sanità!<br />

200


CAPITOLO XXXIII<br />

Con questo capitolo, esaurita la narrazione generale riguardante la peste, si<br />

torna a parlare dei nostri personaggi, a <strong>com</strong>inciare da don Rodrigo. Abbiamo già<br />

visto <strong>com</strong>e costui, dopo la liberazione di Lucia, nel novembre del 1628, e<br />

all’annunzio che il Cardinale sarebbe venuto in visita pastorale alla parrocchia di<br />

don Abbondio, lasciasse il suo palazzotto di villeggiatura nel Lecchese e se ne<br />

tornasse a Milano, per dimenticare negli stravizi la mancata soddisfazione del suo<br />

turpe capriccio. Da allora l’Autore non parla più di lui sino a questo punto della<br />

vicenda, cioè al colmo della peste, nell’estate del 1630. Siamo portati a credere<br />

che egli sia rimasto sempre a Milano, rinunciando nel 1629 alla consueta<br />

villeggiatura autunnale nel suo palazzotto presso il paese di Lucia, non tanto per il<br />

passaggio dei lanzichenecchi, quanto perché ivi il suo prestigio era<br />

irrimediabilmente <strong>com</strong>promesso, e il posto stesso gli rievocava ricordi tormentosi.<br />

La carestia del 1629 naturalmente non lo toccò né materialmente né moralmente,<br />

e neppure lo angustiò la discesa delle bande alemanne: erano flagelli per la povera<br />

gente, nata per lavorare e per soffrire, non per lui, rampollo della classe<br />

privilegiata, per la quale la vita dev’essere una festa. Per quanto il Manzoni non<br />

ne dica nulla, possiamo ben pensare che il giovin signore abbia continuato la sua<br />

vita di piaceri e di bagordi, nonostante la miseria e la sofferenza di tanta parte del<br />

popolo. La guerra e la fame non gli facevano paura; non erano per lui, non lo<br />

toccavano; ma coll’inizio del nuovo anno la peste <strong>com</strong>inciò a circuirlo, a<br />

minacciarlo, quasi per ricordargli che era anche lui mortale: gli portò via prima il<br />

Conte zio, il gran politico, sostegno e vanto del casato, ma lui non se l’ebbe per<br />

inteso, perché lo zio era ormai vecchio e se ne doveva andare. Più in là il contagio<br />

gli portò via anche il verde cugino conte Attilio, <strong>com</strong>pagno di vizi e alleato nelle<br />

malefatte, stuzzicatore sarcastico dei suoi bassi istinti <strong>com</strong>e del suo orgoglio<br />

nobilesco; ma lui continuò imperterrito a spassarsela coi suoi pari, soliti a darsi a<br />

ogni specie di orge, in un ridotto di giovani ricchi e cinici: si riunivano insieme<br />

quasi ogni giorno, per i loro stravizi, “e ogni volta ce n’eran dei nuovi, e ne<br />

mancava dei vecchi”. Anche questo era un segno inquietante, ma lui non ci<br />

badava, o meglio non ci voleva pensare, perché quel pensiero lo poteva portare ad<br />

amare considerazioni, e lui voleva affogare nei piaceri ogni conato di riflessione.<br />

Dei suoi numerosi e spavaldi giannizzeri, lustro e decoro della sua casa <strong>com</strong>e<br />

sostegno della sua prepotenza, ne erano rimasti ben pochi: il “fedel” Griso e un<br />

altro paio; ma lui continuava la stessa vita godereccia, ridendosela della peste,<br />

<strong>com</strong>e se non fosse affar suo. E se talvolta, in qualche momento di ripensamento,<br />

la paura di morire lo attanagliava, egli aveva cura di nascondere questa<br />

momentanea debolezza sotto la maschera del cinismo e dell’allegria.<br />

Una sera, sulla fine di agosto, proprio quando la peste ghermiva le sue vittime<br />

a migliaia al giorno, egli era stato uno dei più ridanciani, in quel ritrovo di giovini<br />

signori; “e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la <strong>com</strong>pagnia, con una specie<br />

201


d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima”. Forse<br />

la sua allegria era in parte sincera: per quanto fossero <strong>com</strong>pagni di vizi e di<br />

malefatte, il cugino gli era stato sempre un po’ sullo stomaco per la sua aria di<br />

superiorità, per il suo risolino ironico, per la pronta e spietata canzonatura di ogni<br />

sua presunta viltà; ne aveva sempre avvertito l’influsso malefico, che aveva<br />

condizionato, anche a distanza, il suo <strong>com</strong>portamento e le sue azioni. In fondo in<br />

fondo lo odiava, perché lo sentiva così diverso da sé: sempre sicuro, sprezzante,<br />

sarcastico; mentre lui aveva ogni tanto quelle debolezze, quelle paure, che doveva<br />

tenersi per sé, cercando di affogarle nell’alcool e nella sensualità. Ora, con la<br />

morte del cugino, si sentiva finalmente libero da quell’opprimente controllo, da<br />

quella specie di odiosa ipoteca sulla vita sua, che colui sembrava essersi arrogata,<br />

chi sa per quale diritto; sentiva di aver avuto, finalmente, una rivincita su di lui,<br />

non intera, perché postuma, ma tale da sentirsene euforico. E in questo stato di<br />

euforia aveva brindato alla morte del cugino, tessendone il panegirico in chiave<br />

umoristica, con molto successo, tanto che l’allegra brigata si s<strong>com</strong>pisciò dalle risa.<br />

Il successo lo aveva esaltato: ora che era tramontato l’astro del cugino, poteva<br />

brillare nella <strong>com</strong>pagnia l’astro suo, finalmente!<br />

Tornando a casa in <strong>com</strong>pagnia del suo fido guardaspalle, sentiva però un certo<br />

malessere, “che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla<br />

stagione”; ma la paura della peste era lì sempre viva e presente, “giacché era ancor<br />

più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio”. Giunti al palazzo,<br />

<strong>com</strong>andò al Griso di accendergli un lume, per andarsi a coricare. Pur a quella<br />

fioca luce il servitore “osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi<br />

in fuori, e lustri lustri”, e se ne stava perciò alla larga, perché ormai ogni<br />

scalzacane aveva acquistato, <strong>com</strong>e si dice, “l’occhio medico”. Don Rodrigo,<br />

accortosi del fare guardingo del servitore, cercò di rassicurarlo dicendo che aveva<br />

bevuto una vernaccia traditora, la quale lo aveva un po’ stordito, ma che con una<br />

buona dormita la sbornia passerebbe senz’altro; gli ordinò quindi di portar via<br />

immediatamente quel lume, che gli dava fastidio agli occhi, e di stare attento e<br />

all’erta, perché avrebbe sonato il campanello, se per caso avesse avuto bisogno di<br />

qualcosa; ma certamente non avrebbe avuto bisogno di niente… solo di dormire.<br />

Ma quando si cacciò sotto le coperte, queste gli parvero di piombo, e si sentiva<br />

<strong>com</strong>e oppresso e soffocato; le buttò subito via, e si rannicchiò cercando di<br />

dormire; ma appena velava un po’ l’occhio, si risvegliava di soprassalto, “<strong>com</strong>e se<br />

uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata”. Era accaldato, sudato,<br />

smanioso; pensava all’afa di quella torrida estate, al troppo vino bevuto, agli<br />

stravizi a cui si era abbandonato, e “avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa”<br />

del suo stato presente; ma ricordava con preoccupazione che anche le altre sere si<br />

era abbandonato agli stessi eccessi, eppure si era sentito benissimo, o forse solo<br />

un po’ di stanchezza, mentre allora si sentiva addosso un affanno insopportabile,<br />

una smania e una gravezza mai sentita in vita sua, inspiegabile…; e l’idea della<br />

peste gli si affacciava sgarbata e sinistra.<br />

Dopo uno smanioso voltarsi e rivoltarsi, fu preso da un certo torpore, e<br />

“finalmente si addormentò, e <strong>com</strong>inciò a fare i più brutti e arruffati sogni del<br />

202


mondo”. I sogni, <strong>com</strong>e si sa, sono manifestazioni tipiche del nostro subcosciente,<br />

dove giacciono latenti e confusi i timori, le speranze, le esperienze e le fantasie, le<br />

cose viste e le cose lette, le cose volute o semplicemente pensate o immaginate di<br />

tutta la vita passata, le quali appunto nel sogno riaffiorano in modo caotico, non<br />

essendoci, nel sonno, il controllo ordinatore della coscienza razionale. Nel<br />

subcosciente di don Rodrigo erano rimasti la preoccupazione e lo spavento<br />

causatigli dallo scontro con fra Cristoforo, e specialmente da quell’infausta<br />

profezia “Verrà un giorno…” che, anche così tronca, gli aveva fatto venire i<br />

bordoni. Aveva cercato di dimenticare quella predizione, di seppellire<br />

quell’impressione di spavento in una vita sfrenata e gaudente, ma c’era riuscito<br />

solo in parte: ogni tanto il confuso ricordo di quel giorno veniva sgarbatamente a<br />

insinuarsi nel suo pensiero, rinnovandogli un molesto senso di preoccupazione e<br />

di ansietà. Era quindi ben naturale che quella sensazione di spavento riaffiorasse<br />

ora dal subcosciente e si manifestasse in forme oniriche, cioè in immagini confuse<br />

e disordinate, ma vive e impressionanti.<br />

Da un sogno all’altro parve dunque al febbricitante signorotto di trovarsi in<br />

una grande chiesa, piena di gente squallida, di una marmaglia stomachevole, che<br />

invece di tenersi a rispettosa distanza, lo pigiava da ogni parte, senza alcun<br />

riguardo. Era perciò pieno di stizza, e non si capacitava <strong>com</strong>e mai gli fosse venuta<br />

l’idea di entrare in una chiesa, lui che non ci andava mai, e di cacciarsi per di più<br />

in mezzo a quella massa di appestati, che lasciavano scorgere i loro sozzi bubboni<br />

dagli strappi dei vestiti tutti logori e a brandelli. Gridava perciò a quella canaglia<br />

di cenciosi che facessero largo, ma nessuno si moveva, anzi lo premevano sempre<br />

più, e soprattutto gli sembrava che qualcuno col gomito lo punzonasse tra il cuore<br />

e l’ascella, “dove sentiva una puntura dolorosa e <strong>com</strong>e pesante”. Pensò allora di<br />

metter mano alla spada, per liberarsi da quella lercia turba che lo soffocava, e gli<br />

sembrava che, nella calca, fosse proprio l’elsa dell’arma che lo urtasse nel punto<br />

dove sentiva dolore; fece dunque per afferrarla, ma non trovò la spada; sentì solo<br />

una fitta più forte, che gli tolse il respiro. Tutt’affannato si mise a sbraitare e a<br />

strepitare, gridando invano che gli facessero largo, allorché tutti quei volti<br />

squallidi, con gli occhi abbacinati, si alzarono verso il pulpito dal quale, in mezzo<br />

alla generale sospensione e a un silenzio attonito, emerse a poco a poco un<br />

cappuccino, fra Cristoforo, alto diritto dominatore, mentre lui era subissato da<br />

quella turba ripugnante. Il frate, “fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio,<br />

parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano” in<br />

atto di rampogna, <strong>com</strong>e appunto quel giorno nel suo palazzotto. Allora fu assalito<br />

dalla rabbia e dallo spavento, e con un balzo cercò di afferrare quella mano<br />

minacciosa, emettendo contemporaneamente un grand’urlo, che lo fece svegliare.<br />

Quando si raccapezzò, dopo la confusione e il turbamento dei primi momenti, capì<br />

che per fortuna era stato solo un brutto sogno; tutto era sparito: frate, chiesa,<br />

quella sudicia marmaglia. Ma ebbe appena assaporata questa soddisfazione, che si<br />

accorse con spavento che quel dolore sotto l’ascella sinistra non solo non era<br />

s<strong>com</strong>parso, ma sembrava anzi cresciuto, ed insieme era aumentata la palpitazione<br />

di cuore, la pesantezza di testa, l’arsione interna. Dopo un po’ di esitazione<br />

203


paurosa, si decise a scoprire la parte che gli doleva: guardò paventosamente, “e<br />

vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror<br />

della morte l’invase”. Queste due ultime notazioni sono veramente scultoree nella<br />

loro tragica e cruda evidenza.<br />

Lo spavaldo signorotto, che si era ritenuto immune dai mali dei <strong>com</strong>uni<br />

mortali, che aveva osato ridere sulla morte altrui, ora che è raggiunto dalla<br />

sventura, mostra tutta la sua viltà; lui che, ridendosela di Dio e della sua legge,<br />

aveva contristato non uno, ma molti spiriti immortali, ora sente la sua nullità<br />

davanti alla peste che lo ha ghermito con le sue inesorabili grinfie. Ma, più della<br />

morte, lo terrorizzava il pensiero di diventare preda dei monatti, di essere caricato<br />

su quei luridi carri, per essere portato alla bolgia del lazzaretto, dove sarebbe stato<br />

gettato a languire su quella fetida paglia. A questo non si rassegnava, e doveva<br />

evitarlo assolutamente, questo scempio della sua persona: era ricco, e aveva<br />

ancora dei fedeli servitori che lo avrebbero difeso, curato, assistito! Sonò<br />

convulsamente il campanello; al Griso, che subito <strong>com</strong>parve, ricordò che lui era<br />

stato sempre il suo fedelissimo, e che di lui quindi si poteva fidare; aggiunse che<br />

gli aveva sempre fatto del bene, e promise che più ancora gliene farebbe in futuro.<br />

Dopo questo preambolo, confessò che stava male. Il servitore rispose che se n’era<br />

accorto, e intanto si manteneva a debita distanza, “aspettando dove andassero a<br />

parare” queste gentili premesse, che non potevano davvero mutare la sua<br />

decisione, ormai irremovibile; il ribaldo ci aveva probabilmente pensato tutta la<br />

notte, mentre vegliava insonne accanto alla camera del malato. Il padrone<br />

finalmente si decide a parlare, a dire che cosa vuole ora da lui; ma lo fa con<br />

insolita cortesia: “Fammi un piacere, Griso”. Notiamo con quale riguardo si<br />

rivolge al suo “fido”, al quale in precedenza mai si era sognato di chiedere dei<br />

favori, ma sempre aveva imposto dei <strong>com</strong>andi, anche duri, e con tono imperioso.<br />

Anche il Griso nota questo cambiamento di tono, e ne ride in cuor suo; ma<br />

dissimulando il suo stato d’animo, risponde prontamente: “Comandi”. Il ribaldo,<br />

“rispondendo con la formula solita a quell’insolita”, ristabilisce per così dire le<br />

distanze tra lui e il padrone, respingendo implicitamente ogni richiesta di<br />

maggiore familiarità. E’ vero, don Rodrigo fa veramente pena in questo suo<br />

maldestro tentativo di stabilire col suo servitore dei nuovi rapporti, basati sulla<br />

riconoscenza e sulla fiducia; tuttavia bisogna riconoscere che egli soltanto ora, che<br />

è colpito dalla sventura, acquista una sua dimensione umana, con tutte le<br />

debolezze degli uomini <strong>com</strong>uni, le quali ne fanno non più un oggetto di odio, ma<br />

una persona degna di <strong>com</strong>passione. Il nostro stato d’animo verso di lui ora è<br />

mutato, perché la sofferenza rende, per così dire, sacra la persona che ne è colpita;<br />

ora noi la rispettiamo, e la nostra avversione la riversiamo tutta contro chi si<br />

prepara a consumare il più nero tradimento verso colui che, in definitiva, lo ha<br />

beneficato, dandogli uno stipendio e mettendolo al sicuro dalla polizia. Don<br />

Rodrigo pregò dunque il servitore di andare col massimo riserbo dal medico<br />

Chiodo, il quale era un galantuomo che, pagato bene, curava in casa i malati,<br />

senza denunciarli all’autorità sanitaria; e di invitarlo a venire subito a visitarlo,<br />

assicurandogli l’onorario che volesse; ma tutto nel più assoluto segreto! Il Griso<br />

204


approva la decisione del padrone e aggiunge : “Vo e torno subito”. Prima che<br />

uscisse, don Rodrigo, non resistendo più all’arsura della gola, gli chiese di<br />

portargli un bicchier d’acqua; ma il ribaldo, che non vuole accostarsi al malato per<br />

nessun motivo, finge una certa precauzione di carattere sanitario, e rivestendosi di<br />

autorità, risponde impassibile: “No, signore: niente senza il parere del medico.”<br />

Quindi esce subito per la sua <strong>com</strong>missione.<br />

Il medico abitava piuttosto vicino; e don Rodrigo, il quale aveva seguito col<br />

pensiero il suo servitore lungo la strada che doveva percorrere, dopo un po’<br />

<strong>com</strong>inciò a stare in orecchi, perché gli sembrava che colui dovesse essere ormai di<br />

ritorno, in <strong>com</strong>pagnia del medico. A un tratto sente un tintinnio di campanello,<br />

che sembra venire non dalla strada, ma da dentro la stessa casa. E’ tutt’orecchi,<br />

col fiato sospeso, ma col cuore in tumulto: sente distintamente un rumore di molti<br />

passi, poi, nella stanza attigua, quello di un oggetto che viene deposto a terra con<br />

riguardo. Cos’è mai? “Un orrendo sospetto gli passa per la mente”: Si rizza a<br />

sedere sul letto, tutto sconvolto; ma nel frattempo la porta si è aperta, e sono<br />

apparsi due loschi figuri vestiti di rosso, “due facce s<strong>com</strong>unicate, due monatti, in<br />

una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente<br />

socchiuso, riman lì a spiare”.<br />

Il povero tradito impreca a quell’infame, grida aiuto invocando gli altri due<br />

servitori, e afferra la pistola da sotto il capezzale; ma già i monatti gli sono<br />

addosso, e uno gli strappa l’arma, schernendolo con cruda ironia: “Ah birbone!<br />

contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di<br />

misericordia!” Don Rodrigo cerca invano di divincolarsi dalla morsa di quelle<br />

manacce, e grida con voce roca: “Lasciatemi ammazzar quell’infame, e poi fate di<br />

me quel che volete”. Poi tornava a chiamare, con quanto fiato aveva in corpo,<br />

Biondino e Carlotto, ma inutilmente: il Griso li aveva naturalmente mandati<br />

lontano, con finti ordini del padrone; e ora poteva senza alcuna preoccupazione<br />

scassinare lo scrigno della camera, per dividere la preda con i <strong>com</strong>pagnoni,<br />

secondo l’accordo pattuito.<br />

L’appestato, dopo aver a lungo smaniato, gridato e imprecato contro<br />

“l’abominevole Griso”, che era tutto intento a cavar fuori dalla cassaforte il tesoro<br />

del padrone, dopo aver tentato ancora una volta, con un supremo sforzo, di<br />

liberarsi dalle mani forzute di uno dei monatti, le quali lo tenevano inchiodato sul<br />

letto, cadde infine esausto; i riflessi gli si annebbiarono ed egli, divenuto <strong>com</strong>e<br />

balordo, si calmò affatto, salvo a lamentarsi miserabilmente con un gemito flebile<br />

e arrantolato. Intanto il Griso con l’altro monatto avevano fatto le tre parti del<br />

bottino, delle quali ognuno prese la sua; dopo di che “il miserabil peso” fu<br />

caricato sulla barella e portato via al suo destino: il carro <strong>com</strong>une lo avrebbe<br />

trasportato al lazzaretto.<br />

Quel vigliacco del Griso aveva cercato bensì di stare alla larga sia dal padrone<br />

sia dai monatti, per paura del contagio; ma prima di lasciare la camera, accecato<br />

dall’avidità, non si tenne dal frugare nei panni del padrone, per prendere dalle<br />

tasche il denaro che c’era. Per amore dei soldi non pensò gran che al contatto con<br />

quei vestiti infetti. Il giorno dopo però, mentre si dava ai bagordi in una bettola,<br />

205


assieme a dei <strong>com</strong>pari, fu assalito improvvisamente dai brividi, sentì un languore<br />

mortale e cadde di peso sul pavimento; un caso, non raro, di peste fulminante.<br />

“Abbandonato dai <strong>com</strong>pagni, andò in mano dei monatti, che, spogliatolo di quanto<br />

aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima<br />

d’arrivare al lazzaretto, dov’era stato portato il suo padrone”. Abbiamo detto, altra<br />

volta, che questo sgherro era degno di don Rodrigo; ora, dopo il suo vile<br />

tradimento, possiamo precisare che egli, pari al suo padrone in malvagità e<br />

cinismo, lo superava certamente in viltà e perfidia. E il Manzoni gli fa fare proprio<br />

la fine che meritava. Questo abbietto assassino, col suo perfido <strong>com</strong>portamento, ci<br />

fa quasi sentir pietà del suo padrone, vittima insieme della peste e del suo “fido”.<br />

A questo proposito ci torna in mente l’apostrofe che l’Autore rivolge al Griso nel<br />

capitolo XI, la quale conclude con l’affermazione “che qualche volta la giustizia,<br />

se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo”. Ed è una<br />

giustizia che, purtroppo, non dà alcun adito alla misericordia.<br />

Ma lasciando per sempre questa odiosa figura di ribaldo, che non ci<br />

<strong>com</strong>muove neppure quando casca a terra stecchito, torniamo al nostro Renzo, che<br />

abbiamo lasciato, col nome di Antonio Rivolta, nel nuovo filatoio, dov’era stato<br />

portato dal cugino Bortolo. In verità stette lì pochi mesi; infatti, dichiarato lo stato<br />

di guerra tra la Serenissima e la Spagna, e non essendoci quindi più pericolo di<br />

cattura per richiesta delle autorità milanesi, a Bortolo convenne andarselo a<br />

riprendere, per tenerlo con sé, dato che gli era di grande aiuto nelle sue mansioni<br />

di factotum, essendo un giovane intelligente, onesto e capace. Il fatto che Renzo<br />

non sapesse leggere e scrivere era, per la mentalità del cugino, <strong>com</strong>e una garanzia:<br />

ignorando quell’arte, così indispensabile all’amministrazione, non poteva mai<br />

aspirare a divenire lui il factotum; insomma doveva necessariamente rimanere in<br />

posizione subordinata. Non mancava dunque, nell’animo di Bortolo, brav’uomo<br />

del resto, un po’ di gelosia, un certo calcolo del proprio tornaconto; era un uomo<br />

pratico, lui, e pensava che fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Voleva bene a<br />

Renzo, era disposto ad aiutarlo, ma non voleva rimetterci lui, non gli piaceva<br />

essere scavalcato; era in certo qual modo ambizioso, e temeva l’ambizione altrui;<br />

ma per sua fortuna Renzo, anche volendolo, non avrebbe potuto scalzarlo nella<br />

stima e nel favore del padrone della filanda. Il Manzoni, a questo proposito,<br />

osserva con un sorriso: “Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire:<br />

fabbricatevelo. Quello era così”. Anche gli uomini migliori hanno le loro pecche.<br />

