RIASSUNTO DE “I PROMESSI SPOSI” - brunocamaioni.com
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Bruno Camaioni<br />
<strong>RIASSUNTO</strong> <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />
di Alessandro Manzoni<br />
con <strong>com</strong>mento estetico e morale
Anagogica<br />
Opere di Bruno Camaioni<br />
Notizie sull'autore<br />
Bruno Camaioni è nato a Grottammare (AP) nel 1917, si è laureato in Lettere<br />
all'Università di Roma nel 1940, ha insegnato in varie città italiane, ed era preside<br />
di un liceo classico quando è andato in pensione. Ha scritto diverse opere (poesie,<br />
romanzi, studi sul Manzoni, opuscoli su argomenti religiosi ecc.) che non ha mai<br />
pubblicato, facendole circolare solo tra parenti, amici e conoscenti.<br />
Uno di costoro, ritenendo che esse siano interessanti e anche formative per i<br />
valori che inculcano, ha preso l'iniziativa di metterle man mano in rete, affinché<br />
chiunque le possa leggere liberamente e senza spese.<br />
Solo la sua autobiografia, scritta per insistenza dei figli, non sarà per ora resa<br />
nota, per ovvi motivi di discrezione. Dopo la sua morte anch'essa sarà messa in<br />
rete, per chi vorrà conoscere meglio quest'uomo che intendeva restare ignorato.<br />
Note sul diritto d'autore<br />
Delle opere pubblicate di Bruno Camaioni ne è consentita la copia e la<br />
distribuzione gratuita, su qualsiasi supporto, preservandone l'integrità (inclusa la<br />
presente dicitura) e citandone l'autore.<br />
Opere attualmente disponibili in rete (anche attraverso eMule):<br />
• Il Problema del Male - Riflessioni<br />
• Eremita a Orgosolo - Romanzo<br />
• L'Aiuola Contesa - Romanzo<br />
• Riassunto de "I Promessi Sposi" - Riassunto con <strong>com</strong>mento estetico e<br />
morale (*)<br />
• I Personaggi de' "I Promessi Sposi" (*)<br />
Opere depositate ad aprile 2005 e novembre 2005 (*).<br />
2
<strong>RIASSUNTO</strong> <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />
di Alessandro Manzoni<br />
con <strong>com</strong>mento estetico e morale<br />
II Edizione riveduta e corretta<br />
Giugno 2005<br />
3
PREFAZIONE<br />
Questo libro è nato nella scuola e mira a essere utile soprattutto agli studenti;<br />
ciò non esclude che esso possa riuscire vantaggioso a tutti coloro che vogliano<br />
approfondire la loro conoscenza del romanzo, il quale è ormai universalmente<br />
riconosciuto, oltre che opera sublime di poesia, anche autorevole testo di lingua e<br />
libro di riflessione morale e religiosa, e quindi mezzo di arricchimento spirituale<br />
e di formazione interiore; la mia opera mira a facilitare a studenti e a non<br />
studenti la lettura e il godimento del capolavoro manzoniano, di <strong>com</strong>prensione<br />
non facile per chi non abbia un po’ di cultura.<br />
Una lettura attenta del romanzo vale ad aprire le menti, specie dei giovanetti,<br />
ai seri problemi dell’esistenza, e a infondere nel loro animo il concetto che la vita<br />
è per tutti un impegno che va preso con fiducia , ma anche con alto senso di<br />
responsabilità.<br />
Il Manzoni in quest’opera ci ha dato la risposta cristiana al problema della<br />
vita e del dolore umano, il quale viene interpretato religiosamente <strong>com</strong>e mezzo di<br />
purificazione e di intima elevazione. E questa concezione cristiana della vita<br />
l’Autore non ce la inculca per mezzo di esortazioni oratorie, ma con la forza<br />
misteriosa che si sprigiona dall’intreccio, dai personaggi e dagli episodi, pervasi<br />
da un potente afflato poetico e religioso.<br />
Sic<strong>com</strong>e il libro vuol riuscire utile innanzi tutto agli studenti, di ogni capitolo<br />
si è fatto un sunto breve ma sufficiente per avere un’idea adeguata di tutta la<br />
trama; al sunto è intercalato, dove occorre, un sobrio <strong>com</strong>mento critico, di<br />
carattere estetico, storico e morale, allo scopo di mettere in risalto le peculiari<br />
bellezze del romanzo, e anche (perché no?) notare qualche punto meno felice,<br />
poiché non si pretenderà davvero che in tutta l’opera il Manzoni tocchi<br />
invariabilmente le vette della poesia o anche solamente dell’arte. Fu detto che<br />
anche l’ottimo Omero qualche volta sonnecchia; lo stesso può dirsi del Nostro, e<br />
questa ammissione non toglie nulla alla sua grandezza, da tutti oggi riconosciuta.<br />
Naturalmente questi riassunti non mirano affatto a sostituire la lettura del<br />
capolavoro, indulgendo alla pigrizia mentale di qualche studente, ma solo a<br />
guidare lo studio del romanzo, allo scopo di renderlo, sì, più facile, ma anche più<br />
profondo e perciò più proficuo.<br />
A me basta la soddisfazione di aver fatto opera utile e, forse, anche di aver<br />
detto qualcosa di nuovo nel vasto e rigoglioso campo dell’esegesi manzoniana.<br />
Ma questo vedrà chi vorrà dedicare alla mia fatica uno sguardo non frettoloso.<br />
Voglio sperare che ciò avvenga.<br />
4
VITA E OPERE DI ALESSANDRO MANZONI<br />
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal conte Pietro e da<br />
Giulia Beccarla, figlia di Cesare Beccarla, famoso illuminista italiano, autore del<br />
celebre trattato “Dei delitti e delle pene”, con cui demolì i pregiudizi giuridici e<br />
psicologici che erano alla base della tortura e della pena di morte. Il matrimonio<br />
dei genitori non era stato felice, anche perché il padre era più anziano della madre<br />
di ben 25 anni, e più ancora per l’in<strong>com</strong>patibilità dei due caratteri: il padre, uomo<br />
pacifico, amava la vita ritirata e la quiete della campagna, mentre la madre, donna<br />
molto intelligente e irrequieta, desiderava brillare nei salotti mondani della<br />
capitale lombarda. Perciò Alessandro fu messo in collegio sin dal 1791, prima a<br />
Merate presso i Padri Somaschi, dove restò fino al 1796, quindi a Lugano (Canton<br />
Ticino) presso il Collegio S.Antonio, tenuto anch’esso dagli stessi religiosi. Il<br />
ragazzo passò quivi due anni, poi altri tre a Milano, nel Collegio Longone (o dei<br />
nobili), tenuto dai Padri Barnabiti.<br />
Nel 1801 Alessandro uscì definitivamente dal collegio e visse a Milano,<br />
affidato alle cure di una zia, mentre la madre, separata legalmente dal marito sin<br />
dal 1792, era andata a convivere a Parigi col conte Carlo Imbonati; il padre poi<br />
viveva preferibilmente in villa, <strong>com</strong>e allora si diceva, e si curava poco<br />
dell’educazione del figlio. Questi, a Milano, frequentò soprattutto Francesco Lo<br />
Monaco, Vincenzo Cuoco e il Monti, ma si diede anche al gioco, dal quale fu poi<br />
allontanato dal Monti, che egli ammirava moltissimo.<br />
Nel 1801 il giovinetto <strong>com</strong>pone il “Trionfo della Libertà”, poemetto di quattro<br />
canti in terzine, dedicato appunto al Monti. Il sedicenne poeta, fervido di spiriti<br />
rivoluzionari, si scaglia in esso contro i tiranni (il Pontefice in Roma, i Borboni a<br />
Napoli e in Sicilia ecc.) e contro la superstizione che è il principale puntello della<br />
tirannide.<br />
Tra il 1803 e il 1804 <strong>com</strong>pone quattro “Sermoni” in versi sciolti, nei quali<br />
satireggia la corruzione contemporanea, la goffa albagia dei nuovi arricchiti, la<br />
smania dilagante di <strong>com</strong>porre versi, indice di decadimento del gusto. Queste<br />
satire, anche se rozze, già mostrano nel giovane diciannovenne l’interesse per i<br />
problemi morali e una certa serietà di intenti.<br />
Nello stesso anno 1803 <strong>com</strong>pone l”Adda”, una specie di epistola metrica,<br />
indirizzata al Monti, in cui lo stesso fiume Adda personificato si rivolge al<br />
“Cantor di Basville”, invitandolo a soggiornare sulle sue rive, dove era appunto<br />
situata la villa del Manzoni, nei pressi di Lecco. Dall’ottobre 1803 al marzo<br />
successivo il Poeta soggiorna a Venezia, dove si innamora di una donna più<br />
anziana di lui, la quale saggiamente lo invita a riprendere gli studi.<br />
Nel 1805 morì a Parigi il conte Carlo Imbonati, lasciando erede universale dei<br />
propri beni la madre di Alessandro, la quale ac<strong>com</strong>pagnò in Italia le ceneri del<br />
Conte, ma tornò ben presto a Parigi, portando questa volta con sé il figlio, che<br />
5
iniziò, per così dire, una nuova vita nella “città dei lumi”, accanto alla diletta<br />
madre.<br />
Alla madre dedica il carme consolatorio <strong>“I</strong>n morte di Carlo Imbonati”, scritto<br />
verso la fine del 1805 e pubblicato a Parigi l’anno successivo, nel quale<br />
immagina che il morto Conte (già cantato a 11 anni dal Parini nell’ode<br />
“L’Educazione”) gli appaia in una visione notturna e lo esorti ad amare la poesia e<br />
ad apprezzare soprattutto la dignità morale. In questo carme non c’è ancora vera<br />
poesia, ma già si sente un anelito morale che prelude alle opere maggiori.<br />
Il 17 marzo del 1807 muore a Milano il padre, ed egli giunge troppo tardi per<br />
raccoglierne l’ultimo respiro; l’anno successivo, il 6 febbraio, sposa a Milano<br />
Enrichetta Blondel, non ancor diciassettenne, di famiglia protestante di Ginevra,<br />
per cui il matrimonio viene celebrato secondo il rito calvinista. Quindi gli sposi si<br />
recano a Parigi, dove nasce la primogenita Giulia (che andrà poi sposa a Massimo<br />
D’Azeglio), prima di ben nove 1 figli, di cui però solo due, Enrico e Vittoria,<br />
sopravvivranno al padre.<br />
A Parigi il Manzoni conobbe e frequentò gli uomini più illustri di quel tempo,<br />
e si legò in intima amicizia con Claudio Fauriel, insigne storico e letterato, il quale<br />
ebbe grande importanza nella sua formazione storica, critica e artistica.<br />
Il 1810 è l’anno della cosiddetta conversione del Manzoni, che è trascinato<br />
dall’esempio della moglie, la quale aveva abiurato il Calvinismo per abbracciare il<br />
Cattolicesimo; in seguito a ciò il matrimonio dei giovanissimi coniugi fu<br />
ricelebrato secondo il rito cattolico. Non è forse ozioso osservare che la<br />
primogenita Giulia, nata nel dicembre del 1808, era stata battezzata nella Chiesa<br />
cattolica; ciò vuol dire che sin dalla fine di quell’anno qualcosa stava maturando<br />
in casa Manzoni nei riguardi della religione.<br />
Nell’agosto del 1810 il Manzoni torna definitivamente a Milano, e lascia nella<br />
metropoli francese quell’aria di scetticismo e di razionalismo che vi aveva per<br />
tanti anni respirato. Da questo anno in poi tutta la produzione letteraria del Nostro,<br />
<strong>com</strong>e anche la sua vita privata, sarà ispirata a un profondo convincimento<br />
religioso.<br />
Diamo perciò uno sguardo alla produzione poetica anteriore al 1810, per citare<br />
quelle opere cui non abbiamo ancora accennato. Ricordiamo innanzi tutto i<br />
sonetti: “Ritratto di sé stesso” (1801) che ci dà l’immagine fisica e morale del<br />
Manzoni sedicenne; “A Francesco Lo Monaco” (1801) in cui accenna alle<br />
dolorose vicende dell’esule lucano, suo amico, che era scampato per caso al<br />
supplizio, dopo aver preso parte alla rivoluzione napoletana del 1799; “Alla sua<br />
donna” (1802) in cui dichiara alla sua amata che, per lei, egli è divenuto schivo di<br />
ogni bassezza, per rendersi degno del “celeste e puro foco” che gli occhi di lei<br />
hanno acceso nel suo petto. Sic<strong>com</strong>e siamo sicuri della data di <strong>com</strong>posizione di<br />
questo sonetto, esso non può essere stato ispirato dalla dama veneziana, <strong>com</strong>e<br />
1<br />
I figli di Enrichetta furono in realtà 10, se si conta una bambina, Luigia M.Vittoria, nata il 5-9-<br />
1811 e morta lo stesso giorno.<br />
6
pensa il De Gubernatis, ma da quell’angelica Luigina, giovinetta genovese, della<br />
quale Alessandro si innamorò appunto nel 1802, e per la quale serbò vivissimi<br />
sentimenti di devozione. Probabilmente per la stessa ragazza (sorella del marchese<br />
Ermes Visconti) il Manzoni scrisse un’ode, di cui si ignora la data (1804?), che<br />
<strong>com</strong>incia col verso: “ Qual su le Cinzie cime”. Sicuramente del 1802 è invece il<br />
sonetto “Alla Musa”, in cui all’imberbe poeta balena vivo il miraggio della gloria<br />
letteraria per cui egli formula l’augurio che, se non raggiungerà la cima e cadrà<br />
lungo l’erta, “Dicasi almen: Su l’orma propria ei giace!” Queste fiere parole<br />
vennero poi riportate tali e quali nel “Carme in morte di Carlo Imbonati “ al verso<br />
206. Con molta probabilità è del 1804 il “Frammento di un’ode alle Muse”, in cui<br />
il Poeta esprime ancora il suo anelito alla gloria poetica e letteraria, confessando<br />
che “nove fanciulle d’immortal bellezza” gli hanno preso il cuore, il quale però è<br />
ancora incerto chi di esse seguire, cioè a quale genere di poesia dedicarsi.<br />
Rimane da accennare al poemetto mitologico “Urania” (scritto a Parigi tra il<br />
1806 e il 1809, anno in cui fu pubblicato a Milano), ultima concessione del<br />
Manzoni al gusto classicheggiante e all’influsso del Monti. Il <strong>com</strong>ponimento, di<br />
stampo neoclassico, è di poco anteriore al poemetto “Le Grazie” del Foscolo, con<br />
il quale ha qualche identità di concetti. Attraverso le parole di consolazione che la<br />
musa Urania rivolge al poeta Pindaro, sconfortato per essere stato vinto nella gara<br />
olimpica dalla giovinetta Corinna, il Manzoni esalta la funzione civilizzatrice<br />
delle Grazie e delle Muse, volta a ingentilire i rozzi costumi degli uomini.<br />
L’Autore stesso era molto malcontento dei suoi versi, <strong>com</strong>e scrisse al Fauriel in<br />
data 6 settembre 1809, poiché essi mancavano di qualsiasi interesse; e confessava<br />
all’amico: “ne farò forse di peggiori, ma di uguali mai più.”<br />
Solo per scrupolo di <strong>com</strong>pletezza, accenniamo al carme in endecasillabi sciolti<br />
“A Parteneide” (1809 - 1810 ?) in cui, rispondendo al poeta danese Baggesen, il<br />
quale lo aveva invitato a tradurre in italiano il suo poema idillico in dodici canti,<br />
intitolato appunto “Parteneide”, scritto in tedesco e già tradotto in francese dal<br />
Fauriel, il Manzoni loda metaforicamente la bellezza dell’opera segnalatagli, ma<br />
si esime per il momento dall’accettare l’incarico, non ritenendosi ancora preparato<br />
a un siffatto lavoro, mentre altre opere incalzano nel suo spirito e urgono per<br />
venire alla luce. In effetti il Nostro, dopo il ritrovamento della Fede sincera, era<br />
tutto preso da un profondo travaglio interiore, e si sentiva tutt’altro che disposto a<br />
dar veste italiana a dei pensieri altrui ormai ben lontani dal suo nuovo sentire.<br />
Infatti dal 1810 al 1812 il Manzoni non scrive alcunché, tutto preso dal faticoso<br />
<strong>com</strong>pito, che egli sente <strong>com</strong>e un dovere morale, di rivedere tutta la sua cultura<br />
illuministica e neoclassica alla luce della sua nuova coscienza religiosa, illuminata<br />
da un Cattolicesimo puro e sereno, e nello stesso tempo severo e integrale. Egli<br />
anela a una poesia più viva e più vera, non mirante al solo diletto, proprio e altrui,<br />
ma a una presa di coscienza delle grandi verità della vita e della storia,<br />
dell’individuo e della società; egli però non trova subito la sua nuova strada,<br />
irretito <strong>com</strong>’è ancora dalla tradizione letteraria, dalla quale non riesce a liberarsi<br />
del tutto. Ma il travaglio interiore non tardò a dare i suoi frutti.<br />
7
Traendo appunto ispirazione dalla Fede, rifioritagli nel cuore fervida e pura, il<br />
Manzoni scrisse, tra il 1812 e il 1815, quattro “ Inni Sacri” in questo ordine: “La<br />
Risurrezione”, ”Il Nome di Maria”, <strong>“I</strong>l Natale”, “La Passione”; invece “La<br />
Pentecoste”, in cui l’Autore tocca la vetta della sua poesia religiosa, fu pubblicata<br />
nel 1822. Gli <strong>“I</strong>nni Sacri” avrebbero dovuto essere almeno dodici, a celebrazione<br />
delle principali feste religiose, ma il Nostro fece bene a non scriverne altri, poiché<br />
non avrebbe potuto far altro che ripetersi e decadere quindi da quella sublime<br />
vetta poetica toccata con “La Pentecoste”. Infatti, oltre questi cinque inni,<br />
abbiamo solo un frammento intitolato “L’Ognissanti” e un altro ancora sul<br />
“Natale” (del 1833) che evidentemente il Poeta voleva rifare, non soddisfatto della<br />
prima stesura; ma oramai la sua vena era esaurita ed egli non fece ulteriori<br />
tentativi in questo campo.<br />
Riguardo alla sua vita esteriore abbiamo ben poco da dire, poiché il Manzoni<br />
era alieno dalla vita pubblica, dalla quale lo stornava anche la sua malferma<br />
salute. Quindi c’è ben poco da ricordare, all’infuori delle date di nascita dei suoi<br />
numerosi figli, delle date di morte di ben sette tra essi, 2 della data di morte della<br />
sua diletta Enrichetta (25 dicembre 1833) e della seconda moglie, Teresa Borri<br />
vedova Stampa (1861) , che egli aveva sposato nel 1837. La vita del grande Poeta<br />
fu disseminata di lutti, tra cui la perdita dell’adorata madre (1841), tutti sopportati<br />
con cristiana rassegnazione. Pur così provato dal dolore, egli seguì sempre con<br />
intima trepidazione le sorti dell’amata Patria, che volle libera e indipendente;<br />
perciò nell’aprile del 1814 sottoscrisse la protesta dei Milanesi contro il Senato<br />
del Regno Italico, il quale voleva chiedere alle Potenze vittoriose su Napoleone<br />
l’elezione di Eugenio Beauharnais a re d’Italia, mentre il Manzoni e gli altri<br />
firmatari volevano che fossero convocati i <strong>com</strong>izi elettorali, soli rappresentanti<br />
legittimi della Nazione, perché decidessero la forma istituzionale dello Stato.<br />
Di questo periodo è la canzone “Aprile 1814” in cui, esprimendo un severo<br />
giudizio sul governo francese, fautore di libertà a parole ma di fatto oppressivo e<br />
predatore, auspica che le Potenze vincitrici ascoltino la voce degli autentici<br />
rappresentanti del popolo italiano, che anela alla libertà e all’indipendenza. Ma<br />
purtroppo i voti del Poeta non furono ascoltati in “alto loco”, ed egli, amareggiato<br />
per i tristi fatti che seguirono, non ebbe neppure l’animo di correggere e abbellire<br />
i suoi versi, i quali risentono in verità della tradizione classicheggiante e dei<br />
fremiti misogallici dell’Alfieri. Perciò la canzone può considerarsi un abbozzo<br />
piuttosto che un frammento.<br />
Nell’anno successivo grandi speranze il Manzoni ripose nel tentativo di<br />
Gioacchino Murat di unificare l’Italia contro le mire annessionistiche degli<br />
Austriaci; infatti abbiamo un frammento di canzone (5 aprile 1815) intitolata<br />
appunto <strong>“I</strong>l proclama di Rimini”: solo questo animoso principe, dice in sostanza<br />
l’Autore, può con l’aiuto di Dio ridurre a unità le disperse forze degli Italiani,<br />
2 I figli morti al Manzoni furono a rigore 10, se contiamo, oltre a Luigia M.Vittoria (per la quale<br />
v.nota a pag. 5), anche le due gemelle avute dalla seconda moglie, delle quali una nata morta,<br />
l’altra vissuta poche ore.<br />
8
<strong>com</strong>e fece Mosè con il popolo ebreo, poiché Dio stesso infonde ardore e forza in<br />
chi <strong>com</strong>batte per la libertà della sua terra. Ma purtroppo anche questa generosa<br />
speranza svanì in pochi giorni, e il frammento fu pubblicato solo nel 1848,<br />
assieme con l’ode “Marzo 1821”, la quale fu scritta in occasione dei moti<br />
piemontesi di quell’anno, che fecero sperare ai patrioti lombardi l’abolizione<br />
dell’odioso confine del Ticino e l’unificazione delle due regioni. Il fausto evento<br />
si verificherà solo nel 1848, ma purtroppo per pochi mesi, in seguito alla prima<br />
guerra dell’indipendenza nazionale.<br />
Prima di parlare delle tragedie, accenniamo a un <strong>com</strong>ponimento ironico,<br />
“L’ira di Apollo” , che il Manzoni scrisse, per sé e per gli amici, nel 1818,<br />
entrando nella polemica suscitata nel 1816 dalla pubblicazione della “Lettera<br />
semiseria di Crisostomo” di Giovanni Berchet, la quale costituì, per così dire, il<br />
“manifesto” del romanticismo milanese, cui aderiva il nostro Poeta. Egli<br />
immagina in quest’ode che Apollo scenda dal cielo, irritatissimo contro Milano<br />
che vuol distruggere; ma per fortuna il dio viene placato, con un linguaggio<br />
riboccante di mitologia, dal nostro Poeta che lo convince a punire solo il sacrilego<br />
Crisostomo; e la condanna sarà davvero terribile: gli sia eternamente interdetto<br />
l’uso della retorica e della mitologia classica! “Santi Numi, egli è spacciato!”<br />
esclama esterrefatto l’Autore, mentre sul volto del dio spunta il sorriso della<br />
vittoria.<br />
Dal 1816 al 1819 il Manzoni lavorò alla sua prima tragedia, <strong>“I</strong>l Conte di<br />
Carmagnola”, in endecasillabi sciolti, pubblicata a Milano nel 1820. In essa viene<br />
introdotto per la prima volta il coro (“La battaglia di Maclodio”), ben diverso da<br />
quello delle tragedie greche, in cui rappresentava un personaggio collettivo che<br />
recitava cantando e danzando, e interveniva anche nel dialogo; il coro manzoniano<br />
è il <strong>com</strong>mento lirico-morale dell’azione, da parte dell’Autore; un cantuccio dove<br />
egli possa parlare in persona propria per sfogare i suoi sentimenti, onde respingere<br />
meglio la tentazione di introdursi direttamente nell’azione e di prestare<br />
arbitrariamente i propri sentimenti ai vari personaggi, che egli invece si sforza di<br />
collocare in una prospettiva storica e il più possibile obbiettiva. La tragedia narra<br />
la drammatica vicenda del capitano di ventura Francesco Bussone, conte di<br />
Carmagnola, il quale dopo essere stato al servizio del Visconti passò al soldo dei<br />
Veneziani, sconfiggendo i Milanesi nella battaglia di Maclodio (1427); ma caduto<br />
in sospetto della Serenissima per aver liberato i prigionieri, fu arrestato e<br />
condannato a morte innocente, almeno per quanto pensa l’Autore. In questa<br />
tragedia il Poeta affronta il tema del dolore e dell’ingiustizia degli uomini, e dà a<br />
esso la soluzione cristiana della rassegnazione e del perdono: il Conte va incontro<br />
alla morte sereno, fidando in Dio, e con dolci parole d’amore inculca il sentimento<br />
del perdono nei cuori esacerbati della moglie e della figlia.<br />
Nel 1819 il Manzoni pubblica la prima parte delle “Osservazioni sulla morale<br />
cattolica” per confutare lo storico ginevrino Sismondi, il quale aveva attribuito<br />
alla morale cattolica la colpa della decadenza italiana. L’opera però non fu<br />
<strong>com</strong>pletata; solo nel 1855 l’Autore aggiunse una vasta appendice al capitolo terzo,<br />
9
col titolo:”Del sistema che fonda la morale sull’utilità” in cui confuta<br />
l’utilitarismo del filosofo inglese Bentham.<br />
Dal 1820 al 1822 il Poeta lavora alla <strong>com</strong>posizione della tragedia “Adelchi”,<br />
pubblicata a Milano nel 1822. L’argomento è tratto dal crollo del dominio<br />
longobardo in Italia per opera dei Franchi (anni 772 - 774). La rivalità politica tra<br />
Carlo, re dei Franchi, e Desiderio, re dei Longobardi, è inasprita dal ripudio, da<br />
parte del primo, della sposa Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi;<br />
Carlo scende in Italia, vince i Longobardi alle Chiuse di Val di Susa, insegue i<br />
fuggitivi tra la gioia degli oppressi Italiani. Ma il Poeta, nel primo coro (“Dagli<br />
atrii muscosi, dai fori cadenti”) li disillude, affermando che i Franchi non sono<br />
venuti a liberarli, ma a conquistare terre e sudditi: non potranno essere liberi, gli<br />
Italiani, se non quando impugneranno essi stessi le armi per operare il proprio<br />
riscatto. Mentre l’eroico Adelchi muore nel vano tentativo di difendere Verona<br />
(qui il Poeta si allontana dalla verità storica, perché Adelchi fuggì a<br />
Costantinopoli a implorare soccorso), l’infelice Ermengarda (o Desiderata) si<br />
spegne rasserenata nel convento, dove volontariamente si è chiusa per trovare<br />
pace al suo travaglio interiore, acuito dalla sempre viva passione amorosa.<br />
L’amore per Carlo, anche se misconosciuto e ferito dal superbo ripudio, non si è<br />
mai sopito nel suo animo tenero a appassionato, che pur tra le preghiere e i pii<br />
canti delle vergini torna con accorata nostalgia ai giorni felici passati a fianco di<br />
Carlo. Ma la fede in Dio le fa alfine dimenticare ogni affetto terreno<br />
nell’abbandono all’amore eterno di Dio. Nel secondo coro della tragedia (“Sparsa<br />
le trecce morbide” ) il Poeta ci rappresenta liricamente i sentimenti che<br />
travagliavano l’animo di Ermengarda, che “la provvida sventura” ascrisse tra<br />
quanti subiscono ingiustizie e violenze, per farla partecipe della salvezza eterna<br />
che Dio ha promesso agli umili e a quelli che soffrono per Lui. “L’Adelchi” è da<br />
tutti i critici riconosciuta tragedia meglio riuscita della precedente, sia per la trama<br />
più intensamente drammatica, sia per i caratteri più poeticamente efficaci e<br />
rilevati, sia per il sentimento religioso che più profondamente la pervade.<br />
Circa la vita esteriore del Manzoni, ricorderemo che nell’ottobre del 1819 egli<br />
si recò a Parigi con tutta la famiglia, sperando, con la mutazione del clima e delle<br />
condizioni di vita, un qualche giovamento ai disturbi nervosi che lo affliggevano,<br />
provocandogli delle vertigini, che l’obbligavano talora a passare intere giornate<br />
inoperoso; ma ritornò a Milano nell’agosto del 1820, non certamente guarito<br />
della sua nevrosi la quale lo tormentò per tutto il resto della vita. Un altro viaggio<br />
di tutta la famiglia Manzoni avvenne verso la metà di luglio del 1827, subito<br />
dopo la pubblicazione del romanzo: ne fu meta Firenze, dove voleva “risciacquare<br />
i suoi cenci nell’Arno”; e nel viaggio di andata passò per Genova.<br />
E ora diciamo poche parole sul capolavoro manzoniano, dando le notizie<br />
essenziali sulla sua <strong>com</strong>posizione e pubblicazione. Il Manzoni <strong>com</strong>incia a scrivere<br />
il romanzo il 24 aprile 1821 e lo conduce a <strong>com</strong>pimento il 17 settembre 1823; il<br />
manoscritto, che reca il titolo “Fermo e Lucia” , è dato a leggere a pochi amici<br />
intimi, tra cui il Grossi e il Fauriel. Verso la fine del 1824 il Manzoni inizia,<br />
presso la tipografia V.Ferrario di Milano (che aveva già stampato le due tragedie),<br />
10
la stampa del romanzo che intanto, durante la ricopiatura del manoscritto, aveva<br />
assunto il titolo “Gli Sposi Promessi”; ma questo titolo non resisterà fino al<br />
termine della stampa, che fu lunga e laboriosa, soprattutto perché l’Autore,<br />
insaziabile limatore della sua opera, apportava continue modifiche al testo anche<br />
sulle bozze di stampa. Sicché quando finalmente il romanzo vide la luce, nel<br />
giugno del 1827 (perciò questa prima edizione fu poi detta “ventisettana”), in tre<br />
tomi, con la data 1825-1827, aveva già sul frontespizio il glorioso titolo definitivo<br />
<strong>“I</strong> Promessi Sposi”.<br />
Ma <strong>com</strong>inciò quasi subito la correzione del romanzo, specialmente dal punto<br />
di vista linguistico, in preparazione di una seconda edizione dell’opera, cui<br />
prelude il viaggio a Firenze. Però solo nel 1840-42 fu pubblicata la seconda<br />
edizione del romanzo, in Milano, presso la tipografia Guglielmini-Radaelli, a<br />
fascicoli illustrati con disegni del Gonin, con aggiunta, in appendice, “La storia<br />
della colonna infame”, scritta nel 1829. Questa breve monografia rievoca la storia<br />
di un processo, celebrato durante la peste di Milano del 1630, contro due presunti<br />
untori, Guglielmo Piazza e Giangia<strong>com</strong>o Mora, i quali, sottoposti alla tortura, pur<br />
essendo innocenti, ammisero le accuse e furono perciò giustiziati; la casa del<br />
Mora venne demolita e sull’area rimasta libera fu eretta una colonna a eterna<br />
infamia del suo nome. Il Manzoni, con un’attenta disamina dei documenti<br />
processuali, perviene alla conclusione che, anche con i rozzi e inadeguati<br />
ordinamenti giudiziari del tempo, i giudici non potevano giungere alla condanna<br />
di due innocenti, se non fossero stati travolti dalla passione e dall’odio generale<br />
contro gli untori, da cui il loro giudizio fu traviato, rendendoli per così dire ciechi<br />
davanti alle evidenti prove dell’innocenza dei due imputati. Tanto sono funesti i<br />
pregiudizi uniti alle pressioni popolari!<br />
La famosa ode <strong>“I</strong>l cinque maggio 1821” fu <strong>com</strong>posta dal 17 al 19 luglio di<br />
quell’anno, cioè subito dopo la pubblicazione, fatta dalla “Gazzetta di Milano”il<br />
16 di quel mese, della notizia della morte di Napoleone, avvenuta a Sant’Elena<br />
appunto il 5 maggio 1821. Il Manzoni fu così colpito dalla notizia, che in meno di<br />
tre giorni <strong>com</strong>pose e corresse, senza più ritoccarla, questa poesia, che uscì per le<br />
stampe l’anno successivo a Lugano. Il Poeta immagina la vita del grande esule<br />
nella piccola isola sperduta nell’Atlantico: il Bonaparte è oppresso dai ricordi di<br />
una vita titanica, di contro alla forzata inerzia del presente; egli sarebbe preso dal<br />
più cupo abbattimento, se la Fede, non mai spenta nel suo cuore e ora rifiorita<br />
nella sventura, non lo consolasse avviandolo “pei floridi sentier della speranza”,<br />
innalzandolo ai pensieri celesti: anche il grande Corso, <strong>com</strong>e Ermengarda, è<br />
rigenerato nella sventura, purificato dal dolore.<br />
Il 23 marzo 1848 il Manzoni, che nel 1838 non aveva accettato<br />
un’onorificenza austriaca, firma l’indirizzo dei Milanesi a Carlo Alberto per<br />
sollecitarne l’intervento in difesa dei Lombardi insorti, e pubblica, <strong>com</strong>e appunto<br />
si è detto, l’ode “Marzo 1821” assieme al frammento <strong>“I</strong>l proclama di Rimini” , per<br />
giovare alla causa nazionale con le sue ardenti parole, non potendo farlo col<br />
braccio. Però il figlio Filippo, il più giovane dei figli maschi, partecipa<br />
attivamente alla lotta delle “Cinque Giornate” e, fatto prigioniero, viene tradotto<br />
11
in Austria, con grave apprensione del padre, ed è in seguito liberato solo in<br />
cambio degli ostaggi austriaci rimasti in mano agli insorti milanesi.<br />
Nel 1845 il Manzoni aveva pubblicato la dissertazione, <strong>com</strong>inciata sin dal 1828,<br />
“Del romanzo storico e in genere dei <strong>com</strong>ponimenti misti di storia e di<br />
invenzione”, in cui l’Autore, severo critico della sua stessa opera, condanna in<br />
sede teorica le opere letterarie che si <strong>com</strong>pongono di storia e di fantasia, perché<br />
costituiscono un genere ibrido che contiene in sé insanabili contraddizioni. Merita<br />
un cenno anche il dialogo “Dell’invenzione”, <strong>com</strong>posto nel 1841, e influenzato<br />
dalla filosofia del suo grande amico Antonio Rosmini. In esso il Manzoni afferma<br />
che l’artista trova (dal latino inventio=trovamento) non crea l’oggetto della sua<br />
opera; e per capire dove l’idea era prima di venirgli in mente, egli deve risalire,<br />
consapevolmente o no, al Dio creatore del tutto. Pur in mezzo a una certa aridità<br />
di argomentazione, spira nel dialogo un profondo senso religioso, assieme al<br />
riconoscimento della saggia guida della filosofia.<br />
Dopo il 1846 e fin quasi alla morte il Manzoni è particolarmente preso dal<br />
problema della lingua, sul quale aveva <strong>com</strong>inciato a scrivere, ancor prima del<br />
romanzo, un libro, condotto poi innanzi assai lentamente per eccesso di scrupolo,<br />
e lasciato poi in<strong>com</strong>piuto e inedito; fu pubblicato solo nel 1923 dal Bulferetti col<br />
titolo “Sentir messa”, derivato, un po’ artificiosamente, dalla citazione con cui<br />
l’Autore inizia la trattazione, la quale mira a dimostrare che la lingua italiana deve<br />
essere quella dell’uso toscano. Nelle opere del 1846 e successive sul problema<br />
della lingua italiana (varie lettere e relazioni che non è il caso di citare) il Manzoni<br />
precisa che la lingua italiana deve essere il fiorentino delle persone colte, lingua<br />
che praticamente egli aveva adottata nel suo romanzo e imposta universalmente<br />
nella penisola con la persuasione della sua grande arte e con l’immenso successo<br />
del suo capolavoro. Anche in tal modo, cioè unificando la lingua in tutte le regioni<br />
italiane, egli contribuì efficacemente all’unità nazionale, della quale fu<br />
considerato meritatamente un paladino, per cui grati nel 1859 andarono a fargli<br />
visita i due massimi artefici del nostro Risorgimento, il Cavour e il Garibaldi. E<br />
quando finalmente, con la seconda guerra d’indipendenza, la Lombardia è unita al<br />
Piemonte, il Nostro è nominato senatore del Regno e, nonostante gli acciacchi<br />
dell’età, si reca a Torino nel giugno del 1860 a prestare il giuramento di rito; torna<br />
nella capitale sabauda nel febbraio del 1861 per partecipare alla storica seduta in<br />
cui fu proclamato il Regno d’Italia, e di nuovo nel dicembre del 1864 per votare a<br />
favore del trasferimento della capitale a Firenze, <strong>com</strong>e buon auspicio per il<br />
raggiungimento di Roma, verso la quale la tappa di Firenze era considerata solo<br />
<strong>com</strong>e un avvicinamento. Per i suoi meriti politici e letterari gli fu anche assegnata<br />
una pensione nazionale, <strong>com</strong>e in seguito sarà fatto per il Carducci. Il grande poeta<br />
e romanziere si spense il 22 maggio 1873 a Milano, che dieci anni dopo gli<br />
dedicò un monumento in Piazza San Fedele.<br />
Oltre che al problema della lingua, il Manzoni si dedicò anche alle ricerche<br />
storiche, e in questo campo citiamo il “Discorso sopra alcuni punti della storia<br />
longobardica in Italia”, steso verso la fine del 1821, quando lavorava al<br />
<strong>com</strong>pimento dell’”Adelchi”, la cui trama si rifà appunto alla fine della<br />
12
dominazione dei Longobardi nel nostro Paese. Fu pubblicato postumo nel 1889 il<br />
“Saggio <strong>com</strong>parativo su la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana<br />
del 1859”, in cui il Manzoni dimostra che la rivoluzione italiana fu più legittima<br />
di fronte alla storia e al diritto, e anche più feconda di risultati, perché fondata<br />
organicamente sull’unità delle aspirazioni di tutto un popolo, mentre quella<br />
francese nel suo svolgimento tumultuoso degenerò assai presto nel dispotismo,<br />
tradendo così gli ideali originari.<br />
Il Manzoni è a buon diritto ritenuto il nostro più grande scrittore romantico; e<br />
del Romanticismo egli fu anche un teorico, dato che la sua natura meditativa lo<br />
portava ad approfondire tutti i problemi e gli indirizzi con i quali la sua attività<br />
artistica lo portava a contatto. Del 1823 è lo scritto “Sul Romanticismo. Lettera al<br />
marchese Cesare d’Azeglio”, in cui afferma che il nuovo indirizzo ha una parte<br />
negativa, su cui tutti gli assertori di esso sono concordi, nel condannare la<br />
mitologia, l’imitazione servile dei classici, le regole pseudo-aristoteliche sull’unità<br />
di tempo e di luogo; e una parte positiva, sulla quale l’Autore ammette che c’è una<br />
certa disparità di vedute e d’intenti, ma aggiunge che tutti i romantici sono<br />
d’accordo che la poesia deve proporsi per oggetto il vero e deve essere quanto più<br />
è possibile popolare, per interessare il maggior numero di persone, e non soltanto i<br />
dotti e i letterati, <strong>com</strong>e purtroppo avveniva per la produzione artistica del<br />
neoclassicismo.<br />
Riguardo alle <strong>com</strong>posizioni poetiche, dobbiamo dire che la vena della poesia,<br />
dopo la mirabile “Pentecoste” (1822) e il non meno mirabile coro “La morte di<br />
Ermengarda”, dello stesso anno,si esaurì nel Manzoni quasi <strong>com</strong>pletamente; in<br />
data posteriore abbiamo il già citato “Natale del 1833” in cui, ricordando quel<br />
doloroso giorno in cui morì la sua diletta Enrichetta, canta non più l’inno di gioia,<br />
ma l’inno di adorazione verso il “Fanciul severo” che viene in questo mondo a<br />
piangere e a morire, e col suo esempio ci insegna ad accettare il dolore, legge<br />
della vita cristianamente intesa; ma l’inno è un semplice frammento, sul quale<br />
“cecidere manus” 3 , <strong>com</strong>e appunto scrisse in calce al foglio lo stesso Autore.<br />
Abbiamo anche accennato al frammento dell’inno sacro “Ognissanti” di cui il<br />
Poeta inviò quattro strofe alla scrittrice francese Luisa Colet: in esse vuol<br />
significare che nelle nascoste virtù dei pii solitari, le quali al mondo sembrano<br />
sterili, c’è tanto merito quanta bellezza c’è in quel fiore che spiega solo davanti a<br />
Dio<br />
“la pompa del pinto suo velo;<br />
che spande ai deserti del cielo<br />
gli olezzi del calice e muor.”<br />
Sono dei bei versi e forse gli ultimi del grande Poeta, se è vero che furono scritti<br />
nel 1847, <strong>com</strong>e assicurò la seconda moglie del Manzoni. Precedentemente<br />
3 = caddero (stanche ) le mani.<br />
13
abbiamo (del 1832?) delle “Strofe per una prima Comunione” che egli non seppe<br />
rifiutare all’insistenza di qualche amico, quando ormai l’ispirazione poetica si era<br />
esaurita, e dalla sua penna non poté uscire che una mediocre poesiola d’occasione;<br />
e infine ricordiamo un breve epigramma “Per la morte dell’amico Vincenzo<br />
Monti” (1828), nel quale manda il suo estremo vale all’estinto “a cui largì<br />
Natura/Il cor di Dante e del suo Duca il canto!”Evidentemente il sentimento<br />
dell’amicizia e l’ammirazione sincera facevano velo al giudizio del Manzoni, che<br />
perciò i posteri non hanno condiviso.<br />
Tale è la personalità e l’opera del Manzoni, che tutti concordemente giudicano<br />
grande poeta, insigne patriota, mirabile esempio di virtù civiche e di devozione<br />
alla sua fede religiosa, cui conformò con rigoroso impegno tutta la sua esistenza,<br />
che fu lunga, interiormente travagliata e disseminata di domestici lutti, ma sempre<br />
ispirata all’ideale cristiano, che egli aveva assunto <strong>com</strong>e norma di arte e di vita<br />
dopo il suo ritorno sincero e fervido alla Fede.<br />
14
NOTA CRITICA SU <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />
Circa il giudizio dei critici sul romanzo diremo poche notizie essenziali. A<br />
tutti è noto che non sempre un capolavoro è riconosciuto <strong>com</strong>e tale al suo<br />
apparire; e a questa sorte non si sottrasse punto quello manzoniano.<br />
Infatti, quando il romanzo apparve, in tre volumi, nel 1827, mentre il Goethe<br />
riconosceva subito la sua grandezza (“questo libro ci fa passare di continuo dalla<br />
tenerezza all’ammirazione, e dall’ammirazione alla tenerezza”), il Leopardi (il<br />
quale però in una lettera confessava di averne sentito leggere solo alcune pagine)<br />
sosteneva che esso valeva poco e che le persone di buon gusto lo trovavano molto<br />
inferiore all’aspettazione.<br />
Certamente alla serenità di giudizio del grande Recanatese fu di ostacolo il suo<br />
cupo pessimismo, che irrideva a ogni idealismo (e nel romanzo troviamo l’ideale<br />
calato nel reale, secondo una felice espressione di Francesco De Sanctis) e<br />
particolarmente alla concezione della Provvidenza divina che veglia sulle sorti<br />
umane, mentre lui era convinto che uno spietato destino di infelicità in<strong>com</strong>be sui<br />
miseri mortali, e che il dolore umano non ha alcuna giustificazione né causale né<br />
finalistica. E avendo lui saputo o intuito, dalle poche pagine sentite leggere, che<br />
l’ispirazione cristiana pervade tutta la trama del romanzo, si può capire <strong>com</strong>e non<br />
abbia voluto neppure leggerlo tutto, per valutarlo più serenamente, e si sia lasciato<br />
andare con leggerezza a quell’affrettato giudizio negativo.<br />
Se non ci meraviglia troppo l’opinione del Leopardi, per le predette<br />
considerazioni, non potremmo dire lo stesso del giudizio espresso da Luigi<br />
Settembrini nelle sue “Lezioni di Letteratura Italiana”, perché evidentemente dato<br />
dopo maturo esame e, per così dire, “ex cathedra”, data la sua qualità di paludato<br />
docente universitario.<br />
Egli afferma addirittura che <strong>“I</strong> Promessi Sposi sono il libro della reazione” e che il<br />
Manzoni, anche involontariamente, viene a “consigliare la sommessione nella<br />
servitù, la negazione della patria e di ogni generoso sentimento civile.”<br />
Evidentemente il Settembrini non ha <strong>com</strong>preso l’intimo senso della storia<br />
manzoniana, che è invece una condanna della tirannide nell’anelito verso la<br />
libertà nella giustizia, sia per i singoli cittadini sia per le nazioni tutte.<br />
Ben diverso è invece il giudizio di Francesco De Sanctis, il quale afferma che<br />
il motivo ispiratore del romanzo “è una concezione eminentemente patriottica,<br />
democratica e religiosa.” Il De Sanctis aveva <strong>com</strong>preso appieno il significato<br />
profondo dell’opera manzoniana, mentre il Settembrini era stato fuorviato da<br />
pregiudizi e dalle sue idee anticlericali. 4<br />
4 Un riconoscimento del valore morale ed estetico della “verità” manzoniana si ebbe da parte di<br />
Giuseppe Verdi il quale, parlando un giorno del nostro Autore, così si espresse: «Quell’uomo ha<br />
scritto un libro vero quanto la verità. Oh se gli artisti potessero capire una volta questo vero, non vi<br />
15
Un esempio tipico dei contrastanti giudizi sul romanzo lo troviamo nella<br />
critica di Benedetto Croce il quale, riprendendo un giudizio, limitativo del valore<br />
dell’opera, espresso da Giovita Scalvini nel 1829, dice testualmente: <strong>“I</strong>n quel<br />
romanzo non si fa sentire nella sua forza o nel suo libero moto nessuno di quelli<br />
che si chiamano gli affetti e le passioni umane”; per cui il romanzo è da lui<br />
definito opera oratoria e non poetica. Ma lo stesso Croce, dopo più maturo esame,<br />
smentisce il suo avventato giudizio in un saggio pubblicato sullo “Spettatore<br />
Italiano” nel maggio del 1952, nel quale afferma: “Per parte mia, soglio rileggere<br />
questo libro periodicamente e ne traggo sempre <strong>com</strong>mozione e conforto, e sempre<br />
rinnovata ammirazione per la perfezione della sua forma.” Dopo aver accennato a<br />
questo “ben chiaro mea culpa” del Croce (sono sue precise parole), aggiungiamo<br />
soltanto che gli altri massimi critici del Manzoni sono Luigi Russo, Attilio<br />
Momigliano, Giuseppe Petronio, Piero Nardi e Cesare Angelini, i quali ci hanno<br />
dato anche dei pregevoli <strong>com</strong>menti de <strong>“I</strong> Promessi Sposi”. Molti critici si sono<br />
chiesti se i protagonisti del romanzo siano proprio gli sposi promessi o qualche<br />
altro; per il Momigliano, per esempio, la vera protagonista del capolavoro<br />
manzoniano è la Divina Provvidenza, mentre per il Russo “il protagonista vero è il<br />
sentimento, lo stato d’animo dello scrittore”, così <strong>com</strong>e protagonista immanente in<br />
ogni pagina del romanzo è il Seicento, questo secolo pieno di violenza, boria,<br />
vanità e ribalderia. Nella vivace e verace rappresentazione di questo secolo<br />
pomposo e ipocrita, prepotente ed egoista, si svolge tutta la polemica politica,<br />
civile e sociale del Manzoni, che con la sua opera educò intere generazioni<br />
all’avversione per il dominio straniero e all’amore per una società libera e giusta,<br />
fraterna e solidale, ordinata con leggi sagge, eque e ragionevoli. Se si seguisse la<br />
legge cristiana, sembra dirci il Manzoni, la realizzazione di una tale società non<br />
sarebbe un’utopia.<br />
sarebbero più musicisti dell’avvenire e del passato; né pittori veristi, realisti, idealisti; né poeti<br />
classici e romantici; ma poeti veri, pittori veri, musicisti veri.»<br />
16
INTRODUZIONE <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong><br />
Il Manzoni premette al primo capitolo del romanzo una “introduzione”, in cui<br />
riporta un brano del manoscritto secentesco che egli finge di aver ritrovato e di<br />
voler pubblicare così <strong>com</strong>’è, poiché la storia in esso narrata gli sembra degna di<br />
essere conosciuta. Accintosi alla copiatura del manoscritto, a un certo punto si<br />
inceppa davanti a una parola indecifrabile, per cui deve necessariamente<br />
interrompere. La pausa lo induce a riflettere meglio sul da farsi, ed egli si<br />
domanda: “Quando avrò sostenuto l’eroica fatica di trascrivere e pubblicare<br />
questa storia, si troverà poi chi sarà disposto a leggerla? Essa è veramente bella,<br />
ma lo stile barocco in cui è scritta è talmente tronfio e sciatto, che difficilmente ci<br />
sarà uno disposto a sostenere l’eroica fatica di leggerla. Perciò lasciamola stare, e<br />
buon per me che mi sono interrotto appena al principio e non ho perduto il mio<br />
tempo in questa laboriosa e vana copiatura.” Però, mentre sta per riporre il<br />
manoscritto, prova rincrescimento che una storia così interessante debba rimanere<br />
sconosciuta; e allora si domanda: “Perché, invece di ricopiarla, non la riscrivo in<br />
stile moderno? Certamente non fo torto a nessuno, poiché il manoscritto è<br />
anonimo.” La decisione è subito presa, perché appare del tutto logica e opportuna.<br />
“Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza<br />
del libro medesimo.”Queste argute parole dell’Autore ci fanno capire, un po’ in<br />
enigma, che la storia del manoscritto è mera invenzione, che cioè il manoscritto<br />
non esiste e che la trama del romanzo è stata immaginata dal principio alla fine<br />
dal Manzoni. Sappiamo però che egli fu indotto a scriverlo dalla lettura di una<br />
grida spagnola del 15 ottobre 1627, nella quale il governatore di Milano don<br />
Gonzalo Fernandez de Cordova minaccia le massime pene contro i prepotenti che<br />
<strong>com</strong>mettono “oppressioni, concussioni e atti tirannici”, <strong>com</strong>e per esempio “che<br />
seguano o non seguano matrimoni” e inoltre che “quel prete non faccia quello che<br />
è obbligato per l’ufficio suo” ecc. Questa grida, letta in un’opera di Melchiorre<br />
Gioia, dette al Manzoni, secondo quanto ci conferma il figliastro Stefano Stampa,<br />
la prima idea del romanzo. Tuttavia non tutti i critici sono convinti che il<br />
manoscritto anonimo sia una pura invenzione. Il Getto, per esempio, sostiene che<br />
il Nostro deve aver letto “l’Historia del Cavalier Perduto” del vicentino Pace<br />
Pasini, pubblicata a Venezia nel 1644, poiché in questa storia trova molte<br />
somiglianze sostanziali e formali con l’introduzione barocca stilata con tanta<br />
bravura dal Manzoni. La mia modesta opinione è che, se anche il Nostro abbia<br />
conosciuto la detta opera (cosa tutt’altro che certa), non ne ha ricevuto che<br />
qualche spunto marginale, per cui essa non può davvero dirsi (<strong>com</strong>e qualcuno ha<br />
sostenuto) la fonte del romanzo. Comunque, per noi è molto più importante<br />
vedere per quali motivi l’Autore sia ricorso all’espediente del rinvenuto<br />
manoscritto. Essi possono essere due: in primo luogo, per dare un sapore storico a<br />
tutto il racconto, secondo le esigenze del romanzo storico, che il Manzoni sentiva<br />
impellenti; in secondo luogo, per un motivo prettamente artistico, cioè mettere tra<br />
17
sé e il lettore un terzo personaggio, <strong>com</strong>e un “alter ego”, che gli permettesse di<br />
fare le sue osservazioni o esprimere i suoi sentimenti in modo più discreto o più<br />
arguto, <strong>com</strong>e dietro a un <strong>com</strong>odo paravento. Certamente, questo pretesto<br />
dell’anonimo scrittore non era affatto necessario, né per fini storici né per<br />
esigenze artistiche, ma nessuno può affermare che esso sia del tutto inutile e vano.<br />
Abbiamo detto che il Manzoni, dopo un po’ d’incertezza, decise di pubblicare<br />
l’opera in lingua moderna, cioè in lingua viva. Oggi per noi questo concetto di<br />
“lingua viva” è abbastanza ovvio e chiaro, ma al tempo in cui il Manzoni scriveva,<br />
i letterati non erano affatto d’accordo sul concetto di tale lingua né sull’uso di essa<br />
negli scritti letterari. Infatti da una parte c’erano i puristi, riuniti nell’Accademia<br />
della Crusca, che pretendevano una lingua aulica, cioè arcaica, sul tipo di quella<br />
che era stata usata dai grandi scrittori italiani dal Trecento al Cinquecento; mentre<br />
i novatori volevano un linguaggio vivo, vicino a quello effettivamente parlato. Ma<br />
parlato da chi e dove? A questo riguardo non tutti erano concordi; e il Manzoni<br />
decise saggiamente e praticamente la controversia adottando il linguaggio<br />
fiorentino parlato dalle persone colte; detto linguaggio, soprattutto per merito<br />
della grande notorietà del romanzo, divenne in breve tempo la lingua nazionale<br />
italiana, universalmente riconosciuta e adottata; per cui il Manzoni può essere<br />
giustamente chiamato, dopo Dante, il secondo Padre della nostra lingua, colui che<br />
l’ha resa veramente popolare, avvicinando d’un colpo e arditamente la lingua<br />
scritta a quella parlata.<br />
18
CAPITOLO I<br />
Il Manzoni <strong>com</strong>incia il romanzo con la descrizione della regione dove si<br />
svolgerà la trama dell’azione: è una zona molto familiare all’Autore, che<br />
possedeva presso Pescarenico, sulla riva sinistra del lago di Lecco, una villa<br />
chiamata “ Il Caleotto”, dove era solito passare ogni anno parecchi mesi di<br />
villeggiatura. Siamo sulle rive del braccio meridionale del lago di Como (braccio<br />
chiamato anche lago di Lecco), il quale si restringe appunto a Lecco, in modo da<br />
sembrare fiume, e poi si riallarga nel lago di Garlate, finché si restringe ancora e<br />
definitivamente, ricostituendo il fiume Adda, che poi con lucido serpeggiamento<br />
scende a gettarsi nel maestoso Po.<br />
L’Autore descrive particolarmente il territorio di Lecco, formato da una breve<br />
costiera in lieve pendio, e poi da colline e valloncelli che si appoggiano alle falde<br />
di due monti contigui, il San Martino e il Resegone. Sulla riva sinistra del lago e<br />
sulle alture sono sparsi i villaggi, di cui uno è quello abitato dagli sposi promessi,<br />
cioè Renzo o Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella. Questo paesetto è in collina,<br />
ma non molto distante da Pescarenico, villaggio di pescatori sul lago, dove si<br />
trova anche un convento di Cappuccini. Il paesetto degli sposi è affidato alla cura<br />
spirituale di don Abbondio, il quale si è fatto prete senza vocazione, per seguire<br />
l’intenzione dei genitori e anche per entrare in una casta privilegiata, in cui avesse<br />
da poter vivere con un certo agio e tranquillamente, essendo appunto difeso dal<br />
prestigio, allora altissimo, del clero.<br />
Don Abbondio ci appare subito <strong>com</strong>e un egoista, che pur di non correre<br />
pericolo lui, è pronto a venir meno ai suoi doveri più sacrosanti. Egli non è<br />
cattivo, ma si preoccupa solo di sé stesso, e per tutta la vita ha solo badato a<br />
costituirsi un tenore di vita <strong>com</strong>odo e sicuro. Questo sistema, realizzato con<br />
assidua cura, è un po’ il suo capolavoro, una specie di metodo filosofico del viver<br />
tranquillo, del quale è fiero, perché lo ritiene eccellente e infallibile; e non si<br />
perita di prendersela con i suoi confratelli che seguono ben altro sistema, che cioè<br />
si espongono a disagi e pericoli per aiutare il prossimo. Il motto del nostro curato<br />
è invece questo: evitare ogni contrasto, cedere nei contrasti che malauguratamente<br />
non si son potuti evitare. I suoi colleghi, zelanti per il bene delle anime, sono per<br />
lui degli irrequieti ambiziosi, della gente senza prudenza e senza umiltà, mentre<br />
lui attua veramente il dettame evangelico! Don Abbondio ha ormai organizzato la<br />
sua vita in un sistema di abitudini che per lui rappresentano <strong>com</strong>e una seconda<br />
natura. Tra queste care abitudini c’è la passeggiata vespertina che, tempo<br />
permettendo, gli fa acquistare, col moderato esercizio fisico, un discreto appetito<br />
per la cenetta allietata da un vino squisito, che gli concilia un gradevole sonno<br />
sino all’indomani. Domani poi la giornata ri<strong>com</strong>incerà secondo lo schema<br />
abituale, che a don Abbondio, uomo pacifico, non ingenera affatto noia, ma anzi<br />
infonde una tranquilla sicurezza di lieto benessere. Ma ecco che questo quieto<br />
19
sistema di vita in un batter d’occhio viene travolto nell’infausto vespro del 7<br />
novembre 1628.<br />
Quella sera, tornando bel bello dalla passeggiata verso casa, incontra “due<br />
bravi” che gli ordinano, pena la morte, di non celebrare, né l’indomani né mai, il<br />
matrimonio tra Renzo e Lucia.<br />
I bravi erano soldati privati dei nobili e dei ricchi signori i quali se ne<br />
servivano, oltre che per difesa, anche e soprattutto per imporre la loro volontà<br />
superba e capricciosa, specialmente nelle campagne, dove l’autorità governativa<br />
era del tutto inefficace o addirittura inesistente. I governatori spagnoli avevano<br />
emanato delle “gride” (cioè bandi o decreti che venivano gridati dai banditori<br />
nelle vie e nelle piazze) severissime contro questi soldatacci fuorilegge, ma senza<br />
nessun effetto, perché tutta la nobiltà, che era poi la classe dirigente, era coalizzata<br />
nell’eludere la legge, in quanto tutti i nobili signori, <strong>com</strong>presi i senatori e i<br />
magistrati, avevano più o meno sfacciatamente i loro bravi, vestiti e protetti dalle<br />
loro sgargianti livree. Il Manzoni riporta alcuni squarci delle gride del tempo, in<br />
cui i governatori, dopo aver sciorinato tutti i loro titoli nobiliari, tuonano contro i<br />
bravi, <strong>com</strong>minando nei loro riguardi le pene più gravi e più arbitrarie; ma questi<br />
ripetuti decreti servivano solo a dimostrare pomposamente l’impotenza dei loro<br />
tronfi e plurititolati promulgatori.<br />
Don Abbondio, davanti all’inaspettato ordine, rimane <strong>com</strong>e fulminato. Che<br />
fare? Egli vorrebbe guadagnar tempo, rispondendo in modo evasivo, ma i due<br />
loschi figuri esigono una chiara e impegnativa risposta da riportare al loro<br />
padrone, l’illustrissimo signor don Rodrigo!<br />
“Disposto sempre all’obbedienza…” balbetta il povero curato, e i due si<br />
allontanano soddisfatti, mentre il malcapitato vorrebbe, ora che ha ingoiato il<br />
rospo, trattenerli per trattare… spiegare… Ma quelli lo piantano in asso, e il<br />
poveretto torna a casa stralunato e balordo, per cui la serva, a vederlo con quel<br />
viso, si accorge subito che è accaduto qualcosa di grave. Incalza perciò il padrone<br />
con le sue domande, e il curato, dopo essersi difeso sempre più debolmente,<br />
finisce per rivelare il penoso e pericoloso segreto, facendo però giurare<br />
solennemente a Perpetua (questo è il nome della domestica) di non fiatare<br />
minimamente sulla cosa, dato che i bravi avevano imposto il più assoluto silenzio.<br />
Il dialogo tra il prete e la serva è vivacissimo, e ci mostra la grande abilità della<br />
donna la quale riesce ben presto ad aver ragione della paura gelosa del suo<br />
padrone, il quale ha ancor presenti davanti agli occhi i due bravacci che gli<br />
avevano minacciosamente <strong>com</strong>andato:<br />
“E soprattutto non dica a nessuno di questo avviso, che gli abbiamo dato per il suo<br />
bene. Sarebbe <strong>com</strong>e fare quel tal matrimonio!”<br />
Ma il fatto sta, <strong>com</strong>e acutamente osserva il Manzoni, che forse non era minore il<br />
bisogno di don Abbondio di confidarsi con qualcuno, che la curiosità di Perpetua<br />
di sapere che cosa fosse successo al padrone.<br />
Perpetua è una zitella di oltre quarant’anni, curiosa e ciarliera ma non priva di<br />
un certo buon senso, che ci tiene a far credere che non si è voluta mai sposare, pur<br />
avendo avuto tanti buoni partiti, mentre le maligne <strong>com</strong>ari andavano dicendo che<br />
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non aveva mai trovato un cane che l’avesse voluta. Ma a parte questa<br />
<strong>com</strong>prensibile suscettibilità di zitella, non le manca certo l’intelligenza e il senso<br />
pratico delle cose, <strong>com</strong>e si rileva dal dialogo. Infatti a un certo punto, nella foga<br />
del discorso, inavvertitamente tocca un tasto falso, affermando che, se vuol<br />
sapere l’accaduto, non è per ciarlarne in giro, perché essa sa tenere il segreto. Qui<br />
don Abbondio le dà sulla voce: “Brava! <strong>com</strong>e quando…” Evidentemente in altre<br />
occasioni ella non aveva saputo affatto conservare il segreto; ma l’abile serva non<br />
si s<strong>com</strong>pone per tanto poco e corre subito ai ripari, trovando questa volta il tasto<br />
giusto e infallibile: “Se voglio sapere, è perché le voglio bene e voglio aiutarla, e<br />
magari darle un consiglio.” E il consiglio che essa dà, anche se è rigettato<br />
sprezzantemente dal padrone, è invece ottimo, l’unico che don Abbondio potesse<br />
prendere, se non voleva fare né il vigliacco (obbedendo a puntino a don Rodrigo)<br />
né l’eroe (<strong>com</strong>piendo ugualmente il suo dovere di sacerdote). Perpetua infatti gli<br />
consiglia di rivolgersi all’arcivescovo cardinal Federigo Borromeo, che tutti<br />
dicono un santo e anche un uomo di polso, il quale sa difendere i suoi curati. Ma<br />
don Abbondio, accecato dalla paura, le grida iroso: “Quando mi fosse toccata una<br />
schioppettata, il Cardinale me la toglierebbe?” La serva però prontamente lo<br />
rimbecca: “Eh! le schioppettate non si danno via <strong>com</strong>e confetti!” Il can che abbaia<br />
non morde, dice in sostanza Perpetua; saggio pensiero che ritroveremo, con altre<br />
parole, in bocca allo stesso cardinal Borromeo; il che dimostra che il buon senso<br />
<strong>com</strong>une si ritrova sia nei dotti sia negli indotti, ma la paura e l’egoismo possono<br />
farlo obliterare o sparire del tutto, <strong>com</strong>e appunto in don Abbondio.<br />
In questo primo capitolo possiamo già ammirare l’ironia manzoniana,<br />
soprattutto quando parla dei soldati spagnoli ì quali “insegnavano la modestia alle<br />
fanciulle e alle donne del paese”, per dire che le seducevano o tentavano con ogni<br />
mezzo di conquistarle, “accarezzavano le spalle di qualche padre o marito”, cioè<br />
picchiavano e malmenavano quei poveri padri o mariti che cercavano di difendere<br />
le loro donne dai loro turpi disegni, “e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di<br />
spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della<br />
vendemmia”, per significare che la truppa prepotente saccheggiava letteralmente i<br />
vigneti, frustrando crudelmente le ansie e le lunghe fatiche di quei disgraziati<br />
coltivatori: questo era il dominio spagnolo in Italia!<br />
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CAPITOLO II<br />
Il capitolo <strong>com</strong>incia con un ricordo storico, con evidente intento ironico: si<br />
dice che il Principe di Condé abbia dormito profondamente la notte precedente la<br />
battaglia di Rocroi; ma ciò avvenne perché, oltre ad essere molto stanco, egli<br />
aveva dato tutte le disposizioni per il giorno seguente, cioè aveva già preparato il<br />
suo piano di battaglia, del quale, possiamo intuire, era anche molto soddisfatto;<br />
invece don Abbondio sapeva soltanto che il giorno seguente ci sarebbe stata la<br />
battaglia, cioè lo scontro con Renzo. Dopo questo umoristico confronto tra il<br />
grande condottiero francese e il vile prete della sua storia, il Manzoni continua<br />
dicendo che il poveraccio spese gran parte della notte a preparare il suo piano di<br />
battaglia: indurre Renzo, con delle scuse plausibili, ad aspettare un po’ di tempo,<br />
poiché tra cinque giorni <strong>com</strong>inciava l’Avvento Ambrosiano, tempo proibito per le<br />
nozze, le quali automaticamente sarebbero state rimandate a dopo l’Epifania.<br />
Dopo aver in qualche modo definito i pretesti da tirare in ballo per convincere<br />
il giovane ad aspettare, il curato poté finalmente chiudere occhio; ma che sonno!<br />
che sogni! Sonno agitato e interrotto, sogni arruffati e paurosi, ac<strong>com</strong>pagnati da<br />
incubi, che si susseguirono fino al mattino, allorché il poveretto si alzò e,<br />
confermatosi nel suo piano, si mise ad aspettare Renzo con timore e nello stesso<br />
tempo con impazienza, perché non vedeva l’ora di liberarsi da quel noioso<br />
pensiero.<br />
Renzo poteva avere circa vent’anni: aveva perduto i genitori in tenera età, ma<br />
aveva imparato bene il mestiere di filatore di seta e si poteva considerare, per quei<br />
tempi, quasi di condizione agiata, perché possedeva una casa e un poderetto, che<br />
coltivava lui stesso quando il filatoio restava chiuso. Era stato educato<br />
cristianamente, aveva una fede viva e uno schietto senso della giustizia; era<br />
insomma un bravo giovane, onesto e capace operaio, per di più parsimonioso e<br />
tanto innamorato della sua Lucia, cui si voleva legare per sempre davanti<br />
all’altare. Era finalmente giunto il giorno tanto desiderato! Vestito in gran gala, si<br />
presentò per tempo al curato, per sapere l’ora precisa della messa di nozze. Ma<br />
don Abbondio fece finta di cascar dalle nuvole, <strong>com</strong>e se non si fosse stabilito<br />
nulla, e disse che per quel giorno era impossibile, perché si dovevano ancora<br />
espletare molte formalità. Impastocchiando pretesti e citando articoli del Diritto<br />
Canonico, riesce a convincere Renzo che non tutto era in regola riguardo ai<br />
documenti e alle pubblicazioni, che perciò bisognava aver pazienza ancora per<br />
qualche giorno, e precisamente per una settimana.<br />
Renzo esce dalla canonica piuttosto irritato, e si avvia di mala voglia (per la<br />
prima volta!) verso la casa della fidanzata, per <strong>com</strong>unicare la triste e inaspettata<br />
notizia; ma per la strada incontra Perpetua, e subito la ferma per cercare di sapere<br />
da lei qualcosa di più, perché sospetta che sotto ci sia qualcosa di diverso da<br />
quello che il curato gli ha voluto far credere. E non si sbaglia: Perpetua, pur non<br />
spiattellando tutta la cruda verità, con delle allusioni anche troppo evidenti gli fa<br />
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capire che ci sono dei prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…e che è “mala<br />
cosa nascer povero”… Renzo ha già intuito la dura realtà e, deciso a saper tutto,<br />
torna indietro senza farsi scorgere dalla donna, sorprende il curato ancora nel<br />
salotto e con un fare deciso e minaccioso lo costringe a rivelare il nome del<br />
prepotente che non vuole che lui sposi Lucia. Quando lo sa, esce furioso dalla<br />
casa di don Abbondio, col cuore in tumulto, che in quel momento non batteva che<br />
per l’omicidio: avrebbe voluto andare al palazzotto del birbone e strozzarlo; ma<br />
era difficile penetrare in quella bicocca… allora immaginava di prendere il suo<br />
schioppo, appostarlo in un luogo solitario, stenderlo al suolo con un colpo e poi<br />
correre a mettersi in salvo in territorio veneto… il confine era vicino… Ma che<br />
sarebbe stato di Lucia?... A questo pensiero le bieche fantasie disparvero; ma che<br />
fare intanto? <strong>com</strong>e opporsi al turpe capriccio del signorotto? <strong>com</strong>e sposare la sua<br />
Lucia a onta delle minacce del potente e della viltà del parroco?<br />
Con in testa questi dolorosi pensieri giunge alla casa della promessa sposa, e<br />
sente subito il vocio proveniente da una stanza del primo piano: lì si erano date<br />
convegno le parenti e le amiche intorno a Lucia, la quale si vestiva per la<br />
cerimonia delle nozze sotto le mani esperte e amorevoli della madre. Renzo, così<br />
turbato <strong>com</strong>’era, non volle presentarsi a quella folla; perciò, avendo trovato nel<br />
cortiletto della casa una ragazzetta che plaudente gli veniva incontro, le diede<br />
l’incarico di avvertire Lucia, in segreto, che lui l’aspettava nella stanza del pian<br />
terreno. Bettina (così si chiamava la ragazzina) eseguì per benino la sua<br />
ambasciata; Lucia scese subito a basso, e vedendo il volto rabbuiato di Renzo<br />
<strong>com</strong>prese subito che era accaduto qualcosa di veramente grave. Lo sposo la<br />
informa brevemente dell’accaduto, e lei, udendo il nome di don Rodrigo, esclama:<br />
“Fino a questo segno!” Da queste parole Renzo <strong>com</strong>prende che c’è stato qualche<br />
precedente, e lo vuol sapere, ma Lucia pensa prima a congedar le amiche, onde<br />
restar soli. Lascia quindi lo sposo in <strong>com</strong>pagnia della madre, sopravvenuta nel<br />
frattempo, sale al piano di sopra e, atteggiando il viso a naturalezza, annuncia alle<br />
donne che il curato è malato e perciò il matrimonio è rimandato. Le <strong>com</strong>ari<br />
sciamano via, ma qualcuna più sospettosa, per accertarsi della cosa, si reca<br />
addirittura alla canonica, dove Perpetua dalla finestra risponde che il curato è a<br />
letto con un febbrone.<br />
Lucia, alla fine di questo capitolo, viene sobriamente descritta dall’Autore sia<br />
nel fisico che nel morale. Essa era vestita attillatamene con un busto di broccato a<br />
fiori e una gonna di filaticcio di seta, fittamente pieghettata; due calze vermiglie e<br />
due pianelle di seta a ricami <strong>com</strong>pletavano il suo ornamento di nozze. I neri e<br />
lunghi capelli erano spartiti nel mezzo da una sottile scriminatura e si<br />
ravvolgevano sulla nuca in molteplici trecce, tenute in ordine da molti spilloni<br />
d’argento che formavano <strong>com</strong>e i raggi di un’aureola, secondo il costume<br />
brianzolo. Intorno al collo portava una collana di granati, alternati con bottoni<br />
d’oro filigranato. Le maniche del busto erano, secondo la moda d’allora, staccate<br />
e allacciate con bei nastri. Del viso di Lucia il Manzoni accenna solo ai lunghi e<br />
neri sopraccigli e alla bocca che s’apriva al sorriso; per il resto dice<br />
semplicemente che essa era dotata di una “modesta bellezza”, e soprattutto era<br />
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adorna di pudore e di riservatezza, oltre che di una profonda religiosità, con un<br />
carattere dolce ma inflessibile contro il male e i suoi adescamenti.<br />
Il Nostro non indugia affatto nella descrizione fisica della sposa, né analizza il<br />
suo amore per Renzo; ma con discreti accenni ci fa capire che il suo affetto per lui<br />