Dopo aver saputo del voto di Lucia, al giovane era venuto più di una volta<br />

l’uzzo di arrolarsi, e così cercare di dimenticare; e quando Venezia <strong>com</strong>inciò a<br />

mobilitare truppe in vista delle ostilità contro la Spagna, maggiormente egli fu<br />

tentato di farsi soldato, perché si parlava di invadere il Milanese; e Renzo<br />

immaginava già di “tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e<br />

spiegarsi una volta con lei”. Ma Bortolo, col suo buon senso, aveva sempre saputo<br />

stornarlo da quell’idea guerresca con validi argomenti; e lo stesso fece allorché il<br />

cugino manifestò l’intenzione di tornare al suo paese sotto mentite spoglie; Renzo<br />

gli diede ascolto, e si convinse a pazientare, in attesa di qualche circostanza più<br />

favorevole, che gli permettesse di tornare a casa senza troppo pericolo. Scoppiata<br />

206


poi la peste, Renzo se la prese quasi subito, ma ne guarì: uno dei pochi fortunati.<br />

”Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le<br />

memorie”, e con queste il pensiero e il desiderio di Lucia: che ne era di lei? era<br />

viva, era sana? e <strong>com</strong>e chiarire una buona volta “quell’imbroglio del voto”?<br />

Soltanto andando lui, di presenza, avrebbe potuto chiarire tutt’insieme questi<br />

dubbi, i quali ormai non gli davano più pace. Decise perciò di andare senz’altro,<br />

non appena si sarebbe sentito di nuovo in gamba. La cattura non gli dava più<br />

pensiero: ormai la polizia era decimata, e poi aveva altro da pensare; la peste era<br />

un buon lasciapassare. Confermandosi nel suo proposito, si ripeteva spesso: “Se<br />

lascio scappare una occasione così bella, non ne ritorna più una simile!” Lo<br />

speriamo bene!<br />

Prima di mettere in atto il suo proposito, andò a darne notizia a Bortolo il<br />

quale, non avendo avuto la peste, se ne stava molto riguardato ed evitava ogni<br />

contatto, specie con persone che avessero già avuto la malattia. Renzo perciò lo<br />

chiamò dalla strada, facendolo affacciare alla finestra. Bortolo si congratulò col<br />

cugino, non senza una punta d’invidia: beato chi era guarito, e poteva quindi<br />

pensare all’avvenire senza più nessuna preoccupazione, essendo ormai immune al<br />

morbo, mentre lui chi sa se poteva starne fuori sino alla fine… e se fosse caduto<br />

ammalato, chi sa <strong>com</strong>e sarebbe andata a finire… Comunque sperava bene. Alla<br />

proposta di Renzo, non fece alcuna obiezione, e si limitò ad augurargli una felice<br />

riuscita: “Va, questa volta, che il cielo ti benedica: cerca di schivar la giustizia,<br />

<strong>com</strong>’io cercherò di schivare il contagio”. Nel suo senso pratico, capiva che la<br />

peste rendeva ora facile ciò che prima era difficile e pericoloso; perciò approvò e<br />

incoraggiò l’idea del cugino.<br />

Il giorno della partenza, Renzo si cinse a carne nuda una cintura, con cuciti<br />

dentro quei cinquanta scudi, che non aveva mai voluto toccare, <strong>com</strong>e se avesse<br />

fatto un voto; si mise in tasca i suoi risparmi e un benservito al nome di Antonio<br />

Rivolta, che gli poteva essere utile nel caso che fosse fermato dai birri; non<br />

dimenticò, in un taschino dei calzoni, “un coltellaccio, ch’era il meno che un<br />

galantuomo potesse portare a quei tempi”. E s’avviò franco e risoluto, nel colmo<br />

della peste, proprio tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzaretto,<br />

senza più alcuna preoccupazione per la sua salute, poiché si sapeva benissimo che<br />

la peste dà immunità, ma solo preoccupato per quello che andrebbe a scoprire nei<br />

riguardi di Lucia. Pensò bene di passare prima dal suo paese: così avrebbe potuto<br />

sapere da Agnese, se era viva, le ultime notizie della figlia, e anche l’indirizzo<br />

esatto di Milano, che dalle lettere non aveva potuto decifrare con sicurezza, stante<br />

la calligrafia poco chiara.<br />

Verso sera giunse al paese, che aveva lasciato due anni prima con una fuga<br />

notturna, e provò una <strong>com</strong>mozione profonda nel rivedere quei luoghi così<br />

familiari. Non volendo farsi scorgere dagli abitanti, si diresse per una viottola<br />

esterna alla casa di Agnese, dove aveva pensato di chiedere alloggio, ritenendo la<br />

sua inabitabile se non “da topi e da faine”. Mentre visibilmente emozionato si<br />

avvicinava alla meta, vide un uomo seduto a terra, appoggiato a una siepe, con<br />

un’aria incantata, tanto che gli sembrò di ravvisare “quel povero mezzo scemo di<br />

207


Gervaso”; ma avvicinatosi, riconobbe che era Tonio il quale, sfigurato dal morbo,<br />

rassomigliava ancor più a quello scimunito del fratello. Renzo cercò di farsi<br />

riconoscere, ma quello, avendo la mente stravolta dalla peste, non faceva che<br />

ripetere: “A chi la tocca, la tocca”. Evidentemente era la frase che riassumeva la<br />

sua concezione fatalistica nei riguardi dell’epidemia che infuriava; chi sa quante<br />

volte l’aveva detta prima, a proposito degli altri, con un senso di rassegnazione;<br />

ora che la malattia ha colpito anche lui, la ripete ancora, “con un certo sorriso<br />

sciocco”. Povero Tonio!<br />

Rattristato a quella vista, il giovane riprese la sua strada, ma dopo pochi passi<br />

scorse da lontano un prete: don Abbondio in persona! “Camminava adagio adagio,<br />

portando il bastone <strong>com</strong>e chi n’è portato a vicenda”, e quando anche lui riconobbe<br />

Renzo, “alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta”, perché<br />

il ritorno di colui al suo paese lo metteva in un grande imbarazzo, data anche la<br />

cattura che aveva addosso. Il breve colloquio di Renzo col suo curato è<br />

interessantissimo: da una parte il giovane che ansiosamente vuol sapere notizie di<br />

Lucia, di Agnese, di fra Cristoforo, dei morti di peste nel paese, e incalza con le<br />

sue domande pressanti; dall’altra don Abbondio il quale, sin dal principio, cerca di<br />

respingerlo indietro con una espressione disgustata e scandalizzata, investendolo<br />

con un “Siete qui, voi?” Ma Renzo non gli dà il tempo di esprimere il suo<br />

rimprovero, tempestandolo di domande, alle quali l’altro risponde a malincorpo e<br />

quasi evasivamente, premendogli piuttosto di manifestargli tutta la sua<br />

riprovazione per la sua venuta inconsulta. Finalmente, dopo ripetuti tentativi, ci<br />

riesce a sottrarsi un poco a quella gragnola di domande, e gli dice stizzito: “Ma<br />

voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per amor del cielo? Non sapete che<br />

bagattella di cattura?” Facendolo scandalizzare ancora di più, Renzo gli risponde<br />

che non se ne cura della polizia, e chiede piuttosto se don Rodrigo è lì a<br />

villeggiare; e sic<strong>com</strong>e don Abbondio elude la domanda, timoroso di fornire<br />

un’informazione sul conto del temuto signorotto, il giovane ripete la domanda con<br />

risolutezza impaziente, deciso a sapere ciò che gli preme: “Domando se è qui,<br />

colui”. E sic<strong>com</strong>e il pavido prete traccheggia ancora, sbotta iroso: “C’è o non<br />

c’è?” Messo alle strette, don Abbondio finalmente si decide, senza bisogno che,<br />

questa volta, il focoso giovane metta la mano sul suo coltellaccio, a scopo<br />

puramente intimidatorio, e risponde con tono conciliante: “Non c’è, via. Ma, e la<br />

peste, figliuolo, la peste!” Renzo replica che lui l’ha avuta, per grazia di Dio, e<br />

non la teme più; poi chiede al curato se l’ha avuta anche lui, <strong>com</strong>e pare<br />

dall’aspetto, e se nel paese ne son morti molti. Con evidente soddisfazione don<br />

Abbondio risponde che anche lui l’ha scampata, e volentieri indugia a parlare<br />

della sua malattia, “perfida e infame”, <strong>com</strong>e la chiama; poi elenca, a <strong>com</strong>inciare<br />

da Perpetua, “una filastrocca di persone e di famiglie intere”, portate via<br />

dall’inesorabile morbo. Ma poi si accorge di essersi lasciato troppo andare in quel<br />

discorso, e torna agli ammonimenti, alle preghiere di tornar subito sui suoi passi.<br />

Renzo però non l’intende così, per cui il curato stizzosamente lo rimprovera: “Ho<br />

inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me”. E così lo lascia, riprendendo<br />

borbottando la sua strada.<br />

208


Avendo saputo da don Abbondio che Agnese non era in paese, ma a Pasturo,<br />

dove la peste non infieriva troppo, Renzo decise di andare ad alloggiare presso un<br />

amico d’infanzia, il quale era rimasto solo soletto a causa della moria. Avviandosi<br />

alla casa di costui, che era un po’ fuori del paese, dovette passare davanti alla sua<br />

vigna, nella quale per due inverni di seguito i paesani erano andati a far legna, per<br />

difendersi dal freddo. Perciò dei tralci di vite non ne rimaneva più neppur uno, e<br />

anche i grossi alberi da frutta, che pure c’erano, erano ugualmente spariti, o<br />

tagliati alla base o sradicati alla men peggio. Dell’antica coltivazione non erano<br />

rimasti che alcuni polloni rispuntati dalle ceppaie recise, mentre era nata<br />

dappertutto una vegetazione nuova, di erbacce e arbusti selvatici, che aveva preso<br />

pieno possesso del terreno lasciato libero dalle piante utili. Tutta la superficie era<br />

stata invasa e ricoperta da questo esercito di piante clandestine, fattesi avanti<br />

risolutamente a rivendicare il loro spazio vitale.<br />

La tanto discussa descrizione della vigna di Renzo è un vero pezzo di bravura<br />

pittorica e botanica, che dimostra ancora una volta il gusto manzoniano della<br />

notazione minuta ed esatta, dell’osservazione attenta e appassionata del gran libro<br />

della natura vegetale. E’ questo per il nostro Autore un libro vivo e palpitante, non<br />

meno interessante di quello rappresentato dalla società umana. A noi non sembra,<br />

<strong>com</strong>e a qualche critico, che la descrizione sia prolissa e oziosa, anche se può<br />

parere esagerata l’insistenza su certi particolari. Il Manzoni però ha saputo<br />

ravvivare la parte descrittiva con osservazioni e confronti di grande interesse; per<br />

esempio, egli scorge <strong>com</strong>e un’immagine della lotta accanita per l’esistenza in quel<br />

“guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a<br />

passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni<br />

verso”. Quando poi nota che tra quella marmaglia d’erbacce ce n’erano alcune<br />

“più rilevate e vistose, non però migliori”, sembra che voglia ricordarci che, allo<br />

stesso modo tra gli uomini, gli oziosi improduttivi, anche se nobili e ricchi, non<br />

sono affatto migliori del volgo inerte e vizioso, perché il blasone e le ricchezze<br />

non nobilitano la vita. Subito dopo l’Autore richiama la nostra attenzione su<br />

un’umile zucca selvatica la quale, bisognosa di appoggio, “s’era avviticchiata ai<br />

nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva<br />

attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e mescolando i loro deboli steli e le loro<br />

foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, <strong>com</strong>e accade spesso ai deboli<br />

che si prendon l’uno con l’altro per appoggio”. E infine, ecco il simbolo<br />

dell’arrogante invadente e brutale, che non ha riguardi né <strong>com</strong>passione per alcuno:<br />

era il rovo che coi suoi rami spinosi tutto ricopriva e opprimeva; “e, attraversato<br />

davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al<br />

padrone”. Possiamo dunque concludere che il Manzoni ha opportunamente<br />

vivificato la sua minuziosa descrizione con pensose riflessioni morali e sociali.<br />

Dopo la spettacolo desolato della vigna, si presentò alla vista di Renzo quello,<br />

non meno triste, della sua casa, tutta piena di sudiciume, per averci bivaccato<br />

quasi un mese i lanzi, e popolata di ratti i quali si affrettarono a rintanarsi con<br />

“uno s<strong>com</strong>piglio, uno scappare incrocicchiato”, allorché il padrone apparve<br />

davanti all’uscio sfondato. Dopo aver gettato appena uno sguardo all’interno e al<br />

209


“parato di ragnateli” che pendeva dal soffitto, Renzo si allontanò subito<br />

contristato e si diresse a passi svelti verso la sua meta, perché già <strong>com</strong>inciava a<br />

imbrunire. Scorse da lontano l’amico, seduto davanti alla porta di casa, “<strong>com</strong>e un<br />

uomo sbalordito dalle disgrazie, e inselvatichito dalla solitudine”. Sentendo il<br />

calpestio, colui credette che fosse il becchino, il quale veniva sempre a<br />

importunarlo perché andasse a seppellire i morti assieme a lui; e sic<strong>com</strong>e era<br />

ormai nauseato di quel servizio, gridò alzandosi: “Non ci son che io? non ne ho<br />

fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di<br />

misericordia”. Renzo, meravigliato per quelle parole di cui non poteva intuire il<br />

motivo, rispose a sua volta chiamandolo per nome; allora quegli lo riconobbe e gli<br />

corse incontro, scusandosi per quanto gli aveva detto, avendolo scambiato per<br />

“Paolin dei morti”. Gli fece quindi la più cordiale accoglienza; dopo tante<br />

sofferenze e calamità, sia pubbliche che private, si ritrovarono a un tratto più<br />

amici di prima, “perché all’uno e all’altro eran toccate di quelle cose che fanno<br />

conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza”. Fattolo entrare in casa, gli<br />

preparò la cena nel miglior modo che poté, e lo ragguagliò anche su molte cose<br />

che a Renzo premeva si sapere, <strong>com</strong>e il preciso casato di don Ferrante; durante la<br />

cordiale conversazione venne informato anche della morte del podestà di Lecco e<br />

di gran parte della sua sbirraglia: così Renzo si sentì più al sicuro dalle ricerche<br />

della polizia.<br />

Messo così al corrente della situazione locale, il nostro giovane stette un po’ in<br />

forse, se gli convenisse andar prima a trovare Agnese o recarsi prima a Milano;<br />

ma poi decise di andar prima a trovar Lucia, e poi correre a Pasturo, a portare le<br />

sue notizie alla madre, la quale chi sa <strong>com</strong>e le aspettava. Renzo sperava proprio di<br />

poterle recare delle buone notizie di Lucia, ché altrimenti… forse non era il caso<br />

di andarla ad amareggiare, quella poveretta. Pernottò dunque in casa dell’amico, e<br />

allo spuntar del giorno, in procinto di partire, ringraziò e salutò accoratamente<br />

l’ospite: “Se la mi va bene, se la trovo in vita, se… basta… ripasso di qui… Ma<br />

se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia… allora, non so quel che farò,<br />

non so dov’anderò: certo, da queste parti non mi vedete più”. All’amico non<br />

aveva parlato del voto, essendo argomento troppo geloso; ma uno dei “se” delle<br />

sue sconnesse parole allude evidentemente ad esso. Renzo quindi non si faceva<br />

illusioni sulla difficoltà della sua ricerca: non bastava che non incappasse nelle<br />

maglie della polizia, non era sufficiente trovare Lucia in vita: bisognava anche<br />

superare la difficoltà del voto. Non chiedeva poco il nostro giovane!<br />

Messosi in viaggio, camminò senza fretta, sic<strong>com</strong>e gli bastava in quella<br />

giornata di arrivare molto vicino a Milano, senza entrarci; vi avrebbe fatto il suo<br />

ingresso solo il mattino successivo, per iniziare subito la sua gran ricerca.<br />

All’imbrunire, giunto in vista della città, cercò nella campagna una cascina<br />

disabitata, dove si arrampicò sul fienile per passarvi la notte. Riposò<br />

<strong>com</strong>odamente sulla paglia, e il mattino dopo con fresche energie riprese il suo<br />

cammino, “prendendo per sua stella polare il duomo”, ben visibile nella piatta<br />

pianura.<br />

210


CAPITOLO XXXIV<br />

Entrare a Milano non era permesso a chi non fosse munito della bolletta di<br />

sanità; ma i gabellieri e le guardie, per tanti ovvi motivi, non si curavano di<br />

eseguire rigorosamente questa disposizione, allora perfettamente inutile, mentre<br />

sarebbe stata necessaria alle prime avvisaglie del contagio, quando invece, <strong>com</strong>e<br />

abbiamo visto, si indugiò colpevolmente ad attuarla. Ora Milano era il covo più<br />

virulento della peste, “e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante<br />

della propria salute, che pericoloso a quella dei cittadini."<br />

Renzo arrivò dunque, per una viottola, al tratto di mura che vanno da Porta<br />

Orientale a Porta Nuova; lì, non avendo alcun indizio che lo potesse guidare né<br />

persona a cui domandare, prese a destra, a caso, andando quindi verso Porta<br />

Nuova. Camminava con l’animo sospeso, guardando a destra e a sinistra: nessun<br />

vivente, nessun rumore; solo si vedeva una colonna di fumo innalzarsi<br />

pigramente, in ampi globi, “nell’aria immobile e bigia”: erano panni e suppellettili<br />

infette che venivan bruciate sugli spaldi. La scena era lugubre, e rendeva più triste<br />

l’animo del nostro giovane, che si sentiva stringere il cuore in quel vasto silenzio,<br />

in quella desolata solitudine, che gli davano <strong>com</strong>e un presagio di morte. Anche<br />

l’aspetto del cielo era intonato con questo stato d’animo del mesto viaggiatore:<br />

sembrava che la natura tutta soffrisse insieme con gli uomini; “il tempo era<br />

chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione<br />

uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna<br />

d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una<br />

gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti”. L’aria gravosa e morta pare che<br />

opprima anche noi lettori, tanto la descrizione manzoniana è viva e potente. In<br />

pochi minuti Renzo giunse alla porta, la quale per precauzione era stata cinta da<br />

uno steccato, munito di cancello; ma sia questo sia quella erano aperti, poiché due<br />

monatti stavano portando via il capo dei gabellieri, ammalatosi di peste.<br />

Partiti i monatti con la barella, Renzo entrò risolutamente per la porta rimasta<br />

aperta; e avendogli una guardia intimato di fermarsi, gli diede d’occhio<br />

mostrandogli un mezzo ducatone; ricevuto un cenno di consenso, gli gettò la<br />

moneta e passò avanti in fretta, <strong>com</strong>e colui gli aveva <strong>com</strong>andato con un gesto.<br />

Mentre si allontanava a passi svelti dalla porta verso l’interno della città, si sentì<br />

gridar dietro un “olà” da un altro gabelliere, ma lui fece finta di non sentire,<br />

allungando ancor più il passo. Colui, gridatogli un altro “olà” più per dovere che<br />

per volontà di essere obbedito, visto che il viandante non sentiva, scrollò le spalle<br />

con aria d’indifferenza e rientrò nella sua garitta.<br />

Renzo, dopo aver camminato un po’ senza vedere anima viva, scorse<br />

finalmente uno che veniva nella sua direzione, e pensò di chiedere a lui in quale<br />

via fosse l’abitazione di don Ferrante, del quale aveva saputo dall’amico il<br />

cognome preciso, ma non il recapito. Colui, vedendo il forestiero venirgli incontro<br />

e togliersi il cappello, avendo la fantasia riscaldata dalle storie degli untori, lo<br />

211


itenne uno di questi, e puntandogli contro un poderoso bastone dalla punta di<br />

ferro, gridò <strong>com</strong>e uno spiritato: “via! via! via!” Alla mala parata Renzo, che non<br />

capì per chi era stato preso, rimase allibito, proprio di stucco; e non volendo<br />

attaccar lite con uno stravagante o peggio, si rimise il cappello in testa e proseguì<br />

la sua strada; mentre l’altro, allontanatosi tutto fremente e voltandosi ogni tanto<br />

indietro con sospetto, giunto finalmente a casa, raccontò ancor tutto emozionato di<br />

aver incontrato un untore “con aria umile, mansueta, con un viso d’infame<br />

impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben<br />

certo qual dei due) in mano, nel cocuzzolo del cappello”, che si era tolto<br />

appositamente, per fargli meglio il tiro; ma lui l’aveva tenuto a distanza con la<br />

punta del suo nocchieruto bastone, e se il birbone si fosse avvicinato ancora un<br />

passo, lo avrebbe senz’altro infilzato; peccato, proprio peccato, che non c’era<br />

gente intorno, per poterlo catturare, il manigoldo! Quindi concluse tutto<br />

preoccupato: “Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa!” E finché visse,<br />

tutte le volte che si parlava di peste e d’untori, raccontava la sua prodezza con<br />

delle frange sempre più vistose, ammonendo che quelli i quali non credevano agli<br />

untori, non lo venissero a dire a lui, che li avrebbe smentiti in pieno, “perché le<br />

cose bisogna averle viste”. Questo è un efficace esempio di <strong>com</strong>e potevano<br />

nascere, ed effettivamente nascevano, le fantastiche storie degli untori, le quali<br />

poi, ripetute di bocca in bocca, confermavano la credenza ormai generale.<br />

“Renzo, lontano dall’immaginarsi <strong>com</strong>e l’avesse scampata bella, e agitato più<br />

dalla rabbia che dalla paura”, capì press’a poco, ripensandoci, per chi era stato<br />

scambiato, e costatava amaramente che un destino avverso lo perseguitava in<br />

Milano: tutto a gonfie vele per entrarci, ma poi, una volta dentro, i dispiaceri lì<br />

pronti ad accoglierlo. Ma si fece coraggio e andò avanti, sperando di trovare<br />

prima o poi qualche persona un po’ più trattabile e soprattutto meno sospettosa.<br />

Non aveva fatto molta strada, che si sentì chiamare: “o quell’uomo!”. Renzo si<br />

voltò nella direzione della voce, e vide una donna affacciata a un balconcino di<br />

una casetta isolata. Avvicinatosi con sollecitudine, sentì che era una povera<br />

madre, con una nidiata di bambini affamati all’intorno: li avevano sequestrati in<br />

casa, inchiodando l’uscio, perché il marito era morto di peste; ma intanto era una<br />

giornata intera che non portavano loro da mangiare, e non ne potevano più. Il<br />

giovane, che aveva in tasca due pagnotte, <strong>com</strong>prate a Monza, le offrì<br />

immediatamente alla poveretta, e le mise nel panierino che colei gli calò con una<br />

funicella; circa la preghiera della donna, di avvertire un <strong>com</strong>missario di sanità<br />

della loro situazione, rispose che non sapeva a chi rivolgersi, non essendo pratico<br />

della città, ma che, se trovava “qualche uomo un po’ domestico e umano”,<br />

avrebbe affidato a lui la <strong>com</strong>missione. A sua volta Renzo chiese alla donna, se per<br />

caso sapesse dove stava di casa un certo don Ferrante (e aggiunse il casato); quella<br />

rispose che ne aveva sentito parlare, ma non sapeva di preciso dove abitava.<br />

Il nostro giovane riprese il suo cammino un po’ rinfrancato e per l’incontro e<br />

per l’opera buona che aveva <strong>com</strong>piuta, donando quei due pani; e ricordandosi di<br />

quelli che aveva raccolti ai piedi della croce di San Dionigi, due anni prima,<br />

considerò la sua azione <strong>com</strong>e una doverosa restituzione, fatta a chi ne aveva più<br />

212


urgente bisogno. Continuando alacremente la sua strada, vide un po’ più in là, in<br />

piazza San Marco, “l’abbominevole macchina della tortura”, che le autorità<br />

avevano fatto alzare non solo in quel luogo, ma in vari punti della città, per “farci<br />

applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di pena: o sequestrati<br />

che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque<br />

altro. Era uno di quei rimedi eccessivi e inefficaci dei quali, a quel tempo, e in<br />

quei momenti specialmente, si faceva tanto scialacquio”.<br />

Poco dopo incontrò un convoglio di carri pieni di morti, la più parte ignudi,<br />

buttati alla rinfusa l’uno sull’altro, i quali a ogni scossa tremolavano e si<br />

s<strong>com</strong>ponevano sconciamente: si vedevano “ciondolar teste, e chiome verginali<br />

arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già<br />

inorridito <strong>com</strong>e un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio”. Il<br />

convoglio era preceduto da un “apparitore”, che andava sonando il suo<br />

campanello, ed era scortato da monatti i quali, stando alle costole dei cavalli<br />

affaticati per il gran carico, li spingevano avanti “a frustate, a punzoni, a<br />

bestemmie”. Renzo si fermò al passaggio dei carri, e si mise a pregare<br />

fervorosamente per tutti quei morti sconosciuti, con una grande pena nel cuore,<br />

mentre gli si insinuava nella mente il pensiero tormentoso che, forse, in mezzo a<br />

quei cadaveri ammonticchiati… Cercò di scacciare il brutto pensiero,<br />

rac<strong>com</strong>andandosi al Signore e rassegnandosi alla Sua Santa Volontà. Ripreso il<br />

cammino, sboccò in Borgo Nuovo, dove vide uno che doveva essere certamente<br />

un sacerdote, benché fosse in farsetto, perché, ritto accanto a una porta chiusa,<br />

teneva l’orecchio appoggiato allo spiraglio, evidentemente per ascoltare una<br />

confessione. Renzo si rincorò alla vista di lui, pensando che, <strong>com</strong>e prete, doveva<br />

avere almeno un po’ di carità e di buona grazia; e avvicinatosi, ma non troppo, gli<br />

fece capire che aveva qualcosa da dirgli. Colui si fermò ad ascoltarlo, e il giovane<br />

gli chiese l’indirizzo di don Ferrante; il buon prete glielo poté fornire, e insieme<br />

gli diede delle chiare indicazioni sulla strada da seguire per giungere a quella casa.<br />

Renzo lo ringraziò di tutto cuore, quindi lo mise al corrente della povera vedova<br />

abbandonata con i suoi numerosi bambini. Il bravo sacerdote ringraziò a sua volta<br />

dell’avviso che gli aveva dato, e assicurò che si sarebbe occupato personalmente<br />

della cosa, onde rimediare a quella dimenticanza.<br />

Il nostro giovane si rimise in cammino, seguendo l’itinerario indicatogli, ma<br />

sentiva crescere nel cuore una grave preoccupazione, anzi un’angoscia che<br />

l’attanagliava alla gola: ora stava per giungere al termine delle sue ricerche, e tra<br />

poco avrebbe ascoltato la sentenza, o di vita o di morte. Si sentiva tutto<br />

emozionato, tutto sottosopra: tra poco avrebbe potuto rivederla, la sua Lucia; ma<br />

avrebbe anche potuto sapere che era morta; ormai vicino alla soluzione di tutti i<br />

suoi angosciosi dubbi, il cuore di Renzo non resisteva al cimento, e invece di<br />

essere vicino alla meta, avrebbe preferito essere ancora all’inizio del viaggio,<br />

nella più assoluta incertezza.<br />

Stava attraversando uno dei rioni più desolati dalla peste: tutti gli usci chiusi<br />

per la paura dei monatti e il sospetto degli untori; molti inchiodati e sigillati,<br />

perché visitati dalla peste; altri spalancati, perché in casa non era rimasto più<br />

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nessuno, e la roba era stata depredata dai monatti o da altri malviventi; alcuni<br />

infine crociati col carbone, “per indizio ai monatti, che c’eran dei morti da portar<br />

via”. I pochi passanti camminavano nel mezzo della strada, sospettosi e<br />

guardinghi, con le barbe lunghe e incolte, coi capelli prolissi e in disordine, dato<br />

che tutti i barbieri erano diventati sospetti, dopo che uno di essi (quel<br />

Giangia<strong>com</strong>o Mora di cui si è già parlato) era stato giustiziato <strong>com</strong>e untore.<br />

Regnava dappertutto un silenzio di morte, interrotto soltanto, qua e là, da quel<br />

funesto rotolìo dei carri, ac<strong>com</strong>pagnato dai sinistri squilli dei campanelli degli<br />

apparitori, e dalle urla, dalle canzonacce e anche dalle bestemmie dei monatti, che<br />

la facevano ovunque da padroni. I pochi superstiti, chiusi nelle case semivuote,<br />

con le finestre e le porte sbarrate, a questi infausti rumori della strada, che<br />

rimbombavano cupamente nei vuoti cortili, si sentivano stringere il cuore <strong>com</strong>e in<br />

una morsa angosciosa. Eppure gli animi erano induriti e quasi inselvatichiti dallo<br />

spettacolo continuo della morte e di tutte le miserie che l’ac<strong>com</strong>pagnavano; i più<br />

ormai non avevano nessun riguardo, nessuna pietà, neppure per i congiunti.<br />

Talora, orribile a dirsi, gli stessi familiari gettavano dalle finestre i cadaveri dei<br />

propri congiunti, per liberarsene al più presto e senza l’intervento dei monatti, che<br />

erano temuti più della peste medesima. Certamente non tutti si erano abbrutiti a tal<br />

punto; la religione ispirava ancora conforto e infondeva coraggio e spirito di carità<br />

a quelli che la sentivano profondamente. Quando al mattino, a mezzogiorno e a<br />

sera sonavano mestamente le campane per la recita simultanea delle preghiere<br />

ordinate dall’Arcivescovo, si vedevano delle persone affacciarsi alle finestre e<br />

pregare insieme piamente: “avreste sentito – aggiunge il Manzoni – un bisbiglio di<br />

voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto”.<br />

In mezzo a questo spettacolo desolato e nello stesso tempo <strong>com</strong>movente,<br />

Renzo si stava avvicinando alla via dove abitava don Ferrante, allorché incontrò<br />

un altro convoglio di carri, fermi in mezzo alla strada, in attesa che venisse<br />

<strong>com</strong>pletato il loro carico di morte. Dei monatti trasportavano cadaveri dalle case e<br />

li buttavano alla rinfusa gli uni sugli altri sopra ai carri; e il giovane notò con<br />

raccapriccio <strong>com</strong>e alcuni di quei ribaldi portassero “pennacchi e fiocchi di vari<br />

colori”, <strong>com</strong>e segno di allegria e quasi per irrisione al pubblico lutto. Affrettò il<br />

passo per superare al più presto possibile quel triste convoglio, allorché una scena<br />

<strong>com</strong>movente lo fece fermare, senza che lui se ne accorgesse. Usciva da una casa,<br />

diretta verso i carri, una mamma ancor giovane, con in braccio una bambina,<br />

morta, ma tutta agghindata <strong>com</strong>e per una festa, con un candido e ricco vestito da<br />

Prima Comunione, coi capelli ben pettinati e divisi da una sottile scriminatura. Il<br />

volto della donna mostrava, nei lineamenti affilati, “una bellezza velata e<br />

offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale”. Teneva<br />

stretta amorosamente al petto la figlioletta, la quale appoggiava il visino<br />

sull’omero materno, <strong>com</strong>e se dormisse; “se non che una manina bianca a guisa di<br />

cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza”. Ammirevole<br />

madre! Aveva visto morire questa bambina, il marito, altri figli, aveva visto<br />

distrutta la sua famiglia, la sua felicità terrena, ma non si era abbandonata alla<br />

disperazione né alla desolata inerzia; la fede la sosteneva: non lamenti, non grida,<br />

214


non gesti s<strong>com</strong>posti, ma sofferenza consapevole e rassegnata. L’amore la sostiene<br />

sino all’ultimo, dandole una straordinaria forza morale proprio nel deperimento<br />

fisico: ”la sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan<br />

lacrime, ma portavano segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so<br />

che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a<br />

sentirlo”.<br />

Questa madre, in cui la religione ha sublimato il dolore, e il dolore ha<br />

sublimato la religione, rendendo la fede più viva e profonda, è l’incarnazione<br />

terrena della “Mater Dolorosa”, la raffigurazione indimenticabile della vera, della<br />

grande madre cristiana, forte nel dolore perché grande nell’amore. La descrizione<br />

di questa donna, sbozzata dall’Autore con tratti di rara efficacia rappresentativa, è<br />

tutta pervasa da una lirica <strong>com</strong>mozione, che investe anche la figlioletta che porta<br />

in braccio, l’indimenticabile Cecilia. La <strong>com</strong>mozione che spirava da questa scena<br />

insolita di amore materno era tale, che ne restarono toccati anche gli animi più<br />

duri.<br />

“Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie<br />

d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria”. La donna ricusò di<br />

consegnargliela, “senza però mostrare sdegno né disprezzo”; fece capire al<br />

monatto che desiderava deporla e ac<strong>com</strong>odarla lei stessa sul carro; e dandogli una<br />

borsetta piena di denaro, gli fece promettere di non toglierle nulla di dosso, alla<br />

bambina, e di seppellirla così <strong>com</strong>e stava. Il rozzo uomo, quasi <strong>com</strong>mosso, si mise<br />

la mano al cuore in atto di solenne giuramento; quindi si adoperò premurosamente<br />

“a fare un po’ di posto sul carro per la morticina”, mosso non tanto<br />

dall’inaspettata ri<strong>com</strong>pensa, quanto dal “nuovo sentimento da cui era <strong>com</strong>e<br />

soggiogato”. La madre, baciata un’ultima volta la bambina, l’adagiò con cura<br />

nello spazio a lei riservato, ve la <strong>com</strong>pose amorosamente con le manine in croce,<br />

quindi la coprì con un lindo lenzuolino, salutandola con queste semplici ma<br />

accorate parole: “Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per<br />

restare sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri”.<br />

Queste parole dimostrano quale rassegnazione, quale confortante certezza sa<br />

donare la santa speranza cristiana a chi possiede la fede.<br />

Dopo aver dato l’estremo saluto alla figliola, si rivolse al monatto pregandolo,<br />

quando sarebbe ripassato di lì verso sera, di salire in casa a prendere lei e una<br />

bambina più piccola; con questa si affacciò poco dopo alla finestra, per dare un<br />

ultimo sguardo al frutto delle sue viscere, che si allontanava sul carro verso<br />

l’estrema dimora. La piccina che stringeva al seno era ancora viva, ma col visino<br />

già segnato dalla morte. Dinanzi a questo straziante, ma anche cristianamente<br />

consolante spettacolo, la <strong>com</strong>mozione del Manzoni si effonde in parole pervase di<br />

flebile lirismo: “E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le<br />

rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? <strong>com</strong>e il fiore già rigoglioso<br />

sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che<br />

pareggia tutte l’erbe del prato”.<br />

Renzo, fortemente <strong>com</strong>mosso per quello che aveva visto e udito, sentì il<br />

bisogno di rivolgersi a Dio con una breve ma fervorosa preghiera: “O Signore!<br />

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esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno<br />

patito abbastanza!” Aveva appena ripreso il cammino, profondamente turbato,<br />

quando fu colpito da una nuova visione di miseria e di dolore: un gruppo di<br />

ammalati condotti dai monatti al lazzaretto. Era uno spettacolo che stringeva il<br />

cuore: chi piangeva, chi vanamente si ribellava, chi si lamentava con voce fioca,<br />

chi camminava <strong>com</strong>e insensato. Ma anche in mezzo a quella turba d’infelici non<br />

mancava “qualche esempio di fermezza e di pietà” e qualche scena<br />

particolarmente <strong>com</strong>movente: “fanciulline che guidavano i fratellini più teneri e,<br />

con giudizio e con <strong>com</strong>passione da grandi, rac<strong>com</strong>andavano loro d’essere<br />

ubbidienti, li assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura<br />

di loro per farli guarire”. Renzo si mise a osservare con grande ansietà e<br />

sospensione d’animo quegli ammalati, a mano a mano che gli passavano davanti,<br />

per vedere se, per caso, tra essi ci fosse la sua Lucia, tanto più che ormai la casa<br />

dove costei era ospitata non doveva essere lontana. Quando la miserabile turba fu<br />

tutta passata, il poveretto, ancora col cuore in gola, si rivolse a un monatto, che<br />

camminava in coda al gruppo, per chiedergli la precisa ubicazione della casa di<br />

don Ferrante. <strong>“I</strong>n malora, tanghero.” gli rispose quello con disprezzo; ma un<br />

<strong>com</strong>missario che veniva più dietro, al quale Renzo rivolse la stessa domanda, si<br />

mostrò più umano e gli fornì l’indicazione richiesta: “la prima strada a diritta,<br />

l’ultima casa grande a sinistra”.<br />

Sboccato nella strada indicatagli, il giovane scorse subito in fondo a mancina<br />

un palazzo signorile: Lucia era lì, almeno lo sperava; <strong>com</strong>unque lì avrebbe<br />

ricevuto la sua sentenza di vita o di morte: il cuore <strong>com</strong>inciò a martellargli in<br />

petto più violentemente. Arrivato al portone, prende in mano il picchiotto quasi<br />

tremando; prima di dare il colpo esita un poco, poi si fa coraggio e si decide. Il<br />

picchio risuona cupo e all’interno della casa e dentro le sue orecchie, che gli<br />

ronzano per l’emozione. Dopo pochi secondi da una finestra fa capolino una<br />

donna, con aria di sospetto: monatti? untori? malandrini? Renzo le domanda se<br />

c’è lì a servire una ragazza di campagna, di nome Lucia. Colei risponde che non<br />

c’è più, e fa l’atto di richiudere; ma il giovane la prega che, per carità, gli dica<br />

dov’è andata. “Al lazzaretto”, risponde quella sgarbatamente e vuole ancora<br />

chiudere; ma Renzo la supplica di attendere un momento, insiste: vorrebbe sapere<br />

quando è stata portata al lazzaretto, se era molto ammalata; ma la sgarbata, senza<br />

dargli ascolto, ha già richiuso la finestra.<br />

“Afflitto della nuova e arrabbiato della maniera” il giovane afferra di nuovo il<br />

martello, con l’intenzione di picchiare ancora e alla disperata, per farsi aprire, per<br />

sapere quello che gli preme; ma volgendo lo sguardo intorno, per vedere se c’è<br />

qualcuno nella via a cui poter fare le sue domande, scorge a poca distanza una<br />

vecchia la quale, con occhi stralunati, fa convulsi cenni con le mani <strong>com</strong>e per<br />

chiamar gente. Intuisce subito che l’ha preso per untore e vuole organizzare la<br />

caccia all’uomo; alterato, alza le mani minacciose contro la donna che, vistasi<br />

scoperta, ancora più spiritata lancia il grido spaventoso: “l’untore! dagli! dagli!<br />

dagli all’untore!” Renzo sente <strong>com</strong>e una frustata in viso; grida inviperito: “Chi?<br />

io! ah strega bugiarda! sta zitta!” e fa per scagliarsi contro quella megera, “per<br />

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impaurirla e farla chetare”. Ma si accorge che è già accorsa gente; anche quella<br />

sgraziata del palazzo si è riaffacciata alla finestra, per gridare all’untore; ormai<br />

non c’è tempo da perdere: bisogna svignarsela di lì prima che i nemici siano<br />

troppi, da poterlo accerchiare. Sceglie la direzione più libera, e via di corsa: alcuni<br />

cercano di sbarrargli la strada, per tagliargli la ritirata, ma il nostro giovane, ormai<br />

scatenato e galvanizzato dal pericolo, li respinge con pugni e con urtoni, senza<br />

riguardo, e via di gran carriera. Ma vedendo che gli inseguitori non desistevano,<br />

ma lo incalzavano gridando a più non posso, per chiamar gente, Renzo a un certo<br />

punto non ci vede più per la rabbia e, preso dalla disperazione, si ferma a un<br />

tratto, e brandendo il suo coltellaccio grida furibondo, con gli occhi fuori dalle<br />

orbite: “chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo”.<br />

E rimase lì fremente, piantato in mezzo alla strada con le gambe divaricate,<br />

dimenando per l’aria da una parte il coltello, dall’altra il suo pugno nocchiuto.<br />

Per fortuna gli inseguitori si erano fermati, <strong>com</strong>e titubanti; ma continuavano a<br />

gridare e facevano “cenni da spiritati, <strong>com</strong>e a gente che venisse di lontano dietro a<br />

lui”. Voltatosi, Renzo vide un convoglio di carri mortuari, e oltre quello un<br />

gruppetto di gente che si era radunata alle grida, vogliosa anch’essa di dare<br />

addosso all’untore, non appena si fosse tolto di mezzo quel sinistro impedimento.<br />

Vedendosi preso tra due fuochi, capì che l’unica salvezza era per lui quel<br />

convoglio, il quale invece per coloro rappresentava il maggiore ostacolo; e senza<br />

pensarci due volte prese la rincorsa e con un bel salto si issò sopra uno di quei<br />

carri, in mezzo alle acclamazioni dei monatti. Ma i suoi nemici, pur a distanza,<br />

inveivano e minacciavano, gridando a squarciagola contro l’untore; allora uno dei<br />

monatti, per farli scappare, prese da sopra un cadavere un cencio lordo di marcia,<br />

lo annodò strettamente, quindi roteandolo a guisa di fionda fece finta di lanciarlo<br />

contro di loro; bastò la mossa, e quelli subito fuggirono a gambe levate, mentre i<br />

monatti levavano un urlo di vittoria.<br />

Il giovane ringrazia di cuore i suoi salvatori, di cui uno gli dice: “Fai bene a<br />

ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non<br />

quando son morti.” Renzo non risponde né osa smentire la taccia d’untore: guai a<br />

lui, perderebbe immediatamente la benevola protezione di quei birboni, e<br />

correrebbe guai seri; perciò se ne sta zitto, aspettando gli eventi. Intanto coloro<br />

<strong>com</strong>inciano a trincare da un gran fiasco; e uno di essi, quand’ebbe il recipiente tra<br />

le mani, si rivolse con un ghigno diabolico al padrone del vino, che era tra quei<br />

morti, e con ironia beffarda lo apostrofò così: “Si contenta, padron mio, che un<br />

povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe<br />

vite: siam quelli che l’abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura.” Il<br />

brindisi eccitò le risa sguaiate di quei ribaldi, che offrirono da bere anche a Renzo<br />

il quale declinò l’offerta ringraziando, dicendo che proprio non ne sentiva la<br />

voglia. Allora uno dei <strong>com</strong>pagnoni gli disse, con un tono di “<strong>com</strong>passione<br />

sprezzante”, prendendo lui il fiasco: “Bisogna che il diavolo col quale hai fatto il<br />

patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un<br />

bell’aiuto”. E in mezzo all’ilarità generale avvicinò il fiasco alla bocca, bevendo a<br />

garganella.<br />

217


Mentre quelli ridevano dell’untore novellino, costui pensava, in silenzio, a<br />

<strong>com</strong>e liberarsi dai suoi liberatori, e stava all’erta per approfittare di ogni occasione<br />

favorevole, per squagliarsela senza che coloro potessero fare una scenata che<br />

mettesse in sospetto i passanti. Quando si accorse di essere sul corso di Porta<br />

Orientale, dalla quale si esce per andare al lazzaretto, capì che quello era il luogo<br />

opportuno, perché conosceva la strada, e poteva quindi allontanarsi senza doverne<br />

chiedere ad alcuno. E sic<strong>com</strong>e un <strong>com</strong>missario aveva fermato il convoglio,<br />

ordinando non so che cosa, ne approfittò subito per svignarsela; ringraziato il<br />

monatto che gli era vicino, saltò giù dal carro cercando di allontanarsi senza dare<br />

nell’occhio; ma colui, a guisa di saluto, lo apostrofò con aria di scherno: “Va, va,<br />

povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”. Per fortuna lì vicino non<br />

c’era nessuno che potesse sentire queste parole, e Renzo, allontanatosi quatto<br />

quatto, si affrettò a uscire da Porta Orientale, donde si diresse al lazzaretto.<br />

218


CAPITOLO XXXV<br />

Se tutta la città era piena di miserie e di dolore, il lazzaretto era però tutto un<br />

dolorante spettacolo, un “immenso covile” di morti, di ammalati, di frenetici, di<br />

convalescenti, di personale di servizio; nel vasto recinto era <strong>com</strong>e un brulichio di<br />

povera umanità, dalla quale si levava per l’aria un confuso ronzio, formato di<br />

pianti, di gemiti, di grida, “di voci alte e fioche” <strong>com</strong>e dice Dante del suo<br />

inferno; 10 e questo ronzio si aggirava perenne, notte e giorno, senza mai alcuna<br />

pausa, entro le mura che chiudevano da ogni parte questo miserabile “soggiorno<br />

dei guai”. Già dal di fuori Renzo ebbe la prima dolorosa impressione e <strong>com</strong>e il<br />

preannuncio di ciò che andrebbe a vedere: ammalati pallidi e macilenti che si<br />

trascinavano verso l’ingresso, altri che languivano distesi lungo il fossato esterno,<br />

altri infine che andavano errando qua e là, balordi o forsennati; un poveretto,<br />

sedutosi giù nel fondo del fossato, cantava a squarciagola una “villanella”; un<br />

altro, nella frenesia della febbre, era salito a furia su di un cavallaccio, lasciato lì<br />

incustodito, e lo aveva lanciato, tempestandolo di pugni e di calci, a una corsa<br />

sfrenata in mezzo ai poveri languenti, lasciandosi dietro un nuvolone di polvere.<br />