era grande e puro, e aspettava di essere consacrato davanti all’altare per diventare<br />
santo e <strong>com</strong>pleto. Anche l’amore di Renzo era scevro di ogni bassezza, perché<br />
egli era un giovane onesto, educato nella morale cristiana; il suo cuore era schietto<br />
e alieno dalla violenza, ma al sentire che don Rodrigo voleva strappargli Lucia per<br />
i suoi turpi piaceri, non batté che per la vendetta e per l’omicidio. Subito però egli<br />
si riscosse inorridito da queste idee sanguinarie; e per fortuna aveva peccato solo<br />
nella fantasia e quasi senza avvedersene, tanto il suo animo era esasperato per<br />
l’infame soverchieria.<br />
A questo proposito il Manzoni osserva molto opportunamente: <strong>“I</strong> provocatori,<br />
i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei<br />
non solo del male che <strong>com</strong>mettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli<br />
animi degli offesi.” Questa osservazione morale suona <strong>com</strong>e severo monito per<br />
tutti coloro che, direttamente o indirettamente, corrompono o abbrutiscono o<br />
<strong>com</strong>unque depravano l’animo altrui; grave è la loro responsabilità, se non davanti<br />
agli uomini alla cui giustizia si può facilmente sfuggire, certamente davanti a Dio,<br />
giudice infallibile. E inversamente – si può dedurre dalle parole del Manzoni –<br />
grande è il merito di coloro che, con le parole o con le opere o con l’esempio,<br />
tendono a migliorare l’animo degli altri. Tra questi benemeriti della società un<br />
posto preminente spetta all’Autore, il quale con il suo romanzo ha elevato il<br />
livello morale di tanti lettori, inculcando nel loro cuore sentimenti di giustizia e di<br />
carità cristiana.<br />
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CAPITOLO III<br />
Lucia, congedate le donne, riferì alla madre e allo sposo che, qualche tempo<br />
prima, don Rodrigo in <strong>com</strong>pagnia di un altro signorotto (era il degno cugino conte<br />
Attilio) aveva cercato di fermarla con parole lusinghiere, mentre lei, tornando<br />
dalla filanda verso casa, era rimasta indietro alle <strong>com</strong>pagne; ma lei senza dargli<br />
minimamente retta aveva raggiunto in fretta le altre operaie, mentre don Attilio<br />
sghignazzava e l’altro diceva: “S<strong>com</strong>mettiamo.”<br />
Il giorno dopo i due si erano trovati allo stesso punto della strada, ma Lucia era al<br />
sicuro in mezzo alle <strong>com</strong>pagne; per fortuna quel giorno era l’ultimo del lavoro<br />
alla filanda, e Lucia, <strong>com</strong>e prima poté, raccontò tutto al suo confessore Padre<br />
Cristoforo, cappuccino del convento di Pescarenico, situato a circa due miglia dal<br />
villaggio degli sposi. Padre Cristoforo aveva consigliato alla ragazza di rimanere<br />
in casa, per non farsi più vedere da colui, di pregare e di affrettare le nozze, nella<br />
speranza che don Rodrigo si dimenticasse presto di lei, <strong>com</strong>e di un capriccio<br />
passeggero. Ma purtroppo i fatti smentivano questa speranza. Lucia termina il<br />
doloroso racconto nelle lagrime, mentre lo sposo, vinto dall’ira, lancia improperi<br />
contro l’avversario, stringendo il manico del suo coltello e gridando: “Questa è<br />
l’ultima che fa quell’assassino!” Ma viene finalmente calmato dalla promessa<br />
sposa con queste semplici ma ispirate parole: <strong>“I</strong>l Signore c’è anche per i poveri; e<br />
<strong>com</strong>e volete che ci aiuti, se facciam del male?”<br />
Agnese, più esperta, propone di ricorrere a un uomo di legge; lei ne conosce<br />
uno di Lecco, soprannominato Azzecca-garbugli, il quale ha saputo trarre tante<br />
persone da impicci anche peggiori. Gli sposi accettano fiduciosi il consiglio, e<br />
Renzo, presi i quattro capponi destinati al pranzo delle nozze (perché – avverte<br />
Agnese – non bisogna mai andare con le mani vuote da quei signori!) si reca a<br />
Lecco per consultarsi con l’avvocato.<br />
Il Manzoni fa a questo un’acuta osservazione: le povere bestie, che Renzo portava<br />
in mano, venivano scosse e sballottate dal braccio del giovane, il quale<br />
camminava <strong>com</strong>e fuor di sé, tutto agitato da tante passioni, di cui gli innocenti<br />
polli sopportavano il contraccolpo; ma i capponi intanto – e qui notiamo l’amaro<br />
umorismo dello Scrittore – s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, <strong>com</strong>e<br />
accade troppo sovente fra <strong>com</strong>pagni di sventura.<br />
Giunto al borgo (Lecco nel Seicento era ancora un modesto centro abitato),<br />
Renzo trova facilmente la casa dell’avvocato e viene introdotto nel suo studio,<br />
uno stanzone polveroso con pochi vecchi mobili, nel quale il tavolo di lavoro è<br />
ingombro “di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride”, tutto però in un<br />
disordine indescrivibile. Il dottore accoglie bonariamente il suo cliente, poiché<br />
questa era la sua tattica ipocrita, e Renzo, nella sua semplicità campagnola,<br />
volendo subito venire al nocciolo della questione, chiede senz’altro “se, a<br />
minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale”. L’avvocato,<br />
che ha frainteso, credendo che la prepotenza Renzo l’abbia fatta e non subita, si fa<br />
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molto serio, e risponde che il reato è grave, contemplato in cento gride, di cui una<br />
proprio dell’anno prima, che gli vuol mostrare per impressionarlo maggiormente.<br />
Per trovarla “cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su,<br />
<strong>com</strong>e se mettesse grano in uno staio” e trovatala finalmente, la lesse con molta<br />
enfasi e grave significazione al suo cliente. Ma vedendo che questi, invece di<br />
spaventarsi per le terribili pene <strong>com</strong>minate (“pena pecuniaria e corporale, ancora<br />
di relegazione e di galera e fino alla morte, all’arbitrio dell’Eccellenza Sua – cioè<br />
il Governatore – o del Senato”) quasi se ne rallegra, pensa che sia un delinquente<br />
matricolato che si ride delle gride, e perciò gli dice: “Vi siete però fatto tagliare il<br />
ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva<br />
bisogno.”<br />
Bisogna sapere che allora tutti i bravi e i delinquenti in genere portavano una<br />
lunga zazzera, onde servirsene <strong>com</strong>e di una maschera, per non farsi riconoscere,<br />
quando attuavano i loro colpi. Normalmente la portavano raccolta sotto una<br />
reticella, donde la liberavano al momento dell’azione. I governatori di Milano<br />
avevano tuonato con le loro gride anche contro i ciuffi, sperando così di<br />
sterminare i facinorosi d’ogni specie, e se l’erano presa anche con i barbieri che<br />
lasciassero ai loro clienti i capelli più lunghi dell’ordinario (“pena di cento scudi o<br />
di tre tratti di corda da essere dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale,<br />
all’arbitrio <strong>com</strong>e sopra”) <strong>com</strong>e se i poveretti potessero ottenere quello che la forza<br />
pubblica era impotente a imporre.<br />
Comunque dalle parole dell’avvocato Renzo capisce l’equivoco in cui egli è<br />
caduto, e si affretta a chiarirlo, dicendo che non è stato lui a minacciare il<br />
curato… lui non fa di queste cose, né ha mai portato il ciuffo… ma quel<br />
prepotente di don Rodrigo… A questa rivelazione il dottore va in bestia, e<br />
sdegnato caccia via in malo modo il povero Renzo al quale fa anche restituire gli<br />
sventurati capponi, con cui il malcapitato torna al suo villaggio più sconvolto e<br />
amareggiato che mai, intuendo press’a poco il motivo per cui l’avvocato si era a<br />
un tratto inalberato nell’udire il riverito nome del signorotto.<br />
Nel frattempo, nella casetta di Agnese, Lucia ha esposto l’dea di avvertire<br />
dell’accaduto il padre Cristoforo; ma <strong>com</strong>e fare? Mentre pensano al modo, viene<br />
fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, per la solita cerca delle noci, con cui<br />
allora facevano olio (<strong>com</strong>mestibile per condimento). Lucia pensa subito di servirsi<br />
del frate converso per avvertire il suo confessore, e perciò dà una bella quantità di<br />
noci, affinché fra Galdino possa tornar presto al convento; ché altrimenti, dovendo<br />
andare in giro ancora per un bel po’, per riempire le sue bisacce, probabilmente si<br />
sarebbe dimenticato dell’ambasciata, con tutte le chiacchiere che avrebbe fatte e<br />
intese nella varie case… Infatti al cercatore piaceva discorrere, e spesso ripeteva<br />
un fatto miracoloso, avvenuto in un convento di cappuccini in Romagna, anche<br />
perché l’episodio edificante era molto adatto a suscitare la generosità dei<br />
benefattori. E quel giorno lo raccontò ad Agnese. In quel convento di Romagna<br />
dunque viveva un santo frate, chiamato Padre Macario. Costui un giorno,<br />
passando per il campo di un benefattore del convento, vide che si accingeva a<br />
sradicare un grande noce che non dava mai frutto. Il frate lo pregò di risparmiare<br />
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l’albero, perché l’anno successivo avrebbe portato più noci che foglie; e così fu.<br />
Però il buon uomo – che aveva promesso al convento una metà del raccolto del<br />
noce – morì prima di poterlo bacchiare, e quando il frate cercatore si presentò al<br />
figlio, un cinico scapestrato, per avere la parte pattuita, fu cacciato via con parole<br />
di scherno. Ma il Signore lo punì per il suo irreligioso egoismo; infatti un giorno,<br />
avendo gozzovigliato con amici dello stesso pelo, dopo aver raccontato il fatto<br />
ridendo della bella pretesa dei frati, volle mostrar loro quel gran mucchio di noci,<br />
ma trovò… un gran mucchio di foglie secche. Gran lezione eh! E il convento –<br />
soggiunse fra Galdino – invece di perderci ci guadagnò, perché, dopo il duplice<br />
miracolo, tutti furono più generosi, tanto che un benefattore, mosso a pietà del<br />
frate torzone, che ogni giorno vedeva tornare al convento tutto curvo sotto il peso,<br />
regalò al convento un asino, e così il povero fraticello cessò di far lui… il somaro.<br />
Agnese, non sufficientemente colpita dalla morale dell’episodio, quando vide<br />
Lucia dar tutte quelle noci, fece un viso di rimprovero, e quando il cercatore fu<br />
uscito, esclamò: “Tutte quelle noci, in quest’anno!” Lucia le disse il motivo della<br />
generosa offerta, che la madre approvò pienamente, aggiungendo: “E poi è tutta<br />
carità che porta sempre buon frutto.” Agnese infatti, dice a questo punto il<br />
Manzoni, “coi suoi difettucci era una gran buona donna, e si sarebbe, <strong>com</strong>e si<br />
dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua<br />
<strong>com</strong>piacenza.”<br />
Intanto tornò Renzo tutto indignato, e non si rasserenò neppure al pensiero che<br />
il padre Cristoforo si sarebbe adoperato per loro, tanto era sconvolto e<br />
amareggiato dall’umana ingiustizia; sicché egli non ha fiducia nel soccorso del<br />
frate, e sente più che mai forte la tentazione di farsi giustizia da sé. La giornata,<br />
che doveva essere di festa e di gioia, finisce per il giovane nel più cupo sconforto,<br />
mentre le donne hanno molta fiducia nell’azione del Padre.<br />
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CAPITOLO IV<br />
Il mattino del giorno successivo, 9 novembre 1628, allo spuntar del sole, padre<br />
Cristoforo, avvertito da fra Galdino, uscì frettoloso dal convento per salire alla<br />
casetta di Agnese. La scena naturale era lieta: cielo nitido, monti che si<br />
stagliavano nell’azzurro intenso del cielo, vigne e campi coltivati ai lati della via,<br />
e una brezzolina autunnale che asciugava la guazza notturna e investiva gradevole<br />
il viso del viandante mattutino. E’ la tipica estate di San Martino; ma lo spettacolo<br />
umano su quella lieta scena naturale era tutt’altro che lieto: mendichi macilenti, di<br />
cui alcuni spinti a elemosinare dall’incipiente carestia, contadini che lavoravano la<br />
terra senza l’usata letizia, che seminavano “con risparmio e a malincuore, <strong>com</strong>e<br />
chi arrischia cosa che troppo gli preme”, fanciulli scarni; anche le vacche erano<br />
magre, per la penuria dei pascoli, dovuta alla persistente siccità. La triste scena<br />
umana accresceva la mestizia del frate, il quale presentiva che a Lucia era<br />
successo qualcosa di grave.<br />
A questo punto il Manzoni traccia una breve biografia di Padre Cristoforo, che<br />
allora era vicino ai sessant’anni. Prima di entrare nell’Ordine dei Cappuccini si<br />
chiamava Ludovico, ed era figlio unico di un ricco mercante di tessuti, il quale a<br />
una certa età aveva lasciato il <strong>com</strong>mercio trovandosi bastevolmente ricco e non<br />
avendo bisogno di guadagnare ancora. Stranamente, da quel momento <strong>com</strong>inciò a<br />
odiare la sua precedente attività, a vergognarsene <strong>com</strong>e di una turpe macchia da<br />
dimenticare, dato che non la si poteva cancellare, “non riflettendo mai – osserva<br />
argutamente l’Autore – che il vendere non è cosa più ridicola che il <strong>com</strong>prare.” I<br />
suoi amici e ospiti dovevano mettere una grande attenzione per evitare ogni<br />
minimo accenno – diretto o indiretto – al mestiere precedente del padrone di casa,<br />
che intanto si era dato a vivere da gran signore, facendo impartire al figlio<br />
un’educazione cavalleresca, senza badare a spese, in emulazione con i nobili della<br />
città. Ma in tal modo l’ex-mercante amareggiava sé e gli altri, vivendo nel<br />
perpetuo sospetto che essi ricordassero quello che lui era stato e ridessero di lui,<br />
mentre “il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli <strong>com</strong>parivano sempre nella<br />
memoria, <strong>com</strong>e l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense e il<br />
sorriso dei parassiti.” Tra questi un tale, un brutto giorno, stuzzicato durante il<br />
banchetto dall’anfitrione in mezzo all’allegria generale, si lasciò scappare: “Eh! io<br />
fo l’orecchio del mercante!” Lui stesso rimase colpito dalla parola che gli era<br />
sfuggita, e tentò invano di riavviare la conversazione che era stata troncata in un<br />
silenzio imbarazzante; tutti i convitati allibirono scandalizzati, scorgendo la faccia<br />
scura del padrone di casa; l’allegria finì per quel giorno in un silenzio glaciale, e<br />
l’autore dello scandalo se ne andò mortificatissimo e da quel giorno non fu più<br />
invitato.<br />
Quando il padre morì, Ludovico era ancora giovinetto; educato signorilmente,<br />
voleva stare con i figli dei nobili, alla loro pari; ma questi, pieni dell’orgoglio di<br />
casta, lo consideravano al di sotto, anche se era forse più ricco di loro.<br />
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Sicché Ludovico dovette ingoiare molti amari bocconi e, fattosi giovane, con un<br />
grande desiderio di rivalsa <strong>com</strong>inciò a <strong>com</strong>petere con i rampolli della nobiltà in<br />
lusso, cavalli, carrozze, banchetti, festini e numero di bravi, profondendo a piene<br />
mani il suo pingue patrimonio, pur di apparire più di loro. A poco a poco<br />
<strong>com</strong>inciò a <strong>com</strong>petere con loro in cose più gravi e pericolose, emulandoli in<br />
potenza oltre che in ricchezza, e si mise ad attraversare i loro disegni, a<br />
contrastare le loro prepotenze, a farsi difensore e paladino delle vittime di quelli.<br />
Ma per opporsi alla loro prepotenza, doveva necessariamente usare anche lui la<br />
violenza, l’inganno, l’agguato, e circondarsi di bravi tra i più ribaldi e sfegatati;<br />
gli era giocoforza, <strong>com</strong>e ben dice l’Autore, “vivere coi birboni per amore della<br />
giustizia.”<br />
Una tale vita non poteva davvero soddisfare il suo animo schietto e avverso<br />
all’ingiustizia; sicché scontento di sé e disgustato di tutto, aveva più di una volta<br />
pensato a farsi frate. Un grave incidente gli fece realizzare questa idea, che<br />
altrimenti sarebbe forse rimasta una fantasia per tutta la vita.<br />
Un giorno, ac<strong>com</strong>pagnato da due bravi e dal suo maggiordomo Cristoforo, si<br />
incontrò per strada con un signorotto molto prepotente e superbo, da cui era odiato<br />
e che egli ricambiava di ugual sentimento, sebbene non avesse ancora avuto a<br />
contrastare con lui, “giacché – osserva argutamente il Manzoni – è uno dei<br />
vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare e di essere odiati, senza<br />
conoscersi.” Nell’incontrarsi, il burbanzoso signore pretendeva che Ludovico coi<br />
suoi si scansasse dal marciapiede verso il centro della strada, per far passare lui e<br />
il suo seguito di quattro bravi, mentre Ludovico credeva suo diritto non lasciare il<br />
marciapiede e non cedere il passo al nobile, per il fatto che camminava rasente al<br />
muro (e questo, secondo una consuetudine, lo autorizzava a non staccarsi dal detto<br />
muro davanti a chicchessia). In breve dalle minacce si passa agli insulti, e da<br />
questi alle armi, e la battaglia coinvolge, coi padroni, i loro bravi. Ludovico, che<br />
in quanto a numero si trovava in netto stato d’inferiorità, pensava più che altro a<br />
difendersi e a disarmare l’avversario principale, il quale invece cercava di<br />
ucciderlo a tutti i costi; a un certo punto il signorotto, vedendo il nemico già<br />
ferito, gli si scaglia addosso per finirlo con un gran fendente, ma il fedele<br />
Cristoforo si para in sua difesa, ricevendo lui il colpo mortale. Allora Ludovico<br />
non ci vide più, e istintivamente trafisse a sua volta l’avversario. I bravi delle due<br />
parti fuggirono, per non dover rendere conto alla giustizia, mentre Ludovico fu<br />
ac<strong>com</strong>pagnato a un vicino convento, dove venne rac<strong>com</strong>andato ai frati dai<br />
soccorritori, che avevano simpatia per lui, quale paladino della povera gente<br />
contro i prepotenti signorotti. Guarito delle ferite, egli pensò seriamente<br />
all’indirizzo da dare alla sua vita, e decise fermamente di farsi frate, per riparare il<br />
mal fatto a due famiglie con tutta una vita di penitenza e di opere buone. La<br />
richiesta fu accolta, perché la sua decisione era sincera e profonda, e non presa per<br />
timore o per altra considerazione umana. La giustizia umana non perseguitò<br />
l’omicida che si era volontariamente chiuso nel saio, anche perché egli era scusato<br />
dalla legittima difesa; inoltre in quei tempi il farsi frate appariva riparazione<br />
soddisfacente per qualsiasi reato, <strong>com</strong>e l’esilio per gli Ateniesi.<br />
29
Prima di partire da quella città, per raggiungere la sede del suo noviziato,<br />
Ludovico volle chiedere perdono al fratello dell’ucciso, il quale accettò l’atto di<br />
riparazione, che volle pubblico e solenne, pensando che nell’umiliazione del frate<br />
avrebbe ripreso aire il suo prestigio e avrebbe trovato uno sfogo il suo sdegno<br />
superbo; quindi invitò alla cerimonia tutta la parentela, perché godesse anch’essa<br />
di quella soddisfazione <strong>com</strong>une. Fra Cristoforo (che aveva assunto questo nome<br />
per ricordare il maggiordomo morto per lui) quando scorse, nel palazzo del<br />
signore,quel grand’apparato e ne intuì lo scopo, rimase turbato; ma fu solo un<br />
momento, poi pensò che l’umiliazione era per lui più che meritata, e chiese<br />
perdono con tanta sincera umiltà e con un dolore così vivo per il male <strong>com</strong>messo,<br />
che tutti i presenti, a <strong>com</strong>inciare dal fratello dell’ucciso, ne restarono <strong>com</strong>mossi e<br />
piamente edificati. E quella che, nelle intenzioni del padrone di casa, doveva<br />
essere una manifestazione di orgoglio e un accrescimento di prestigio mondano,<br />
divenne una predicazione di umiltà e di amore cristiano. Lo stesso fratello<br />
dell’ucciso, <strong>com</strong>e afferma il Manzoni, fu da quel giorno più posato e più affabile.<br />
Fra Cristoforo, invitato insistentemente ad accettare qualcosa (era stato<br />
preparato per l’occasione un sontuoso rinfresco per gli invitati) chiese che gli<br />
dessero in elemosina un pane, in pegno di perdono; del quale una parte mangiò e<br />
una parte conservò in un cofanetto, per ricordo del suo peccato e della doverosa<br />
espiazione, a cui tutta la vita era stata dedicata. Riguardo al ministero al quale si<br />
dedicò una volta consacrato sacerdote, l’Autore dice che egli, oltre a <strong>com</strong>piere<br />
scrupolosamente tutti gli incarichi che gli venivano affidati dai superiori, e a<br />
sottoporsi volentieri a quanto era imposto dalla regola dell’Ordine, non mancava<br />
mai di <strong>com</strong>piere altri due uffizi che si era imposti da sé: appianare contrasti e<br />
proteggere oppressi. A questi <strong>com</strong>piti egli era portato dalla sua natura impetuosa e<br />
onesta, che non poteva sopportare ingiustizie e prepotenze, quella natura per la<br />
quale, quando era ancora Ludovico, si era imbarcato in tante lotte contro i<br />
signorotti della sua città. Allora però <strong>com</strong>batteva con le stesse armi del nemico,<br />
con le armi della forza e della violenza; ora invece il frate lottava con armi ben<br />
diverse, fornite dalla fede e dalla cristiana fortezza, e accanto all’umiltà, alla carità<br />
e al perdono metteva in opera anche il consiglio, la prudenza e l’ammonizione<br />
talora vibrata e irruente.<br />
Perciò non c’è da meravigliarsi se, alla chiamata di Lucia, corre sollecito alla<br />
sua casetta, presago di andare a sentire qualche tristo accidente; anche perché<br />
verso Lucia, di cui era da tempo direttore spirituale, egli portava una paterna<br />
sollecitudine, non scevra di ammirazione per la sua anima santa e pura, che lui<br />
aveva contribuito a rendere così eletta.<br />
30
CAPITOLO V<br />
Padre Cristoforo, entrato nella casetta di Agnese, dopo un semplice e cordiale<br />
saluto chiede cosa è successo; Lucia é in lagrime, tanto è il turbamento di<br />
quell’animo semplice e inesperto del male; per cui la madre fa la sua dolorosa<br />
relazione, ascoltando la quale il frate non trattiene il suo doloroso stupore misto di<br />
indignazione. Quand’ebbe udito tutto, esclamò con tono di affettuosa pietà:<br />
“Poverette! Dio vi ha visitate.” Parole semplici, ma pregne di significato: nella<br />
prima esclamazione si avverte tutta la partecipazione intima e sentita al loro<br />
dolore, la <strong>com</strong>prensione della loro pena; le parole successive esprimono la<br />
valutazione cristiana del dolore, considerato appunto una visita di Dio, quindi<br />
<strong>com</strong>e una cosa non da odiare, ma piuttosto da amare, non da fuggire, ma piuttosto<br />
da ricercare, o almeno da accettare con fiduciosa rassegnazione. Infatti il dolore,<br />
che è conseguenza del peccato, oltre che mezzo di espiazione, è per il cristiano<br />
anche un efficace strumento di perfezionamento morale e di elevazione interiore.<br />
Esso è, per così dire, <strong>com</strong>e il fuoco impetuoso che raffina il nobile metallo. Dopo<br />
quelle parole sgorgategli dal cuore, fra Cristoforo si concentra, pensando al modo<br />
migliore di aiutare le poverette. Metter vergogna o anche fare paura a don<br />
Abbondio, con ammonizioni e minacce spirituali? Fatica sprecata: quale paura<br />
potrebbe essere per lui equivalente a quella di una schioppettata? Scrivere<br />
all’Arcivescovo? Ci vuol tempo; e intanto, se don Rodrigo passava all’uso della<br />
forza, <strong>com</strong>e resistergli? Nemmeno i suoi confratelli di Pescarenico sarebbero stati<br />
tutti dalla sua parte, e tanto meno quelli di Milano, perché don Rodrigo e i suoi<br />
parenti di Milano facevano gli amici del convento, i fautori dei Cappuccini; e<br />
probabilmente gli altri frati lo avrebbero tacciato di irrequieto e turbolento, se non<br />
addirittura di amante dei contrasti e attaccabrighe!<br />
Insomma, dopo aver riflettuto un po’, il partito migliore gli sembrò quello di<br />
andare addirittura dal signorotto, per cercare di smuoverlo dal suo turpe capriccio,<br />
con le preghiere o anche con le minacce, spirituali e temporali, qualora non avesse<br />
voluto ascoltare le suppliche. Era una cosa ben difficile che un prepotente di<br />
quella fatta si arrendesse a preghiere disarmate, ma valeva la pena tentare; se non<br />
altro, il colloquio gli sarebbe servito per sondare le intenzioni di don Rodrigo, per<br />
scoprire fino a che punto fosse intestardito. Quando il frate, avendo ormai preso la<br />
decisione, alzò il viso per <strong>com</strong>unicarla alle donne, vide Renzo che era giunto da<br />
qualche minuto, ma era rimasto silenzioso in disparte per non disturbare il Padre il<br />
quale, a testa china, ponderava i pro e i contro dei vari partiti. Dopo il cordiale<br />
saluto del frate, il giovane si lasciò scappare delle parole amare contro gli amici<br />
del mondo, i quali prima, allorché non c’era pericolo in vista, gli promettevano di<br />
sostenerlo contro chiunque, pronti anche a eliminare il suo eventuale avversario…<br />
mentre ora, saputo che il nemico è don Rodrigo, si ritiravano pavidi… Ma<br />
vedendo il volto del Padre rabbuiarsi a queste parole, Renzo <strong>com</strong>prese subito che<br />
esse non erano davvero degne di un cristiano, e confuso cercava di mutarne il<br />
31
senso, ma invano. Fra Cristoforo lo redarguì aspramente, ammonendolo che con<br />
questo suo <strong>com</strong>portamento vendicativo egli rischiava di perdere il solo Amico che<br />
poteva e voleva aiutarlo… ma doveva confidare in Lui e in Lui solo, deponendo<br />
ogni odio e ogni proposito di vendetta. Renzo, pentito delle sue idee di violenza,<br />
promette di fidare nel Signore e di farsi guidare dal suo ministro; e allora le<br />
donne, anch’esse gravemente turbate dalle irose parole del giovane, traggono un<br />
respiro si sollievo. Quindi il frate espone il suo disegno e subito si congeda dai<br />
suoi protetti, avendo fretta di tornare al convento.<br />
Giunse infatti in tempo per cantar sesta coi confratelli, e immediatamente, dopo<br />
aver pranzato, si mise in cammino verso il palazzotto di don Rodrigo, distante<br />
circa quattro miglia da Pescarenico. L’edificio sorgeva alla sommità di un poggio,<br />
ed era di costruzione così massiccia da assomigliare a una bicocca. Lo si<br />
raggiungeva per mezzo di una strada a chiocciola che aggirava il colle, e aveva sul<br />
davanti un’ampia spianata. Ai piedi dell’altura si aggruppavano delle misere<br />
casupole abitate dai contadini del signorotto, i quali erano abituati alle armi non<br />
meno dei bravi e dovevano considerarsi, per così dire, le sue truppe di riserva. Sui<br />
due battenti del portone del palazzotto erano inchiodati, con l’ali aperte, due<br />
grandi avvoltoi, simbolo evidente delle abitudini fiere e rapaci del padrone.<br />
Quando il frate arrivò sulla spianata, vide il portone chiuso, e arguendo che il<br />
signore stava ancora pranzando, si disponeva ad aspettare; ma uno dei due bravi di<br />
guardia, che in qualche occasione si era ricoverato in convento essendo braccato<br />
dai birri, lo invitò pressantemente a venir pure avanti, picchiando nello stesso<br />
tempo all’uscio. Venne ad aprire un vecchio servitore, che fungeva da<br />
cerimoniere, il quale, vedendo che l’importuno era il frate, smise subito di<br />
borbottare, acquietò i cani e introdusse l’ospite, ma non poté tenersi<br />
dall’esprimere la sua meraviglia per la presenza del religioso in quella casa: “Lei<br />
qui? Sarà per far del bene… Del bene se ne può far per tutto.” Da queste poche<br />
parole <strong>com</strong>prendiamo che il vecchio servo è un brav’uomo, l’unico di quella casa,<br />
tollerato lì, <strong>com</strong>e spiega l’Autore, per due soli motivi: perché aveva una sviscerata<br />
devozione al casato, avendo servito il padre di don Rodrigo, che era un<br />
valentuomo, e perché aveva una gran pratica del cerimoniale, per cui nei giorni di<br />
ricevimento diventava persona importante e indispensabile.<br />
Il servitore condusse il frate sino al locale attiguo alla sala del convito e quivi,<br />
essendosi proprio in quel momento aperta la porta, il cappuccino fu scorto da don<br />
Attilio mentre voleva ritirarsi per non disturbare a quell’ora; ed essendo stato<br />
invitato con insistenza dal conte, dovette entrare suo malgrado, pur <strong>com</strong>prendendo<br />
che non era quello il momento adatto per espletare la sua missione. Fatto sedere<br />
accanto al padrone di casa, il frate gli disse sommessamente che desiderava<br />
parlargli, con suo <strong>com</strong>odo, di una questione importante; e don Rodrigo lo assicurò<br />
che avrebbero parlato in seguito, ma che intanto accettasse da bere. Davanti<br />
all’insistenza del signore, fra Cristoforo, cui conveniva <strong>com</strong>piacerlo in quanto<br />
fosse possibile, accettò il vino offertogli, che <strong>com</strong>inciò a centellinare, per mostrare<br />
che non aveva alcuna fretta.<br />
32
Al banchetto partecipavano, assieme a don Rodrigo e al conte Attilio, che<br />
sedevano fianco a fianco su un lato lungo della tavola, il podestà di Lecco e<br />
l’avvocato Azzecca-garbugli, che si fronteggiavano ai lati corti della mensa<br />
rettangolare, mentre di fronte ai due cugini stavano “due convitati oscuri”, <strong>com</strong>e<br />
dice il Manzoni, cioè due parassiti, invitati per far numero, il cui <strong>com</strong>pito era solo<br />
quello di mangiare e di magnificare cibi e bevande assieme all’opulenza del<br />
nobile convitante, e inoltre di “sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un<br />
<strong>com</strong>mensale, a cui un altro non contraddicesse”.<br />
Mentre il frate, seduto accanto a don Rodrigo ma un po’ discosto dalla tavola,<br />
sorbiva calmo il suo calice, si riaccese la disputa che, all’ingresso del Padre, si era<br />
momentaneamente placata. Essa verteva su un punto di cavalleria: un nobile di<br />
Spagna aveva inviato recentemente una sfida a un cavaliere milanese; il latore del<br />
cartello, non trovando in casa lo sfidato, rimise il foglio, senza chiedergliene il<br />
permesso, nelle mani del fratello del destinatario, il quale, ritenendosi offeso da<br />
questa mancanza di riguardo, diede per tutta risposta delle sonore bastonate<br />
all’incauto ambasciatore il quale questa volta, contrariamente al noto proverbio,<br />
portò la pena della sua missione. Don Attilio, nella sua burbanza nobiliare e anche<br />
per un tantino di orgoglio milanese nei riguardi del portatore e del cavaliere, che<br />
erano spagnoli, sosteneva che quelle legnate erano legittime, anzi sacrosante; il<br />
Podestà, nella sua prosopopea di leguleio e anche di funzionario legato, per<br />
interessi se non pure per nascita, agli Spagnoli dominatori, affermava che l’azione<br />
del cavaliere milanese era abominevole e contraria a tutte le regole della cavalleria<br />
e del diritto internazionale, perché la persona dell’ambasciatore -jure gentium- è<br />
sacra e inviolabile.<br />
Sic<strong>com</strong>e la disputa si riscaldava sempre più, e don Attilio, nella foga<br />
incontrollata del discorso, non si teneva dall’offendere ormai apertamente il<br />
Podestà, il quale evidentemente non era di estrazione nobiliare, don Rodrigo, per<br />
sopire la discussione, propose di deferire la contesa a un arbitro, cioè al padre<br />
Cristoforo. Questi si schermisce allegando la sua in<strong>com</strong>petenza in materia di<br />
cavalleria, ma dinanzi alle ripetute insistenze del padrone di casa, dice che il suo<br />
modesto parere é che non ci dovrebbero essere né sfide né duelli né bastonate.<br />
Questa opinione suscitò l’incredulità e la delusione generale, e soprattutto l’ironia<br />
del Conte, il quale tacciò il frate di ingenuità e di scarsa conoscenza del mondo;<br />
ma don Rodrigo,volendo evitare che la contesa si riaccendesse, perché a lui<br />
premeva non alienarsi l’amicizia del Podestà, cioè la benevola connivenza della<br />
massima autorità governativa del territorio di Lecco, incaricò scherzosamente<br />
l’avvocato, che per difendere ogni assunto era una cima, di giustificare il parere<br />
del frate. Il dottor Azzecca-garbugli, chiamato in causa, rispose cerimoniosamente<br />
che il parere del Cappuccino non era adeguato a una disputa cavalleresca, pur<br />
avendo il suo peso dal punto di vista religioso; secondo lui il frate aveva voluto,<br />
con una battuta scherzosa, togliersi dall’impaccio di dare una sentenza in una<br />
materia lontana dal suo ministero. Allora don Rodrigo, sempre allo scopo di<br />
stornare il discorso da quell’argomento scottante, accennò alla guerra che si stava<br />
<strong>com</strong>battendo per la successione al ducato di Mantova, aggiungendo che a Milano<br />
33
correvano voci di ac<strong>com</strong>odamento. Ma purtroppo anche a questo proposito si<br />
riaccende l’antagonismo ideologico fra il Conte e il Podestà; infatti questi nega<br />
ogni possibilità di accordo, sostenendo di essere ben informato, in quanto amico<br />
intimo del capitano spagnolo <strong>com</strong>andante la guarnigione di Lecco, il quale a sua<br />
volta è una creatura del Primo Ministro di Madrid, nientemeno che il conte<br />
d’Olivares, detto il Conte duca. Don Attilio a sua volta sostiene che ogni giorno a<br />
Milano gli capita di parlare con personaggi molto più altolocati e informati di un<br />
semplice capitano di guarnigione, e può quindi assicurare che sono avviate<br />
trattative, specie per opera del Papa… In un batter d’occhio la disputa si rinfocola<br />
e rischia di arrivare a un punto di rottura, ma don Rodrigo dà d’occhio al cugino,<br />
facendogli capire che, per amor suo, cessi dal contraddire il Podestà; e solo allora<br />
questi, avendo campo libero, poté tessere una sperticata lode del Conte duca,<br />
irridendo alle mene di quel povero Cardinale di Richelieu che s’illudeva di poter<br />
<strong>com</strong>petere con un Olivares.<br />
Don Rodrigo, per mettere fine a questo elogio che non piaceva al cugino, il<br />
quale ormai non stava più alle mosse e gli faceva gli occhiacci, propose di fare un<br />
brindisi in onore del Conte duca. Il Podestà accolse la proposta con orgoglio ed<br />
entusiasmo, “perché – dice ironicamente il Manzoni – tutto ciò che si faceva o si<br />
diceva in onore del Conte duca, lo riteneva in parte <strong>com</strong>e fatto a sé.” E volle lui<br />
stesso esprimere nel brindisi i voti dei presenti, mentre il dottore si assunse il<br />
<strong>com</strong>pito di tessere l’elogio del vino – anzi del nettare – di don Rodrigo. Ma le<br />
parole laudative dell’avvocato, il quale a un certo punto affermò che la carestia<br />
era bandita per sempre dal palazzo del signor don Rodrigo, richiamarono<br />
l’attenzione e il discorso su questo doloroso argomento. Qui tutti erano d’accordo<br />
che la penuria era causata dai fornai e dai cinici incettatori di derrate, contro i<br />
quali bisognava agire subito. Ma anche a questo proposito si riaccende la contesa<br />
tra il Conte e il Podestà: il primo grida che bisogna impiccarli senza misericordia<br />
e senza formalità, il secondo chiede dei buoni processi (cioè con la tortura e le<br />
altre belle garanzie legali); finché il padrone di casa si alza e chiede licenza agli<br />
ospiti di appartarsi per il colloquio che aveva promesso al Padre.<br />
34
CAPITOLO VI<br />
Condotto il visitatore in un’altra stanza, senza invitarlo ad ac<strong>com</strong>odarsi, e<br />
quindi mostrando chiaramente l’intenzione di spicciarsi, don Rodrigo con tono<br />
duro e imperioso chiese: <strong>“I</strong>n che posso obbedirla?” Al tono sgarbato della voce<br />
del suo interlocutore, che contrastava fortemente con la gentilezza manierata della<br />
formola, fra Cristoforo si sentì <strong>com</strong>e sferzato, e stava per rispondere per le rime,<br />
quando si ricordò per chi e per che cosa stava lì, e propose di essere il più umile, il<br />
più calmo e il più prudente possibile, per cercare di convincere con le buone il<br />
signore a desistere dal non certo onorevole impegno.<br />
Però si accorse subito che il proposito era oltremodo difficile, perché il suo<br />
interlocutore cercava di offenderlo, per far degenerare il colloquio in contesa,<br />
onde far perdere le staffe al frate e quindi avere il pretesto di metterlo alla porta<br />
prima che potesse venire al nocciolo della questione. Infatti, avendo fra Cristoforo<br />
fatto appello all’onore e alla coscienza del signore, in difesa di una ragazza<br />
perseguitata, questi con tono risentito rispose che non aveva alcuna intenzione di<br />
confessarsi da lui, e in quanto all’onore, lui ne era il solo geloso custode, e<br />
chiunque ardisse occuparsene sarebbe stato da lui considerato <strong>com</strong>e il peggiore<br />
nemico di esso.<br />
Fra Cristoforo ingoia l’offesa e, raddoppiando la circospezione, rinnova le<br />
preghiere e le suppliche in nome di Dio, “per quel Dio, al cui cospetto dobbiamo<br />
tutti <strong>com</strong>parire”; ma il signorotto lo interrompe brusco, dicendo che non tollera<br />
uno che gli viene a fare la spia in casa.<br />
Queste parole ingiuriose fecero venir le vampe sul volto del frate; eppure, con un<br />
supremo sforzo di autocontrollo, egli riuscì a contenersi e, senza raccoglier<br />
l’offesa, a insistere nella preghiera di lasciar in pace la ragazza, accennando<br />
ancora alla responsabilità che il signore aveva davanti a Dio e alla Sua giustizia,<br />
anche se poteva eludere la legge umana. Allora don Rodrigo, con insinuazione<br />
maligna, disse che se c’era qualche ragazza che gli premeva, andasse a fare le sue<br />
confidenze a qualche altro, e non infastidisse più a lungo un gentiluomo; e fece<br />
atto di andarsene. Ma fra Cristoforo, senza mostrarsi offeso, rispose che quella<br />
ragazza gli stava a cuore spiritualmente non più di lui stesso, e tornò a pregarlo<br />
con accorata insistenza. A questo punto don Rodrigo, volendo farla finita, ben<br />
sapendo che, alla sua proposta, il frate non avrebbe più saputo dominarsi, disse al<br />
suo interlocutore di convincere detta ragazza a venire spontaneamente nel suo<br />
palazzo, mettendosi sotto la sua protezione, così nessuno avrebbe più osato<br />
importunarla… A queste parole il frate non riuscì più a trattenere il suo sdegno<br />
lungamente represso; ogni proposito di calma e di pazienza fu dimenticato, e<br />
anche il suo aspetto esteriore fu trasformato: il viso si accese, gli occhi<br />
lampeggiarono, il busto si fece eretto, e con fiera positura egli rispose che la<br />
ragazza era sotto la protezione di Dio e sicura dalle sue grinfie. Dicendo queste<br />
parole assunse il tono di sfida, di accusa e di minaccia proprio degli inesorabili<br />
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profeti dell’Antico Testamento (“con la prosopopea di Nathan” dice il Manzoni),<br />
e aggiunse alzando la voce: “Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in<br />
quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…”<br />
Don Rodrigo, preso da spavento per l’infausta profezia che si annunziava, la<br />
troncò immediatamente, investendo il Cappuccino con le minacce e gli insulti più<br />
volgari e truculenti: “Escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone<br />
incappucciato… ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti<br />
salva dalle carezze che si fanno ai tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le<br />
tue gambe, per questa volta; e la vedremo”. Con quest’ultima frase mostrò di<br />
accettare in pieno la sfida a proposito di Lucia, per cui il suo possesso diventava<br />
per lui, da quel momento, anche un punto di onore.<br />
Fra Cristoforo ricevette gli improperi senza s<strong>com</strong>porsi, non rispondendo nulla,<br />
perché ormai ogni parola era inutile, e la sua missione era fallita: di questo<br />
soltanto era addolorato e profondamente amareggiato, non dei brucianti insulti,<br />
che sembrava non lo riguardassero, perché tutta la sua vita era associata all’idea di<br />
umiliazione e abnegazione di sé stesso.<br />
Mentre usciva per la porta indicatagli con cenno imperioso dal padrone di<br />
casa, vide il vecchio servitore che si ritirava lungo il muro, evidentemente per non<br />
farsi scorgere dal signore. Quindi, ac<strong>com</strong>pagnando il frate all’uscita, gli disse in<br />
gran mistero, e chiedendo il segreto, che aveva qualcosa da <strong>com</strong>unicargli in<br />
merito all’argomento del colloquio, e che sarebbe andato al convento non appena<br />
avesse appurato che cosa di preciso si stava preparando contro Lucia, perché<br />
qualcosa in aria c’era di sicuro. E soggiunse: “Mi tocca a vedere e a sentir cose…!<br />
cose di fuoco! Ma io vorrei salvar l’anima mia.” Fra Cristoforo lo benedisse e lo<br />
pregò di andare al convento l’indomani per rivelargli tutto ciò che si stava<br />
tramando; quindi uscì da quella casa con questo pegno di assistenza che il Signore<br />
gli aveva concesso proprio in quel luogo, dove meno se lo sarebbe aspettato; e<br />
questo addolcì alquanto la sua amara delusione.<br />
A proposito del vecchio servitore, il Manzoni accenna al problema morale<br />
posto dal suo <strong>com</strong>portamento verso il proprio padrone: gli era lecito origliare, per<br />
conoscere lo scopo della visita del Cappuccino? E noi potremmo anche chiederci:<br />
gli era lecito fare la spia, attraversare i disegni del padrone, contravvenendo al<br />
dovere della fedeltà? “Questioni importanti – dice l’Autore – ma che il lettore<br />
risolverà da sé, se ne ha voglia.” Il Manzoni però, mentre sembra volersene lavare<br />
le mani, ci mette sulla buona strada della soluzione di questo problema morale,<br />
quando dice che ogni regola ha la sua eccezione. Infatti il servo agiva a fin di<br />
bene: egli aveva saputo qualcosa a proposito di Lucia, che cioè si tramava contro<br />
l’innocente per insozzarne la purezza; aveva intuito che il frate era venuto per<br />
quella cosa, e volle accertarsene tendendo l’orecchio al buco della serratura;<br />
avutane la certezza, si mise subito a disposizione del frate per salvare quella<br />
poveretta insidiata dal suo padrone. Sentiva di doverlo fare per coscienza, mentre<br />
il dovere di fedeltà in questo caso non lo vincolava più, poiché nessuno può essere<br />
tenuto a essere collaboratore o connivente con gli operatori di iniquità. Infatti la<br />
morale cristiana ci insegna che non dobbiamo più ubbidire ai superiori quando ci<br />
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<strong>com</strong>andano cose ingiuste o cattive; e in tal caso siamo anche sciolti dal vincolo di<br />
fedeltà, anche se avessimo esplicitamente giurato di essere fedeli e ubbidienti.<br />
Mentre il frate si batteva per la causa di Lucia nel palazzotto di don Rodrigo,<br />
nella casetta di Agnese si ventilava un altro progetto: il matrimonio di sorpresa.<br />
L’esperta vedova assicurò la figlia e il futuro genero che, se si presentavano al<br />
parroco con due testimoni e pronunciavano una certa formula, con cui<br />
dichiaravano la loro volontà di essere marito e moglie, il matrimonio era valido<br />
<strong>com</strong>e se l’avesse celebrato il Papa. I promessi sposi rimasero meravigliati e quasi<br />
increduli, ma Agnese confermò la cosa anche con un esempio, accaduto in paese<br />
molti anni prima; sicché Renzo abbracciò il partito con entusiasmo, perché il<br />
progetto gli sembrava a tutta prima facile e sbrigativo. Lucia invece non sembrava<br />
affatto convinta. Il suo ragionamento era semplice ma inoppugnabile: se la cosa è<br />
lecita, perché non dirlo al Padre? se lecita non è, non dobbiamo farla. Agnese<br />
ribatté che mai avrebbe dato un consiglio contro la legge di Dio; certo quel tipo di<br />
matrimonio era <strong>com</strong>e un’eccezione alla regola generale, ma non era colpa loro se<br />
la via normale era loro preclusa; la colpa era del curato che non voleva fare il suo<br />
dovere, per obbedire a un prepotente senza timor di Dio…<br />
Renzo, ormai tutto preso dall’idea, pensò subito ai testimoni e al modo<br />
d’introdursi nella casa del curato, poiché questo gli sembrava il punto più difficile,<br />
dato che don Abbondio se ne stava tappato in casa, certamente anche per il<br />
sospetto che i due promessi potessero ricorrere alla via eccezionale del<br />
matrimonio clandestino. “Le tribolazioni aguzzano il cervello”, osserva il<br />
Manzoni, aggiungendo che Renzo il quale, fino a quel giorno, non aveva avuto<br />
occasione di aguzzare il suo, non essendosi mai trovato in circostanze critiche, in<br />
questa situazione difficile aveva escogitato un piano davvero magistrale. Sapeva<br />
che Tonio, un suo amico, doveva a don Abbondio 25 lire per fitto di un campo, e<br />
pensò che, se il debitore si fosse presentato di prima sera alla porta della canonica<br />
per pagare quella somma, sarebbe stato certamente introdotto, nonostante il<br />
sospetto del parroco, poiché la sua ben nota avidità non avrebbe voluto perdere la<br />
buona occasione, a lungo aspettata. Con Tonio poteva entrare anche un altro,<br />
<strong>com</strong>e ac<strong>com</strong>pagnatore, dato che portava quel denaro; e dietro i due avrebbero<br />
potuto insinuarsi, data l’oscurità, i promessi sposi.<br />
Per concertare meglio il piano di azione col suo principale collaboratore,<br />
Renzo andò a casa sua, e lo trovò che si accingeva a desinare, per cui lo invitò a<br />
cenare con lui all’osteria, per non disturbare il resto della famiglia; proposta tanto<br />
più gradita, in quanto la carestia si faceva già sentire nella povera casa di Tonio, e<br />
la piccola polenta di gran saraceno, appena scodellata sulla tafferìa di faggio, non<br />
avrebbe potuto saziare la fame della numerosa famiglia. Una volta all’osteria<br />
(“luogo di delizie” per gli abitanti del paesello, i quali però si erano disavvezzati<br />
ad essa a causa della penuria), dopo aver mangiato quello che trovarono e scolato<br />
un boccale di vino, Renzo espose il suo piano che il <strong>com</strong>pagno accolse con<br />
entusiasmo e gratitudine: si trattava di pagare il debito, che don Abbondio gli<br />
rinfacciava in ogni incontro, e di riavere la collana d’oro della moglie, pretesa<br />
<strong>com</strong>e pegno dal parroco, che evidentemente non accordava fiducia alle sue<br />
37
pecorelle, la quale sarebbe stata barattata in altrettanta polenta, per sfamarsi<br />
almeno per qualche mese. Per il secondo testimone Tonio propose il fratello<br />
Gervaso, in verità un po’ tonto; ma gli avrebbe insegnato lui ben bene il da farsi…<br />
Renzo tornò a casa della fidanzata, contento di aver avviato il suo progetto in<br />
modo così favorevole. Ma c’era ancora una difficoltà, <strong>com</strong>e fece giustamente<br />
rilevare Agnese: Perpetua avrebbe fatto entrare i due fratelli, latori della somma;<br />
ma avrebbe fatto entrare i due promessi? anzi avrà ordine di tenerli ben lontani!...<br />
Il giovane si trovò impicciato davanti a questa difficoltà, ma la brava Agnese disse<br />
che aveva trovato lei il mezzo per distrarre la serva del curato: si sarebbe trovata lì<br />
<strong>com</strong>e se fosse di passaggio, e dopo averla salutata, mentre apriva ai due testimoni,<br />
le avrebbe toccato un tasto a cui era molto suscettibile, una certa corda che<br />
avrebbe sicuramente dato il suo suono: bastava accennare dubitativamente ai<br />
matrimoni che lei diceva di aver rifiutati!<br />
Renzo ringraziò con trasporto la futura suocera: “Benedetta voi! l’ho sempre<br />
detto che siete nostro aiuto in tutto.” Restava però un’ultima e più grave difficoltà,<br />
che frustrava tutte le precedenti brillanti soluzioni escogitate dai due, alleati alla<br />
buona riuscita dell’impresa: Lucia restava ferma nel suo diniego! Le sue parole<br />
erano accorate ma salde nel suo proposito: “Ah Renzo! non abbiam <strong>com</strong>inciato<br />
così. Io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio,<br />
all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il<br />
bandolo d’aiutarci, meglio che non possiam far noi, con tutte codeste furberie? E<br />
perché far misteri al padre Cristoforo?”<br />
Mentre la madre e il fidanzato cercavano invano di convincerla, si sentì il<br />
calpestio dei sandali e il fruscio del saio del frate, che stava giungendo frettoloso;<br />
per cui azzittirono, e Agnese pregò sommessamente la figlia di non dir niente al<br />
Padre, della cosa.<br />
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CAPITOLO VII<br />
Il padre Cristoforo, dice il Manzoni, giungeva <strong>com</strong>e un bravo capitano che,<br />
perduta senza sua colpa una battaglia, non perde la testa, ma si reca con prontezza<br />
là dove il bisogno lo chiama. Con poche parole informa dell’essenziale i suoi cari<br />
protetti: “Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio:<br />
e già ho qualche pegno della sua protezione.” Le donne accolsero con dolente<br />
rassegnazione la triste notizia, ma Renzo fu sopraffatto dall’ira, e voleva sapere, il<br />
poveretto, quali ragioni aveva portato, quel cane, per sostenere la sua turpe<br />
pretesa… Come se i prepotenti dovessero dire i motivi delle loro azioni ingiuste e<br />
violente.<br />
Fra Cristoforo non si sdegnò per questo scatto del giovane, il quale era fuori di sé;<br />
sapeva ben mettersi nei suoi panni, e lo <strong>com</strong>pativa con tutto il cuore; ma lo esortò<br />
affettuosamente ad avere pazienza e fiducia nel Signore, a concederGli il tempo<br />
che si voleva prendere per far trionfare la giustizia. Quindi si congedò dopo aver<br />
pregato Renzo di andare l’indomani al convento (o di mandare, in caso di<br />
impedimento, qualche persona fidata) per sapere che cosa bisognasse fare, in base<br />
alle notizie che lui stesso sperava di ricevere. Uscito dalla casetta, si affrettò verso<br />
il convento, per giungervi prima dell’imbrunire, onde non meritare qualche<br />
punizione che potesse limitare, il giorno dopo, la sua libertà di movimento, della<br />
quale aveva assoluto bisogno per agire efficacemente in difesa di Lucia.<br />
Costei, partito il Padre, subito parlò con fiducia del “pegno” a cui il frate<br />
aveva accennato, per aiutarli, e disse che bisognava fidarsi di lui, perché non<br />
prometteva invano; ma Agnese replicò che doveva essere ben misera cosa, una<br />
cosa campata in aria, perché altrimenti il Padre avrebbe dovuto precisarla meglio<br />
o almeno dirla a lei in disparte. Renzo poi fu travolto dall’ira, che davanti a fra<br />
Cristoforo aveva a stento trattenuta, e <strong>com</strong>e fuor di sé andava gridando che<br />
l’avrebbe trovato lui il mezzo di risolvere la cosa e liberare nello stesso tempo il<br />
paese tutto, avesse pur mille diavoli in corpo quel dannato… Lucia, a queste<br />
parole ben troppo chiare, ebbe un sussulto di orrore che la paralizzò per qualche<br />
momento, ma poi vinse il suo terrore, e cercava di far tornare Renzo in sé, ma<br />
infine il pianto le impedì di continuare. Anche Agnese si adoperava per calmare il<br />
giovane; ma si vedeva che la sua paura non era tanto per l’omicidio in sé, per la<br />
responsabilità di Renzo davanti a Dio, quanto per il pericolo insito nella sua<br />
realizzazione e per le conseguenze che ne deriverebbero davanti alla giustizia<br />
umana. Alla figlia invece faceva orrore l’azione in sé e la grave offesa della legge<br />
di Dio, che è legge di perdono e di amore. Agnese invita Renzo a riflettere che il<br />
proposito truce non è facilmente realizzabile: “Non vi ricordate quante braccia ha<br />
al suo <strong>com</strong>ando colui? E quand’anche… Dio liberi!... contro i poveri c’è sempre<br />
giustizia.”<br />
Davanti al reiterato proposito del fidanzato di uccidere quel cane assassino,<br />
per poi mettersi in salvo oltre il confine, ac<strong>com</strong>pagnato dalle benedizioni della<br />
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gente, Lucia trova la forza di parlare, e si esprime con molta fermezza: lei si era<br />
promessa a un giovane timorato di Dio; ma uno che avesse <strong>com</strong>messo un’offesa<br />
così grave contro la legge divina, fosse anche al sicuro da ogni vendetta o<br />
giustizia degli uomini, non l’avrebbe mai sposato! ”E bene! – gridò Renzo col<br />
viso più che mai stravolto – io non v’avrò; ma non v’avrà neanche lui. Io qui<br />
senza voi, e lui a casa del …” La ragazza, udendo queste terribili parole, tornò alle<br />
suppliche, al pianto, e infine si gettò in ginocchio davanti allo sposo,<br />
scongiurandolo di non farla morire di angoscia. Ma Renzo che probabilmente, pur<br />
nella furia dell’ira, intuiva di poter approfittare della paura di lei per indurla al<br />
matrimonio clandestino, con voce dura le disse: “Che bene mi volete voi?... Non<br />
v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!” Lucia questa volta è vinta, e<br />
risponde immediatamente che sarebbe andata dal parroco, anche subito se lo<br />
voleva, purché tornasse quello di prima; davanti alla promessa della sposa l’ira di<br />
Renzo sbollì quasi a un tratto, e Agnese fu doppiamente contenta, e per Renzo<br />
tornato finalmente in sé, e per Lucia che si era infine convinta. E probabilmente<br />
anche la ragazza non era del tutto scontenta di essere stata costretta ad<br />
acconsentire, perché amava Renzo, e purtroppo il matrimonio clandestino era<br />
ormai l’unico mezzo per diventare subito sua moglie. Intanto si era fatta notte, e<br />
Renzo lasciò la casetta delle sue care donne.<br />
Il giorno seguente ci tornò di buon’ora, per prendere gli ultimi accordi con<br />
Agnese, in quanto Lucia rimaneva del tutto passiva all’elaborazione del piano, pur<br />
promettendo che avrebbe fatto tutto quello che occorreva, nel modo migliore che<br />
saprebbe. A Pescarenico, per ricevere eventuali avvisi da padre Cristoforo, Renzo<br />
non volle andare, sia perché doveva ancora “accudire all’affare”, sia perché<br />
temeva che il Padre gli potesse leggere in viso la novità che si preparava per<br />
quella sera. Sicché Agnese decise di mandare Menico, un lontano nipote di circa<br />
dodici anni, ragazzo molto sveglio e da poterci fare affidamento. Lo chiese ai<br />
genitori, gli fece fare un’abbondante colazione, e quindi lo mandò al convento,<br />
ammonendolo di restare sempre lì a disposizione di fra Cristoforo, senza andare al<br />
lago a veder pescare o per giocare lui stesso a rimbalzello, che era la sua<br />
specialità. “Poh! zia; non son poi un ragazzo.” In queste parole Menico mostra<br />
una serietà superiore alla sua età; egli si sente investito di un <strong>com</strong>pito importante e<br />
delicato, e se ne vuol mostrare degno; rassomiglia un po’ a Bettina la quale,<br />
allorché fu pregata dallo sposo di recare quell’ambasciata segreta a Lucia, si<br />
affrettò a eseguirla col massimo impegno, “lieta e superba d’avere una<br />
<strong>com</strong>missione segreta” per la sposa.<br />
Per tutta la mattinata però si videro ronzare intorno alla casetta di Agnese dei<br />
viandanti sconosciuti i quali, passando a passo lento davanti alla porta di strada,<br />
gettavano qua e là degli sguardi esplorativi. Uno poi, vestito da mendicante, ma<br />
non “rifinito né cencioso <strong>com</strong>e i suoi pari”, entrò addirittura nella casetta, con la<br />
scusa di avere un po’ di carità; ricevuto un pezzo di pane, si attardò a fare<br />
domande indiscrete alle quali Agnese, per nulla ingenua, rispose evasivamente o<br />
al contrario delle verità. Mentre se ne andava, finse di sbagliar uscio e imboccò<br />
quello che dava alla scala; richiamato prontamente indietro e indicatagli la porta<br />
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giusta, se ne uscì scusandosi “con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei<br />
lineamenti duri di quella faccia.”<br />
Per capire chi fossero il finto mendico e gli altri spioni, dobbiamo tornare un<br />
poco indietro nel racconto, cioè al momento in cui don Rodrigo, fremente d’ira e<br />
d’orrore, vide allontanarsi dalla sua casa l’aborrito frate. Per cercare di calmarsi,<br />
camminava a passi concitati su e giù per la stanza, tappezzata dei ritratti dei suoi<br />
antenati: un capitano, terrore dei nemici ma anche dei propri soldati; un<br />
magistrato, terrore dei litiganti e degli avvocati; una matrona, terrore delle sue<br />
cameriere; perfino un abate, terrore dei suoi monaci; insomma tutta gente che<br />
aveva incusso paura e la spirava ancora dai visi accigliati. Tanto più il puntiglioso<br />
signore si arrabbiava con sé stesso, per non aver reagito convenientemente contro<br />
l’ardire del frate, che aveva osato inveire contro di lui con l’aspetto di un profeta<br />
biblico. Ma pure, ripensando a quell’inizio di profezia (“Verrà un giorno…”), si<br />
sentiva accapponare la pelle, preso da un misterioso spavento, e in certi momenti<br />
pensava anche di rinunciare e alla vendetta e alla passione sensuale, che ormai<br />
diventava tormentosa. Per farsi passar la mattana, uscì a passeggio con un buon<br />
seguito, quindi si recò in una casa di amici, dove fu ricevuto con molto rispetto, e<br />
tornò al palazzotto molto tardi. Era ad attenderlo il malefico cugino, il quale<br />
<strong>com</strong>inciò a punzecchiarlo circa la s<strong>com</strong>messa (doveva pagare una grossa somma,<br />
se per il giorno di San Martino – 11 novembre – la ragazza non fosse già in suo<br />
possesso) e circa la visita del frate il quale, secondo l’ironico don Attilio, avrebbe<br />
niente di meno convertito quel libertino di Rodrigo. Questi troncò con aria di sfida<br />
quei frizzi molesti, dicendo che la data di San Martino avrebbe deciso della<br />
s<strong>com</strong>messa, che lui era pronto a raddoppiare, tanto era sicuro di vincerla; il che<br />
lasciò tra incredulo e attonito il conte, ignaro di quanto si stava tramando.<br />
“La mattina seguente – dice il Manzoni – don Rodrigo si destò don Rodrigo”,<br />
vale a dire con la sua albagia, e con la passione più viva che mai: le ubbie, le<br />
paure per quell’esordio di profezia del maledetto frate erano svanite col sonno e<br />
coi sogni della notte, e lui si sentiva forte e più sicuro che mai. Chiamò il fedele<br />
(tale lo credeva) luogotenente, il Griso, un assassino il quale aveva ottenuto<br />
l’impunità indossando la sua livrea e mettendosi al suo incondizionato servizio, e<br />
gli <strong>com</strong>andò che entro quella giornata (era il 10 novembre) o meglio prima<br />
dell’alba dell’indomani, la ragazza che lui sapeva doveva trovarsi già nel palazzo.<br />
Ed ecco il Griso iniziare immediatamente l’opera di ricognizione del terreno in cui<br />
avrebbe dovuto operare la notte successiva, e credette bene di poterlo fare meglio<br />
sotto mentite spoglie; ecco i suoi degni accoliti gironzolare, quali onesti viandanti,<br />
intorno alla povera casetta, per rendersi conto della sua posizione. Espletata la<br />
fase esplorativa, si passa a quella operativa: il piano del ratto viene congegnato in<br />
ogni particolare tra il Griso e il suo padrone, che gli rac<strong>com</strong>anda pressantemente,<br />
facendolo responsabile, di usare ogni rispetto alla ragazza, di non torcerle un<br />
capello.<br />
Il vecchio servitore, che stava all’erta, riuscì infine a sapere quello che si<br />
preparava per la notte quando questa era ormai vicina, ma non volle mancare al<br />
suo impegno, e uscito con la scusa di prendere una boccata d’aria, corse al<br />
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convento a portarne l’avviso al Padre, mentre già un’avanguardia del corpo di<br />
spedizione era andata ad appostarsi in un casolare abbandonato, appena fuori del<br />
paese e non distante dalla casetta di Agnese. Più tardi sarebbe partito il grosso<br />
della truppa con il Griso, e infine fu condotta al casolare una bussola per<br />
trasportare la prigioniera. Quando furono tutti riuniti nella base di partenza, il<br />
Griso ne mandò tre all’osteria del villaggio in ispezione, per vedere se ci fossero<br />
novità da segnalare, e avvertire quando tutti gli abitanti fossero a letto. Mentre i<br />
tre birboni giungevano all’osteria e si postavano, uno alla porta a spiare e due<br />
dentro a giocare alla morra, Renzo si recò dalle donne, per dire che andava<br />
all’osteria con Tonio e Gervaso, per offrire loro la cena, <strong>com</strong>e aveva promesso:<br />
loro si tenessero pronte e si facessero coraggio, specie Lucia.<br />
Quando il giovane giunse all’osteria coi suoi ospiti, trovò il bravo (travestito)<br />
che sbarrava spavaldamente metà porta, e per non attaccar lite, dato che aveva ben<br />
altro a cui pensare in quel momento, si adattò a entrare di traverso, <strong>com</strong>e fecero i<br />
suoi due amici. Dentro poi vide l’altra bella coppia, che smisero subito di giocare<br />
per squadrarlo fieramente. Parve a Renzo che i tre <strong>com</strong>pagnoni si scambiassero<br />
uno sguardo d’intesa, per cui s’insospettì, ma non sapeva che cosa pensare di quei<br />
forestieri. Comunque prese posto con i suoi ac<strong>com</strong>pagnatori, e all’oste, che si era<br />
presentato per servirli, chiese sottovoce chi fossero quei signori; quegli rispose di<br />
non conoscerli, mentre sapeva benissimo che erano bravi di don Rodrigo, anche se<br />
senza livrea e apparentemente disarmati. Quando poi l’oste fu tornato in cucina<br />
per prendere le vivande, uno dei bravacci gli si accostò e gli chiese con fare poco<br />
cerimonioso chi fossero i nuovi venuti, e naturalmente venne subito accontentato.<br />
A questo proposito l’Autore mette in luce il diverso modo di <strong>com</strong>portarsi<br />
dell’oste, il quale affermava a ogni piè sospinto di essere amico dei galantuomini,<br />
ma in realtà “usava molto maggior <strong>com</strong>piacenza con quelli che avessero<br />
riputazione o sembianza di birboni.” Purtroppo il mondo va così anche oggi!<br />
Quando Renzo, dopo aver cenato con poco appetito, uscì dall’osteria, si<br />
accorse con allarme che i due bravi che aveva lasciati dentro si erano messi invece<br />
a seguirlo; allora si fermò deciso, per vedere una buona volta che cosa volessero.<br />
Ma quelli, che avevano avuto l’intenzione di sorprenderlo e di conciarlo ben bene,<br />
secondo le istruzioni del padrone al Griso nel caso che fosse loro capitato nelle<br />
mani, visto che il giovane s’era accorto di loro, si fermarono indecisi, quindi<br />
pensarono bene di rinunciare al loro progetto, per non guastare per caso il piano<br />
principale con la loro estemporanea iniziativa. Infatti nel villaggio c’era ancora<br />
molta gente in giro, e la situazione non era propizia alla realizzazione del loro<br />
proposito, che pur avrebbe potuto procurar loro un lauto premio dal signore.<br />
Allorché Renzo con i testimoni giunse alla casetta della fidanzata, costei si<br />
trovava in tale stato di prostrazione morale e di spavento, che era decisa a soffrire<br />
ogni cosa pur di non acconsentire a quanto aveva pur promesso; ma quando tutti si<br />
avviarono senza alcuna esitazione, non seppe opporsi, né dire alcunché, e anche<br />
lei si mosse con gli altri <strong>com</strong>e un’insensata. Presero per i campi, per non<br />
attraversare il paese, volendo evitare di esser visti da alcuno, e dalle viottole<br />
sbucarono nei pressi della canonica. Qui si divisero: avanti Tonio e Gervaso (“che<br />
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non sapeva far nulla da sé, - osserva umoristicamente il Manzoni – e senza il<br />
quale non si poteva far nulla”), Agnese un po’ più indietro, per impadronirsi di<br />
Perpetua non appena fosse apparsa sulla porta, i promessi ancora più indietro,<br />
nascosti dall’angolo dell’edificio.<br />
Al picchio di Tonio, Perpetua si affacciò alla finestra, chiedendo chi fosse a<br />
quell’ora; Tonio si fece riconoscere, aggiungendo che doveva parlare col curato.<br />
“E’ ora da cristiani questa? – disse bruscamente la donna – Tornate domani.”<br />
Allora Tonio disse che aveva riscosso proprio allora venticinque lire e veniva a<br />
pagare il suo debito; però, se l’ora era indiscreta, se ne andava a casa, ma il curato<br />
avrebbe dovuto poi pazientare ancora un bel po’, perché quei soldi gli servivano<br />
per tante cose, e prima di tutto per mangiare: per questo era venuto pur a quell’ora<br />
tarda, ché altrimenti non avrebbe resistito alla tentazione di investirli in farina.<br />
Allora Perpetua, cadendo nella trappola, lo pregò di aspettare, finché andava a<br />
riferire al padrone. Si poteva s<strong>com</strong>mettere che costui, così avido di denaro, non si<br />
sarebbe fatto sfuggire il debitore volenteroso; perciò Agnese si avvicinò ai due<br />
fratelli e <strong>com</strong>inciò a ciarlare con Tonio, fingendo di essersi imbattuta con lui<br />
tornando dal villaggio vicino. I due promessi sposi rimasero soli dietro la<br />
cantonata, e Lucia, appoggiata al braccio dello sposo, tremava <strong>com</strong>e una foglia,<br />
sia per quello che stava per fare, che la sua coscienza non poteva approvare, sia<br />
per il fatto di trovarsi, per la prima volta, tanto familiarmente sola con lui, mentre<br />
pur sperava di diventare sua moglie entro pochi minuti. Ma non erano le nozze<br />
che lei aveva sognato!<br />
43
CAPITOLO VIII<br />
Perpetua andò a riferire al padrone, immerso nella lettura di un panegirico di<br />
San Carlo; anche lui brontolò che l’ora era indiscreta, ma aggiunse subito che non<br />
bisognava lasciarsi sfuggire la buona occasione, che chi sa quando si sarebbe<br />
ripresentata. Quando la serva scese e aprì l’uscio per far entrare i due fratelli,<br />
Agnese la salutò e aggiunse che veniva dal paesetto vicino, e che aveva fatto tardi<br />
proprio per difenderla dalle calunnie delle pettegole, poiché “una donna di quelle<br />
che non sanno le cose, e vogliono parlare” sosteneva che lei era rimasta zitella,<br />
perché non aveva mai trovato uno che la volesse. Questa corda aveva larghe<br />
risonanze nell’animo di Perpetua, la quale subito abboccò l’amo e s’ingolfò,<br />
appartatasi con l’amica, nel racconto dettagliato di tutti i partiti che le si erano<br />
presentati e che lei aveva puntualmente rifiutati. Sicché ad Agnese non fu<br />
difficile, nel fervore del racconto, allontanarla sempre più dalla porta e condurla in<br />
un punto della strada da dove non si poteva più vedere l’uscio della canonica.<br />
Allora la donna tossì forte, <strong>com</strong>e era stato convenuto, e Renzo e Lucia si<br />
affrettarono a entrare e raggiungere i due che si erano attardati nella scala.<br />