Entrato dalla porta che si apriva verso le mura della città, il giovane notò che,<br />

da lì alla cappella centrale e da questa alla porta dirimpetto, c’era <strong>com</strong>e un viale<br />

sgombro di capanne, che alcuni inservienti stavano liberando da ogni altro<br />

impedimento, facendo anche allontanare la gente non addetta a quel lavoro.<br />

Renzo, temendo di essere mandato via, si cacciò a destra, in mezzo alle capanne, e<br />

<strong>com</strong>inciò la sua ricerca, osservando in viso tutti gli ammalati giacenti allo<br />

scoperto, su un po’ di fetida paglia, e facendo anche capolino in ciascuna capanna,<br />

per guardare i degenti che vi erano ricoverati. Ma vedendo che erano tutti uomini,<br />

pensò che le donne fossero in un luogo a parte; e decise di avanzare, continuando<br />

a cercare finché non le avesse trovate. Incontrava ogni tanto gli addetti<br />

all’assistenza, sia secolari che cappuccini, “tanto diversi d’aspetto e di maniere e<br />

d’abito, quanto diverso e opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una<br />

forza uguale di vivere in tali servizi: negli uni l’estinzione di ogni senso di pietà,<br />

negli altri una pietà sovrumana”. Neppure agli inservienti il giovane volle<br />

rivolgere domande, nel timore di crearsi degli ostacoli alla sua ricerca; continuò<br />

perciò ad avanzare così, <strong>com</strong>e in esplorazione.<br />

L’afa andava crescendo, a causa della bassa pressione; il cielo era tutto<br />

coperto di oscuri nuvolosi, dai quali traspariva appena la sfera del sole, che<br />

diffondeva “un calore morto e pesante”. Si udiva ogni tanto un brontolìo di tuoni<br />

lontani; l’aria era immota e greve; non si vedeva né muovere una frasca né volare<br />

un uccello; solo le rondini talora planavano entro il recinto del lazzaretto, ma<br />

subito riprendevano quota, quasi impaurite dal triste e caotico spettacolo.<br />

10 Inf. III, 27<br />

219


L’oppressione dell’atmosfera faceva repentinamente peggiorare gli infermi,<br />

aumentando i dolori dell’agonia; quasi tutti i degenti davano in smanie, affannati,<br />

sentendosi mancare il respiro.<br />

Renzo aveva girato un bel po’ senza ancora trovare le donne, quando lo colpì<br />

un suono misto di vagiti e di belati: era infatti giunto al reparto dei bambini,<br />

protetto da un assito. Mise l’occhio a uno spiraglio tra tavola e tavola, e vide il<br />

<strong>com</strong>movente spettacolo di quell’improvvisato “spedale d’innocenti”. Sia le<br />

capanne sia il terreno circostante era cosparso di materassini o cuscini o lenzuoli,<br />

con sopra dei lattanti; tra di essi si aggiravano delle balie e anche delle capre; si<br />

vedeva qualcuna di queste bestiole avvicinarsi, quasi con istinto materno, a un<br />

bambino piangente, e tentare di porgergli la mammella, belando <strong>com</strong>e per<br />

invocare aiuto. Delle balie adibite all’allattamento di quegli orfanelli, qualcuna si<br />

stringeva al seno la creatura non sua con tale “atto d’amore”, che faceva capire di<br />

essere andata colà non per la paga, ma per “quella carità spontanea che va in cerca<br />

dei bisogni e dei dolori” altrui, per lenirli; tal’altra invece, “abbandonando il suo<br />

petto al lattante straniero”, sedeva triste e accorata, pensando al proprio figliolo,<br />

che pure aveva succhiato quel latte, e ora non c’era più; la sconsolata fissava lo<br />

sguardo assente davanti a sé, tutta assorta nel suo segreto tormento; e di tanto in<br />

tanto alzava verso il cielo plumbeo gli occhi sgomenti.<br />

La vista di quei pargoli innocenti intenerì Renzo, e lo tenne lì a contemplare<br />

più di quanto avrebbe voluto. Allorché, ancora tutto <strong>com</strong>mosso, riprese il suo<br />

cammino, vide di sfuggita, in lontananza, un cappuccino che gli parve tutto padre<br />

Cristoforo. Ebbe <strong>com</strong>e un sussulto al cuore, e subito affrettò il passo, per<br />

rintracciarlo tra le capanne in mezzo alle quali lo aveva visto sparire. Dopo un po’<br />

di ricerca, fatta con l’emozione che potete immaginare, in quell’andirivieni di<br />

capanne, finalmente lo ritrovò, che stava accingendosi a consumare una scodella<br />

di minestra, seduto sull’uscio di una capanna: era proprio lui, il suo buon frate!<br />

Questi, appena scoppiata la peste a Milano, aveva pregato i suoi superiori di<br />

esserci mandato, per la cura degli appestati, nella speranza di poter dare la sua vita<br />

a servizio del prossimo, <strong>com</strong>e aveva sempre desiderato ardentemente. Il Conte zio<br />

era morto, era morto pure il Padre provinciale, i quali si erano messi d’accordo per<br />

tenerlo lontano dal Milanese; quindi non ci furono difficoltà per l’accoglimento<br />

della sua domanda, ed era infatti al lazzaretto da circa tre mesi.<br />

La gioia che il giovane provò nel rivederlo dopo quasi due anni, fu subito<br />

offuscata dal costatare in che stato fisico lo ritrovava: si vedeva proprio che era<br />

esaurito dalla fatica e dal male, e che si trascinava ancora al servizio del prossimo<br />

solo mediante un grande e continuo sforzo di volontà. Il viso era smunto,<br />

l’andatura cascante, la voce fioca; soltanto gli occhi, pur infossati nelle orbite,<br />

erano quelli di sempre, anzi apparivano più vivi e <strong>com</strong>e splendenti: “quasi la<br />

carità, sublimata nell’estremo dell’opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo<br />

principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l’infermità ci<br />

andava a poco a poco spegnendo.” Nell’esaurimento delle risorse corporee,<br />

nell’imminenza della morte materiale il santo frate sentiva la gioia di potersi<br />

presto ricongiungere al Creatore, nella vera vita.<br />

220


Il cappuccino aveva scorto a sua volta Renzo che veniva verso di lui, e<br />

sommamente meravigliato posò la scodella a terra e si alzò per andargli incontro.<br />

Dopo i primi <strong>com</strong>mossi saluti e lo scambio delle notizie essenziali, il padre chiese<br />

con ansia di Lucia, e rimase molto colpito nel sapere che era stata portata lì al<br />

lazzaretto; chiese quando ci fosse entrata, ma purtroppo il giovane non poté<br />

precisarglielo. Domandò poi a costui che cosa mai avesse <strong>com</strong>binato a Milano<br />

nella famigerata giornata di San Martino; e Renzo confessò francamente che quel<br />

giorno non aveva avuto giudizio, ma che non aveva <strong>com</strong>messo niente di<br />

riprovevole, e la cattura non poteva spiegarsi che <strong>com</strong>e una montatura della<br />

polizia, basata su falsi indizi. Il frate disse che ne era convinto anche prima, ma<br />

aveva voluto sentirne la conferma dalla sua bocca; quindi, vedendolo piuttosto<br />

pallido, gli chiese se avesse pranzato; e saputo che non mangiava dal giorno<br />

prima, andò a riempire una scodella di minestra e la porse al giovane con un<br />

cucchiaio, dopo averlo fatto sedere sul suo saccone; quindi andò a spillare un<br />

bicchiere di vino per il suo ospite, il quale ringraziò <strong>com</strong>mosso. Il Padre rispose<br />

che non doveva ringraziare lui, ma la Provvidenza, e soggiunse con tono ispirato:<br />

“è roba dei poveri, ma anche tu sei un povero, in questo momento”.<br />

Tra una cucchiaiata e l’altra Renzo diede al Cappuccino tutte le altre notizie<br />

che sapeva su Lucia e Agnese; raccontò del rapimento della ragazza, il quale<br />

mozzò letteralmente il fiato al buon frate, che si sentiva in un certo senso<br />

corresponsabile dell’accaduto, avendo indirizzato lui Lucia a Monza; ma si<br />

rianimò subito, nel sentire la miracolosa liberazione. Provò una viva consolazione<br />

nel costatare ancora una volta che il Buon Dio veglia sulle sue creature, e talora<br />

interviene direttamente per salvarle, allorché tutti i mezzi umani sono falliti allo<br />

scopo, e non si può sperare che in Lui. Continuando il suo racconto, il giovane<br />

disse che, dopo la liberazione, Lucia era stata allogata presso una nobile e pia<br />

gentildonna, lì a Milano, sin dall’autunno del 1628; che lui in mattinata si era<br />

recato a quella casa, dove aveva saputo che era stata portata al lazzaretto, ma non<br />

gli avevano voluto dire né quando né in quali condizioni; perciò si era messo a<br />

cercarla alla cieca, senza avere alcun indizio, ma finora non aveva visto che<br />

uomini: dov’era dunque il reparto delle donne?<br />

Fra Cristoforo rispose che in quel reparto con potevano entrare che le persone<br />

espressamente addette; la norma era giusta e andava rispettata, anche se fosse<br />

mancata una vigilanza e una sanzione; ma lui ci si recava con rette intenzioni, ne<br />

era sicuro, per cui non poteva vietargli di andarci, anzi in un certo qual modo lo<br />

autorizzava a farlo. Dopo avergli indicato l’ubicazione del reparto femminile,<br />

protetto da uno steccato che però offriva qualche passaggio, aggiunse con tono di<br />

solenne ammonimento: “Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a<br />

nessuno, nessuno probabilmente non dirà nulla a te. Se però ti si facesse qualche<br />

ostacolo, di’ che il padre Cristoforo da *** ti conosce e renderà conto di te.<br />

Cercala lì; cercala con fiducia e… con rassegnazione… Va preparato a fare un<br />

sacrificio…”<br />

Renzo, all’idea che Lucia poteva essere già morta, fu preso dall’accoramento;<br />

con la paura si riaccese il suo risentimento contro chi aveva impedito con la forza<br />

221


il suo matrimonio; il rancore, rinfocolato dal terribile dubbio, gli fece perdere il<br />

controllo e, con gli occhi biechi e col volto stravolto, disse con forza che, se non<br />

l’avesse trovata, avrebbe cercato un altro, cagione di tutti i suoi guai; lo avrebbe<br />

certamente trovato, magari a casa del diavolo e, se la peste non aveva già fatto<br />

giustizia di quel maledetto ribaldo, ci avrebbe pensato lui…<br />

Il Padre, nel sentire questi truci propositi di vendetta, in un giovane che aveva<br />

sempre ritenuto pio e degno di Lucia, si alterò anche lui, passando dal dolore allo<br />

sdegno; e non si tenne dal rimproverarlo aspramente, chiamandolo ripetutamente<br />

“sciagurato”, a tal punto anche lui aveva perduto la calma; quindi stringendolo<br />

fortemente a un braccio, con la mano tesa e tremante gli mostrò la vasta scena del<br />

dolore, che si spiegava tutto all’intorno, esclamando: “Guarda chi è Colui che<br />

castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona!<br />

Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia!... Va’! Non ho più tempo di darti<br />

retta”. Ma avendolo Renzo supplicato di non abbandonarlo così, mostrando anche<br />

di essersi pentito delle sue parole insensate, il frate lo apostrofò ancora con voce<br />

severa: “Come! Ardiresti tu di pretendere ch’io rubassi il tempo a questi afflitti, i<br />

quali aspettano ch’io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di<br />

rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta?”<br />

Renzo, <strong>com</strong>mosso e profondamente dispiaciuto del suo sfogo così poco<br />

cristiano, scosso da quelle parole dure ma vere del caro Padre, esclamò con tutto il<br />

cuore: “Ah gli perdono! Gli perdono davvero, gli perdono per sempre!”<br />

Avendogli il frate chiesto, con tono di rimprovero, quante volte gli avesse<br />

perdonato, tutto confuso rispose: “Capisco che non gli avevo mai perdonato<br />

davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora, con la grazia<br />

del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore”. Allora il Cappuccino, dopo avergli<br />

ricordato che il Signore ci ha <strong>com</strong>andato non solo di perdonare ai nostri nemici,<br />

ma anche di amarli, <strong>com</strong>e li ha amati Lui, disse che l’uomo, che lui voleva<br />

uccidere, era lì al lazzaretto da quattro giorni, e forse Iddio aspettava la sua<br />

preghiera sincera per fargli la grazia di una santa morte. Gli chiese quindi che<br />

cosa farebbe, se lo vedesse; e avendo ricevuto la risposta che si attendeva da un<br />

animo contrito, che cioè avrebbe pregato Dio affinché gli toccasse il cuore, strinse<br />

fortemente il braccio di Renzo, e così tenendolo lo condusse senz’altro alla<br />

capanna dove colui era ricoverato.<br />

In mezzo ad altri appestati, don Rodrigo giaceva insensato e quasi<br />

irriconoscibile, col viso cosparso di nere lividure e con le labbra gonfie e di colore<br />

oscuro. Nel vedere il prepotente signorotto ridotto in quel miserabile stato, il<br />

nostro giovane rimase senza fiato, profondamente <strong>com</strong>mosso; e seguendo<br />

l’esempio del frate, anche lui giunse le mani e pregò fervorosamente il Signore<br />

per la salvezza di quel fratello, affinché potesse ottenere qualche momento di<br />

lucidità per conoscere il suo stato e pentirsi del suo passato peccaminoso. Quindi<br />

uscirono in silenzio e si separarono subito: l’uno tornò ai suoi malati, l’altro alla<br />

sua difficile ricerca.<br />

222


CAPITOLO XXXVI<br />

Fra Cristoforo aveva detto a Renzo che, prima di recarsi al quartiere delle<br />

donne, andasse a vedere la processione dei guariti, che tra poco padre Felice<br />

avrebbe guidato, partendo dalla cappella centrale; gli augurò di poterla trovare lì,<br />

tra le donne guarite, le quali uscendo dal lazzaretto sarebbero andate a passare la<br />

quarantena in un ospizio; se non l’avesse trovata tra quelle, poteva sperare di<br />

rintracciarla tra le malate, nel reparto che gli aveva indicato. Il giovane, quindi, si<br />

avviò senz’altro verso la chiesa, dove i partecipanti alla processione erano già<br />

radunati, e stavano in quel momento ascoltando la predica di fra Felice, della<br />

quale anche lui poté ascoltare una parte. Il Cappuccino invitava i guariti a<br />

considerare la vita <strong>com</strong>e un dono di Dio, da spendere nelle opere che si possono<br />

offrire a Lui; e li ammoniva a essere benevoli e soccorrevoli verso chi<br />

soffre, memori dei propri patimenti e della grande grazia che avevano ricevuto da<br />

Dio Misericordioso. Aggiunse che si dovevano <strong>com</strong>portare, dopo quella dolorosa<br />

ma salutare esperienza, in maniera esemplare, in modo che, chi li guardava,<br />

ricevesse edificazione dal loro contegno; da quel momento, avendo <strong>com</strong>preso il<br />

vero valore della vita nella visione della morte, dovevano <strong>com</strong>inciare una vita<br />

tutta di carità, la quale avrebbe cancellato i loro peccati, addolcendo nel contempo<br />

il loro dolore per le persone care che avevano perduto.<br />

La moltitudine, che ascoltava in <strong>com</strong>punto silenzio, era percorsa da un fremito<br />

di <strong>com</strong>mozione, che qua e là si manifestava in gemiti sommessi; anche Renzo era<br />

intenerito e dalle parole e dall’aspetto ieratico del predicatore, che parlava con<br />

tono veramente ispirato e toccante. Finito di parlare, colui si gettò una corda<br />

intorno al collo, in simbolo di penitenza, e inginocchiatosi davanti agli astanti,<br />

chiese umilmente perdono a tutti per le manchevolezze in cui lui e i suoi<br />

confratelli fossero incorsi nel servirli, per pigrizia o impazienza o poca carità. E<br />

non erano solo belle parole, perché quel “mirabil frate” era convinto di quello che<br />

diceva; egli sentiva effettivamente <strong>com</strong>e parlava: “chiamava privilegio quello di<br />

servir gli appestati, perché lo teneva per tale… chiedeva perdono, perché era<br />

persuaso di averne bisogno”. Ma quella gente che aveva visto i cappuccini, e lui<br />

per primo, prodigarsi con tanto zelo e abnegazione, con tanta umiltà e premura,<br />

senza mai alcun risparmio, piangeva <strong>com</strong>mossa e intenerita a quelle parole del<br />

frate, pronunciate con accento sincero. Egli poi, toltisi i sandali, prese una gran<br />

croce, che era lì preparata, “se la inalberò davanti” non senza sforzo, e si mise alla<br />

testa della processione che <strong>com</strong>inciò lentamente a snodarsi dietro di lui.<br />

Renzo, con gli occhi inondati di lagrime, si tirò indietro per lasciarla passare,<br />

postandosi di fianco a una capanna, donde aveva la visuale libera; e rimase lì<br />

fermo e tutt’occhi, “con una gran palpitazione di cuore, ma insieme con una certa<br />

nuova e particolare fiducia”, che gli era fiorita nell’animo ascoltando quelle parole<br />

ardenti di carità e assistendo a quello spettacolo davvero <strong>com</strong>movente. Dietro<br />

padre Felice venivano per primi i bambini, e subito dopo le donne, le quali<br />

tenevano quasi tutte per mano una bambina, e cantavano alternatamene i versetti<br />

223


del salmo “Miserere”, sfilando a passo lento, sicché il nostro giovane aveva tutto<br />

il tempo di guardar bene quei volti pallidi, purtroppo tutti sconosciuti per lui. E<br />

mentre osservava quelle che passavano, con la coda dell’occhio gettava di tanto in<br />

tanto uno sguardo alle donne che dovevano ancora passare; e la sua speranza<br />

diminuiva a mano a mano che si accorciava la fila delle ultime. Ecco, ormai sono<br />

poche, ecco l’ultima, sconosciuta anch’essa! Il povero giovane rimase lì desolato<br />

“con le braccia ciondoloni, e con la testa piegata sur una spalla”, a guardare senza<br />

più alcun interesse, <strong>com</strong>e un insensato, il passaggio degli uomini. Si riscosse e<br />

ravvivò la sua attenzione, allorché si accorse che la processione a piedi era seguita<br />

da alcuni carri, con sopra i più deboli; e qui le donne venivano per ultime. Ancora<br />

un barlume di speranza, dunque, ancora dei palpiti, ma per poco, perché ben<br />

presto anche quei carri furono passati, portandosi via quei bricioli di speranza del<br />

nostro giovane, che rimase <strong>com</strong>e oppresso da un cupo abbattimento. Ora, svanita<br />

la speranza di trovarla guarita, rimaneva l’estrema, incerta speranza di trovarla<br />

ammalata; speranza ben misera e molto ambigua, perché, se l’avesse trovata<br />

malata, era poi sicuro che sarebbe guarita? Quanti degli ammalati guarivano? Ben<br />

pochi! Tuttavia, per non disperarsi, “il poverino s’attaccò con tutte le forze<br />

dell’animo a quel tristo e debole filo” di speranza, che lo legava ancora alla vita.<br />

Lottando contro lo scoraggiamento, si mosse per recarsi al quartiere delle donne;<br />

giunto davanti alla chiesa, si inginocchiò sui gradini esterni, e rivolse a Dio una<br />

fervida preghiera, <strong>com</strong>posta “di parole arruffate, di frasi interrotte,<br />

d’esclamazioni, d’istanze, di lamenti, di promesse”, una supplica confusa e<br />

accorata, quale poteva levarsi dal suo animo desolato.<br />

Alzatosi un po’ più fiducioso, entrò nel reparto femminile senza difficoltà; e<br />

avendo visto a terra, quasi all’ingresso, un campanello, di quelli che i serventi si<br />

legavano al piede per farsi udire dai ricoverati e riconoscere dai sovrintendenti,<br />

pensò che quello poteva essere per lui <strong>com</strong>e un lasciapassare lì dentro, e se lo<br />

allacciò al piede, accertandosi che nessuno lo vedesse. E <strong>com</strong>inciò la sua ansiosa e<br />

appassionata ricerca, di capanna in capanna, di fila in fila, ma vedeva sempre volti<br />

sconosciuti. Dopo un po’ si sentì chiamare da un <strong>com</strong>missario, che gli ordinò di<br />

andare nelle stanze sotto i portici, dove c’era bisogno di aiuto. Renzo si accorse<br />

subito della situazione equivoca, in cui si era venuto a trovare a causa del<br />

campanello; ma per non dare sospetto, fece cenno di sì con la testa e fece finta di<br />

avviarsi verso il luogo indicato; fermatosi invece tra due capanne, si affrettò a<br />

togliersi quel benedetto campanello, rivelatosi un inciampo, mentre aveva creduto<br />

che gli potesse essere di aiuto.<br />

Ma mentre, chino a terra, stava appunto slegandosi quell’arnese, tenendo<br />

involontariamente il capo quasi appoggiato alla parete di paglia di una capanna,<br />

dall’interno di questa gli giunse inaspettatamente all’orecchio una voce, quella<br />

voce!, che diceva in tono soave: “Paura di che? Abbiamo passato ben altro che un<br />

temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso”. Renzo rimase<br />

senza fiato: gli si annebbiarono gli occhi, gli tremarono le ginocchia; ma fu un<br />

momento: subito si riprese, <strong>com</strong>e rinato alla vita. Si alzò in piedi <strong>com</strong>e una molla,<br />

e in un balzo fu sull’uscio di quella capanna, dove vide proprio la sua sospirata<br />

224


Lucia. La vide in piedi, quindi guarita, che prestava le sue amorevoli cure a<br />

un’altra donna, la quale sembrava anch’essa fuori pericolo. Non ci proveremo<br />

neppure a descrivere la gioia del giovane a quella vista: gli sembrava di sognare!<br />

Lucia si voltò al rumore dei passi, e rimase <strong>com</strong>e trasognata nel vedere in carne e<br />

ossa quel Renzo che per venti mesi aveva cercato, invano, di dimenticare. Non<br />

staremo a riferire il dialogo, veramente drammatico; noteremo solo lo spirito che<br />

anima questo incontro tra i due ex-fidanzati, che ci appare <strong>com</strong>e un vero e proprio<br />

scontro tra due mentalità diverse e per molti punti antitetiche. E’ anche lo scontro<br />

tra la passione e la ragione, tra l’amore e la religione. Da una parte Renzo che<br />

cerca di far rivivere nel cuore della ragazza le memorie, le promesse, i pensieri e i<br />

desideri di una volta, annullando per così dire il tempo trascorso, eludendo o<br />

minimizzando il voto; dall’altra Lucia, che al soprassalto dei sentimenti a<br />

malapena sopiti sente con spavento vacillare la sua promessa alla Madonna, e<br />

prega ripetutamente il giovane di smetterla su quel tono, di non farla soffrire<br />

ancora, di andar via, di dimenticarla. E ribadisce che ha fatto proprio un voto, una<br />

promessa solenne alla Madonna, di non sposarsi; e quando Renzo le risponde “che<br />

son promesse che non contan nulla”, la poverina si scandalizza, e domanda<br />

inorridita: “Cosa dite?Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato?”<br />

Evidentemente Lucia, davanti all’opinione espressa da Renzo circa il suo voto,<br />

teme che egli sia diventato un miscredente; ma lui le conferma che parla da buon<br />

cristiano, e che la Madonna non vuol promesse in danno del prossimo; e propone,<br />

scandalizzando ancor di più la povera ragazza, di promettere invece alla Vergine<br />

che avrebbero chiamato Maria la prima bambina che sarebbe nata dal loro<br />

matrimonio.<br />

Lucia, dopo averlo supplicato ancora una volta di non tentarla più e di andar via,<br />

“si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio”, quasi per difendersi<br />

dai ripetuti appelli del giovane, che l’avevano profondamente sconvolta. Davanti a<br />

questo atteggiamento di ripulsa della ragazza, Renzo dimostra tutta la sua abilità:<br />

egli capisce subito che non è il caso di insistere nel minimizzare il voto, ché<br />

altrimenti Lucia si sarebbe maggiormente allarmata e messa sulla difensiva;<br />

bisognava invece aggirare l’ostacolo. Innanzi tutto, senza tentare di accostarsi a<br />

lei, perché sarebbe stato controproducente, le chiede se lei sarebbe la stessa di<br />

prima per lui, qualora non ci fosse il voto. Lucia risponde con un accorato<br />

rimprovero, più significativo di qualunque “sì ”: “Uomo senza cuore! Quando<br />

m’aveste fatto dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle<br />

parole che sarebbero forse peccati, sareste contento?” E torna a pregarlo, per amor<br />

del Cielo, di lasciarla in pace, di tornarsene per la sua strada e di non pensare più a<br />

lei… se non quando pregherà il Signore. Questa concessione, che Lucia fa ora, di<br />

essere ricordata nella preghiera, è una ammissione indiretta che il suo cuore batte<br />

ancora per Renzo, da cui non vuole essere dimenticata, se non altro nella<br />

preghiera. Il giovane intuisce con intima gioia che la ragazza, in fondo, è ancora<br />

tutta sua; ma abilmente non insiste sull’argomento dell’amore, che lei avrebbe<br />

considerato <strong>com</strong>e un attentato alla sacertà del voto, e cerca di interessarla con altri<br />

argomenti che la distraggano e l’attraggano, impedendole di rimanere sempre in<br />

225


quello stato di allarmata difensiva. Comincia perciò a parlarle dell’incontro avuto<br />

poco prima con padre Cristoforo: Lucia prova una forte emozione a quella notizia<br />

veramente inattesa, e non crede quasi ai suoi orecchi nel sentire che è lì nel<br />

lazzaretto a curare i malati; si addolora nell’udire che il buon frate è in condizioni<br />

fisiche pietose; e chiedendo con ansia altre notizie di lui, si riaccosta a Renzo<br />

senza accorgersene.<br />

Il giovane, vedendola così interessata e <strong>com</strong>mossa, ritorna sul voto, per<br />

invalidarlo per mezzo dell’autorità del padre Cristoforo; è un argomento specioso,<br />

che potremmo esporre in questa specie di sillogismo: i santi non possono<br />

sbagliare; ma fra Cristoforo, che è un santo, ha approvato il mio proposito di<br />

venirti a cercare; dunque il voto non ha nessun valore. Lucia ribatte che il frate ha<br />

parlato così, perché non sa niente del voto; ma Renzo ripete che quello è un santo,<br />

e i santi parlano ispirati da Dio, il quale sa tutto. Poi passa a parlare di don<br />

Rodrigo, raccontando dove e <strong>com</strong>e l’ha visto, aggiungendo di aver pregato<br />

sinceramente per lui assieme al Padre, proprio davanti al suo giaciglio. A quella<br />

descrizione, a quella notizia così inaspettata, Lucia “stava tutta <strong>com</strong>presa d’orrore<br />

e di <strong>com</strong>passione”. Allora il giovane, cercando di far servire per il suo scopo<br />

anche questo fatto, mette in campo un altro argomento, veramente labile, per<br />

quanto lui si sforzi di farlo apparire convincente. Egli afferma in definitiva che<br />

Dio non potrebbe perdonare a don Rodrigo, se il male da lui fatto non fosse<br />

rimediato; e non potrebbe essere rimediato che con la celebrazione del<br />

matrimonio che lui appunto aveva impedito. Ragionamento molto sforzato, <strong>com</strong>e<br />

ognun vede, e che non dimostra assolutamente nulla; ma se Renzo cercava di<br />

arrampicarsi pure sugli specchi, aveva le sue ragioni, e noi lo <strong>com</strong>patiamo se la<br />

sua dialettica è piuttosto capziosa. Lucia avverte subito che è un ragionamento<br />

storto, e risponde subito: “No, Renzo, no: il Signore non vuole che facciamo del<br />

male, per far Lui misericordia”. Il giudizio della ragazza è chiaro e pieno di buon<br />

senso: Dio non può volere che noi facciamo del male, violando il voto, affinché<br />

Lui possa perdonare don Rodrigo.<br />

Non essendo riuscito a smuoverla con questi due argomenti, Renzo ne tenta un<br />

altro, tirando questa volta a indovinare; dice cioè che anche sua madre, la buona<br />

Agnese, tanto saggia e pia, le ha dimostrato che quella promessa è una fisima,<br />

insomma un’idea sbagliata… Ma Lucia ribatte che la madre non si è mai sognata<br />

di dirle una cosa simile, perché ella sa benissimo che le promesse fatte a Dio e alla<br />

Madonna si devono rispettare molto più di quelle fatte agli uomini. Allora il<br />

giovane, non avendo altri argomenti e non sapendo a che santo appellarsi,<br />

sentenzia con aria di sufficienza: “Voi altre donne queste cose non le potete<br />

sapere.” E aggiunge che andrà a riferire la cosa al padre Cristoforo, il quale lo<br />

aveva appunto pregato di tornare da lui a <strong>com</strong>unicargli il risultato della sua<br />

ricerca. Lucia approva, mostrandosi sicura che il frate gli farà capire la ragione, in<br />

modo che lui possa finalmente convincersi a mettersi il cuore in pace. Non<br />

l’avesse mai detto! A questo invito a mettere il cuore in pace, Renzo si accende e<br />

si lascia andare a una sfuriata molto simile a quella che aveva indotto la poverina<br />

al matrimonio clandestino. Sono parole di fuoco, minacce terribili, volutamente<br />

226


esagerate. Infatti, per quanto sconvolto e realmente sdegnato per quell’invito, il<br />

giovane <strong>com</strong>prendeva benissimo che quello era l’ultimo mezzo con cui poteva<br />

vincere l’animo di Lucia, così sensibile e impressionabile, e cercò quindi di<br />

sfruttare questa debolezza della ragazza, per un calcolo interessato anche se non<br />

premeditato, perché furono in verità le parole di lei che lo fecero montare sulle<br />

furie.<br />

Renzo è realmente sdegnato, e quasi furioso, ma non ha perduto del tutto il<br />

controllo di sé stesso, tanto è vero che, non ostante l’ira, dà <strong>com</strong>e sempre del<br />

“voi” alla ragazza, in segno di grande rispetto. Ma sentiamo direttamente le sue<br />

parole, per vedere con quanta efficacia egli si lamenta della durezza di cuore<br />

dell’ex-fidanzata: <strong>“I</strong>l cuore in pace! Oh! questo , levatevelo dalla testa. Già me<br />

l’avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m’ha fatto patire; e ora<br />

avete anche il cuore di dirmela.” Poi minaccia cose terribili e indeterminate, per<br />

intimidire la ragazza: “E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio,<br />

non lo riacquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete<br />

condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato viverò…” Quindi<br />

la perorazione finale, patetica, appassionata; in cui Renzo vuol apparire la vittima<br />

innocente, ingiustamente sacrificata, per una parola, per una promessa senza<br />

costrutto! “Cosa v’ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perché ho patito, mi<br />

trattate così? Perché ho avuto delle disgrazie? Perché la gente del mondo m’ha<br />

perseguitato? Perché ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi?<br />

perché, al primo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?”<br />

Sono parole sincere, anche se un po’ esagerate; accenti pieni di crucci e di<br />

passione; ma il rimprovero mosso a Lucia è molto ingiusto, e Renzo lo sa; ma lui<br />

non misura davvero i termini, pur di spezzare la resistenza di lei, anche a costo di<br />

farla soffrire. La poverina non rispondeva che con il pianto a quelle parole<br />

veementi, che avrebbero spezzato il cuore anche a una ragazza non innamorata<br />

<strong>com</strong>e lei; e quando poté formare delle parole, invocò innanzi tutto la Vergine,<br />

perché sentiva il bisogno di tutto il suo aiuto: “Voi sapete che, dopo quella notte,<br />

un momento <strong>com</strong>e questo non l’ho mai passato. M’avete soccorsa allora;<br />

soccorretemi anche adesso.” Renzo, pur vedendola piangere, non la smette, non<br />

desiste; anzi, vedendo che le sue parole hanno in un certo senso fatto breccia nel<br />

cuore di lei, insiste su quel tono, con una certa crudeltà mentale, diventando quasi<br />

provocante; infatti mette in dubbio la sua sincerità: “Se poi questa fosse una<br />

scusa; se è ch’io vi sia venuto in odio… ditemelo… parlate chiaro.” Povera<br />

Lucia! Peggiore trafittura non poteva ricevere dal suo amato; e giunge a<br />

supplicarlo, con gli occhi inondati di lagrime: “Per carità, Renzo, per carità, per i<br />

vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire… Non sarebbe un buon<br />

momento. Andate dal padre Cristoforo, rac<strong>com</strong>andatemi a lui, non tornate più qui,<br />

non tornate più qui”. Il giovane a queste ultime parole <strong>com</strong>prende che Lucia, pur<br />

turbata e <strong>com</strong>mossa, pur innamorata ancora, non tradirà mai il suo voto; perché si<br />

decida a venir meno a quella promessa, occorre un intervento autorevole,<br />

un’autorità religiosa. Renzo pensa subito al padre, e risponde che andrà a riferire<br />

tutto al buon frate, ma poi tornerà, di sicuro. Partito Renzo, la povera ragazza,<br />

227


spossata e sconvolta, “andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto<br />

al lettuccio”, piangendo senza ritegno, per dare un po’ di sfogo all’angoscia che<br />

l’opprimeva.<br />

La <strong>com</strong>pagna, che fino allora aveva ascoltato senza fiatare, cercò di<br />

consolarla, e le chiese il motivo di tutto quel pianto. Era costei una ricca<br />

mercantessa, di circa trent’anni, che aveva perduto nella peste il marito e i figli;<br />

ammalatasi anche lei, era stata portata al lazzaretto, dove era stata messa nella<br />

stessa capanna di Lucia, la quale era ormai fuori pericolo, e così poté curarla e<br />

farle <strong>com</strong>pagnia, mentre anche lei superava la crisi e si avviava alla guarigione.<br />

Appunto per rimanere con lei, a cui si era molto affezionata, Lucia non era voluta<br />

uscire quel giorno dal lazzaretto assieme con i guariti; infatti avevano promesso di<br />

non uscire se non insieme; e la brava signora voleva assolutamente che Lucia<br />

rimanesse sempre con lei, nella sua casa ben fornita, ora che non aveva altre<br />

persone care. La ragazza aveva acconsentito, con senso di riconoscenza, perché le<br />

sembrava che non potesse trovare un migliore ricovero che l’abitazione di quella<br />

buona vedova, almeno finché non avesse potuto avere notizie della madre, onde<br />

poterne conoscere la volontà circa la sua sistemazione definitiva. Tra le due donne<br />

era nata, nel dolore e nel bisogno, una tenera amicizia e una grande reciproca<br />

fiducia, favorita anche dall’età non molto diversa. Ordunque, alle amorevoli<br />

parole di costei, Lucia si calmò alquanto e, “stretta con tutt’e due le mani la destra<br />

di lei, si mise subito a soddisfare alla domanda, senz’altro ritegno, che quello che<br />

le facevano i singhiozzi”. Quello sfogo fece tanto bene alla poverina, perché<br />

nell’amicizia anche ricordare i dolori è un sollievo.<br />

Intanto Renzo a passi affrettati andava alla ricerca di padre Cristoforo, che<br />

costituiva ormai la sua ultima risorsa, perché solo lui avrebbe potuto convincere<br />

Lucia. Finalmente lo trovò che stava assistendo un moribondo; attese in disparte,<br />

con impazienza, e quando il frate si fu rialzato, dopo aver chiusi gli occhi di quel<br />

poveretto, gli andò incontro tutto emozionato, dicendo che l’aveva trovata, e per<br />

di più guarita, ma che c’era un’altra difficoltà; e si mise a esporre a suo modo il<br />

fatto del voto, cercando di influenzare il giudizio dell’ascoltatore: “Dice, che so<br />

io? Che, quella notte della paura, s’è scaldata la testa, e s’è, <strong>com</strong>e a dire, votata<br />

alla Madonna. Cose senza costrutto, n’è vero?... n’è vero che son cose che non<br />

valgono?” Ma il frate, nonostante l’ansia <strong>com</strong>prensibile del giovane, non vuole<br />

anticipare nessuna valutazione sulla validità del voto, prima di aver ascoltato<br />

l’interessata; e quindi prega Renzo di guidarlo da lei. Prima di avviarsi, entrò un<br />

momento nella sua capanna, per prendere la sporta con dentro il cofanetto<br />

contenente il “pane del perdono”, che voleva lasciare in ricordo a quella creatura<br />

eletta, la quale era stata per tanti anni sua figliola spirituale.<br />

Il tempo andava facendosi sempre più fosco: lampi fitti rompevano quel buio<br />

minaccioso, seguiti da tuoni paurosi, che scoppiavano con strepito lacerante.<br />

Renzo, per quanto impaziente d’arrivare, misurava il proprio passo su quello del<br />

<strong>com</strong>pagno che, “stanco dalle fatiche, aggravato dal male, oppresso dall’afa,<br />

camminava stentatamente”, sentendosi quasi mancare il respiro. Finalmente<br />

arrivano alla capanna delle due donne. Dopo i primi affettuosi saluti il frate, tirata<br />

228


in disparte Lucia, le chiese se voleva confidarsi a lui, <strong>com</strong>e un tempo; e avendo<br />

quella risposto di sì con trasporto, perché lui era sempre il suo buon Padre, le<br />

chiese <strong>com</strong>e fosse andata la faccenda del voto. Al che la ragazza riferì con tutta<br />

sincerità in che modo e in quali circostanze avesse fatto quella promessa alla<br />

Madonna, mettendo in rilievo <strong>com</strong>e l’avesse fatta liberamente e in piena<br />

coscienza. Il frate, dopo aver ascoltato e valutato tutto attentamente, le chiese se<br />

nel momento del voto aveva riflettuto che era già legata da una promessa, di<br />

sposarsi con Renzo. Avendo colei risposto che non ci aveva pensato, “trattandosi<br />

del Signore e della Madonna”, le fece osservare che lei non poteva legare, con la<br />

sua, anche la volontà di un altro, al quale era obbligata da una promessa<br />

precedente. Allora l’angelica fanciulla chiese preoccupata se avesse fatto male,<br />

ma il buon Padre la rassicurò, aggiungendo che certamente la Vergine aveva<br />

gradito la sua buona intenzione, l’offerta di un cuore devoto; però il voto, <strong>com</strong>e<br />

tale, non aveva valore; per cui, se non c’erano altri motivi, lui poteva restituirle la<br />

piena libertà dall’obbligo contratto con quella promessa. E sic<strong>com</strong>e la ragazza<br />

esitava, non perché ci fossero altri motivi che le impedissero di sposare Renzo, ma<br />

perché era ancora presa quasi da un senso di colpa nell’abbandonare quel voto, fra<br />

Cristoforo, che la capiva, le fece coraggio, dicendo che “Dio ha data alla sua<br />

Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere”, che questa autorità era stata dal<br />

Cardinale delegata, nel lazzaretto, ad essi frati, e che quindi poteva, per mandato<br />

divino, scioglierla da quel voto fatto senza riflettere: anzi desiderava che lei glielo<br />

chiedesse.<br />

Lucia allora, “con un volto non turbato più che di pudore”, disse che, sì, lo<br />

chiedeva con tutto il cuore; e il Padre, chiamato il giovane, il quale intanto era<br />

rimasto in disparte e in un dubbio angoscioso, disse a voce alta, rivolta a Lucia,<br />

che la dichiarava sciolta dal voto di verginità, in base all’autorità ricevuta dalla<br />

santa Chiesa. Pensate alla gioia di Renzo! Ringraziò con gli occhi il buon frate,<br />

suo rifugio e sua speranza, e “cercò subito, ma invano, quelli di Lucia”, che li<br />

teneva bassi, sopraffatta dall’irrompere dei sentimenti di un tempo, i quali le<br />

davano un’emozione troppo forte, facendola quasi tremare. Fra Cristoforo,<br />

<strong>com</strong>prendendo il suo stato d’animo, la incoraggiò con amorevoli e paterne parole:<br />

“Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri di una volta, chiedete di nuovo al<br />

Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie santa”. Quindi, rivolto<br />

al giovane, lo ammonì dolcemente: “Ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende<br />

questa <strong>com</strong>pagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e<br />

mondana… ma per avviarvi tutt’e due sulla strada della consolazione che non avrà<br />

fine… Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’istillar<br />

loro l’amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto”.<br />

Quindi, dopo aver rac<strong>com</strong>andato di pregare ambedue per il loro persecutore, che<br />

aveva tanto bisogno della misericordia di Dio, diede a Lucia la cassettina di legno<br />

lucido, nella quale era conservato un pezzo del “pane del perdono”, dicendo con<br />

tono <strong>com</strong>mosso: “Lo lascio a voi altri; serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli.<br />

Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo ai superbi e ai<br />

provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!” Lucia con<br />

229


grande venerazione, quasi fosse una reliquia, ricevette il cofanetto dalle mani del<br />

frate, il quale poi con paterna premura s’informò se ella avesse in Milano degli<br />

appoggi, per quando sarebbe uscita dal lazzaretto. La ragazza lo rassicurò,<br />

dicendo che quella buona vedova, che era lì con lei, l’avrebbe presa con sé, nella<br />

sua casa, finché non poteva tornare da sua madre. Il cappuccino lodò e benedisse<br />

la mercantessa, per la sua offerta di ospitalità, che era anche un’opera meritoria; e<br />

la donna, oltremodo contenta per la felice soluzione del dramma interiore<br />

dell’amica, disse che le avrebbe fatto lei il corredo di nozze, perché aveva in casa<br />

molta biancheria, mentre lei purtroppo era rimasta sola.<br />

Fra Cristoforo, ora che ha riportato la pace e la gioia nel cuore dei due<br />

giovani, non può più trattenersi: ha fretta di tornare dai suoi malati, che hanno<br />

tanto bisogno di lui; ha premura soprattutto per quel tale, che ha tanto bisogno del<br />

perdono di Dio. Si ac<strong>com</strong>iata perciò senza indugio da Renzo e da Lucia la quale,<br />

nel salutarlo, esclama intenerita: “Oh padre! La vedrò ancora? Io sono guarita, io<br />

che non fo nulla di bene a questo mondo; e lei!...” Ma il frate rispose con tono<br />

ispirato: “E’ già molto tempo che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di<br />

finire i miei giorni in servizio del prossimo”. Perciò, se otteneva ora questa<br />

bellissima grazia, tutti quelli che gli volevano bene dovevano aiutarlo a<br />

ringraziare Dio.<br />

Scambiati con Lucia gli ultimi saluti, misti di auguri, Renzo si allontanò<br />

assieme al Padre, il quale gli offrì di restare nella sua capanna per quella notte,<br />

dato che si annunciava imminente un gran temporale. Ma il giovane, desideroso di<br />

recare ad Agnese la grande notizia riguardante la figlia, e vedendo che il rimanere<br />

lì non gli sarebbe servito a nulla, perché non poteva stare né vicino alla fidanzata<br />

né in <strong>com</strong>pagnia del caro frate, che era sempre in giro tra i suoi malati, preferì<br />

partire subito. La minaccia del tempo non lo preoccupava affatto: ormai, avendo<br />

recuperata la sua Lucia, e sicuro del suo amore, si sentiva <strong>com</strong>e invulnerabile;<br />

nello stato euforico in cui si trovava allora “si può dire che notte e giorno, sole e<br />

pioggia, zeffiro e tramontano, eran tutt’uno per lui”. Congedandosi dal suo buon<br />