Arrivati tutti sopra, Tonio entrò nello studio di don Abbondio col fratello; i<br />
due promessi rimasero fuori, accostati al muro, nella penombra: immaginate il<br />
gran battere del cuore di Lucia! Consegnate che ebbe le berlinghe, che il curato<br />
contò e ricontò osservandole a una a una nel timore che ce ne fosse qualcuna<br />
falsa, il villano – scarpe grosse e cervello fino – non si accontentò di riavere la<br />
collana della moglie, ma pretese anche la ricevuta del pagamento: non si sa mai!<br />
Mentre don Abbondio, pur borbottando, scriveva la quietanza, i due fratelli, ritti<br />
davanti al tavolo, gli chiudevano la visuale; in questo punto Renzo e Lucia<br />
entrarono in punta di piedi nella stanza e si nascosero dietro ai testimoni. Tutto<br />
stava riuscendo a pennello, secondo i piani. Allorché il curato, finito di scrivere il<br />
foglietto, alzò la testa e stese la mano per consegnarlo a Tonio, questi e il fratello<br />
si scostarono lateralmente, e in mezzo a loro apparvero a un tratto i due promessi!<br />
Renzo non perse tempo, e pronunciò subito la sua formula:<br />
“Signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie.”<br />
Ma Lucia aveva appena <strong>com</strong>inciato a dire timidamente le sue parole sacramentali,<br />
che don Abbondio, reagendo immediatamente dopo il primo sbalordimento, la<br />
investì e, per così dire, la imbacuccò col tappeto del tavolo che aveva ghermito in<br />
furia, rovesciando sul pavimento tutto ciò che c’era sopra, <strong>com</strong>presa la lucerna<br />
che subito si spense immergendo nelle tenebre quella scena tragi<strong>com</strong>ica. Mentre il<br />
curato usciva a salvamento, sempre gridando aiuto, e si barricava in una stanza<br />
più interna, invocando Perpetua a squarciagola, nello studio la scena era<br />
indescrivibile, tra Renzo che cercava di calmare e indurre alla ragione il parroco,<br />
dopo aver tentato invano di bloccarlo, Lucia che, mortificatissima, pregava il<br />
fidanzato di tornare a casa, Tonio che cercava di ripescare la sua ricevuta, caduta a<br />
terra nella ressa, e infine Gervaso che gridava e saltellava <strong>com</strong>e un ossesso. A<br />
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questo punto l’Autore fa un’acuta riflessione: Renzo sembra l’oppressore, perché<br />
s’è introdotto con l’inganno in casa altrui; don Abbondio appare la vittima,<br />
sorpresa in casa propria mentre badava pacificamente ai fatti suoi; nella realtà<br />
invece le posizioni dovevano essere esattamente invertite; e conclude<br />
amaramente: “Così va spesso il mondo…”<br />
Don Abbondio, vedendo che Renzo non si ritirava, ma insisteva a bussare alla<br />
porta della stanza nella quale si era chiuso a chiave, pensò bene di aprire la<br />
finestra e di gridare aiuto verso la piazzetta, nella speranza che qualcuno lo udisse.<br />
Lo udì infatti il sagrestano Ambrogio il quale, svegliato dalle sgangherate grida, si<br />
affacciò al finestrino del suo bugigattolo, e vedendo che era il curato a invocar<br />
soccorso, non se la sentì di accorrere lui solo, ma ritenne più sicuro radunar molta<br />
gente; corse perciò mezzo vestito al campanile e, afferrata la corda della campana<br />
più grossa, <strong>com</strong>inciò a sonare a martello con tutta la forza che gli dava lo<br />
spavento. A questo punto la scena si amplia e si <strong>com</strong>plica, diventando uno<br />
spettacolo corale, nella cui descrizione il Manzoni manifesta la sua grande abilità<br />
di arguto narratore, con un racconto veramente affascinante, e d’icastica evidenza,<br />
di questa “notte degl’imbrogli e dei sotterfugi.” Noi cercheremo di sintetizzare il<br />
vivace racconto.<br />
Innanzi tutto dobbiamo tornare un po’ indietro, per vedere che cosa hanno<br />
fatto nel frattempo i “bravi” incaricati del rapimento di Lucia. I tre di essi che<br />
avevano passato la serata all’osteria, quando videro le strade deserte, fecero un<br />
giretto per il paese per accertarsi che tutti gli usci fossero chiusi, quindi tornarono<br />
in fretta al casolare dove fecero la loro relazione al Griso. Questi, che per la<br />
bisogna si era vestito da pellegrino, subito si mise in marcia alla volta della<br />
casetta, seguito da tutti i suoi uomini. Giunto all’uscio di strada, picchiò con<br />
l’intenzione di presentarsi <strong>com</strong>e un pellegrino sperduto, che chiedeva ricovero per<br />
quella notte. Nessuno risponde; allora si forza la porta, si invade il cortiletto, si<br />
bussa all’uscio di casa. Sic<strong>com</strong>e anche questa volta nessuno risponde, dato che gli<br />
abitanti erano usciti per la loro spedizione poco prima dell’arrivo degli invasori, il<br />
Griso fa forzare anche questa porta, e penetrano tutti nella casetta, eccetto due<br />
lasciati di guardia all’uscio di strada.<br />
Frugano nelle stanze terrene: niente! Si precipitano per le scale, entrano nelle<br />
stanze del primo piano: nessuno! Frugano dappertutto, mettendo ogni cosa<br />
sottosopra: niente! Il Griso è desolato.<br />
Intanto Menico giunge trafelato per recare alle donne e a Renzo, da parte di<br />
Padre Cristoforo, l’avviso di lasciare immediatamente la casa e di rifugiarsi al<br />
convento; fa per picchiare alla porta di strada, ma essa cede e si spalanca da sola;<br />
mentre era esitante, viene afferrato dai due manigoldi lì postati, i quali gli<br />
intimano di non fiatare: lui invece caccia un urlo per lo spavento. I birboni gli<br />
tappano subito la bocca e lo minacciano col coltellaccio, ma proprio in quel<br />
momento risuonano i rintocchi della campana a martello. Chi è in difetto, è in<br />
sospetto: i due malandrini, pensando che si suoni l’allarme contro di loro,<br />
rimangono attoniti, e quasi senza accorgersene lasciano andare il ragazzo, il quale<br />
fugge verso il campanile, dove avrebbe certamente trovato qualcuno. Trovò infatti<br />
45
Renzo, Lucia e Agnese, che ai rintocchi pensarono bene di lasciare la casa del<br />
curato per tornare in fretta alla loro, prima che giungesse gente. Riconosciutili al<br />
chiaro di luna, Menico, con la voce alterata dallo spavento, disse loro di non<br />
andare a casa, che era invasa, ma di recarsi subito al convento, dove fra Cristoforo<br />
li attendeva. I poveretti capirono subito più di quanto il ragazzo avesse detto, e<br />
senza frapporre indugio presero per i campi in direzione del luogo indicato.<br />
Nella casetta di Agnese, i lugubri rintocchi avevano seminato lo s<strong>com</strong>piglio<br />
tra i bravi, che subito batterono in ritirata, la quale si sarebbe mutata in rotta senza<br />
l’autoritario intervento del Griso che svergognò un po’ i suoi uomini che si erano<br />
fatti prendere dal panico. Intanto la gente <strong>com</strong>inciò ad accorrere verso il sagrato, e<br />
i primi giunti diedero una voce al campanaro per sapere che fosse successo.<br />
Ambrogio, visto che erano accorsi già parecchi, lasciò la corda della campana e<br />
dall’interno corse ad aprire la porta della chiesa. Ai soccorritori disse che era stata<br />
assalita la casa del curato; sicché tutti si rivolsero verso di quella, e si<br />
meravigliarono non poco nel vederla chiusa e silenziosa. Dentro, don Abbondio<br />
stava rimproverando la serva, la quale con la sua imprudenza e leggerezza l’aveva<br />
esposto a sì gran pericolo; quando si sentì chiamare a voce di popolo, si affacciò e<br />
disse: “Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.” Quindi richiuse la<br />
finestra e non si fece più vedere.<br />
Mentre la gente, brontolando a voce più o meno alta, si allontana<br />
sparpagliandosi, giunge uno tutto trafelato, il quale annuncia con voce rotta che la<br />
casa di Agnese Mondella è invasa da gente armata: si decide di correre in aiuto.<br />
Trovano la casetta vuota, ma con le tracce fresche dell’invasione, e pensando che<br />
le due donne siano state rapite, si propone di eseguire subito una battuta nei<br />
dintorni per raggiungere i rapitori. Ma mentre ci si raccoglie e ci si prepara a<br />
partire, esce uno a dire che Agnese e Lucia si son messe in salvo. La vaga notizia<br />
è subito creduta, perché rispondente al desiderio e all’interesse di ciascuno, e ben<br />
presto la schiera dei villani si disperde, tornando ognuno volentieri alla propria<br />
casa, senza doversi battere con malfattori armati di tutto punto, mentre loro non<br />
avevano altro che forconi e qualche vecchio fucile quasi inservibile.<br />
In questo frattempo Renzo, Agnese, Lucia e Manico (Tonio e Gervaso erano<br />
frettolosamente tornati a casa loro) si erano allontanati di un buon tratto dal<br />
villaggio, per cui rallentarono il passo, e Agnese volle sapere da Renzo <strong>com</strong>’era<br />
andata. Quindi si fecero ripetere meglio da Menico che cosa gli aveva detto il<br />
Padre e che cosa aveva visto nella loro casetta; e nel sentirlo rabbrividirono tutti,<br />
specie Lucia, ed ebbero per il ragazzo parole di affettuoso ringraziamento per<br />
quanto aveva fatto per loro. Regalatolo generosamente, lo rimandarono a casa,<br />
affinché i suoi genitori non stessero più in ansia per lui, a quell’ora ormai tarda.<br />
Essi invece ripresero la strada verso il convento, e dopo poco ci arrivarono.<br />
Dentro la chiesa del convento, lasciata socchiusa, vegliavano in attesa fra<br />
Cristoforo e il laico sagrestano, il quale però era preoccupato per questa infrazione<br />
alla Regola, secondo la quale a quell’ora dovevano essere già coricati, e chiusa la<br />
porta della chiesa. Quando poi, con Renzo, vide entrare le due donne, fra Fazio<br />
(così si chiamava il sagrestano) non si tenne più, ed espresse al confratello il suo<br />
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scandalo per questo fatto enorme: stare di notte in chiesa con donne! Fra<br />
Cristoforo, dimenticando in quel momento che il laico non conosceva il latino,<br />
rispose semplicemente: “Omnia munda mundis.” Risposta molto pertinente: ogni<br />
azione è pura per chi la <strong>com</strong>pie con purezza d’intenti, cioè non bisogna badare<br />
alle apparenze, ma alla sostanza di un fatto, e soprattutto alle intenzioni con cui lo<br />
si fa. Il sagrestano però non sapeva il latino; ma proprio questa ignoranza <strong>com</strong>pì<br />
il miracolo di mettere a tacere fra Fazio. Egli infatti pensò che in quelle arcane<br />
parole ci fosse la risposta a tutti i suoi dubbi, e s’acquetò rinunciando a fare altre<br />
obiezioni.<br />
Fra Cristoforo, vedendo che i suoi protetti erano in salvo, ne ringraziò Dio con<br />
loro, quindi pregò anche per chi li aveva condotti a quel duro passo, perché<br />
essenza del Cristianesimo è appunto l’amare quelli che ci perseguitano, pregando<br />
il Signore per la loro conversione. Dopo aver pregato tutti in ginocchio con molta<br />
<strong>com</strong>mozione, si alzarono, e il frate disse che per loro aveva trovato un ricovero<br />
temporaneo, poiché sperava che tra poco sarebbero potuti tornare con sicurezza<br />
alle loro case. Le donne si sarebbero recate a Monza, dove il guardiano dei<br />
Cappuccini, per il quale consegnava loro una lettera, avrebbe procurato loro un<br />
rifugio sicuro e onorato; Renzo invece doveva proseguire per Milano, per<br />
recapitare un’altra lettera di fra Cristoforo al padre Bonaventura da Lodi,<br />
cappuccino del convento di Porta Orientale, il quale si sarebbe occupato di lui,<br />
procurandogli possibilmente anche da lavorare. Oltre alle due lettere, il buon<br />
Padre aveva anche pensato ai mezzi per il loro viaggio: alla foce del torrente<br />
Bione avrebbero trovato un barcaiolo che li traghetterebbe alla riva opposta del<br />
lago, dove avrebbero trovato un barrocciaio che li trasporterebbe direttamente a<br />
Monza, e li ac<strong>com</strong>pagnerebbe anche al convento dei Cappuccini. Tanto aveva<br />
saputo organizzare in poche ore la paterna sollecitudine del santo frate! Tanto può<br />
la carità!<br />
Durante l’attraversamento del lago, che in quel punto è stretto e sembra fiume,<br />
la <strong>com</strong>mozione con la nostalgia attanagliò i poveri fuggitivi, e soprattutto Lucia,<br />
che rivolse un accorato addio ai suoi monti, al suo lago, ai torrenti rumorosi, al<br />
paesello natio che era tutto il suo mondo, alla sua casa dove tante volte aveva<br />
atteso con trepido desiderio la consueta visita del suo promesso sposo, alla casa<br />
stessa di Renzo, dove già sarebbe dovuta andare ad abitare per “un soggiorno<br />
tranquillo e perpetuo di sposa”, alla chiesa, dove il suo animo si era tante volte<br />
rasserenato nella preghiera e nella meditazione, dove col solenne rito del<br />
matrimonio “il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto.”<br />
Ma questi mesti e pur soavi pensieri, che dall’Autore sono espressi con<br />
impareggiabile afflato lirico, terminano con una certezza, la dolce certezza del<br />
cristiano: si abbandona il dolce nido e le care abitudini, ma Dio è dappertutto “e<br />
non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più<br />
grande.”<br />
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CAPITOLO IX<br />
Quando la barca urtò alla riva opposta, Lucia si riscosse da quella specie di<br />
nostalgico e accorato incantamento, asciugò le lagrime che le avevano rigato le<br />
gote e, scesa con gli altri dal battello, riprese il triste viaggio notturno verso<br />
Monza col biroccio che trovarono pronto per loro. Il biroccio o barroccio,<br />
adoperato ancor oggi nelle campagne specialmente nell’Italia meridionale, è una<br />
rustica vettura senza molle, che serve per il trasporto delle derrate; quindi per i<br />
profughi il viaggio fu molto disagevole, essendo sballottati per diverse ore sopra<br />
quel rigido carretto, su quelle strade disuguali e piene di buche. C’era inoltre la<br />
paura di fare qualche brutto incontro, con malandrini o briganti o addirittura con i<br />
bravi di don Rodrigo. E’ vero che questi si erano ritirati precipitosamente al<br />
palazzotto, ma i poveri fuggitivi non lo sapevano, e temevano sempre di essere<br />
inseguiti da essi. Finalmente, poco dopo l’alba, giunsero a Monza, e dopo essersi<br />
rifocillati in un’osteria si recarono al convento dei Cappuccini, senza Renzo che<br />
era già ripartito per Milano.<br />
Il padre guardiano, quando ebbe letto l’indirizzo della lettera a lui consegnata,<br />
riconobbe subito la calligrafia dell’amico Cristoforo, ed ebbe un’esclamazione di<br />
lieta sorpresa; ma mentre leggeva il contenuto della missiva, il suo volto<br />
assumeva un atteggiamento ora afflitto ora sdegnato; finito di leggere, dopo aver<br />
rivolto in disparte poche domande ad Agnese, disse che l’unica soluzione del loro<br />
caso era di ricorrere alla Signora, per pregarla di accoglierle nel suo monastero,<br />
dove sarebbero state molto sicure. Ottenuto il consenso delle interessate, si mosse<br />
verso il monastero indicato, dopo aver pregato le donne di seguirlo a debita<br />
distanza, per non far ciarlare la gente. Il buon frate voleva evitare, anche presso<br />
qualche spirito meschino, l’eventuale scandalo di farsi vedere in giro con donne:<br />
egli era convinto che bisogna evitare non solo il male, ma possibilmente anche<br />
l’apparenza del male, la quale potrebbe dare a qualcuno delle cattive suggestioni.<br />
E’ vero che “omnia munda mundis”, <strong>com</strong>e aveva detto padre Cristoforo, ma<br />
quando è possibile bisogna evitare di scandalizzare qualche spirito<br />
impressionabile anche con la semplice apparenza del male.<br />
Durante il cammino le donne chiesero al barocciaio, che faceva loro da guida,<br />
chi fosse la Signora. Il brav’uomo rispose che era una suora, non ancora badessa e<br />
neppure priora, essendo ancora molto giovane, ma di grande influenza sia dentro<br />
che fuori il convento, poiché era figlia del principe X, feudatario di Monza, anche<br />
se attualmente risiedeva a Milano. Aggiunse che questa nobile famiglia era<br />
oriunda dalla Spagna “dove son quelli che <strong>com</strong>andano”; e concluse il suo vivace<br />
ragguaglio con queste rassicuranti parole: ”e perciò, se quel buon religioso lì,<br />
ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete<br />
sicure <strong>com</strong>e sull’altare.”<br />
Giunti che furono al monastero di clausura dove si trovava la Signora, il<br />
Guardiano andò solo a implorare la grazia e, ottenutala, introdusse le donne, dopo<br />
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aver congedato il barocciaio, pregandolo di ripassare al convento tra un paio di<br />
ore a prendere la risposta per il padre Cristoforo. Agnese e Lucia ringraziarono<br />
con tutto il cuore il bravo carrettiere per quanto aveva fatto per loro, senza voler<br />
accettare alcun <strong>com</strong>penso. Infatti quel mattino, allorché Renzo, appena smontati<br />
all’osteria, cercò di fargli accettare del denaro <strong>com</strong>e mancia per il suo fastidio,<br />
egli ritirò in fretta la mano poiché, <strong>com</strong>e dice il Manzoni, mirava a “un’altra<br />
ri<strong>com</strong>pensa, più lontana, ma più abbondante.” Lo stesso aveva fatto, la sera prima,<br />
il barcaiolo di Pescarenico, il quale “ritirò la mano, quasi con ribrezzo, <strong>com</strong>e se<br />
gli fosse proposto di rubare.” Tutt’e due erano stati plasmati dall’ardente carità di<br />
fra Cristoforo; il Manzoni, presentandoceli così semplici e generosi, ci vuol quasi<br />
insegnare che tra gli umili popolani spesso ci sono esempi luminosi di virtù<br />
cristiana, mentre purtroppo è difficile trovarne fra i ricchi e i potenti. Sembra l’eco<br />
della terribile affermazione di Cristo nel Vangelo: “E’ più facile che un cammello<br />
passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli.”<br />
Quando Lucia, assieme alla madre e al padre guardiano, entrò nel parlatorio<br />
del monastero, si meravigliò molto di non vedervi nessuna suora, ma poi,<br />
osservando meglio, si accorse che una monaca stava ritta dietro una specie di<br />
finestra protetta da una doppia grata. La ragazza non era mai stata in un<br />
monastero, per cui provava un senso di soggezione, misto a una certa curiosità.<br />
A questo punto l’Autore delinea il ritratto fisico della Signora con molta<br />
sobrietà, dicendo che la suora, la quale poteva avere circa 25 anni, “faceva a prima<br />
vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi,<br />
s<strong>com</strong>posta.” Si notava subito che non era molto ligia né alla lettera né allo spirito<br />
della Regola che pur aveva abbracciata: infatti dalla bianca benda frontale usciva<br />
su una tempia una ciocca di capelli, e il saio era attillato e non a sacco <strong>com</strong>e<br />
prescritto dal regolamento. Ma soprattutto i gesti e le parole dimostravano una<br />
monaca singolare: altera, inquieta, tormentata da qualche pensiero segreto, da<br />
qualche gran passione inconfessabile. Gli occhi soprattutto dimostravano i torbidi<br />
sentimenti del suo animo: “si fissavano talora in viso alle persone, con<br />
un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta <strong>com</strong>e per cercare un<br />
nascondiglio.” Ora sembrava che implorassero pietà, ora dimostravano un astio<br />
feroce; ora, fissandosi <strong>com</strong>e distratti, facevano intravedere ”il travaglio d’un<br />
pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello<br />
che gli oggetti circostanti.” Anche i moti delle labbra “erano, <strong>com</strong>e quelli degli<br />
occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero.”<br />
Ma ciò che impressionò maggiormente Lucia, pudica e riservata <strong>com</strong>’era, fu il<br />
tono spregiudicato delle domande della Signora, non frenata neppure dalla<br />
presenza di un provetto cappuccino. Avendo ella saputo da costui che la giovane<br />
era dovuta fuggire dal suo paese per sottrarsi alla persecuzione di un cavaliere<br />
prepotente, chiese addirittura a Lucia “se questo cavaliere era un persecutore<br />
odioso”. La domanda rivelava una certa torbida curiosità e, per così dire, un<br />
dubbio maligno, che tolsero a Lucia ogni franchezza, per cui non poté che<br />
balbettare qualche parola di risposta. Allora Agnese, venendo in aiuto della<br />
povera impacciata, si affrettò a dire che la figlia era promessa a un bravo giovane<br />
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della loro condizione, “timorato di Dio e ben avviato”, ma quel cavaliere aveva<br />
impedito il matrimonio minacciando il curato… La Signora interruppe la mal<br />
cauta ”con un atto altero e iracondo”, dicendo che i genitori “hanno sempre una<br />
risposta da dare in nome dei loro figlioli!” A questo punto Lucia si fece coraggio,<br />
anche per non far pensare male della mamma, e confermò che prendeva quel<br />
giovane di sua spontanea volontà, e che avrebbe voluto piuttosto morire anziché<br />
cadere nelle mani di quel signore che la perseguitava, al quale perdonava tuttavia<br />
di cuore tutto il male che le aveva fatto…<br />
Alle parole di Lucia l’ira della Signora si raddolcì, e disse che aveva già<br />
pensato <strong>com</strong>e poterle allogare nel monastero, finché ne avessero avuto bisogno.<br />
Sic<strong>com</strong>e la fattoressa (la donna di fiducia che manteneva i contatti del monastero<br />
con l’esterno e ne curava gli interessi) aveva maritata sua figlia, le due donne<br />
avrebbero occupato la stanza lasciata da quella, e fatto quei pochi servizi che colei<br />
ordinariamente eseguiva. Ne doveva parlare alla madre badessa, ma dava<br />
<strong>com</strong>unque la cosa per fatta, data la sua influenza presso la superiora. Quindi<br />
ac<strong>com</strong>iatò il Guardiano, licenziò Agnese, ma ritenne Lucia, perché voleva<br />
conoscere più dettagliatamente la sua storia, per appagare la propria curiosità<br />
morbosa; ”e i suoi discorsi – dice il Manzoni – divennero a poco a poco così strani<br />
che, invece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la<br />
storia antecedente di questa infelice.”<br />
Diciamo subito che, per la storia della Signora, il Manzoni ha tenuto presente<br />
un personaggio storico, suor Virginia de Leyva, ma ha lavorato anche con libera<br />
fantasia; fra l’altro ne ha posticipato le drammatiche vicende di alcuni decenni,<br />
per cui la Monaca di Monza è un tipico personaggio misto di storia e di<br />
immaginazione. Essa, secondo l’Autore, era l’ultima figlia di un principe di<br />
origine spagnola, uno dei più ricchi e influenti signori di Milano, e anche<br />
feudatario della città di Monza e del suo territorio. Costui aveva destinati alla vita<br />
religiosa i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare – secondo la<br />
consuetudine del maggiorasco o maggiorascato – tutta la proprietà al primogenito<br />
“destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè dei figlioli, per tormentarsi a<br />
tormentarli nella stessa maniera.” Perciò ella era ancora nel seno della madre,<br />
“che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita.”<br />
Quando nacque, le misero nome Gertrude, “una santa d’alti natali”, e i primi<br />
suoi giocattoli furono bambole in abito monacale. A sei anni fu chiusa, “per<br />
educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale”, nel monastero<br />
di Monza, abbastanza lontano dalla famiglia, ma nello stesso tempo tale da offrirle<br />
ogni <strong>com</strong>odità e distinzione, essendo il genitore – <strong>com</strong>e abbiamo detto – signore<br />
feudale di quella città. La badessa e alcune monache faccendiere, alle quali era<br />
gradita la prospettiva di avere una principessa tra di loro, e quindi la protezione<br />
dei suoi potenti parenti, accettarono ben volentieri l’incarico di farla diventare<br />
suora “con la minor possibile cognizione di ciò che faceva”. Quindi fecero di tutto<br />
per farle piacere quella vita: carezze e moine, chicche a non finire, posto distinto a<br />
tavola e in camerata, trattamento speciale in tutto. Ma purtroppo assieme a<br />
Gertrude erano lì educate altre fanciulle, generalmente di famiglia borghese, che<br />
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non erano affatto destinate al chiostro; esse non invidiavano la loro <strong>com</strong>pagna, per<br />
quanto costei magnificasse loro il suo futuro di madre badessa, perché nutrivano<br />
ideali ben diversi: “alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può<br />
somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie<br />
e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, <strong>com</strong>e dicevano allora,<br />
di villeggiature, di vestiti, di carrozze.” Queste immagini splendenti e suggestive<br />
scossero e ben presto fugarono le idee precedenti di Gertrude, e a poco a poco<br />
anche per lei la vita mondana acquistò un fascino irresistibile. Che dire poi<br />
quando, varcate le soglie dell’adolescenza, alle fantasticherie mondane si<br />
aggiunsero le vive esigenze del cuore e i primi turbamenti della pubertà! Gertrude<br />
ormai <strong>com</strong>prendeva benissimo che non era nata per farsi suora, che non aveva la<br />
minima vocazione per la vita claustrale; ma <strong>com</strong>e opporsi ai genitori, <strong>com</strong>e negare<br />
al padre quel consenso che egli teneva per certo? Solo la religione, se fosse stata<br />
da lei sentita veramente, avrebbe potuto darle la forza di abbracciare, senza<br />
disperarsi, una vita di rinuncia e di mortificazione; ma la religione che avevano<br />
insegnata a Gertrude, sia a casa che in convento, era puramente formale e<br />
decorativa, “una larva <strong>com</strong>e l’altre” che pullulavano nella sua fervida fantasia<br />
Questa larva tuttavia si levava talora minacciosa nell’animo instabile<br />
dell’adolescente, e allora ella pensava che fosse una colpa opporsi alla volontà dei<br />
suoi genitori, per vivere una vita più piacevole, in mezzo ai pericoli e alle<br />
tentazioni del mondo; in quei momenti la ragazza sentiva <strong>com</strong>e un <strong>com</strong>plesso di<br />
colpa, ed era disposta a espiare il suo peccato di desiderio vestendo<br />
spontaneamente l’abito monacale. Si approfittò di uno di questi momenti di<br />
turbamento e scrupolo religioso, prodotto, <strong>com</strong>e ho detto, dal <strong>com</strong>plesso di colpa<br />
insinuatole da chi ne aveva interesse, per farle sottoscrivere la domanda, diretta al<br />
Vicario delle monache, di essere esaminata sulla vocazione, onde poter prendere il<br />
velo: era il primo passo formale sulla via del chiostro. Ma la domanda non era<br />
giunta ancora all’ecclesiastico cui era diretta, che la poveretta se n’era già pentita<br />
amaramente. Che fare? Consigliatasi con alcune <strong>com</strong>pagne, con cui da qualche<br />
tempo osava confidarsi, scrisse una lettera al principe suo padre, per informarlo<br />
che non si sentiva più inclinazione per la vita monacale. Fatta recapitare la lettera<br />
per vie traverse, <strong>com</strong>inciò ad aspettare con trepidazione la risposta, che non<br />
giunse mai; sennonché dopo alcuni giorni la badessa la chiamò nella sua cella e,<br />
con aria di mistero, le parlò di una gran collera del principe per il suo fallo, cui<br />
alluse con un senso di orrore; aggiunse che però, pentendosi e portandosi bene in<br />
futuro, poteva sperare il perdono. “La giovinetta intese, e non osò domandar più in<br />
là.” Avrebbe dovuto ribellarsi, dir le sue buone ragioni, <strong>com</strong>battere contro la<br />
coalizione ipocrita e brutale della famiglia e del monastero; ma <strong>com</strong>e avrebbe<br />
potuto?<br />
Sic<strong>com</strong>e l’esame della vocazione da parte del sacerdote incaricato doveva<br />
avvenire almeno un anno dopo la presentazione della domanda, e dopo che la<br />
ragazza avesse dimorato almeno un mese fuori del monastero, venne finalmente il<br />
giorno che Gertrude fu riportata in famiglia, a Milano, per trascorrervi il periodo<br />
di tempo prescritto. Ma la più amara delusione l’aspettava: in casa fu considerata<br />
51
<strong>com</strong>e una rea, una reietta, un disonore della famiglia; “un anatema misterioso<br />
pareva che pesasse sopra di lei.” Altro che festini, ricevimenti, conversazioni e le<br />
altre cose meravigliose che aveva fantasticate in convento! Non usciva di casa<br />
mai, neppure per la messa, che le facevano ascoltare da una grata aperta su una<br />
chiesa attigua. E anche la servitù la trattava con distacco e freddezza, obbedendo a<br />
precisi ordini del principe; e quanto più la ragazza sentiva bisogno di affetto e di<br />
confidenza, e magari ne mendicava, tanto più si vedeva allontanata e dimenticata,<br />
<strong>com</strong>e se fosse un’estranea appena tollerata. Solo un paggio mostrava per Gertrude<br />
un certo timido rispetto, una certa muta simpatia, che poteva essere o diventare<br />
amore. L’atteggiamento del ragazzo non sfuggì certamente a Gertrude, che da<br />
quel momento si sentì più forte, più sicura, più tranquilla, <strong>com</strong>e colei che credeva<br />
di aver trovato quello che tanto affannosamente bramava. Il padre sospettò che<br />
sotto questo mutamento di umore ci doveva essere qualcosa; fu raddoppiata allora<br />
la vigilanza, e purtroppo un giorno la ragazza fu sorpresa mentre scriveva una<br />
lettera al paggio. Il foglio le fu tolto di mano da una cameriera che la spiava, e<br />
portato al principe. Il cuore di Gertrude era in tumulto, agitato da un misto di<br />
rabbia, vergogna e paura.<br />
La punizione fu dura e immediata: essere rinchiusa nella sua stessa camera,<br />
sotto la guardia di quella cameriera odiosa, che diveniva così la sua carceriera e la<br />
sua aguzzina, rinnovandole ogni momento con la sua stessa presenza l’acerba<br />
memoria del fallo, che le parole con cui il padre aveva ac<strong>com</strong>pagnato la pena<br />
avevano ingigantito, infondendole un senso di rimorso e di terrore quasi per cosa<br />
irreparabile. Il paggio fu subito cacciato dal palazzo, e per monito solenne il<br />
principe gli sonò due schiaffi nel congedarlo, onde togliere al ragazzo ogni<br />
tentazione di vantarsi della piccola avventura o anche semplicemente di farne<br />
parola.<br />
Dopo quattro o cinque giorni di duro e assoluto isolamento, che parvero alla<br />
ragazza un’eternità popolata di incubi paurosi, la poveretta non ne poteva più, e<br />
dovette capitolare. Alla sua età sentiva “un bisogno prepotente di vedere altri visi,<br />
di sentire altre parola, d’esser trattata diversamente.” Inoltre la larva della<br />
religione, risvegliata e resa formidabile dal senso di colpa, le imponeva ora di<br />
abbracciare la clausura proprio per espiazione del suo terribile fallo: l’innocente<br />
letterina al principe azzurro dei suoi sogni si era trasformata nella mente della<br />
poverina, per la malefica e interessata suggestione esterna, in una colpa<br />
vergognosa e quasi mostruosa! Allora si decise: riprese la penna fatale e scrisse al<br />
padre, chiedendo accoratamente perdono e dicendosi pronta a fare tutto ciò che a<br />
lui piacesse disporre.<br />
Con la resa incondizionata di Gertrude termina questo capitolo, nel quale è<br />
delineata in maniera davvero icastica e impressionante la spietata figura del padre,<br />
che con arte mefistofelica costringe la povera figliola, non ancora quindicenne, a<br />
prendere il velo che aborriva. Eppure così agendo egli credeva di provvedere nel<br />
miglior modo al decoro del suo nobile casato, che doveva apparire a tutti onorato<br />
e degno di stima: ecco la tipica ipocrisia di quel secolo corrotto, che mirava solo<br />
alle apparenze esteriori.<br />
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CAPITOLO X<br />
In questo capitolo il Manzoni continua e porta a termine, cioè al drammatico<br />
epilogo che già s’intravede dalla fine del capitolo precedente, la penosa storia di<br />
Gertrude, vittima della volontà del padre, il quale a sua volta era vittima dei<br />
pregiudizi del tempo e di una falsa visione del prestigio della sua nobile famiglia.<br />
La narrazione dettagliata dei fatti, ora dolorosi ora orribili, della cosiddetta<br />
Monaca di Monza, costituisce una vistosa digressione nell’economia del romanzo;<br />
ma non si potrebbe dire che sia una digressione oziosa e neppure eccessiva. E’<br />
una storia umana, che è necessaria per <strong>com</strong>prendere il personaggio nella sua<br />
<strong>com</strong>plessa psicologia e anche nei suoi tragici errori, e nello stesso tempo ci offre<br />
un esempio fedele dell’ipocrisia e della tirannide, anche domestica, del Seicento,<br />
secolo fastoso e farisaico.<br />
In tutto il racconto si avverte la nota dolente che domina nell’animo dell’Autore:<br />
egli non scusa Gertrude, ma sente per lei una grande pietà cristiana, perché<br />
<strong>com</strong>prende che, per opporsi al sopruso paterno, ella avrebbe dovuto possedere una<br />
forza di volontà non facile a trovarsi in una ragazza di quindici anni; l’infelice<br />
avrebbe, sì, potuto trovare un aiuto o un rifugio nella fede, ma purtroppo questa<br />
non era in lei radicata, e non costituiva quindi un punto di forza, ma piuttosto di<br />
debolezza, perché, se la religione faceva sentire la sua voce, era la voce quasi<br />
superstiziosa dello scrupolo e del terrore dell’aldilà, che rafforzavano il <strong>com</strong>plesso<br />
di colpa così abilmente inculcatole e dal padre e dalle suore. Perciò l’atto di<br />
accusa il Manzoni lo formula soprattutto contro il principe-padre il quale, pur non<br />
dicendo mai esplicitamente alla figlia che doveva farsi monaca, tuttavia<br />
inesorabilmente, con arte perfida e costanza degna di miglior causa, la sospinge<br />
verso la clausura perpetua, ritenendo in tal modo di assolvere un suo preciso<br />
dovere, quello cioè di salvaguardare l’indivisibilità del patrimonio, onde tutelare il<br />
decoro del casato, basato allora soprattutto su una solida proprietà immobiliare.<br />
La divisione della proprietà familiare fra tutti i figli avrebbe, secondo il<br />
pregiudizio del secolo, non solo frantumato l’asse ereditario, ma rovinato il<br />
prestigio del casato.<br />
Ma torniamo al racconto della dolente vicenda. Quando il principe ricevette la<br />
lettera della figlia, e ne lesse il contenuto, i suoi occhi lampeggiarono di una mal<br />
contenuta gioia, che a noi ripugna, ed egli capì subito che bisognava approfittare<br />
immediatamente e sino in fondo di quella sì favorevole disposizione d’animo, di<br />
quel cedimento ottenuto con la dura reclusione e con la minaccia, ventilata in aria,<br />
di qualcosa di ancor più terribile. La ragazza si trovava – dice l’Autore con fine<br />
osservazione psicologica – in uno di quei momenti, frequenti nell’animo<br />
giovanile, in cui un poco d’insistenza “basta a ottenere ogni cosa che abbia<br />
apparenza di bene e di sacrificio.” Questi slanci della generosità dei giovani, che<br />
dovremmo solo ammirare e rispettare quasi con venerazione, sono invece<br />
egoisticamente e astutamente, se non perfidamente, aspettati e sfruttati da gente<br />
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senza coscienza, per <strong>com</strong>promettere e legare per sempre una persona incauta e<br />
inesperta, che ancora non conosce le trappole del mondo.<br />
Gertrude, ammessa alla presenza del genitore, non seppe far altro che gettarsi<br />
alle sue ginocchia invocando il perdono; ma il principe, volendo battere ben bene<br />
il ferro mentr’era caldo, rispose ruvidamente che il perdono bisognava meritarlo.<br />
Il suo fallo era tale, e qui si mise a insistere su di esso ingigantendolo, che il<br />
rimedio poteva essere uno solo: il chiostro. Se pure egli in passato avesse avuto<br />
intenzione di maritarla, ora lei stessa ci aveva posto un ostacolo insormontabile<br />
con la sua condotta irresponsabile e scandalosa; e il suo onore di cavaliere non gli<br />
avrebbe mai e poi mai consentito di “regalare a un galantuomo una signorina che<br />
aveva dato un tal saggio di sé.” Nel sentire queste parole la povera ragazza era<br />
letteralmente annientata; allora il principe, sicuro di aver ottenuto l’effetto voluto,<br />
addolcì alquanto la voce, per dire che ora lei stessa <strong>com</strong>prendeva “che la vita del<br />
secolo era troppo piena di pericoli”… Gertrude annuì singhiozzando: “Ah sì!”<br />
Tanto bastò; il padre prese questo sì, di valore tanto limitato e contingente, per<br />
una decisione ferma e definitiva di prendere il velo, e subito mise in moto un<br />
meccanismo diabolico per realizzare al più presto il suo antico disegno, senza dar<br />
tempo e modo alla figliola di poterci ripensare.<br />
Chiama immediatamente la moglie e il primogenito, allo scopo di partecipare<br />
loro la sua gioia per la risoluzione di Gertrude, e intanto la ribadisce <strong>com</strong>e una<br />
decisione spontanea e irrevocabile: “è risoluta di prendere il velo.” La figliola<br />
avrebbe voluto spiegarsi, restituire al suo sì il suo vero valore, di riconoscimento<br />
del suo errore e di promessa di <strong>com</strong>portarsi in avvenire con più saggezza; ma “la<br />
persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità<br />
così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle<br />
menomamente.” E’ proprio così: le persone scaltre e spregiudicate spesso ci<br />
mettono davanti al fatto <strong>com</strong>piuto, approfittando della nostra timidezza o<br />
distrazione, facendo poi credere che non hanno fatto altro che eseguire il nostro<br />
volere!<br />
Per non perdere neppure un attimo di tempo, il principe, con la scusa di fare<br />
una bella passeggiata in carrozza, propose di andare senz’altro a Monza, per<br />
presentare alla madre badessa del convento la richiesta formale di accettazione<br />
nell’Ordine. Naturalmente la principessa e il principino si mostrarono entusiasti<br />
della proposta, ma avendo Gertrude mostrato una certa perplessità, il padre le<br />
chiese, con atto di grande degnazione, se voleva andare quel giorno o l’indomani.<br />
Qui si nota la raffinata astuzia del principe, il quale non chiede alla figlia se vuole<br />
andare e quando vuole andare, ma la mette ancora una volta davanti alla decisione<br />
già presa, dandole solo la possibilità di una breve dilazione. Gertrude<br />
naturalmente si prese quel piccolo respiro; ma intanto restava deciso, per la sua<br />
stessa scelta, che l’indomani sarebbe andata a fare la sua richiesta solenne al<br />
monastero; e per dare alla cosa una sanzione di irrevocabilità, il principe mandò<br />
subito un corriere ad annunciare alla badessa la loro visita per il giorno dopo:<br />
ormai non ci si poteva più tirare indietro.<br />
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Intanto si fece sapere alla parentela che la ragazza si era rimessa dalla<br />
indisposizione (così era stata motivata e coonestata la sua relegazione) e<br />
contemporaneamente aveva definitivamente chiarito la sua decisione di prendere<br />
il velo; e i parenti vennero in frotta a fare il loro dovere, congratulandosi con lei e<br />
con la famiglia per il duplice fausto avvenimento. Sicché Gertrude, a ogni<br />
<strong>com</strong>plimento che accettava, non faceva che ribadire implicitamente ma<br />
solennemente l’impegno per il chiostro davanti a tutti i parenti. La poverina si<br />
vedeva sempre più <strong>com</strong>promessa, ma non ebbe, per abile macchinazione paterna,<br />
in tutto il resto della giornata un solo attimo di tregua, onde pensare ai casi suoi,<br />
per vedere che cosa si potesse tentare per fermare quella macchina fatale, che si<br />
era messa in moto così accelerato e inesorabile per schiacciarla: eppure lei non si<br />
sentiva di essere stritolata! Ma il principe non lasciò la presa sulla disgraziata<br />
figliola e, nel bel mezzo delle visite, si recò direttamente dal vicario delle<br />
monache, per concertare la data dell’esame della vocazione della figlia e, <strong>com</strong>’era<br />
da aspettarsi data la fretta paterna, fu fissato il dopodomani: le maglie della rete si<br />
erano ormai strette intorno alla povera vittima, e il padre aguzzino teneva<br />
saldamente in mano le corde dell’inesorabile trama.<br />
Alla sera Gertrude, dovendo andare a letto, volle almeno prendersi una<br />
soddisfazione, che certamente non le avrebbero negato in quella giornata in cui<br />
sembrava essere venuta così in auge, anche se in realtà era la vittima; volle cioè<br />
sbarazzarsi dell’odiosa cameriera che era stata la causa della sua prigionia, e per<br />
parecchi giorni era diventata la sua arcigna guardiana. Naturalmente fu subito<br />
accontentata, e fu assegnata al suo servizio una donna attempata, molto<br />
affezionata alla famiglia, che era stata già governante del principino, “nel quale<br />
aveva riposte tutte le sue <strong>com</strong>piacenze”. Ma ottenuto l’allontanamento di colei, la<br />
ragazza si meravigliò di trovare così poca soddisfazione in questa vendetta che<br />
pure aveva così ardentemente covato.<br />
Il giorno dopo dovette alzarsi presto per prepararsi al gran viaggio: la<br />
cameriera la preparò nell’abito, quindi il principe la lavorò nell’animo. Le disse e<br />
ripeté che tutto s’era fatto per sua libera scelta, e che ora bisognava continuare con<br />
franchezza e disinvoltura la strada intrapresa; quindi aggiunse: “La badessa vi<br />
domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere<br />
ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così<br />
amorevolmente.” Finalmente si partì; ma durante la strada da Milano a Monza più<br />
volte il padre tornò sull’argomento, ripetendo a Gertrude la suddetta formula di<br />
risposta, onde scolpirgliela bene in mente.<br />
Al monastero l’accoglienza fu solenne, e davanti all’ingresso si era anche<br />
riunita una folla acclamante il principe, feudatario della città. Tutte le suore erano<br />
a riceverlo, con la badessa in testa. Dopo i saluti e i convenevoli, la badessa chiese<br />
a Gertrude che cosa desiderasse lì, dove nulla poteva esserle negato; la poveretta<br />
stava per recitare le parole di risposta imparate ormai a memoria, allorché scorse,<br />
tra le educande presenti, una sua <strong>com</strong>pagna che con l’atteggiamento ironico del<br />
viso sembrava dicesse: “ah! la c’è cascata la brava.” In un attimo si sentì<br />
rimescolare il sangue in un impeto di ribellione, e cercò una risposta qualsiasi,<br />
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meno impegnativa; ma scorgendo il cipiglio del padre, che esprimeva impazienza<br />
e minaccia, si sentì venir meno il coraggio, e pronunciò precipitosamente la<br />
formula insegnatale: capitolò ancora una volta.<br />
La badessa disse che non poteva darle subito l’accettazione ufficiale, perché<br />
secondo la regola la domanda doveva essere approvata dal Capitolo delle<br />
consorelle; tuttavia Gertrude non poteva dubitare dell’esito della votazione, tanta<br />
era la stima che lì si aveva di lei e della sua famiglia. Quindi, dopo essersi<br />
congratulata della santa risoluzione, che per loro costituiva un onore e una gioia,<br />
invitò il principe in disparte nel parlatorio, per eseguire un’altra formalità:<br />
avvertire il genitore della postulante che, qualora in qualche modo forzasse la<br />
volontà della figlia, incorrerebbe nella s<strong>com</strong>unica più grave… ”Lei non può<br />
dubitare…” rispose untuosamente il principe, e la reverenda madre si ritenne<br />
paga. In questo incontro salta agli occhi l’ipocrisia dei due personaggi, degni<br />
rappresentanti di quel secolo farisaico, i quali, pur conoscendo benissimo la verità,<br />
cioè l’indegna coercizione della povera ragazza, fingono di ignorarla, e credono di<br />
mettersi la coscienza a posto ricorrendo a dei miseri sotterfugi.<br />
Il giorno dopo una più difficile prova attendeva l’infelice Gertrude: l’esame<br />
della sua vocazione da parte dell’ecclesiastico incaricato. Il padre non mancò di<br />
catechizzarla ben bene, inculcandole le risposte più appropriate alle probabili<br />
domande dell’esaminatore. Soprattutto però le rac<strong>com</strong>andò di rispondere con<br />
sicurezza e con pronta franchezza, ché altrimenti avrebbe fatto sorgere qualche<br />
dubbio nell’animo di quell’uomo dabbene… e allora egli, per tutelare il suo onore<br />
di gentiluomo, perché non si credesse che coartasse la volontà della figlia, sarebbe<br />
stato costretto a rivelare, suo malgrado, tutta la faccenda del paggio… da cui<br />
aveva avuto origine la sua risoluzione per il chiostro. Davanti a questa prospettiva<br />
orribile e vergognosa l’animo della povera ragazza rifuggiva terrorizzato; sicché<br />
non le rimaneva altra alternativa che continuare a mentire sino alla fine, sino al<br />
doloroso epilogo della clausura.<br />
L’esame dunque si svolse così <strong>com</strong>e il principe desiderava, e l’inquisitore “fu<br />
prima stanco d’interrogare – dice amaramente il Manzoni – che la sventurata di<br />
mentire”. Ottenuto il parere favorevole del vicario delle monache, nel monastero<br />
di Monza si poté tenere il solenne Capitolo che doveva decidere dell’accettazione<br />
o meno della domanda di Gertrude. Ma l’esito di questa votazione non<br />
preoccupava affatto il principe, che aveva in quel consesso delle zelanti e influenti<br />
collaboratrici; <strong>com</strong>’era da prevedersi, si ebbe la maggioranza dei due terzi,<br />
richiesta dalla Regola per l’ammissione della candidata.<br />
Ora rimaneva l’ultimo atto del dramma: la sposina, <strong>com</strong>e veniva chiamata<br />
allora la ragazza che stava per monacarsi, sotto la guida di una dama, che<br />
chiamavasi madrina, doveva visitare le chiese, i palazzi, i monumenti, i santuari,<br />
le ville, insomma le cose più notevoli della città, per vedere a che cosa rinunciava<br />
per sempre. All’uopo Gertrude dovette scegliere la madrina; e il non sapersi<br />
esimere da questa scelta fu un modo di ribadire indirettamente le sue catene, una<br />
conferma del suo proposito. Scelta la madrina, <strong>com</strong>inciarono le visite e le<br />
scarrozzate; ma il continuo girovagare non dava alla misera alcun sollievo, anzi<br />
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acuiva la sua sofferenza la vista di quel mondo per lei così allettante, ma dal quale<br />
ella era inesorabilmente esclusa. Era insomma un vero supplizio di Tantalo; tanto<br />
che “lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto<br />
che fosse possibile nel monastero.” Figurarsi se non fu subito accontentata! Il<br />
principe era fiero e soddisfatto; per la figliola <strong>com</strong>inciava un nuovo calvario. Fece<br />
il noviziato, dodici lunghi mesi di rodimento, dopo i quali doveva fare la<br />
professione solenne dei voti; ormai <strong>com</strong>e poteva tirarsi indietro? “Conveniva, o<br />
dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì<br />
tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.”<br />
A questo punto il Manzoni osserva che Gertrude, se si fosse rifugiata nella<br />
religione, avrebbe potuto vincere le inappagate passioni del suo animo, lenire il<br />
suo risentimento, e fare di necessità virtù; insomma “avrebbe potuto essere una<br />
monaca santa e contenta, <strong>com</strong>unque lo fosse divenuta.” Ma purtroppo la religione<br />
non era da lei sentita se non, talora, con terrore quasi superstizioso, per cui non le<br />
poteva dare nessun aiuto per vincere la sua disperazione; l’infelice, dibattendosi<br />
sotto il giogo, ne sentiva maggiormente il peso, mentre avvertiva in cuore un acre<br />
impeto di ribellione. Vedeva il fiore della sua giovinezza sfiorire sotto il saio, la<br />
sua bellezza appassire ignorata tra le gelose e tetre mura di un convento, e restare<br />
per sempre frustrato l’ardente desiderio di amore e di tenerezza che le divampava<br />
nel cuore. In tal modo il suo animo, fondamentalmente buono, si pervertiva<br />
paurosamente: odiava la famiglia, che l’aveva così brutalmente immolata<br />
sull’altare dell’interesse economico e del malinteso decoro esteriore, odiava le<br />
suore, che in gran parte avevano collaborato all’opera perfida e insidiosa, odiava<br />
le educande, che un giorno si sarebbero goduto quel mondo a lei interdetto. Così<br />
visse alcuni anni, lunghi e tristi anni, in un rammarichìo incessante per tutto ciò<br />
che le era stato spietatamente e subdolamente tolto: giovinezza, bellezza, piaceri,<br />
amore. Soprattutto amore, di cui il suo animo era assetato al punto da non far caso<br />
all’abisso che lo separa dalla passione sensuale che spesso lo contrabbanda;<br />
bastava un’occasione, perché l’infelice cadesse vittima di questa passione<br />
travolgente, e l’occasione per sua disgrazia si presentò. Uno scellerato giovane,<br />
che aveva la casa attigua al monastero, e da una finestrina aveva più volte notato<br />
Gertrude che gironzolava oziosa e triste nel sottostante cortile, osò un giorno<br />
rivolgerle la parola.<br />
“La sventurata rispose” – dice laconicamente l’Autore; e in queste poche ma<br />
doloranti parole è espresso pietosamente l’epilogo indegno del dramma di<br />
un’anima sacrificata allo stolto pregiudizio del prestigio nobiliare. Il dramma<br />
osceno e fosco è sottinteso; il Manzoni non dice di più di Gertrude, <strong>com</strong>e Dante<br />
non dice di più di Francesca. “Quel giorno più non vi leggemmo avante;” pietoso<br />
riserbo che obbedisce a un profondo sentimento morale e religioso.<br />
Lo spirito cristiano del nostro Autore rifugge dalla descrizione <strong>com</strong>piaciuta<br />
del peccato, poiché nessun vantaggio ne può derivare all’opera d’arte né dal punto<br />
di vista estetico né dal punto di vista etico; e ben fece egli a tagliare quelle pagine<br />
che nella prima stesura del romanzo aveva dedicato alla narrazione alquanto<br />
dettagliata della tresca della monaca con Egidio, <strong>com</strong>e viene chiamato l’empio<br />
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giovane. Il suo nome storico è invece Giampaolo Osio, il quale fu in seguito<br />
giustiziato per la sacrilega e scellerata relazione con suor Virginia de Leyva, che è<br />
il nome storico della manzoniana Gertrude. Costei, purtroppo, dopo la grave<br />
caduta, si macchia addirittura di un delitto: “abyssus abyssum invocat”. Una<br />
conversa, addetta al servizio di Gertrude, si era accorta di quanto avveniva di<br />
irregolare, e un giorno, essendo da lei bistrattata più del solito, si lasciò scappare<br />
una parola… che lei sapeva… e avrebbe parlato a tempo debito. La peccatrice da<br />
quel momento non prese più pace; e per non esporsi all’onta dell’eventuale<br />
rivelazione della sua colpa, d’accordo con Egidio, fece uccidere la poveretta, la<br />
quale venne nottetempo seppellita nello stesso orto del monastero, in una fossa<br />
abilmente camuffata.<br />
Nessuno seppe dare una spiegazione plausibile della sparizione della<br />
conversa; si fecero ricerche nel suo paese natale e in altri posti,ma con nessun<br />
esito. Corsero varie dicerie, finché, avendo una suora detto che forse si era<br />
rifugiata in Olanda (la quale, <strong>com</strong>e paese protestante, accoglieva ospitalmente chi<br />
mancava ai voti religiosi, che invece era perseguitato nei paesi cattolici), corse<br />
tale voce e fu da tutti ritenuta vera. Ma non certamente da Gertrude, che aveva<br />
continuamente davanti agli occhi il fantasma dell’uccisa, in atteggiamento orribile<br />
di condanna, mentre al suo orecchio sembravano risonare, continuamente giorno e<br />
notte, le sue spietate parole di accusa. Ora, rosa incessantemente dal tarlo del<br />
rimorso, avrebbe dato chi sa che cosa per averla, quella immagine, viva davanti a<br />
sé, dovesse ella pur fare la <strong>com</strong>pleta rivelazione delle sue turpitudini davanti a<br />
tutti! Quando Lucia fu ricoverata nel monastero, era passato circa un anno da quel<br />
delitto che non dava requie all’animo della Signora, la quale – ci assicura il<br />
Manzoni – fu indotta a proteggere la povera perseguitata, oltre che da altri ovvi<br />
motivi, <strong>com</strong>e ragioni di prestigio e opportunità di obbligarsi il Guardiano dei<br />
Cappuccini, anche perché provava “un certo sollievo nel far del bene a una<br />
creatura innocente.” Dunque nel suo cuore era ancora avvertita l’aspirazione al<br />
bene: non poteva ancora dirsi irrimediabilmente perduta, anche se ancora avvinta<br />
dalle dure e pesanti catene del peccato.<br />
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CAPITOLO XI<br />
Al principio di questo capitolo il Manzoni ci descrive l’inglorioso ritorno dei<br />
bravi al palazzotto di don Rodrigo: questi birboni delusi e mortificati, che tornano<br />
a mani vuote da un colpo così meticolosamente preparato e ritenuto così sicuro,<br />
sono appropriatamente assomigliati a un branco di segugi che , lasciatasi scappare<br />
una bella lepre, tornano mogi mogi verso il loro padrone furibondo. In verità il<br />
signorotto, che ignorava ancora il bell’esito dell’impresa, non era ancora furioso,<br />
ma si poteva s<strong>com</strong>mettere che lo sarebbe diventato all’annuncio del risultato; e in<br />
quei momenti nessuno di quei malandrini invidiava la posizione preminente del<br />
Griso, che avrebbe dovuto recargli la deludente notizia.<br />
Don Rodrigo dunque, in una stanza del piano di sopra, la quale godeva di<br />
ampia vista, camminava nervosamente avanti e indietro, in un’attesa piuttosto<br />
ansiosa, e ogni tanto guardava fuori dalla finestra, per vedere se i suoi uomini<br />
fossero di ritorno. Il suo animo era un po’ preoccupato per il rischio dell’impresa,<br />
che era la più grossa che finora avesse osato; ma si rassicurava pensando che il<br />
podestà era un amico, per cui Agnese e Renzo non avrebbero potuto ottener nulla<br />
dalla giustizia, caso mai fossero ricorsi alla legge. Anche gli avvocati, <strong>com</strong>e il<br />
nostro Azzecca-garbugli, erano tutti legati a lui da interessi vari, e certamente<br />
nessuno di loro avrebbe assunto la difesa di quei villani; dell’arrabbiato frate non<br />
si preoccupava un gran che, anche se non gli era uscito del tutto dalla memoria<br />
quel minaccioso esordio di profezia… E appunto per scacciare queste<br />
preoccupazioni poco allegre, concentrava il pensiero sull’oggetto delle sue brame,<br />
pensava alle lusinghe e alle parole che avrebbe adoperato per calmare la ragazza e<br />
ridurla alle sue voglie, e già pregustava il piacere della conquista.<br />
Ma ecco finalmente che i suoi fidi sono di ritorno: don Rodrigo ha un balzo:<br />
dall’alto scruta al chiaro di luna i suoi uomini: li conta; ci sono tutti, anche il<br />
Griso, ma non c’è la bussola, Lucia non c’è. Come una furia scende a pianterreno<br />
per riceverli <strong>com</strong>e si meritano, e investe in malo modo il suo luogotenente<br />
scornato, presentatosi a fare la relazione della sciagurata impresa. Il Griso però si<br />
difende bene: essere trattati così dopo aver fatto il proprio dovere e dopo aver<br />
arrischiato la vita in una pericolosa spedizione! Il padrone allora si calma e vuol<br />
sentire <strong>com</strong>’è andata. Ascoltato l’arruffato rapporto, sospetta subito che ci sia<br />
sotto una spia. Il Griso non l’esclude, ma dice che ci dev’essere anche<br />
qualcos’altro, che per ora non sa spiegarsi. Il padrone alla fine, per risarcirlo delle<br />
gratuite offese e dei cocenti insulti con cui lo aveva accolto, lo loda per il suo zelo<br />
e per <strong>com</strong>e si era <strong>com</strong>portato, e gli ordina per il giorno dopo di mandare due bravi<br />
al villaggio, per intimare al console (una specie di delegato del podestà di Lecco)<br />
di non far deposizione dell’accaduto, “per quanto aveva cara la speranza di morir<br />
di malattia”, e due altri a guardar che nessuno si avvicinasse al casolare, dove era<br />
rimasta la bussola, la quale sarebbe stata recuperata la notte successiva, per non<br />
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destar sospetto; lui stesso poi, con alcuni dei più abili e destri, doveva cercar di<br />
sapere che cosa di preciso fosse accaduto nel villaggio in quella strana notte.<br />
La mattina seguente, giorno di San Martino, mentre il Griso era già all’opera, i<br />
due nobili cugini s’incontrarono, e il conte Attilio con aria di trionfo ricordò la<br />
s<strong>com</strong>messa. Don Rodrigo rispose che era pronto a pagare, ma che non era quello<br />
che lo preoccupava per il momento; e raccontò tutto l’accaduto al degno cugino, il<br />
quale espresse subito il sospetto che c’era lo zampino del frate nella faccenda, e<br />
volle perciò sapere il tema del colloquio avuto con lui. Avutone un sommario<br />
ragguaglio, si disse molto meravigliato che avesse lasciato partire quel<br />
mascalzone incappucciato senza caricarlo di bastonate; <strong>com</strong>unque s’incaricò lui di<br />
sistemarlo per le feste, in un modo o nell’altro, per mezzo del Conte zio, membro<br />
influente del Consiglio Segreto. Questo conte Attilio, nella sua burbanza<br />
nobiliare, aveva proprio un debole per le bastonate da appioppare alla gente<br />
<strong>com</strong>une; tuttavia quel giorno egli, solitamente così sventato e ridanciano, si<br />
mostrò seriamente interessato ai casi del cugino, anche se sotto i baffi rideva del<br />
suo clamoroso smacco, che gli aveva pure fruttato dei bei soldi. Fu tanto<br />
servizievole verso di lui, che si disse disposto a render visita al Signor Podestà,<br />
per tenerlo buono buono in quelle circostanze, e anche per cancellare ogni suo<br />
eventuale risentimento per le stoccate del conte, poiché questo risentimento<br />
poteva ora danneggiare gli affari del caro cugino.<br />
Per il Griso e suoi accoliti non fu davvero difficile raccapezzare che cosa fosse<br />
accaduto nel villaggio degli sposi nella nottata precedente; troppe erano le persone<br />
che sapevano qualcosa, e non tutte sapevano tacere. Perpetua, per quanto Don<br />
Abbondio le <strong>com</strong>andasse di non fiatare, era troppo stizzita contro Agnese, che<br />
l’aveva infinocchiata in quel modo, per non lasciarsi sfuggire qualche parola sul<br />
tentativo degli sposi e soprattutto sull’ipocrisia di quella brava vedova; Gervaso<br />
aveva un gran voglia di parlare, perché gli sembrava di essere diventato<br />
finalmente una persona importante, avendo partecipato a una spedizione<br />
clandestina, e non bastavano le minacce di pugni da parte del fratello, per<br />
tappargli del tutto la bocca; Tonio stesso dové pur dire alla sua Tecla dove fosse<br />
andato a quell’ora tarda, e la moglie non era muta <strong>com</strong>e il marito l’avrebbe voluta<br />
in quella circostanza (e in chi sa quant’altre!). Chi non poté parlare affatto fu<br />
Menico, perché i genitori, spaventati oltremodo che il ragazzo avesse collaborato<br />
a mandare all’aria un piano di don Rodrigo, lo tennero per più giorni chiuso in<br />
casa; ma poi essi stessi si lasciarono scappare che gli sposi e Agnese si erano<br />
rifugiati a Pescarenico.<br />
Quello che per la gente del villaggio appariva inspiegabile era il fatto del<br />
pellegrino: due paesani lo avevano visto, quindi non potevano aver sognato; ma<br />
chi poteva essere? cosa era venuto a fare? <strong>com</strong>e mai si trovava con i malandrini?<br />
che fine aveva fatto? Si traevano varie ipotesi, taluna anche abbastanza azzeccata,<br />
ma la cosa rimaneva tuttavia misteriosa; per il Griso invece era quello il dato più<br />
certo, di cui poté servirsi <strong>com</strong>e punto di partenza per spiegare agevolmente ogni<br />
altra notizia che poté raccattare qua e là, onde cucirne una relazione per il suo<br />
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padrone, abbastanza <strong>com</strong>piuta e convincente, che pareva escludere, cosa per lui<br />
confortante, l’ipotesi di un tradimento di qualcuno dei suoi fidi servitori.<br />
Quando don Rodrigo ricevette le notizie recate dal Griso, nel sentire che i due<br />
promessi erano fuggiti insieme a Pescarenico dopo il fallito tentativo alla casa del<br />
curato, pensò che certamente erano andati a mettersi sotto la protezione del frate,<br />
ed ebbe un’esplosione d’ira contro padre Cristoforo, per la gelosia che in quel<br />
momento lo rodeva nel saperli insieme. Sic<strong>com</strong>e questo pensiero lo tormentava,<br />
spedì il fedel Griso a Pescarenico, per sapere dove fossero i due colombi, e per<br />
vedere che cosa si poteva fare ancora. La sera stessa il suo luogotenente gli poté<br />
portare la notizia che le donne si erano rifugiate a Monza, mentre Renzo aveva<br />
proseguito il cammino alla volta di Milano. La certezza che Renzo si era separato<br />
dalla fidanzata calmò alquanto la sua gelosia, ma non acquietò affatto la passione<br />
principale, nella quale ora entrava anche un puntiglio di onore, <strong>com</strong>e una sfida<br />
contro il frate, da cui non poteva lasciarsi vincere, se non voleva perdere la faccia.<br />
Il Manzoni si sofferma, in una pagina di bonaria lepidezza, a spiegarci <strong>com</strong>e<br />
mai il Griso abbia potuto a Pescarenico, nel regno spirituale del frate, pescare così<br />
presto le notizie che gli interessavano. Il passo <strong>com</strong>incia con un tono disteso:<br />
“Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle<br />
consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto.” Chi confida<br />
una cosa gelosa, rac<strong>com</strong>anda il silenzio; ma generalmente esso non è inteso in<br />
senso assoluto, ché altrimenti la consolazione si arresterebbe al confidante, il che<br />
non è giusto, ma nel senso di non riferire la notizia se non ad amico ugualmente<br />
fidato, e imponendogli la stessa condizione di serbare il segreto, il quale diventa<br />
in breve, <strong>com</strong>e si dice, il segreto di Pulcinella. Gli amici poi non sono a coppie<br />
isolate, <strong>com</strong>e i colombi, ma generalmente ognuno ne ha parecchi, e “ci sono degli<br />
uomini privilegiati – aggiunge argutamente l’Autore – che li contano a centinaia”;<br />
così il segreto gira vorticosamente per questa interminabile catena dell’amicizia, e<br />
giunge prima o poi anche alle orecchie, molto attente, di colui al quale, chi ha<br />
confidato per primo la delicata notizia, non avrebbe voluto mai e poi mai che<br />
giungesse. Ma per ottener con certezza questo risultato, avrebbe dovuto lui per<br />
primo privarsi della dolce consolazione di confidare un segreto. Sta dunque il<br />
fatto che il buon barocciaio, tornando verso sera a Pescarenico, s’imbatté in un<br />
amico fidato, al quale, così parlando e senza vanto, confidò il servizio che aveva<br />
reso a quei poveretti per preghiera del santo frate; e da amico fidato ad amico<br />
fidato, la notizia giunse poche ore dopo a don Rodrigo, portata dal diligente Griso<br />
il quale credeva che finalmente la faccenda fosse, almeno per lui, chiusa.<br />
Ma il suo padrone non si dà ancora pace: vuol sapere in quale monastero di<br />
Monza è ricoverata Lucia, e che cosa si può tentare per rapirla; e ne incarica<br />
ancora una volta il suo caporalaccio. Questi però inaspettatamente tentenna: in<br />
quella città egli aveva suscitato molti odi, per avervi <strong>com</strong>messo molti reati, tra cui<br />
un omicidio, per il quale sulla sua testa pendeva una taglia di ben cento scudi,<br />
somma allettante anche per qualche collega della malavita che così poteva anche<br />
guadagnarsi l’impunità… Propone insomma di mandare un altro. Don Rodrigo<br />
esce addirittura dai gangheri per l’improvvisa viltà dell’uomo tutto suo, e lo<br />
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ampogna con acerbo sarcasmo: “Tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore<br />
appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta!” Il Griso, punto sul vivo,<br />
non può tirarsi indietro, e l’indomani parte per questa terza esplorazione,<br />
apparentemente “con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo<br />
Monza e le taglie e le donne e i capricci dei padroni.”<br />
Non va solo, ma con due dei suoi migliori uomini, che gli guardino le spalle, e<br />
si avanza cauto e sospettoso nella città in cui non spira buon’aria per lui, <strong>com</strong>e il<br />
lupo che, cacciato dalla fame, lascia i boschi montani e si avventura nell’aperta<br />
pianura, avvicinandosi all’ovile ben custodito, incerto tra “l’ardore della preda e il<br />
terrore della caccia.” Mentre il Griso svolgeva a Monza la sua missione<br />
esplorativa, don Rodrigo pensava <strong>com</strong>e potesse impedire a Renzo di tornare in<br />
paese e di riunirsi con la sua fidanzata: si poteva, per mezzo del podestà, dare un<br />
significato sedizioso al tentativo in casa del parroco, e spiccare quindi contro di<br />
lui un bel mandato di cattura, che lo dissuadesse dal tornare dalle sue parti; ma poi<br />
pensò che non gli conveniva rimestare quella faccenda, alla quale era connesso il<br />
suo tentativo di ratto, che poteva quindi venire in luce e <strong>com</strong>prometterlo. Decise<br />
perciò di parlarne col suo avvocato, il degno dottor Azzecca –garbugli, perché<br />
trovasse lui qualche garbuglio, qualche cavillo, qualche trappola per rovinare<br />
definitivamente il povero fuggitivo, che turbava ancora i suoi sonni.<br />
Ma proprio nel momento in cui il signorotto pensava al modo di<br />
<strong>com</strong>promettere Renzo con la giustizia con qualche denuncia menzognera, proprio<br />
costui si adoperava inconsciamente a servirlo meglio di qualunque avvocato,<br />
rimanendo preso in Milano nelle trappole della legge. Abbiamo detto che il<br />
giovane, la mattina di San Martino, riprese a piedi, da Monza, il cammino verso la<br />
metropoli lombarda, triste e sconsolato per la dolorosa separazione da Lucia, che<br />
chi sa quando sarebbe finita. Per la strada (circa dieci miglia) ogni tanto lo<br />
riprendeva la rabbia contro chi era la causa di tutti i suoi guai; ma poi si ricordava<br />
della promessa e della preghiera che aveva fatto col frate nella chiesa del<br />
convento, e allora si pentiva della sua ira e tornava a perdonare il suo nemico:<br />
“tanto che – osserva bonariamente il Manzoni – in quel viaggio, ebbe ammazzato<br />
in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte.”<br />
Quando fu vicino alla città, vide levarsi dalla pianura, isolata, la gran mole del<br />
duomo, considerato allora giustamente l’ottava meraviglia del mondo, e rimase lì<br />
incantato a guardarlo; poi, avvicinandosi di più, vide campanili, torri e cupole,<br />
finché sboccò nei pressi delle mura. Qui chiese rispettosamente a un viandante,<br />