Padre, gli chiese tutto <strong>com</strong>mosso: “Oh caro padre…! Ci rivedremo? Ci<br />

rivedremo?” – “Lassù, spero” – rispose con uno stanco sorriso il Cappuccino,<br />

alzando gli occhi al cielo; quindi tornò sollecito alla sua inesausta opera di carità a<br />

pro degli ammalati.<br />

230


CAPITOLO XXXVII<br />

Distaccatosi dal frate, Renzo si avviò alacremente verso l’uscita del lazzaretto;<br />

ma ne aveva attraversata appena la porta, che <strong>com</strong>inciarono a cadere con violenza<br />

dei grossi goccioloni, che sollevavano un fitto polverio dalla superficie della<br />

strada, arida e farinosa per la lunga siccità. I goccioloni, prima radi, infittirono<br />

sempre più, finché divennero una pioggia scrosciante; in breve l’acqua venne giù<br />

a rovesci: sembrava proprio che si fossero aperte a un tratto tutte le cateratte del<br />

cielo. Ma la terra inaridita beveva quasi con voluttà l’acqua celeste: in poco tempo<br />

la campagna, prima polverosa e scialba, apparve <strong>com</strong>e ravvivata, quasi fosse stata<br />

riverniciata a nuovo, se ci si passa l’immagine; e anche per questo Renzo “se la<br />

godeva in quella rinfrescata, in quel sussurrio, in quel brulichio dell’erbe e delle<br />

foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre”. Si sarebbe rallegrato ancor di<br />

più, se avesse potuto prevedere che quel violento acquazzone di fine agosto<br />

avrebbe spazzato via il contagio, e che una settimana dopo la situazione sanitaria<br />

della città e di tutto il Ducato sarebbe stata affatto diversa; che avrebbe<br />

ri<strong>com</strong>inciato a pulsare la vita e l’attività degli uomini, ormai liberati da<br />

quell’incubo mortale e riconciliati con la gioia e la fiducia, da tanto tempo bandite<br />

dalla terra. Andava dunque avanti, il nostro giovane, sguazzando allegramente<br />

nell’acqua, che ormai lo aveva inzuppato <strong>com</strong>pletamente, facendo tutt’uno con la<br />

sua persona e dando al suo corpo <strong>com</strong>e un solletico tonificante e inebriante; tanta<br />

era la sua felicità interiore, che si sentiva <strong>com</strong>e rigenerato alla vita, e quella fresca<br />

doccia celeste gli dava una sensazione infinitamente piacevole.<br />

Non aveva fatto alcun disegno né su dove né su quando fermarsi; quello che<br />

gli premeva era di avvicinarsi quanto più al suo paese, e magari di raggiungerlo<br />

tutto in una tirata, se le gambe reggevano allo sforzo; ormai non vedeva l’ora di<br />

poter correre a Pasturo, a trovare quella buona Agnese, per parteciparle la duplice<br />

buona notizia, e della guarigione e dello scioglimento del voto. Chi sa <strong>com</strong>e<br />

sarebbe rimasta contenta la brava donna!<br />

Ripercorrendo la strada, per la quale era passato quello stesso mattino o il<br />

giorno prima, ripensava al suo stato d’animo di quando stava andando verso<br />

Milano, oppresso da tanti dubbi assillanti, sul <strong>com</strong>e e sul dove trovarla, su <strong>com</strong>e<br />

l’avrebbe trovata, se pure l’avesse trovata! Eppure l’aveva trovata! Riandava col<br />

pensiero e con la fantasia al suo itinerario milanese, al momento in cui aveva<br />

picchiato al palazzo di don Ferrante, a quella risposta così amara e così sgarbata: è<br />

stata portata al lazzaretto! <strong>com</strong>e? quando? mah! Eppure l’aveva trovata! Rivedeva<br />

nella fantasia il lazzaretto, quell’immenso ospizio di dolore e di morte: doverla<br />

cercare in mezzo a quella marea di ammalati, di moribondi! Era <strong>com</strong>e voler<br />

cercare un ago in un pagliaio! Eppure l’aveva trovata: viva, in mezzo a tanti morti,<br />

anzi guarita, che era la cosa più importante! E ricostruiva nell’immaginazione<br />

tutta la scena: vederla in piedi, già fuori pericolo! E quella voce! Ma c’era<br />

l’imbroglio del voto: che serviva averla trovata, se lei era legata dalla promessa<br />

231


alla Madonna? Ebbene, tolto anche quell’ostacolo, in quattro e quattr’otto, grazie<br />

all’intervento del caro Padre! Ora potevano finalmente sposarsi, e subito! La sua<br />

felicità era al colmo: tra poco Lucia sarebbe stata sua, sua per sempre;<br />

metterebbero su casa (e la grazia di Dio non mancava, con quei bei cinquanta<br />

scudi che portava addosso!), formerebbero una famiglia cristiana, avrebbero dei<br />

figli! Solo delle lievi ombre turbavano quella felicità sconfinata: “l’incertezza<br />

intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel<br />

trovarsi ancora in mezzo a una peste”. Ma il contagio doveva pur finire, l’attività<br />

doveva pur ri<strong>com</strong>inciare!<br />

Arrivato a Sesto sul far della sera, decise di proseguire, sentendosi ancora in<br />

forza nelle gambe; solo avvertiva un certo languore di stomaco, avendo mangiato<br />

solo quella poca minestra offerta dal frate; cercato dunque un forno, <strong>com</strong>prò due<br />

pani, di cui uno fu divorato lì per lì, in un battibaleno. E subito riprese la sua<br />

strada. Giunse a Monza che era già notte fatta, ma riuscì lo stesso a trovare la<br />

strada giusta, e proseguì al fioco barlume notturno, non sbagliando mai, ai vari<br />

bivi e crocicchi, pur andando così a lume di naso: la fortuna, dopo avergli fatto il<br />

viso brusco per tanti anni, aveva decisamente <strong>com</strong>inciato a proteggerlo! Dopo<br />

aver dunque camminato ininterrottamente per tutta la notte, all’alba arrivò alla sua<br />

Adda, e alla luce lattiginosa del mattino scorse con emozione i suoi monti, il<br />

Resegone, il territorio di Lecco, il suo paese! Si sentiva tutto fiero della sua bella<br />

impresa; si sentiva <strong>com</strong>e un vincitore, un dominatore. A mirare quel paesaggio<br />

familiare, con quello stato d’animo così euforico, gli sembrava che fosse<br />

“diventato tutto <strong>com</strong>e roba sua”; si sentiva lui il padrone, il redivivo: sensazione<br />

più che giustificata in chi, neppure due anni prima, era dovuto fuggire davanti<br />

all’iniquo potente, ed era dovuto rimanere per tanto tempo lontano, ramingo e<br />

perseguitato. Era soddisfatto anche perché finalmente aveva deposto quel fiero<br />

odio contro don Rodrigo, quel sentimento tutt’altro che cristiano: ora gli aveva<br />

perdonato davvero, di tutto cuore, e si sentiva in pace con la propria coscienza;<br />

mentre prima – ora lo riconosceva – non gli aveva mai perdonato sul serio,<br />

conservando in fondo al cuore quella tal ruggine che lo teneva in uno stato di<br />

continua agitazione.<br />

Ormai la pioggia battente era cessata, e veniva giù solo un’acquerugiola fitta e<br />

leggera. Renzo ogni tanto si guardava addosso, sorridendo, vedendo <strong>com</strong>’era<br />

conciato, <strong>com</strong>e sembrava buffo e lercio ai suoi stessi occhi: “dalla testa alla vita,<br />

tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta dei piedi, melletta e mota”.<br />

La brezzolina dell’alba, aggiunta al fresco della notte, gli mise nelle membra<br />

nuovo vigore, e si mise a camminar più in fretta, anche per scaldarsi un poco.<br />

Passa il ponte di Lecco, sale per le sue colline, ovattate da una nebbiolina leggera,<br />

e in breve giunge alla casa dell’amico, il quale da poco si era alzato e stava<br />

sull’uscio a guardare il tempo che si stava rimettendo: le nuvole diventavano<br />

sempre più rade, quasi diafane per il chiarore che cresceva da oriente. Egli si<br />

meravigliò molto nel vedere quella figura così infangata, quasi irriconoscibile: ”ai<br />

suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento”. Quando lo<br />

ravvisò, gli andò incontro con aria d’interrogazione.<br />

232


Renzo gli gridò subito la grande notizia: l’ho trovata! Guarita! Ci sposeremo<br />

al più presto, e tu dovrai fare da testimone alle nozze; e staremo allegri, dobbiamo<br />

fare una bella festa, a dispetto di tutti i guai che abbiam passati! L’amico si<br />

rallegrò con lui sinceramente; e aggiunse che avrebbe acceso immediatamente un<br />

buon fuoco, per farlo asciugare, poiché era fradicio mézzo, e in verità avrebbe<br />

potuto adoperare l’acqua che portava dalla testa alla vita, per lavare le zacchere di<br />

cui era cosparso dalla vita ai piedi. Ridendo di gusto alle scherzose parole<br />

dell’ospite, Renzo <strong>com</strong>inciò a liberarsi da quei panni molli, che gli si erano<br />

appiccicati addosso, a <strong>com</strong>inciare dal cappello, il quale era diventato ormai<br />

inservibile, sicché il giovane lo gettò a terra allegramente. Dovendo cambiarsi da<br />

capo a piedi, pregò l’ospite di prendergli quell’involto di panni che gli aveva<br />

lasciato due giorni prima; e davanti alla bella fiamma che crepitava sul focolare,<br />

dopo essersi asciugato ben bene, si rivestì con la roba asciutta e pulita, che faceva<br />

tutt’altra figura. Intanto l’amico si era messo a preparare da mangiare, per<br />

rifocillarlo, avendo notato che ne aveva proprio bisogno, dopo quella bella<br />

scarpinata e dopo tante snervanti emozioni. E mentre colui approntava il desinare,<br />

Renzo gli faceva il resoconto del suo avventuroso viaggio, disordinatamente,<br />

saltando di palo in frasca, ri<strong>com</strong>inciando ora da un punto ora da un altro, perché la<br />

troppa gioia non gli permetteva di seguire né il filo cronologico né quello logico.<br />

Il suo racconto era piuttosto un seguito di esclamazioni, e sul lazzaretto e su<br />

Milano e sulla peste: ”Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le<br />

cose che bisogna toccare! Cose da farsi schifo a sé medesimo”. Ma il tono era<br />

prevalentemente allegro e scherzoso; circa le cose schifose che aveva dovuto<br />

vedere e toccare, concluse con una battuta: “Sto per dire che non ci voleva meno<br />

di quel bucatino che ho avuto”.<br />

Per quella giornata rimase presso l’ospite, e perché era assai stanco (ora se<br />

n’accorgeva!) e perché continuava a piovigginare, anche se a tratti. Per passare il<br />

tempo, l’amico si mise a eseguire dei lavoretti in preparazione della vendemmia, e<br />

Renzo lo aiutò con piacere, continuando a narrargli or l’uno or l’altro episodio,<br />

senza mai stancarsi, per tutta la giornata. Il giorno dopo si alzò presto, e vedendo<br />

che la pioggia era cessata, si mise subito in cammino, diretto a Pasturo. Ci arrivò<br />

prima di mezzodì, e chiese di Agnese Mondella; apprese con grande gioia che era<br />

viva, e si fece indicare dove abitava. Era una casetta fuori del paese, isolata,<br />

proprio l’ideale per stare lontano dal contagio; e infatti era rimasta finora immune<br />

dalla peste, la nostra Agnese. Renzo la chiamò dalla strada, e quando la donna si<br />

fu affacciata alla finestra, le diede tutte in una volta le grandi notizie di cui era<br />

latore, mentre quella rimaneva estatica e a bocca aperta. Riavutasi poi<br />

dall’emozione, disse che scendeva ad aprire; ma Renzo le chiese se aveva avuto la<br />

peste; avuta la risposta negativa, le rac<strong>com</strong>andò di stare riguardata e di non<br />

avvicinarglisi, perché lui l’aveva avuta, e per di più veniva dal bel mezzo del<br />

contagio, da quella Milano che era tutta <strong>com</strong>e un immenso lazzaretto. Per evitare<br />

ogni contatto, decisero che avrebbero parlato nell’orto, a debita distanza. E così<br />

fecero. Agnese, notando con quale disinvolta allegrezza e sicurezza il giovane<br />

parlava di metter su casa, di andare a vivere insieme, rimaneva perplessa e<br />

233


incredula, e alla fine si decise a chiedere chiarimenti circa il voto. Il giovane però<br />

non le fece nemmeno formulare la domanda: “Eh! Non c’è ma che tenga. So quel<br />

che volete dire; ma sentirete, sentirete, che dei ma non ce n’è più”. E le diede la<br />

notizia del padre Cristoforo, riferendo <strong>com</strong>e il sant’uomo avesse messo tutto in<br />

chiaro, sciogliendo Lucia dall’impegno contratto, impegno che non poteva valere,<br />

dato che lei aveva già dato promessa di matrimonio. Si dilungò quindi sui progetti<br />

dell’avvenire, insistendo sul fatto che si sarebbe andati tutti nel Bergamasco, a<br />

metter su casa in quel paese ospitale, dove potevano vivere un po’ tranquilli e<br />

felici, dopo tanto patire. Agnese, a sua volta, disse che, non appena fosse finito<br />

quel cattivo influsso, che doveva pur finire, tornerebbe a casa sua, ad aspettare<br />

l’arrivo della figlia e di quell’altra brava signora milanese, le quali sarebbero<br />

certamente venute non appena terminata la quarantena.<br />

Renzo non si trattenne molto presso la buona vedova, pur desiderandolo, dato<br />

che il conversare con lei del loro avvenire era un gran balsamo per il suo cuore; e<br />

poi lui, che non aveva la madre, la considerava proprio <strong>com</strong>e una seconda<br />

mamma, ed era da lei trattato <strong>com</strong>e figlio, da quando si era legato a Lucia. Perciò<br />

non voleva essere per lei di pericolo, rimanendole troppo tempo vicino, lui che era<br />

certamente portatore di contagio: temeva troppo per l’incolumità della persona<br />

che, dopo Lucia, era per lui più cara. Dopo la cordiale e ottimistica chiacchierata,<br />

il giovane ripartì con l’animo più sereno e, tornato al paese, <strong>com</strong>unicò all’ospite<br />

quest’altra consolante notizia, della buona salute di Agnese.<br />

Il giorno dopo si rimise in marcia, questa volta verso quel paese del<br />

Bergamasco, che ormai considerava sua patria d’elezione; trovò Bortolo in buona<br />

salute, e in minor timore di perderla, perché in quei pochi giorni che Renzo era<br />

stato assente, la mortalità in quel paese era a un tratto diminuita, essendo il morbo<br />

divenuto, per così dire, benigno. Una settimana ancora, e la mortalità cessò del<br />

tutto; quei pochi che s’ammalavano, non mostravano più “quei lividi mortali, né<br />

quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al<br />

più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava <strong>com</strong>e un fignolo ordinario”.<br />

Passata la gran paura, si ri<strong>com</strong>inciava a vivere, si riprendeva l’attività. Si<br />

ricercavano gli operai specializzati, particolarmente i filatori di seta, che erano<br />

stati scarsi anche prima della moria. Renzo, senza farsi troppo pregare, dato il<br />

debito di gratitudine che aveva con lui, promise a Bortolo di tornare a lavorare<br />

nella sua filanda, “salve però le debite approvazioni”, perché ormai, grazie a Dio,<br />

non era più solo: doveva sentire in proposito le sue donne, che presto sarebbero<br />

venute a star con lui. Pensate anche alla consolazione del buon Bortolo, nel vedere<br />

che gli affari di cuore del cugino si erano così felicemente risolti, e che egli<br />

sarebbe rimasto sempre con lui, accasandosi lì nella nuova patria. Renzo intanto<br />

era impegnato nei preparativi per le nozze: trovò una casa più grande di quella che<br />

aveva abitato da scapolo, la fornì di mobili e di tutto il necessario per una<br />

famiglia, e poté provvedere a tutto con una spesa relativamente piccola, perché,<br />

essendo molto diminuita la popolazione, l’offerta dei beni di consumo era<br />

ovviamente superiore alla domanda.<br />

234


Avendo preparato e ordinato ogni cosa per la futura vita in <strong>com</strong>une, Renzo<br />

tornò a Pasturo presso Agnese; e sic<strong>com</strong>e anche nel territorio di Lecco il morbo<br />

era s<strong>com</strong>parso o divenuto benigno, riportò lui stesso la buona donna al paese,<br />

nella sua casetta, che trovarono per vera fortuna intatta, così <strong>com</strong>’era stata<br />

lasciata, sicché lei andava ripetendo che vi “avevan fatto la guardia gli angioli”.<br />

La buona donna <strong>com</strong>inciò subito i preparativi per ospitare degnamente la<br />

mercantessa, che le avrebbe riac<strong>com</strong>pagnato la figlia a casa. Renzo, che sapeva<br />

fare due mestieri, aveva momentaneamente ripreso quello di contadino, e ora<br />

aiutava l’ospite nei lavori di campagna, ora dissodava l’orto della cara Agnese,<br />

per rendere la casa più bella e accogliente, in vista dell’arrivo delle milanesi. ”In<br />

quanto al suo proprio podere – dice il Manzoni – non se n’occupava punto,<br />

dicendo ch’era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia<br />

a ravviarla”. Del bando non se ne curava, sapendo che ormai, non essendoci più<br />

né don Rodrigo né il Podestà, i soli che avrebbero potuto o voluto metterlo in atto,<br />

esso decadeva da sé, anche perché i birri erano morti quasi tutti, e i pochi<br />

sopravvissuti non avrebbero preso nessuna iniziativa senza una spinta dall’alto.<br />

Allora così andavano le cose: tutto si faceva per sollecitazioni interessate, senza le<br />

quali ogni provvedimento rimaneva lettera morta; qualche maligno potrebbe<br />

osservare che anche oggi le cose, in certi campi, non sono affatto cambiate. E con<br />

don Abbondio <strong>com</strong>e se la passava il nostro Renzo? Si ignoravano a vicenda:<br />

“stavano alla larga l’uno dall’altro”. Il curato temeva che gli fosse di nuovo<br />

chiesto di fare quel tal matrimonio, che gli era stato proibito due anni prima, e a<br />

questa prospettiva “si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, coi<br />

suoi bravi, il Cardinale dall’altra, coi suoi argomenti”. Il giovane, per parte sua, lo<br />

scansava perché, non essendo stato ancora deciso niente circa la celebrazione<br />

delle nozze, non voleva metterlo in sospetto prima del tempo, rischiando di<br />

<strong>com</strong>plicare inutilmente le cose: quando fosse venuto il momento, si vedrebbe.<br />

Lucia intanto era uscita dal lazzaretto assieme alla buona vedova la quale,<br />

essendo sorella di un <strong>com</strong>missario di Sanità, aveva ottenuto in via del tutto<br />

eccezionale di poter trascorrere la prescritta quarantena in casa propria, con la cara<br />

Lucia, alla quale sin dai primi giorni <strong>com</strong>inciò a preparare il corredo, <strong>com</strong>e aveva<br />

promesso. La ragazza le fece alquanta resistenza in questo suo proposito, dicendo<br />

che non doveva privarsi di tutta quella bella roba, la quale le poteva sempre<br />

tornare utile, in futuro, ma la mercantessa fu irremovibile, e Lucia, profondamente<br />

grata, si mise anche lei a lavorare intorno al proprio corredo, pensate con che<br />

emozione. Era il secondo corredo che veniva preparato per lei: il primo, opera in<br />

gran parte delle mani materne, se l’erano portato via i lanzichenecchi, e chi sa<br />

dov’era andato a finire; al posto di quello, la Provvidenza aveva mandato<br />

quest’altro, da parte di una persona da cui nessuno se lo sarebbe aspettato. Le vie<br />

della Provvidenza sono davvero mirabili e infinite!<br />

Parlando ormai con la massima confidenza con la signora, Lucia le raccontò<br />

senza più alcun ritegno tutte le sue disavventure, tra cui il rapimento avvenuto<br />

mentr’era ricoverata nel monastero di Monza, sotto la protezione di Gertrude.<br />

Allora seppe dall’amica – e il fatto la colpì profondamente – “che la sciagurata,<br />

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caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del Cardinale,<br />

trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi,<br />

s’era ravveduta, s’era accusata”, e aveva <strong>com</strong>inciato una vita d’aspra penitenza.<br />

Quest’ultima notizia la rincorò alquanto, temperando il sentimento di “dolorosa e<br />

paurosa meraviglia” che l’aveva colta al primo annuncio di una cosa così<br />

inaspettata, la quale le fece intuire che il suo rapimento non era stato fortuito, ma<br />

voluto dalla monaca.<br />

Il padre Cristoforo intanto era morto; Lucia aveva saputo la triste notizia<br />

prima di uscire dal lazzaretto, provandone “più dolore che meraviglia”, perché<br />

purtroppo la prevedeva, per quello che lei stessa aveva potuto vedere. Si informò<br />

anche della sorte dei signori che l’avevano ospitata, essendo sua intenzione, se<br />

erano ancora in vita, di far loro una visita di ringraziamento, prima di lasciare<br />

Milano; ma purtroppo erano morti tutt’e due. “Di donna Prassede, quando si dice<br />

che era morta, è detto tutto”, ammette l’Autore, lasciando trasparire l’antipatia che<br />

il personaggio ha suscitato anche in lui, oltre che nei lettori; ma intorno a don<br />

Ferrante, a questo don Chisciotte della scienza fasulla del Seicento, il Manzoni<br />

spende un po’ di parole. Infatti, nonostante la sua infatuazione pseudo-scientifica,<br />

l’uomo non è affatto antipatico, anzi per certi aspetti ci appare decisamente<br />

simpatico; per esempio, nella sua volontà d’indipendenza dalla tirannica moglie.<br />

Aristotelico convinto, sostenne sino all’ultimo, contro l’evidenza dei fatti, che il<br />

contagio non esisteva; e mantenne il suo assunto “non già con schiamazzi, <strong>com</strong>e il<br />

popolo, ma con ragionamenti”. Erano ragionamenti scolastici, basati su sillogismi<br />

campati in aria, i quali si risolvevano in veri e propri sofismi, miranti al<br />

dimostrare che il contagio, non potendo essere né “sostanza” né “accidente” 11 ,<br />

non esisteva. E fin qui don Ferrante trovava orecchi attenti e animi docili di<br />

ascoltatori, perché – osserva con fine ironia il Manzoni – “non si può spiegare<br />

quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare<br />

agli altri le cose di cui sono già persuasi”. E la gente era persuasa, tenacemente<br />

persuasa, per malinteso interesse, che il contagio non esisteva. Ma allorché il<br />

letterato non negava “che ci fosse un male terribile e generale”, e ne indicava la<br />

causa in “quella fatale congiunzione di Saturno con Giove”, allora il sottile<br />

dialettico non trovava più orecchie attente, ma lingue polemiche, che non gli<br />

permettevano più di dissertare con tanta autorevolezza, ma lo contraddicevano<br />

quasi a ogni proposizione, perché anche loro avevano le loro particolari idee in<br />

proposito, né c’è da meravigliarsi: “quot capita, tot sententiae” 12 . Ma don Ferrante<br />

non disarmava, non cedeva d’un millimetro, non cambiava opinione né tanto né<br />

poco: era un dotto serio e coerente con sé stesso, lui. E se la rideva dei medici e<br />

delle loro inutili prescrizioni, dei loro insulsi divieti; infatti, che cosa potevano<br />

quei palliativi contro gl’influssi malefici dei pianeti? Contro gli oppositori<br />

s’infervorava, usando or l’ironia or il sarcasmo: “E lor signori mi vorranno negar<br />

11 Termini della filosofia medievale, secondo la quale ogni cosa esistente doveva essere o sostanza<br />

(che esiste in sé) o accidente (che può esistere o no presso una sostanza).<br />

12 = quante sono le teste, tanti sono i pareri.<br />

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l’influenze? Mi negheranno che ci sia degli astri? O mi vorranno dire che stian<br />

lassù a far nulla, <strong>com</strong>e tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma<br />

quel che non mi può entrare, è di questi signori medici;… venirci a dire, con<br />

faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo<br />

schivare il contatto materiale dei corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale<br />

dei corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar dei cenci! Povera gente! Brucerete<br />

Giove? Brucerete Saturno?” Con assoluta coerenza con questa sua convinzione<br />

che la peste derivasse da un cattivo influsso celeste, contro il quale nulla può la<br />

scienza terrena, non prese alcuna precauzione contro il morbo, e caduto ammalato<br />

“andò a letto, a morire, <strong>com</strong>e un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle”.<br />

La sua vasta raccolta di libri eruditi, il fior fiore della produzione secentesca, andò<br />

naturalmente dispersa, e forse qualcuno di essi – osserva con un sorriso l’Autore -<br />

si può trovare in vendita, a vil prezzo, su qualche bancarella di libri usati. Chi<br />

l’avesse detto a don Ferrante, dotto bibliofilo, quando li raccoglieva con tanta<br />

cura!<br />

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238


239


CAPITOLO XXXVIII<br />

Una sera Agnese sentì fermarsi una carrozza davanti casa; immaginando chi<br />

era, corse tutta emozionata ad aprire: era proprio lei, la sua Lucia, con la buona<br />

signora! L’abbraccio fu caldo e prolungato, non privo di lagrime: erano ormai due<br />

anni che non si vedevano, e le tristi vicende trascorse li avevano fatti sembrare<br />

due secoli. Renzo, il quale passava gran parte della giornata presso la futura<br />

suocera, a quell’ora se n’era già andato, a pernottare dal suo amico. Il poveretto<br />

chi sa quanto stava in ansia per il ritardo della fidanzata; ed essendo solo sera, e<br />

non notte, ci meravigliamo davvero, secondo la nostra mentalità, che egli non<br />

venisse subito avvertito, tanto più in un villaggio, in cui le distanze tra casa e casa<br />

non potevano che essere molto modeste; ma il giovane non fu mandato a chiamare<br />

per quella riservatezza che allora dominava nei rapporti tra i fidanzati in genere, e<br />

tra i nostri due promessi in specie.<br />

Renzo dunque si reca a casa di Agnese il giorno seguente, di buon mattino,<br />

con l’intenzione di lamentarsi e insieme sfogarsi, con lei, di quel gran tardare di<br />

Lucia; immaginate voi che cosa provò e che cosa disse, quando se la vide davanti,<br />

non più pallida <strong>com</strong>e nel lazzaretto, ma rifiorita nella salute e nell’aspetto; le gote,<br />

di un bell’incarnato, divennero in quell’incontro di porpora, per il ben noto pudore<br />

della giovane. Le sue parole non furono molte, perché, nel suo verecondo riserbo,<br />

ella non riusciva mai ad esprimere tutto quello che sentiva in cuore; ma Renzo,<br />

che la conosceva da tempo, sapeva benissimo che cosa volessero significare<br />

quelle parole, semplici e magari usuali, ma che rivolte a lui, dalla sua bocca,<br />

avevano un altro tono e un senso così dolce! A questo proposito il Manzoni<br />

stabilisce un confronto: <strong>com</strong>e nei <strong>com</strong>plimenti che si ricevono bisogna togliere la<br />

tara, perché in genere essi sono volutamente esagerati, così alle parole di Lucia,<br />

sempre così modeste e controllate, bisognava saper aggiungere tutto l’ardore del<br />

sentimento interiore, che si avvertiva nel tono della voce soave e nell’espressione<br />

di tutto il viso, anche in quegli occhi abbassati per verecondia. E Renzo sapeva<br />

leggere in quegli occhi.<br />

Avviata la conversazione, Lucia <strong>com</strong>unicò con visibile <strong>com</strong>mozione la morte<br />

del padre Cristoforo, vittima della carità; e la notizia rattristò anche Agnese e<br />

Renzo, il quale doveva tanto al buon frate, specie per lo scioglimento del voto; ma<br />

si consolarono pensando che egli ormai godeva il meritato premio nel regno della<br />

pace celeste. Ma qualunque argomento si toccasse, anche se triste, per il nostro<br />

giovane erano note dolci e soavi ormai; egli tutto vedeva ora in una luce rosea, e<br />

gli sembrava che il tempo volasse accanto alla sua Lucia: “prima i minuti gli<br />

parevan ore, ora l’ore gli parevan minuti”. Dopo qualche ora di piacevole<br />

conversazione, alla quale anche la mercantessa partecipava con interesse, Renzo si<br />

distaccò malvolentieri dalla <strong>com</strong>pagnia, perché doveva andare dal curato, per<br />

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parlare questa volta delle nozze, ché era venuta l’ora di parlare chiaro e forte, ora<br />

che la sposa era pronta. Dopo i saluti, ricambiati da don Abbondio con poco<br />

calore, il giovane esordì: “con un certo fare tra burlesco e rispettoso: - Signor<br />

curato, le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci<br />

maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia di<br />

<strong>com</strong>odo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto.-” Don Abbondio non<br />

rifiutò, ma portò diverse scuse, e specialmente che non era prudente, con quella<br />

catturaccia addosso, celebrare il matrimonio nel suo paese, mentre poteva<br />

benissimo far tutto altrove, evitando ogni rischio. Renzo capì subito che il curato<br />

aveva ancora un po’ di quel mal di testa di due anni prima, per quella maledetta<br />

paura di don Rodrigo; gli descrisse perciò in che stato lo aveva trovato nel<br />

lazzaretto, dicendosi sicuro che era morto, in quelle condizioni disperate. L’altro,<br />

per dissimulare la sua pusillanimità, disse che quel tale non c’entrava affatto nella<br />

faccenda delle nozze; mentre era proprio quello il canchero che lo rodeva, e non<br />

lo faceva essere lui: l’incertezza sulla fine del signorotto. Tant’è vero che poco<br />

dopo si scoprì, affermando che sulla sorte dei malati non si può dire mai niente,<br />

perché finché c’è vita c’è speranza; e aggiunse, a mo’ d’esempio, che anche lui<br />

era stato più di là che di qua, eppure era guarito, pur essendo “una conca fessa”,<br />

un vecchio decrepito; figuriamoci poi certi giovani, pieni di vitalità…<br />

Renzo, capita l’antifona, “per non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il<br />

rispetto”, pensò bene di andarsene, strisciandogli “una bella riverenza”, e e tornò<br />

dalle donne a fare la sua relazione. La mercantessa, che era di carattere allegro e<br />

di umore socievole, propose di andare a provare loro donne, nel pomeriggio,<br />

perché aveva una grande curiosità di conoscerlo, questo parroco, per vedere se era<br />

proprio così vile. Poi con bel garbo, e con fine intenzione, pregò lo sposo di<br />

ac<strong>com</strong>pagnare lei e Lucia a passeggio, per conoscere un po’ quei bei posti in riva<br />

al lago, di cui aveva tanto sentito parlare. Il giovane ben volentieri le condusse in<br />

un lungo giro, <strong>com</strong>inciando dalla casa del suo ospite, che invitarono a mangiare<br />

con loro sia quel giorno, particolarmente festivo, sia possibilmente anche nei<br />

successivi, sino alla loro partenza dal paese.<br />

Dopo pranzo le donne, massime le due vedove, si misero d’accordo sul modo<br />

migliore “di prender don Abbondio; e finalmente andarono all’assalto”; mentre<br />

Renzo, senza rivelar nulla ad esse, si avviò al palazzotto di don Rodrigo, perché<br />

era convinto che lì si dovesse saper qualcosa di preciso sul padrone, se era morto<br />

o per caso guarito. E seppe infatti che era già arrivato l’erede, un certo marchese<br />

X, e la notizia gli fu confermata da Ambrogio il sagrestano, che era stato appunto<br />

al palazzotto, per certi servizi, e lo aveva visto, questo marchese, disporre e<br />

riordinare ogni cosa, farla insomma da padrone. Renzo, ben conoscendo<br />

l’incredulità del curato, che in certe cose era più sofistico dell’apostolo Tommaso,<br />

pregò il sagrestano di andare con lui alla canonica, per confermargli la (per loro)<br />

fausta notizia. Ambrogio acconsentì volentieri.<br />

Intanto le nostre donne erano a colloquio con don Abbondio il quale, pur<br />

avendo capito, subito nel vederle venire <strong>com</strong>e in <strong>com</strong>missione, il motivo della<br />

visita, fece tuttavia finta di niente, e si mise a chiacchierare alla distesa di<br />

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tutt’altro, e della peste, e dei casi di Lucia, e di Agnese che se l’era passata liscia,<br />

e di altre fanfaluche. A sua volta la mercantessa, alla quale il curato fece gran<br />

<strong>com</strong>plimenti, parlò di Milano e del lazzaretto; e di argomento in argomento cercò<br />

di arrivare al punto che le premeva, aiutata in ciò da Agnese, che stava anch’essa<br />

alle velette. Ma don Abbondio era <strong>com</strong>e sordo da quell’orecchio; neppure ad esse<br />

disse di no, ma tirò in ballo le solite scuse, insinuando che era meglio far tutto là<br />

nel Bergamasco, che ormai poteva considerarsi la nuova patria degli sposi, e dove<br />

la cattura che pendeva su Renzo non aveva alcun effetto. Le due esperte vedove<br />

potevano bensì ribattere quelle ragioni con i loro argomenti, ma il curato<br />

imperterrito le rimetteva in campo, magari sotto altra forma. Si era a questa sterile<br />

schermaglia di parole, quando a un tratto “entra Renzo, con passo risoluto, e con<br />

una notizia in viso”; tutti si voltano ansiosi verso il nuovo venuto, per sapere la<br />

novità che annunziava il suo volto; e lui con aria solenne disse che era giunto al<br />

palazzo l’erede di don Rodrigo, e precisamente il signor marchese X; perciò non<br />

sussistevano più dubbi sulla morte del signorotto, per l’anima del quale lui aveva<br />

già pregato e ancora pregherebbe in avvenire.<br />

Don Abbondio, che conosceva per fama quel marchese <strong>com</strong>e una vera perla di<br />

galantuomo, rimase trasecolato, tanto la notizia gli sembrava bella e quasi<br />

incredibile; ma espresse subito il suo dubbio, ultimo stadio della sua paura: “Ma<br />

che sia proprio vero?...” Renzo, che si doveva aspettare quell’incredulità, da un<br />

simile uomo, chiamò allora il sagrestano, che aveva pregato di attendere lì fuori,<br />

<strong>com</strong>e abbiamo detto. Ambrogio, testimone oculare e fededegno, conferma al suo<br />

curato tutto ciò che Renzo ha detto, non lasciando adito neppure all’ombra di un<br />

minimo dubbio. Don Abbondio, finalmente sicuro della grande notizia, non sta<br />

più in sé per la gioia, e intona per così dire l’inno della vittoria e del trionfo,<br />

sfogando liberamente il suo livore, a lungo represso, per quel prepotente, che<br />

prima d’ora ha sempre definito “cavaliere rispettabile”; ora che è morto, e<br />

meriterebbe solo per questo un po’ di rispetto, il pavido prete non lo rispetta<br />

affatto, mostrando di non avere un briciolo di cristiana pietà. Adesso, liberato da<br />

quella specie di incubo, viene fuori il vero don Abbondio: loquace, scherzoso,<br />

perfino lezioso, e piuttosto volgaruccio. Adesso, infranto il gelo della paura, <strong>com</strong>e<br />

per incanto gli si scioglie in bocca la parlantina, la quale gli si era congelata lì da<br />

tanto tempo; ora il suo viso assume tutt’altra cera, essendo s<strong>com</strong>parsa quella<br />

mutria uggiosa che per lui non era affatto naturale, ma solo il prodotto della<br />

continua paura e insoddisfazione in cui viveva. Riporteremo soltanto alcune frasi<br />

del suo inno di liberazione, che ha certamente la dote della sincerità, ma non<br />

quella della pietà e della carità: “Oh! È morto dunque! È proprio andato! Vedete,<br />

figliuoli, se la Provvidenza arriva (=raggiunge) alla fine certa gente. Sapete che l’è<br />

una gran cosa! Un gran respiro per questo povero paese! Ché non ci si poteva<br />

vivere con colui… Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro,<br />

con quell’albagia, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la<br />

gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non<br />

c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’ambasciate ai galantuomini…”<br />

242


Come possiamo notare da questo squarcio significativo, e a tratti pittoresco, il<br />

nostro curato non si preoccupa affatto della sorte eterna di quel signore, in un<br />

certo senso suo parrocchiano, non parla di perdono o di preghiere o di suffragi, di<br />

cui ha pur parlato un semplice cristiano quale Renzo; il prete invece pensa solo<br />

egoisticamente, e con aria di rivalsa, che lui è vivo, mentre quello è, per grazia di<br />

Dio, crepato. Per don Abbondio la Provvidenza esiste soltanto per dare la caccia a<br />

coloro che danno fastidio a lui, non per aiutare i miseri e per salvare i peccatori. Il<br />

prepotente signorotto, morendo, ha ridato la vita a don Abbondio, il quale sembra<br />

gridargli, in tono trionfale: mors tua, vita mea! E mentre egli indugia con<br />

<strong>com</strong>piacenza in questo pensiero così poco sacerdotale, Renzo gli dà una lezione di<br />

carità cristiana, dicendo con semplicità: <strong>“I</strong>o gli ho perdonato di cuore”. Il parroco<br />

non arrossisce né si mostra mortificato, pur ammettendo che il giovane fa il suo<br />

dovere di cristiano; però aggiunge: “Ma si può anche ringraziare il cielo, che ce<br />

n’abbia liberati”.<br />

E ora che è stato liberato da colui, torna lui stesso sull’argomento delle nozze;<br />

non aspetta che i suoi interlocutori gli facciano una nuova richiesta, ma li<br />

previene, li supera nel tempo, brucia le tappe; ora tutte le difficoltà, tutte le ragioni<br />

di prudenza e di convenienza sono svanite, la cattura non esiste più! Sentiamolo,<br />

<strong>com</strong>’è sbrigativo: “Sicché, se volete… oggi è giovedì… domenica vi dico in<br />

chiesa”. Fra tre giorni, dunque; si può essere più spicci di così? Nessuno degli<br />

interessati avrebbe certo osato sperare o chiedere un termine così breve. Per<br />

arrivare a tanto, don Abbondio si avvale di poteri eccezionali: non farà neppure le<br />

prescritte pubblicazioni di matrimonio, chiedendone la dispensa alla Curia<br />

arcivescovile, <strong>com</strong>e per i casi più urgenti e delicati. La mente del curato, che<br />

prima era <strong>com</strong>e bloccata da quella gran paura, ora diventa fertile di iniziative,<br />

anche apprezzabili, <strong>com</strong>e vedremo: non solo chiederà la dispensa dalle<br />

pubblicazioni, ma si premurerà di partecipare a Sua Eminenza la felice<br />

conclusione dei casi di Lucia; così si acquisterà dei meriti presso il suo superiore,<br />

mostrando il suo zelo nel venire incontro alle necessità dei due sposi lungamente<br />

promessi.<br />

Mirabili effetti della s<strong>com</strong>parsa di don Rodrigo! Anche la memoria si è<br />

sbloccata al nostro ineffabile Abbondio: ora infatti, solo ora si ricorda che la<br />

cattura contro Renzo non ha più vigore, essendoci stata l’amnistia generale per la<br />

nascita del principe ereditario del regno di Spagna. Ora egli diventa anche lepido,<br />

ed è un piacere sentirlo chiacchierare; si vede che ne ha una gran voglia.<br />

Essendosi Agnese meravigliata nel sentirgli dare dell’ “Eminenza”<br />

all’Arcivescovo, spiega argutamente che il papa Urbano VIII ha inventato quel<br />

titolo per i cardinali, dato che l’ “illustrissimo” , che prima era riservato ad essi e<br />

ai principi, aveva subito un’inflazione nel suo valore reale, venendo concesso<br />

ormai ad ogni nobiluccio. Quindi continua con lepidezza: “E <strong>com</strong>e se lo succiano<br />

volentieri! E cosa doveva fare il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri,<br />

guai; e per di più, continuar <strong>com</strong>e prima. Dunque ha trovato un bonissimo ripiego.<br />

A poco a poco poi, si <strong>com</strong>incerà a dar dell’eminenza ai vescovi; poi lo vorranno<br />

gli abati, poi i proposti: perché gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,<br />

243


sempre salire; poi i canonici…” E avendo la spiritosa vedova milanese aggiunto<br />

sorridendo: “Poi i curati”, egli riprese scherzoso: “No, no; i curati a tirar la<br />

carretta: non abbiate paura che li avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla<br />

fin del mondo”.<br />

L’euforia del momento fa emergere il vero carattere di don Abbondio: egli si<br />

rivela ridanciano, ma il suo linguaggio, talora sboccato e plebeo, denunzia la sua<br />

mancanza assoluta di delicatezza; il suo scherzare mostra la volgarità del suo<br />

animo. Alludendo ai molti matrimoni che doveva celebrare in quella settimana,<br />

disse che, se si continuava con quel ritmo, nessuno dopo la peste darebbe rimasto<br />

s<strong>com</strong>pagnato; e senza alcun rispetto per la sua affezionata e fedele governante,<br />

rapita dal contagio, aggiunse irridente: “Ha fatto proprio uno sproposito Perpetua<br />

a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei”.<br />

Rivolgendosi quindi alla mercantessa, che pur vedeva allora per la prima volta,<br />

uscì in un’espressione veramente irriguardosa; alludendo agli eventuali<br />

pretendenti alla mano della giovane vedova, le chiese: “E lei, signora, non hanno<br />

principiato a ronzarle intorno dei mosconi?” Poi si mise a scherzare anche con<br />

l’altra vedova, la vecchia Agnese, dicendo che doveva trovare il suo “avventore”<br />

anche lei, perché la peste aveva lasciati molti mariti disponibili. In bocca a un<br />

sacerdote, che dovrebbe sentire lui e inculcare negli altri la dignità, anzi la santità<br />

del matrimonio, queste espressioni nei riguardi di un sacramento disdicono<br />

troppo, e rivelano ancora una volta che lui, del sacerdozio, ha solo l’unzione<br />

sacra, non altro.<br />

Don Abbondio è in vena di scherzare, con tutti e per tutto; e nelle sue parole si<br />

avverte <strong>com</strong>e un’invidia per i giovani, che ora potranno godersi la vita, mentre lui<br />

è ormai agli sgoccioli: <strong>“I</strong>o invece, sono alle ventitrè e tre quarti, e… i birboni<br />

posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio: e, <strong>com</strong>e<br />

dice, senectus ipsa est morbus” 13 . Don Abbondio non precisa chi dice questa<br />

massima, perché non lo sa o non lo ricorda. Ma questa frase 14 gli offre il destro di<br />

scherzare anche con Renzo; infatti, avendogli costui detto che ormai può parlare<br />

in latino quanto vuole, ché tanto non gliene importa niente, ora, lui si ricorda degli<br />

scontri avuti, a proposito del “latinorum”, col focoso giovane, e gli dice ridendo:<br />

“Tu l’hai ancora col latino, tu: bene, bene, t’ac<strong>com</strong>oderò io: quando mi verrai<br />

davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti<br />

dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace”. Ma Renzo, pur scherzando anche lui,<br />

lo rimbecca per bene: “Quello è un latino sincero, sacrosanto, <strong>com</strong>e quel della<br />

messa… Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a<br />

tradimento, nel buono di un discorso. Per esempio,… quel latino che andava<br />

cavando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e<br />

che ci voleva dell’altre cose,… me lo volti un po’ in volgare ora”.<br />

13 = la vecchiaia è essa stessa una malattia.<br />

14 Essa è propriamente di Terenzio (Formione v. 575); il Nardi nel suo <strong>com</strong>mento l’attribuisce a<br />

Cicerone, , ma questi nel “De senectute” dice qualcosa di simile ma non uguale.<br />

244


Al curato non conviene insistere sull’argomento, per lui scottante, di quel<br />

“latinorum” traditore, e passa ad altro, replicando: “Sta zitto, buffone, sta zitto:<br />

non rimestar queste cose; ché, se dovessimo ora fare i conti , non so chi<br />

avanzerebbe. Io ho perdonato tutto: non ne parliam più: ma me n’avete fatti dei<br />

tiri”. Poverino! Fa anche la vittima, ora, e accorda un magnanimo perdono! E<br />

continua a scherzare, chiamando Renzo “malandrinaccio”; e qui lo scherzo, anche<br />

se non garbato, è per lo meno passabile; ma passa i limiti, quando poi definisce<br />

Lucia “quest’acqua cheta, questa santerella, questa madonnina infilzata”, che però<br />

tenta di cogliere di sorpresa il suo parroco, ammaestrata all’uopo dalla<br />

spregiudicata e astuta Agnese. E durò ancora per un pezzo, “sempre a parlar di<br />

bubbole”, perché la morte di don Rodrigo gli aveva messo addosso una tal voglia<br />

di cicalare, che non la finiva più, e trattenne più volte la <strong>com</strong>pagnia, che stava per<br />

andarsene, finanche sull’uscio di strada. Vedete quanto una notizia può mutare e<br />

la vita e il carattere di un uomo!<br />

Il giorno dopo, una seconda sorpresa piacevole per don Abbondio: gli andò a<br />

rendere visita nientemeno che il signor marchese, erede di don Rodrigo. Era un<br />

attempato gentiluomo dello stampo antico: cortese, umile, dignitoso, e col volto<br />

soffuso di una mestizia cristianamente rassegnata, avendo perduto nella peste la<br />

moglie e i due unici figli. Veniva a fare una visita di cortesia al parroco della<br />

parrocchia dov’era sita la sua nuova proprietà, e anche a informarsi dei due<br />

promessi sposi, che gli erano stati rac<strong>com</strong>andati caldamente dal Cardinale, quando<br />

era andato a trovarlo, in visita di congedo, prima di lasciare Milano per la sua<br />

nuova residenza. Il marchese s’interessava ai due giovani anche per un motivo<br />

particolare, per così dire personale, essendo lui l’erede di chi era stato la causa di<br />

tutti i loro guai: voleva per quanto era possibile riparare al male fatto dall’indegno<br />

parente, rendendosi utile in qualche modo a quella buona gente; e chiese appunto<br />

al curato che cosa potesse fare per loro. Abbiamo già detto che la mente di don<br />