che veniva in senso opposto, quale via dovesse prendere “per andare al convento<br />
dei cappuccini dove sta il padre Bonaventura”. Nella sua ingenuità il montanaro<br />
pensa che a Milano ci sia un solo convento di Cappuccini, <strong>com</strong>e dalle sue parti, e<br />
che tutti conoscano il padre Bonaventura, <strong>com</strong>e appunto a Pescarenico e dintorni<br />
non c’era nessuno che non conoscesse fra Cristoforo. Il brav’uomo a cui Renzo si<br />
rivolse, pazientemente chiese in quale convento fosse quel frate; e avendogli il<br />
giovane, per tutta risposta, mostrata la lettera di padre Cristoforo, che nel recapito<br />
aveva scritto “Porta Orientale”, disse che fortunatamente quel convento era molto<br />
vicino, e gli indicò con garbo e chiarezza la strada da seguire.<br />
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Renzo restò molto ammirato della cortesia dei cittadini verso i campagnoli,<br />
non immaginando di essere giunto a Milano in una circostanza tutta speciale, “un<br />
giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti”, cioè in cui la borghesia e anche la<br />
nobiltà – solitamente così prepotente e boriosa – avevano gran paura dei popolani,<br />
che sembravano essersi scatenati con furia improvvisa e selvaggia. Si meravigliò<br />
anche che, entrando da porta Orientale, i gabellieri non lo avessero fermato,<br />
poiché aveva sentito tanto parlare degli interrogatori e delle perquisizioni a cui<br />
dovevano sottostare le persone che venivano dalla campagna, per poter entrare in<br />
città. Ma la sua meraviglia crebbe ancor più quando vide per terra una striscia di<br />
polvere bianca, che sembrava neve, ma neve non poteva essere di certo; aveva<br />
l’aspetto di farina, ma Renzo non poteva credere che in tempo di carestia<br />
gettassero la farina; palpatala, si accertò che era farina davvero, e non si<br />
raccapezzava <strong>com</strong>e potessero sciuparla così: era forse entrato nel paese della<br />
cuccagna, mentre da loro già si lesinava il pane di granturco? Che dire poi<br />
quando, un po’ più avanti, vide a terra addirittura dei pani, bianchissimi, di quelli<br />
che non mangiava se non nelle grandi ricorrenze! La grazia di Dio non va<br />
sprecata: quindi, chinatosi a raccoglierli, se ne mise due in tasca e uno sotto i<br />
denti, ché il lungo cammino gli aveva risvegliato un discreto appetito. Facendo ciò<br />
pensò tra sé: se trovo il padrone, glieli pagherò.<br />
Mentre sgranocchiando quel pane saporito avanzava verso l’interno della città,<br />
vide venire un uomo con un sacco di farina sulle spalle, una donna con la sottana<br />
rimboccata in alto e tutta piena di farina, e un ragazzo con in testa un paniere<br />
troppo pieno di pagnotte, per cui ogni tanto ne cadeva qualcuna. Da questa vista<br />
Renzo ebbe finalmente la chiave del mistero del pane e della farina seminati per<br />
terra; capì immediatamente “che quello era un giorno di conquista, vale a dire che<br />
ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in<br />
pagamento.”<br />
Per amore di verità, bisogna pur dire che Renzo non ne fu affatto scontento; ciò<br />
non fa meraviglia: egli era tanto amareggiato contro la società ingiusta e<br />
sopraffattrice, dominata dai prepotenti, che vedeva di buon occhio ogni<br />
sconvolgimento che potesse in qualche modo mutarla; e poi era convintissimo che<br />
incettatori e fornai fossero la causa della penuria, per cui si faceva bene a strappar<br />
loro con la violenza quello che essi non volevano cedere a prezzo ragionevole. Se<br />
le autorità non provvedevano, il popolo doveva provvedere da solo.<br />
In mezzo a questi pensieri giunse al convento, dove il portinaio gli disse che il<br />
padre Bonaventura non era in casa, e lo invitò ad aspettarlo in chiesa, dove<br />
potrebbe fare un po’ di bene con la preghiera. Renzo si dirige verso la chiesa,<br />
volendo dare ascolto al buon consiglio, ma poi ci ripensa: vuol dare prima<br />
un’occhiata al tumulto. Si ferma su due piedi, aguzzando gli occhi verso il<br />
brulichìo lontano e tendendo contemporaneamente l’orecchio al confuso rumore.<br />
<strong>“I</strong>l vortice attrasse lo spettatore”. Con questa frase lapidaria il Manzoni scolpisce<br />
la scena e ci dà anche un’idea efficace del fascino che quel tumulto di popolo<br />
esercitò subito sul nostro popolano, tanto da fargli dimenticare il buon proposito<br />
di entrare in chiesa a pregare. E da questa curiosità morbosa, da questa<br />
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trascuratezza della preghiera deriveranno a Renzo i guai peggiori, guai che lui<br />
stesso si tirerà addosso, per ingenuità e inesperienza, cioè per eccessiva fiducia<br />
nell’altrui buona fede. <strong>“I</strong>l vortice attrasse lo spettatore”: poche parole che rendono<br />
appieno una scena e uno stato d’animo, senza bisogno d’altri particolari. Sono<br />
parole gravide di senso, parole insostituibili e indimenticabili, <strong>com</strong>e quelle scritte<br />
a proposito di Gertrude, lusingata dal turpe Egidio: “La sventurata rispose.” E’ la<br />
tentazione che attrae <strong>com</strong>e un vortice ineluttabile chi poco poco si ferma a<br />
guardare, chi poco poco indugia allettato dalla dolce voce della sirena; è una<br />
sirena che non perdona chi l’ascolta. Renzo è ammaliato dallo spettacolo, non sa<br />
resistere alla curiosità e anche al desiderio di fare qualcosa anche lui: e<br />
sbocconcellando il suo pane fragrante si avvia voglioso verso il tumulto.<br />
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CAPITOLO XII<br />
Il Manzoni al principio di questo capitolo ritorna sul tema della carestia, di cui<br />
si era parlato durante il banchetto in casa di don Rodrigo; e ne elenca con lucido<br />
esame le cause.<br />
La prima causa era evidentemente naturale: le avverse condizioni atmosferiche<br />
avevano danneggiato il raccolto, e non solo nel Milanese. Ma le avversità<br />
stagionali erano state aggravate dallo sperpero e dal guasto della guerra del<br />
Monferrato, e soprattutto dal <strong>com</strong>portamento delle truppe spagnole, in tutto simile<br />
a quello di un nemico invasore. Naturalmente ne facevano le spese, in primo<br />
luogo, i poveri contadini, specie nella zona più vicina alle operazioni militari, per<br />
cui i poderi venivano abbandonati, e i coloni, invece di procurare il vitto per sé e<br />
per gli altri, andavano ad accattarlo in città. L’abbandono della terra era un triste<br />
fenomeno che si andava verificando ovunque, anche senza la guerra, “perché le<br />
insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e un’insensatezza del pari<br />
sterminate,” rendevano impossibile la vita ai lavoratori dei campi, sottoposti a<br />
infinite vessazioni, di imposte e di requisizioni e anche di prestazioni personali<br />
gratuite per eseguire pesanti lavori. Il 1628 era il secondo anno di raccolto scarso;<br />
l’anno precedente si era tirato avanti con le scorte accumulate; ma il grano<br />
raccolto, del tutto insufficiente al bisogno, era stato in gran parte requisito per il<br />
fabbisogno delle truppe, sicché la carestia si fece ben presto sentire già<br />
nell’autunno, specie a Milano.<br />
Con la penuria venne inevitabile, e anche salutare, il rincaro del pane. Il nostro<br />
Autore è liberale anche in economia, e per lui quindi il prezzo naturale è quello<br />
derivante dall’incontro tra domanda e offerta, cioè tra produzione e consumo:<br />
diminuendo l’offerta, il prezzo tende a salire, <strong>com</strong>e accenna a diminuire in caso<br />
contrario. Si può anche, è vero, avere un prezzo artificiale di una derrata, un<br />
prezzo per così dire politico; ma allora lo Stato lo deve rendere possibile con<br />
adeguati provvedimenti, <strong>com</strong>e indennizzi, agevolazioni fiscali, eccetera; perché<br />
un prezzo deve essere remunerativo, e nessuno può essere costretto a lavorare in<br />
perdita per sempre, e neppure per lungo tempo. Non sarebbe giusto e neppure<br />
umanamente possibile. In caso di scarsità di una data merce, il rincaro è quindi<br />
inevitabile e anche economicamente utile, perché serve automaticamente a ridurne<br />
il consumo, mentre il prezzo vile ne permetterebbe un eccessivo consumo, o<br />
addirittura lo spreco.<br />
Ma purtroppo avviene quasi sempre che, quando una merce <strong>com</strong>incia a<br />
scarseggiare, sorge in alcuni la tentazione o la voglia di approfittarne per ottenere<br />
illeciti profitti: sono gli incettatori, i bagarini e i contrabbandieri, sempre pronti a<br />
speculare sul bisogno altrui, sordi al senso del dovere e della solidarietà sociale.<br />
Lo Stato ne deve stroncare l’attività e impedire i loro pingui quanto ingiusti<br />
guadagni, ma con provvedimenti oculati e soprattutto tempestivi, operando<br />
sempre nel campo del ragionevole e del fattibile, senza ricorrere a ordinanze le<br />
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quali, appunto perché ingiuste o illogiche o irrealizzabili, rimangono lettera morta.<br />
Il Manzoni vuole appunto mettere in risalto l’insipienza e l’irragionevolezza dei<br />
provvedimenti annonari delle autorità milanesi, i quali peggiorano la situazione, e<br />
d’altra parte anche la passionalità, i pregiudizi e la stolta condotta della gente<br />
ignorante o prevenuta. La stessa severa ma obiettiva critica l’Autore farà, <strong>com</strong>e<br />
vedremo, nei riguardi dei provvedimenti presi dalle autorità governative in<br />
occasione della peste, ma anche a proposito del <strong>com</strong>portamento del popolo in<br />
quella dolorosa circostanza. Il Manzoni non perdona a chi non ha il senso del<br />
dovere o non è all’altezza della situazione o dei <strong>com</strong>piti della sua carica: ogni<br />
carica, secondo la morale cristiana, è un servizio per gli altri, che deve essere<br />
prestato con <strong>com</strong>petenza e abnegazione.<br />
Il prezzo del grano era dunque salito tanto, che il pane (il quale allora<br />
costituiva quasi l’unico alimento della povera gente) si vendeva a un prezzo poco<br />
accessibile ai popolani indigenti, che non erano disposti a pazientare più oltre.<br />
Infatti <strong>com</strong>inciarono a fare delle dimostrazioni, chiedendo minacciosamente che si<br />
ponesse presto rimedio a questa situazione insopportabile. I magistrati stessi<br />
capivano che un tale stato di cose non poteva continuare.<br />
Sic<strong>com</strong>e il Governatore, don Gonzalo Fernandez de Cordova, era impegnato<br />
nell’assedio di Casale Monferrato, il gran cancelliere Antonio Ferrèr, suo vicario,<br />
pensò di ovviare all’inconveniente fissando al pane un prezzo forzoso, che<br />
sarebbe stato giusto, se il grano si fosse venduto a 33 lire il moggio, <strong>com</strong>e nei<br />
tempi migliori, mentre allora era salito sino a 80 lire, e anche più.<br />
Provvedimento stolto e illogico, oltre che ingiusto, il quale sarebbe rimasto<br />
naturalmente inefficace per la stessa resistenza delle cose, se non ci fosse stata una<br />
moltitudine affamata e minacciosa, che non permetteva davvero che venisse elusa<br />
un’ordinanza a essa così favorevole. E sic<strong>com</strong>e i popolani erano rimasti per tanto<br />
tempo a denti asciutti, ora volevano rifarsi con quella specie di cuccagna, anche<br />
perché prevedevano in confuso che la cosa era troppo bella per poter durare. Ma<br />
per i disgraziati fornai erano insulti minacciosi, soprallavoro e perdita; <strong>com</strong>e<br />
avrebbero potuto tirare avanti così? Fecero perciò presenti le loro giuste ragioni, e<br />
minacciarono, se non fossero state accolte, “di gettare la pala nel forno, e<br />
andarsene”, perché nessuno può a lungo lavorare per scapitarci.<br />
Ma Antonio Ferrèr era cocciuto, non sentiva ragioni, e non voleva revocare il<br />
suo bel calmiere, soprattutto perché temeva, nel caso lo avesse fatto, l’ira della<br />
folla, di cui prima si era procurato il favore a spese dei fornai, ai quali fece vaghe<br />
promesse di risarcimento del danno subito a causa del prezzo politico del pane. I<br />
fornai allora ricorsero al Consiglio dei decurioni (una magistratura municipale<br />
formata da 60 nobili, scelti dieci per porta o rione, donde il nome), i quali<br />
scrissero al Governatore informandolo dell’inconveniente e invocando il suo<br />
intervento. Ma don Gonzalo, “ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della<br />
guerra”, non volle perdere il suo prezioso tempo per rimediare a quel pasticcio, e<br />
incaricò una <strong>com</strong>missione, da lui nominata all’uopo, di fissare al pane un prezzo<br />
più equo, “da poterci campar tanto una parte che l’altra”. I <strong>com</strong>ponenti della<br />
giunta, riunitisi, fecero, dopo molti sospiri e tergiversazioni, ciò che era purtroppo<br />
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inevitabile quanto pericoloso, vale a dire rincararono il pane: “i fornai<br />
respirarono, ma il popolo imbestialì.” E’ questa una delle frasi scultoree del<br />
Manzoni: poche parole pregne di significato, che rappresentano con icastica<br />
efficacia la minacciosa situazione, che poteva divenire da un momento all’altro<br />
esplosiva. Ciò che avvenne. Già il giorno 10 novembre, precedente a quello in cui<br />
Renzo giunse a Milano, si erano visti per le strade della città i prodromi di una<br />
sommossa. L’indomani, sin dalle prime ore del mattino, il centro cittadino era<br />
ingombro di gruppi di gente eccitata, tra cui molti, ai quali prudevano le mani,<br />
non volevano lasciarsi sfuggire l’occasione di approfittare, nel proprio interesse,<br />
dell’indignazione generale.<br />
Bastava una scintilla, per appiccare l’incendio a quella specie di barile di<br />
polvere rappresentato dalla moltitudine esasperata; e l’occasione venne appunto<br />
con l’uscita dai forni delle gerle piene di fragranti pagnotte, portate dai garzoni<br />
ai soliti clienti. I poveri garzoni vengono bloccati e malmenati: il pane va a ruba.<br />
Molti avevano così conquistato una pagnotta, ma molto più numerosi erano quelli<br />
rimasti con l’acquolina in bocca; e purtroppo in mezzo alla folla eccitata c’erano i<br />
soliti profittatori, gli agitatori, che volevano spingere le cose al peggio, per<br />
pescare nel torbido. “Al forno! al forno!” si grida da più parti. Lì vicino ce n’era<br />
appunto uno, chiamato “il forno delle grucce”; la moltitudine, guidata dagli<br />
scalmanati, si riversa in quella direzione, e il personale del forno fa appena in<br />
tempo a mandare ad avvertire il Capitano di giustizia, e a chiudersi dentro in fretta<br />
e furia, barricandosi alla meglio.<br />
I più accesi tra i dimostranti avevano appena <strong>com</strong>inciato il lavoro per<br />
abbattere la porta, quando giunse il Capitano con un manipolo di alabardieri. Egli<br />
fa allontanare un po’ la folla e cerca di ridurla alla ragione con ammonimenti e<br />
preghiere, conditi di minacce. Ma la folla è sorda, la calca preme intorno a lui che,<br />
sentendosi quasi soffocare, e temendo di usare la forza data la scarsezza dei suoi<br />
uomini, grida a quei di dentro che aprano. I difensori obbediscono, i battenti si<br />
scostano offrendo uno spiraglio, per il quale s’infila il Capitano, trascinandosi<br />
dietro, uno alla volta, gli alabardieri che trattengono la folla con le picche<br />
abbassate sui petti dei dimostranti. Sgusciato dentro l’ultimo soldato, la porta<br />
viene riappuntellata in fretta, mentre il Capitano sale al piano di sopra;<br />
affacciatosi a una finestra, riprende la predica, mista di lodi e di rampogne; ma<br />
erano parole gettate all’aria. Infatti quelli di sotto, incuranti sia degli elogi che dei<br />
rimproveri, avevano ripreso alacremente la loro opera di guastatori, allo scopo di<br />
forzare la porta; e allora il Capitano a esortare e minacciare: “Vedo, vedo:<br />
giudizio! badate bene! è un delitto grosso… Vergogna!... Sentite, sentite: siete<br />
stati sempre buoni fi… Ah canaglia!” Questo repentino mutamento di linguaggio<br />
fu dovuto a un sasso, lanciato da uno di quei bravi figlioli, che lo ferì alla tempia<br />
destra, costringendolo a ritirarsi precipitosamente e a richiudere la finestra,<br />
rinunciando a ogni ulteriore tentativo di persuadere o di costringere quegli<br />
scalmanati a desistere.<br />
Ma i padroni e i garzoni del forno, vedendo inefficace la protezione della forza<br />
pubblica, mossi dalla disperazione nel veder manomessa impunemente la cosa<br />
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loro, <strong>com</strong>inciarono a minacciare dalle finestre gli scassinatori, con in pugno le<br />
pietre di cui avevano fatto provvista. Vedendo che le minacce non servivano a<br />
nulla, tanto che la gente continuava a guastare, senza nemmeno voltarsi in su,<br />
<strong>com</strong>inciarono a gettare le pietre davvero. La grandine di pietre risultò micidiale:<br />
neppure una andava a vuoto, tanto la calca era fitta: due rimasero uccisi e parecchi<br />
furono feriti più o meno gravemente. Ma, <strong>com</strong>e dice Virgilio, “furor arma<br />
ministrat”; la vista del sangue non fece fuggire la moltitudine, né del resto ciò<br />
sarebbe stato possibile in quel serra serra, ma la aizzò maggiormente. La turba<br />
inferocita si gettò in un impeto folle contro i battenti malconci: in pochi minuti la<br />
porta fu sfondata, le inferriate delle finestre divelte, gli infissi infranti, e la marea<br />
urlante entrò dalla porta e dalle finestre per fare man bassa di tutto.<br />
Fortunatamente, nella ressa di far bottino, furono dimenticati i sanguinosi<br />
propositi di far vendetta contro i fornai, che poterono riparare in soffitta assieme<br />
al Capitano e ai suoi alabardieri; alcuni, non sentendosi sicuri neppure lì, uscirono<br />
dagli abbaini sui tetti, cercando di allontanarsi da quella casa camminando sui<br />
coppi.<br />
Tutto andò a ruba nel forno invaso: pane, farina, pasta appena intrisa; nella<br />
fretta furiosa della conquista molta farina va a terra e viene calpestata; i<br />
saccheggiatori si ostacolano a vicenda nell’ardore della preda: qualcuno, più<br />
furbo, trascurando la merce, corre al cassetto dei denari, fa saltare la serratura, si<br />
riempie le tasche di moneta contante, e lesto corre a casa per mettere al sicuro il<br />
bottino, per tornare poi a prendere il pane o la farina, se ne resterà. Ma i più<br />
rimangono a mani vuote e a “denti secchi”, <strong>com</strong>e dice appunto il Manzoni, e per<br />
sfogarsi danno di piglio a quei poveri arnesi dello stiglio, li fracassano per un<br />
gusto vandalico e quindi li portano fuori <strong>com</strong>e un trofeo di vittoria, per farne poi<br />
un bel falò proprio in piazza del Duomo, in mezzo a una moltitudine acclamante<br />
al pane a buon mercato.<br />
Il nostro Renzo giunse al forno “delle grucce” quando già il saccheggio era<br />
finito per esaurimento della merce e di materiale vario, e vedendo la scena di<br />
devastazione, nel suo buon senso di montanaro disse tra sé: “Questa poi non è una<br />
bella cosa; se concian così tutti i forni, dove vogliono fare il pane? Ne’ pozzi?”<br />
Quindi, seguendo un saccheggiatore ritardatario, che portava sulle spalle un fascio<br />
di tavole spaccate e scheggiate, giunse anche lui a vedere gli ultimi guizzi di<br />
quella gran fiammata, intorno alla quale la folla eccitata alternava evviva e grida<br />
di morte: ”Crepi la provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!” Evidentemente la<br />
giunta che doveva crepare era quella che aveva rincarato il pane, mentre la<br />
provvisione (organo del Governo, che – sotto la direzione di un vicario del<br />
Governatore – si occupava dell’annona) doveva crepare anch’essa, perché non<br />
aveva assicurato pane a buon mercato. “Viva il pane!” ripetevano i tumultuanti a<br />
squarciagola, ma, “per far vivere il pane”, osserva bonariamente il Manzoni, non<br />
serve troppo la distruzione dei forni e lo sperperìo della farina esistente, che<br />
andava invece oculatamente razionata. La folla esaltata però non capiva certe<br />
sottigliezze: Renzo invece, la cui mente non era ancora ottenebrata dalla passione,<br />
<strong>com</strong>prende di primo acchito quanto era irragionevole la condotta della folla, la<br />
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quale non agogna che il saccheggio. Infatti, non appena qualche facinoroso ebbe<br />
sparsa la voce che poco lontano, al Cordusio, era assalito un altro forno, tutti si<br />
diressero verso quella parte, per saziare la loro brama di rapina e di devastazione.<br />
Renzo si mosse con la retroguardia di quell’esercito disordinato e tumultuante,<br />
sempre con il proposito di starsene fuori dalla calca; anzi a un certo punto pensò<br />
se non fosse meglio tornare al convento, per accudire ai fatti propri. Purtroppo<br />
anche questa volta vinse nel suo animo quella maledetta curiosità, causa di tanti<br />
guai, vizio non soltanto femminile. Ma il forno del Cordusio, che per precauzione<br />
aveva già chiuso i battenti, non era affatto assediato: pochi vogliosi stavano alla<br />
larga, perché alle finestre c’era gente ben armata, decisa a difendersi in modo più<br />
efficace che con un lancio di pietre. Arriva intanto l’avanguardia dei predatori,<br />
vede la mala parata, si arresta indecisa: chi non vuole arrischiare la vita, chi<br />
invece spinge e anima gli altri gridando: “avanti! avanti!” In questa pausa di<br />
esitazione e di contrasti, un facinoroso che non si rassegnava ad andarsene a mani<br />
vuote, lancia la sua maledetta proposta: “C’è qui vicino la casa del vicario di<br />
provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco;” la proposta è accolta con<br />
alte grida di approvazione generale, <strong>com</strong>e se l’impresa fosse stata concertata da<br />
tempo, e la turba tumultuosa si avvia verso la casa indicata.<br />
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CAPITOLO XIII<br />
Il Manzoni, ora che la vita di un uomo è in pericolo, attenua il tono ironico del<br />
capitolo precedente, <strong>com</strong>preso <strong>com</strong>’è di pietà umana e cristiana per lo “sventurato<br />
vicario”, contro il quale i malintenzionati vogliono sfogare la loro brama di<br />
violenza e di saccheggio. Questo magistrato, scelto ogni anno dal Governatore tra<br />
sei nobili proposti dal Consiglio dei decurioni, era contemporaneamente<br />
presidente di questo consesso e del Tribunale di provvisione, <strong>com</strong>posto a sua volta<br />
da dodici nobili, il quale si occupava principalmente dell’approvvigionamento dei<br />
viveri. E’ molto probabile che, della giunta che rincarò il pane, fosse stato<br />
presidente il povero vicario, appunto per la sua specifica responsabilità e<br />
<strong>com</strong>petenza; contro di lui così si riversò l’odiosità di un provvedimento purtroppo<br />
inevitabile quanto sgradito. Egli veniva dunque a essere il capro espiatorio di una<br />
situazione da lui non creata, e di colpe in gran parte non sue; donde il senso di<br />
pietà che pervade queste pagine in cui si parla del mortale pericolo da lui corso<br />
per lo scatenarsi del furore popolare. L’Autore però, di tanto in tanto, <strong>com</strong>e per<br />
scaricare la tensione drammatica del racconto, getta giù una frase o una battuta<br />
ironica o umoristica, per evitare di cadere nel patetico.<br />
Il poveretto stava facendo il chilo di un pranzo consumato con poco appetito,<br />
“e senza pan fresco”, preoccupato per i gravi fatti della giornata, che lo<br />
riguardavano direttamente, ma ben lontano dal sospettare che la tempesta si<br />
dovesse riversare su di lui. La sua era una difficile digestione, sia per la tensione<br />
nervosa sia per il pane raffermo che era stato servito a tavola, al posto del pane<br />
fresco predato dai dimostranti. Egli seguiva con ansia l’evolversi della situazione,<br />
ma, <strong>com</strong>e abbiamo detto, non pensava minimamente che il turbine si dovesse<br />
abbattere così paurosamente contro di lui, che si sentiva non colpevole della<br />
deplorevole situazione.<br />
Qualche onest’uomo (non ne manca mai, per grazia di Dio, neppure nelle<br />
accolte più equivoche) precorse la folla per portare al vicario l’avviso del<br />
pericolo; ma mentre egli pensa al modo di fuggire, risulta evidente che ogni fuga è<br />
preclusa, poiché già l’avanguardia degli assalitori è giunta davanti al palazzo; si fa<br />
appena in tempo a sbarrare le porte e le finestre del pianterreno con pali e puntelli.<br />
Mentre la servitù improvvisa la difesa, lo sventurato padrone si rifugia<br />
precipitosamente in soffitta, dove da un pertugio spia verso la strada; e vedendo<br />
quella gran folla scalmanata e inferocita, decisa a linciarlo, cerca tremando il<br />
nascondiglio più sicuro e lì si rannicchia con la morte nel cuore, tendendo<br />
l’orecchio alle grida, se mai cessassero o si affievolissero almeno. Ma gli urli<br />
selvaggi infittivano e raddoppiavano d’intensità, rintronando sinistramente nel<br />
vuoto del cortile e accrescendo ogni momento l’angoscia del meschino che,<br />
disperato, si rac<strong>com</strong>andava a Dio.<br />
Renzo questa volta si cacciò deliberatamente nel fitto della folla tumultuante,<br />
perché, avendo sentito esprimere, da qualche brav’uomo, il proposito di evitare il<br />
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linciaggio, subito decise di adoperarsi lui pure a questo scopo, per quanto fosse<br />
anch’egli convinto che il vicario era il responsabile della carestia, “per quella<br />
funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti.”<br />
Questa osservazione del Manzoni contiene, oltre a un acuto giudizio psicologico,<br />
un indiretto monito a non lasciasi mai trascinare, accecati dalla passionalità e dai<br />
pregiudizi, ad azioni inconsulte, ma a cercare di rimanere, per quanto è possibile,<br />
sereni e obiettivi, soprattutto quando siamo turbati da qualche sentimento<br />
appassionato.<br />
Le autorità, avendo saputo quasi subito dell’attacco alla casa del vicario,<br />
chiesero aiuto al <strong>com</strong>andante della guarnigione spagnola, il quale mandò un<br />
plotoncino di micheletti (fanti armati di fucile) al <strong>com</strong>ando di un ufficiale. Questi,<br />
avendo ricevuto l’ordine di evitare l’uso delle armi, si trovò in una situazione<br />
difficile: avrebbe dovuto rompere la calca e raggiungere il palazzo, per arrestare i<br />
guastatori; ma l’impresa era rischiosa: avrebbero i soldati avuto abbastanza<br />
energia da aprire la folla rimanendo essi stessi <strong>com</strong>patti? E se per caso si fossero<br />
disuniti? sarebbero rimasti alla mercé della folla esasperata, con i fucili che nella<br />
ressa diventavano inservibili. Perciò l’ufficiale fece arrestare il reparto ai margini<br />
del tumulto, indeciso sul da farsi; e la sua indecisione fu subito interpretata per<br />
paura. Perciò, quando egli fece a quelli che aveva davanti l’intimazione di<br />
sgombrare, non ottenne nessun risultato apprezzabile, perché la gente, avendo<br />
<strong>com</strong>preso che aveva paura, non se la dava per inteso, o si scostava appena, mentre<br />
quelli che stavano davanti alla porta non si erano neppure accorti dei soldati, e<br />
continuavano indisturbati il loro assalto ai muri e agli infissi con scalpelli,<br />
martelli, paletti, pietre e, chi altro non aveva, con le unghie;e il lavoro era a buon<br />
punto.<br />
Tra i tumultuanti più inveleniti spiccava un vecchio vituperevole che, con gli<br />
occhi stralunati e con la bava in bocca, gridava che avrebbe crocifisso<br />
l’affamatore alla sua porta; e infatti brandiva davanti alla folla schiamazzante un<br />
martello e quattro grandi chiodi, con in faccia un ghigno diabolico, che faceva un<br />
orrido contrasto con la canizie della sua testa. A sentire le sue ripugnanti parole,<br />
Renzo non poté tenersi dal reagire; senza pensare affatto all’umore della folla che<br />
aveva intorno, gridò contro quell’energumeno: “Vergogna! Vogliam noi rubare il<br />
mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se<br />
facciamo di queste atrocità?” Non l’avesse mai detto! Uno del fondaccio, avendo<br />
sentito quelle sacrosante parole, <strong>com</strong>incia a inveire contro di lui, e aizza gli altri a<br />
fare la festa a quel cane traditore, a quel nemico del popolo, a quella spia del<br />
vicario. Renzo capì subito che doveva sparire di lì immediatamente, se voleva<br />
evitare guai seri, dato che la folla quel giorno era male intenzionata davvero; per<br />
sua fortuna c’erano vicino anche dei buoni cristiani, i quali cercarono di<br />
confondere, con le loro, quelle grida omicide, e di far sgattaiolar via Renzo da<br />
quel luogo, dove non spirava buon’aria per lui. Ma ciò che lo aiutò di più fu una<br />
lunga scala a pioli che veniva portata in quel momento, la quale polarizzò<br />
l’attenzione generale, avanzando con difficoltà, a strappi e a balzelloni, in mezzo<br />
alla calca. Mentre “la macchina fatale” (reminiscenza virgiliana), passando sopra<br />
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le teste, si avvicinava ai muri da scalare, il nostro montanaro, lavorando di gomiti<br />
a più non posso, si allontanava dal pericolo, e poté finalmente respirare un po’ al<br />
largo, ormai deciso a non rischiare più oltre, e a tornare al convento.<br />
Ma ecco che in carrozza, senza scorta alcuna, giunge il gran cancelliere<br />
Antonio Ferrèr, preoccupato per la vita del vicario e desideroso di salvarlo, anche<br />
perché sentiva di essere lui la causa, pur indiretta e involontaria, della furia<br />
popolare. Con questo gesto abbastanza coraggioso la figura del Ferrèr si riscatta<br />
dalla mediocrità boriosa e insipiente che gli abbiamo attribuito a prima vista; dal<br />
<strong>com</strong>portamento abile e altruista che tenne in occasione del tumulto possiamo<br />
desumere che, con la sua tariffa del pane, aveva preso un dirizzone in buona fede,<br />
o per inesperienza o per amore di popolarità, ora che era lui a governare Milano al<br />
posto di don Gonzalo, odiato dal popolo; <strong>com</strong>unque, conclude il Manzoni,<br />
“veniva a spender bene una popolarità mal acquistata”; e il personaggio ci diventa<br />
subito alquanto simpatico.<br />
A questo punto del racconto l’Autore si sofferma a fare una profonda analisi<br />
dei tumulti popolari, valida ancor oggi. In essi si distinguono sempre tre categorie<br />
di dimostranti: innanzi tutto quelli che vogliono spingere le cose al peggio, per<br />
passione per odio per scellerato disegno, oppure per interesse; ad essi si<br />
oppongono coloro che non vogliono eccessi, per un certo senso di moderazione o<br />
per spirito cristiano, oppure perché legati in qualche modo alle persone o cose<br />
minacciate; tra queste due categorie si frappone la terza, di gran lunga la più<br />
massiccia numericamente; però essa rimane passiva, <strong>com</strong>e una massa amorfa, e si<br />
lascia influenzare o addirittura dominare dagli attivisti del male o anche del bene,<br />
secondo le circostanze. Naturalmente sia gli uni sia gli altri si danno battaglia per<br />
trascinare dalla loro parte questa massa, perché essa appunto, decidendosi in un<br />
senso o nell’altro, assegna col suo peso schiacciante la vittoria a coloro che hanno<br />
saputo conquistarla. Con pittoresca similitudine il Manzoni dice che le due parti<br />
attive “sono quasi due anime nemiche, che <strong>com</strong>battono per entrare in quel<br />
corpaccio” rappresentato dalla massa indecisa la quale, senza un’anima, buona o<br />
cattiva che sia, non potrebbe determinarsi a nulla, e resterebbe <strong>com</strong>e paralizzata.<br />
Ora l’arrivo del cancelliere Ferrèr diede a un tratto il vantaggio alla parte<br />
buona, che invece fino allora appariva perdente, e ormai doveva battere in ritirata,<br />
poco poco che quello straordinario aiuto avesse tardato. Il Ferrèr era entrato nelle<br />
grazie del popolo per quella sua “meta” (così chiamano a Milano il prezzo del<br />
calmiere) sul pane, così popolare; diceva che veniva per portare in prigione il<br />
vicario; veniva solo e disarmato (i micheletti erano postati dalla parte opposta<br />
della calca), confidando nell’affetto dei cittadini: tutto questo gli conciliò subito la<br />
simpatia quasi generale. Non si creda però che non ci fossero gli oppositori, gli<br />
scontenti che la cosa si risolvesse così miseramente, mentre loro avevano fatto<br />
ben altro disegno, di preda o di sangue; ma questi fautori del soqquadro furono a<br />
poco poco zittiti, rimproverati, sopraffatti. In un primo momento i sostenitori di<br />
Ferrèr diedero loro sulla voce, tacciandoli di nemici del popolo, poiché il gran<br />
Cancelliere era l’amico del popolo; quindi, divenuti ormai padroni della<br />
situazione, diedero anche sulle mani ai più scalmanati, strappando loro le armi di<br />
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vario genere con cui si accanivano intorno a quel disgraziato portone, che ormai<br />
non reggeva più all’attacco disordinato ma violento dei guastatori.<br />
Non occorre dire che Renzo fu subito per Ferrèr, quello “che aiuta a far le<br />
gride” (aveva letto il suo nome in calce alla grida mostratagli dal dottor Azzeccagarbugli);<br />
e con le sue robuste spalle di alpigiano si fece largo sino alla carrozza, e<br />
subito si mise a far luogo davanti ad essa con un ardore veramente entusiastico,<br />
tanto che gli toccò più di un sorriso di intelligenza e di riconoscenza da parte del<br />
gran Cancelliere, al quale il giovane, nella sua ingenuità, credeva già di essere<br />
diventato grande amico, tanto è vero che il giorno dopo, arrestato dai birri,<br />
protesterà di voler essere condotto da Ferrèr, aggiungendo quasi con fierezza:<br />
“Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.”<br />
Antonio Ferrèr, per tutto quel tragitto in mezzo alla calca, non fece altro che<br />
affacciarsi ora a destra ora a sinistra, distribuendo alla folla, con i sorrisi e i<br />
ringraziamenti, le parole che sapeva più accette: pane e giustizia. A dire il vero<br />
questo gran Cancelliere, in siffatto rischioso frangente, ci appare molto abile, e<br />
l’abilità deriva dall’intelligenza; per cui siamo portati a credere che il calmiere sul<br />
pane sia stato un atto da lui calcolato per guadagnarsi d’un colpo il favore dei<br />
sudditi e la stima dei superiori, onde poter scalzare dalla carica di governatore don<br />
Gonzalo, la cui quotazione era ormai in ribasso per il cattivo esito dell’assedio di<br />
Casale. Fu dunque un gesto calcolato, anche nel suo rischio? Non sappiamo; ma<br />
certo quello che il Ferrèr non calcolò bene fu la reazione dei fornai, che non<br />
abbozzarono affatto, <strong>com</strong>e lui sperava, ma per mezzo del consiglio dei decurioni<br />
ricorsero al Governatore, e ottennero alfine l’abrogazione di quel prezzo iniquo.<br />
Perciò, se calcolo ci fu, esso non riuscì bene al Ferrèr, al quale però rimase la<br />
simpatia popolare: magra consolazione per il suo piano ambizioso.<br />
Renzo dunque dimenticò ancora una volta il proposito di tornare al convento,<br />
e questa volta, lo dobbiamo dire a onor del vero, non per morbosa curiosità, ma a<br />
fin di bene, cioè per aiutare il gran Cancelliere nel suo disegno di salvare la vita<br />
allo sventurato vicario. La carrozza, scortata dai volenterosi, arriva finalmente<br />
davanti al portone del palazzo, dove i fautori della giustizia legale, sopraffacendo<br />
i sostenitori della giustizia sommaria, hanno fatto un po’ di largo, trattenendo<br />
indietro la folla. Antonio Ferrèr appare sul predellino, fa ampi cenni di saluto,<br />
ac<strong>com</strong>pagnati da profondi inchini di ringraziamento; quindi con tanto di toga<br />
scende dalla carrozza e si dirige eretto e sicuro verso la porta, che viene aperta<br />
quanto basti per farlo entrare, e immediatamente richiusa, tanto che lo strascico<br />
della toga rischiò di rimanere prigioniero tra i battenti che venivano<br />
frettolosamente riaccostati e riappuntellati alla meglio. Il vicario, più morto che<br />
vivo, viene portato giù a braccia dai servitori, anche loro atterriti, i quali non la<br />
finiscono di ringraziare Sua Eccellenza assieme al loro padrone, a cui solo in<br />
presenza di Ferrèr è tornato un po’ di polso e di colorito. Il gran Cancelliere tronca<br />
i ringraziamenti dicendo che non c’è tempo da perdere e, fatto alla meglio<br />
coraggio al vicario, se lo trascina dietro verso la carrozza nascondendolo con la<br />
sua persona, mentre i suoi bravi sostenitori, che nel frattempo hanno trattenuto la<br />
folla, cercano anche loro di coprire l’affamatore del popolo, levando in aria le<br />
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mani e i cappelli, onde impedire l’odiosa vista a quelli di dietro, non tutti bene<br />
intenzionati. “La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era<br />
accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni.” Il dramma si è concluso<br />
felicemente.<br />
La via del ritorno fu più facile, perché era rimasta aperta una certa traccia del<br />
percorso precedente, sempre ad opera dei volenterosi, i quali questa volta non<br />
dovettero faticar troppo per aprire alla carrozza un varco sufficiente, per cui essa<br />
poté procedere senza intoppi, anche se lentamente. Mentre il vicario se ne stava<br />
tutto rannicchiato in fondo al sedile, per non farsi vedere, Antonio Ferrèr si dava<br />
invece da fare per attirar su di sé l’attenzione della folla, ripetendo le parole e le<br />
frasi più adatte per conciliarsene o conservarsene il favore. Sicché in tutto il<br />
viaggio di ritorno tenne col suo “mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel<br />
tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai.” La concione era di tanto in<br />
tanto inframmezzata di qualche frase spagnola, che diceva sottovoce al suo<br />
<strong>com</strong>pagno, perché non si offendesse di certe espressioni che doveva concedere<br />
alla moltitudine: “Esto lo digo por su bien.”<br />
Ora che il vicario è ormai salvo, anche il tono narrativo del Manzoni si<br />
trasforma, divenendo arguto e disteso, sorridente e faceto, <strong>com</strong>e di chi gode di<br />
essere uscito da un incubo. Abbiamo visto <strong>com</strong>e fa dell’umorismo su Renzo, che<br />
crede di essere diventato in un batter d’occhio un intimo amico del gran<br />
Cancelliere; ma non risparmia lo stesso Ferrèr il quale presenta “un viso tutto<br />
ridente, tutto umile, tutto amoroso”, che riservava solo al suo sovrano Filippo IV;<br />
ma per estrema necessità “fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione”,<br />
veramente straordinaria e imprevedibile, a favore dei suoi sudditi; quel giorno<br />
infatti <strong>com</strong>andava la piazza. Anche sui personaggi minori si rivolge<br />
l’osservazione arguta e divertita dell’Autore: vediamo Pedro, il cocchiere<br />
spagnolo, il quale “sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa,<br />
<strong>com</strong>e se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile dimenava<br />
adagio adagio la frusta.” Vediamo l’ufficiale del picchetto spagnolo, il quale,<br />
vedendo arrivare la carrozza, schiera in fretta i micheletti per presentare le armi al<br />
gran Cancelliere, che per tutto ringraziamento gli dice: “beso a usted las manos”,<br />
cioè bacio le mani a vossignoria”. Il subalterno <strong>com</strong>prese il tono piuttosto ironico<br />
della frase, che date le circostanze voleva dire: m’avete dato un bell’aiuto!<br />
L’ufficiale, impacciato, si irrigidì nel saluto militare, stringendosi nelle spalle per<br />
la mortificazione. La più bella figura la fece Pedro che, passando tra quelle due ali<br />
di soldati che davano gli onori militari, si riprese immediatamente dallo<br />
sbalordimento, si ricordò chi era e chi conduceva, e senza tante cerimonie mise i<br />
cavalli di carriera, per cui chi non voleva essere arrotato dovette scantonare in<br />
tempo: l’autorità riprendeva il suo rango.<br />
Essendo ormai al largo, fuori del pericolo, il vicario si raddrizza, si ri<strong>com</strong>pone,<br />
respira finalmente a pieni polmoni e può alfine parlare; ma le sue prime parole<br />
rivelano ancora il terrore che lo domina: protesta di non volerne saper più niente<br />
della carica e della vita cittadina, di volersi ritirare in una grotta, “lontano da<br />
questa gente bestiale”, a vivere <strong>com</strong>e eremita. Antonio Ferrèr gli risponde, con un<br />
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certo tono autorevole, che dovrà fare quello che sarà più conveniente per il<br />
servizio di Sua Maestà. Passata la tempesta e ritornata la forza nelle mani solite,<br />
avrà il vicario mantenuto il suo proposito di rinunciare agli agi e alle pompe dei<br />
ricchi nobili investiti di alte cariche? Chi sa! Il Manzoni afferma di non saperne<br />
nulla; noi nutriamo seri dubbi su queste promesse da marinaio.<br />
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CAPITOLO XIV<br />
Renzo ac<strong>com</strong>pagnò sino alla fine la carrozza del gran Cancelliere, e<br />
seguendola di corsa <strong>com</strong>e un lacchè passò anche lui tra i soldati che presentavano<br />
le armi, <strong>com</strong>e in trionfo; e in verità si sentiva in quel momento un personaggio<br />
molto importante, perché aveva contribuito così efficacemente al successo di<br />
Ferrèr, del quale credeva proprio di essere entrato nelle grazie. La folla <strong>com</strong>inciò<br />
a sbandarsi, e molti si dirigevano alle loro case, perché ormai il sole tramontava<br />
ed essi si sentivano stracchi e affamati (meno quei pochi che avevano fatto<br />
bottino) dopo tanto gridare e tumultuare; forse più della fame sentivano l’arsura<br />
della gola. Si formavano vari capannelli di uomini che parlavano animatamente,<br />
<strong>com</strong>mentando secondo i loro punti di vista i grandi fatti della giornata, e magari<br />
prendendo gli accordi per l’indomani.<br />
Naturalmente non tutti erano contenti del salvataggio operato da Ferrèr; quelli<br />
a cui pizzicavano fortemente le mani, e si vedevano defraudati di quanto stavano<br />
già per conquistare, brontolavano o addirittura bestemmiavano per una fine così<br />
meschina di un’azione così promettente. I più inveleniti ripresero a tempestare il<br />
portone del palazzo, che era stato di nuovo chiuso e puntellato alla meglio,<br />
volendo almeno dare il sacco alla casa, ora che la vittima era sfuggita alla loro<br />
furia. Ma i micheletti, essendo la folla diradata, avanzarono senza troppa difficoltà<br />
e vennero a postarsi proprio davanti al palazzo, sicché i facinorosi dovettero -<br />
obtorto collo – scantonare di qua o di là, mentre i soldati prendevano posizione a<br />
difesa del portone malconcio, facendo sfumare ogni speranza di saccheggio.<br />
Renzo pensò che ormai era troppo tardi per tornare al convento, e che gli<br />
conveniva cercare una locanda per quella notte. Mentre camminava per trovarne<br />
una, s’imbatté in un crocchio di persone che discutevano su ciò che era stato fatto<br />
e su quello che bisognava fare. Dopo essere stato un poco ad ascoltare, non poté<br />
tenersi dal partecipare anche lui alla discussione, perché gli pareva di averne<br />
diritto ormai, dopo tutto quello che aveva fatto per il gran Cancelliere, e di avere<br />
anche delle cose interessanti da dire. Poiché l’argomento della conversazione<br />
gliene offriva il destro, Renzo, perduta ogni soggezione, si introduce nel discorso<br />
e parla con crescente fiducia nei propri mezzi oratori. Il suo discorso, a dire il<br />
vero, appare arguto e colorito nell’espressione, e anche abbastanza assennato nella<br />
sostanza, sicché egli finisce col polarizzare l’attenzione di quella piccola<br />
assemblea con le sue parole ingenuamente appassionate, che riscuotono alla fine<br />
l’approvazione quasi generale. Egli è ormai convinto che si può cambiare il<br />
mondo e che, per realizzare una cosa, basta farla entrare in testa ai dimostranti, i<br />
quali poi col loro vocione minaccioso – magari aiutato dalle mani – la imporranno<br />
ai governanti.<br />
Egli <strong>com</strong>incia chiedendo di poter dire anche lui il suo modesto parere; poi<br />
continua affermando che tante sono le bricconerie che si fanno contro il popolo, e<br />
non soltanto nel fatto del pane, ma in ogni campo; e non soltanto a Milano, ma<br />
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anche e ancor più nelle campagne e nei paesi: questo perché “c’è una mano di<br />
tiranni, che fanno proprio al rovescio dei dieci <strong>com</strong>andamenti” e <strong>com</strong>piono ogni<br />
sorta di angherie contro la povera gente che non fa loro alcun male, ma vuole solo<br />
lavorare e vivere in grazia di Dio. E questi signorotti prepotenti formano tra di<br />
loro una lega, per sostenersi nelle loro malefatte, spesso anche con la connivenza<br />
delle autorità; e pure gli uomini di legge sono a loro legati per interessi, e non si<br />
curano di far fare giustizia ai poveri perseguitati. Le gride ci sono, e parlano<br />
chiaro, elencando tutti i reati, proprio <strong>com</strong>e avvengono, e <strong>com</strong>minando per<br />
ognuno la giusta pena; ma chi le applica o qual poveretto le può far valere contro i<br />
potenti signori? Se un popolano si rivolge a un avvocato per far valere i suoi diritti<br />
contro un signorotto, <strong>com</strong>e canta la grida, non viene ascoltato o, peggio, è<br />
cacciato in malo modo. Renzo parla appassionatamente, e i suoi casi personali,<br />
<strong>com</strong>e si può facilmente notare, alimentano la sua disordinata ma pur vivace<br />
oratoria, poiché la lingua batte dove il dente duole. A conclusione del suo<br />
infervorato discorso propone che il giorno dopo si vada da Ferrèr, perché quello é<br />
un galantuomo, per denunciargli tutte le malefatte dei signorotti e dei dottori della<br />
legge “scribi e farisei”, e dargli una mano per ripulire da simile gentaglia la città e<br />
tutto il ducato, applicando le leggi con giustizia e verso tutti, in modo da poter<br />
vivere un po’ più da cristiani. La perorazione di Renzo fu salutata da un coro di<br />
applausi, tanto era fervida e appassionata; ma non mancò qualche criticone o<br />
qualche scontento, gente che si era mossa per il pane, e non voleva <strong>com</strong>plicare le<br />
cose presentando altre richieste, sul tipo di quelle del forestiero.<br />
Comunque, sic<strong>com</strong>e era già buio, la <strong>com</strong>itiva si sciolse, dandosi<br />
l’appuntamento per l’indomani in piazza del Duomo. Avendo Renzo domandato<br />
se qualcuno sapesse indicargli un ‘osteria nelle vicinanze, un tale si offrì subito di<br />
ac<strong>com</strong>pagnarvelo. Costui era un birro travestito, uno dei molti che erano stati<br />
sguinzagliati per la città sin dall’inizio del tumulto, per osservare e riferire chi<br />
fossero gli istigatori e i caporioni della rivolta, onde poterli arrestare non appena<br />
la situazione si fosse normalizzata. Il bargello aveva ascoltato il montanaro, e<br />
subito lo aveva scelto per sua vittima, perché gli era sembrato “un reo buon<br />
uomo”, uno da potersi facilmente arrestare, incriminare e magari impiccare, dopo<br />
avergli fatto confessare con la tortura tutti i delitti che si voleva. Ci fece dunque<br />
assegnamento e decise di non lasciarselo sfuggire, il merlotto di campagna; e così<br />
avrebbe fatto coi suoi superiori un’ottima figura, senza rischiare nulla; mentre con<br />
i veri facinorosi si rischiava troppo, per cui conveniva lasciarli in pace. Quando lo<br />
sprovveduto Renzo chiese di essere ac<strong>com</strong>pagnato a una locanda, il bargello tentò<br />
il colpo magistrale di condurre il forestiero dritto dritto in guardina, la più sicura<br />
ed economica delle locande; ma sfortunatamente il tiro gli andò fallito, perché il<br />
giovane, molto stanco, vista poco dopo un’insegna d’osteria, non volle più<br />
saperne di proseguire, ed entrò lì.<br />
Il suo ac<strong>com</strong>pagnatore, dopo aver tentato invano di dissuaderlo, dicendo che<br />
quell’osteria non faceva per lui, lo seguì, non volendo lasciare la preda senza<br />
avergli almeno cavato di bocca le generalità, onde denunciarlo ai superiori.<br />
Cammin facendo aveva saputo che Renzo era del territorio di Lecco, e ora<br />
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avrebbe cercato di sapere il resto. Il nostro giovane, vedendo che lo sconosciuto<br />
non aveva voglia di lasciarlo, lo invitò a bere un bicchiere con lui, e quegli accettò<br />
ben volentieri, anzi lo precedette nel locale, <strong>com</strong>e pratico del luogo. L’oste andò<br />
incontro ai nuovi venuti; vedendo il bargello, lo maledisse in cuor suo, perché<br />
veniva a ficcare il naso proprio nel suo esercizio e in una giornata <strong>com</strong>e quella.<br />
Dando poi un’occhiata a Renzo, pensò che, venendo con un tal cacciatore, doveva<br />
essere o cane o lepre, cioè o <strong>com</strong>pagno o vittima: lo avrebbe saputo subito, ed era<br />
un po’ curioso di saperlo.<br />
Renzo si sedette di fronte alla sua guida, e ordinò innanzi tutto un fiasco di<br />
vino; tanta era l’arsura della sua gola, che in poco tempo ne tracannò parecchi<br />
bicchieri, quasi senza accorgersene, mescendo anche allo sconosciuto, che però<br />
bevve appena, per tenersi ben in sé. Quando poi l’oste, servendogli un piatto di<br />
stufato, disse che pane non ce n’era quel giorno, il giovane si ricordò della<br />
pagnotta che ancora aveva in tasca e, mostrandola agli avventori, esclamò che al<br />
pane ci aveva pensato la provvidenza. Un coro di applausi e di risa salutò le parole<br />
di Renzo, il quale volle precisare che aveva trovato quella pagnotta per terra, ma<br />
naturalmente nessuno ci credette, essendo tutti più che convinti che egli l’avesse<br />
sgraffignata in qualche forno.<br />
L’ac<strong>com</strong>pagnatore poi disse all’oste di preparare un buon letto al suo amico,<br />
che doveva alloggiare lì; allora il locandiere, secondo che prescriveva la legge,<br />
andò subito al suo banco a prendere carta, penna e calamaio; quindi, fattosi<br />
davanti a Renzo, gli chiese di dirgli nome, cognome e paese di origine. Il giovane,<br />
ormai alticcio, cascò dalle nuvole, e chiese il motivo per cui doveva dire chi era;<br />
saputo che lo prescriveva una grida (che l’oste volle mostrargli e leggere, nei passi<br />
salienti), disse che se le gride che parlano bene, cioè a favore del popolo, non sono<br />
osservate, tanto meno debbono valere quelle che parlano male, costituendo <strong>com</strong>e<br />
delle trappole per la povera gente. Egli aveva le sue buone ragioni per non rivelare<br />
le sue generalità: “se un furfantone – aggiunse – volesse saper dov’io sono, per<br />
farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi.”<br />
La faccia a cui alludeva era quella del “re moro incatenato per la gola” che<br />
campeggiava nello stemma del governatore don Gonzalo, stampato in testa al<br />
decreto. Ormai incapace di controllare le sue parole, Renzo si <strong>com</strong>promette<br />
sempre più, esclamando tra applausi e risate: “Vuol dire quella faccia: <strong>com</strong>anda<br />
chi può, e ubbidisce chi vuole.” Il bargello non rideva, ma neppure contraddiceva:<br />
mentalmente prendeva nota di tutto.<br />
L’oste insisteva per avere il nome del forestiero, ma questi non se la dava per<br />
inteso, anzi alzava sempre più la voce per farsi ragione, vedendo che i presenti lo<br />
sostenevano rumorosamente; per cui l’ac<strong>com</strong>pagnatore di Renzo disse all’oste di<br />
non insistere ormai. Questi, che si mostrava così zelante solo perché era presente<br />
il birro, desistette ben volentieri: ora si sentiva con le spalle protette, e nessuno<br />
avrebbe potuto accusarlo di non aver rispettato la grida. Se ne tornò quindi<br />
placidamente sotto la gran cappa del camino, pensando che la lepre (cioè Renzo)<br />
era capitato proprio in brutte mani, ma che lui non voleva andarci di mezzo:<br />
peggio per lui!<br />
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Il nostro giovane, vedendo l’oste ritirarsi, assaporò la vittoria e, nel suo stato<br />
euforico, non la finiva di predicare, polarizzando l’attenzione generale. Ora ce<br />
l’aveva contro la penna, che i governanti vogliono si adoperi a ogni piè sospinto,<br />
per rendere tutto più difficile ai poveri analfabeti. Uno dei presenti disse<br />
facetamente che la ragione era semplicissima: quei signori mangiavano tante<br />
oche, che qualcosa dovevano pur fare delle loro penne. Renzo sorrise alla battuta<br />
spiritosa, ma rispose che la ragione vera era un’altra: la penna la tengono loro,<br />
perché solo loro sanno scrivere; sicché le parole che essi dicono, <strong>com</strong>e per<br />
esempio le promesse, volano via senza che alcuno le possa fissare sulla carta,<br />
mentre le parole che dice un povero diavolo, te le infilzano per aria con la penna e<br />
le inchiodano sulla carta, per servirsene poi contro di lui. Quindi il giovane,<br />
continuando tutto infervorato la sua requisitoria contro i vizi della classe<br />
dominante, se la prese contro l’altra maledetta abitudine di servirsi del<br />
“latinorum” per imbrogliare meglio la gente ignorante, e si mostrò dolente che<br />
avesse un po’ questa brutta abitudine anche il gran Cancelliere, che per il resto era<br />
certamente una brava persona. E’ evidente che Renzo aveva confuso lo spagnolo<br />
di Ferrèr col latino di don Abbondio; ma tant’è, per lui ogni linguaggio diverso<br />
dal volgare era “latinorum”, vale a dire una cosa in<strong>com</strong>prensibile, una trappola<br />
insomma, per cui ne doveva essere abolito l’uso.<br />
Già l’ora era tarda e Renzo ormai brillo, per cui il bargello non disperava di<br />
aver ragione della sua istintiva ritrosia al nome e cognome. E per vincerla,<br />
dobbiamo riconoscerlo, ne pensò una davvero magistrale: ritornando sul tema del<br />
pane, disse che, se <strong>com</strong>andasse lui, metterebbe in atto un sistema rigoroso, per cui<br />
ognuno avesse la stessa quantità di pane, ricco o povero che egli fosse. Innanzi<br />
tutto si doveva imporre un prezzo onesto, da poterci campare da una parte e<br />
dall’altra, e poi dare a ogni famiglia una tessera annonaria: il tal dei tali, con<br />
moglie e tanti figli, abbia pane tanto e paghi tanto. E per rendere la proposta più<br />
chiara, venne al pratico:<br />
“A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio<br />
Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figlioli… A voi, per<br />
esempio, dovrebbero fare un biglietto per … il vostro nome?” Renzo abbocca<br />
l’amo e spiattella allo sconosciuto il suo nome senza nemmeno accorgersene, tutto<br />
preso dalla novità del progetto, che pure era fondato essenzialmente sulla penna e<br />
sulla carta, oltre che sul nome e cognome e mestiere della gente.<br />
Il sedicente spadaio, ottenuto finalmente il suo scopo, subito si allontana,<br />
senza accettare un secondo bicchiere di vino, che Renzo gli ha riempito, e va<br />
diritto al Palazzo di Giustizia a denunciare, <strong>com</strong>e istigatore di tumulti, Lorenzo<br />
Tramaglino, l’ingenuo merlotto caduto nella sua rete. Il bargello è soddisfatto, e i<br />
suoi superiori sono contenti del suo lavoro.<br />
Mentre il bargello faceva al notaio criminale la sua deposizione contro di lui,<br />
l’ignaro giovane, rimasto nell’osteria, continuava a trincare e a ciarlare: “vino e<br />
parole – dice il Manzoni argutamente – continuarono ad andare, l’uno in giù, e<br />
l’altre in su, senza misura né regola.” Ma, <strong>com</strong>e sempre avviene nell’ubriachezza,<br />
all’euforia loquace successe ben presto la depressione psichica, ac<strong>com</strong>pagnata da<br />
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impaccio nel parlare. Ormai la parlantina era finita: le parole gli uscivano a stento,<br />
e il tono stesso della voce era alterato; le immagini e i pensieri gli si<br />
confondevano, e finire le frasi riusciva per lui oltremodo difficile. Ma per fortuna<br />
gli era rimasta <strong>com</strong>e un’attenzione istintiva a evitare i nomi, sicché anche quelli<br />
che più profondamente erano scolpiti nel suo cuore, cioè quelli cari della fidanzata<br />
e del buon Cappuccino, non furono pronunciati in quella bettola né dati in pasto a<br />
quei beoni sghignazzanti, per quanto essi lo andassero stuzzicando per farlo<br />
parlare dei fatti suoi, ché ormai l’ingenuo montanaro era diventato lo zimbello<br />
della chiassosa brigata. Non pronunciò neppure i nomi discàri di don Rodrigo e di<br />
don Abbondio, per quanto talora alludesse a essi nel suo ormai incontrollato<br />
cicalare.<br />
A proposito dell’ubriacatura di Renzo, il Manzoni fa un’acuta osservazione: il<br />
giovane era sempre stato sobrio nel bere, e la prima volta che alzò il gomito prese<br />
una sbornia solenne, causa di tanti guai, per cui se ne ricordò poi per un pezzo.<br />
Quindi le buone abitudini hanno anche il vantaggio che, quando uno se ne<br />
allontana anche poco, subito ne sente le conseguenze, e l’errore gli serve <strong>com</strong>e<br />
lezione salutare per l’avvenire.<br />
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CAPITOLO XV<br />
L’oste della “luna piena” (il quale, con tutti i suoi difetti, appare nel<br />
<strong>com</strong>plesso più galantuomo dell’oste del villaggio degli sposi), vedendo che i tristi<br />
camerati non la smettevano di prendersi gioco del forestiero, né questi di<br />
tracannare bicchieri e di parlare sempre più sconnessamente, decise di far cessare<br />
quella storia ormai disgustosa e anche pericolosa per lui, perché da un momento<br />
all’altro poteva verificarsi qualche disordine oppure l’intervento della forza<br />
pubblica. Avvicinatosi perciò a Renzo, dopo aver invitato gli altri a lasciarlo in<br />
pace, lo pregò di andare a letto. Il giovane sulle prime sembrava che non capisse,<br />
ma poi, tornatogli un attimo di lucidità, si accorse che ormai la testa non gli<br />
funzionava più, e si sentiva stracco morto, per cui era una buona idea farsi una<br />
lunga dormita per rimettersi in sesto. Fino a quel momento, sentendosi una certa<br />
languidezza di corpo e di mente, aveva cercato di rimettersi in sesto ricorrendo al<br />
vino, per un errore molto <strong>com</strong>une in simili casi; ma ora capisce che il bicchiere<br />
non gli può dare nessun aiuto, e sente forte il richiamo del letto. A un tratto volle<br />
alzarsi, ma vacillò, e sarebbe caduto senza l’intervento dell’oste, che poi lo<br />
ac<strong>com</strong>pagnò al piano di sopra, dov’era la camera a lui destinata.<br />
Vedendo il letto, Renzo si rallegrò, assaporando la bella dormita, tanto più che<br />
la notte precedente l’aveva passata sul disagiato carretto, e cercò di fare una<br />
carezza all’oste in ringraziamento per l’ospitalità, ma aggiunse che quel tiro del<br />
nome non era però da galantuomo. L’altro, vedendo con meraviglia che il cliente<br />
connetteva abbastanza, e sapendo per esperienza che gli ubriachi talora cambiano<br />
repentinamente di umore e di opinione, tentò di nuovo di farsi dire il nome, in<br />
tono conciliante: non per la grida, ma per lui, in pegno d’amicizia. Renzo invece<br />
non intendeva farsi un amico a quella condizione e, alteratosi immediatamente,<br />
<strong>com</strong>inciò a sbraitare, gridando verso il basso, per farsi sentire dagli avventori, che<br />
l’oste etra anche lui “della lega”. Questi corse ai ripari trascinando il giovane<br />
verso il letto, dicendo che aveva parlato per scherzo; Renzo, che ormai non si<br />
reggeva più in piedi, si calmò e cadde pesantemente sul letto. L’oste l’aiutò a<br />
spogliarsi e, trovato nel farsetto il borsellino, pensò di concludere almeno<br />
quell’altro affare, strettamente privato ma per lui più interessante, di farsi pagare,<br />
perché il giorno dopo forse non gli sarebbe stato più possibile, una volta che il<br />
forestiero fosse stato arrestato, e il borsellino fosse caduto in mano dei birri. In<br />
quanto al pagare il montanaro non si fece affatto pregare, ritenendola cosa più che<br />
giusta; e l’oste, fatto mentalmente il conto, disse a quanto ammontava, e si pagò<br />
lui stesso, ma onestamente, senza approfittarsi affatto dello stato confusionale del<br />
suo ospite. Mentre questi già russava, il brav’uomo si trattenne alquanto a<br />
contemplarlo, “per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare<br />
un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore”; quindi, sfogando il suo<br />
malumore a lungo represso, lo salutò <strong>com</strong>e meritava: “Pezzo d’asino! sei andato<br />
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proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai.” Per sua<br />
fortuna, l’asino non poteva più tirar calci.<br />
Quando uscì, chiuse la porta a chiave, perché l’ospite non avesse a scappare,<br />
ora che ne era lui, volente o nolente, il custode; chiamata quindi sul pianerottolo la<br />
moglie, le disse di prendere il suo posto, poiché lui doveva purtroppo andare a<br />
fare la denuncia di quel benedetto forestiero. Le rac<strong>com</strong>andò la prudenza, cioè di<br />
far finta di non sentire le frasi sediziose oppure offensive che si dicevano contro i<br />
governanti, per non avere grattacapi né subito né in seguito. La donna rispose che<br />
non era una bambina, e certe cose le capiva benissimo anche da sé. Il marito prese<br />
mantello e cappello, si armò di un poderoso bastone, e si avviò sollecito verso il<br />
Palazzo di Giustizia. Le strade non erano ancora deserte, <strong>com</strong>e gli altri giorni alla<br />
stessa ora, ma sparse di capannelli di gente che parlottava; più in là, incontrando<br />
una pattuglia di soldati, tornò col pensiero al forestiero, che nientemeno si era<br />
messo in testa di cambiare il mondo con quattro grida, eliminando le ingiustizie in<br />
un batter d’occhio, per via di tumulto; ma il Governo aveva la forza, e avrebbe<br />
fatto presto ritornare in senno quei quattro scalmanati.<br />
Si può dire che durante tutto il percorso l’oste apostrofò mentalmente “quel<br />
testardo di un montanaro”, che si era voluto rovinare per forza, tentando di<br />
<strong>com</strong>promettere anche lui, che non c’entrava minimamente e badava solo ai fatti<br />
suoi. Però anche in questa muta rampogna si può notare una certa naturale onestà<br />
dell’oste, un senso di <strong>com</strong>patimento verso il forestiero, che ritiene in sostanza un<br />
illuso in buona fede, più vittima delle circostanze che reo degno di pena. Dice<br />
infatti tra sé che, se non fosse venuto con quella spia, lui avrebbe chiuso un occhio<br />
per quella sera, e l’indomani, a mente serena, gli avrebbe fatto intendere la<br />
ragione del nome e cognome; ma essendoci di mezzo colui, doveva per forza<br />
denunciarlo, se non voleva passar guai.<br />
Anche nel presentare la denuncia l’oste è galantuomo, e diciamo anche abile e<br />
destro, e tanto sicuro di sé, da ribattere francamente le esagerazioni e insinuazioni<br />
del notaio criminale (una specie di ufficiale di polizia giudiziaria), al quale fa la<br />
sua deposizione. Dice semplicemente che nel suo esercizio si è presentato un<br />
forestiero che, dovendo alloggiare, e avendogli lui perciò chiesto le generalità,<br />
non ha voluto declinarle, nonostante la sua insistenza. Il notaio rispose che già lo<br />
sapeva, e conosceva anche il nome di quel sedizioso (qui l’oste non poté non<br />
esprimere la sua meraviglia); ma aggiunse subito in atteggiamento severo che la<br />
denuncia era reticente; infatti quel tizio aveva portato all’osteria una quantità di<br />
pane rubato, aveva proferito ingiurie contro le gride e perfino offese contro lo<br />
stemma del Governatore. L’oste però si difende bene e anche con puntiglio:<br />
innanzi tutto precisa che colui aveva portato una sola pagnotta, che nessuno<br />
poteva affermare con certezza che fosse stata rubata; quanto poi alle sue parole,<br />
<strong>com</strong>e poteva lui averle udite, in mezzo al baccano, dovendo pensare a servire<br />
tanta gente? Lui badava a fare l’oste, e doveva cercare soprattutto che ognuno<br />
pagasse: al resto non s’interessava. L’ordine pubblico era <strong>com</strong>petenza del<br />
Governo: lui aveva cercato di fare il suo dovere.<br />
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In definitiva questo locandiere, con la sua faccia lucida e pienotta, con i suoi<br />
occhietti chiari e scrutatori, ci riesce quasi simpatico, appunto perché tien testa<br />
bravamente al notaio criminale, e cerca di essere giusto nei riguardi del forestiero,<br />
che pur gli ha dato tanto fastidio; uno meno onesto si sarebbe sfogato aggravando<br />
le accuse, anche per farsi bello davanti al funzionario di polizia: lui invece dice la<br />
pura verità, cercando di non <strong>com</strong>promettere lo sconosciuto, verso il quale sente<br />
una certa indulgenza, appunto perché lo sa vittima più che reo.<br />
Allo spuntar del giorno successivo, 12 novembre 1628, il notaio criminale che<br />
aveva ricevuto la denuncia, assieme a due birri, andò all’osteria per arrestare<br />
Renzo e tradurlo alle carceri. Il giovane dormiva della grossa, e chissà quando si<br />
sarebbe svegliato, se i birri non lo avessero scosso sgarbatamente. Aperti a stento<br />
gli occhi, vide quelle tre figure, e credette di sognare; e sic<strong>com</strong>e quel sogno non<br />
gli piaceva affatto, cercò di svegliarsi del tutto e di guardar meglio, con gli occhi<br />
così tra i peli. Allora sentì l’uomo in cappa nera che diceva: “Ah! avete sentito<br />
una volta, Lorenzo Tramaglino?”<br />
Renzo cadde dalle nuvole: che cosa era successo? che volevano quelli da lui?<br />
<strong>com</strong>e mai sapevano il suo nome, che egli aveva tanto gelosamente taciuto a tutti?<br />
Alle sue meravigliate domande quelli risposero bruscamente che si vestisse subito<br />
subito e li seguisse senza tante ciarle. La ragione dell’arresto? la sentirà dal Signor<br />
Capitano di Giustizia. Ma Renzo non aveva alcuna voglia di andare con loro, e<br />
cercava di guadagnar tempo, per valutare bene la situazione in cui si trovava. Capì<br />
a un dipresso che il non aver voluto dire il suo nome, <strong>com</strong>e prescriveva la grida,<br />
era la causa di tutto, ma non si capacitava <strong>com</strong>e mai la Giustizia, dalla sera alla<br />
mattina, avesse talmente cambiato registro, da venire a colpo sicuro ad arrestare<br />
uno di quelli che il giorno prima aveva avuto più voce in capitolo; <strong>com</strong>e poi<br />
avessero fatto a sapere il suo nome, era per Renzo un vero mistero.<br />
I birri, stanchi di pazientare, gli misero le mani addosso, ma il giovane protestò<br />
che si sapeva vestire da solo; e infatti <strong>com</strong>inciò a ripescare sul letto i suoi<br />
indumenti, che erano “<strong>com</strong>e gli avanzi d’un naufragio sul lido”. Ma osservando<br />
che dalle tasche del farsetto erano spariti il borsellino e la lettera di Padre<br />
Cristoforo, pretese ad alta voce di riavere la roba sua, e il notaio, non volendo<br />
irritarlo, lo accontentò, aggiungendo di aver fiducia in lui e di voler fare per lui<br />
questa eccezione. Ma Renzo, ormai stizzito, borbottò sottovoce: “bazzicate tanto<br />
coi ladri, che avete un poco imparato il mestiere.” I birri, trattenuti da un cenno<br />
del notaio, dovettero ingoiare l’insulto. Se il giovane si mostrava così strafottente,<br />
era perché aveva già capito che i rappresentanti della Giustizia non erano troppo<br />
sicuri del fatto loro, perché in strada la situazione non era propriamente calma. E<br />
infatti non gli sfuggì che il notaio era tutto attento ai rumori esterni, e a un certo<br />
punto non poté tenersi dall’aprire l’impannata, essendo giunto dalla via un<br />
frastuono minaccioso: era un crocchio che, all’intimazione di sciogliersi, lo faceva<br />
a stento e mugugnando in tono di protesta; ma quello che al notaio parve molto<br />
preoccupante era che i soldati si mostravano cortesi.<br />
A Renzo non sfuggiva nulla, e già nella sua mente si delineava il proposito di<br />
liberarsi di coloro. Per quanto il notaio volesse atteggiarsi ad amico, e gli<br />
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assicurasse che l’arresto era una semplice formalità, per cui avrebbe dovuto<br />
rispondere a poche domande prima di essere libero di andarsene per i fatti propri,<br />
egli <strong>com</strong>prendeva che quelle erano chiacchiere per tenerlo buono, ma che le cose<br />
non si mettevano bene per lui, una volta nelle grinfie della polizia: ne sapeva<br />
abbastanza della giustizia del suo paese, la quale risparmiava i veri delinquenti e<br />
si accaniva contro i poveri ingenui. Perciò non credette a nessuna di quelle parole<br />
untuose del notaio, che gli consigliava, per suo bene, di essere prudente e<br />
riservato, di non dar nell’occhio per la strada, anzi di non farsi neppure scorgere,<br />
così nessuno gli baderebbe e non si saprebbe nemmeno che era stato nelle mani<br />
della polizia: la sua reputazione era in tal modo salva!<br />
Quando, all’uscita dall’osteria, i birri gli misero i manichini (una specie di<br />
manette di corda cosparsa di nodi, così chiamati “per quell’ipocrita figura<br />
d’eufemismo”), il nostro giovane cercò di divincolarsi, protestando a voce alta;<br />
ma poi si calmò, o meglio finse di calmarsi, alle parole concilianti del notaio, il<br />
quale disse che i birri facevano il loro dovere, che anche quella era una formalità<br />
indispensabile: loro purtroppo non potevano trattare la gente <strong>com</strong>e dettava il<br />
cuore, ché altrimenti ne porterebbero per primi la pena! Renzo s’acquetò <strong>com</strong>e un<br />
cavallo indocile cui sia stata messa la mordacchia, ma naturalmente era pronto a<br />
sparar calci alla prima occasione favorevole; la quale non si fece attendere. Gente<br />
ne passava per la strada, a due, a tre, in gruppo; altri erano fermi in crocchio, e si<br />
vedeva che non erano pacifici cittadini che se ne stessero per i fatti loro, ma<br />
persone intenzionate a ri<strong>com</strong>inciare la storia del giorno prima; ciò accresceva la<br />
preoccupazione del notaio, il quale si pentiva di non aver lasciato il prigioniero<br />
nella locanda, in custodia dei birri, per andare a prendere nuove istruzioni o<br />
almeno dei rinforzi. Questo pensiero gli era venuto, perché non era uno sciocco,<br />
ma poi aveva temuto di apparire pauroso e buon a nulla, per cui aveva deciso di<br />
portar via l’arrestato, anche rischiando un po’, ma sperando che la cosa si<br />
risolverebbe senza gravi inconvenienti. Ora però vedeva che le cose si mettevano<br />
male per lui, e affinché la situazione non precipitasse, andava sussurrando<br />
all’orecchio di Renzo che stesse calmo, che non si facesse notare, per non<br />
rovinare il suo onore, ché tra un’ora sarebbe libero, tanto più che lui stesso<br />
avrebbe parlato in sua difesa. Da questo <strong>com</strong>portamento sballato del notaio, dice il<br />
Manzoni, nessuno concluda che fosse uno sciocco; era anzi un furbo matricolato,<br />
ma tant’è, anche i furbi, quando hanno perso la calma, ne <strong>com</strong>mettono delle<br />
grosse, di cui a sangue freddo riderebbero volentieri essi stessi. Per cui,<br />
conclude argutamente l’Autore, cercate di non perdere mai le staffe o, meglio,<br />
cercate di essere sempre voi i più forti; ammonizione rivolta ai furbi,<br />
naturalmente.<br />
Quando Renzo vide tre che venivano verso di lui con i visi alterati, <strong>com</strong>inciò a<br />
contorcersi, a sporgersi avanti e indietro, tossicchiando, per farsi notare. Quelli si<br />
fermano, per vedere di che si tratta, e con loro altri e poi altri; il notaio consiglia,<br />
prega il prigioniero di badare a sé, di non rovinare la sua reputazione; i birri,<br />
pensando che fosse meglio usare la maniera forte, danno una stretta ai manichini,<br />
girando i due legnetti terminali che tenevano stretti nella mano. Renzo grida, cerca<br />
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di divincolarsi; la gente si accalca intorno minacciosa e blocca la pattuglia. Il<br />
notaio getta la maschera dell’ipocrisia, e cerca di convincere i presenti a non<br />
ostacolare il corso della giustizia: “E’ un malvivente, è un ladro colto sul fatto!”<br />
Ma Renzo non si lascia certamente sfuggire l’occasione propizia, e subito grida a<br />
sua volta: “Figlioli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e<br />
giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate,<br />
figlioli!”<br />
L’aiuto non si fa attendere: <strong>com</strong>incia all’intorno, col pigia pigia, un gridare<br />
minaccioso, un urtare violento; i birri, per non essere travolti, lasciano i manichini<br />
e cercano di guadagnare il largo. Anche il notaio cerca di fare lo stesso, ma per lui<br />
la cosa riesce più difficile per colpa della cappa nera, che lo impaccia e lo rende<br />
riconoscibile. Cercava tuttavia di assumere un atteggiamento indifferente, <strong>com</strong>e di<br />
chi si fosse trovato lì per puro caso; e incontrando lo sguardo di uno che lo<br />
squadrava minacciosamente, con un tono innocente gli chiese: “Cos’è stato?” “Uh<br />
corvaccio!” fu la risposta di colui, che l’aveva ben riconosciuto; e a urtoni gli altri<br />
spintonandolo lo cacciarono via proprio <strong>com</strong>e un brutto corvo della malora; ma a<br />
lui quegli urtoni violenti parvero soavi, perché anche per mezzo di essi poté<br />
uscire a salvamento: buon per lui!<br />
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CAPITOLO XVI<br />
Renzo, liberatosi dei manichini, se la diede a gambe tra la folla che gli faceva<br />
largo; alcuni gl’indicarono, lì vicino, un convento e una chiesa, dove avrebbe<br />
potuto rifugiarsi; ma il giovane, sin dal primo momento che aveva pensato alla<br />
possibilità di una fuga, aveva deciso di raggiungere il Bergamasco: in una chiesa o<br />
in un convento non ci si sarebbe cacciato se non quando avesse avuto i birri<br />
proprio alle calcagna. Perciò si allontanò di gran carriera da quel luogo in una<br />
direzione qualsiasi, con l’intenzione di farsi insegnar la strada in seguito, laddove<br />
lo potesse fare senza destar sospetto.<br />
Quando, dopo una lunga galoppata, ritenne di essere giunto in un punto dove<br />
era sicuro che nessuno lo conosceva, né poteva essere giunta la notizia della sua<br />
fuga, rallentò il passo sino ad assumere un’andatura normale. Ma, per chiedere la<br />
strada di Bergamo, doveva trovare una persona che gli ispirasse fiducia, che non<br />
fosse né un cicalone curioso, né un sospettoso, né un malevolo che potesse<br />
tendergli qualche trappola; per questo, <strong>com</strong>e dice il Manzoni, “dovette fare forse<br />
dieci giudizi fisionomici, prima di trovare la figura che gli paresse a proposito.”<br />
Allorché vide uno che veniva frettoloso, parlando tra sé, lo giudicò un uomo<br />
sincero, che non avrebbe né ingannato né fatto perder tempo, e quindi con buona<br />
grazia gli chiese da quale parte dovesse prendere per andare a Bergamo. Colui gli<br />
indicò la strada da percorrere, con pronta gentilezza; e Renzo, ringraziatolo con<br />
semplici ma sentite parole, si avviò per la direzione mostratagli; giunse in breve<br />
in piazza del Duomo, rifece il cammino del giorno precedente e si avvicinò a<br />
porta Orientale. Ma avendo sulla soglia di questa intravisto dei soldati, fu preso da<br />
paura, e fu lì lì per entrare nel convento dei Cappuccini, che aveva davanti, dove<br />
sarebbe stato certamente ben accolto per via di quella lettera al padre<br />
Bonaventura; ma vinse la paura e la tentazione, pensando che i due birri non lo<br />
avevano potuto precedere, per appostarsi a quella porta, e degli altri nessuno lo<br />
conosceva né sapeva certamente che cosa aveva fatto. Fattosi perciò coraggio, e<br />
fischiettando in sordina per darsi un’aria indifferente, passò attraverso la porta col<br />
viso impavido ma col cuore che gli batteva, <strong>com</strong>e si dice, in gola.<br />
Per sua fortuna i gabellieri e i soldati non si preoccupavano di chi usciva,<br />
mentre avevano ordine di non far entrare gente che venisse per approfittare del<br />
tumulto; quindi nessuno badò a Renzo il quale però, appena uscito, lasciò la strada<br />
maestra e prese una viottola a destra, per far perdere le sue tracce agli eventuali<br />
inseguitori. Allorché fu sicuro di non essere inseguito, poté pensare un po’ meglio<br />
ai casi suoi; e riflettendo al fatto del nome, si ricordò a un dipresso <strong>com</strong>e il finto<br />
spadaio, così gentile e manieroso, gliel’aveva carpito con quel suo bel ritrovato<br />
della carta annonaria; ma ormai al passato non c’era rimedio e bisognava pensare<br />
al futuro, e innanzi tutto a trovare quella benedetta strada per Bergamo.<br />
Necessariamente doveva rivolgersi a qualche passante; anche questa volta scrutò<br />
bene i volti di quelli che incontrava, e quando trovò uno che gli dava affidamento,<br />
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gli rivolse senz’altro la sua domanda. Quegli, avvertitolo che era <strong>com</strong>pletamente<br />
fuori strada, gli indicò <strong>com</strong>e dovesse fare per raggiungere la via maestra; ma<br />
Renzo, non volendo percorrerla per paura di brutti incontri, si propose di<br />
fiancheggiarla senza perderla di vista. Sic<strong>com</strong>e però la cosa non gli riusciva, e non<br />
si sentiva di star continuamente a domandare la strada di Bergamo, perché poteva<br />
destar sospetto (chi è in difetto è in sospetto), pensò di conoscere con qualche<br />
astuzia il nome di un paese del ducato di Milano, ma posto sul confine, del quale<br />
potesse chiedere liberamente e dove si potesse andare anche per vie secondarie: da<br />
esso sarebbe poi passato nel territorio di Bergamo.<br />
Si era ormai verso mezzogiorno, e l’appetito gli si faceva sentire, per cui,<br />
avendo visto “pendere una frasca da una casuccia solitaria” (la frasca era nelle<br />
campagne e nei villaggi insegna d’osteria), pensò che lì avrebbe potuto rifocillarsi<br />
e anche scoprire il nome di quel paese che gli interessava. L’ostessa, una vecchia<br />
curiosa <strong>com</strong>e le sue pari, gli poté offrire solo pane e formaggio, avendo Renzo<br />
rifiutato il vino, col quale ancora ce l’aveva, per il brutto tiro che gli aveva giocato<br />
il giorno prima; ma appena il cliente si fu seduto a tavola, <strong>com</strong>inciò subito a<br />
tempestarlo di domande sui gran fatti di Milano, di cui era giunta fin là la notizia.<br />
Il nostro giovane non solo seppe eluderle destramente, ma si servì anche della<br />
curiosità della donna per raggiungere il suo intento. Avendogli infatti colei<br />
domandato dove fosse diretto, rispose che doveva andare in parecchi posti e, se gli<br />
restava un po’ di tempo, anche in “quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di<br />
Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano…” e s’interruppe fingendo<br />
di non ricordarne il nome; e la vecchia, prontamente intervenendo, suggerì:<br />
“Gorgonzola, volete dire.” Lo stratagemma era pienamente riuscito.<br />
Renzo ripeté il nome, <strong>com</strong>e se gli tornasse in mente proprio in quel momento,<br />
ma in effetti per imprimerselo bene nella memoria; ottenuto ormai il suo scopo ed<br />
essendosi rimesso un po’ in forze con quel magro pasto, ripartì senza indugio col<br />
morale risollevato, dopo essersi fatta insegnare la strada verso questa<br />
provvidenziale Gorgonzola, distante da lì, a detta dell’ostessa, una decina di<br />
miglia. Vi arrivò finalmente un’ora prima del tramonto. Aveva deciso di fare qui<br />
un pasto più sostanzioso, per rimettersi subito in cammino verso l’Adda, la quale<br />
sapeva che, per un certo tratto, faceva da confine tra il ducato di Milano e la<br />
Serenissima, da cui dipendeva appunto Bergamo; non sapeva però dove fosse<br />
questo tratto; <strong>com</strong>unque, confine o no, avrebbe dovuto attraversare quel fiume, e<br />
per lui non sarebbe stata impresa facile. Pensò che qualche notizia utile al<br />
riguardo avrebbe potuto attingerla, con un po’ d’astuzia, all’osteria dove si<br />
sarebbe fermato a mangiare un boccone. Dopo il recente successo con la vecchia,<br />
gli era molto cresciuta la fiducia nella sua destrezza: non gli mancavano<br />
intelligenza e tatto.<br />
Vista un’insegna d’osteria, entrò e all’oste, presentatosi a servirlo, chiese da<br />
mangiare e anche una mezzetta di vino, ché ormai il lungo cammino aveva<br />
cancellato il rancore che aveva concepito contro il dono di Bacco. Alcuni<br />
sfaccendati del paese, che stavano lì in attesa di notizie fresche da Milano,<br />
attorniarono subito il viaggiatore, e uno gli chiese se veniva da Milano. Il giovane,<br />
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sorpreso, cercò di eludere la domanda per lui fastidiosa e <strong>com</strong>promettente:<br />
“Milano, da quel che ho sentito dire… non dev’essere un luogo da andarci in<br />
questi momenti…”<br />
Quindi, avendo ormai pensato la sua risposta, disse che non aveva notizie sui<br />
tumulti, perché lui veniva da Liscate (il nome di questo paese lo aveva saputo<br />
mentre lo attraversava); il curioso, deluso, desistette da ulteriori domande, e<br />
Renzo trasse un respiro di sollievo.<br />
Essendo l’oste tornato per portargli le vivande, il giovane gli chiese, con aria<br />
affettatamente indifferente, quanta strada ci fosse per giungere all’Adda. L’uomo,<br />
che doveva essere un curioso incorreggibile, innanzi tutto volle sapere se dovesse<br />
passarla; quindi, alla risposta affermativa del forestiero, chiese ancora se volesse<br />
passare dal ponte di Cassano o sulla chiatta di Canonica, “i luoghi dove passano i<br />
galantuomini, la gente che può dar conto di sé.” Davanti a siffatta domanda,<br />
ac<strong>com</strong>pagnata da tal <strong>com</strong>mento, Renzo <strong>com</strong>inciò a sentirsi a disagio, e rispose<br />
non senza imbarazzo: “Dove si sia… Domando così per curiosità.” Avendo quegli<br />
risposto che, sia per l’uno che per l’altro luogo, c’erano circa sei miglia, Renzo,<br />
fingendo di meravigliarsi della distanza, domandò se ci fossero delle scorciatoie<br />
verso qualche altro punto del fiume, dove fosse possibile traghettare. L’oste<br />
rispose che ce n’erano senz’altro, ma contemporaneamente gli ficcò “in viso due<br />
occhi pieni d’una curiosità maliziosa”, per cui il giovane non insistette nelle<br />
domande e pensò solo a mangiare in fretta per riprendere il suo cammino.<br />
Intanto gli sfaccendati che erano nel locale avevano ripreso a parlottare tra<br />
loro, rammaricandosi di essere all’oscuro di quanto avveniva nella capitale, e<br />
concertando alcuni di recarvisi l’indomani, per chiarirsi dei fatti di cui era là<br />
giunta solo una vaga notizia, che aveva acuita più che soddisfatta la loro curiosità.<br />
Mentre prendono questi accordi, sentono uno scalpitìo di zoccoli, e corrono<br />
sull’uscio a vedere: era un mercante milanese che, recandosi spesso a Bergamo<br />
per i suoi affari, era solito pernottare in quella locanda; ai curiosi in attesa balenò<br />
subito la speranza di veder soddisfatta la loro sete di notizie. Il mercante smontò<br />
e, barattati i saluti con quegli sfaccendati che ormai conosceva per la lunga<br />
consuetudine, chiese all’oste, accorso anche lui sollecito, il suo solito boccone e la<br />
sua solita camera, se era libera. Appena si fu seduto, i presenti gli si strinsero<br />
intorno, tempestandolo di domande sugli avvenimenti di Milano, che egli aveva<br />
lasciato solo da poche ore.<br />
Il mercante rispose molto volentieri, poiché anche a lui piaceva parlare e<br />
mostrarsi informato, <strong>com</strong>e piace in generale a tutti, eccetto che abbiano delle<br />
buone ragioni per tacere, e il nostro Renzo era appunto uno di questi. Raccontò<br />
dunque i fatti della mattinata, stante che i suoi ascoltatori conoscevano già –<br />
grosso modo – quelli del giorno precedente. Ordunque di prima mattina – disse in<br />
sostanza il mercante mentre consumava lentamente la sua cena – quei facinorosi<br />
che non erano ancora contenti delle prodezze del giorno prima, <strong>com</strong>inciarono a<br />
riunirsi nei luoghi convenuti e, quando furono in buon numero, si diressero alla<br />
casa del vicario di provvisione, con la ferma intenzione di saccheggiarla. Ma i<br />
vogliosi trovarono la strada chiusa da una barricata, dietro la quale erano allineati<br />
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i micheletti con gli archibugi spianati, pronti a riceverli degnamente con una salva<br />
in loro onore. Peccato! non si aspettavano tanto onore, e dovettero tornare<br />
indietro; ma erano inviperiti e si sentivano prudere le mani, per cui si riversarono<br />
nel Cordusio e diedero il sacco a quel forno sul quale non avevano potuto metter<br />
le mani il giorno precedente. Il povero forno era in quel momento aperto, e vi si<br />
distribuiva regolarmente il pane agli avventori sotto la vigilanza di alcuni nobili, a<br />
ciò deputati dalle autorità. In un battibaleno tutto va a ruffa raffa; quindi<br />
<strong>com</strong>inciano, al solito, a portar fuori lo stiglio, per farne un bel falò in piazza del<br />
Duomo, allorché “uno più manigoldo degli altri” propone di far di tutto un bel<br />
mucchio nel forno stesso, e di appiccare così il fuoco a tutta la casa. Detto fatto; il<br />
truce proposito sta per essere attuato, quando uno che abita dirimpetto ha<br />
un’ispirazione dal cielo: prende un crocifisso e lo appende all’archetto di una<br />
finestra, quindi accende sul davanzale due candele benedette. A Milano, per<br />
grazia del Cielo, c’è ancora del timor di Dio: molti guardano in su, a Cristo in<br />
croce, e si sentono toccati nel cuore, mentre la voce della coscienza li rimorde e<br />
per i passati trascorsi e per quanto stanno per fare. Mentre sono così indecisi, ecco<br />
giungere tutti i canonici del Duomo, in paramenti solenni, processionalmente<br />
dietro la croce, portata da uno di loro, e si mettono a predicare chi in una parte, chi<br />
in un’altra: ma, figlioli, che state facendo? dov’è il santo timor di Dio? questo è<br />
l’esempio che date ai vostri figli? Tornate a casa, ché il pane è stato fissato a un<br />
prezzo più basso di prima; l’avviso è affisso a tutte le cantonate!... Ed era vero:<br />
con un soldo si ha una pagnotta di otto once! Una vera cuccagna: speriamo che<br />
duri!<br />
Però non ho detto tutto – continua infervorato il loquace mercante – ora viene<br />
il bello. Sapete? é una cabala tutta ben preparata dalla Francia per danneggiare la<br />
Spagna, perché i Navarrini (così allora erano chiamati spregiativamente i<br />
Francesi) sanno che qui a Milano è la forza del nostro re don Filippo IV. Quelli<br />
che hanno istigato la gente, sono forestieri; a proposito, la polizia ne ha arrestato<br />
uno in una locanda, (Renzo che ascolta col fiato sospeso ha <strong>com</strong>e un tuffo al<br />
cuore, e per poco non si tradisce), un diavolo il quale andava predicando<br />
d’ammazzare tutti i signori, che aveva con sé un fascio di lettere, in cui era<br />
descritto tutto il piano e si facevano anche i nomi dei <strong>com</strong>plici, per cui si dice che<br />
ci andranno di mezzo molte persone. Però, mentre lo conducevano in prigione,<br />
questo delinquente è stato liberato con la violenza dai suoi <strong>com</strong>plici “che facevano<br />
la ronda intorno all’osteria”. Si sa di certo che i capi della sedizione saranno<br />
impiccati; e ci voleva davvero un esempio per certa gente! Avevano preso la bella<br />
abitudine di entrare nelle botteghe, servirsi di prepotenza e dare busse in<br />
pagamento; non si poteva più andare avanti così! Ora tutti quelli che hanno preso<br />
parte al tumulto si sono tappati in casa, per la paura di essere nel numero di coloro<br />
che dovranno dare spettacolo, appesi alle forche; la città, quando io sono partito,<br />
era deserta e muta, proprio <strong>com</strong>e un convento.<br />
Gli ascoltatori erano rimasti molto impressionati, specialmente dalle ultime<br />
notizie; e mentre prima si rammaricavano di non essere andati a Milano, e alcuni<br />
si proponevano di andarci l’indomani, ora, al sentir mentovare le forche, si<br />
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allegravano di non esserci andati, e quasi se ne vantavano <strong>com</strong>e dimostrazione<br />
della loro saggezza e del loro attaccamento alla famiglia. E Renzo? Al poverino<br />
“quel poco mangiare era andato in tanto veleno”, dice il Manzoni senza<br />
esagerare; quando il mercante aveva accennato a lui, istintivamente aveva dato un<br />
guizzo, <strong>com</strong>e per fuggire; e buon per lui che in quel momento tutti pendevano<br />
dalla bocca del narratore, ché altrimenti sarebbe stato scoperto. In breve riuscì a<br />
controllarsi, ma decise di andarsene subito, non appena il mercante fosse passato<br />
ad altri argomenti. Quando dunque colui <strong>com</strong>inciò a parlar d’altro, egli chiamò<br />
con un cenno l’oste, pagò lo scotto senza tirare sul conto, e di buon passo si<br />
diresse dalla parte opposta a quella da cui era venuto, senza chiedere neppure la<br />
strada. Ciò che aveva udito all’osteria non solo lo aveva turbato, ma anche gli<br />
aveva messo nell’animo, con lo sdegno per le menzogne accumulate contro di lui,<br />
un senso di indefinita paura.<br />
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CAPITOLO XVII<br />
Il Manzoni inizia questo capitolo osservando che spesso basta una sola voglia<br />
insoddisfatta, per tenere in angustia un uomo; figuratevi poi se le voglie sono due,<br />
e per di più opposte, <strong>com</strong>e quelle che agitavano il nostro giovane all’uscita<br />
dall’osteria di Gorgonzola: quella di nascondersi e quella di scappare. Lasciato il<br />
paese all’avemaria, da principio incontrava qualche viandante ma, pieno di<br />
sospetto <strong>com</strong>’era, non si azzardava a chiedere la strada verso l’Adda; in seguito,<br />
quando le tenebre, stendendo un opaco velo su uomini e cose, lo liberarono da<br />
questo timore, non trovò più nessuno a cui poter chiedere, e dovette procedere,<br />
<strong>com</strong>e si dice, a lume di naso. Alla prima viottola che incontrò volle lasciare la<br />
strada maestra, per quanto l’oscurità che s’infittiva sempre più lo mettesse ormai<br />
al riparo da brutti incontri; e mentre camminava frettoloso, ripensava a tutte quelle<br />
belle notizie che il mercante aveva sciorinato nell’osteria, per fare il sapientone, e<br />
si accalorava contro di lui in un muto monologo: <strong>“I</strong>o fare il diavolo! Io<br />
ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io!” E continuava con aperto e<br />
amaro rinfaccio: ”sappiate che, intanto che voi stavate a guardare la vostra<br />
bottega, io mi facevo schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di<br />
provvisione…” Quindi passava a un tono di ironica canzonatura circa il gran<br />
fascio di lettere che sarebbe rimasto in mano della giustizia, con dentro esposta<br />
tutta la cabala; si trattava invece di una sola lettera, scritta da un degno frate a un<br />
suo confratello per aiuto di un povero perseguitato, e la lettera era ancora in suo<br />
possesso. E terminava la sua requisitoria con un monito severo: “imparate a<br />
parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo.”<br />
Ma sfogata alquanto la sua stizza con questo soliloquio, Renzo capì che il suo<br />
nemico ormai non era il mercante, ma la stessa situazione in cui si era cacciato, la<br />
quale appariva talmente intricata, da non potersi sbrogliare senza qualche<br />
fortunato evento. Si trattava di raggiungere l’Adda così tra le tenebre, senza un<br />
indizio, senza una direttrice, quasi a tentoni; e poi, una volta trovato questo<br />
benedetto fiume, si trattava di passarlo; chi gli poteva poi assicurare che il fiume<br />
faceva in quel punto da confine? Qualora non facesse da confine, si sarebbe<br />
presentata una nuova difficoltà nell’attraversamento del confine terrestre, che<br />
certamente sarebbe ben guardato da doganieri e soldati, i quali potevano essere<br />
già avvertiti della sua fuga: ormai era passata un’intera giornata! A tutto questo<br />
s’aggiungeva il freddo, che si faceva sentire sempre più, avendo egli vestiti<br />
leggeri, quelli appunto che aveva indossato per il matrimonio di sorpresa; inoltre<br />
gli davano una sensazione sempre più molesta, e quasi dolorosa, sia il buio, reso<br />
più pauroso dal fioco lume della luna offuscata dalla nuvolaglia, sia la solitudine,<br />
che diveniva di momento in momento più ossessiva, sia infine la stanchezza, che<br />
ormai gli si faceva sentire acutamente dentro le ossa, rotte dal continuo e<br />
affannoso camminare.<br />
91
Avrebbe voluto cercar ricovero in qualche cascina di contadini, ma<br />
avvicinandosi e sentendo i cani latrare furiosamente, non ne aveva più il coraggio,<br />
temendo di essere scambiato per ladro o bandito, e ricever quindi una mala<br />
accoglienza. Continuò dunque il suo cammino sempre più stanco e sempre più di<br />
mala voglia, sperando solo di poter udire, da un momento all’altro, il rumore del<br />
fiume tanto sospirato. “L’Adda ha buona voce – pensava per confortarsi; e,<br />
quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni.” Perciò ogni tanto<br />
si fermava in ascolto.<br />
A un certo punto si accorse che i campi coltivati erano finiti, e s’inoltrò in una<br />
sodaglia ricoperta di erbe alte e, qua e là, di arbusti, il che poteva far pensare a un<br />
fiume vicino. La brughiera più in là diventava macchia e, a poco a poco, bosco.<br />
Qui il buio diventava più fitto, e la fioca luce della luna, filtrando debolmente tra<br />
il denso fogliame, disegnava al suolo delle ombre dai contorni incerti, quasi delle<br />
figure mostruose che eccitavano la sua fantasia. A poco a poco l’uggia, che Renzo<br />
ormai da tempo provava nel proseguire per quel cammino così alla cieca, si mutò<br />
in ribrezzo che, aggiunto al freddo, gli faceva accapponare la pelle e battere i<br />
denti; a un certo punto <strong>com</strong>inciò a sentir paura, e infine fu preso da un terrore<br />
indefinito e irragionevole. Si fermò ansante, con gli occhi sbarrati e i capelli irti: il<br />
panico aveva paralizzato il suo corpo e la sua mente; stava per perdere il controllo<br />
di sé stesso e darsi a fuga precipitosa e incontrollata; “ma atterrito, più che d’ogni<br />
altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli <strong>com</strong>andò che<br />
reggesse.” Ripresosi da quel momento di smarrimento, pensò più serenamente al<br />
da farsi; il meglio gli sembrava tornare indietro e cercare un ricovero tra gli<br />
uomini; ma in quel vasto silenzio, calmatosi alquanto il pulsare impetuoso del<br />
cuore, udì a un tratto uno sciabordìo di acque; tese le orecchie col fiato sospeso:<br />
sì, era la voce amica dell’Adda! Subito si sentì un altro: angoscia, stanchezza,<br />
freddo, tutto era s<strong>com</strong>parso in un momento; e seguendo coll’udito lo sciaquìo del<br />
fiume, in poco tempo ne raggiunse la riva.<br />
Guardò se ci fosse qualche barca, in modo da poter passare subito, ma non ne vide<br />
nessuna; né era il caso di tentare il guado, perché con l’Adda non si scherza;<br />
decise perciò di tornare indietro, per passare il resto della notte al coperto, ché a<br />
passare altre lunghe ore all’addiaccio non avrebbe resistito. Aveva notato,<br />
venendo, una capanna nei campi, quasi al confine della sodaglia: lì avrebbe potuto<br />
evitare, in parte, il rigore della notte. E così fece; ritrovata la capanna, ci entrò e<br />
vide appesa al tetto una specie d’amaca, fatta di ritorte; ma non si curò di salirci,<br />
gli parve abbastanza potersi sdraiare sulla paglia accumulata per terra.<br />
Però, prima di coricarsi, s’inginocchiò per dire le sue orazioni, e chiese<br />
perdono a Dio di non averle dette la sera prima, per cui aveva avuto poi quel bel<br />
risveglio; si disse pentito anche dell’imprudenza e dell’intemperanza che avevano<br />
causato i suoi guai; quindi si distese sulla paglia, cercando di addormentarsi. Ma<br />
non ci riusciva, tante erano le immagini che gli si affollavano nella fantasia, tanti<br />
erano i pensieri che lo assillavano; e poi c’era il freddo, che anche lì dentro si<br />
faceva sentire abbastanza, e gli faceva ogni tanto battere i denti. Per difendersi da<br />
esso, si coprì <strong>com</strong>pletamente di paglia, a guisa di coltre, ma poco gli giovò, e<br />
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imase insonne a rabbrividire nell’oscurità. Le immagini, le figure umane che gli<br />
sfilavano davanti agli occhi della mente, erano tutte brutte o antipatiche, meno tre:<br />
Lucia, Agnese e padre Cristoforo. Ma anche nel contemplare queste, quanta<br />
nostalgia, quanta tristezza! Si ricordò che quella doveva essere la quinta notte<br />
delle sue nozze: ma dove e <strong>com</strong>e si trovava? in che modo avrebbe potuto riunirsi a<br />
Lucia, ora che c’era di mezzo anche la cattura? Cercava però di cacciare tutte le<br />
preoccupazioni, pensando che il Signore è infinitamente misericordioso, e non lo<br />
avrebbe abbandonato. Lo confortava soprattutto la soave immagine della<br />
fidanzata: “Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un<br />
pezzo!”<br />
Disperando ormai di prender sonno, sospirava tremando e battendo i denti il<br />
ritorno della luce, e contava il lento scorrere delle ore per mezzo dei rintocchi di<br />
un orologio (forse quello del campanile di Trezzo), i quali giungevano distinti<br />
sino a lui nell’ampio silenzio della notte. Quando furono le cinque del mattino, si<br />
alzò <strong>com</strong>e aveva deciso; disse in ginocchio una breve ma fervorosa preghiera,<br />
quindi si rialzò pieno di fiducia, si stirò in lungo e in largo, cercando di rianimare<br />
le membra intirizzite, e finalmente riprese il cammino verso l’Adda. Il cielo<br />
prometteva una bella giornata, anche se dei cirri e dei lievi cumuli color viola<br />
variegavano qua e là il vasto azzurro, tingendosi verso oriente di un rosso che in<br />
basso si faceva sempre più acceso: “quel cielo di Lombardia – dice con<br />
<strong>com</strong>piacenza provinciale il Manzoni – così bello quando è bello, così splendido,<br />
così in pace.” Ma il nostro giovane non aveva né tempo né animo, in quel<br />
momento, per contemplare lo spettacolo dell’alba, tutto attento <strong>com</strong>’era a<br />
rintracciare il sentiero, e soprattutto a evitare pericoli e brutti incontri. In poco<br />
tempo rifece il cammino della sera precedente, e giunse sulla riva cosparsa di<br />
macchie. Dall’alto dell’argine vede giù nell’acqua una barchetta, che si muove<br />
lentamente contro corrente. Scende giù sul greto e dà una voce al barcaiolo,<br />
chiedendo che approdi. Colui, dopo essersi assicurato che non c’è all’intorno<br />
nessun occhio indiscreto, si dirige alla volta di Renzo.<br />
L’Autore ci dice che questo pescatore era spesso pregato di tragittare qualche<br />
contrabbandiere o fuoruscito, e lo faceva non tanto per amore del poco e non<br />
sicuro <strong>com</strong>penso, quanto per non farsi dei nemici tra quella gente vendicativa; ma<br />
naturalmente non voleva rischiare di essere visto da birri o spie, e quindi passare<br />
dei guai per la sua condiscendenza. Renzo, che era in trepida attesa della barca,<br />
non appena questa toccò terra, subito ci saltò dentro, e supplicò il barcaiolo di<br />
tragittarlo, dietro <strong>com</strong>penso, all’altra riva. Quegli aveva già intuito l’intenzione<br />
del cliente, e voltò subito la prua verso il largo. Renzo, vedendo nella barca un<br />
remo di riserva, lo afferrò di slancio e lo mise in opera con tanto garbo e perizia,<br />
che il pescatore lo fece fare volentieri, vedendo che era quasi del mestiere. Ora<br />
che il passaggio dell’Adda era questione di minuti, un dubbio offuscava la gioia<br />
del nostro giovane, se cioè il fiume faceva lì da confine o no; chiestone al<br />
barcaiolo, e saputo che la riva a cui stavano per approdare era bergamasca, vale a<br />
dire territorio veneto, non poté trattenere un’esclamazione di gioia: viva san<br />
Marco! Il protettore di Venezia gli appariva <strong>com</strong>e un salvatore.<br />
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Quando la prora toccò la riva veneta, Renzo balzò a terra senza indugio e<br />
<strong>com</strong>pensò il buon pescatore con una berlinga, che per il suo magro borsellino fu<br />
un bel sacrificio, ma egli lo fece volentieri, dato il grande servizio che colui gli<br />
aveva reso. Mentre la barca riprendeva il largo, il giovane s’incamminò verso<br />
Bergamo, già indicatagli dal barcaiolo, la quale appariva <strong>com</strong>e “una macchia<br />
biancastra sul pendio del monte”; ma prima di mettersi in via apostrofò<br />
stizzosamente il territorio che lasciava: “Sta lì, maledetto paese.” La patria lo<br />
perseguitava, e lui la sentiva <strong>com</strong>e nemica; ma pensando a chi lasciava in quel<br />
paese, si rattristò e guardò con un certo struggimento l’acqua che gli scorreva<br />
davanti, pensando che era passata sotto il ponte di Lecco, proprio vicino al suo<br />
paese, che gli era caro nonostante tutto.<br />
Si riscosse quasi subito, cacciò quei pensieri melanconici, e si avviò risoluto;<br />
al primo viandante che incontrò chiese senza esitazione la via per giungere al<br />
paese di Bortolo, che era molto vicino a Bergamo. Bortolo, suo cugino, là<br />
emigrato da molti anni, aveva fatto fortuna, diventando, da semplice filatore di<br />
seta, primo lavorante e factotum del proprietario, che se lo teneva caro per la sua<br />
capacità e onestà. Aveva più volte invitato Renzo a trasferirsi anche lui in quel<br />
paese, assicurandogli un lavoro molto redditizio, ma il nostro non gli aveva mai<br />
dato ascolto, perché non voleva distaccarsi da Lucia, alla quale il suo cuore era<br />
legato anche prima del fidanzamento. Ora invece Renzo arrivava quando meno<br />
Bortolo lo avrebbe voluto, poiché il lavoro era scarso per tutti a causa della<br />
carestia e del conseguente ristagno economico.<br />
Il paese di Bortolo distava dall’Adda poco meno di dieci miglia, e allorché<br />
Renzo ebbe fatto il più del cammino, si sentì un discreto appetito, per cui pensò di<br />
rifocillarsi prima di giungere dal cugino, per non presentarsi così affamato. Contò<br />
gli spiccioli che gli erano rimasti e vide che poteva permettersi un pranzetto<br />
sostanzioso; entrò quindi in un’osteria e consumò un pasto frugale, ma sufficiente<br />
a rimetterlo in forze e di buon umore. Pagato il conto, gli rimase ancora qualcosa,<br />
che uscendo dal locale diede volentieri a una famiglia la quale, ridotta in miseria<br />
dalla carestia, tendeva la mano lì sulla porta. “La refezione e l’opera buona<br />
(giacché siam <strong>com</strong>posti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i<br />
suoi pensieri.“ dice a questo punto il Manzoni, e ben a ragione; se infatti la<br />
Provvidenza si era servita degli ultimi spiccioli di un povero fuoruscito per<br />
sostentare in quel giorno quella famiglia, <strong>com</strong>e avrebbe poi potuto abbandonare<br />
colui del quale si era servito a questo scopo, ispirandogli un sì vivo sentimento di<br />
carità cristiana?<br />
Quando Renzo arriva finalmente al paese del cugino, riconosce subito<br />
l’edificio della filanda, abbastanza caratteristico; entrato, chiede se lavora lì un<br />
certo Bortolo Castagneri, e gli viene indicato dov’è “il signor Bortolo”, facendo<br />
con ciò intuire la carica che quegli ricopre nell’opificio. Dopo un “oh” di<br />
meraviglia e un affettuoso abbraccio, Bortolo trae in disparte il cugino, e si<br />
rammarica con lui che sia venuto senza avvertirlo, in un momento non proprio<br />
adatto per trovare lavoro. Renzo gli espone il motivo della sua improvvisata,<br />
raccontandogli in succinto i fatti che lo avevano costretto a lasciare il paesello<br />
94
assieme a Lucia e Agnese. A sentire quelle dolorose vicende, e anche le<br />
disavventure di Milano, Bortolo, <strong>com</strong>mosso, fece coraggio al cugino, dicendogli<br />
che poteva far sicuro affidamento su lui; e aggiunse con cordiale semplicità: “Dio<br />
m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo ai parenti e agli amici, a<br />
chi ne farò?” Quindi espose al cugino la situazione della zona, dove la carestia e la<br />
crisi economica si facevano bensì sentire, ma non <strong>com</strong>e nel Milanese, poiché le<br />
autorità avevano preso dei provvedimenti opportuni per ovviare al disagio, o<br />
almeno evitare il peggio. Riguardo al lavoro, sebbene esso scarseggiasse molto,<br />
espresse la speranza che il suo padrone, che era di buon cuore, sentendo i guai di<br />
Renzo, lo avrebbe assunto ugualmente, anche per fare un piacere a lui, a cui<br />
riconosceva di dover la prosperità dell’azienda. Però avvertì il cugino che i<br />
lavoratori del Milanese lì erano chiamati “baggiani” (che equivaleva a “babbei”),<br />
e che quindi bisognava essere preparati a sorbirsi quel bel titolo. Renzo rispose<br />
che quell’epiteto lo avrebbero dato, lui immaginava, solo a chi se lo lasciava<br />
appioppare senza reagire, o che fosse davvero rozzo e ignorante, ma non a un<br />
bravo operaio che sapeva il suo mestiere e aveva del sale in zucca. A Bortolo ci<br />
volle del bello e del buono per convincere il suscettibile cugino che, per i<br />
Bergamaschi, tutti quelli del Milanese erano baggiani, e quelli abili e intelligenti<br />
anche più baggiani degli altri, perché ormai “baggiano” era per loro <strong>com</strong>e un<br />
titolo onorifico; per persuaderlo meglio aggiunse che, se non era disposto a<br />
succhiarsi quel titolo, non poteva vivere lì, perché sarebbe stata una sequela di liti<br />
e peggio.<br />
Renzo si mostrò alfine rassegnato “a succiarsi del baggiano a tutto pasto”,<br />
dato che era inevitabile; allora il cugino disse che ormai non vedeva altre<br />
difficoltà, e presentò senz’altro l’ospite al padrone, “un buon bergamascone<br />
all’antica, un uomo di cuor largo”, il quale lo accolse cordialmente, e<br />
naturalmente non si fece pregare per dare un lavoro a uno che gli veniva così<br />
caldamente rac<strong>com</strong>andato ed espressamente garantito dal suo bravo factotum.<br />
Renzo si è così sistemato e, per il momento, non ha problemi per il suo<br />
mantenimento; ma lo assillavano sempre i pensieri per l’avvenire, se voleva, <strong>com</strong>e<br />
fermamente voleva, ricongiungersi con Lucia e sposarla, anche a costo di lotte e<br />
sacrifici! Lui però era ora bandito, lei lontana: <strong>com</strong>e avrebbe potuto superare, a un<br />
tempo, il rigore cieco della legge e la prepotenza dell’orgoglioso signorotto, che<br />
certamente non si sarebbe rassegnato allo smacco subito, e sarebbe ricorso a ogni<br />
mezzo, pur di soddisfare il suo turpe capriccio?<br />
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CAPITOLO XVIII<br />
Lo stesso giorno, 13 novembre 1628, in cui Renzo giunse al paese di Bortolo,<br />
arrivò al podestà di Lecco un corriere espresso, con un ordine del capitano di<br />
Giustizia, stilato nel bel latino curialesco del tempo, di far ricerca diligente del<br />
filatore di seta Lorenzo Tramaglino, che risultava abitante in detto territorio,<br />
anche se non si poteva precisare il paese; di arrestarlo se fosse per caso tornato al<br />
suo paese, e <strong>com</strong>unque di fare una rigorosa perquisizione all’abitazione di lui,<br />
sequestrando tutto ciò che possa servire a incriminarlo, e assumendo nello stesso<br />
tempo accurate informazioni della sua condotta sediziosa. Il Podestà, dopo aver<br />
appurato, senza troppa difficoltà, in quale paese del suo territorio il Tramaglino<br />
abitava, si recò alla sua casa con un notaio e una scorta di birri; questi, sfondato<br />
l’uscio, iniziarono la perquisizione, cioè misero tutto sottosopra, “<strong>com</strong>e in una<br />
città presa d’assalto”, ma non trovarono nulla di <strong>com</strong>promettente all’infuori,<br />
supponiamo, dello schioppo, che del resto allora, <strong>com</strong>e oggi, era <strong>com</strong>unissimo<br />
nelle case dei contadini e dei montanari. Figuratevi l’impressione che questa<br />
spedizione della giustizia fece sui <strong>com</strong>paesani di Renzo, i quali, conoscendolo per<br />
giovane quieto e onesto, non sapevano che cosa pensare, e sospettavano che fosse<br />
“una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo<br />
povero rivale.” A questo proposito l’Autore osserva acutamente che quando si<br />
giudica per semplice induzione, senza cognizione dei fatti, si è talora ingiusti<br />
anche verso i rei: infatti don Rodrigo, pur avendo tutto l’interesse e anche<br />
l’intenzione di nuocere al suo rivale, non aveva avuto alcuna parte nei guai di<br />
Renzo.<br />
E’ un invito alla prudenza e alla serenità nei giudizi e nelle condanne, che vale per<br />
tutti e non soltanto per la polizia e per i giudici.<br />
Il superbo signorotto, è vero, non aveva alcuna colpa della disgrazia di Renzo<br />
il quale si era dato, <strong>com</strong>e si dice, la zappa sui piedi; ma saputala, se ne rallegrò,<br />
<strong>com</strong>e se fosse stata opera sua, specialmente col suo degno cugino, il conte Attilio,<br />
il quale aveva intanto rimandata la partenza per Milano, per non rischiare di<br />
assaggiare in città quelle bastonate di cui era, almeno verbalmente, così largo<br />
donatore, quando si trattava di plebei indifesi che erano, a suo dire, tutti<br />
mascalzoni bastonabilissimi. Questa volta, nel clima bollente di Milano, il<br />
burbanzoso conte avrebbe corso il pericolo di riceverne un assaggio sulle sue<br />
illustri spalle, invece che darne sulla schiena degli ignobili, rei soltanto di non<br />
avere il sangue blu nelle vene.<br />
Fra Cristoforo, quando riseppe della perquisizione poliziesca in casa di Renzo,<br />
fu amaramente sorpreso, e scrisse al padre Bonaventura, sperando di sapere da lui<br />
qualcosa di preciso; ma il suo confratello poté solo <strong>com</strong>unicargli che, il giorno di<br />
San Martino, un forestiero si era presentato al convento chiedendo di lui, ma non<br />
avendolo trovato, se n’era andato senza più far ritorno. Il padre Cristoforo,<br />
conoscendo bene il giovane e il suo carattere onesto, ma anche impetuoso e talora<br />
96
imprudente, intuì subito che egli, più che reo, era stato vittima delle circostanze e<br />
della sua indole focosa e risentita, specialmente nello stato d’animo in cui si<br />
trovava per la recente ingiustizia patita.<br />
Quando la situazione nella capitale fu ritornata del tutto calma, don Attilio si<br />
decise a partire, incitando il cugino a non desistere dalla sua impresa, poiché egli<br />
lo avrebbe, in un modo o nell’altro, sbarazzato dell’arrabbiato frate, ora che la<br />
giustizia lo aveva liberato dell’abietto rivale, del quale anche la sposa, <strong>com</strong>e tutto<br />
il resto, poteva ormai considerarsi “<strong>com</strong>e roba di rubello”, cioè preda del primo<br />
che ci mettesse le unghie. Infatti il ribelle, il sedizioso, <strong>com</strong>e Renzo era<br />
considerato, non aveva più nessuna tutela legale, e tutto ciò che gli apparteneva<br />
era premio del delatore o possesso del primo occupante; e in realtà avvenne che la<br />
casa di Renzo fu letteralmente saccheggiata, prima dalla forza pubblica e poi dai<br />
cinici profittatori, i quali misero le mani senza scrupolo anche sulla sua vigna.<br />
Poco dopo la partenza del conte Attilio, tornò il Griso da Monza, e riferì che<br />
Lucia e la madre erano ricoverate nel monastero della Signora, sotto la sua<br />
protezione, che la ragazza non usciva mai, neppure per sentire la Messa, che<br />
ascoltava da una grata assieme alle suore. Queste notizie misero di cattivo umore<br />
don Rodrigo, perché un monastero, e soprattutto quel monastero, con una<br />
principessa per protettrice, era un osso troppo duro per i suoi denti; sicché tutti gli<br />
altri punti favorevoli venivano a un colpo annullati da questo ostacolo imprevisto.<br />
Come espugnare quel sacro ricovero? <strong>com</strong>e aver ragione di una principessa?<br />
Sapeva che c’era uno che ci sarebbe certamente riuscito, “un tale, le cui mani<br />
arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo,<br />
per cui la difficoltà delle imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé.”<br />
Questo è il primo accenno al fosco personaggio che il Manzoni chiama<br />
“innominato”, pur essendo personaggio storico, appunto perché vuole lasciarlo,<br />
almeno in parte, nel dominio della libera fantasia. Storicamente non è altro che<br />
Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Chiara d’Adda, il quale dopo essere<br />
stato bandito dallo Stato di Milano, era audacemente tornato nel ducato, e viveva<br />
impavido e temuto in un inespugnabile castello sul confine, dal quale, <strong>com</strong>e<br />
un’aquila dal suo nido insanguinato, dominava tutto il territorio circostante con la<br />
sua sfrenata violenza, appoggiata su uno stuolo di bravi tra i più risoluti e feroci.<br />
Don Rodrigo pensò dunque di ricorrere a costui, ma rimase per alcuni giorni in<br />
forse, data la gravità del passo, perché quel signore si metteva bensì a<br />
disposizione degli amici, ma esigeva poi anche che costoro restassero a sua<br />
<strong>com</strong>pleta disposizione, e gli obbedissero in tutto e per tutto, qualunque cosa egli<br />
<strong>com</strong>andasse: e in questo era terribilmente intransigente. Inoltre egli era un<br />
bandito, un pubblico nemico, e l’aver dei rapporti con lui poteva provocare delle<br />
rappresaglie da parte delle autorità costituite. Don Rodrigo voleva godersi la vita<br />
in città, abitarvi rispettato e riverito così <strong>com</strong>e in campagna, in mezzo ai suoi<br />
possedimenti, essere amico dei pubblici magistrati, per averne appunto<br />
l’indulgenza o la connivenza alle sue malefatte, per cui non poteva mettersi in urto<br />
con i rappresentanti del potere; inoltre era nipote di un membro influente del<br />
Consiglio segreto, e non doveva permettersi queste scandalose e pericolose<br />
97
amicizie o relazioni: ne sarebbe stato <strong>com</strong>promesso anche il prestigio del suo<br />
illustre zio, il quale certamente non gli avrebbe perdonato una simile colpa! Ma<br />
pochi giorni dopo l’incerto signorotto ricevette una lettera del cugino “che faceva<br />
un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature” in mezzo alla brillante<br />
società, se l’avesse data vinta a un villano e a un frate; anzi ora ambedue costoro<br />
erano stati messi fuori <strong>com</strong>battimento, il primo dalla polizia, il secondo dal Conte<br />
zio membro del Consiglio segreto; infatti lo informava che il maledetto frate era<br />
stato trasferito in un convento molto lontano. Poco dopo ricevette un’altra bella<br />
notizia: Agnese era tornata al paese, lasciando la figlia, la quale rimaneva in tal<br />
modo un po’ meno protetta, lontana dalla gonna della madre, donna esperta e<br />
risoluta. Questi fatti fecero alfine passare il Rubicone a don Rodrigo, il quale<br />
ritenne inevitabile imbarcarsi in sì pericolosa amicizia, se voleva da una parte<br />
soddisfare il suo puntiglio e il suo infame capriccio, dall’altra evitare le grandi<br />
canzonature dei giovani signori milanesi, che il cugino aveva pensato a informare<br />
a puntino di tutto: perdere la faccia davanti ad essi sarebbe equivalso a una morte<br />
civile! Ma ora torniamo un poco a Lucia, e rendiamo conto dei casi cui abbiamo<br />
accennato.<br />
Le grandi notizie dei fatti di Milano erano naturalmente giunte a Monza “e per<br />
conseguenza anche nel monastero”, per mezzo della fattoressa la quale teneva “un<br />
orecchio alla strada e uno al monastero”, facendo volentieri da tramite e in un<br />
senso e nell’altro. Le nuove venivano partecipate alle due donne, sapendo che<br />
Renzo era giunto a Milano proprio il giorno del tumulto. L’ansia di esse divenne<br />
viva preoccupazione, specialmente per Lucia, quando la fattoressa disse loro che<br />
uno di quelli che dovevano essere impiccati, <strong>com</strong>e caporioni della sedizione, era<br />
di Lecco o dei dintorni; ma allorché, qualche tempo dopo, annunciò che quel<br />
facinoroso era proprio del loro paese e si chiamava Tramaglino, a Lucia, <strong>com</strong>e<br />
fulminata dalla notizia, cadde il lavoro dalle mani. Per fortuna la fattoressa era un<br />
po’ distante da lei, e Agnese, alla quale stava parlando, riuscì a contenersi, a non<br />
tradire in volto la dolorosa emozione dell’animo; alla domanda se lo conoscesse,<br />
rispose con apparente indifferenza che in un villaggio tutti si conoscono, per cui<br />
lei si meravigliava molto del fatto, in quanto quel giovane era conosciuto <strong>com</strong>e un<br />
tipo tranquillo e onesto.<br />
Quando madre e figlia rimasero sole, potete immaginare quali furono i loro<br />
discorsi, quanto tristi i loro <strong>com</strong>menti! Non sapevano proprio cosa pensare: <strong>com</strong>e<br />
una tale enormità poteva essere successa, e quali ne sarebbero state le<br />
conseguenze? Per Lucia l’angoscioso discorso finiva talora nelle lagrime, e la<br />
stessa madre non sapeva che dire per consolarla. Un certo sollievo lo recò loro<br />
padre Cristoforo il quale, servendosi di un pescivendolo di Pescarenico che si<br />
recava a Milano a vender la sua merce, fece sapere che stava cercando di aver più<br />
sicure notizie di Renzo; loro intanto confidassero in Dio, sicure che Egli non<br />
avrebbe abbandonato i tribolati, mentre lui avrebbe fatto quanto era umanamente<br />
possibile in loro favore, e <strong>com</strong>unque ogni settimana avrebbe mandato altre<br />
notizie, o con quello o con un altro messo.<br />
98
Una distrazione dai tristi e talora tormentosi pensieri che l’assillavano, Lucia<br />
la trovava nel lavoro assiduo e anche, talvolta, nella conversazione familiare che<br />
aveva con Gertrude, la quale la faceva chiamare ogni tanto nel suo parlatorio<br />
privato, e si lasciava andare con lei a confidenze sul suo passato incolpevole,<br />
soprattutto circa il modo con cui era stata rinchiusa lì; sicché “quella prima<br />
maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in <strong>com</strong>passione.” La Signora<br />
avrebbe voluto che anche la ragazza, a sua volta, le raccontasse la sua storia<br />
sentimentale, ma per lei era impossibile trattare un simile argomento, in cui non<br />
entravano “tirannia, insidie, patimenti, cose brutte e dolorose, ma che pur si<br />
potevan nominare”, ma quei moti ineffabili del cuore, quei soavi sensi originati<br />
dall’amore: parola che Lucia, nella sua pudica riservatezza, non riusciva proprio a<br />
pronunciare, parlando di sé.<br />
A questo proposito possiamo osservare che lo stesso ritegno, il medesimo<br />
pudore mostra il Manzoni nel parlare d’amore: in tutto il romanzo egli accenna<br />
appena delicatamente alle dolci emozioni che suscita nell’animo questo potente<br />
sentimento, e ancor più sobriamente, con vigile castigatezza, ai turbamenti del<br />
cuore e dei sensi prodotti dalla passione sensuale, dal richiamo del sesso, che<br />
volgarmente chiamasi amore, con evidente degradazione di questo grande<br />
sentimento. Alcuni critici, non escluso il Croce, hanno rimproverato al Manzoni<br />
questo spirito puritano, che lo indusse a eliminare senza rimpianto, nell’edizione<br />
definitiva, quelle parti della storia di Gertrude che parevano indulgere alla<br />
descrizione della passione erotica; secondo costoro egli avrebbe, per così dire,<br />
tarpato le ali alla sua fantasia, precludendosi molte possibilità di poetica<br />
emozione. Io non concordo con essi. Il Manzoni, pur con sobrie e talora indirette<br />
espressioni, ci fa sentire la potenza e la soavità dell’emozione d’amore, quello<br />
vero, più di tanti altri poeti e prosatori che hanno dedicato intere pagine alla sua<br />
descrizione; del resto lo stesso Autore, a chi gli rimproverava questa eccessiva<br />
sobrietà, rispondeva argutamente che il mondo è così pieno di amore, che questo<br />
sentimento non ha proprio bisogno di essere incrementato dalle opere letterarie.<br />
Queste invece, purtroppo, hanno sempre speculato su questo sentimento, o peggio<br />
sulle sue deviazioni più o meno morbose, più o meno peccaminose, più o meno<br />
piccanti. Il Nostro respinge l’erotismo, non ha bisogno di questo ingrediente per<br />
far piacere il suo romanzo; egli intese far opera d’arte e di poesia, esprimere tutto<br />
il suo mondo interiore, il suo sentimento profondo, che era sentimento religioso,<br />
visione cristiana del mondo e della vita, appunto <strong>com</strong>e intese far Dante. E il suo<br />
romanzo, appunto perché motivato dal profondo, si traduce inconsapevolmente in<br />
opera di profonda edificazione morale, <strong>com</strong>e la “Divina Commedia”, pur<br />
rimanendo opera squisitamente poetica e per nulla oratoria, <strong>com</strong>e invece il primo<br />
Croce voleva sostenere.<br />
Per il Manzoni l’amore è un sentimento sublime e quasi divino, perché è una<br />
derivazione dell’amore verso Dio, e non va perciò deturpato o sfruttato in alcun<br />
modo: egli accenna ad esso in modo delicato, ma vivo e potente, sia nel romanzo<br />
sia nelle tragedie. Basta ripensare a certe espressioni, volutamente castigate ma di<br />
grande potenza evocatrice, dell’ ”Addio, monti” e del coro “Morte di<br />
99
Ermengarda”, solo paragonabili alle espressioni, fuggevoli ma potenti, di un<br />
Dante (“quali dolci pensier, quanto desìo” a proposito di Paolo e Francesca) e di<br />
un Leopardi (“che speranze, che cori, o Silvia mia!”). I grandi poeti sono stati<br />
sempre sobri, pur potentemente suggestivi ed emotivi, nella trattazione dei temi<br />
d’amore; e il Manzoni ci ha dato una grande lezione di austerità, dimostrando col<br />
suo esempio che la vera opera d’arte non ha bisogno di simili ammennicoli,<br />
necessari ai pennivendoli che scrivono a scopo di cassetta, sfruttando i sentimenti<br />
deteriori, o peggio i bassi istinti, che covano nell’animo umano. I bassi istinti<br />
vanno invece frenati e corretti, anche mediante la missione civilizzatrice dell’arte,<br />
e non, <strong>com</strong>e avviene oggi, esaltati e sfacciatamente spacciati <strong>com</strong>e i valori più<br />
genuini dell’uomo. La lezione civile e cristiana del Manzoni purtroppo non è<br />
stata minimamente ascoltata dai romanzieri e cineasti di oggi, i quali, col pretesto<br />
della libertà dell’arte ma in realtà a scopo di lucro disonesto, depravano sempre<br />
più le passioni, scatenando i più bassi istinti con la più immonda pornografia, alla<br />
quale il cinema offre le sue immagini lubriche e allettanti.<br />
Tornando a Gertrude, diremo che anche lei provava un certo sollievo nel<br />
parlare con la sua protetta, la quale le mostrava tanta gratitudine e affetto sincero;<br />
il far del bene a una creatura così innocente era, per la colpevole e inquieta<br />
monaca, un mezzo quasi inconscio di espiazione e, per così dire, un pegno di<br />
grazia e di perdono.<br />
Il pesciaiolo di Pescarenico tornò, <strong>com</strong>e aveva promesso, la seconda<br />
settimana, recando i saluti di fra Cristoforo e la conferma della fuga di Renzo,<br />
intorno al quale però il padre non poteva dare alcuna nuova, non avendone<br />
ricevuto, <strong>com</strong>e invece sperava, dal suo confratello di Milano; <strong>com</strong>unque<br />
cercherebbe di averne e di <strong>com</strong>unicarle loro con lo stesso mezzo. Ma la terza<br />
settimana non si presentò al convento né quel pescivendolo né altri a portare<br />
notizie da parte del buon frate; questo fatto accrebbe l’inquietudine delle povere<br />
ricoverate, e Agnese decise di dare una capatina al loro paese, per venire in chiaro<br />
del mancato invio di notizie da parte di padre Cristoforo. Ormai esse vivevano per<br />
queste notizie, perché facevano ogni assegnamento sull’opera del frate il quale,<br />
unico, alimentava le loro speranze. Prive di notizie da parte di lui, che erano<br />
l’unico modo con cui esse erano legate al mondo esterno, le poverette si sentivano<br />
<strong>com</strong>e sperdute e mancanti di ogni conforto. Perciò Lucia, per quanto le dolesse<br />
rimanere, anche per pochi giorni, priva della mamma, ne approvò la decisione,<br />
perché capiva che quello era l’unico mezzo per sapere qualcosa di positivo. Per<br />
raggiungere il paese, Agnese pensò di chiedere un passaggio al solito<br />
pescivendolo, che di norma il venerdì passava col suo biroccio per Monza,<br />
ritornando da Milano; lo aspettò sulla via e lo pregò del favore, che quegli fece<br />
molto volentieri. Giunta a Pescarenico, la buona donna volle subito vedere fra<br />
Cristoforo e, recatasi al convento, ne chiese a fra Galdino che venne ad aprire. Il<br />
laico le rispose che il padre non c’era, e chissà quando e se sarebbe tornato,<br />
essendo stato mandato a predicare a Rimini, una città molto ma molto lontana. La<br />
povera donna rimase annichilita, tanto era lontana dall’immaginare una simile<br />
iattura; fra Galdino, intuendo la sua desolazione, le propose di chiamare qualche<br />
100
altro padre a cui rivolgersi per consiglio, poiché ce n’erano nel convento di assai<br />
valenti. Ma Agnese non ne volle sapere, dicendo che solo fra Cristoforo era quello<br />
che conosceva i loro bisogni e già si stava adoperando per loro: gli altri che cosa<br />
le avrebbero potuto fare? E così la derelitta s’incamminò verso il suo villaggio,<br />
turbata e smarrita “<strong>com</strong>e il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.”<br />
Fra Galdino aveva spiegato ad Agnese l’improvvisa partenza di padre<br />
Cristoforo, con una richiesta, venuta da Rimini, di un buon predicatore; in realtà il<br />
suo allontanamento era stato chiesto al Padre provinciale di Milano dal Conte zio<br />
del Consiglio segreto, su istigazione di don Attilio. Questi, <strong>com</strong>e aveva promesso<br />
al cugino, era andato a trovare lo zio <strong>com</strong>une, per presentargli gli ossequi suoi e di<br />
don Rodrigo, a proposito del quale disse che doveva informare lo zio di una<br />
spiacevole questione, la quale rischiava di degenerare in lotta aperta, gravida di<br />
imprevedibili conseguenze, se il signore zio non l’ac<strong>com</strong>odava subito con la sua<br />
opera illuminata e influente. Ecco di che cosa si trattava: un arrabbiato cappuccino<br />
di Pescarenico aveva <strong>com</strong>inciato a cozzare contro don Rodrigo, a minacciarlo, ad<br />
aizzargli contro i villani, per via di una ragazza che gli stava molto a cuore, chi sa<br />
perché, e che riteneva insidiata da lui, che tutt’al più le aveva rivolto qualche<br />
<strong>com</strong>plimento galante, incontrandola, così per scherzo. Il Conte zio disse che<br />
evidentemente il frate non sapeva che don Rodrigo era suo nipote… e sarebbe<br />
bastato farglielo sapere per mutare l’ostilità in ossequio…<br />
A questo punto possiamo osservare, assieme alla capacità di don Attilio di<br />
mentire spudoratamente, anche la sua diabolica abilità nell’intrappolare lo zio, per<br />
ridurlo ai suoi voleri, facendo leva sulla sua boria nobiliare e sulla sua<br />
suscettibilità di influente uomo politico. Infatti, alle ultime parole dello zio,<br />
replica che il frate era benissimo al corrente del legame di parentela, e per questo<br />
ci provava più gusto a perseguitare don Rodrigo, andando dicendo che lui se ne<br />
rideva “dei grandi e dei politici, e che il cordone di San Francesco tien legate<br />
anche le spade…” Bastò questa insinuazione bugiarda perché la condanna dello<br />
sconosciuto frate fosse decretata nel cuore del burbanzoso signore, ferito a morte<br />
nel suo orgoglio. Ma il nipote non si ritenne pago: volle accendere ancora di più<br />
l’animo dello zio contro l’avversario, affinché il colpo non fallisse e fosse<br />
mortale. Fece un po’ la storia del soggetto prima che entrasse in convento,<br />
dipingendolo <strong>com</strong>e un vile plebeo che, avendo ereditato quattro soldi, si era messo<br />
a <strong>com</strong>petere con i nobili, ma non potendo spuntarla, una volta, ne ammazzò uno,<br />
onde, per salvarsi dal capestro, si fece frate; e aggiunse la grave circostanza che il<br />
medesimo era anche il protettore di quel Lorenzo Tramaglino, gran caporione<br />
della sedizione milanese: infatti il famigerato ribelle, che abitava nei pressi di<br />
Pescarenico, recava appunto una lettera del pericoloso frate. Lo zio fu ben lieto di<br />
conoscere questo particolare, per lui molto favorevole e quasi risolutivo; e il<br />
cinico don Attilio, veramente machiavellico, per coronare la sua opera, aggiunse<br />
che il cugino, offeso così crudelmente, era fuori dei gangheri e voleva farsi<br />
giustizia da sé, assolutamente e subito, per cui il signore zio doveva agire senza<br />
indugio, se voleva evitare un colpo di testa da parte del nipote. Quindi, con<br />
raffinata scaltrezza, aggiunse di sapere che il signore zio era amico del Provinciale<br />
101
dei Cappuccini, il quale aveva, <strong>com</strong>’era naturale, “una gran deferenza per lui”; per<br />
cui, se egli reputava che, in quel caso,la migliore soluzione fosse far trasferire il<br />
frate, in due parole l’avrebbe potuto ottenere. A questo consiglio così scoperto, la<br />
boria ombrosa del nobile uomo politico si adontò; un po’ ruvidamente disse al<br />
nipote di lasciarne il pensiero a chi di dovere. Don Attilio, il quale si aspettava<br />
senz’altro questo risentimento, ma non aveva lo stesso voluto tralasciare di fare la<br />
proposta, tanto poco si fidava della perspicacia dello zio, fece le sue umili scuse<br />
d’aver osato, lui così ignorante, dare un parere a un uomo tanto sapiente, ma<br />
aggiunse di averlo fatto senza pensarci, per l’amore che portava alla dignità della<br />
famiglia, così volgarmente offesa dall’odioso frate; quindi porse allo zio i<br />
deferenti omaggi propri e del cugino, e si licenziò contento, poiché aveva istigato<br />
a dovere l’animo dello zio contro il nemico, per cui poteva stare sicuro che il frate<br />
era spacciato: ormai era questione di giorni, ma l’ora per lui era sonata.<br />
A conclusione di questo capitolo abbozziamo un confronto tra i due degni<br />
cugini: il conte Attilio è evidentemente più scanzonato e più superficiale nelle sue<br />
passioni, ma anche più scaltro e sicuro di sé; cinico e vanitoso, e soprattutto<br />
orgoglioso del suo titolo nobiliare, desiderava godersi la vita ridendo di tutti e di<br />
tutto; don Rodrigo è più schiavo delle sue passioni, più cupo, più preoccupato<br />
delle difficoltà e degli ostacoli, e quindi meno capace di godersi la vita<br />
spensieratamente, <strong>com</strong>e pur avrebbe desiderato. In questa sua inquietudine<br />
c’entrava probabilmente l’educazione religiosa che aveva ricevuto, nella<br />
fanciullezza, dal padre, il quale era stato un galantuomo; una tale educazione, pur<br />
soffocata dalle passioni della gioventù e dalla ricerca dei piaceri, aveva lasciato<br />
qualche residuo nel suo subcosciente, <strong>com</strong>e di qualcosa che, pur obliterato o<br />
calpestato, era però vero e ineluttabile. Da questa specie di coscienza di colpa<br />
deriva, per esempio, il vago terrore che la tronca profezia di fra Cristoforo infonde<br />
nel suo animo, al punto da esser tentato di troncar tutto; se non lo fa, è soprattutto<br />
per orgoglio, per non darla vinta al frate: e chi accende il suo orgoglio è il suo<br />
genio malefico, don Attilio, il quale invece non ha in sé alcun seme buono, che<br />
possa fruttare redenzione. Don Rodrigo potrebbe redimersi; e lo stesso padre<br />
Cristoforo, additandolo a Renzo nel lazzaretto, in <strong>com</strong>a sul suo giaciglio, dice<br />
pensoso e pietoso: “Può esser gastigo, può esser misericordia.” Egli aveva fatto il<br />
piacere unico scopo della sua esistenza, ma il senso del dovere era nel fondo del<br />
suo animo, anche se seppellito dalle passioni, alimentate dall’ambiente superbo e<br />
cinicamente edonistico in cui gli piaceva vivere.<br />
102
CAPITOLO XIX<br />
Il Manzoni <strong>com</strong>incia questo capitolo con una similitudine: <strong>com</strong>e chi trova<br />
un’erbaccia in un campo, non potrebbe mai stabilire con assoluta certezza se il<br />
seme è maturato nello stesso terreno o c’è stato trasportato dal vento oppure da un<br />
uccello, così nessuno potrebbe dire se la decisione del Conte zio di rivolgersi al<br />
Provinciale dei cappuccini, per aver ragione di padre Cristoforo, sia sorta “dal<br />
fondo naturale del suo cervello o dall’insinuazione di Attilio.” Però possiamo<br />
esser certi che, anche senza l’ispirazione del nipote, il Conte ci sarebbe arrivato<br />
anche da solo, tanto la soluzione era adatta al suo temperamento di diplomatico,<br />