Abbondio si è ormai sbloccata, mentre prima era congelata da quella maledetta<br />

paura; ora essa lavora bene, ed è fertile di ottime idee; il che vuol dire che il buon<br />

senso non gli mancava, ma prima era <strong>com</strong>e <strong>com</strong>presso sotto il peso schiacciante<br />

della paura.<br />

Intelligente fu infatti la proposta che fece al marchese, per aiutare<br />

efficacemente quella brava gente: <strong>com</strong>prare le loro modeste proprietà, cioè la<br />

vigna di Renzo e le due casette, dato che essi dovevano partire al più presto per la<br />

nuova residenza, e non avrebbero facilmente trovato un <strong>com</strong>pratore, a meno di<br />

cederle “per un pezzo di pane”. Il gentiluomo accettò la proposta con molta<br />

gratitudine, e volle subito dar inizio alla sua attuazione; invitò quindi il curato,<br />

facendolo “restar di sasso” per tanta magnanimità, ad andare insieme, lì per lì, alla<br />

casetta della sposa, dove troverebbero probabilmente anche lo sposo, per portar<br />

loro i saluti del Cardinale e anche per trattare dell’affare. “Per la strada don<br />

Abbondio, tutto gongolante, <strong>com</strong>e vi potete immaginare, ne pensò e ne disse<br />

un’altra”, anche questa molto opportuna: ottenere, per Renzo, una buona<br />

assolutoria presso le <strong>com</strong>petenti autorità di Milano, in modo che la sua fedina<br />

penale ritornasse immacolata; col tempo, chi sa, egli poteva tornare nel Ducato, e<br />

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la fedina sporca avrebbe potuto nuocere o a lui o ai suoi figlioli. Questa<br />

preoccupazione del curato per il futuro del nostro giovane dimostra che non gli<br />

mancava un certo altruismo, quando non cozzasse col suo naturale e prepotente<br />

egoismo, cioè quando non gli costasse nulla; ma questo altruismo è troppo facile e<br />

per nulla degno di particolare ammirazione: don Abbondio in definitiva non<br />

faceva altro che proporre opere certamente buone, ma lui non moveva un dito; era<br />

il valente marchese che agiva. Costui infatti, informatosi bene dei casi di Renzo in<br />

Milano e della relativa cattura, prese senz’altro la cosa su di sé, e in pochi giorni<br />

ottenne per il giovane una sentenza di assoluzione con formula piena, <strong>com</strong>e si<br />

direbbe oggi.<br />

Il marchese e il curato, conversando così familiarmente e utilmente, giunsero<br />

alla casetta di Agnese, dove trovarono appunto tutti quanti, <strong>com</strong>e avevano<br />

immaginato. I poveretti rimasero, <strong>com</strong>’è naturale, meravigliati e insieme confusi<br />

per quella grande degnazione. Sentirono da principio un certo imbarazzo davanti a<br />

un sì nobile personaggio; ma il valent’uomo “avviò lui la conversazione, parlando<br />

del Cardinale e dell’altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicati<br />

riguardi”. Espresso il suo desiderio di acquistare le loro proprietà, invitò don<br />

Abbondio a fissarne il prezzo. Questi, che durante la strada era stato dal marchese<br />

pregato di stabilire un prezzo alto, dopo aver protestato che non se ne intendeva,<br />

disse una cifra che era “a parer suo, uno sproposito”. Ma il generoso <strong>com</strong>pratore,<br />

quasi avesse inteso male, la raddoppiò, e non volle sentir rettifiche; e per coronare<br />

la sua opera benefica e riparatrice, invitò i presenti tutti a pranzo, nel suo palazzo,<br />

per il giorno successivo a quello delle nozze, per poter fare, alla presenza degli<br />

interessati, lo strumento definitivo di acquisto per mano di un notaio.<br />

Il matrimonio di Renzo e Lucia fu <strong>com</strong>e una festa trionfale, non solo per loro<br />

ma per tutto quanto il paese, che conosceva le loro peripezie e vedeva con<br />

simpatia la realizzazione di un legame così contrastato e sofferto. “Un altro<br />

trionfo, e ben più singolare, fu l’andare a quel palazzotto”, dove furono fatti<br />

ac<strong>com</strong>odare a tavola, in un bel tinello, dallo stesso padrone di casa, che aiutò<br />

anche a servirli, prima di ritirarsi a pranzare, in disparte, con don Abbondio. Circa<br />

il fatto che il marchese non ritenne di pranzare con i suoi ospiti, <strong>com</strong>e sarebbe<br />

stato più semplice e simpatico, il Manzoni osserva che egli era umile, ma non a tal<br />

punto: in quanto occorre più umiltà per mettersi alla pari della povera gente, che<br />

mettersi, in una circostanza, al di sotto di essa; perché, anche nel mettersi al di<br />

sotto, permane un certo distacco. Osservazione molto acuta; ma io penso che, in<br />

un caso reale simile a quello immaginato nel romanzo, il padrone di casa faccia<br />

bene a non pranzare con i suoi ospiti popolani, per non tenerli in soggezione per<br />

l’intero pranzo, impedendo loro di godere appieno della festa, perché si sa bene<br />

che la gente umile si sente a disagio quando deve mangiare alla presenza di<br />

persone altolocate. I nostri sposi dunque, assieme ad Agnese e alla mercantessa,<br />

anche per la discrezione del marchese, potettero stare <strong>com</strong>pletamente a loro agio,<br />

godendosi nell’intimità quell’eccezionale evento.<br />

Nel pomeriggio di quella giornata memorabile fu steso e firmato l’atto di<br />

vendita, rogato da un dottore in legge, che non fu certamente l’Azzecca-garbugli,<br />

246


che era stato portato via anche lui dal contagio. A questo proposito ci si permetta<br />

di osservare <strong>com</strong>e l’Autore, forse un po’ troppo ingenuamente e<br />

semplicisticamente, immagina che la “scopa” della peste spazzi via dalla scena del<br />

romanzo tutti i cattivi, <strong>com</strong>presi i loro ministri e manutengoli; <strong>com</strong>e una potente<br />

tramontana che in breve spazza via dal cielo fosco e minaccioso tutte le nuvole,<br />

lasciando a un tratto l’atmosfera pura e diafana. La peste è, per così dire, il “deus<br />

ex machina” di questo dramma, che scioglie ogni nodo e tutto risolve per il<br />

meglio: questo “deus ex machina”, a una valutazione attenta, appare non meno<br />

artificioso di quelli che, col solo loro apparire, risolvevano l’intreccio delle<br />

antiche tragedie greche. Con tutto il rispetto che nutro per il Manzoni, oserei dire<br />

che il dramma della vita non ha quasi mai di queste risoluzioni così <strong>com</strong>plete e<br />

definitive, per cui a un certo punto il male sia definitivamente sconfitto e trionfi<br />

senza più contrasto il bene. Il dolore, prodotto dal male che c’è in questo mondo,<br />

non è una semplice e breve parentesi della vita, ma ne forma, per così dire,<br />

l’essenza; e la novità del messaggio cristiano sta appunto nell’aver dato a questo<br />

dolore un significato e un valore trascendenti. Il cristiano non è chiamato a<br />

trionfare sul male esterno, ma piuttosto a vincere il male interno, costituito dalle<br />

passioni e dal peccato, per dare al dolore, <strong>com</strong>unque originato, uno scopo<br />

ultraterreno, per farne una palingenesi spirituale. Il dolore quindi è <strong>com</strong>e il sale<br />

della vita cristianamente intesa; esso viene vinto solo in quanto viene accettato e<br />

sublimato nella fiducia in Dio, che permette il male solo a fin di bene, ma del vero<br />

bene, quello eterno. Questo è certamente anche il pensiero del Manzoni, il quale<br />

avrebbe fatto forse bene a chiudere il romanzo col capitolo XXXVI, perché<br />

quanto segue indulge troppo alla ricerca del lieto fine, che nella vita reale non<br />

esiste mai, perché la vita è una continua lotta col male e col dolore o fisico o<br />

morale. Ora invece, dopo la peste, nella vita dei nostri due giovani, le cose<br />

<strong>com</strong>inciano a girare, tutt’a un tratto, in un modo troppo e sempre favorevole.<br />

Adesso, dopo la favorevolissima vendita di quei pochi beni, Renzo è anche pieno<br />

di soldi (si pensi anche agli scudi dell’Innominato), tanto che, nel ritorno dal<br />

palazzo, è addirittura “in<strong>com</strong>odato dal peso dei quattrini” che ha ricevuti dal<br />

marchese: dolce in<strong>com</strong>odo!<br />

Insomma, dalla peste in poi, lo stellone favorevole non lo abbandona più,<br />

anche se egli continua a <strong>com</strong>mettere errori, per il suo carattere piuttosto<br />

impulsivo. Infatti in quel paese del Bergamasco dove andarono ad allogarsi dopo<br />

le nozze, il giovane finì col mettersi “in guerra con quasi tutta la popolazione”, per<br />

certe critiche che si facevano, da alcuni, alla bellezza di Lucia, della quale c’era<br />

stata lì una troppo grande aspettativa, alimentata dal racconto delle sue<br />

vicissitudini. “Ora sapete – dice con fine osservazione il Manzoni – <strong>com</strong>e è<br />

l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa:<br />

non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si<br />

volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione”. Perciò<br />

quando Lucia, delle cui avventure tanto si era parlato, motivandole con la sua<br />

eccezionale bellezza che aveva fatto incapricciare un nobile, giunse finalmente in<br />

quel paese, quelli che avevano tanto atteso “<strong>com</strong>inciarono ad alzar le spalle, ad<br />

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arricciar il naso… e ci furon fin di quelli che la trovarono brutta affatto”. E si<br />

trovarono i soliti amici che andarono a riferire le varie critiche a Renzo, il quale<br />

ne rimase amareggiato, e non sapendo ingoiare in silenzio l’amaro boccone,<br />

<strong>com</strong>inciò anche lui a criticare le mogli degli altri, con aria di sufficienza,<br />

diventando a poco a poco sgarbato, disgustoso, sardonico; sicché “non eran pochi<br />

quelli che l’avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene”.<br />

Ma la buona stella non lo abbandona neppure in questa circostanza: “si direbbe –<br />

ammette l’Autore – che la peste avesse preso l’impegno di rac<strong>com</strong>odar tutte le<br />

malefatte di costui”; la peste è dunque ancora una volta il “deus ex machina” che<br />

tutto rimedia! Infatti era morto di peste il vecchio proprietario di una filanda quasi<br />

alle porte di Bergamo, e il giovane figlio, che era uno scapestrato, voleva<br />

disfarsene per far soldi e spassarsela a modo suo, ma voleva naturalmente denaro<br />

contante. Bortolo, saputa la cosa, andò a vedere, e subodorò subito l’affare: si<br />

poteva avere quell’opificio a meno della metà del suo valore, purché a pronta<br />

cassa; ma era pur sempre una somma considerevole. Sic<strong>com</strong>e, anche con tutti i<br />

suoi risparmi, non ci poteva arrivare, pensò al cugino, che di liquidi ne aveva<br />

adesso più di lui, e gli propose di <strong>com</strong>prare quella bella filanda metà per ciascuno:<br />

così ognuno avrebbe diretto e amministrato la sua parte, la sua proprietà. Renzo<br />

accettò subito, perché lo allettava la prospettiva di lavorare in proprio, e perché il<br />

paese in cui stava gli era venuto ormai in uggia, e voleva cambiare aria. Infatti,<br />

fatto l’acquisto, si trasferì subito con la famiglia in quell’opificio, finalmente<br />

<strong>com</strong>e proprietario. Lì Lucia non era affatto aspettata, sicché non dispiacque,<br />

tutt’altro; e Renzo con fierezza e soddisfazione venne a risapere che più d’uno<br />

aveva detto: “Avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?” L’aggettivo<br />

rendeva accettabile il sostantivo, che al nostro giovane non piaceva troppo, <strong>com</strong>e<br />

sappiamo.<br />

Egli poi, col tempo, <strong>com</strong>inciò a diventare più maturo, più riflessivo, e a pesar<br />

meglio le parole; imparò che queste hanno un sapore a dirle e un altro a sentirle;<br />

“errando discitur”, e lui aveva imparato anche a non “criticar la donna d’altri”, se<br />

non voleva che fosse criticata la sua. Anche lì qualche fastidiuccio non mancò, ma<br />

non erano cose da poter intaccare la fortuna e la felicità di Renzo e della sua<br />

famiglia. I fastidi, si sa, non mancano mai, anche nella situazione più prospera e<br />

tranquilla; e l’uomo è d’altronde incontentabile. Per dimostrarci questa verità, il<br />

Manzoni ci porta una bella similitudine, che è poi l’ultima del romanzo: “l’uomo,<br />

fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto s<strong>com</strong>odo più o<br />

meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si<br />

figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è<br />

ac<strong>com</strong>odato nel nuovo, <strong>com</strong>incia, pigiando, a sentire, qui una lisca che lo punge, lì<br />

un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima”.<br />

Da questa acuta osservazione sulla vita umana, l’Autore ricava una delle sue<br />

bonarie massime: “si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si<br />

finirebbe anche a star meglio”. La corsa alle <strong>com</strong>odità e ai piaceri non dà la<br />

felicità; chi invece pensa soprattutto a fare il suo dovere di uomo e di cristiano, e<br />

cerca di <strong>com</strong>pierlo con impegno e senso di responsabilità, conquista quella<br />

248


serenità interiore, quella pace che il mondo non può né dare né togliere, e che è il<br />

meglio di questa vita, perché bene vero e duraturo.<br />

Gli affari materiali andavano per Renzo a gonfie vele, anche perché fu<br />

concessa l’esenzione totale dalle imposte, per dieci anni, a favore dei forestieri<br />

che esercitassero un’attività nel territorio della Serenissima: “per i nostri fu una<br />

nuova cuccagna”. Renzo è ormai un industriale, e con l’esenzione fiscale si avvia<br />

a diventar ricco! Ci sembra davvero che il desiderio del lieto fine abbia portato<br />

don Lisander a esagerare un po’ troppo; non perché simili fortune non possano<br />

verificarsi, ma perché questo finale troppo roseo non serve davvero a ribadire il<br />

concetto di vita che l’Autore ci ha inculcato con tanta efficacia e convinzione.<br />

Vennero naturalmente anche i figli, a benedire quel matrimonio cristiano;<br />

<strong>com</strong>’era da aspettarsi, la primogenita fu chiamata Maria, secondo la “magnanima<br />

promessa” fatta da Renzo nel lazzaretto; poi ne vennero chi sa quanti, di bambini,<br />

che la buona nonna portava a spasso con piacere e con fierezza, “chiamandoli<br />

cattivacci, e stampando loro in viso dei bacioni, che ci lasciavano il bianco per<br />

qualche tempo”. Essi furono tutti docili e di buon carattere (altra fortuna che non<br />

facilmente si verifica, anche a ottimi genitori), e tutti impararono a leggere e<br />

scrivere, per esplicita volontà dell’illetterato genitore, il quale aveva costatato<br />

quanto importasse saper tenere la penna in mano, e spesso ripeteva che, “giacché<br />

la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”, cioè i suoi<br />

figlioli.<br />

Renzo, dato il suo carattere estroverso e un po’ saccente, si lasciava andare<br />

spesso e volentieri a raccontare le sue peripezie, magari aggiungendoci, quasi<br />

senza avvedersene, qualche frangia d’abbellimento, e concludeva sempre con la<br />

solita sua morale, spicciola e angusta: “Ho imparato a non mettermi nei tumulti:<br />

ho imparato a non predicare in piazza… ho imparato a non alzar troppo il<br />

gomito…” Ma Lucia non era soddisfatta di questa morale così limitata: “le<br />

pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa”. Quella morale infatti era<br />

troppo misera e unilaterale, non tale da valere per tutti, anche per quelli che pur<br />

non si erano messi nei tumulti né si erano ubriacati. Essa, per esempio, che cosa<br />

poteva dire di aver imparato? I guai, lei, non se li era andata a cercare, <strong>com</strong>e il suo<br />

dissennato marito; anzi, aveva cercato sempre di evitarli, con una condotta<br />

prudente e irreprensibile; lei poteva dire in coscienza di aver sempre fuggito ogni<br />

occasione pericolosa; ma ciò non era bastato per evitare il male: ebbene?<br />

Sbagliando s’impara: questo è anche vero; ma chiese al marito che errori aveva<br />

fatto lei, dai quali potesse dire di aver imparato qualcosa? E con un soave sorriso<br />

aggiunse: “Quando non voleste dire che il mio sproposito sia stato quello di<br />

volervi bene, e di promettermi a voi”.<br />

Davanti a questa semplice obiezione della consorte, il moralista troppo pratico<br />

non sapeva che rispondere: la sua morale non andava oltre il caso spicciolo,<br />

abbastanza ovvio; ma Lucia, dotata di profonda sensibilità religiosa, l’aiutò a<br />

trovare una risposta soddisfacente al problema morale della vita umana: “Dopo un<br />

lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso,<br />

perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a<br />

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tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio<br />

li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Questa è la conclusione del<br />

romanzo, “il sugo di tutta la storia” dei due promessi, giunti al sospirato<br />

matrimonio attraverso il dolore.<br />

Questa conclusione, pur nella sua semplicità, racchiude tutta la consolante<br />

risposta cristiana alla domanda assillante che preme e urge sul pensiero umano:<br />

perché soffrire? Perché soffrono anche gli innocenti? La soluzione cristiana del<br />

problema della vita, cioè del problema del dolore (perché vivere è soffrire), è tutta<br />

qui. Questo problema che ha travagliato tanti filosofi, che ha smagato tanti<br />

pensatori, che ha turbato tante coscienze; che ad alcuni è apparso insolubile, che<br />

ad altri ha suggerito risposte desolate o disperate; questo problema trova qui, in<br />

queste poche parole volutamente disadorne, messe in bocca a persone umili, la sua<br />

soluzione convincente e rassicurante. Il dolore, conseguenza del male, del<br />

peccato, cioè della superbia e cattiveria umana, è permesso da Dio <strong>com</strong>e<br />

espiazione e purificazione del peccato, e insieme <strong>com</strong>e mezzo di miglioramento<br />

interiore, <strong>com</strong>e strumento di affinamento e di elevazione della creatura sino al<br />

Creatore. Il male può derivare dai nostri errori, dalle nostre colpe, <strong>com</strong>e fu per<br />

Renzo; ma può anche piombarci addosso e attanagliarci senza nostra colpa alcuna,<br />

perché esso colpisce anche le persone più buone e più innocenti, <strong>com</strong>e la buona e<br />

soave Lucia; ma in un caso e nell’altro la fiducia in Dio, cioè la persuasione che il<br />

male Iddio non lo può permettere che a fin di bene, essendo Egli infinitamente<br />

Buono, lo farà apparire più dolce, quasi soave, quasi desiderabile, perché è mezzo<br />

di purificazione e di merito. <strong>“I</strong>l mio giogo è soave”, dice Gesù nel Vangelo; e il<br />

suo giogo è appunto il dolore, che risulta soave a chi ne ha <strong>com</strong>preso l’altissima<br />

finalità e cerca di unirsi alla passione di Cristo. Il dolore è la grande prova della<br />

nostra vita, la pietra di paragone del nostro valore; un giorno, alla fine di questa<br />

breve esistenza terrena, saremo giudicati in base a <strong>com</strong>e ci siamo <strong>com</strong>portati<br />

davanti al dolore degli altri e allorché siamo stati visitati noi stessi dal dolore,<br />

dalla sventura, cioè quando siamo stati visitati, in definitiva, da Dio stesso. “Dio<br />

vi ha visitate”, dice padre Cristoforo a Lucia e ad Agnese, quando è informato<br />

dell’indegna persecuzione del malvagio don Rodrigo, artefice del male e<br />

persecutore dei buoni. Questo pensano i santi: il dolore è la visita del Signore.<br />

Il dolore infatti, se cristianamente accettato e sopportato, non solo diventa più<br />

leggero (per i santi addirittura soave), ma è utile per una vita migliore, non solo in<br />

questo mondo, perché rende l’uomo più buono e più virtuoso, affinandone le<br />

qualità e moltiplicandone le energie, ma soprattutto nell’altra vita, facendo<br />

meritare l’eterna beatitudine. E’ questa la grande speranza, che dico?, la<br />

meravigliosa certezza del cristiano, a cui il dolore non fa paura, perché esso è il<br />

cimento necessario, direi indispensabile per una vita vissuta nella consapevolezza<br />

del suo valore eterno, della sua finalità ultraterrena. Il vero cristiano dovrebbe<br />

atterrirsi, non del dolore, ma, se mai, dell’assenza del dolore; e infatti sappiamo<br />

che alcuni santi si sono volontariamente procurato il dolore con cilici, digiuni e<br />

altre aspre penitenze. Il Signore non esige certamente simili sacrifici: per i<br />

250


cristiani <strong>com</strong>uni, <strong>com</strong>e siamo noi, basta aprire volentieri la porta al Signore,<br />

quando ci visita per mezzo del dolore.<br />

F I N E<br />

251


INDICE<br />

Anagogica 2<br />

PREFAZIONE 4<br />

VITA E OPERE DI ALESSANDRO MANZONI 5<br />

NOTA CRITICA SU <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong> 15<br />

INTRODUZIONE <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong> 17<br />

CAPITOLO I 19<br />

CAPITOLO II 22<br />

CAPITOLO III 25<br />

CAPITOLO IV 28<br />

CAPITOLO V 31<br />

CAPITOLO VI 35<br />

CAPITOLO VII 39<br />

CAPITOLO VIII 44<br />

CAPITOLO IX 48<br />

CAPITOLO X 53<br />

CAPITOLO XI 59<br />

CAPITOLO XII 65<br />

CAPITOLO XIII 70<br />

CAPITOLO XIV 76<br />

CAPITOLO XV 81<br />

CAPITOLO XVI 86<br />

CAPITOLO XVII 91<br />

CAPITOLO XVIII 96<br />

CAPITOLO XIX 103<br />

CAPITOLO XX 110<br />

CAPITOLO XXI 118<br />

CAPITOLO XXII 125<br />

CAPITOLO XXIII 132<br />

CAPITOLO XXIV 139<br />

CAPITOLO XXV 152<br />

CAPITOLO XXVI 157<br />

CAPITOLO XXVII 163<br />

CAPITOLO XXVIII 168<br />

CAPITOLO XXIX 175<br />

CAPITOLO XXX 181<br />

CAPITOLO XXXI 188<br />

CAPITOLO XXXII 195<br />

CAPITOLO XXXIII 201<br />

CAPITOLO XXXIV 211<br />

CAPITOLO XXXV 219<br />

252


CAPITOLO XXXVI 223<br />

CAPITOLO XXXVII 231<br />

CAPITOLO XXXVIII 240<br />

253

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