abituato all’intrigo o al <strong>com</strong>promesso del “do ut des”. Egli sapeva che contro un<br />
frate non era utile la forza legale, perché il clero regolare e secolare era del tutto<br />
immune dalla giurisdizione dello Stato, quasi uno Stato nello Stato, per cui, se si<br />
voleva un risultato sollecito e sicuro, era opportuno agire per via di influenze e di<br />
amicizie. Proprio <strong>com</strong>e aveva detto don Attilio al titubante cugino: “Bisogna saper<br />
raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente<br />
dare un carico di bastonate a un membro.” Questo aveva cinicamente sentenziato<br />
il conte Attilio, quello delle bastonate a ogni piè sospinto, e lo zio ne mette in<br />
pratica la massima con arte sopraffina, elaborata in decenni di vita politica.<br />
Tra lui e il Provinciale correva una vecchia conoscenza; s’incontravano di<br />
rado, ma sempre con formali dimostrazioni di ossequio, sia da una parte che<br />
dall’altra, e con “esibizioni sperticate di servizi”; ora era appunto venuta<br />
l’occasione di chiedere un favore al Provinciale; ma il Conte voleva essere sicuro<br />
del successo, e nello stesso tempo non pagare lo scotto, se gli riusciva, facendo<br />
credere di far lui un servizio al Padre, invece di riceverlo. Il Conte metteva nel<br />
trattare tutti i suoi affari “un grande studio, una grand’arte, di gran parole”, e in<br />
genere riusciva a spuntare i suoi impegni, anche perché si trovava in posizione di<br />
forza, cioè nobile, ricco e membro influente del Consiglio segreto, per cui era<br />
molto vicino al Governatore; infatti questa consulta, <strong>com</strong>posta “di tredici<br />
personaggi di toga e di spada” (il Conte era togato, cioè proveniente dalla<br />
Magistratura), coadiuvava il Governatore nel disbrigo degli affari e ne faceva le<br />
veci, in caso di vacanza o di impedimento.<br />
La figura del Conte zio è stata variamente giudicata dai critici; per alcuni egli<br />
era davvero un gran politicone, mentre per altri era una testa di legno, che non<br />
aveva altra qualità all’infuori del sussiego e della boriosa vanità. Mi sembra che<br />
sia gli uni sia gli altri esagerino: veramente il Conte non era una cima per<br />
intelligenza, e di ciò forse lui stesso era consapevole, per cui alla carenza naturale<br />
supplica con artifici che gli donavano una “species” 5 , anche se non molto era il<br />
5 species = grande aspetto.<br />
103
“cerebrum” 6 ; il suo aspetto era piuttosto goffo, ma egli con una certa prosopopea<br />
solenne aveva saputo mascherare questo “fondo di goffaggine dipintogli in viso<br />
dalla natura.” Tutti i suoi atteggiamenti, tutte le sue parole erano studiate per<br />
impressionare i suoi interlocutori, e quindi accrescere il suo prestigio, e non c’era<br />
il suo pari “nel farlo valere e nel farlo rendere con gli altri.” Quindi dobbiamo<br />
concludere che era un uomo abile, che aveva saputo sfruttare al massimo le sue<br />
poche doti: una di quelle mezze figure che destramente si sanno fare largo anche<br />
fra i più dotati, e finiscono per primeggiare, oggi <strong>com</strong>e allora, perché nella società<br />
prevalgono quasi sempre non gli uomini più capaci, ma i più abili o meglio i più<br />
furbi. I capaci sono generalmente onesti, e disdegnando i mezzi subdoli e sleali,<br />
finiscono spesso col soc<strong>com</strong>bere davanti agli spregiudicati arrivisti.<br />
Ordunque il Conte, preparato il suo piano minuziosamente, invitò a pranzo il<br />
Provinciale; e per impressionarlo gli fece trovare a tavola alcuni parenti molto<br />
titolati, i quali sia col loro contegno solenne, sia col parlare di cose grandi in<br />
termini familiari, insinuavano nell’uditore “l’idea della superiorità e della<br />
potenza.” Durante il pasto il padrone di casa parlò naturalmente dell’evento più<br />
clamoroso della sua carriera, un suo viaggio a Madrid, in occasione di una<br />
missione a corte, in cui ricevette una calorosa accoglienza. Ma il Padre<br />
provinciale non permise che parlasse sempre lui, pavoneggiandosi; a un certo<br />
punto, con grande abilità, deviò la conversazione dalla Spagna e, di regno in<br />
regno, la portò su Roma e sulla corte pontificia, dove il papa regnante, Urbano<br />
VIII, era fratello del Cardinale Barberini, cappuccino, per far capire che i<br />
Cappuccini erano influenti, avendo un protettore d’eccezione, fratello addirittura<br />
del sommo pontefice e lui stesso cardinale di Santa Romana Chiesa. Il Provinciale<br />
insomma vuol mettere in evidenza che anche lui, cioè l’Ordine a cui appartiene,<br />
ha il suo prestigio da difendere, avendo intuito che il Conte intende<br />
impressionarlo con le sue grandigie. La conversazione tra i due appare sin dal<br />
principio <strong>com</strong>e un duello verbale, che dalle prime avvisaglie si presenta<br />
interessante e molto equilibrato, poiché nell’abile schermaglia il Provinciale<br />
ribatte colpo con colpo, non concedendo alcun vantaggio all’avversario.<br />
La figura del Padre provinciale è stata anch’essa variamente interpretata:<br />
alcuni critici dicono che è un inetto, che si fa mettere nel sacco dal Conte, mentre<br />
altri affermano che si rivela abile e capace, non indegno della sua carica. A me<br />
sembra che egli sia di intelligenza superiore a quella del suo interlocutore, e sia<br />
anche abilissimo dialettico; ma la sua debolezza e vulnerabilità deriva dal fatto<br />
che anche lui è un politico, cioè disposto al <strong>com</strong>promesso, campione e vittima del<br />
“do ut des”. Già accettando il lusinghiero invito del conte si disponeva a<br />
<strong>com</strong>piacerlo in qualche cosa, che poteva costituire per lui un sacrificio, pur con<br />
l’intenzione di ricevere, a breve o lunga scadenza, il contraccambio del piacere<br />
che ora gli veniva chiesto. Egli ribatte gli argomenti del Conte, ma al solo scopo<br />
di dimostrargli che le ragioni della sua richiesta non sono valide, e lui potrebbe<br />
6 Cerebrum = cervello, intelligenza.<br />
104
non accoglierla; ma cede in pegno di amicizia; in altre parole egli resiste solo<br />
tatticamente, per accrescere il valore venale di quanto concede. Il suo<br />
<strong>com</strong>portamento è <strong>com</strong>prensibile, ma tuttavia biasimevole dal punto di vista<br />
morale: egli, per mantenersi indipendente, <strong>com</strong>e era suo dovere, non doveva<br />
accettare alcun invito, scusandosi con destrezza, né tanto meno doveva coltivare<br />
amicizie altolocate con l’intenzione di averne dei vantaggi, magari anche per<br />
l’Ordine, poiché queste relazioni avrebbero necessariamente portato a<br />
<strong>com</strong>promessi non sempre moralmente accettabili.<br />
Finito il pranzo, il Conte invitò il Provinciale in un salotto appartato, per<br />
parlare “d’un affare di <strong>com</strong>une interesse”, e senza troppi preamboli gli chiese se<br />
nel convento di Pescarenico c’era un certo padre Cristoforo; l’altro rispose<br />
affermativamente. Il piano del Conte, <strong>com</strong>e si desume dalle prime battute del<br />
dialogo, era di ottenere l’allontanamento del cappuccino, non <strong>com</strong>e favore che lui<br />
chiedeva, ma quasi quasi <strong>com</strong>e favore che lui faceva, in quanto dava al<br />
Provinciale, con un avviso amichevole, la possibilità di evitare rimproveri o<br />
peggio; ma questo disegno, abbastanza abile, viene frustrato con superiore abilità<br />
dal Provinciale.<br />
Il Conte <strong>com</strong>incia col dire che “da certi ragguagli” gli risulta che questo frate è<br />
amico dei contrasti, che non ha quella prudenza… quei riguardi… Subito il<br />
Provinciale intuisce lo scopo del colloquio, e pensa: “Ho inteso: è un impegno.”<br />
Ma non cede affatto alle prime richieste, perché vuol vendere caro il favore che<br />
alla fine concederà, appunto per farlo apparire più importante. Perciò ribatte<br />
subito che le sue informazioni, che sono di prima mano, presentano il cappuccino<br />
in una luce molto diversa: è un frate universalmente stimato, esemplare, sia in<br />
convento sia fuori, nei contatti coi fedeli. Il Conte torna alla carica con<br />
un’artiglieria più pesante: il frate, dato <strong>com</strong>e esemplare, proteggeva Lorenzo<br />
Tramaglino, “quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia.” Il<br />
Provinciale accusa mentalmente il colpo, ma ribatte che, la missione dei religiosi,<br />
è proprio quella di cercare le pecorelle smarrite, i traviati, per ricondurli sulla retta<br />
via, all’ovile. Ma il Conte incalza, insinuando che il Governatore potrebbe venire<br />
a conoscenza della scandalosa circostanza, fare un passo presso la Santa Sede, e<br />
da questa venire a lui, responsabile della Provincia Cappuccina, un biasimo per<br />
non aver punito e trasferito un soggetto così imprudente, a dir poco: egli intendeva<br />
dargli un avviso amichevole, per evitare grane che avrebbero <strong>com</strong>promesso il<br />
prestigio e del Provinciale e dell’Ordine.<br />
Ma il provetto cappuccino non permette che la questione sia impostata in quei<br />
termini di larvata minaccia, e subito vuol dimostrare che non teme il ventilato<br />
pericolo; risponde perciò che, se si prenderanno buone informazioni, risulterà<br />
senza ombra di dubbio che il padre Cristoforo non ha avuto a che fare con quel<br />
sedizioso, se non per tentare di ricondurlo sulla strada del dovere e dell’onestà. Il<br />
Conte allora cerca di offuscare ulteriormente la figura del frate con delle maligne<br />
insinuazioni, ricordando i suoi falli di gioventù; ma il provinciale replica<br />
prontamente, affermando che, da quando porta l’abito, colui si è <strong>com</strong>portato in<br />
modo ammirevole, ed è anzi una gloria dell’Ordine poter trasformare un omicida<br />
105
in un uomo sommamente benefico. Come si vede, il padre ha reso vani tutti gli<br />
approcci dell’antagonista, demolendo le premesse che avrebbero permesso a<br />
costui di ottener facile vittoria.<br />
Il Conte <strong>com</strong>prende finalmente che per quella via non può approdare a nulla, e<br />
allora si scopre e chiede il favore, pur tentando ancora miseramente di non farlo<br />
apparire tale. Dice infatti che quel frate ha preso a cozzare con don Rodrigo, suo<br />
nipote, il quale, stanco per le continue provocazioni, è deciso a farsi giustizia da<br />
sé: lui è intervenuto “pro bono pacis”, perché questi contrasti inevitabilmente<br />
tirano in ballo tutta la parentela, coalizzata, <strong>com</strong>’è giusto, per tutelare la dignità<br />
del casato; ma lui sarebbe oltremodo dolente di doversi schierare contro i cari<br />
padri cappuccini, cui si sente legato fin dalla fanciullezza.<br />
Il Provinciale risponde che la cosa gli riesce nuova e gli dispiace moltissimo,<br />
ma bisogna tener conto che tutti si può sbagliare, “tanto da una parte, quanto<br />
dall’altra”; facendo intendere con queste parole che la colpa del contrasto<br />
potrebbe non essere del frate; aggiunge che, <strong>com</strong>unque, prenderà le sue<br />
informazioni e, se il frate risulterà colpevole, lo punirà secondo che vuole la<br />
Regola. Ma queste informazioni, questa eventuale punizione secondo le norme<br />
della Regola non possono certamente garbare al Conte, che vuole un<br />
provvedimento immediato e senza appello; perciò replica che, secondo prudenza,<br />
bisogna “sopire, troncare”, perché certe cose, a rimestarle, si fa peggio: occorre<br />
“allontanare il fuoco dalla paglia”; chiede insomma il trasferimento del frate in<br />
un convento piuttosto lontano.<br />
I trasferimenti per i cappuccini sono di ordinaria amministrazione, e non<br />
richiedono particolari motivazioni o giustificazioni; anzi il Provinciale, avendo<br />
avuto la richiesta di un predicatore da Rimini, avrebbe potuto senz’altro mandare<br />
padre Cristoforo, che godeva fama di valente quaresimalista; tuttavia non accetta<br />
subito la proposta, perché vuole mercanteggiare il suo assenso, per far pesare di<br />
più il favore concesso. Risponde perciò che, date le circostanze, un trasferimento<br />
può sembrare una punizione, e non si può punire senza aver accertato il torto;<br />
insiste insomma sulla necessità di assumere buone informazioni, avendo capito<br />
che queste non piacciono all’amico, evidentemente perché esse avrebbero potuto<br />
dare ragione al religioso.<br />
Il Conte allora cerca di minimizzare la faccenda: punizione? macché<br />
punizione! “Un provvedimento prudenziale, un ripiego di <strong>com</strong>une convenienza.”<br />
E quando il Provinciale obbietta che il nipote potrebbe menarne vanto, <strong>com</strong>e di<br />
una vittoria, il Conte assicura che don Rodrigo non avrebbe saputo assolutamente<br />
nulla di quanto era passato tra loro due: nella sua carica di alta responsabilità egli<br />
era ben uso a mantenere il segreto, perciò di lui poteva fidarsi. Il Provinciale, pur<br />
non fidandosi affatto della discrezione del suo interlocutore (conosce bene le<br />
bugie dei politicanti!), è ormai disposto a rendere il grande servizio, perché ci<br />
trova la sua convenienza: trasferendo fra Cristoforo egli farà, <strong>com</strong>e si dice, un<br />
viaggio e due servizi; solo pone la condizione che don Rodrigo faccia, per<br />
l’occasione, qualche straordinaria dimostrazione di deferenza e di amicizia verso<br />
l’Ordine; e il Conte deve prometterlo, pur dicendo che non ce ne sarebbe bisogno,<br />
106
perché il nipote è stato sempre molto inclinato verso i Cappuccini, seguendo in ciò<br />
il genio dello zio; e conclude offrendo i suoi servigi: “Se posso qualche cosa,<br />
tanto io, <strong>com</strong>e la famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…”<br />
Implicitamente il Conte riconosce di aver ricevuto un favore e si mostra<br />
pronto a ricambiarlo; perciò non mi sembra esatto parlare di vincitore e di vinto,<br />
in questo incontro, <strong>com</strong>e si esprime lo stesso Manzoni; io parlerei di collusione tra<br />
i due, mentre la grande sconfitta è la giustizia. Questo si verifica quando si accetta<br />
la deleteria influenza della politica negli affari religiosi, poiché il clero, entrando<br />
negli intrighi politici, non può non tradire il proprio ministero nella prospettiva di<br />
benefici temporali e immediati, perdendo di vista i valori eterni e insostituibili.<br />
Per questo miserabile e detestabile interesse terreno il Provinciale s’indusse ad<br />
allontanare, su due piedi, il protettore di due poveri perseguitati, che rimangono in<br />
balia dei prepotenti, al solo scopo di <strong>com</strong>piacere un uomo influente, da cui<br />
avrebbe potuto in seguito avere dei favori, e forse non per l’Ordine, ma per sé o<br />
per i propri familiari! Egli non è un vinto, perché non risulta inferiore<br />
all’avversario, e acconsente infine alla pressante richiesta solo per accendere una<br />
valida ipoteca sull’avvenire, cioè per obbligarsi il signor Conte: tradisce il proprio<br />
dovere per una miserabile prospettiva di tornaconto materiale. Cose del Seicento?<br />
Mah!<br />
Il fatto sta che poche sere dopo giunge al convento di Pescarenico un<br />
cappuccino di Milano, latore di un ordine del Provinciale: fra Cristoforo deve<br />
andare a Rimini, a predicarvi la Quaresima; nella lettera al Guardiano, che<br />
ac<strong>com</strong>pagnava l’ “obbedienza” cioè l’ordine di trasferimento, si diceva, tra le altre<br />
istruzioni, che il detto padre doveva interrompere ogni affare che avesse avviato e<br />
non mantenere corrispondenza con persone del luogo. Il Guardiano per quella sera<br />
non disse nulla a fra Cristoforo, non per farlo dormire tranquillo, <strong>com</strong>e pensa<br />
qualche critico, ma proprio per non permettergli di avvertire qualcuno o mandare<br />
qualche messaggio o lasciare qualche lettera per i suoi protetti; lo lascia<br />
all’oscuro, io penso, per aderire pienamente alle intenzioni del superiore. La<br />
mattina seguente gli mostra l’obbedienza (che richiedeva un adempimento<br />
pronto, rispettoso e assoluto, in base al voto di obbedienza), e gli dice di partire<br />
immediatamente alla volta di Rimini assieme col latore del plico, destinatogli<br />
<strong>com</strong>e <strong>com</strong>pagno, dandogli appena il tempo di andare nella sua cella “a prender la<br />
sporta, il bastone, il sudario e la cintura”, che costituivano il corredo ordinario dei<br />
cappuccini nei lunghi viaggi a piedi.<br />
Per il nostro frate, <strong>com</strong>e può immaginarsi, fu davvero un brutto colpo, un<br />
fulmine a ciel sereno: i suoi superiori lo ritenevano colpevole (era evidentemente<br />
un trasferimento punitivo), e lo condannavano senza nemmeno ascoltarlo! Quanta<br />
amarezza poi nell’intuire il retroscena mercantesco di un simile provvedimento,<br />
nel costatare l’acquiescenza del Provinciale alle richieste ingiuste dei nobili<br />
prepotenti e intriganti! Ma per lui questa umiliazione era nulla; gli doleva<br />
soprattutto abbandonare quei poveretti tribolati e insidiati: cosa sarebbe stato di<br />
loro? Ma pensò alla Divina Provvidenza, e si rasserenò: i miseri sono sotto la<br />
protezione di Dio, Onnipotente e Misericordioso, di cui lui era stato un semplice<br />
107
strumento, un inetto rappresentante. Si accusò perciò di presunzione: si era<br />
ritenuto un mezzo necessario e insostituibile!<br />
La duplice fausta notizia, della partenza del frate e del ritorno di Agnese al suo<br />
paesello, fecero decidere don Rodrigo, <strong>com</strong>e si è detto, a ricorrere per aiuto<br />
all’Innominato. Il Manzoni alla fine del capitolo si ferma a delineare la figura di<br />
questo fosco personaggio, servendosi anche di qualche cronaca del tempo, e<br />
soprattutto della voluminosa “Storia patria” del Ripamonti, stilata in un discreto<br />
latino. Noi non aggiungeremo molto a quanto abbiamo già detto su di lui;<br />
metteremo solo in risalto alcuni tratti che ci mostrano questo tiranno ben diverso,<br />
per esempio, da don Rodrigo, e piuttosto simile nell’animo e nel carattere al<br />
giovane Lodovico; solo che Lodovico non era nobile, ed era quindi tormentato da<br />
un <strong>com</strong>plesso d’inferiorità che, non preoccupava davvero il ricco feudatario<br />
Bernardino Visconti. In tutt’e due notiamo, fin dalla prima giovinezza, “un misto<br />
sentimento di sdegno e d’invidia impaziente” alla vista di tanti tiranni, di tanta<br />
ingiustizia e prepotenza: quindi il fondo dell’animo era in ambedue onesto e<br />
generoso. Purtroppo tutt’e due s’imbarcarono ben presto nella gara della potenza<br />
terrena, che doveva sfociare inevitabilmente nella violenza e nel delitto.<br />
Lodovico sentì subito disgusto di una simile gara di prepotenza, e l’occasione<br />
dell’involontario omicidio provocò in lui una crisi che gli fece prendere per tempo<br />
la strada del pentimento e dell’espiazione. Il Visconti invece s’entusiasmava<br />
sempre più nella lotta, e il vincere era per lui l’unico scopo dell’esistenza, la più<br />
grande soddisfazione della vita. Nei dintorni del suo castello tutti i tiranni, grandi<br />
e piccoli, avevano dovuto fare i conti con lui, e scegliere tra la sua amicizia, che<br />
<strong>com</strong>portava sottomissione e obbedienza, e la sua inimicizia, che equivaleva a una<br />
sentenza capitale. Nei contrasti, nelle lotte private che s’ingaggiavano in quella<br />
società violenta, molti ricorrevano a lui: chi aveva torto si rac<strong>com</strong>andava a lui per<br />
aver ragione, chi aveva ragione si rivolgeva a lui per impedire che lo facesse<br />
l’avversario; in molti casi ricorrevano al suo patrocinio ambedue i contendenti, ed<br />
egli allora era praticamente l’arbitro della questione. Qualche volta avveniva pure<br />
che ricorresse a lui un povero perseguitato, e lui, che in fondo era generoso e<br />
odiava l’altrui prepotenza, costringeva il persecutore a smetterla e, se non<br />
obbediva subito, lo conciava male; e in quelle occasioni il suo nome era<br />
benedetto. Ma per lo più era maledetto ed esecrato, perché a poco a poco egli era<br />
diventato un appaltatore di delitti, un esecutore cinico e spietato, anche per conto<br />
di principi stranieri, che in qualche occasione gli mandarono rinforzi di uomini,<br />
che operassero al suo <strong>com</strong>ando. La reputazione del suo potere era diffusa a tal<br />
punto, che spesso venivano attribuiti a lui anche i colpi di altri tiranni, e ciò<br />
ingigantiva la sua fama; sicché era divenuto l’oggetto di orripilanti racconti e di<br />
fosche leggende popolari. Le autorità ormai non osavano più nulla contro di lui,<br />
dal momento che i birri che si erano avventurati nel suo dominio, che<br />
<strong>com</strong>prendeva un vasto territorio intorno al castello, non erano più tornati indietro.<br />
Il suo piacere era <strong>com</strong>andare, essere il più potente di tutti, essere universalmente<br />
temuto; il suo scopo era spuntarla in ogni occasione, riuscire il più forte in<br />
qualsiasi scontro. Per don Rodrigo invece la tirannide non era lo scopo<br />
108
dell’esistenza, ma il mezzo per godersi la vita; egli non avrebbe tollerato di<br />
passare la vita solitario in un tetro castello, pur <strong>com</strong>e un re, perché amava troppo i<br />
piaceri della società brillante e le <strong>com</strong>odità della vita cittadina. Ma questa volta il<br />
tirannello, se voleva spuntarla e soddisfare i suoi capricci, doveva ricorrere al<br />
fosco tiranno, umiliarsi davanti al temuto bandito. Don Rodrigo si piegò alla<br />
necessità, e una mattina, in equipaggiamento da caccia, onde nascondere la sua<br />
intenzione ai suoi stessi bravi, si recò al castello dell’Innominato a chiedere il gran<br />
favore, il rapimento di Lucia dal monastero della Signora.<br />
109
CAPITOLO XX<br />
Don Rodrigo, <strong>com</strong>e abbiamo detto, era stato per molti giorni indeciso se<br />
ricorrere o no all’Innominato, e in qualche momento aveva anche pensato di<br />
lasciar perdere tutto e andarsene a Milano a dimenticare nei piaceri quella<br />
passione; ma in città gli amici gli avrebbero riso in faccia, poiché il cugino aveva<br />
già sonato la tromba, mettendo tutti al corrente del suo capriccio per la bella<br />
montanara: <strong>com</strong>e sostenere un simile affronto? All’Innominato egli aveva fatto<br />
qualche favore, ed era sicuro che ne avrebbe ricevuto volentieri il contraccambio;<br />
tuttavia don Rodrigo non voleva legarsi troppo a quell’uomo fosco, a quel<br />
bandito, anche per non incorrere nello sdegno del Conte zio, rappresentante<br />
dell’autorità costituita. L’Innominato faceva il tiranno ribelle, in odio al Governo<br />
e alla legge, mentre don Rodrigo voleva infrangere la legge solo quando gli<br />
servisse per soddisfare i suoi capricci, e nello stesso tempo coltivava l’amicizia<br />
delle autorità (<strong>com</strong>e il podestà di Lecco) e delle persone influenti, per essere, in<br />
ogni caso, anche quando agiva illegalmente, uno “di quelli che hanno sempre<br />
ragione”. Per questo aveva sempre cercato di tenere nascosta la sua amicizia con<br />
l’Innominato; e se anche qualcosa ne era trapelato, lui poteva giustificarsi<br />
adducendo lo stato di necessità, poiché per vivere in campagna, a poche miglia dal<br />
suo castello, doveva necessariamente diventargli amico. E su questa inevitabile<br />
relazione le autorità di Governo, e lo stesso Conte zio, dovevano chiudere un<br />
occhio, poiché non riuscendo essi ad aver ragione di quel bandito ribelle,<br />
dovevano pur permettere che ognuno provvedesse da sé ai casi suoi, dal momento<br />
che mettersi contro colui era cosa troppo pericolosa.<br />
Il castello dell’Innominato, situato alla sommità di un poggio sporgente da una<br />
giogaia di monti, dominava una valle stretta e ombrosa, in cui scorreva un torrente<br />
che faceva da confine tra il Ducato di Milano e la Serenissima Repubblica veneta.<br />
Il poggio era praticabile solo dal lato della valle, da cui una strada serpeggiante<br />
saliva sino al castello. Dall’alto di questo il selvaggio signore dominava tutta la<br />
vallata, e dalle feritoie praticate nelle mura egli poteva sparare cento volte contro<br />
chi avesse osato muovere all’assalto di quella fortezza, che risultava pertanto<br />
veramente imprendibile. La forza pubblica infatti, dopo aver fatto qualche<br />
tentativo di snidarlo di là, aveva desistito per evitare nuove perdite di uomini. Ma<br />
questi fatti erano ormai antichi: da tanti anni nessuno più lo aveva molestato,<br />
nessun birro era più apparso nemmeno nella valle, e la sua presenza lì sul confine,<br />
nel suo invincibile maniero, non veniva più contrastata in alcun modo, e appariva<br />
pertanto quasi tollerata “de facto”, anche se non accettata “de jure”. L’inazione<br />
del Governo aveva naturalmente consolidato la posizione del fiero bandito.<br />
Ai piedi del colle, nel punto dove aveva inizio la ripida strada, o piuttosto<br />
sentiero, tutto “a gomiti e a giravolte”, che saliva al castello, c’era una taverna,<br />
adibita a posto di guardia, il cui presidio era costituito da tre bravi e da un<br />
ragazzaccio “armato <strong>com</strong>e un saracino”, il quale imparava la professione di<br />
110
ibaldo in quella bella <strong>com</strong>pagnia. Quando don Rodrigo giunse in vicinanza di<br />
questa taverna, chiamata con tetro augurio “la Malanotte”, il ragazzaccio “allevato<br />
alle forche” saltò fuori, allo scalpitio del cavallo, e vista quella <strong>com</strong>pagnia che si<br />
avvicinava, corse dentro a informare il capoposto. Questi, venuto fuori<br />
immediatamente a vedere chi fossero i sopraggiungenti, avendo riconosciuto in<br />
testa al gruppo un amico del suo padrone, gli fece un cenno di saluto, che don<br />
Rodrigo ricambiò “con molto garbo”. Saputo quindi dal caporalaccio che il<br />
signore era al castello, scese da cavallo e si tolse da tracolla la carabina,<br />
consegnandola a uno del seguito, perché sapeva bene che non si poteva andare<br />
lassù con le armi; lo stesso fece il Griso, che lo doveva ac<strong>com</strong>pagnare lungo l’erta<br />
fino al castello. Quindi, dopo aver regalato alcuni scudi al capoposto, da dividere<br />
con la sua brigata, e alcune berlinghe ai propri uomini, affinché potessero<br />
nell’attesa giocare lì a carte e a denari con i loro colleghi, prese la salita di buon<br />
passo, seguito dal “fedel Griso”, che vedremo rivelarsi tutt’altro che fedele nel<br />
momento cruciale.<br />
Arrivato al castello, dovette lasciare il suo caporalaccio alla porta, perché<br />
questi erano gli ordini inviolabili di quella fortezza, in cui vigeva una dura<br />
disciplina di tipo militare.<br />
Fu fatto passare attraverso molte stanze piene di armi di ogni tipo, e finalmente,<br />
dopo breve attesa, fu introdotto dal signore,. Questi, rispondendo al suo saluto, lo<br />
squadrò tutto, osservandogli particolarmente il viso e le mani, per scoprire che<br />
intenzione avesse e se portasse armi. Faceva ciò con tutti quelli che gli si<br />
presentavano, per abitudine da lungo tempo acquisita, che ormai per lui era<br />
diventata una specie di istinto, da cui non avrebbe saputo discostarsi neppure<br />
volendolo. Infatti, essendo in urto con tutta la società, l’Innominato era costretto a<br />
guardarsi da tutti, anche dagli amici, nel timore di un tradimento. E questo esame<br />
sospettoso e inquisitorio dei suoi visitatori era ormai per lui tanto abituale, che lo<br />
faceva senza avvedersene e con tutti indistintamente: conseguenza del sospetto<br />
incessante che opprime i tiranni.<br />
I nostro Autore ci dà anche una raffigurazione fisica dell’Innominato:<br />
alto,bruno, calvo, robusto, viso rugoso, bianchi i pochi capelli rimasti; all’aspetto<br />
fisico, forse gli si dava più dei sessant’anni che aveva, ma dal suo sguardo duro e<br />
penetrante e da quelle fattezze aitanti traluceva “una forza di corpo e d’animo, che<br />
sarebbe stata straordinaria in un giovine.”<br />
Don Rodrigo gli disse subito che veniva per aiuto: non riuscendo a spuntarla<br />
in un impegno, dal quale non poteva d’altronde ritirarsi senza disonore, ricorreva<br />
all’opera di lui, che non prometteva mai invano; e disse in succinto di che si<br />
trattava. Sapendo poi che la difficoltà delle imprese era per il suo interlocutore un<br />
incentivo per assumersele, si mise a esagerare gli ostacoli che in quella si<br />
presentavano: un centro cittadino, un monastero di clausura, la protezione della<br />
Signora e il fatto che la ragazza non usciva assolutamente mai. L’Innominato non<br />
lo lasciò continuare, e accettò senz’altro di prendere l’impresa su di sé; quindi,<br />
senza entrare in particolari, congedò l’amico assicurandolo che tra pochi giorni<br />
avrebbe avuto qualche notizia in proposito. Questa sicurezza in un’impresa<br />
111
tutt’altro che facile derivava all’orgoglioso signore dal fatto che quel tale Egidio,<br />
che aveva sedotto Gertrude e intratteneva tuttora una relazione con lei, era uno dei<br />
suoi più diretti dipendenti; perciò l’Innominato, che era al corrente di tutto e<br />
conosceva il legame delittuoso che avvinceva i due, non poteva dubitare dell’esito<br />
dell’impresa, e aveva perciò così facilmente dato la sua parola.<br />
Ma non appena il visitatore se ne fu andato, subito il signore si pentì di aver<br />
fatto quella promessa, di essersi impegnato a sangue freddo in una nuova<br />
scelleratezza, mentre da un certo tempo le scelleratezze del passato gli<br />
procuravano, se non un vero e proprio rimorso, certo una scontentezza, una<br />
molestia, un fastidio mai prima provati; anzi prima, nel considerare la serie dei<br />
suoi misfatti, provava un senso di orgogliosa fierezza. Solo in giovinezza, ai primi<br />
delitti, aveva provato una certa qual ripugnanza, ma l’aveva vinta presto, al<br />
pensiero che tutti i signori <strong>com</strong>pivano violenze e prepotenze delittuose, per cui<br />
anche lui ne poteva e doveva fare, se non voleva rimanere al disotto. Si era quindi<br />
impegnato in una gara feroce di delitti con i suoi pari, e in poco tempo li aveva<br />
superati tutti, costringendoli o a ritirarsi malconci dalla lotta o a cercare la sua<br />
amicizia, sempre però da subordinati satelliti. Da allora egli era stato il primo nel<br />
male, solo innanzi a tutti, e questo primato universalmente riconosciuto era stato<br />
per lui il più ambito premio e la più grande soddisfazione della vita. Ora però<br />
quella fierezza e quella soddisfazione non la sentiva più, e si vedeva nell’arco<br />
discendente della vita; ogni tanto gli tornava in mente un molesto pensiero:<br />
invecchiare, morire; e poi?<br />
Quel Dio di cui gli avevano qualche volta parlato quand’era piccolo, e di cui<br />
in seguito non si era mai più curato, vivendo <strong>com</strong>e non esistesse né Lui né la sua<br />
legge, ora gli si faceva talora sentire nell’animo <strong>com</strong>e una potenza misteriosa ma<br />
ineluttabile, e anche la sua legge gli si presentava ora <strong>com</strong>e qualcosa di fisso e<br />
inevitabile; e gli si affacciava alla coscienza l’eventualità di doversi presentare<br />
dopo la morte davanti a un Giudice assoluto e infallibile, che lo giudicherebbe<br />
per quanto aveva fatto, indipendentemente dal cattivo esempio altrui.<br />
Del resto, se agli inizi egli poteva essere stato influenzato dall’altrui violenza, era<br />
pur vero che aveva agito sempre per propria volontà, in una feroce emulazione dei<br />
peggiori, che egli in breve aveva uguagliato e superato di molto. Ora gli si<br />
affacciava alla mente l’idea molesta di una responsabilità personale, di un giudizio<br />
personale, al quale tenga dietro necessariamente una sanzione personale per tutto<br />
il male fatto, per le sofferenze procurate, per il sangue sparso!<br />
Questi terribili pensieri che talora gli assediavano la mente, e che egli cercava<br />
sempre di <strong>com</strong>battere senza mai riuscire a sconfiggerli, gli procuravano da tempo<br />
una certa inquietudine, che lo rendeva tanto esitante e incerto, quanto prima era<br />
stato deciso e risoluto; ma per orgoglio nascondeva questa sua nuova debolezza<br />
sotto la maschera di una più cupa ferocia, di una più spietata determinazione.<br />
Aveva subito promesso a don Rodrigo di accollarsi l’impresa, proprio per<br />
impedire al suo animo ogni vacillamento e ogni ripensamento, che lo avrebbe<br />
fatto decadere da quella fama di uomo invincibile e sicuro, che si era guadagnata<br />
portando a termine con spietata sicurezza una lunga catena di delitti. Ora che don<br />
112
Rodrigo era partito, sentiva di nuovo quell’uggia del passato e quell’esitazione per<br />
il presente, che gli davano <strong>com</strong>e una smania insopportabile; per precludersi ogni<br />
adito al ripensamento, fece chiamare immediatamente il Nibbio, il capo dei suoi<br />
bravi, e lo mandò da Egidio a Monza, per ordinargli che cosa doveva fare. Lo<br />
scellerato giovane, basandosi sulla collaborazione di Gertrude, rispose che la cosa<br />
era facile: mandasse per il tale giorno una carrozza con due o tre bravi ben<br />
travestiti, ché lui penserebbe al resto. Per lui era scontata l’adesione della Signora<br />
al piano delittuoso.<br />
Quando Egidio chiese a Gertrude di sacrificare Lucia, ella ne provò orrore e<br />
cercò di esimersi, perché contribuire alla rovina della ragazza, alla quale si era in<br />
certo modo affezionata, le appariva davvero enorme e insopportabile; ma alla fine<br />
non poté sottrarsi alla ferrea schiavitù del vizio, poiché non aveva la forza di<br />
ribellarsi del tutto, spezzando quelle catene del peccato e del delitto, le quali<br />
ormai la tenevano prigioniera. A questo proposito il Manzoni fa un’acuta<br />
osservazione psicologica: <strong>“I</strong>l delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui<br />
non divien forte se non chi se ne ribella interamente.” Gertrude non seppe o non<br />
volle rompere definitivamente col suo tirannico amante, temendo forse le<br />
conseguenze di una simile ribellione, e dovette perciò obbedire alla dura<br />
imposizione.<br />
Si avvicinava l’ora stabilita per il proditorio rapimento di Lucia; Gertrude,<br />
chiamatala nel proprio parlatorio, le faceva più carezze del solito, <strong>com</strong>e il pastore<br />
accarezza l’agnella mentre, belante e tremante, la conduce fuori dell’ovile per<br />
consegnarla al macellaio. L’ingenua ragazza accettava con gratitudine e<br />
ricambiava quelle carezze “con tenerezza crescente”, appunto <strong>com</strong>e l’agnella,<br />
avviata al macello, si volta ignara a leccare la mano dell’interessato pastore. Dopo<br />
le carezze, la Signora chiese a Lucia di farle un piacere: andare al convento dei<br />
cappuccini per avvertire il Guardiano che doveva parlargli. La poverina, a simile<br />
richiesta, rimase <strong>com</strong>e sbigottita, e per quanto provasse verso la Signora una<br />
grande soggezione, non esitò a esprimere la sua ripugnanza: sola, senza la madre,<br />
per una strada solitaria e quasi sconosciuta… Ma l’altra, “ammaestrata a una scola<br />
infernale”, si mostrò molto meravigliata, e quasi offesa, che non volesse farle<br />
questo piccolo favore, mentre lei gliene faceva di ben più grandi: e poi, di che si<br />
trattava? quattro passi, di pieno giorno, per una strada percorsa pochi giorni<br />
prima; un percorso tanto semplice, che non si poteva addirittura sbagliare!<br />
A queste parole Lucia, mortificata e sconvolta, disse che sarebbe andata: se<br />
però la fattoressa, vedendola uscire per la prima volta, le chiedeva dove andasse,<br />
che cosa doveva rispondere? La Signora le suggerì una bugia, e ciò accrebbe il<br />
turbamento della poverina, che si avviò rassegnata: “e bene; anderò. Dio m’aiuti!”<br />
Ma quando Lucia, tutta sbalordita, stava uscendo dalla stanza, la Signora, che “la<br />
seguiva con l’occhio fisso e torbido”, improvvisamente la richiamò, <strong>com</strong>e<br />
sopraffatta dal pensiero di quel nero tradimento. Ma quando la ragazza fu tornata<br />
davanti alla grata per sentire che cosa volesse, già quel pensiero era stato cacciato<br />
dall’animo di Gertrude da un altro pensiero, “un pensiero avvezzo a predominare”<br />
per mezzo della passione peccaminosa che aveva soggiogato e reso schiavo<br />
113
l’animo della sciagurata. Fingendo allora di non essere contenta delle istruzioni<br />
datele, gliele ripeté, ricordandole la strada da seguire; quindi la congedò di<br />
nuovo, senza più ripensamenti.<br />
Vedendo Lucia costretta in tal modo, con vera violenza morale, a uscire dal<br />
monastero per cadere nell’agguato preparato contro di lei, ci viene in mente l’altro<br />
caso di violenza morale, quando la poverina fu indotta al matrimonio clandestino.<br />
Là Renzo con le sue escandescenze, con le sue terribili minacce, che forse<br />
coscientemente accentuò, costrinse la fidanzata a fare ciò che la sua coscienza non<br />
poteva approvare; qua la tiranna della volontà di Lucia adopera non le minacce,<br />
ma prima le carezze, quindi la meravigliata incredulità di trovare<br />
dell’ingratitudine in colei che aveva tanto beneficato e in cui confidava. Nell’uno<br />
e nell’altro caso la poverina cede per evitare il peggio: a Renzo, perché non<br />
credesse che non l’amava abbastanza, e non <strong>com</strong>mettesse per rabbia qualche atto<br />
inconsulto; a Gertrude, per mostrarle la sua gratitudine, di cui lei aveva dubitato.<br />
Nell’una e nell’altra occasione il suo cedimento è ac<strong>com</strong>pagnato da tanta<br />
sofferenza morale, ma anche da un accorato abbandono nelle mani di Dio, Padre<br />
misericordioso. Ella è convinta di non agire bene, e prevede che ciò che fa non<br />
potrà andare a buon fine; e infatti le conseguenze sono in ambedue i casi tristi: là<br />
il matrimonio fallisce, qua ella cade nella trappola e viene rapita. Ma proprio per<br />
la sua profonda sofferenza e per la sua grande fiducia, il Signore non l’abbandona,<br />
ma la salva, traendo il bene dal male, <strong>com</strong>e sa far solo Lui.<br />
Nel primo caso infatti ella sfugge, proprio a causa del matrimonio clandestino, al<br />
rapimento organizzato da don Rodrigo; nel secondo caso ella cade tra le grinfie<br />
dei bravi dell’Innominato, ma con le sue angosciate parole, col suo pianto, con le<br />
sue accorate preghiere turba prima il Nibbio e poi lo stesso signore, portando a<br />
soluzione positiva la crisi spirituale che lo travagliava da tempo. Per mezzo delle<br />
semplici ma toccanti parole della prigioniera, l’animo dell’Innominato si apre alla<br />
speranza, e passa dalla fosca disperazione notturna alla consolante fiducia nel<br />
perdono divino. La sofferenza di Lucia è quindi strumento di salvezza.<br />
Ma torniamo al racconto. La ragazza, uscendo dal convento, per fortuna non<br />
fu vista dalla fattoressa, e così non si trovò nell’impaccio di dover dire una bugia,<br />
che le ripugnava grandemente, e “tutta raccolta e un po’ tremante” si avviò per la<br />
strada indicatale. Uscita dalla porta del borgo, dovette farsi coraggio per inoltrarsi<br />
in una strada solitaria, poiché, dopo quel primo incontro con don Rodrigo, le<br />
strade le facevano paura, e questo sentimento era andato via via crescendo per le<br />
dolorose vicende che le erano accadute. Ma vedendo, nella strada che conduceva<br />
al convento, una carrozza ferma e due viaggiatori a terra, che sembravano incerti<br />
della via, si sentì alquanto rincorata e procedette più speditamente e meno<br />
preoccupata.<br />
Quando fu nei pressi della carrozza, uno dei due viaggiatori le chiese<br />
cortesemente qual era la strada per Monza; mentre Lucia si voltava per indicarla,<br />
l’altro la prese istantaneamente per la vita e la cacciò nella carrozza, sebbene lei<br />
gridando cercasse di divincolarsi; una volta dentro un altro tristo la inchiodò nel<br />
fondo del sedile, davanti a sé, mentre un terzo con un fazzoletto le tappò la bocca.<br />
114
Il Nibbio, colui che l’aveva presa a tradimento, entrò subito anche lui in carrozza<br />
e chiuse in fretta lo sportello, mentre il cocchiere faceva partire i cavalli di gran<br />
carriera. Colui che “aveva fatta quella domanda traditora” a Lucia era un bravo di<br />
Egidio, il quale rimase un momento sul posto per accertarsi che nessuno avesse<br />
udito le grida; visto tutto calmo, sparì in un baleno anche lui, prendendo per i<br />
campi.<br />
Non mi proverò a descrivere lo stato d’animo della povera ragazza,<br />
sopraffatta dal terrore e dall’angoscia: ella intuiva confusamente la motivazione<br />
del suo rapimento, e ne inorridiva e tremava nelle più intime fibre del suo essere.<br />
Ribellandosi con tutte le forze a quella violenza cercava di divincolarsi per<br />
raggiungere lo sportello, ma delle braccia nerborute la ricacciavano indietro,<br />
mentre il fazzoletto le soffocava in gola il grido. Dopo ripetuti tentativi di liberarsi<br />
da quella morsa, si sentì mancare le forze, sbiancò in viso e svenne, facendo<br />
preoccupare alquanto quei manigoldi, perché sembrava proprio che fosse morta.<br />
Stavano intanto entrando in un bosco, solitamente infestato dai banditi, per cui il<br />
Nibbio ordinò di prendere dalla cassetta i tromboni e di tenerli pronti, ma dietro la<br />
schiena, per non spaventare la ragazza, una volta che fosse rinvenuta; <strong>com</strong>andò<br />
inoltre di non toccarla se non dietro suo ordine, perché a custodirla bastava lui; e<br />
lasciassero parlare lui solo.<br />
Quando la poverina si riebbe, penò alquanto a rendersi conto della sua terribile<br />
situazione; ma non appena ne fu pienamente consapevole, subito cercò, con una<br />
stratta, di gettarsi allo sportello; ma il Nibbio, che stava all’erta, l’afferrò<br />
immediatamente e la costrinse di nuovo a sedersi, minacciando di imbavagliarla<br />
col fazzoletto, se non la smetteva di gridare. Quindi, con la voce più dolce che<br />
poté, cercò di calmarla, assicurandola che essi non volevano farle alcun male, per<br />
cui doveva stare tranquilla. Lucia allora, con le lagrime agli occhi e con voce<br />
accorata, li supplicò di lasciarla andare, per l’amore di Dio e della Madonna: che<br />
cosa aveva loro fatto di male? perché la facevano soffrire così? se avevano una<br />
madre, una moglie, una figlia, pensassero a quello che esse patirebbero trovandosi<br />
in quello stato! Lei perdonava loro di cuore tutto quello che le avevano fatto, ma<br />
la lasciassero andare subito, anche in quel luogo sconosciuto: il Signore le<br />
avrebbe fatto ritrovare la sua strada. Vedendo che non davano retta, insisteva<br />
piangendo a scongiurarli con parole semplici ma toccanti: “Ricordatevi che<br />
dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia.”<br />
Ma sic<strong>com</strong>e quelli non sembravano affatto toccati dalle sue parole, Lucia si<br />
rivolse “a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini”, e incrociate le mani sul<br />
petto, si mise a pregare con molto fervore; quindi, presa la corona che portava<br />
sempre con sé, <strong>com</strong>inciò a recitare mentalmente il santo rosario con tutta la<br />
concentrazione di cui era capace. Ogni tanto interrompeva la preghiera per tornare<br />
a supplicare quegli uomini; ma vedendo che era sempre inutile, riprendeva con<br />
maggiore accoramento il suo rosario, tutta rannicchiata nell’angolo del sedile.<br />
Intanto nel castello l’Innominato attendeva l’esito della spedizione con una<br />
strana inquietudine: non dubitava affatto della sua riuscita, ché anzi poche imprese<br />
erano state altrettanto sicure; eppure sentiva crescere in cuore quel turbamento,<br />
115
quella specie di malessere che aveva provato subito dopo essersi impegnato con<br />
don Rodrigo. A questo punto possiamo fare un utile confronto tra l’Innominato, in<br />
attesa della carrozza, e don Rodrigo quando, nel suo palazzotto, attendeva da un<br />
momento all’altro l’arrivo della bussola con dentro la fanciulla, che il Griso era<br />
stato incaricato di rapire. Don Rodrigo allora si preoccupava solo dell’esito<br />
materiale dell’impresa, e si consolava pensando alle lusinghe che avrebbe usato<br />
per ridurre Lucia alle sue voglie, e già pregustava il piacere del soddisfacimento<br />
del suo turpe capriccio; l’Innominato invece è sicuro dell’esito felice del ratto, ma<br />
non ne prova alcuna soddisfazione, bensì un turbamento molesto, una<br />
preoccupazione quasi angosciosa.<br />
Quando vide, giù in fondo valle, <strong>com</strong>parire la carrozza, sentì <strong>com</strong>e un tuffo al<br />
cuore, e non resistendo più in quella sospensione tormentosa, decise di mandare<br />
uno dei suoi sgherri a ordinare al Nibbio di portare direttamente la ragazza da don<br />
Rodrigo. Mentre però stava per dare quell’ordine, sentì <strong>com</strong>e un “no imperioso”<br />
risonare nella sua mente; ma dovendo pur fare qualche cosa, per liberarsi<br />
dall’angoscia che l’attanagliava, fece chiamare una vecchia serva e le ordinò di<br />
scendere alla Malanotte con una bussola per rilevare la giovane che era nella<br />
carrozza, che avrebbe poi condotta in camera sua, dove ella avrebbe pernottato. Le<br />
<strong>com</strong>andò di non rivelare alla ragazza dove fosse né di chi era il castello, ma per il<br />
resto di accontentarla e di farle coraggio. La vecchia trasalì a quest’ordine,<br />
piuttosto insolito su quella bocca, e chiese che cosa doveva dire per far coraggio<br />
alla prigioniera. Il signore a questa domanda s’infuriò: “Hai tu mai sentito affanno<br />
di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in quei<br />
momenti? Dille quelle parole: trovale, alla malora. Va’.”<br />
La vecchia era nata nel castello, da un custode di esso, ed era cresciuta nella<br />
venerazione dei padroni, che per lei erano <strong>com</strong>e divinità in terra, e il castello era<br />
tutto il suo mondo. Allorché l’Innominato, divenuto padrone assoluto, <strong>com</strong>inciò a<br />
instaurare all’intorno una tirannide feroce e sanguinaria, ella ne provò “un<br />
sentimento più profondo di sommissione.” Fattasi ragazza da marito, aveva<br />
sposato un servitore della casa, il quale però non tornò più da una certa<br />
spedizione. La pronta e spietata vendetta che ne fece il signore accrebbe la sua<br />
totale sottomissione al potente padrone, che per lei era tutto. Rimasta vedova,<br />
aveva dovuto accudire agli sgherri, <strong>com</strong>pagni del suo morto marito; ma fattasi<br />
vecchia, era diventata un po’ lo zimbello di quei manigoldi, che usualmente la<br />
chiamavano “vecchia”, ma a questa parola aggiungevano sempre qualche epiteto<br />
di beffa e di scherno. Ma la donna, il cui animo si era depravato e indurito sempre<br />
più vivendo per tutta la vita in quell’ambiente sinistro, non si teneva affatto<br />
quegl’insulti, ma rispondeva pronta con altri improperi “in cui Satana avrebbe<br />
riconosciuto più del suo ingegno” che nelle parole degli insultatori. Non è da<br />
meravigliarsi che una donna simile si stupisse dell’ordine di far coraggio a una<br />
prigioniera, a meno che non fosse una principessa, e non sapesse in effetti <strong>com</strong>e<br />
doveva fare, quali parole usare per rincuorare una creatura. In quel castello ella<br />
aveva dovuto cucire, rattoppare, cucinare, ripulire, rigovernare, spazzare, medicar<br />
ferite, brontolare, sentire a dire parolacce; ma non le era mai capitato di dover<br />
116
consolare una persona dicendo qualche parola gentile e buona, e il suo cuore si era<br />
inacidito in quella vita vissuta, sin quasi dall’infanzia, senza alcuna luce spirituale,<br />
senza alcun barlume di carità. Tanto l’ambiente può depravare l’animo umano,<br />
fatto per intendere e amare!<br />
Comunque, di parole di consolazione, aveva allora bisogno non tanto Lucia,<br />
che aveva la sua Fede, quanto l’Innominato, il cui animo era attanagliato ormai<br />
dal rimorso, e non più soltanto dall’inquietudine e dalla sospensione penosa. E<br />
mentre la vecchia correva a eseguire i suoi ordini, lui per dominare l’impazienza<br />
tormentosa camminava nervosamente su e giù per la stanza, dove attendeva il<br />
Nibbio che doveva fargli la relazione dell’impresa.<br />
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CAPITOLO XXI<br />
La vecchia giunse con la bussola alla Malanotte un po’ prima della carrozza la<br />
quale ormai, per la stanchezza dei cavalli, procedeva piuttosto lenta e, per lo stato<br />
d’animo dell’Innominato, addirittura “col passo della morte”; ordinò al Nibbio di<br />
trasferire nella bussola la prigioniera, che lei stessa invitò, con la miglior voce che<br />
poté, a scendere dalla carrozza e a seguirla, aggiungendo che aveva ordine di<br />
trattarla bene e di farle coraggio. Se non ci trovassimo davanti al doloroso calvario<br />
di Lucia, ci verrebbe davvero da ridere dinanzi alla rozzezza di questa donna la<br />
quale, per confortare la poveretta, non sa dire altro se non che ha ricevuto ordini<br />
di farle coraggio. Essa si preoccupa soltanto dell’ordine ricevuto, perché teme<br />
l’ira del padrone, e non fa che ripetere alla sconsolata giovane: “Glielo direte, eh?,<br />
che v’ho fatto coraggio?” E in seguito, per precostituirsi <strong>com</strong>e un alibi, continuerà<br />
ad ammonirla: ricordatevi che vi ho fatto coraggio… ricordatevi che vi ho invitato<br />
più volte a mangiare… ricordatevi che vi ho esortato ripetutamente a venire a<br />
letto… L’unica preoccupazione della sciagurata non era nei riguardi della<br />
poverina, il cui penare non la toccava affatto, perché non lo <strong>com</strong>prendeva, ma<br />
verso il padrone, che non avesse a rimproverarla o peggio. Ma non era colpa sua!<br />
Lucia, al fermarsi della carrozza, si riscosse <strong>com</strong>e da un tormentoso torpore, e<br />
alle parole della vecchia sconosciuta, temendo ormai ogni cosa nuova, provò uno<br />
spavento più cupo, per cui non mostrava nessuna intenzione di lasciare la<br />
carrozza; sicché dovettero prenderla e metterla di peso nella bussola. La vecchia<br />
vi entrò subito dopo, e i lettighieri avviarono le mule su per la salita. La ragazza<br />
allora, piena d’angoscia, chiese alla donna dove la conducesse; al che quel “ceffo<br />
sconosciuto e deforme”, cercando di fare la voce dolce e suadente, rispose che la<br />
portava da uno che voleva farle del bene, tanto che le aveva <strong>com</strong>andato di farle<br />
coraggio… Ma la poverina, più spaventata che mai, scongiurò la donna di<br />
lasciarla andare, di ac<strong>com</strong>pagnarla in qualche chiesa, in nome della Vergine<br />
Maria… Questo nome soave, non sentito e non invocato ormai da tanto tempo,<br />
fece nella mente della vecchia un’impressione indistinta, suscitando un vago e<br />
lontano ricordo, “<strong>com</strong>e la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da<br />
bambino”; e la similitudine, di icastica evidenza, rende appieno la pena per quella<br />
cecità spirituale.<br />
Intanto il Nibbio, raggiunto a piedi il castello, fece la sua relazione nello stile<br />
laconico a cui erano stati avvezzati dal padrone, il quale aveva organizzato il<br />
castello <strong>com</strong>e una fortezza e addestrato i suoi uomini <strong>com</strong>e dei veri soldati.<br />
L’impresa era riuscita perfettamente: “l’avviso a tempo, la donna a tempo,<br />
nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno <strong>com</strong>parso, il cocchiere pronto, i cavalli<br />
bravi, nessun incontro: ma…” Tutto era andato dunque nel modo migliore, però<br />
c’era un “ma” veramente inaspettato, un inconveniente del tutto insolito in simili<br />
imprese: quella povera ragazza aveva fatto al Nibbio, cuore certo non tenero, tanta<br />
<strong>com</strong>passione, che avrebbe cento volte preferito che l’ordine fosse stato piuttosto<br />
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“di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in<br />
viso.” E aggiunse, l’intrepido luogotenente, che la <strong>com</strong>passione è un po’ <strong>com</strong>e la<br />
paura: guai a lasciarla entrare nel cuore! uno non è più un uomo! L’Innominato,<br />
sbalordito nel sentir parlare così quell’uomo solitamente così duro e deciso, gli<br />
chiese cosa mai avesse fatto colei per muoverlo a pietà. Saputo che per tutta la<br />
strada, che era durata più di quattr’ore, la poverina non aveva fatto altro che<br />
piangere e pregare, poi svenire <strong>com</strong>e morta, quindi di nuovo supplicare e dire<br />
certe parole da <strong>com</strong>muovere il cuore più duro, il signore pensò che la migliore<br />
cosa da fare era di sbarazzarsi subito di questa strana ragazza, che aveva fatto<br />
<strong>com</strong>passione al Nibbio, e ordinò a costui di montare immediatamente a cavallo<br />
per andare ad avvertire don Rodrigo che mandasse a prendere la donna, ma subito<br />
subito, ché altrimenti… Ma improvvisamente un “no interno più imperioso del<br />
primo” gli fece annullare l’ordine, per cui <strong>com</strong>andò al suo luogotenente di<br />
andarsene invece a riposare: l’indomani avrebbe saputo il da farsi.<br />
Fermiamoci un istante a considerare la figura del Nibbio, confrontandola con<br />
quella del Griso, suo collega, per così dire. Esprimendoci matematicamente, con<br />
una proporzione potremmo dire che il Nibbio sta al Griso <strong>com</strong>e l’Innominato sta a<br />
don Rodrigo: il Griso infatti è vile <strong>com</strong>e il suo padrone, e alla fine si rivelerà, lui,<br />
il fedelissimo, un abbietto traditore, e farà la fine che si merita; il Nibbio invece è,<br />
nel fondo dell’animo, generoso e magnanimo, proprio <strong>com</strong>e il suo signore; ha<br />
ancora, sotto la dura scorza del masnadiero, un cuore umano, che palpita e si<br />
<strong>com</strong>muove. Per quanto il Manzoni non parli più di lui dopo questo episodio,<br />
possiamo essere certi che il Nibbio, uomo franco e servitore fedele, rimarrà vicino<br />
al suo padrone anche nella conversione, inizio di una nuova vita, fatta di<br />
riparazione e di opere benefiche.<br />
Quando l’Innominato restò solo, dopo aver congedato il suo luogotenente,<br />
rimase lì a ripensare alla strana <strong>com</strong>passione di lui, e sempre più ne rimaneva<br />
stupito; per cui, ad evitare di essere contagiato, ribadì in cuor suo il proposito di<br />
mandare senz’altro al suo destino la ragazza, l’indomani mattina. Ma dal fondo<br />
del suo animo sorgeva e si faceva sentire sempre più vivo il desiderio di vederla,<br />
di sentire le sue parole; non era curiosità, ma <strong>com</strong>e uno strano bisogno, una specie<br />
d’attrazione inspiegabile, misteriosa quanto potente. Dopo aver resistito alquanto,<br />
dovette cedere a questo nuovo impulso, e s’avviò verso la camera della vecchia,<br />
dove Lucia era stata condotta; era convinto che non avrebbe dovuto farlo, eppure<br />
ci andava!<br />
Picchia con un calcio, facendo accorrere ad aprire la vecchia, che ne ha<br />
riconosciuto la voce; entrato, volge imperioso lo sguardo in giro e, alla fioca luce<br />
della lucerna, scorge la povera ragazza tutta raggomitolata sul pavimento,<br />
nell’angolo della stanza più buio e più lontano dalla porta. Subito ne prova un<br />
senso di <strong>com</strong>passione: a lui non aveva fatto niente di male, eppure la faceva<br />
soffrire così! Dopo aver rimproverato la serva per averla gettata là a terra <strong>com</strong>e<br />
uno straccio, si avvicinò a Lucia e le disse di alzarsi, una e due volete senza che la<br />
poverina si movesse; per cui, sdegnato per aver <strong>com</strong>andato invano, le gridò di<br />
mettersi in piedi con tono iracondo, tale da non ammettere né ripulsa né indugio.<br />
119
Allora l’infelicissima, prendendo per così dire vigore dal suo stesso spavento, si<br />
sgroppò ma, senza alzarsi, si inginocchiò davanti a lui dicendo: “Son qui:<br />
m’ammazzi.” Il signore, con voce tutt’un tratto raddolcita davanti a “quel viso<br />
turbato dall’accoramento e dal terrore”, disse che non voleva farle alcun male, con<br />
un tono quasi di scusa, che fece trasecolar la vecchia. Allora la ragazza, con<br />
accento disperato di rimprovero, gli domandò: “Perché mi fa patire le pene<br />
dell’inferno? Cosa le ho fatto io?”E vedendo una certa esitazione nel<br />
<strong>com</strong>portamento del signore, e la <strong>com</strong>passione interna trasparire pur dai duri<br />
lineamenti del suo volto, aggiunse con tono smorzato: “Sono una povera creatura:<br />
cosa le ho fatto? In nome di Dio…”<br />
A quel nome l’Innominato reagì, <strong>com</strong>e se fosse stato schiaffeggiato, perché<br />
appunto quel Dio lo perseguitava da tempo con la sua grazia, non dandogli più<br />
pace, mentre lui non voleva cedere, non voleva arrendersi, per non perdere la<br />
faccia davanti al mondo: pretendeva forse, con quel nome, di fargli paura? Ma la<br />
povera ragazza rispose con umile semplicità: “cosa posso pretendere io meschina,<br />
se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di<br />
misericordia!... Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia<br />
vita…” A queste parole <strong>com</strong>moventi il signore appariva esitante, per cui Lucia<br />
insistette con maggiore accoramento: “Non iscacci una buona ispirazione!... Se lei<br />
non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita;<br />
ma lei!... Forse un giorno anche lei… Ma no, no; pregherò sempre io il Signore<br />
che la preservi da ogni male… Se provasse lei a patir queste pene…”<br />
L’Innominato era turbato, tocco da quelle parole inaudite nelle più intime fibre<br />
dell’animo; la sua <strong>com</strong>mozione trasparì dal tono della voce con cui cercò di far<br />
coraggio alla ragazza, ripetendo che non intendeva farle alcun male, e che sarebbe<br />
tornato da lei l’indomani; intanto le avrebbero portato da mangiare, ché doveva<br />
averne molto bisogno…” No, no – disse precipitosamente Lucia – io muoio se<br />
alcuno entra qui; io muoio. Mi conduca lei in chiesa… quei passi Dio glieli<br />
conterà.”<br />
Non possiamo non notare, a questo punto, la fiducia che ormai la derelitta<br />
fanciulla nutre in colui che pur l’ha fatta rapire, per via d’inganno e di violenza;<br />
ella, che diffida di tutto e di tutti, tanto che non vuole neppure che qualcuno venga<br />
a portar da mangiare, si mostra disposta ad andare col signore, e lo prega<br />
addirittura di ac<strong>com</strong>pagnarla in una chiesa, <strong>com</strong>e potrebbe fare un padre con la<br />
figliola. Lucia, quest’anima pura e sensibile, questa prediletta della grazia divina,<br />
ha intuito che il Signore ha ormai conquistato l’animo del suo rapitore, il quale<br />
non le potrebbe più fare alcun male. E’ proprio il caso di ripetere: “beati i puri di<br />
cuore, poiché vedranno Dio!” Lucia già vede in Dio la futura conversione<br />
dell’uomo che l’ha in suo potere, e non ne dubita minimamente; e possiamo<br />
aggiungere che lei stessa è lo strumento, non del tutto inconsapevole, di questa<br />
mirabile mutazione interiore.<br />
Comunque l’Innominato, sentendo che ormai il suo cuore vacilla, e<br />
vergognandosi di dover cedere all’impeto della <strong>com</strong>mozione, si affretta ad<br />
andarsene; dopo aver assicurato, per dissipare il sospetto della fanciulla, che<br />
120
sarebbe venuta “una donna” a portar da mangiare, fugge quasi dalla presenza di<br />
lei, che tenta invano di trattenerlo. La poveretta, vedendo svanire la speranza di<br />
essere liberata dal potente signore, ripiombò nel più cupo abbattimento, e tornò a<br />
rincantucciarsi nel suo angolo buio. Poco dopo venne Marta, una cuoca del<br />
castello, a portare una paniera colma di cibo: delle pietanze scelte, ac<strong>com</strong>pagnate<br />
da una bottiglia di vino generoso. La vecchia si mise a decantare la squisitezza<br />
delle vivande, per indurre la prigioniera ad assaggiarne almeno, ma questa aveva<br />
altra voglia che di mangiare; si mosse solo per assicurarsi che la porta fosse ben<br />
chiusa, quindi tornò nel suo cantuccio piangendo sommessamente. La vecchia<br />
mangiò allora lei, e con grande voluttà, di quei cibi prelibati; quindi dopo aver<br />
invitato invano la ragazza ad andare a letto, invece di stare raggomitolata lì a terra,<br />
ci si coricò lei, assicurando che c’era posto sufficiente per tutt’e due, e dopo pochi<br />
minuti già russava con un rumore soffocato, <strong>com</strong>e di rantolo, che risonava<br />
sinistramente nel pauroso silenzio notturno.<br />
Lucia, raggomitolata nell’angolo, mortalmente stanca e sfiduciata, cadde a<br />
poco a poco in una specie di dormiveglia, punteggiato da incubi e da fantasmi<br />
spaventosi. Infine, quasi senza accorgersene, cadde sdraiata sul pavimento, vinta<br />
da un torpore più profondo. Ma ben presto si riscosse da quella specie di letargo, e<br />
penò alquanto a riconoscere il luogo dove si trovava, debolmente rischiarato, a<br />
guizzi, dalla lucerna che andava spegnendosi: il silenzio che dominava nella tetra<br />
prigione, era rotto solo dal respirare lento e arrantolato della vecchia, che aveva<br />
qualcosa di lugubre e di sinistro. Quell’atmosfera di quiete sospesa e paurosa,<br />
l’abbandono stesso in cui era lasciata, le incussero un più forte e indefinito<br />
spavento, tanto che desiderò di morire. Ma ben presto si riebbe da quello<br />
sconsolato abbattimento, pensando a Dio e alla Madonna, che non potevano<br />
averla abbandonata: il Signore e la Vergine Santa sapevano che lei era lì<br />
prigioniera e bisognosa di aiuto; alquanto riconfortata, cercò la corona e riprese la<br />
recita del rosario con più fervore del solito. A poco a poco la fiducia e la speranza<br />
le rifiorirono nell’animo; ma a un tratto pensò che poteva rendere la sua preghiera<br />
più accetta a Dio per mezzo di un sacrificio; e avendo alquanto riflettuto su ciò<br />
che potesse offrire di più caro, decise di far sacrificio a Dio del suo amore per<br />
Renzo, rinunciando per sempre a diventare sua moglie, col voto di verginità<br />
perpetua. E senza indugio, messasi in ginocchio, si rivolse con fervida preghiera<br />
alla Madre Celeste, facendo a Lei offerta del suo amore, rinunciando per sempre a<br />
“quel suo poveretto”, per esser da quel momento in poi tutta della Madonna.<br />
Pronunciate le parole del voto, si mise intorno al collo la corona, “<strong>com</strong>e<br />
un‘armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta”, la milizia mistica e gloriosa<br />
delle vergini. Rimessasi quindi a sedere sul pavimento, si sentì il cuore inondato<br />
da un nuovo senso di conforto, da una più forte fiducia nell’aiuto celeste: aveva<br />
offerto a Dio ciò che aveva di più prezioso, ed Egli non poteva abbandonarla in<br />
quel pericolo, in cui era caduta non per sua imprudenza, ma per l’altrui perfidia. E<br />
acquietandosele l’animo, anche il corpo riuscì finalmente ad assopirsi in un sonno<br />
vero e proprio, non più turbato da incubi paurosi. Ma torniamo all’Innominato.<br />
121
Uscito, o meglio fuggito dalla presenza di Lucia, diede ordine di recare alla<br />
prigioniera, probabilmente, quel pasto che era stato preparato per lui, non avendo<br />
affatto voglia di mangiare, sottosopra <strong>com</strong>’era nell’animo; ispezionati quindi,<br />
<strong>com</strong>e di consueto, i vari posti di guardia del castello, si ritirò nella sua camera,<br />
chiudendosi a chiave in gran fetta, <strong>com</strong>e se qualcuno lo inseguisse. Chi lo<br />
inseguiva non era altro che la grazia di Dio, contro la quale non servono le porte e<br />
le serrature. Si cacciò subito sotto le coperte, pur sapendo che non facilmente<br />
avrebbe chiuso occhio quella notte, tanto si sentiva sconvolto. Cominciò col<br />
rimproverarsi di aver voluto vedere quella fanciulla, <strong>com</strong>e se ciò fosse dipeso<br />
soltanto da una sua sciocca curiosità, e non piuttosto da un impulso prepotente<br />
dello spirito; cercò, minimizzando quanto gli stava succedendo, di riprendere il<br />
suo animo antico, la sicurezza imperturbata di un tempo: tante altre volte – diceva<br />
tra sé per rianimarsi – aveva sentito strillare o belare delle donne, capitate per loro<br />
sfortuna tra le sue grinfie, e le loro lagrime supplichevoli non l’avevano punto<br />
smosso dai suoi biechi propositi di violenza o di vendetta; questa che provava ora,<br />
era certamente una debolezza passeggera, che sarebbe svanita con le tenebre della<br />
notte. Cercava di farsi coraggio ripensando a tutte quelle imprese in cui aveva<br />
vinto i suoi nemici, rimanendo sordo alle preghiere e ai lamenti; ma otteneva<br />
l’effetto contrario: quelle azioni spietate, già suo vanto, ora gli apparivano odiose;<br />
provava, nel passarle in rassegna, non orgoglio e fierezza <strong>com</strong>e una volta, ma<br />
“una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento.” Allora pensava, con<br />
un senso di sollievo, che poteva almeno, se non cancellare le passate nefandezze,<br />
interrompere e riparare quella presente, liberare la fanciulla, chiederle perdono, sì,<br />
chiederle proprio perdono, se questo poteva servire a fargli trovare un po’ di pace,<br />
un qualche refrigerio. Ma poi si pentiva del suo pentimento, che gli appariva <strong>com</strong>e<br />
una vergognosa debolezza, e cercava di recalcitrare ancora, di non farsi sopraffare<br />
dalla “diavoleria” che aveva addosso; si mise perciò a pensare alle imprese che lo<br />
attendevano, a quelle che aveva già avviate ma non <strong>com</strong>piute, e si sforzava di<br />
concentrarsi in esse, studiando minutamente i relativi piani di azione, cosa che in<br />
altri tempi soleva occuparlo tutto, facendogli dimenticare ogni altro pensiero.<br />
Ma con terrore si accorse che quelle imprese non avevano per lui nessuna<br />
attrattiva, che non gl’importava più minimamente di condurle a termine, che la<br />
vittoria e l’affermazione della sua potenza ora non avevano per lui nessuna<br />
importanza. Passando in rassegna i suoi bravi, gli sembrava che non avesse più<br />
nulla da <strong>com</strong>andare a nessuno di loro; anzi il doverli rivedere, l’indomani, quegli<br />
spietati ministri dei suoi misfatti, gli dava già un senso di fastidio, quasi di nausea.<br />
E pensava al tempo futuro, al domani, al dopodomani, all’altro giorno ancora…<br />
tutto il tempo uguale, opprimente… senza aver nulla da fare, nulla da <strong>com</strong>andare,<br />
nulla di nuovo da aspettare se non la morte, e con il ricordo tormentoso dei suoi<br />
delitti… E poi la notte, che puntualmente sarebbe tornata dopo la breve luce,<br />
<strong>com</strong>e passarla, <strong>com</strong>e poter dormire con quegl’incubi paurosi, con quei fantasmi<br />
che non gli davano requie? L’idea di un’altra notte, simile a quella che stava<br />
passando, già lo terrorizzava. Riesaminava la propria vita, cercando di trovare<br />
qualche valore a cui appigliarsi, rievocava le sue imprese, i suoi misfatti, per<br />
122
trovarvi una motivazione; ma essi gli <strong>com</strong>parivano davanti <strong>com</strong>e qualcosa di<br />
enormemente irragionevole, di veramente mostruoso. Spogli dello stato d’animo,<br />
d’ira o d’odio o di vendetta o d’emulazione feroce, che li aveva provocati e<br />
ac<strong>com</strong>pagnati, essi gli apparivano ora brutti., inconcepibili, efferati; eppure lui li<br />
aveva voluti, preparati con fredda meticolosità, eseguiti con feroce<br />
determinazione; aveva goduto della loro riuscita,… erano suoi, erano lui!... non si<br />
sarebbe mai più liberato da quelle tormentose memorie, se non con la morte.<br />
Egli - lo sentiva – non si sarebbe mai più liberato di quel canchero che lo<br />
rodeva dentro, di quel morso lancinante e ormai irresistibile, perché il suo stesso<br />
pensiero, quasi fosse un altro io sorto a condannare l’antico, frugava sempre più<br />
spietatamente in quell’odioso passato. L’orrore che provava di quella sua vita,<br />
piena solo di delitti, crebbe sino ai limiti della sopportazione umana, sino alla più<br />
nera disperazione; non ne poteva più, e decise di farla finita. Prese in furia la<br />
pistola che teneva accanto al letto, armò convulsamente il cane e si appoggiò alla<br />
fronte la canna per farsi saltar le cervella. Ma sul momento di premere il grilletto,<br />
ebbe un sussulto, un attimo di indecisione, e abbassò l’arma; pensò, in un<br />
momento di lucidità mentale, a ciò che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, nel<br />
tempo che pure continuerebbe a scorrere, anche senza di lui. Immaginò il suo<br />
corpo esanime in balia di chi sa chi, la confusione, la baraonda nel castello<br />
all’incredibile notizia, pensò alle reazioni, ai <strong>com</strong>menti dei suoi amici e dei suoi<br />
nemici, a ciò che avrebbero pensato di lui i suoi stessi sudditi. La morte, in mezzo<br />
a quelle tenebre silenziose e nella più assoluta solitudine, gli appariva squallida e<br />
spaventosa… non avrebbe esitato a suicidarsi – ne era sicuro – se si fosse trovato<br />
alla luce del giorno, davanti alla gente… ma stando solo, nel buio, la morte gli<br />
faceva un altro effetto, gli faceva paura insomma. Strano, ma aveva paura di<br />
morire. E poi, ammesso che si fosse tolta la vita, quella vita insopportabile, che<br />
sarebbe stato di lui? se c’è la vita dell’anima, quella eterna, che sarebbe stato della<br />
sua vita? e se non c’è, se tutto finisce con la morte del corpo, perché tormentarsi<br />
per ciò che aveva fatto, perché darsi la morte? a chi doveva rendere conto e di che<br />
cosa?... Ma se la vita futura c’è, se Dio esiste, se l’anima è immortale, la sua dopo<br />
la morte del corpo sarebbe <strong>com</strong>parsa subito davanti al suo tribunale, per sottoporsi<br />
al suo infallibile giudizio… Neppure con la morte poteva dunque liberarsi da<br />
quella angosciosa oppressione, da quell’incertezza disperata? doveva continuare a<br />
vivere con l’inferno nel cuore?...<br />
Dopo aver più volte alzato e abbassato convulsamente il cane della pistola, la<br />
buttò via e, con le mani sulle tempie, tremava tutto e batteva i denti <strong>com</strong>e un<br />
bambino atterrito nelle tenebre. A un tratto ripensò a Lucia, la rivide nitida<br />
davanti agli occhi della mente, ma non più <strong>com</strong>e una povera fanciulla supplice e<br />
desolata, ma <strong>com</strong>e una soave creatura dispensatrice di grazie. Risentì le sue parole<br />
semplici e <strong>com</strong>moventi, che ora assumevano per lui un suono dolce e persuasivo:<br />
Dio perdona tante colpe per un’azione buona!... Sì, l’avrebbe liberata, le avrebbe<br />
chiesto perdono, avrebbe invocato dalle sue labbra altre parole di consolazione,<br />
<strong>com</strong>e quelle che ora gli riempivano l’animo di fiducia. Ma poi? che poteva ancora<br />
fare di bene? <strong>com</strong>e riparare a tanti delitti ormai consumati e irrevocabili? essi lo<br />
123
avrebbero sempre tormentato col lancinante rimorso, specie la notte, nell’insonnia<br />
angosciosa e insopportabile, popolata di mille fantasie spaventevoli! Come<br />
liberarsi da essi?... E che cosa avrebbe fatto della sua vita, se doveva pur vivere?<br />
Ora pensava di andarsene solo, lontano, dove nessuno lo conoscesse; doveva<br />
fuggire da quel luogo, dove ogni oggetto gli ricordava il tenebroso passato, andare<br />
lontano da quell’ambiente odioso!... Ma capiva che non poteva fuggire lontano da<br />
sé stesso, che lui sarebbe sempre stato lui, ovunque, e il canchero tormentoso del<br />
rimorso lo porterebbe sempre con sé, dovunque andasse, checché facesse… In<br />
certi momenti gli rispuntava, pur fioca, la speranza che tutto svanirebbe col tornar<br />
della luce, che era semplicemente un incubo notturno, che presto cesserebbe; ma<br />
poi sentiva che la luce del giorno, che ormai non poteva tardar troppo, non<br />
avrebbe certo migliorato la sua penosa situazione, anzi l’avrebbe peggiorata,<br />
mostrandolo ai suoi sudditi in quello stato di pietosa impotenza. Pur smaniava di<br />
far qualcosa, di togliersi da quell’inazione snervante; e sospirava allora la fine<br />
della notte, <strong>com</strong>e se l’alba dovesse portare la luce anche nel suo spirito.<br />
Mentre era in così penosa sospensione e ansietà d’animo, sentì uno scampanio<br />
lontano, che sembrava a festa, e per chi? chi era così allegro in questo mondo,<br />
mentre lui era in preda alla disperazione? “saltò fuori da quel covile di pruni”, e<br />
andò alla finestra a guardare: il cielo era coperto, e una caligine leggera velava i<br />
contorni delle montagne; laggiù nella strada si distinguevano dei viandanti, tutti<br />
diretti verso lo sbocco della valle, e si vedeva che camminavano a passo allegro,<br />
<strong>com</strong>e a un appuntamento festivo. Dove andavano coloro con tanta sollecitudine?<br />
che avevano da fare o da vedere di tanto interesse?... Chiamato un bravo, lo<br />
mandò a informarsi della novità: sentiva nel cuore <strong>com</strong>e un’ansia di sapere chi o<br />
che cosa potesse attrarre così, e dare quella gioia a tanta gente diversa.<br />
124
CAPITOLO XXII<br />
L’uomo, tornato poco dopo, gli riferì che quei viandanti erano diretti a un<br />
paese vicino, per vedere il cardinal Federigo Borromeo, che era giunto là in visita<br />
pastorale; la notizia si era sparsa il giorno prima nella vallata, e tutti volevano non<br />
perdere l’occasione di incontrasi con lui. Rimasto solo, l’Innominato restò alla<br />
finestra, attratto da quello spettacolo insolito, fisso a quella gente che, anche così<br />
da lontano, appariva mossa da un lieto entusiasmo; e la cosa gli sembrava così<br />
nuova, così strana! Per vedere un uomo dovevano mostrarsi così lieti! Eppure<br />
anche loro – pensava – avranno i propri guai, non certo <strong>com</strong>e i miei, ma sembra<br />
che li abbiano dimenticati in un trasporto di gioia… Come farà costui ad attirare e<br />
rendere allegre queste persone? distribuirà un po’ di denaro in elemosina!... Ma<br />
non tutti sono poveri costoro!... dirà anche delle parole buone, di quelle che<br />
sappiano consolare, che facciano scordare gli affanni… quelle parole che ci<br />
vorrebbero per me!... Se andassi anch’io?...<br />
Stette un momento in sospeso, a riflettere su quell’ipotesi che gli era venuta in<br />
mente quasi inavvertita, chi sa <strong>com</strong>e, ma che gli appariva sempre più accettabile,<br />
realizzabile, desiderabile, tanto che alla fine essa gli si presentò <strong>com</strong>e l’unica<br />
maniera di uscire da quello stato di sospensione tormentosa, in cui si dibatteva da<br />
tante ore ormai senza trovare una via d’uscita o almeno uno spiraglio di salvezza.<br />
Gli sembrava che quella sola potesse essere ormai la soluzione della sua crisi:<br />
andare a parlare con quell’uomo straordinario, sentire le sue parole, vedere che<br />
cosa avrebbe saputo dirgli per ridare la calma al suo animo…<br />
Presa così la decisione quasi d’impeto, <strong>com</strong>e trasportato da un’invincibile<br />
forza interiore, tagliò corto alle esitazioni e alle obiezioni che pure insorgevano a<br />
contrastare il suo improvviso proposito e, vestitosi rapidamente, uscì armato al<br />
modo solito, cioè con pugnale, due pistole e carabina, e s’avviò frettoloso verso la<br />
camera della vecchia, per vedere <strong>com</strong>e stesse la sua prigioniera, che ormai gli<br />
appariva in aspetto di salvatrice. Questa volta non picchiò brutalmente, <strong>com</strong>e la<br />
sera avanti, con un calcio alla porta, ma bussò sommessamente, facendo<br />
contemporaneamente sentire la sua voce: questo cambiamento nel<br />
<strong>com</strong>portamento è indice del profondo mutamento interiore che stava verificandosi<br />
in lui.<br />
La donna, riconosciuta la voce, corse ad aprire al padrone il quale, vedendo la<br />
ragazza addormentata a terra, rimproverò sottovoce la vecchia, che però protestò<br />
che lei aveva fatto di tutto per farla mangiare e andare a letto, ma inutilmente;<br />
<strong>com</strong>unque il signore le <strong>com</strong>andò di non disturbarla; quando si fosse svegliata,<br />
doveva dirle che lui sarebbe presto tornato per esaudire tutti i suoi desideri. La<br />
vecchia rimase sbalordita a queste parole, e sempre più si convinse che colei fosse<br />
qualche gran dama, vestita da contadina. Questa donna selvatica, tutta animalità<br />
primitiva, senza alcuna luce spirituale, non può minimamente pensare che il<br />
cambiamento del padrone possa derivare da una crisi di coscienza, da un<br />
125
pentimento insomma; essa pensa a un qualche evento esterno, che abbia fatto<br />
riconoscere nella contadinella addirittura una principessa. La sera prima, le<br />
insolite cortesie del signore verso la prigioniera, le ascrive alla giovinezza e<br />
bellezza della ragazza, e si rammarica stizzosamente di essere vecchia, lei, e di<br />
non ricevere simili gentilezze; ora questa mirabolante cedevolezza del suo<br />
padrone, tanto da promettere di <strong>com</strong>piere ogni suo desiderio, non sa motivarla che<br />
con la condizione sociale della prigioniera. La povera vecchia, abbrutita in<br />
quell’ambiente di violenza, non può minimamente pensare a una rigenerazione<br />
spirituale del dispotico padrone, e immagina la favola di una bella principessa,<br />
arrestata in veste di contadinella, ma poi insperatamente riconosciuta, proprio<br />
<strong>com</strong>e aveva sentito raccontare talora da bambina. La sua mente, purtroppo, non<br />
può intuire un dramma interiore, per il semplice motivo che “non percipit ea quae<br />
sunt spiritus”, e non può quindi immaginare di trovarsi davanti a una conversione.<br />
Poveretta! merita più <strong>com</strong>passione che condanna, perché nessuno aveva aperto gli<br />
occhi della sua mente sui veri valori della vita; quanti sono purtroppo quelli che<br />
sulla terra vivono, per ignoranza o altro motivo, in un tale stato di ottusità!<br />
L’Innominato, uscendo dalla stanza della vecchia, riprese la sua carabina che,<br />
per non spaventare Lucia, aveva appoggiato fuori in un angolo; quindi <strong>com</strong>andò a<br />
Marta (la donna che aveva portato da mangiare la sera precedente) di starsene<br />
nella stanza attigua, se mai la ragazza avesse bisogno di qualche cosa; ordinò poi<br />
a uno dei bravi di mettersi di guardia lì nel corridoio, perché nessuno osasse<br />
entrare dov’era Lucia, e infine uscì dal castello tutto solo, cosa piuttosto insolita.<br />
A questo punto non possiamo fare a meno di notare le precauzioni delicate e quasi<br />
paterne che l’Innominato prende, affinché la sua prigioniera non venga infastidita<br />
e neppure minimamente disturbata; ormai egli si sente responsabile di quella vita,<br />
di quella virtù, e non vuole che corra il benché minimo pericolo; anche queste<br />
premurose cautele testimoniano il suo animo mutato e la sua rispettosa<br />
ammirazione per la virtuosa fanciulla.<br />
Il Manzoni dice che l’Innominato, lasciato il castello, “prese la scesa, di<br />
corsa”; l’espressione ci sembra alquanto esagerata, ma ben illustra la santa fretta<br />
che ormai pungola l’uomo, tocco dalla grazia divina. I bravi che lo incontravano,<br />
in quello che era il suo piccolo regno, si fermavano salutando e attendendo ordini;<br />
ma lui non aveva ordini da impartire, e continuava la sua strada assorto e<br />
frettoloso, per cui i suoi sudditi non sapevano che cosa pensare, e per la sua uscita<br />
solitaria e per il portamento insolito: il suo viso, il suo sguardo, tutta la sua<br />
persona aveva qualcosa di nuovo e di strano. Quando, uscito dai suoi<br />
possedimenti, entrò nella strada pubblica, la gente si scappellava e gli faceva<br />
largo, meravigliandosi anch’essa di vederlo senza scorta, cosa più unica che rara.<br />
Al paese dov’era il Cardinale, distante dal castello quanto “una lunga<br />
passeggiata” (quindi un tre o quattro miglia, io penso) una gran folla gremiva le<br />
strade, ma al suo avvicinarsi si apriva silenziosa, facendo ala, sicché in breve il<br />
signore giunse alla canonica, dove aveva saputo che si trovava Federigo<br />
Borromeo. Lì entrò in un cortiletto, dove i preti in attesa lo guardarono con<br />
meraviglia non scevra di sospetto; posata la carabina in un canto, andò avanti e si<br />
126
affacciò in un salottino, dove si trovavano altri sacerdoti; a uno di questi chiese<br />
dove fosse il Cardinale, ché gli doveva parlare. L’interrogato, scusandosi col fatto<br />
di essere forestiero, ma in effetti perché non si voleva prendere la responsabilità di<br />
una risposta in una situazione così scabrosa, chiamò il cappellano crocifero, che<br />
fungeva praticamente da segretario del porporato. Il cappellano, che anche lui non<br />
sapeva <strong>com</strong>e regolarsi davanti a questa visita molto strana, per non dir sospetta,<br />
rispose balbettando che non sapeva se monsignore illustrissimo in quel momento<br />
si trovasse disposto… se insomma fosse libero e potesse riceverlo, e che andava a<br />
informarsi; così si tolse d’impaccio e, lasciando il signore in sospeso, si recò a<br />
riferire al suo superiore.<br />
A questo punto il Manzoni interrompe il racconto per tracciare un breve<br />
profilo biografico del Borromeo. La digressione non è lunga, e vale proprio la<br />
pena di leggerla, perché in questo mirabile personaggio l’Autore ha trovato<br />
l’attuazione di un ideale di vita cristiana che collima esattamente col suo; e ciò<br />
dona alle sue affermazioni, alle considerazioni e alle massime, che in questo<br />
scorcio di capitolo abbondano, una particolare forza di persuasione, un fascino<br />
tutto particolare. Per quanto don Alessandro (per gli amici milanesi don Lisander)<br />
inviti argutamente chi non vuol perdere un po’ di tempo a saltare al capitolo<br />
successivo, noi ci guarderemo bene dall’aderire all’invito, dato che ci siamo<br />
imbattuti in un personaggio storico che merita tutta la nostra riverente simpatia;<br />
quindi anche noi ci fermeremo volentieri a conoscere meglio questo santo presule,<br />
<strong>com</strong>e fa il viandante che, dopo una faticosa tappa attraverso un terreno desolato, si<br />
arresta volentieri “all’ombra di un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte<br />
d’acqua viva.” Non potremo non risentirne un benefico refrigerio!<br />
Federigo era nato nel 1564 da famiglia molto nobile e ricca, che possedeva<br />
feudi non soltanto in Lombardia, ma anche in Puglia e in altre parti d’Italia. Egli<br />
fu uno di quegli uomini rari che impiegarono un grande ingegno, un vasto<br />
patrimonio, i privilegi della nobiltà del casato, e soprattutto un’attività<br />
instancabile, “nella ricerca e nell’esercizio del meglio.” Con una bella similitudine<br />
il Manzoni assomiglia la sua vita a un ruscello montano che, scaturito limpido<br />
dalla roccia, attraversando vari terreni senza mai intorbidirsi, va infine a gettarsi<br />
nel fiume. Mentre però il ruscello permane limpido per fortunate circostanze,<br />
senza suo merito, il Borromeo si mantenne puro con la forza della sua volontà, col<br />
suo spirito di sacrificio, in mezzo alle varie tentazioni che gli venivano dalla<br />
nobiltà ac<strong>com</strong>pagnata da una grande ricchezza. Fin dalla puerizia prese sul serio<br />
quelle verità e quei precetti, inculcati dalla religione cristiana, “intorno alla vanità<br />
dei piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e ai veri beni”, quelle<br />
massime insomma che quasi tutti sentono, dalla bocca dei genitori o degli<br />
insegnanti o dei sacerdoti, e magari ripetono con maggiore o minore convinzione,<br />
ma che ben pochi attuano con impegno nella vita di ogni giorno. Egli, appena<br />
giovinetto, era già convinto che “la vita non è già destinata ad essere un peso per<br />
molti, e una festa per alcuni”, ma per tutti un serio impegno di impiegare bene i<br />
talenti che Dio e la natura ci hanno elargito, e dei quali siamo responsabili<br />
personalmente, <strong>com</strong>e individui, indipendentemente dal cattivo esempio che ci<br />
127
possa venire dagli altri, e magari da tutti gli altri. Persuaso di questa responsabilità<br />
personale che abbiamo nella vita, da condursi secondo una legge che, prima di<br />
essere codificata nella Rivelazione, è scolpita nella coscienza di ognuno, Federigo<br />
a 16 anni manifestò la volontà di dedicare la propria vita al servizio del prossimo,<br />
perché fosse “utile e santa”, per mezzo dell’apostolato ecclesiastico. Allora era<br />
ancora vivo il santo suo cugino Carlo, il cui esempio luminoso di virtù avrà certo<br />
influito beneficamente sulla formazione morale e spirituale del giovane<br />
seminarista, ma il Manzoni aggiunge, <strong>com</strong>e “cosa molto notabile che, dopo la<br />
morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allora di vent’anni,<br />
fosse mancata una guida e un censore.” Ciò dimostra che a quell’età era già<br />
sufficientemente formato.<br />
Compì i suoi studi nel Collegio Borromeo di Pavia, fondato dal cugino, dove<br />
si applicò assiduamente alle occupazioni prescritte, aggiungendone due altre di<br />
sua iniziativa, le quali rivelano il suo spirito veramente evangelico: insegnare la<br />
dottrina cristiana agli umili e assistere gli ammalati. A questo proposito<br />
ricordiamo che anche fra Cristoforo, quest’altro apostolo della carità, aveva<br />
aggiunto, a quelle impostegli dalla Regola e dal ministero sacerdotale, altre due<br />
occupazioni particolari: appianare le discordie e proteggere gli oppressi. Le opere<br />
di carità prescelte da questi due eroi della virtù denotano la diversità dei loro<br />
caratteri: più fiero e pugnace quello del Cappuccino, più pacato e mite quello<br />
dell’Arcivescovo.<br />
In collegio gli istitutori cercavano di fare a Federigo un trattamento<br />
particolare, quasi a un padrone di casa, pensando magari di farsi così ben volere;<br />
ma egli rifiutò ogni distinzione, e se quelli insistevano , non mancò di riprenderli,<br />
in nome di quei precetti di abnegazione e di umiltà, di uguaglianza e di giustizia,<br />
che loro stessi insegnavano. Ordinato sacerdote, era evidente che “la parentela e<br />
gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome<br />
stesso” di Borromeo, al quale Carlo aveva donato tanto lustro, gli avrebbero<br />
conciliato le dignità ecclesiastiche.<br />
Il Manzoni osserva acutamente che, se le qualità predette costituiscono “ciò che<br />
può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche”, Federigo possedeva anche<br />
“ciò che deve” o dovrebbe determinare la scelta dei superiori, vale a dire<br />
l’ingegno, la dottrina e la pietà. Ma egli, convinto di un’altra verità, che cioè non<br />
ci dovrebbe essere nessuna superiorità sugli altri, se non per servirli, evitava le<br />
cariche, non certo perché non volesse servire il prossimo, ma perché voleva<br />
servirlo da pari a pari, non stimandosi degno o capace di servirlo bene, una volta<br />
investito di più alta responsabilità, che rende il servizio stesso più arduo e<br />
delicato. Perciò rifiutò nel 1595 di diventare arcivescovo di Milano, cedendo poi<br />
solo all’espresso <strong>com</strong>ando del papa Clemente VIII. Quelli che sogliono schernire<br />
simili rifiuti, puntualmente seguiti dall’accettazione, e parlano irridenti di umiltà<br />
pelosa, non dovrebbero fare d’ogni erba un fascio, ma giudicare, dalle azioni e<br />
precedenti e successive del personaggio, della sua sincerità nell’opporre il rifiuto<br />
della nomina. “La vita è il paragone delle parole”, dice il Manzoni, e le parole di<br />
umiltà e di abnegazione, anche se sono usate pure dagli ipocriti, non cessano per<br />
128
questo di essere belle e ammirevoli, “quando siano precedute e seguite da una vita<br />
di disinteresse e di sacrificio.”<br />
In quanto al disinteresse di Federigo arcivescovo, l’Autore cita questo fatto:<br />
sic<strong>com</strong>e era personalmente molto ricco, ritenne che il mantenimento suo e del suo<br />
seguito dovesse gravare sul suo patrimonio privato e non sulle rendite<br />
ecclesiastiche, che tutti dicono essere patrimonio dei poveri, ma che pochi presuli<br />
destinano solo a questo scopo, <strong>com</strong>e invece fece con estremo rigore Federigo<br />
delle rendite dell’archidiocesi. E per il suo mantenimento esigeva che si facesse la<br />
più rigida economia, onde avere mezzi finanziari più abbondanti per gli scopi<br />
benefici; per esempio, non smetteva un abito finché non fosse liso affatto,<br />
pretendendo solo che esso fosse decoroso e soprattutto pulito, poiché egli sapeva<br />
unire alle virtù della semplicità e della modestia quella d’una squisita pulizia:<br />
“due abitudini – osserva il Manzoni – notabili infatti, in quell’età sudicia e<br />
sfarzosa.”<br />
Qualcuno, da questi e simili tratti della sua personalità, potrebbe essere indotto<br />
ad attribuirgli una certa grettezza o angustia di vedute, se Federigo non avesse<br />
dimostrato di saper spendere in modo assai generoso e illuminato per realizzare<br />
opere grandiose, tra cui la Biblioteca Ambrosiana; chi concepì e realizzò una<br />
simile impresa non era davvero “una mente impaniata nelle minuzie; e incapace di<br />
disegni elevati”! Quell’opera fu realizzata con munificenza quasi regale; e mentre<br />
allora, nelle biblioteche d’Italia che pur si dicevano pubbliche, “i libri non eran<br />
nemmeno visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per<br />
gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento”, nella<br />
biblioteca istituita dal Borromeo, che pur poteva considerarsi privata, i libri e i<br />
manoscritti erano “esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e<br />
datogli anche da sedere, e carta, penne a calamaio, per prender gli appunti che gli<br />
potessero bisognare”; e tutto questo per ordine espresso del munifico fondatore.<br />
Cose che dimostrano insieme la sua larghezza di vedute, e la generosa gentilezza<br />
del suo animo verso gli studiosi. Queste doti insigni sono testimoniate anche da un<br />
altro episodio, che ci richiama alla mente la storia di Gertrude. Avendo infatti<br />
saputo che un nobile tiranneggiava la figlia per farle prendere il velo, mentre<br />
quella aveva intenzione di sposarsi, Federigo fece venire a sé il padre, ed<br />
essendosi questi giustificato dicendo di non avere i quattromila scudi necessari per<br />
maritarla decorosamente, gli diede senza esitazione la somma richiesta, reputando<br />
giustamente che nessuna somma materiale è eccessiva, se con essa si può evitare<br />
la perdizione di un’anima.<br />
Era affabile e alla mano con tutti, cordiale specialmente con i diseredati, verso<br />
i quali il mondo è così duro. Per questo suo <strong>com</strong>portamento familiare con i poveri<br />
“ebbe a <strong>com</strong>battere coi galantuomini del “ne quid nimis”, i quali, in ogni cosa,<br />
avrebbero voluto farlo star nei limiti, cioè nei loro limiti.” Uno di questi mentori,<br />
un giorno, mentre in una parrocchia di montagna istruiva un gruppo di fanciulli<br />
poveri, accarezzandoli paternamente, ritenne suo dovere avvertirlo che non li<br />
avvicinasse troppo, perché erano troppo sudici, <strong>com</strong>e se Federigo non avesse<br />
abbastanza sensibilità per accorgersene da solo né “abbastanza perspicacia, per<br />
129
trovar da sé quel ripiego così fino.” Ma purtroppo questo avviene spesso, osserva<br />
il Manzoni, agli uomini rivestiti di certe cariche: mentre difficilmente trovano chi<br />
li avverta delle loro mancanze, trovano benissimo chi li riprende per la loro<br />
generosa virtù.<br />
Qualcheduno potrebbe attribuire la soavità del suo <strong>com</strong>portamento, la<br />
pacatezza imperturbabile della sua condotta, la mitezza dei suoi tratti “a una<br />
felicità straordinaria di temperamento”; invece – assicura il Manzoni che si è ben<br />
documentato - “era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e<br />
risentita.” Fatto cardinale, partecipò a molti conclavi, senza mai aspirare “a quel<br />
posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà”; sicché in un certo<br />
conclave, avendogli un collega molto influente offerto il voto suo e del suo<br />
gruppo, rifiutò così recisamente, che quegli se ne ritrasse quasi offeso. E questa<br />
modestia, questa profonda umiltà erano evidenti in ogni circostanza della vita e<br />
della sua attività pastorale, anche nel modo garbato con cui evitava d’impicciarsi<br />
nei fatti e negli affari altrui, che non riguardassero il suo ministero, pur essendone<br />
talora vivamente richiesto: ”discrezione e ritegno non <strong>com</strong>une, <strong>com</strong>e ognuno sa,<br />
negli uomini zelatori del bene”, osserva acutamente il Manzoni a guisa di<br />
<strong>com</strong>mento. E spontaneo ci viene in mente il confronto tra Federigo e un’altra<br />
zelatrice del bene, ma fasulla, che incontreremo tra poco, donna Prassede; costei<br />
s’ingeriva a tutta forza e con ogni mezzo nelle cose che non la riguardavano,<br />
<strong>com</strong>e se fosse investita da una speciale missione divina per la salvezza<br />
dell’umanità, e con i suoi interventi maldestri e presuntuosi otteneva<br />
puntualmente l’effetto contrario alle sue pur buone intenzioni.<br />
Però, per quanto riguardava la sua missione pastorale, non solo non si tirava<br />
indietro, ma faceva animosamente il proprio dovere, e richiamava o anche puniva<br />
severamente chi, tra i suoi dipendenti, prevaricasse nelle mansioni affidategli; fu<br />
lui, per esempio, che scoprì e punì esemplarmente la grave prevaricazione della<br />
Monaca di Monza, che poi egli avviò sulla via della redenzione; e ben presto lo<br />
vedremo ammonire e rimproverare, paternamente ma anche con autorità, il nostro<br />
don Abbondio, che si era messo al servizio dell’iniquità invece che della carità e<br />
della giustizia, <strong>com</strong>e sarebbe stato suo preciso dovere.<br />
Alla fine del capitolo l’Autore, con scrupolo storico, avverte che un uomo<br />
così intelligente e saggio non andò tuttavia esente da errori o pregiudizi del<br />
secolo, dai quali ci sarebbe oltremodo piaciuto che egli si fosse allontanato. Ma, ci<br />
fa capire tra le righe don Lisander, staccarsi dalle opinioni del secolo, per intuire<br />
quelle verità che solo i secoli futuri, con lungo travaglio, renderanno evidenti, è<br />
solo concesso ai geni, e nessuno sostiene che il cardinal Borromeo sia stato uno di<br />
questi; egli fu però un uomo eminente, che si è dedicato con belle qualità di<br />
mente, ma soprattutto con un gran cuore, al miglioramento morale e materiale<br />
della società del suo tempo. E quest’uomo così caritatevole, così sollecito per il<br />
bene altrui e per i doveri della sua carica, seppe anche trovare il tempo per<br />
arricchire la sua mente con uno studio assiduo e appassionato; e di questa intensa<br />
attività intellettuale sono testimonianza circa cento opere, tra edite e inedite, in<br />
latino o in volgare, di vario argomento e di diversa importanza. Ma qui si affaccia<br />
130
un’obiezione: <strong>com</strong>e mai in un centinaio di opere non se n’è trovata alcuna di tale<br />
spicco, che abbia acquistato al suo autore una fama anche nella storia letteraria?<br />
L’obiezione è ragionevole, e si verrebbe tentati di cercare una risposta plausibile.<br />
“Le ragioni di questo fenomeno – osserva il Manzoni – si troverebbero con<br />
l’osservar molti fatti generali”, ma, aggiunge subito, “sarebbero molte e prolisse”<br />
e forse non facilmente accettate dall’opinione corrente; e quindi egli se ne lava<br />
elegantemente le mani, temendo di farci “arricciare il naso”.<br />
Una risposta all’obiezione, e valga quel che vale, tenteremo di darla noi,<br />
sforzandoci di cogliere quello che forse intendeva dire il nostro Autore. Per<br />
Federigo scrivere non nasce dal bisogno di esprimere sé stesso e il proprio mondo<br />
interiore, nella ricerca e nell’espressione del bello, mirando al solo piacere<br />
estetico; scrivere è per lui un servire con la penna alla sua missione pastorale, al<br />
suo lavoro educativo; quindi le sue opere, nate da un bisogno contingente, hanno<br />
uno scopo pratico e limitato, ed esulano perciò dal campo dell’arte. Scrivendo<br />
tante opere, il Cardinale non mirava certamente alla gloria letteraria, ma solo a<br />
illuminare, ammaestrare e correggere; insomma scrivere faceva parte del suo<br />
apostolato, perché con gli scritti egli rendeva più ampia e incisiva la sua missione<br />
di pastore delle anime.<br />
131
CAPITOLO XXIII<br />
Riprendendo il racconto, interrotto dalla parentesi biografica, il Manzoni ci<br />
dice che Federigo, amantissimo della cultura, stava appunto studiando, <strong>com</strong>e<br />
faceva in ogni ritaglio di tempo, quando il cappellano gli annunciò la strana visita.<br />
Col viso animato a un tratto dalla premura e dalla carità, rispose di introdurlo<br />
subito; ma l’inferiore, invece di obbedire, ritenne suo dovere ricordargli che colui<br />
era un bandito disperato, un appaltatore di delitti… e che poteva anche essere<br />
mandato… E aggiunse con tono di grave avvertimento: “Lo zelo fa de’ nemici,<br />
monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi<br />
che, un giorno o l’altro…” Ma il Cardinale lo interruppe con impazienza: “Oh,<br />
che disciplina è codesta, che i soldati esortino il generale ad aver paura?” E<br />
ricordato che San Carlo, non che riceverlo, sarebbe andato a trovarlo un tale<br />
individuo, ordinò di farlo entrare immediatamente, ché aveva già atteso troppo. Il<br />
cappellano, pur controvoglia, si mosse per eseguire il <strong>com</strong>ando; e avvicinandosi<br />
all’Innominato pensava che avrebbe dovuto almeno invitarlo a lasciare tutte le<br />
armi; ma non ne ebbe il coraggio, e introdusse senz’altro il visitatore nella stanza<br />
dov’era ad attenderlo Federigo, e a un cenno di questi subito si ritirò, non senza<br />
apprensione.<br />
L’Innominato, che era andato là non per un proposito preciso, ma <strong>com</strong>e<br />
trascinato da una forza inesplicabile, restava attonito e confuso, e anche stizzito<br />
con sé stesso, per la vergogna di esser venuto <strong>com</strong>e un colpevole, “e non trovava<br />
parole, né quasi ne cercava”; sentiva tuttavia il fascino e, nello stesso tempo, la<br />
soggezione della presenza del porporato, così solenne e maestoso, ma anche<br />
amorevole e bello di una bellezza tutta interiore, adorno <strong>com</strong>’era di “una specie di<br />
floridezza verginale”, pur tra i segni evidenti dell’astinenza. Federigo il quale,<br />
nell’aspetto fosco e turbato dell’ospite, scorgeva i segni della salutare crisi<br />
spirituale che lo aveva scosso e portato da lui, col volto illuminato dalla gioia lo<br />
ringraziò di avergli fatto quella bella visita, pur dovendosi rimproverare di non<br />
essere andato lui a trovarlo nel suo castello. Tra la crescente meraviglia del suo<br />
interlocutore, che rimaneva quasi muto ad ascoltare quelle parole ardenti di carità,<br />
aggiunse che però, se non era andato a fargli visita, aveva pianto e pregato tanto<br />
per lui traviato, e che Dio aveva fatto il miracolo, supplendo con la sua potenza e<br />
misericordia all’inerzia del suo servo; quindi lo pregò di non fargli sospirare<br />
ancora la buona notizia ch’era venuto a portargli. E avendo quegli replicato che<br />
non aveva nessuna buona nuova da <strong>com</strong>unicargli, bensì che aveva l’inferno nel<br />
cuore, il Cardinale placidamente, ma con tono pieno d’autorità, osservò che<br />
questo voleva dire che Dio gli aveva toccato il cuore, perché lo voleva tutto per<br />
Sé. Allora il contrito, quasi con impaziente invocazione di grazia e di luce<br />
interiore, esclamò: ”Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! se lo sentissi!” Federigo rispose<br />
che appunto in quell’angosciosa smania di desiderio doveva riconoscere la<br />
presenza di Dio, “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, perché Egli,<br />
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mentre lo agitava non dandogli requie, gli faceva anche sentire, e quasi<br />
pregustare, una speranza ineffabile di pace e di consolazione. Allora, con accento<br />
tra supplichevole e disperato, il signore domandò che cosa voleva Dio da lui, che<br />
cosa poteva fare di lui peccatore. “Un segno della sua potenza e della sua bontà”,<br />
rispose con voce solenne e quasi ispirata il Cardinale: se lui, misero uomo, aveva<br />
saputo fare, nel male, grandi imprese, credeva che Dio non avrebbe potuto<br />
fargliene <strong>com</strong>piere, nel bene, di molto più grandi?<br />
Iddio avrebbe potenziato e nobilitato, con la sua grazia, le qualità che lui aveva<br />
finora impiegato a ordire tradimenti e delitti, cioè quella volontà impetuosa, quella<br />
imperturbata costanza, quel coraggio adamantino, che aveva purtroppo rivolto a<br />
vituperevoli azioni. E, tutto infervorato di carità, soggiunse: “cosa può Dio far di<br />
voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e <strong>com</strong>piere in voi l’opera della redenzione? Non<br />
son cose magnifiche e degne di Lui?”<br />
Il volto dell’Innominato, mentre Federigo pronunciava queste parole con<br />
accento ispirato e ardente di amore, divenne a poco a poco, da stravolto e turbato,<br />
prima attonito e intento, quindi <strong>com</strong>punto e infine profondamente <strong>com</strong>mosso,<br />
tanto che non poté resistere all’impeto dell’emozione che gli saliva dal cuore, e<br />
coprendosi il viso con le mani scoppiò in un pianto dirotto, mentre il Cardinale<br />
lodava e ringraziava in cuor suo il Signore per aver ammollito con la sua grazia<br />
quel cuore di pietra. Quindi tese cordialmente la mano all’Innominato, in segno di<br />
pace e di patto imperituro di bontà; quegli, non stimandosi degno di tanto, cercava<br />
di schermirsi, ritirando la sua, ma il porporato la prese e la strinse<br />
affettuosamente, affermando che quella destra avrebbe riparato tanti torti, avrebbe<br />
sparso tanti benefici, e si sarebbe tesa, disarmata e pacifica, verso tutti i nemici,<br />
per invitarli a un patto di pace e d’amore.<br />
E poiché il signore, ancor singhiozzante, lo invitava a non perdere più tempo<br />
con lui, mentre tutto un popolo di fedeli lo attendeva, ansioso di ascoltare le sue<br />
parole, l’arcivescovo rispose con gioconda dolcezza: “Lasciamo le novantanove<br />
pecorelle; sono al sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era<br />
smarrita…”, e così dicendo allargò amorevolmente le braccia per abbracciare quel<br />
figliol prodigo il quale, dopo aver “resistito un momento, cedette, <strong>com</strong>e vinto da<br />
quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di<br />
lui il suo volto tremante e mutato.” Terminato il <strong>com</strong>mosso abbraccio,<br />
l’Innominato disse che purtroppo non poteva che piangere e condannare la<br />
maggior parte dei suoi misfatti, ma alcuni per fortuna poteva interrompere o<br />
riparare, e uno disfare immediatamente. E raccontò brevemente, ma con parole di<br />
severa condanna contro la sua iniquità, il rapimento di Lucia, le sofferenze della<br />
poverina, le sue angosciate preghiere, che avevano scosso il suo cuore indurito,<br />
aggiungendo che la ragazza era ancora prigioniera nel castello.<br />
Il Cardinale, spinto da paterna sollecitudine, disse che non bisognava perdere<br />
tempo a liberare di pena la poveretta, e questa liberazione era <strong>com</strong>e un pegno del<br />
perdono di Dio, che nella sua infinità bontà gli aveva voluto concedere la<br />
consolazione di poter <strong>com</strong>piere subito un’opera buona, di riparare a un misfatto.<br />
Informatosi quindi del paese della ragazza, chiamò il cappellano; questi, che stava<br />
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all’erta, accorse immediatamente e rimase quasi estatico nel mirare il viso mutato<br />
del signore; ma l’arcivescovo lo riscosse da quell’estasi, chiedendogli se tra i<br />
parroci presenti ci fosse quello del paese di Lucia. Avuta risposta affermativa, gli<br />
ordinò di farlo venire assieme al parroco lì del posto, ché aveva da dar loro degli<br />
incarichi. Il cappellano sollecito uscì e, presentandosi col volto ancora estatico<br />
davanti ai confratelli, che lo interrogavano con lo sguardo ansioso, esclamò con<br />
enfasi: “Haec mutatio dexterae Excelsi!” Quindi, riprendendo il controllo di sé<br />
stesso e riassumendo il tono della sua carica, disse che il Cardinale desiderava sia<br />
il curato lì del luogo che quello della parrocchia di X, e nominò il paese di Lucia.<br />
Il primo si fece subito avanti, mentre il secondo venne fuori a stento dal gruppo,<br />
dicendosi convinto che ci doveva essere un errore, perché lui non poteva aver<br />
nulla a che fare con le faccende di quel paese; ma avendo il cappellano replicato<br />
che non c’era errore di sorta, il povero don Abbondio dovette venir avanti, “con<br />
un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato.”<br />
Il cappellano gli mise un po’ di fretta, e introdusse i due parroci dall’arcivescovo.<br />
Questi si rivolse al curato del luogo, perché trovasse una brava donna, che doveva<br />
andare in lettiga al castello a rilevare una povera prigioniera, e gli disse in poche<br />
parole di chi si trattava: la poverina si trovava certamente in tale stato di<br />
prostrazione, che ci voleva “una donna di cuore e di testa” per rincuorarla, per<br />
rassicurarla, perché ogni novità poteva essere per lei causa di spavento maggiore.<br />
Quando il parroco fu uscito per trovare la donna adatta, Federigo si rivolse a don<br />
Abbondio, il quale gli s’era accostato il più possibile, appunto per stare lontano da<br />
quell’altro signore; il pavido curato, non ancora convinto che volesse proprio lui,<br />
disse senza troppi riguardi al Cardinale che lo avevano chiamato, ma che doveva<br />
esserci un equivoco. Il superiore gli rispose con affabilità che non c’era nessun<br />
errore, perché doveva <strong>com</strong>unicargli la lieta notizia che Lucia Mondella, che lui<br />
aveva certamente “pianta per smarrita”, era invece salva, in casa di quel suo<br />
amico, col quale doveva andare a prenderla, coadiuvato da una brava donna che il<br />
curato di quella parrocchia era andato a cercare.<br />
Don Abbondio, ci dispiace dirlo, invece di rallegrarsi per la notizia e per<br />
l’incarico delicato al quale era stato prescelto, riuscì a stento a nascondere<br />
l’amarezza dell’animo, che gli s’era dipinta sul viso in un versaccio di fastidio,<br />
per mezzo di un profondo inchino che fece subito <strong>com</strong>e in segno d’obbedienza al<br />
suo arcivescovo. Questi, avendo saputo poi da don Abbondio che la ragazza aveva<br />
a casa solo la madre, ordinò che fosse mandata a prendere con un barroccio da un<br />
uomo di giudizio, che sapesse farle capire l’accaduto senza impressionarla troppo.<br />
Sentendo ciò il nostro curato, pur di non andare al castello di quel signore, si offrì<br />
di recarsi lui a prendere Agnese, dicendo che era una donna molto sensibile e<br />
bisognava conoscerla bene per saperla prendere; ma il Cardinale ribadì che lui era<br />
troppo necessario per andare a prendere la povera prigioniera, la quale aveva<br />
bisogno di vedere subito una persona amica, di cui potesse proprio fidarsi:<br />
nessuno poteva sostituirlo in questa delicata in<strong>com</strong>benza.<br />
Ma non occorrevano davvero gli occhi perspicaci di Federigo per accorgersi<br />
che don Abbondio aveva paura di andare al castello con quel signore; e volendo<br />
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dissipare “quell’ombre codarde” del suo parroco, si avvicinò con cordiale<br />
confidenza all’Innominato e lo invitò a tornare da lui con quel sacerdote, per<br />
restare insieme tutta la giornata. Il signore accettò con gioia riconoscente,<br />
affermando con trasporto che aveva tanto bisogno di vederlo e di ascoltare le sue<br />
parole, che erano un balsamo per le ferite del suo animo. Federigo allora gli<br />
strinse amorevolmente la mano, <strong>com</strong>e in segno di reciproca promessa; e pensava<br />
che con queste dimostrazioni di amicizia sincera il codardo prete avrebbe<br />
finalmente capito la mirabile trasformazione che per grazia di Dio si era operata in<br />
quell’uomo, un tempo terribile. Vana speranza! Don Abbondio se ne restava<br />
mogio e un po’ imbronciato “<strong>com</strong>e un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar<br />
con sicurezza un suo cagnaccio… famoso per morsi”, assicurando che è una<br />
bestia quieta: il poverino non osa contraddire, ma neppure accostarsi, e vorrebbe<br />
non avere a che fare con quel bestione.<br />
Mentre il Cardinale si avviava per uscire, tenendo ancora per mano<br />
l’Innominato, gli parve che il curato fosse <strong>com</strong>e mortificato, e pensando che si<br />
mostrasse così perché gli sembrava di essere trascurato dal suo superiore, tutto<br />
preso dalla nuova amicizia, gli disse amorevolmente e con espressione di grande<br />
riguardo: “Signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon<br />
Padre; ma questo… questo perierat et inventus est”, alludendo molto<br />
opportunamente alla parabola del figliol prodigo. Don Abbondio, <strong>com</strong>e riscosso<br />
dai suoi tristi pensieri, avrebbe voluto rispondere qualcosa di pertinente, ma<br />
invano. “Oh quanto me ne rallegro!” fu tutto quello che riuscì a rispondere;<br />
un’esclamazione insulsa, che era poi chiaramente smentita dalla faccia che, pur<br />
controvoglia, mostrava.<br />
Potremmo qui confrontare l’espressione piuttosto banale che esce di bocca a<br />
don Abbondio in sì patetica circostanza, con il “Si figuri!” che, <strong>com</strong>e vedremo,<br />
scapperà detto al sarto del villaggio (cap. XXIV), quando il Cardinale gli chiede<br />
se è contento di ospitare Lucia per un po’ di giorni. Mentre però don Abbondio<br />
non ebbe mai a rammaricarsi delle sue parole piuttosto misere in così solenne<br />
circostanza, perché a lui premeva ben altro che fare una degna figura accanto a<br />
quei grandi personaggi, il povero sarto per tutto il resto della vita provò la<br />
mortificazione di non aver trovato, lui che sapeva leggere e scrivere, qualche<br />
espressione più scultoria per esprimere il suo stato d’animo di sincero e grato<br />
entusiasmo per la richiesta del presule.<br />
Quando i due grandi, con la <strong>com</strong>mozione dipinta vivamente sul viso,<br />
apparvero in mezzo ai sacerdoti in attesa, tutti furono tocchi da quella santa<br />
emozione di carità, e guardavano or l’uno or l’altro con estatica espressione di<br />
lieta ammirazione. Dietro i due personaggi apparve il goffo nostro curato, “a cui<br />
nessuno badò”, per vera fortuna, ché altrimenti avrebbero scorto in quella faccia il<br />
senso della noia del pavido egoista, che faceva uno stridente contrasto con la<br />
<strong>com</strong>mossa letizia di tutti i presenti.<br />
Proprio mentre Federigo si accingeva a congedarsi dall’ospite, il suo<br />
cameriere venne a riferirgli che la lettiga e le mule erano pronte, e si aspettava<br />
solo la donna, che il curato era andato a chiamare. Il Cardinale dispose che, non<br />
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appena colui fosse tornato, curasse di mandare a prendere la madre della<br />
prigioniera, e che quindi il lettighiero si mettesse agli ordini del signore, per<br />
andare al castello. Detto questo, strinse di nuovo la mano con effusione<br />
all’Innominato, salutò con un cenno di sorriso don Abbondio, e finalmente<br />
s’avviò verso la chiesa, per il pontificale, seguito dal clero e dai fedeli osannanti.<br />
Don Abbondio e l’Innominato rimasero dunque, soli soli, ad aspettare l’arrivo<br />
della donna; il curato avrebbe voluto attaccar discorso, così per rompere il<br />
ghiaccio, ma non sapeva <strong>com</strong>e in<strong>com</strong>inciare, e intanto si stizziva con sé stesso e<br />
con Perpetua che lo aveva indotto a venire a ossequiare il Cardinale, mentre<br />
poteva benissimo farne a meno: se non le avesse dato retta, ora non si sarebbe<br />
trovato in quegl’impicci. L’Innominato era tutto concentrato nei suoi pensieri, ed<br />
era impaziente di correre a liberare la sua Lucia, sua ora in un senso molto diverso<br />
da quello di prima: non più la sua prigioniera, ma la sua benefattrice, colei che gli<br />
avrebbe propiziato la divina misericordia; e intanto la poverina soffriva chissà<br />
quanto per colpa sua… In mezzo a tanti pensieri che lo assillavano, il suo volto<br />
assumeva talvolta un’espressione così tormentata, che aggiungeva paura al già<br />
impaurito <strong>com</strong>pagno, che stava lì triste e impacciato.<br />
Finalmente l’arrivo della donna tolse don Abbondio dall’imbarazzo e il<br />
signore dall’attesa impaziente; si mossero dunque avviandosi verso le cavalcature<br />
approntate per loro. L’Innominato si era incamminato di buon passo, spinto dalla<br />
sollecitudine; ma quando, giunto alla porta della canonica, si accorse che il curato<br />
era rimasto indietro, si fermò per attenderlo, e lo fece passare avanti con un<br />
inchino umile e gentile: “cosa che rac<strong>com</strong>odò alquanto lo stomaco al povero<br />
tribolato.” Ma quella poca consolazione svanì in un momento, allorché il signore,<br />
andato a un angolo del cortiletto, riprese la sua carabina e se la mise speditamente<br />
ad armacollo. Arrivati al luogo dov’erano le mule, l’Innominato saltò agilmente in<br />
groppa a quella che gli fu presentata, mentre don Abbondio voleva assicurazione<br />
che la sua non avesse vizi; rassicurato dal cameriere del Cardinale, e da lui<br />
aiutato, finalmente fu issato sulla sella, e tutta la <strong>com</strong>itiva si avviò.<br />
Mentre passavano davanti alla chiesa, stipata di fedeli, nella piazzetta<br />
anch’essa piena zeppa di quanti non eran potuti entrare nel tempio, si levò tra la<br />
folla, che fece ala rispettosa, un mormorio di simpatia e quasi d’applauso. Davanti<br />
alla porta della chiesa, che era tutta spalancata, il signore si levò <strong>com</strong>puntamene il<br />
cappello per fare un profondo inchino; il curato lo imitò, ma sentendo il concerto<br />
delle voci e dell’organo, provò <strong>com</strong>e un’accorata tenerezza, non scevra d’invidia<br />
per i suoi confratelli che erano lì a cantare in letizia, mentre lui era sbalestrato<br />
chissà dove in una specie d’avventura molto rischiosa.<br />
Lasciato il paese alle loro spalle, s’inoltrarono nell’aperta campagna, e il<br />
disagio del povero prete cresceva man mano che si avvicinavano a quella valle<br />
famosa, dove c’erano quei bravi formidabili, senza paura e senza pietà, che<br />
ammazzare un prete l’avevano a opera meritoria! Il poveretto avrebbe anche<br />
questa volta voluto attaccar discorso, ma vedendo il suo <strong>com</strong>pagno molto<br />
concentrato nei suoi pensieri, non ritenne conveniente disturbarlo; sicché per tutto<br />
il viaggio si ridusse a parlare con sé stesso.<br />
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Questo soliloquio di don Abbondio è uno dei passi più belli del romanzo,<br />
perché esso rivela, meglio di ogni analisi psicologica, lo stato d’animo del povero<br />
tribolato, di cui mette a nudo i pensieri e i sentimenti. Egli se la prese un po’ con<br />
tutti: con don Rodrigo, che poteva “andare in paradiso in carrozza”, e invece<br />
voleva “andare a casa del diavolo a piè zoppo”; con il suo illustrissimo <strong>com</strong>pagno<br />
di viaggio, il quale, “dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze”,<br />
non era ancora soddisfatto, se non lo metteva in subbuglio anche con la<br />
conversione, se pure era sincera, cosa di cui non si sentiva affatto sicuro; con il<br />
suo arcivescovo, che credeva subito alle parole di colui, e immediatamente<br />
imbarcava un povero curato, di cui avrebbe dovuto essere geloso, in una<br />
spedizione di quella sorta, senza avere la minima garanzia. Pensò anche a Lucia,<br />
provando un certo rammarico per i suoi guai; ma non c’era che dire, colei era<br />
proprio nata per la sua rovina, per amareggiargli, anche se involontariamente, i<br />
suoi ultimi anni!<br />
Quindi si metteva a osservare di sott’occhio il suo <strong>com</strong>pagno, per cercare di<br />
conoscere quali fossero i suoi intimi pensieri, ma rimaneva perplesso e dubbioso:<br />
“Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare<br />
Oloferne in persona.” Infatti sul volto dell’Innominato apparivano i segni<br />
dell’interno travaglio: ora di aborrimento del suo passato, ora di <strong>com</strong>punzione per<br />
i peccati, ora di fiducia per l’avvenire. Egli passava mentalmente in rassegna le<br />
sue imprese inique e violente, per vedere quelle che fossero in qualche modo<br />
riparabili, e si concentrava nella ricerca dei rimedi più adatti e più sicuri; poi<br />
pensava a Lucia, ma quel senso di tenerezza e di consolazione, che provava nel<br />
poterla liberare, era ac<strong>com</strong>pagnato da “un’impazienza mista d’angoscia”,<br />
pensando che la poverina intanto soffriva chi sa quanto, per colpa sua.<br />
Allorché, entrati nella stretta valle, <strong>com</strong>inciarono a incontrare i bravi del<br />
signore, don Abbondio si sentì <strong>com</strong>e Dante tra i diavoli di malebolge: gli<br />
sembrava che quei manigoldi, guardandolo con gli occhi grifagni, manifestassero<br />
una voglia matta di fargli la festa… Per sua fortuna c’era lì il padrone, col suo<br />
fiero cipiglio; non ci voleva meno di quello, per tenere a freno quei briganti! In<br />
quel momento il poveretto benediva quel cipiglio che poco prima gli aveva dato<br />
tanto fastidio. Oltrepassata la Malanotte, presero la salita e giunsero in breve alla<br />
spianata davanti al castello.<br />
Il padrone, col solo cenno degli occhi, teneva fermi e in rispetto i bravi di guardia,<br />
i quali erano rimasti attoniti, non sapendo che cosa pensare. Già erano stati<br />
sconcertati, il mattino, da quella partenza così insolita del signore; vedendolo ora<br />
ritornare con un prete e una lettiga sconosciuta, con dentro una donna, cadevano<br />
addirittura dalle nuvole: di chi era quella livrea e quello stemma, mai visti? dove<br />
aveva pescato quella bussola, con quel lettighiero? e quella donna? era una nuova<br />
preda? ma <strong>com</strong>e e dove l’aveva fatta, da solo?... A tutti questi interrogativi essi<br />
non trovavano una risposta, e stavano perciò <strong>com</strong>e sbalorditi e sospettosi, perché<br />
quelle novità, per loro, non lasciavano prevedere nulla di buono, tanto erano<br />
contrarie all’ordine solito e alla disciplina imperante da tempo immemorabile in<br />
quel castello.<br />
137
Quando la <strong>com</strong>itiva giunse al portone, il picchetto dei bravi fece ala al<br />
padrone, che era intanto passato in testa; oltrepassati due cortili, egli si fermò<br />
davanti alla porta interna. A un bravo, accorso per aiutarlo a smontare, <strong>com</strong>andò<br />
di mettersi lì di guardia, con l’ordine di non far avvicinare nessuno. Quindi balza<br />
a terra da solo, lega in fretta la mula all’inferriata e apre lo sportello della lettiga,<br />
dicendo sottovoce alla donna: “Consolatela subito; fatele subito capire che è<br />
libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito.” Avvicinatosi poi al curato, col<br />
volto rasserenato e quasi lieto per l’opera buona che finalmente può <strong>com</strong>piere, gli<br />
chiede scusa dell’in<strong>com</strong>odo che gli ha procurato, aggiungendo con un sospiro:<br />
“Lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina.” Il volto e le parole<br />
del signore furono un vero balsamo per don Abbondio, che egli aiutò anche<br />
gentilmente a scendere dalla cavalcatura, reggendogli la staffa con atto di<br />
spontanea umiltà. Tanto era alto il concetto che si era formato del sacerdote, quale<br />
ministro di Dio, a contatto con l’ardente carità del Cardinale! Ora egli capiva di<br />
avere davanti un povero prete, non davvero all’altezza di quell’altissimo<br />
ministero; ma la sua riverenza andava giustamente alla funzione, se non alla<br />
persona; e le sue parole e il suo umile gesto servirono a spoltrire alquanto don<br />
Abbondio, che <strong>com</strong>piva quell’opera buona così a malincorpo!<br />
L’Innominato legò con le sue mani anche all’inferriata la mula del curato e,<br />
dopo aver avvertito il lettighiero che aspettasse lì, ac<strong>com</strong>pagnò il prete e la donna<br />
alla camera dov’era Lucia.<br />
138
CAPITOLO XXIV<br />
Lucia s’era svegliata da poco, e aveva penato molto a rendersi conto della dura<br />
realtà, che rassomigliava molto a un sogno molto pauroso, che l’opprimeva con<br />
l’angoscia di un incubo. La vecchia le si avvicinò e, con voce affettatamente<br />
dolce, l’invitò a mangiare, poiché ne aveva tanto bisogno, pallida e sbattuta<br />
<strong>com</strong>’era. Ma la ragazza non ne volle sapere, dicendo che voleva tornare subito da<br />
sua madre; e chiese dove fosse il padrone. La serva rispose che era uscito, ma<br />
tornerebbe presto e l’accontenterebbe in tutto; al che Lucia replicò che voleva<br />
andar subito dalla mamma.<br />
Pochi istanti dopo si sente un picchio all’uscio, e la nota voce che<br />
sommessamente dice alla vecchia di aprire. Questa si affretta a obbedire, e il<br />
padrone la fa allontanare, mandandola in un’altra parte del castello, <strong>com</strong>e aveva<br />
fatto poco prima per Marta. Quindi fa entrare don Abbondio e la buona donna, per<br />
rianimare la povera prigioniera, la quale, turbata e impressionata <strong>com</strong>’era, in un<br />
primo momento guardò con sospetto e quasi con spavento i nuovi venuti, che vide<br />
indistintamente e <strong>com</strong>e attraverso una nebbia, a causa dell’esaurimento fisico che<br />
aveva indebolito i suoi riflessi. Quando nei nuovi arrivati ravvisò un prete e una<br />
donna, provò un certo sollievo, e fissando meglio don Abbondio, le sembrò di<br />
riconoscerlo, ma non osando credere ai suoi occhi restava <strong>com</strong>e incantata. La<br />
donna le si avvicinò con atteggiamento affettuoso e, prendendole le mani per<br />
aiutarla ad alzarsi, la invitava ad andare con loro. Ma Lucia, non conoscendola,<br />
resisteva alle sue premure, poiché non si sentiva di affidarsi a una sconosciuta; e<br />
si rivolse al suo curato, chiedendogli se fosse proprio lui, perché a lei sembrava di<br />
sognare, di essere <strong>com</strong>e fuor di sé. Don Abbondio la rassicurò che era proprio lui,<br />
e che era venuto a prenderla con quella buona donna, perché ormai era veramente<br />
libera. Allora la ragazza, riavutasi affatto, si alzò in piedi senza indugio, e con<br />
grande trasporto esclamò: “E’ dunque la Madonna che vi ha mandati.” Quindi<br />
chiese se potevano proprio andare, se nessuno si opporrebbe, né i bravi né altri; e<br />
ricordò che veramente il signore del castello gliel’aveva promesso. Il curato le<br />
rispose che colui era venuto apposta con loro, per liberarla, e che stava aspettando<br />
fuori della stanza; e fece quindi premura a Lucia, per non farlo attendere ancora,<br />
un signore così nobile!<br />
L’Innominato, sentendo parlar di sé, ritenne di farsi vedere, e si affacciò<br />
timidamente all’uscio. La ragazza non poté trattenere un istintivo senso di paura,<br />
per cui si strinse alla buona donna, nascondendole il viso in seno. A quel gesto il<br />
signore, che aveva fatto qualche passo per avvicinarsi, si fermò indeciso, abbassò<br />
gli occhi con <strong>com</strong>punzione, e interpretando l’atteggiamento di Lucia <strong>com</strong>e un<br />
muto rimprovero per ciò che lui le aveva fatto soffrire, mormorò umilmente: “E’<br />
vero: perdonatemi!” Intanto sia la donna che don Abbondio cercavano di fare<br />
coraggio a Lucia, dicendo che colui era diventato buono, tanto da chiederle scusa<br />
del male arrecatole; a queste parole la ragazza alzò gli occhi verso il signore, e<br />
139
vedendolo così mortificato, fu presa da un sentimento misto di pietà e di<br />
riconoscenza, e disse con voce soave: “Oh, il mio signore! Dio le renda merito<br />
della sua misericordia!” Queste parole scesero <strong>com</strong>e un balsamo nel cuore<br />
contrito dell’Innominato, che ringraziò <strong>com</strong>mosso; quindi si avviò, precedendo la<br />
donna, che portava sottobraccio Lucia, mentre don Abbondio s’incamminò per<br />
ultimo. Giunti al cortile, il signore, “con una certa gentilezza quasi timida”, volle<br />
aiutare la ragazza a salire sulla bussola, sorreggendola per un braccio. Lucia<br />
questa volta non sentì alcuna ripugnanza, poiché nel suo animo sensibile aveva<br />
già <strong>com</strong>preso quanto quell’uomo fosse mutato; infatti poche ore dopo, parlando di<br />
lui alla madre, dirà con convinzione: “ora è un santo.”<br />
L’Innominato aiutò anche don Abbondio a montare in sella, e la <strong>com</strong>itiva si<br />
mosse quando pure lui fu a cavallo. La sua fronte non era più atterrata e confusa,<br />
<strong>com</strong>e poco prima davanti alla sua prigioniera; il suo sguardo aveva ripreso la<br />
durezza necessaria a tenere in rispetto quella torma di giannizzeri, di cui nessuno<br />
si moveva, perché questo era l’ordine che il padrone dava con quelle occhiate<br />
imperiose e significative. Il fiero cipiglio del signore ormai non dava alcun<br />
fastidio al nostro curato, il quale aveva finalmente capito che esso era<br />
indispensabile per tenere all’ordine quel branco di briganti, tra i più sfegatati e<br />
feroci d’Italia. Infatti, <strong>com</strong>e s’uscì dalla valle, che costituiva <strong>com</strong>e il dominio<br />
dell’Innominato, e non videro più i suoi bravi , la sua fronte s’andò spianando, e<br />
anche don Abbondio poté respirare più liberamente, mentre prima, davanti a quei<br />
masnadieri che lo guardavano con certe occhiate, si sentiva <strong>com</strong>e oppresso, e<br />
pensava inorridito: se costoro immaginano che io sia venuto a convertire il loro<br />
padrone, e a togliere loro il pane, povero me! mi martirizzano! E lui, lo sappiamo,<br />
non si sentiva nessuna vocazione per il martirio, e non vedeva l’ora di essere fuori<br />
da quella faccenda.<br />
La brava donna invece si rivelò subito all’altezza della situazione; per cui<br />
possiamo ben dire che il suo parroco aveva fatto un’ottima scelta, dimostrando di<br />
avere buon fiuto. Infatti, appena entrata nella lettiga, con molta discrezione,<br />
abbassò le tendine, per sottrarre la ragazza a sguardi indiscreti e metterla quindi a<br />
suo agio; “prese poi affettuosamente le mani di Lucia, s’era messa a confortarla,<br />
con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza.” E vedendo che l’ignoranza<br />
degli avvenimenti, che la riguardavano, teneva ancora la poverina in uno stato di<br />
turbamento, il quale le impediva di godere pienamente la gioia della liberazione,<br />
pensò bene di dirle tutto quello che sapeva, e dell’Innominato che si era<br />
convertito, e del Cardinale il quale, essendo in visita pastorale alla sua parrocchia,<br />
aveva avuto un colloquio col signore che inaspettatamente era andato a trovarlo, e<br />
avendo saputo del suo rapimento, aveva subito mandato una sua lettiga, per<br />
prenderla e portarla nel paese dov’era lui. Lucia, conosciuto il nome del paese<br />
dov’erano diretti, molto vicino al suo, pensò subito a sua madre, esprimendo il<br />
desiderio di poterla presto rivedere; e la buona donna rispose <strong>com</strong>piacente che la<br />
manderebbero a prendere senz’altro, non sapendo che già ci aveva pensato il gran<br />
cuore del Cardinale. Poi aggiunse che era stata invitata a venire al castello dal suo<br />
curato, per incarico dell’Arcivescovo, concludendo che lei doveva davvero<br />
140
ingraziare Dio, perché era stata salvata in maniera proprio miracolosa, per un<br />
mirabile intervento della Divina Provvidenza. Le parole sincere, affettuose e<br />
infervorate della buona donna riuscirono nell’intento di rianimare Lucia, cosa che<br />
non era affatto riuscita, <strong>com</strong>e abbiamo visto, alla vecchia del castello. Quanta<br />
differenza tra le due donne! mentre nell’una ogni tenero sentimento è spento<br />
insieme alla religione, nell’altra ogni umano senso d’amore è vivificato e quasi<br />
sublimato dalla carità cristiana. Non vogliamo con questo affermare che la buona<br />
donna che andò a rilevare Lucia sia senza difetti; ha anch’essa le sue pecche,<br />
<strong>com</strong>e per esempio un certo senso di sé, un certo orgoglio; ma è tanto naturale e<br />
innocente questo orgoglietto, da apparire quasi simpatico, <strong>com</strong>e quando si rallegra<br />
di poter ospitare la ragazza senza alcuna preoccupazione economica, perché<br />
benestante. E’ anche una donna di molto intuito, che si è subito accorta del poco<br />
valore di don Abbondio, intorno al quale esprime un giudizio preciso, per nulla<br />
indulgente: “E trovandosi al nostro paese anche il vostro curato… ha pensato il<br />
signor cardinale di mandarlo anche lui in <strong>com</strong>pagnia; ma è stato di poco aiuto. Già<br />
l’avevo sentito dire ch’era un uomo da poco; ma in quest’occasione, ho dovuto<br />
proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa.” In queste parole<br />
un po’ maliziosette si avverte quel certo orgoglio di cui abbiamo parlato; infatti<br />
nell’affermazione che il curato è stato di poco aiuto, è implicita un’indiretta<br />
esaltazione del proprio ruolo. Si potrebbe dire anche, a voler giudicare con rigore,<br />
che la brava donna pecca contro la carità e l’umiltà evangelica, che c’impone di<br />
non criticare il prossimo; ma torno a dire che essa non è una santa, ma solo una<br />
buona donna, “una donna di cuore e di testa”, quale appunto la desiderava il<br />
Cardinale. Per certi aspetti del carattere ella rassomiglia a quella buona vedova<br />
che già conosciamo da un pezzo, la nostra Agnese, la quale anch’essa non ha<br />
troppi peli sulla lingua; e vedremo tra poco che non la modera affatto verso don<br />
Abbondio, che accusa dinanzi al cardinale di aver mancato al proprio dovere.<br />
Eppure Agnese è una donna timorata di Dio e caritatevole, e per tutto il resto<br />
irreprensibile; il suo unico difetto è di essere un po’ ciarliera, oltreché di manica<br />
larga riguardo alla liceità di certe azioni, <strong>com</strong>e il matrimonio di sorpresa. Direi<br />
però che la moglie del sarto è un tantino superiore <strong>com</strong>e spiritualità: la carità della<br />
vedova appare alquanto più angusta.<br />
A don Abbondio, durante il viaggio di ritorno, era naturalmente passata quella<br />
gran paura, specialmente quando fu del tutto fuori da quella brutta valle e dalle<br />
grinfie dei suoi temibili abitatori; ma il suo animo fu solo per poco del tutto<br />
sgombro da ogni preoccupazione. Poi subito si presentarono altri pensieri<br />
tormentosi, che prima erano, per così dire, latenti nelle pieghe del suo animo<br />
dominato dalla paura. Il Manzoni in proposito ci dà questa bellissima similitudine:<br />
“<strong>com</strong>e, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per<br />
qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce.” Il grand’albero finalmente<br />
sradicato è appunto “quella pauraccia” del castello, del suo padrone e dei suoi<br />
masnadieri, che gli aveva amareggiato il viaggio di andata; le erbacce nate al suo<br />
posto sono invece le nuove preoccupazioni, non così vistose, ma pur esse<br />
141
fastidiose, <strong>com</strong>e possono essere le eriche e le ortiche che ingombrano un<br />
passaggio obbligato.<br />
Nel viaggio di ritorno il nostro curato avvertì innanzi tutto la s<strong>com</strong>odità del<br />
cavalcare per quei greppi, lui che non c’era affatto abituato; e la mula, quasi per<br />
farlo apposta, voleva sempre camminare sul ciglio del sentiero, proprio sul<br />
burrone; sicché il poveretto, a ogni passo, temeva di essere catapultato nella<br />
voragine. Cercò ripetutamente, tirando le briglie, di far spostare quella testarda<br />
verso il centro della mulattiera, per non vedersi sotto gli occhi quell’abisso che gli<br />
dava le vertigini, ma non ci fu verso; sembrava che la bestia provasse un gusto<br />
matto a mettere gli zoccoli sull’orlo! E don Abbondio, dopo averla stizzosamente<br />
apostrofata in cuor suo: “hai anche tu quel maledetto gusto d’andar a cercare i<br />
pericoli, quando c’è tanto sentiero!”, desistette da ogni ulteriore tentativo e si<br />
lasciò “condurre a piacere altrui”, <strong>com</strong>’era suo destino. Infatti, proprio quella<br />
mattina, s’era lasciato indurre da Perpetua a recarsi nel paese dov’era il Cardinale,<br />
per ossequiarlo, mentre ne poteva benissimo fare a meno, secondo lui; e ora si<br />
rodeva contro “la signora Perpetua”, la serva padrona, non meno che contro la<br />
mula cerca-pericoli. Un’altra preoccupazione, meno immediata ma forse più<br />
grave, gli veniva da quel “bestione di don Rodrigo” il quale, non potendosela<br />
prendere né col Cardinale né con l’Innominato per il fallimento scandaloso e<br />
rumoroso della sua bell’impresa, poteva essere tentato di sfogarsi contro di lui,<br />
che non c’entrava per nulla. Ma tant’è! e conclude amaramente: <strong>“I</strong> colpi cascano<br />
sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria.” La sua filosofia pessimistica è resa più<br />
sconsolata dalla costatazione che il cencio è diventato proprio lui, lui che non<br />
s’impiccia mai di niente e di nessuno, lui che chiede soltanto di essere lasciato in<br />
pace. Ma tutti ce l’hanno con lui, sia i birboni che i santi! Anche il Cardinale, non<br />
poteva farne a meno di metterlo in ballo a quel modo? non bastavano il signore e<br />
la donna per andare a prendere Lucia?... E se poi Sua Eccellenza voleva andare a<br />
fondo della faccenda del matrimonio, chiedendogli conto della negata<br />
celebrazione? E se al Cardinale veniva in mente di fare della pubblicità su quella<br />
benedetta conversione, mettendo in mostra anche lui, che voleva essere<br />
dimenticato? Oh povero lui!... in questo caso don Rodrigo non gliela<br />
perdonerebbe certamente! Oppure doveva andare da lui, al palazzotto, a mettere in<br />
chiaro le cose, per abbonirlo, per fargli vedere che nella sgradevole circostanza si<br />
era trovato immischiato per mera obbedienza, tirato proprio per i capelli? Ma<br />
obbietta a sé stesso: “parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità. Oh<br />
santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il<br />
meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa <strong>com</strong>’è; e lascia poi fare a Perpetua a<br />
mandarla in giro.” Una volta tanto la loquacità della serva gli può essere utile,<br />
<strong>com</strong>e mezzo di pubblicità, dopo essergli stata tante volte dannosa! Il soliloquio<br />
termina con una costatazione molto triste: “Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da<br />
passarli male.”<br />
Le parole di don Abbondio meritano qualche <strong>com</strong>mento: egli dunque si<br />
scandalizza che qualcuno lo accusi di essere dalla parte degli iniqui; eppure lui – e<br />
glielo dimostrerà tra pochi giorni il suo arcivescovo – obbedendo puntualmente a<br />
142
don Rodrigo, si era schierato proprio dalla parte dell’iniquità, tradendo i suoi<br />
figlioli spirituali, affidati alle sue cure, i quali si fidavano del loro parroco, almeno<br />
prima che prevaricasse così sfacciatamente. L’iniquità, è vero, non gli dava degli<br />
spassi (e se glieli avesse dati, l’avrebbe seguita per questo?), ma essa gl’incuteva<br />
certamente un tale spavento, che ne subiva il <strong>com</strong>ando, collaborando praticamente<br />
con essa.<br />
Comunque, per evitare ogni pubblicità e ogni cerimonia inutile, don Abbondio<br />
decise di tornarsene subito a casa sua, una volta giunto al paese e condotta<br />
felicemente a termine la sua missione; e così fece. Non essendo il Cardinale<br />
ancora uscito di chiesa, il nostro curato lasciò all’Innominato i suoi ossequi e le<br />
sue scuse verso il superiore, dicendo che doveva assolutamente tornare alla sua<br />
parrocchia per affari urgenti; quindi ossequiò il signore e partì in fretta, dopo aver<br />
recuperato il “suo cavallo”, cioè il bastone, lasciato in un canto. L’Innominato<br />
rimase lì solo, attendendo che il Cardinale uscisse dalla chiesa.<br />
La buona donna fece condurre Lucia direttamente a casa sua, per rifocillarla, e<br />
intanto si <strong>com</strong>piaceva cordialmente con la ragazza per il fatto che quel giorno,<br />
considerato, in paese, festivo per la presenza dell’Arcivescovo, non c’era la gatta<br />
sul focolare, poiché tutti cercavano di festeggiare anche a tavola l’eccezionale<br />
avvenimento. Infatti, mettendo della legna minuta sotto il calderotto, in cui stava a<br />
cuocere un bel cappone, “fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella<br />
già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia.” Non senza una<br />
punta di <strong>com</strong>piacenza disse alla sua ospite che loro se la passavano benino; quindi<br />
aggiunse: “Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a<br />
tiro, e potrete ristorarvi un po’ meglio.” Notiamo volentieri il conversare cordiale<br />
e arguto della padrona di casa, tale da mettere davvero il buon umore in chi<br />
l’ascoltava; e ammiriamo anche la sua grande discrezione, segno di buon senso e<br />
di naturale intelligenza. Infatti non rivolse mai a Lucia una domanda curiosa, per<br />
quanto desiderasse sapere di lei tanti precedenti, che ignorava; ma l’alto senso<br />
della sua missione, che non era quella di cicalare, ma di consolare e rianimare, le<br />
fecero vincere la naturale curiosità. La finezza di questa brava donna è dimostrata<br />
anche dal bel garbo e dal notevole tatto con cui seppe mettere a suo agio l’ospite,<br />
una volta che l’ebbe condotta a casa sua. E Lucia, rimessasi un po’ in forze per il<br />
pasto, e soprattutto confortata dalla cordiale accoglienza, “andava intanto<br />
assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia:” la<br />
civetteria infatti non può albergare in un animo così profondamente religioso, e<br />
neppure un innocente desiderio di <strong>com</strong>parire; la ragazza riordina le sue vesti e i<br />
suoi capelli solo per un innato senso di decoro, per rispetto della sua persona,<br />
della casa che l’ospitava e dei suoi abitatori.<br />
Dopo aver rassettato le trecce, ri<strong>com</strong>pose il fazzoletto intorno al collo, e<br />
facendo questo le sue mani s’incontrarono con la corona, che la notte precedente<br />
si era messa al collo, dopo aver formulato il voto di verginità. La memoria della<br />
solenne promessa venne a un tratto a s<strong>com</strong>pigliarle le idee che aveva da poco<br />
faticosamente ri<strong>com</strong>poste, e il suo primo pensiero, quasi istintivo, fu di desolato<br />
pentimento: “Oh povera me, cos’ho fatto!” Questa è la Lucia reale, che si sente<br />
143
quasi perduta al pensiero di non poter più sposare l’uomo che ama; perciò non si<br />
dica che il Manzoni ha idealizzato troppo questo personaggio. Ma subito dopo<br />
ella si pentì del suo pentimento, capì che rammaricarsi di quel sacrificio, dopo<br />
aver ottenuto la grazia della liberazione, era un’ingratitudine, un sentimento<br />
egoistico e indegno di un cristiano; la sua fede, la rassegnazione abituale alla<br />
volontà di Dio, la salda fiducia che Egli l’avrebbe aiutata nel difficile <strong>com</strong>pito di<br />
mantenere quel voto, la salvarono da una costernazione senza speranza.<br />
Toltasi quindi la corona dal collo, la baciò con devozione e mentalmente<br />
confermò il voto, chiedendo insieme al Signore e alla Madonna anche la grazia di<br />
poterlo mantenere, dando rassegnazione sia a lei sia a Renzo. Ma al pensiero dello<br />
sposo promesso sentì <strong>com</strong>e un tuffo al cuore, fu lì lì per pentirsi, per disperarsi di<br />
nuovo; ma vinse lo scoramento con una fervida preghiera, con la quale chiese a<br />
Dio di liberarla da quei pensieri assillanti, da quelle immagini un tempo care, che<br />
ormai per lei costituivano solo una brutta tentazione. Riuscì a rasserenarsi<br />
alquanto, ma la tentazione, allontanata per quella volta, non era affatto vinta, e<br />
sarebbe tornata a tormentare il sensibile animo della ragazza, profondamente<br />
innamorata del suo Renzo. Povera Lucia, sì, per le sue sofferenze; ma anche<br />
ammirabile fanciulla, per la strenua lotta che seppe sostenere contro lo sconforto e<br />
contro il male, sostenuta solo dalla sua fede.<br />
A questo punto appare quasi inevitabile fare un confronto tra Lucia e<br />
Gertrude, tra la ragazza di campagna e la principessa. Costei era stata costretta al<br />
voto di verginità, e si sentiva perciò disperata, ricalcitrando sotto il giogo e<br />
sentendone per questo maggiormente l’oppressione, poiché non aveva il conforto<br />
della fede, che rende sopportabile ogni male scorgendo in esso un possibile bene;<br />
Lucia invece aveva fatto il voto spontaneamente, in un momento di disperazione<br />
in ogni mezzo umano, in un momento in cui ogni sacrificio le sembrava doveroso<br />
e anche facilmente sopportabile; ma in seguito non le sembrò più tale. Una volta<br />
liberata e tornata, per così dire, in una situazione normale, sente che ha sbagliato,<br />
facendo quel sacrificio supremo che certamente Dio non esigeva da lei, per<br />
liberarla; si pente ed è vicina a disperarsi, dovendo rinunciare per sempre a<br />
quell’amore così grande e così legittimo; ma la fede salda e la rassegnazione<br />
cristiana la sostengono e le rendono il giogo leggero e quasi soave. Questa fiducia<br />
in Dio è purtroppo mancata a Gertrude, per la quale la religione era “una larva<br />
<strong>com</strong>e l’altre.”<br />
Lucia stava ancora a tavola, quando tornò dalla chiesa la famigliola del sarto,<br />
cioè il capofamiglia, due bambine e un fanciullo. Solo per dovere di <strong>com</strong>pletezza<br />
dobbiamo rilevare che il Manzoni, a proposito di questa famiglia, cioè della sua<br />
<strong>com</strong>posizione, è incorso in una svista. Infatti nel capitolo XXIX, tornando a<br />
parlare di essa, fa capire che era formata da due ragazzi e una bambina,<br />
contrariamente a quanto dice nel presente capitolo: una piccola inesattezza, che<br />
non toglie nulla alla validità e alla poesia del romanzo. Può sembrare però strano<br />
che don Lisander, in genere così meticolosamente preciso, e per di più scrupoloso<br />
correttore del suo romanzo, di cui fece un paio di redazioni manoscritte e due<br />
edizioni a stampa (1827 e 1840 – 42), non si sia accorto né sia stato avvertito di<br />
144
questa inesattezza, della quale gli stessi <strong>com</strong>mentatori si sono accorti piuttosto<br />
tardi. Ma lasciando stare questo scambio di sesso, che ci fa un poco sorridere,<br />
diciamo qualcosa di questa, che è la seconda famiglia <strong>com</strong>pleta che <strong>com</strong>pare nel<br />
romanzo, dopo quella di Tonio (cap. VI). Quella che appare agli occhi di Renzo,<br />
venuto a cercare il suo testimone, è una povera famiglia di contadini , abbastanza<br />
numerosa, raccolta intorno a una piccola polenta bigia di gran saraceno, scodellata<br />
sulla tafferìa di faggio, la quale purtroppo non riuscirà a sfamarli del tutto. Essa è<br />
formata, oltre che dal capo famiglia, dallo scempiato fratello, dalla madre, dalla<br />
moglie e da “tre o quattro ragazzetti”. L’autore, non precisandone il numero,<br />
adopera proprio l’espressione di chi, vedendo un gruppo di marmocchi attorno al<br />
focolare, dove il padre rimena col matterello la magra polentuccia, non si mette a<br />
contarli, ma osserva soprattutto lo stato d’animo dei poveri bambini affamati, che<br />
stanno con i bramosi occhi fissi su quel nero paiolo! Questi figlioli ce li<br />
immaginiamo non solo denutriti, ma anche vestiti sommariamente con laceri<br />
indumenti, poiché se, a causa della carestia, si deve lesinare il cibo, non si<br />
spenderanno di certo denari per il vestiario! Invece la famiglia che si presenta ora<br />
agli occhi di Lucia potrebbe apparire, al confronto, molto benestante; e il<br />
Manzoni, con l’occhio meno preoccupato dall’aspetto di miseria che l’aveva<br />
colpito allora, osserva quasi <strong>com</strong>piaciuto ogni <strong>com</strong>ponente; non sono bambini<br />
mortificati dall’indigenza, <strong>com</strong>e quelli di Tonio, ma vispi e gioiosi: “due<br />
bambinette e un fanciullo entran saltando”. Qui, per grazia di Dio, i figlioli stanno<br />
bene nell’anima e nel corpo, perché vivono in un modesto benessere; entrano<br />
saltando e vociando, perché sono allegri, <strong>com</strong>e dovrebbero essere tutti i bambini,<br />
purché non manchi loro né l’affetto dei genitori né il necessario dal punto di vista<br />
materiale. Ai poveri figli di Tonio mancava proprio quest’ultima cosa, per cui non<br />
possono essere garruli e lieti, ma mogi mogi e muti stanno ad aspettare, con gli<br />
occhi sbarrati, che sia cotta quella polenta che purtroppo non sazierà la loro lunga<br />
fame. La pena dell’Autore davanti a questa scena è avvertibile tra le righe.<br />
Ma torniamo alla casa del sarto, dove entrano festanti i bambini, seguiti dal<br />
padre, che avanza “con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta<br />
in viso.” Il Manzoni ci dice subito che era “la miglior pasta del mondo”, ma<br />
questo non vuol dire che non abbia anche lui i suoi difettucci, tra cui principale un<br />
certo orgoglio di letterato. Infatti non era analfabeta, <strong>com</strong>e la maggior parte dei<br />
<strong>com</strong>paesani, e aveva letto più d’una volta la raccolta delle vite leggendarie degli<br />
antichi santi e anche alcuni romanzi cavallereschi, <strong>com</strong>e <strong>“I</strong>l Guerrin Meschino” e<br />
<strong>“I</strong> reali di Francia”, e per questo aveva acquistato in paese fama di “uomo di<br />
talento e di scienza”. Però lui faceva il modesto, e quando veniva lodato per la sua<br />
cultura, rispondeva “soltanto che aveva sbagliato vocazione; e che se fosse andato<br />
agli studi, in vece di tant’altri…!” Con queste parole il brav’uomo esaltava<br />
implicitamente la propria intelligenza, la quale sarebbe arrivata chi sa dove, se si<br />
fosse applicata alle lettere, invece che a fare vestiti per contadini.<br />
A parte questa piccola dose di vanità, egli era un buon cristiano, molto<br />
caritatevole, e aveva dato volentieri la sua approvazione al viaggio della moglie al<br />
castello, per prendere quella povera ragazza, che poi avrebbe anche ospitato con<br />
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molto piacere. Tornava ora dalle funzioni di chiesa tutto entusiasta, perché la<br />
predica del Cardinale aveva “esaltati tutti i suoi buoni sentimenti.” La moglie gli<br />
presentò con <strong>com</strong>piacimento l’ospite, la quale si alzò da tavola impacciata, col<br />
viso rosso, balbettando qualche scusa; ma lui la mise subito a proprio agio,<br />
“facendole una gran festa”, affermando che lei aveva portato la benedizione di<br />
Dio in quella casa, mentre per loro era una gioia e un orgoglio poter ospitare una<br />
miracolata.<br />
Messisi tutti a tavola, durante il pasto il padrone di casa si mise a parlare con<br />
grande calore dei grandi avvenimenti della giornata, e soprattutto della mirabile<br />
predica dell’Arcivescovo, che aveva fatto piangere tutti, perché anche lui, il<br />
Porporato, aveva le lagrime agli occhi per la <strong>com</strong>mozione del momento. Oltre che<br />
della conversione di quel signore, pur senza nominarlo, egli aveva parlato della<br />
carestia, esortando tutti ad aiutarsi fraternamente, in spirito di carità, ma ad esser<br />
nello stesso tempo fiduciosi e contenti, nell’osservanza della santa legge di Dio,<br />
“perché la disgrazia non è il patire e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male.”<br />
E il Cardinale, aggiungeva il sarto, non faceva <strong>com</strong>e padre Zappata, che predicava<br />
bene e razzolava male, perché lui agiva appunto <strong>com</strong>e insegnava agli altri, ed era<br />
capace di togliersi il pane dalla bocca per sfamare i bisognosi. E aveva detto nella<br />
predica che non soltanto i ricchi dovevano sentire l’obbligo stretto di soccorrere il<br />
prossimo meno fortunato. A questo punto il buon uomo si fermò <strong>com</strong>e assorto nel<br />
pensiero della carità, doverosa per tutti i cristiani; e gli venne una buona<br />
ispirazione, ricordandosi di una povera vedova che abitava lì vicino, coi bambini<br />
da sfamare. Riempì perciò un piatto delle vivande che stavano a tavola, lo mise in<br />
un tovagliolo assieme a una pagnotta e, aggiuntovi un fiaschetto di vino, incaricò<br />
la bambina più grande di portar il tutto alla Maria; e aggiunse: “dille che è per<br />
stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia<br />
che tu le faccia l’elemosina. E non dire niente, se incontri qualcheduno.” A questo<br />
gesto di carità semplice e cordiale, fatto proprio secondo lo spirito evangelico,<br />
Lucia si <strong>com</strong>mosse sino alle lagrime, “e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice.”<br />
Le parole del suo ospite, ac<strong>com</strong>pagnate dalla premurosa azione caritativa, le<br />
avevano fatto un gran bene al cuore, infondendole anche più forza e più coraggio<br />
per mantenere il suo voto; la sua religiosità era per così dire sublimata<br />
dall’esempio altrui, per cui ella sentiva, nel gran sacrificio che offriva a Dio e alla<br />
Madonna, una certa “gioia austera e solenne.”<br />
Poco dopo venne alla casa del sarto il curato della parrocchia, per avvertire<br />
Lucia che Sua Eccellenza voleva vederla in giornata, e anche per ringraziare, in<br />
nome del superiore, la famiglia che le aveva offerto così pronta e squisita<br />
ospitalità. Chiese quindi alla ragazza se la madre fosse già arrivata; Lucia,<br />
sentendo che era stata mandata a prendere e ormai non poteva tardare, per la<br />
grande emozione scoppiò a piangere, e ci volle un bel po’ perché si potesse<br />
riavere dalla forte <strong>com</strong>mozione che l’inaspettata notizia le aveva procurato. Il<br />
curato infatti, per ordine del Cardinale, aveva mandato un barroccino, con un<br />
uomo assennato, a prendere Agnese la quale, sentendo il motivo dell’invio del<br />
mezzo, che il messo non sapeva ben circostanziare, era rimasta <strong>com</strong>e fuor di sé;<br />
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quindi era salita in furia sul calesse, non vedendo l’ora di riabbracciare l’amata<br />
figliola. Lungo la strada, per fortuna, incontrò don Abbondio, che se ne tornava<br />
lemme lemme al paese, e da lui ebbe la certezza che Lucia era proprio salva, e si<br />
calmò alquanto. Il curato volle subito approfittare dell’occasione propizia, per<br />
ammonire la donna a non dir nulla all’Arcivescovo del matrimonio non celebrato,<br />
caso mai fossero ammesse, lei e la figlia, alla sua presenza, cosa non improbabile;<br />
Agnese però, vedendo che il parroco parlava nel suo solo interesse, lo piantò in<br />
asso, senza prometter nulla, avendo piuttosto intenzione di rivelar tutto.<br />
Non diciam nulla del <strong>com</strong>movente incontro di Lucia con la madre, dei reiterati<br />
abbracci, misti con lagrime di consolazione. Quando poi Agnese, sfogata la prima<br />
emozione, poté conoscere dalla viva voce della figlia tutto l’accaduto, riconobbe<br />
subito nel ratto un’impresa ordita da don Rodrigo, contro il quale si mise a<br />
inveire, appioppandogli gli epiteti che colui si meritava certamente, e augurando<br />
che Iddio lo pagasse secondo i meriti. Ma Lucia, anima veramente cristiana e<br />
quindi per nulla vendicativa, rimproverò dolcemente la madre: “No, no!<br />
preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, <strong>com</strong>e<br />
ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo.” E’<br />
proprio il caso di dire che la vendetta del cristiano è il perdono, ac<strong>com</strong>pagnato<br />
dalla preghiera per i persecutori.<br />
Nel racconto che fece alla madre Lucia tacque il particolare del voto, e aveva<br />
le sue buone ragioni; sapendo che la madre era un po’ ciarliera, voleva evitare che<br />
la cosa andasse per molte bocche; ma soprattutto, sapendo che la madre aveva la<br />
coscienza un po’ elastica, temeva che essa tirasse fuori “qualche sua regola larga”<br />
in fatto di morale, per dimostrarle che non era obbligata a mantenere quella<br />
promessa. E poi lei ne voleva parlare innanzi tutto a fra Cristoforo, suo padre<br />
spirituale, e stare al suo consiglio; e immaginate <strong>com</strong>e rimase male, quando seppe<br />
che era stato trasferito in un paese lontano lontano! Infine parlarono di Renzo, di<br />
cui si sapeva solo che era in salvo nel territorio bergamasco, ma dal quale non si<br />
era ancora avuta nessuna notizia positiva. Per la povera Lucia ormai<br />
quest’argomento era divenuto penoso, perché suscitava tutti i pensieri, e i desideri<br />
di un tempo, che doveva dimenticare; cercava perciò di cambiar discorso, e per<br />
fortuna proprio in quel momento fu annunziato l’arrivo imminente del Cardinale.<br />
Questi, finite le funzioni religiose, aveva desinato assieme all’Innominato, in<br />
un’accolta di sacerdoti, che non si saziavano di ammirare “quell’aspetto così<br />
ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento.” Alzatisi da<br />
tavola, i due personaggi ebbero un abboccamento molto più lungo del precedente,<br />
nel quale evidentemente toccarono i temi della nuova vita di riparazione e di<br />
edificazione religiosa e morale, che il signore aveva così risolutamente<br />
abbracciato. Quindi l’Innominato tornò al suo castello, a dare inizio al piano di<br />
rinnovamento che già aveva concepito, mentre il Cardinale chiese al curato di<br />
ac<strong>com</strong>pagnarlo a casa del sarto.<br />
Il buon prete, che era uno di quei tali galantuomini del “ne quid nimis”, rispose<br />
che Sua Eccellenza non si doveva affatto in<strong>com</strong>odare, perché li avrebbe subito<br />
fatti venire tutti, sia gli ospiti sia le due donne ospitate. L’Arcivescovo ribadì che<br />
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voleva andare lui alla loro casa, e dovette insistere molto per convincere quel<br />
“curato guastamestieri (buon uomo del resto)” a lasciarlo fare, intendendo egli<br />
“con quella visita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo<br />
proprio ministero in un tempo.” Finezza di carità che, a quanto pare, non c’era<br />
nell’animo angusto di quel parroco.<br />
Quando i due, tanto differenti di dignità quanto di sensibilità evangelica,<br />
uscirono in strada diretti alla casa ospitale, subito si formò <strong>com</strong>e una processione<br />
di fedeli che volevano così onorare il loro presule, il quale avanzava a stento in<br />
mezzo alla folla sempre crescente, specie di bambini. che si facevano arditamente<br />
avanti, sgusciando tra gli adulti, per baciare la mano o toccare la porpora del loro<br />
pastore, che li accarezzava e benediceva paternamente assieme alla folla<br />
osannante. Vedendo la calca stringersi intorno al Cardinale, per tributargli il<br />
proprio affettuoso omaggio, il curato formalista gridava quasi scandalizzato: “Via,<br />
indietro, ritiratevi!” Ma il buon Federigo gli diceva dolcemente di lasciar fare, di<br />
non badare al cerimoniale, perché quei contatti diretti coi suoi fedeli, anche se<br />
faticosi, costituivano per lui <strong>com</strong>e un dovere paterno, e anche una gioia<br />
consolante. La scena ci ricorda quella del Vangelo, dei bambini che fanno ressa<br />
intorno a Gesù, e degli apostoli che cercano di allontanarli; e le parole<br />
dell’Arcivescovo riecheggiano il “Sinite parvulos venire ad me” che il Redentore<br />
oppose a quegli uomini zelanti, per allora, solo nell’impedire ai fanciulli il<br />
piacere di farsi accarezzare dal Buon Maestro, e a questi la gioia di trovarsi tra<br />
quelle anime candide ed entusiastiche.<br />
Tra la folla che ac<strong>com</strong>pagnava il Cardinale si trovava per caso anche il nostro<br />
buon sarto, il quale procedeva lentamente assieme agli altri, “con gli occhi fissi e<br />
con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe.” Ma quando vide che il<br />
Porporato entrava proprio a casa sua, si fece largo autorevolmente tra la calca ed<br />
entrò anche lui. Agnese e Lucia, che in quel momento erano sole, perché la<br />
padrona di casa era salita al piano di sopra, per preparare una camera per loro,<br />
davanti al Cardinale rimasero confuse e vergognose, vinte dalla soggezione e<br />
dall’emozione: l’improvvisa apparizione aveva loro mozzato la parola e quasi lo<br />
stesso respiro. Ma il sant’uomo con parole semplici e cordiali, con un fare<br />
familiare e premuroso, tolse subito alle poverine quella gran soggezione,<br />
mettendole ben presto a loro agio. Egli ricordò i patimenti della ragazza, ma anche<br />
i meriti che aveva acquistato soffrendo cristianamente per conservare la sua virtù,<br />
e aggiunse che questo suo dolore era servito per conquistare, con la grazia di Dio,<br />
il cuore di un peccatore il quale, cambiando vita, avrebbe anche sollevato dalle<br />
pene tanti poveri perseguitati e dato gloria a Dio con una vita di riparazione.<br />
In questo frattempo, mentre il sarto entrava dall’uscio di strada, la moglie<br />
scendeva dal primo piano; ma vedendo il presule a colloquio con le ospiti, con<br />
grande discrezione rimasero tutt’e due in disparte, per non disturbare. <strong>“I</strong>l<br />
Cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai<br />
conforti qualche domanda”, allo scopo di scoprire il modo migliore per poterle<br />
aiutare. Agnese, vedendo l’Arcivescovo così affabile e alla mano, si ricordò<br />
dell’egoismo di don Abbondio, sempre pronto a sacrificare gli altri pur di salvare<br />
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il suo quieto vivere, e senza peli sulla lingua disse che tutti i preti dovrebbero<br />
essere <strong>com</strong>e Sua Eccellenza, pronti cioè ad aiutare la povera gente, e non a dare<br />
una mano per metterla nei pasticci. Il Cardinale naturalmente la mise alle strette,<br />
perché dicesse tutto quello che sapeva, e lei, che non aspettava altro, sciorinò tutti<br />
i panni sporchi del signor curato, non trascurando neppure il pretesto di dover<br />
rendere conto ai superiori, allegato dal vile prete per non fare il suo dovere. “Ah,<br />
Agnese!” esclama a questo punto il pur sempre indulgente Autore, dinanzi<br />
all’abilità, piuttosto malignetta, della “buona vedova” nell’ottenere che le fosse<br />
quasi imposto di vuotare il sacco. E quando l’ebbe vuotato con sua somma<br />
soddisfazione, sentendo dall’Arcivescovo che don Abbondio avrebbe dovuto<br />
rendere conto della cosa al suo superiore, finse di prendere le difese del curato, ma<br />
in definitiva non fece altro che rincarare la dose delle dure accuse. Sentiamola la<br />
malignetta: “Non lo sgridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a<br />
nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.” Naturalmente<br />
l’astuta Agnese tacque del tutto sul tentativo di matrimonio clandestino, perché<br />
non gli conveniva toccare quel tasto; ma Lucia, coscienza delicata, non poteva<br />
approvare questo sotterfugio, e confessò candidamente al Cardinale il male che<br />
anche loro avevano fatto, per il quale il Signore, secondo lei, li aveva poi castigati.<br />
E’ proprio il caso di esclamare con Dante: “O dignitosa coscienza e netta – Come<br />
t’è picciol fallo amaro morso!” 7 Il buon Federigo, ammirando la sincerità<br />
scrupolosa della ragazza, la consolò ed esortò a stare di buon animo, aggiungendo<br />
con dolcezza: “chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e<br />
pensa ad accusar sé medesimo?”<br />
Domandò quindi del fidanzato della giovane; e qui dovette rispondere la<br />
madre, perché, presa dalla vergogna, Lucia restava muta, “con la testa e gli occhi<br />
bassi”. Agnese raccontò <strong>com</strong>e il poveretto era dovuto fuggire dal suo paese, che<br />
cosa gli era capitato a Milano, dove era stato scambiato per un sedizioso, chi sa<br />
per quale imbroglio, perché era un bravo giovane, <strong>com</strong>e poteva testimoniare<br />
anche il signor curato; e concluse: <strong>“I</strong> poveri, ci vuol poco a farli <strong>com</strong>parir<br />
birboni.” Sacrosanta verità, <strong>com</strong>e riconobbe il Cardinale, il quale promise che<br />
avrebbe assunto informazioni del giovane, in cui difesa anche Lucia non si era più<br />
vergognata d’intervenire, per dovere di carità e di giustizia, affinché risultasse<br />
chiara e certa l’onestà di Renzo. Infatti, pur arrossendo, confermò in coscienza<br />
che era un giovane dabbene, fugando con le sue parole ogni eventuale dubbio<br />
dell’Arcivescovo.<br />
Questi chiese poi ai padroni di casa se potevano ospitare per qualche giorno le<br />
due donne; la moglie rispose subito, con calore, che lo facevano volentieri, ma il<br />
sarto voleva dare la sua adesione con una frase più scultorea, in modo da fare una<br />
gran bella figura in quella storica occasione. Ma purtroppo, per quanto frugasse<br />
nella sua mente, non trovò per l’occasione che un magro “si figuri!”, che in<br />
seguito gli amareggiò sempre, col suo importuno ricordo, la gioia e la<br />
7 Divina Commedia: Purg. III vv. 8-9<br />
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consolazione di quella visita illustre. Il Cardinale, dopo aver ancora ringraziato,<br />
partì benedicendo la casa e i suoi abitatori. Tornato alla canonica, chiese al curato<br />
in che modo si potesse <strong>com</strong>pensare il buon sarto dell’ospitalità alle due forestiere,<br />
la quale in quei tempi di carestia non poteva che essere onerosa. L’interrogato<br />
rispose che quei bravi coniugi erano benestanti, e lo facevano certo molto<br />
volentieri, specie sapendo di far cosa gradita a Sua Eccellenza; del resto era sicuro<br />
che non avrebbero accettato alcuna ri<strong>com</strong>pensa. Allora il Cardinale domandò se il<br />
sarto avesse, tra i <strong>com</strong>paesani, dei crediti purtroppo non esigibili in quello stato di<br />
crisi agricola; avendo saputo che ne aveva parecchi, ordinò di fargliene avere il<br />
conto, perché intendeva pagarli lui tutti, e in seguito far lavorare il sarto per<br />
vestire i nullatenenti, pagando lui tutte le spese. In tal modo Federigo, con senso<br />
squisito di carità, nel mentre <strong>com</strong>pensava indirettamente e munificamente il<br />
brav’uomo per la sua opera buona, aiutava direttamente i poveri diseredati della<br />
parrocchia, o pagando i loro debiti o fornendoli di vestiti nell’imminenza<br />
dell’inverno. Un altro esempio del gran cuore di questo mirabile principe della<br />
Chiesa.<br />
Diremo ora in breve <strong>com</strong>e chiuse quella straordinaria giornata il neo<br />
convertito. Quando a sera egli tornò al castello, la sconvolgente notizia del<br />
cambiamento che si era operato in lui lo aveva preceduto; ma non per questo ad<br />
alcuno dei suoi sudditi venne in mente di poterglisi ribellare o anche soltanto<br />
mancargli di rispetto, oppure venir meno in qualche modo alla disciplina militare<br />
che regnava in quel posto da tempo immemorabile. A tutti i bravi che via via<br />
incontrava, il signore faceva cenno che lo seguissero, e “tutti venivan dietro con<br />
una sospensione nuova, e con la soggezione solita.” Giunto nel cortile del castello,<br />
emise il suo noto grido di richiamo, al quale tutti dovevano accorrere <strong>com</strong>e a un<br />
segnale di allarme. Fattili quindi riunire nella sala grande, parlò loro con<br />
semplicità , ma anche con franchezza e decisione: Dio gli aveva toccato il cuore,<br />
per cui aveva deciso di cambiar vita, di non <strong>com</strong>metter più delitti, ma piuttosto<br />
riparare al mal fatto; tutti gli ordini dati loro in passato erano revocati, e da quel<br />
momento in poi non potevano più far del male ad alcuno per suo <strong>com</strong>ando e sotto<br />
la sua protezione; erano liberi di restare con lui o d’andarsene; chi se n’andava<br />
avrebbe ricevuto il salario dovuto e in più una buonuscita, ma non doveva più<br />
tornare in quel luogo, se non per cambiar vita, ché in questo caso sarebbe sempre<br />
stato il benvenuto; chi rimaneva sarebbe stato per lui <strong>com</strong>e un fratello, e lui si<br />
sarebbe, se necessario, tolto il pane di bocca per sfamarlo; la vita che avevano<br />
condotto finora conduceva alla perdizione eterna; lui aveva già imboccata la<br />
strada opposta, quella del bene, che conduce alla salvezza, e augurava loro di<br />
poter fare lo stesso, con la grazia di Dio; egli lo pregava che illuminasse le loro<br />
coscienze, toccasse il loro cuore, <strong>com</strong>e aveva fatto a lui; ora andassero a dormire,<br />
perché la notte porta consiglio; l’indomani, uno per uno, li avrebbe fatti chiamare<br />
per conoscere la decisione di ciascuno.<br />
Tutti se ne andarono muti e pensierosi, riflettendo su quanto avevano udito; lui<br />
ispezionò, <strong>com</strong>e al solito, le varie parti del castello, quindi andò a coricarsi, per<br />
nulla preoccupato per aver lui stesso sciolto e infranto quella ferrea disciplina che<br />
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eggeva quella fortezza e teneva in soggezione quella guarnigione di briganti.<br />
Giunto in camera sua, si inginocchiò accanto al letto e si mise a pregare: le<br />
preghiere della sua infanzia innocente gli tornarono spontanee sulle labbra, ma<br />
con un sentimento nuovo, con una significazione profonda, con la <strong>com</strong>mozione di<br />
chi, dopo un lungo viaggio tempestoso, tocca finalmente le rive beate della sua<br />
infanzia. Ripensò a quand’era fanciullo felice, ignaro del male, e decise di<br />
riconquistare quell’innocenza per mezzo della mortificazione e del sacrificio.<br />
Messosi poi a letto, non tardò a prendere sonno. Ormai la sua coscienza si era<br />
calmata, il perdono di Dio gli aveva arriso consolatore, e perciò il sonno, che la<br />
notte precedente aveva sospirato invano, questa volta non si fece attendere, dopo<br />
quella lunga e faticosa giornata che l’aveva <strong>com</strong>pletamente cambiato.<br />
151
CAPITOLO XXV<br />
Il giorno dopo non solo nel paese che ospitava Lucia, ma in tutto il territorio di<br />
Lecco, non si faceva altro che parlare del miracolo, perché tale era ritenuto il fatto<br />
congiunto della conversione dell’Innominato e della liberazione della ragazza, la<br />
quale veniva popolarmente chiamata “la giovine del miracolo”; e tutti la volevano<br />
vedere, ma ella se ne stava ben ritirata nell’ospitale casa del sarto. Naturalmente<br />
nel villaggio degli sposi esplose l’odio popolare contro don Rodrigo, che tutti<br />
avevano ravvisato <strong>com</strong>e il mandante dell’infame rapimento; mentre prima non<br />
osavano parlarne male, per timore dei suoi bravi, ora sentendosi per così dire<br />
protetti da due illustri e potenti personaggi, <strong>com</strong>e l’Innominato e il Cardinale,<br />
rosolavano ben bene non solo lui, ma anche i suoi manutengoli, o amici che dir si<br />
voglia, quali il signor podestà di Lecco e il dottor Azzecca-garbugli. Mentre prima<br />
non si sdegnavano troppo o non si degnavano affatto per le prepotenze del<br />
signorotto, poiché lo sdegno non si poteva sfogare senza grave pericolo, ora<br />
invece i paesani sentivano appieno la sua iniquità, e l’indignazione latente esplose<br />
in aperta riprovazione. A questo proposito il Manzoni fa un’acuta osservazione, la<br />
quale ci spiega l’acquiescenza dei popoli a ogni specie di dittatura; acquiescenza<br />
che – post factum vel extra terminos – molto ci meraviglia, ma forse non ci<br />
meraviglierebbe affatto, se noi ci trovassimo in quello stato o fossimo vissuti in<br />
quel determinato periodo storico. Infatti gli uomini, afferma l’Autore, “quando<br />
l’indignazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran<br />
meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto.”<br />
Potremmo anzi aggiungere che questa sensibilità attutita è in questi casi una<br />
specie di grazia di Dio, la quale ci salva dalla disperazione per certe situazioni che<br />
non potremmo cambiare in nessun modo, neppure se ci prodigassimo <strong>com</strong>e eroi o<br />
ci sacrificassimo <strong>com</strong>e martiri.<br />
Don Rodrigo già scosso dalla notizia, per lui assolutamente imprevedibile,<br />
della conversione del suo potente alleato, inviperito per le dicerie che correvano<br />
sul suo conto, desideroso <strong>com</strong>’era di rialzare la propria riputazione dando una<br />
severa lezione a qualcuno dei più audaci mormoratori, aveva deciso di rimanere<br />
nel suo palazzotto a sfidare l’impopolarità e a preparare la vendetta. Ma quando<br />
seppe che il Cardinal Federigo sarebbe venuto in quel paese in visita pastorale,<br />
non volendo rendergli omaggio, cosa che il Conte zio avrebbe preteso, si affrettò<br />
ad andarsene a Milano, col proposito di tornar presto a far le sue vendette.<br />
L’Arcivescovo, continuando il suo giro di visite alle parrocchie, giunse anche<br />
al paese di Lucia, il quale era stato addobbato con rustica semplicità dagli abitanti,<br />
animati da grande entusiasmo soprattutto per essere i <strong>com</strong>paesani della “giovine<br />
del miracolo”. L’illustre ospite giunse di pomeriggio, e tutti i fedeli uscirono per<br />
accoglierlo, mentre arrivava in lettiga dalla borgata vicina. Don Abbondio avrebbe<br />
voluto mettere un po’ di ordine nella tumultuosa accoglienza popolare, formando<br />
una specie di corteo, ma visto che non riusciva a contenere l’entusiasmo del<br />
152
popolo, che traboccava da ogni parte, specie quando in fondo alla strada apparve<br />
la lettiga del Cardinale, indispettito tornò indietro brontolando contro quella<br />
spontanea dimostrazione di affetto, e andò ad attendere in chiesa. In questa<br />
Federigo entrò aprendosi a stento il varco in mezzo alla folla acclamante; e dopo<br />
essersi raccolto alquanto in preghiera, tenne ai presenti un breve sermone per<br />
prepararli nel modo migliore alle funzioni del giorno seguente, affinché fossero<br />
per tutti feconde di bene spirituale. Benedetta la folla, si ritirò nella canonica<br />
dove, tra l’altro, chiese al parroco informazioni sul fidanzato di Lucia. Don<br />
Abbondio, che aveva contro Renzo un po’ di ruggine, rispose che era “un giovane<br />
un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico”, pensando soprattutto al modo<br />
violento con cui gli aveva estorto, quel mattino, il nome di don Rodrigo; ma<br />
quando il superiore volle un giudizio morale più esplicito, dovette riconoscere che<br />
era onesto, aggiungendo che nemmeno lui capiva <strong>com</strong>e avesse potuto <strong>com</strong>piere in<br />
Milano le azioni di cui lo accusavano. Interrogato poi in merito a un eventuale<br />
ritorno di Lucia al paese, si disse d’accordo nel considerarlo scevro di ogni<br />
pericolo, finché fosse lì presente l’Arcivescovo; sicché fu dato ordine che una<br />
lettiga andasse l’indomani, di buon’ora, a rilevare le due donne, per permettere<br />
loro di godersi la loro casa almeno per alcuni giorni.<br />
Agnese e Lucia erano vissute nella casa del sarto al riparo da ogni pubblicità,<br />
per la squisita discrezione e l’amorevole attenzione di quei bravi coniugi, che<br />
seppero ben tutelare l’intimità delle loro ospiti. Madre e figlia conversavano tra di<br />
loro, e talora con la famiglia ospitale, sempre con affettuosa tenerezza. Agnese<br />
ogni tanto parlava di Renzo, credendo di far piacere alla figlia e di risollevarne il<br />
morale. Si diceva sicura che prima o poi il giovane si sarebbe fatto vivo, e allora,<br />
restando lui fermo nella sua promessa (e <strong>com</strong>e dubitarne?), si andava tutti nel<br />
bergamasco, per metter su casa in quel luogo, lontani da ogni pericolo e da ogni<br />
provocazione. Lucia però non si rallegrava sentendo questi discorsi pieni di rosee<br />
speranze, anzi sembrava che ne provasse <strong>com</strong>e una pena; in realtà ella sentiva che<br />
avrebbe dovuto rivelare alla mamma che non poteva più essere la moglie di quel<br />
poverino, ma non ne aveva il coraggio, sapendo quale dolore le avrebbe arrecato<br />
con tale inattesa rivelazione, e perciò rimandava da oggi a domani. A quei discorsi<br />
pieni di fiducia, a quelle prospettive così accarezzate, la poverina o non<br />
rispondeva niente o cercava di deviarli, affermando evasivamente che sperava<br />
solo di potersi presto ricongiungere definitivamente con lei; ma “le più volte il<br />
pianto veniva opportunamente a troncar” quell’argomento così spinoso per la<br />
ragazza. Essa cercava di distrarsi soprattutto col lavoro, oltre che con la preghiera,<br />
e chiedeva sempre alla padrona di casa che le desse qualcosa da cucire, non<br />
volendo rimanere mai inoperosa.<br />
Nelle vicinanze del paesetto del sarto villeggiavano due coniugi attempati,<br />
ricchi e di antica nobiltà: don Ferrante e donna Prassede. Costei voleva far del<br />
bene a tutti i costi; si sentiva investita, per così dire, da questa santa missione, che<br />
attuava però secondo le sue idee, che erano poche e in gran parte storte, ma dalle<br />
quali non declinava né punto né poco. Infatuata <strong>com</strong>’era, incorreva senza<br />
accorgersene in tre gravi errori: in primo luogo prendeva spesso per bene ciò che<br />
153
non lo era affatto; in secondo luogo, usava spesso dei mezzi che ottenevano<br />
l’effetto contrario di quello voluto; in terzo luogo, usava talora dei mezzi non<br />
leciti, persuasa che il fine santo per il quale agiva giustificasse ogni cosa. Con<br />
questi tre vizi di forma e di sostanza, ognun può capire che la sua smania di far del<br />
bene si risolveva spesso in una vera calamità per le persone alle quali rivolgeva la<br />
sua benigna attenzione. Avendo saputo di Lucia e delle sue vicissitudini, ebbe<br />
subito curiosità di conoscerla, subodorando un soggetto bisognoso delle sue<br />
benevole cure; e un giorno si decise a mandare una carrozza con il maggiordomo,<br />
per prendere madre e figlia. Costei non voleva andare, per la sua naturale<br />
riservatezza, ma questa volta il sarto, trattandosi che l’invito veniva da “una<br />
coppia d’alto affare”, e che la premurosa gentildonna “oltre il resto, era anche una<br />
santa”, mise in opera tutta la sua autorità perché Lucia non rifiutasse, coadiuvato<br />
in ciò calorosamente da Agnese, alla quale quel rigoroso isolamento era venuto<br />
ormai quasi in uggia, e voleva assolutamente che si accettasse l’onorifico invito.<br />
Donna Prassede fece loro un’accoglienza veramente cordiale, liberandole<br />
subito dalla soggezione che provavano davanti a persone estranee, e per di più<br />
nobili; ella s’informò benignamente di Lucia, e avendo saputo che il Cardinale<br />
aveva promesso di trovarle una sistemazione meno precaria, si offrì senz’altro di<br />
prenderla in casa sua, dove non sarebbe stata obbligata ad alcun servizio, ma<br />
avrebbe potuto, se lo desiderava, per suo passatempo, aiutare le altre donne nella<br />
cura della casa. Alle donne l’offerta parve vantaggiosa e degna perciò di essere<br />
accettata, previa approvazione dell’Arcivescovo, sia per la serietà e dignità della<br />
famiglia, sia per essere la villa a così poca distanza dal loro paese, sicché madre e<br />
figlia si sarebbero potute rivedere, se non prima, almeno alla prossima<br />
villeggiatura. Avendo ricevuto il loro consenso, non privo di un sentimento di<br />
gratitudine, la gentildonna assicurò che lei stessa avrebbe <strong>com</strong>unicato la nuova al<br />
Cardinale, onde ottenerne il consenso; quindi le congedò rinnovando “le<br />
gentilezze e le promesse.” Senza perdere tempo, infatti, donna Prassede si fece<br />
stendere una bella lettera da suo marito, che era un letterato il quale, in casa,<br />
<strong>com</strong>andava solo nel campo dell’ortografia, mentre in tutto il resto il bastone del<br />
<strong>com</strong>ando era saldamente in mano alla sua autorevole consorte, la quale temperava<br />
il suo arcigno impero con un’aria d’untuosa umiltà, che la faceva credere davvero<br />
una santa donna da chi non la conosceva a fondo. Essa si era prontamente offerta<br />
di ospitare la ragazza non solo per fare un’opera buona, e guadagnare stima e<br />
meriti presso il Cardinale, venendogli così spontaneamente incontro in una tale<br />
congiuntura, ma anche per raddrizzare il cervello a Lucia la quale, essendosi<br />
promessa a uno scampaforca, doveva necessariamente avere delle pecche; stava a<br />
lei individuarle e curarle: quella era la sua missione. Questo pregiudizio nei<br />
riguardi di Lucia, concepito al primo sentir parlare di lei, fu, a suo parere, subito<br />
confermato dal primo incontro con la ragazza, che giudicò molto caparbia e di<br />
temperamento passionale; per cui era convinta, nella sua presunzione, che le<br />
disgrazie che le erano successe erano una punizione di Dio per il suo errore, e un<br />
severo monito a che si staccasse per sempre da quel poco di buono, se non voleva<br />
incorrere in guai più gravi. E scambiando il giudizio di Dio col suo pregiudizio, si<br />
154
itenne anche investita direttamente dal Cielo della sacra missione di redimere<br />
quell’anima traviata, rimettendola sulla buona strada.<br />
La lettera per il Cardinale, ampollosamente stilata dal dotto consorte e da lei<br />
diligentemente ricopiata, fu inviata con sollecitudine alla casa del sarto, prima che<br />
le donne tornassero al loro paesello, con la preghiera di consegnarla esse stesse<br />
nelle mani dell’illustre destinatario. Lucia e Agnese furono accolte <strong>com</strong>e in<br />
trionfo dai loro <strong>com</strong>paesani, e vennero condotte subito alla presenza<br />
dell’Arcivescovo, al quale consegnarono la missiva di donna Prassede. Federigo<br />
la lesse subito, cercando di ricavare “il sugo del senso dai fiori di don Ferrante”;<br />
quindi, conoscendo quella famiglia abbastanza per esser sicuro che lì Lucia<br />
sarebbe immune da insidie e da pericoli, dette il suo assenso, sebbene avesse<br />
qualche notizia dell’aspra e invadente spiritualità di quella signora. Tuttavia<br />
Federigo non era il tipo di intromettersi negli affari altrui, per rifarli a suo modo, a<br />
meno che non avesse serie ragioni di intervenire, per evitare qualche male; accettò<br />
quindi la soluzione che gli veniva offerta con tanta premura. Consolò poi le donne<br />
in vista della nuova separazione che s’imponeva loro, la quale non poteva essere<br />
che dolorosa, e le esortò a confidare nel Signore, che non abbandona mai chi<br />
soffre per la causa della giustizia.<br />
Don Abbondio si rallegrava in cuor suo per il fatto che l’Arcivescovo, nel<br />
colloquio che aveva avuto con lui, non gli avesse chiesto conto del matrimonio<br />
non celebrato, ed era ormai sicuro che Agnese non aveva ciarlato (un vero<br />
miracolo!); ma purtroppo questa sua euforia fu amaramente troncata dopo le<br />
funzioni religiose del mattino, quand’egli si preoccupava ormai soltanto del<br />
solenne pranzo in onore del suo eminente ospite. Questi infatti lo fece<br />
inaspettatamente chiamare e, con l’aria di chi inizia un “discorso lungo e serio”,<br />
gli chiese a bruciapelo perché si era rifiutato di unire in matrimonio i due giovani<br />
fidanzati. Il curato cercò in un primo momento di eludere la precisa e stringente<br />
domanda con una risposta vaga e non impegnativa, dicendo che quello era un<br />
affare imbrogliato, in cui non ci si vedeva chiaro neppure allora, dopo tante tristi<br />
vicende; ma Federigo, quasi sdegnato davanti al meschino tentativo del suo<br />
dipendente, gli chiese recisamente se era vero o no che egli aveva rifiutato con<br />
falsi pretesti di celebrare quel matrimonio nel giorno stabilito. Il vile prete si fa<br />
“piccino piccino”, ma ancora recalcitra, non vuol confessare, e risponde che sono<br />
cose spinose, che ormai sono passate, e a rimestarle si fa peggio…; ma vedendo lo<br />
sguardo severo dell’Arcivescovo, non disposto a farsi menar per l’aia, aggiunge<br />
balbettando che Monsignore non vorrà la sua rovina, perché parlando rischia la<br />
morte… ma parlerà se Sua Eccellenza glielo <strong>com</strong>anda. E avendo questi ribadito la<br />
sua intenzione di sapere tutta la verità, il poveretto si accinge a narrare la dolorosa<br />
storia, con qualche omissione suggeritagli lì per lì dalla paura, per cui, invece di<br />
nominare don Rodrigo, disse che “un gran signore” sotto minaccia di morte gli<br />
aveva proibito di celebrare quel tale matrimonio.<br />
Allora il Cardinale, di fronte all’egoismo e alla viltà del suo parroco, “con<br />
accento ancor più grave” gli ricordò che la Chiesa, affidandogli il ministero<br />
sacerdotale, non gli aveva affatto dato sicurtà circa la vita del corpo, né gli aveva<br />
155
detto che, ove <strong>com</strong>inciasse il pericolo, lì cesserebbe il dovere; anzi gli aveva<br />
insegnato proprio il contrario, che cioè chi cerca di conservare la vita a spese della<br />
carità e della giustizia, la perde, mentre chi soffre per causa di Cristo, vince anche<br />
se apparentemente resta soc<strong>com</strong>bente. E se non sapeva questo, che cosa insegnava<br />
agli altri, quale era la buona novella che annunziava al popolo fedele?<br />
Don Abbondio, al suono di queste sante e infervorate parole, si sentiva “<strong>com</strong>e<br />
un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione<br />
sconosciuta”; quei concetti non gli riuscivano nuovi, li aveva più volte letti e<br />
ripetuti lui stesso; ma ora gli facevano un certo effetto, <strong>com</strong>e di precetti che vanno<br />
non solo proclamati, ma adempiuti. Però c’era lì quella pauraccia, che fungeva da<br />
avvocato difensore, la quale con la sua presenza non gli permetteva di aderire col<br />
cuore a quei bei precetti, e di sentire orrore per la sua meschinità e il suo egoismo,<br />
che lo avevano indotto alla prevaricazione, a tradire insieme il suo ministero e i<br />
suoi figlioli spirituali. E volendo ancora difendersi, rispose che non capiva che<br />
cosa ci si potesse guadagnare, in quella circostanza, a “voler fare il bravo”,<br />
essendo quello un signore con cui non si poteva “né vincerla né impattarla”, ma<br />
era inevitabile perdere. Ma avendo l’altro ribadito che “il soffrire per la giustizia”<br />
è la vittoria del cristiano, e tanto più del sacerdote, ministro della Grazia, don<br />
Abbondio <strong>com</strong>e per finirla, ammettendo i propri limiti, disse che forse aveva agito<br />
male, ma “il coraggio, uno non se lo può dare.” E credeva, con questo<br />
riconoscimento, di aver chiuso l’argomento; ma il santo Arcivescovo non si<br />
poteva accontentare di tanto poco, e replicò subito che, se non aveva il coraggio di<br />
lottare e soffrire per la giustizia e la carità, non avrebbe dovuto abbracciare quel<br />
ministero, che proprio questo impone; ma una volta divenuto sacerdote, anche<br />
senza averne le qualità e virtù necessarie, avrebbe potuto e dovuto acquistarle con<br />
la preghiera e i sacramenti; perché solo Dio è il nostro aiuto e la nostra forza,<br />
purché a Lui ricorriamo umili e fiduciosi, riconoscendo le nostre miserie: credeva<br />
forse che tutti quei martiri, che avevano affrontato la morte per Cristo, fossero<br />
tanto eroicamente forti solo per loro virtù naturale? La carne è debole in chiunque,<br />
e lo spirito deve vincere questa debolezza attingendo alla Fonte stessa della<br />
fortezza cristiana, ricorrendo per aiuto a Colui che ha tanto sofferto perché ci ha<br />
amato immensamente. Per essere forti bisogna dunque amare, amare Dio sopra<br />
ogni cosa e amare il prossimo <strong>com</strong>e noi stessi; e quando si ama non si ha paura,<br />
perché “l’amore è intrepido”. Se infatti lui li avesse amati quei suoi poveri<br />
parrocchiani insidiati dall’iniquo potente, non avrebbe temuto per sé, ma per loro;<br />
che cosa dunque gli aveva suggerito la carità? che cosa aveva fatto o almeno<br />
tentato per difenderli? Mentre don Abbondio crede di aver chiuso il discorso con<br />
l’ammissione della sua pochezza, il Cardinale vuole approfondire l’analisi del suo<br />
egoismo, al fine di ottenerne un vero pentimento, con un serio proposito di<br />
cambiamento; e perciò incalza il pavido prete con quelle precise domande.<br />
156
CAPITOLO XXVI<br />
Al principio di questo capitolo l’Autore mostra “una certa ripugnanza a<br />
proseguire” nel riferirci il colloquio, in cui l’Arcivescovo mette in campo “tanti<br />
bei precetti di fortezza e di carità”; ma poi si fa coraggio e decide di continuare,<br />
pensando che quelle per Federigo non erano soltanto delle belle parole, ma delle<br />
norme di vita, e i precetti erano ac<strong>com</strong>pagnati dalle azioni in ogni circostanza<br />
della vita. Egli dunque aveva chiesto al curato che cosa gli avesse suggerito “il<br />
timor santo e nobile per gli altri”, cioè l’amore per i suoi figlioli; ma don<br />
Abbondio taceva, perché lui aveva sentito soltanto l’amore egoistico, il timore per<br />
la propria vita, la preoccupazione per sé stesso; la carità perciò non poteva<br />
consigliargli nulla, in quanto non trovava posto in quel suo cuore sordo a ogni<br />
istanza altruistica.<br />
Il Cardinale <strong>com</strong>prese il significato di quel silenzio imbarazzato, e per far<br />
costatare al curato l’abiezione a cui era giunto, gli domandò se, oltre ad obbedire<br />
all’iniquità in tutto e per tutto, non avesse anche mendicato dei falsi pretesti,<br />
mettendo in campo i superiori, per non <strong>com</strong>piere il proprio dovere e ingannare<br />
quei poveretti. Don Abbondio, invece di confessare e di arrossire di confusione,<br />
sentiva solo una grande stizza per le “chiacchierone” che avevano fatto la spia,<br />
non tralasciando neppure questo particolare, pur di aggravare la sua posizione<br />
dinanzi al superiore. E anche contro costui se la prendeva, per il suo importuno<br />
rigore, stizzendosi soprattutto per il fatto che, mentre aveva gettato subito le<br />
braccia al collo a quel satanasso, dimenticando a un tratto tutte le sue malefatte,<br />
faceva poi tanto chiasso e scandalo con lui, “per una mezza bugia, detta al solo<br />
fine di salvar la pelle.” Ma vedendo che l’Arcivescovo era sempre in attesa della<br />
sua risposta, disse: “Ho mancato… ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella<br />
sorte?” Riconosce così la sua mancanza, ma la ritiene quasi di forza maggiore.<br />
Il Cardinale si mostrò giustamente meravigliato che egli ancora chiedesse che<br />
cosa doveva fare, dimostrando con ciò che non aveva ancora capito nulla: ebbene,<br />
doveva fare semplicemente il suo dovere, “amare e pregare”, e per il resto<br />
affidarsi a Dio; non ingannare i suoi parrocchiani, né tenerli all’oscuro del<br />
pericolo che correvano, ma avvertirli sollecitamente, e aiutarli a difendersi dalle<br />
insidie e dalla violenza: questo imponeva il dovere del pastore buono; se poi non<br />
si sentiva il coraggio necessario per sfidare l’iniquità, ne doveva informare il suo<br />
vescovo, il quale certamente non avrebbe preso pace, finché non avesse messo al<br />
sicuro e le pecore e il pastore minacciato. Don Abbondio ricordò tra sé, ma quasi<br />
con disprezzo, che questo d’informare l’Arcivescovo era stato appunto il<br />
peregrino parere di Perpetua; e non si rendeva conto che appunto questo<br />
coincidere dei due pareri, e del prelato e della serva, significava che la cosa<br />
appariva tanto ovvia, che ognuno ci poteva arrivare, meno lui naturalmente, che<br />
era accecato dalla paura e dall’egoismo.<br />
157
Il meschino davanti a questi argomenti di Federigo, al sentire quelle ardenti<br />
esortazioni alla carità, rimaneva un po’ confuso, ma interiormente non era affatto<br />
convinto, pensando che don Rodrigo era vivo e vegeto, arrabbiato più che mai,<br />
desideroso di vendetta e circondato di scherani pronti a tutto, mentre il Cardinale,<br />
in fin dei conti, poteva solo rimproverare, ammonire, magari anche punire, ma<br />
non adoperava certamente le armi. Il porporato continuò la grave ammonizione<br />
facendogli osservare che lo stesso prepotente signore, che osava dare quei<br />
<strong>com</strong>andi, si sarebbe ben guardato dal passare dalle minacce alle offese, quando<br />
avesse saputo che l’Arcivescovo era avvertito e stava all’erta; e aggiunse che,<br />
<strong>com</strong>e spesso si promette più di quanto si intenda mantenere, così si minaccia<br />
anche quello che poi non si oserebbe fare, perché “l’iniquità non si fonda soltanto<br />
sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui.” Erano proprio le<br />
assennate osservazioni di Perpetua, la quale davanti alla paura del padrone per<br />
un’eventuale schioppettata nella schiena, gli aveva detto con molto buon senso:<br />
“Eh! le schioppettate non si danno via <strong>com</strong>e confetti: e guai se questi cani<br />
dovessero mordere tutte le volte che abbaiano!” Ma il meschino prete ricalcitra<br />
ancora a ogni argomento e di ragione e di fede, perché nel suo intimo, col metro<br />
della sua morale, non si sente affatto colpevole; e insofferente della paternale del<br />
superiore, perché convinto di aver agito per legittima difesa, a un certo punto<br />
sbotta: “Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser nei panni<br />
d’un povero prete…” Come per dire, con una punta di rimprovero: belle parole le<br />
sue, ma la realtà è diversa, e tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare… Erano<br />
parole impertinenti e offensive, suggerite solo dalla stizza, e colui stesso che le<br />
aveva pronunciate si morse le labbra, non appena gli furono uscite di bocca, e<br />
desolato per il trascorso pensò tra sé: “ora viene la grandine”, aspettandosi la<br />
violenta e giusta reazione del superiore offeso. Quale non fu perciò la sua<br />
meraviglia allorché, alzando paventosamente lo sguardo al viso del Cardinale, non<br />
lo vide affatto in preda allo sdegno, ma atteggiato a “una gravità <strong>com</strong>punta e<br />
pensierosa”. Infatti il mite e umile Federigo non aveva affatto prese quelle parole<br />
<strong>com</strong>e un’offesa alla propria dignità e virtù, ma <strong>com</strong>e un richiamo a considerare le<br />
proprie debolezze, <strong>com</strong>e se il suo inferiore lo avesse ammonito: chi è senza<br />
peccati scagli la prima pietra. E senza adontarsi per l’impertinenza di quel<br />
meschino, umilmente riconosce che purtroppo questa è la misera e terribile<br />
condizione dei superiori, di dover esigere dagli altri quello che chissà se essi stessi<br />
hanno saputo fare o farebbero in una situazione simile; però aggiunse: “Ma guai<br />
s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del<br />
mio insegnamento!” Certamente però egli doveva dare ai sottoposti anche<br />
l’esempio, e non soltanto i precetti; perciò se il curato avesse costatato che lui, il<br />
suo vescovo, aveva in qualche occasione, per viltà o per rispetto umano,<br />
trascurato il proprio dovere, era in obbligo di avvertirlo; e lui avrebbe accolto il<br />
richiamo con animo grato, perché purtroppo “gli errori di quelli che presiedono<br />
son spesso più noti agli altri che a loro.” E detto questo, attese quello che il<br />
parroco avesse da dire su di lui, su qualche sua mancanza.<br />
158
Ma don Abbondio non apprezzava davvero la <strong>com</strong>punta umiltà del suo<br />
Arcivescovo, perché anche in forza di questa virtù egli continuava a tenerlo sulle<br />
spine, rimestando e indagando sul passato; e tra sé sbuffava: “Oh che sant’uomo!<br />
ma che tormento!” Poi per far dimenticare le sue stolte parole, ad alta voce esaltò<br />
“il petto forte, lo zelo imperterrito” del suo superiore, il quale replicò che non<br />
voleva delle lodi, le quali lo facevano tremare, ma un sincero riconoscimento della<br />
<strong>com</strong>une debolezza, insieme a una fervorosa preghiera al Signore, onde ottenere la<br />
forza di <strong>com</strong>piere sempre e ovunque i doveri della propria missione. Chiedeva al<br />
suo confratello, con la confessione di aver gravemente mancato al suo dovere, il<br />
fermo proposito di agire, d’allora in poi, secondo la santa legge della carità,<br />
attingendo alla preghiera, alla quotidiana meditazione e ai carismi sacramentali la<br />
grazia di non più prevaricare. Era un paterno e autorevole invito a redimersi.<br />
Ma quel sacerdote indegno, lungi dal fare una sincera confessione di colpa,<br />
pensò ad accusare e, dando libero sfogo alla sua stizza, disse che quelle tali<br />
persone, che avevano sparlato contro di lui, non avevano certamente rivelato di<br />
essersi introdotte a tradimento in casa sua, per fare un matrimonio irregolare. Alla<br />
meschinità del pretonzolo, il quale crede bene di difendersi accusando gli altri, noi<br />
contrapponiamo la magnanima sincerità di Lucia la quale, contrariamente<br />
all’opinione del suo curato, si era appunto accusata spontaneamente, e con vero<br />
patimento, di quella lieve colpa, <strong>com</strong>messa da lei malvolentieri e in stato di<br />
necessità. Così il Cardinale ebbe la misura esatta della miseria spirituale del suo<br />
parroco il quale, invece di recitare il “confiteor”, pensava ancora a scusarsi, e per<br />
di più lo faceva accusando delle persone tanto a lui superiori sia in onestà che in<br />
spirito cristiano. Il buon Federigo si sentiva veramente amareggiato e sfiduciato<br />
dinanzi a tale protervo e inqualificabile <strong>com</strong>portamento, quasi incredibile in un<br />
sacerdote; ma frenò lo sdegno del proprio animo, pensando che il suo dovere non<br />
era di condannare, ma di redimere, di ricuperare quel sacerdote alla santa missione<br />
di carità, di <strong>com</strong>muovere quel cuore chiuso dall’egoismo. E cercò di fargli capire<br />
che non doveva nutrire del risentimento contro quelle persone, solo perché si<br />
erano in un modo tanto <strong>com</strong>prensibile sfogate col loro vescovo; doveva piuttosto<br />
sentirsi grato verso di esse, perché gli avevano permesso di riconoscere la propria<br />
colpa, onde pentirsene e proporsi fermamente di cambiare, con l’aiuto di Dio. Li<br />
doveva amare quei poveretti, perché erano suoi figlioli, perché avevano tanto<br />
sofferto e ancora soffrivano, senza nessuna sicurezza dell’avvenire; li doveva<br />
amare paternamente, perché aveva bisogno del perdono divino, per ottenere il<br />
quale sarebbe oltremodo efficace la loro preghiera.<br />
Finalmente don Abbondio sente un po’ di rimorso, o meglio un po’ di<br />
scontentezza di sé e un po’ di amore per gli altri; il Cardinale aveva parlato con<br />
tanto cuore, con sì umile carità, che quell’animo gretto e arido si era alquanto<br />
aperto a sentimenti più cristiani e più fraterni: “sentiva un certo dispiacere di sé,<br />
una <strong>com</strong>passione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione.” L’uomo<br />
caparbiamente egocentrico si accende alquanto di carità accanto al santo suo<br />
vescovo, “<strong>com</strong>e lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato<br />
alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol<br />
159
saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia.” Tra le belle<br />
similitudini del romanzo, questa ci sembra la più calzante, la più efficace, la più<br />
icasticamente evidente e vigorosa.<br />
Federigo, accortosi che il curato ha finalmente aperto il suo cuore, già<br />
inaridito dall’egoismo, al soffio vivificatore dell’amore del prossimo, conclude<br />
esortandolo a perseverare in questo sentimento, essenziale per ogni cristiano e<br />
tanto più doveroso per un ministro di Dio, a recuperare il tempo perduto nel<br />
cammino verso la santità, verso la perfezione cristiana; e cerca infine di<br />
trascinarlo in alto in un anelito di ardente carità: “la mezzanotte è vicina; lo Sposo<br />
non può tardare; teniamo accese le nostre lampade.”<br />
Dobbiamo riconoscere che la personalità ieratica del Cardinale, nel colloquio<br />
con don Abbondio forse più che in quello con l’Innominato, esprime tutta la<br />
ricchezza e la pienezza del suo cuore magnanimo e santo, e senza nulla perdere<br />
della sua alta spiritualità, acquista una dimensione umana veramente sublime,<br />
specialmente alla fine, quando riesce a sollevare alquanto alla sua altezza quel<br />
prete meschino, ac<strong>com</strong>unandosi a lui, umiliandosi e confondendosi al suo fianco,<br />
esortandolo infine con parole ardenti e con accento profondamente ispirato:<br />
“Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vuoti, perché gli piaccia riempirli di<br />
quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida,<br />
piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo<br />
bisogno.” Penso che parole così sublimi mai siano state dette, se non forse da San<br />
Paolo, a esaltazione della carità, la quale è la virtù-cardine del cristiano, e oserei<br />
dire la virtù unica, poiché tutte le altre ci sono quando essa c’è, mentre senza di<br />
essa nessun’altra può sussistere; infatti, <strong>com</strong>e ben dice il Manzoni, è la stessa<br />
carità che, di volta in volta, si trasforma in quella virtù di cui abbiamo bisogno in<br />
un dato momento della nostra vita; che è <strong>com</strong>e dire che tutte le virtù cristiane<br />
derivano dal <strong>com</strong>andamento dell’amore.<br />
Il giorno seguente a questo colloquio giunse in paese donna Prassede, per<br />
prendere Lucia e ossequiare il Cardinale, “il quale gliela lodò, e rac<strong>com</strong>andò<br />
caldamente”, con molta probabilità perché avvertiva che ce n’era bisogno con<br />
quella donna di ruvida e intollerante spiritualità. Agnese si distaccò con dolore e<br />
con lagrime dalla figlia, promettendo di andarla a trovare nella villa ospitale,<br />
prima che la gentildonna rientrasse a Milano. Qualche giorno dopo giunse in<br />
paese il parroco del sarto, con una lettera dell’Innominato per il Cardinale, nella<br />
quale lo pregava di far accettare ad Agnese, per dote della figliola, i cento scudi<br />
che accludeva, aggiungendo che, se mai le donne avessero avuto bisogno di<br />
qualche cosa, facessero senz’altro assegnamento su di lui, che avrebbe considerato<br />
una vera grazia il poter loro essere utile in qualche modo.<br />
Federigo fece chiamare Agnese, cui consegnò il rotolo del danaro,<br />
ac<strong>com</strong>pagnandolo con l’offerta di servigi da parte di quel signore. La donna<br />
accettò senza far troppi <strong>com</strong>plimenti, e ringraziò di tutto cuore, pregando però il<br />
Cardinale di non dire nulla a nessuno di quei soldi… Il Porporato avrà risposto<br />
con un benevolo sorriso di assenso a questa ingenua, anche se inopportuna<br />
richiesta, senza minimamente adontarsene, tanto era mite e umile di cuore.<br />
160
Quale non fu la gioia e la meraviglia, per non dire lo sbalordimento attonito,<br />
della buona vedova allorché, chiusasi in casa, poté aprire quell’involto,<br />
contemplare e contare i cento scudi, tutti in una volta, mentre sì e no la poveretta<br />
ne aveva visto qualcuno, di tanto in tanto, nella sua lunga esistenza! Pensò subito<br />
a Lucia, perché con tutta quella grazia di Dio ogni cosa si poteva aggiustare, ogni<br />
difficoltà risolvere facilmente. Dopo essere per alcuni minuti rimasta lì<br />
trasognata, rifece diligentemente il rotolo, con molta difficoltà data la sua<br />
imperizia, e tutta emozionata lo nascose dentro al suo pagliericcio. Quando la sera<br />
si coricò, non riusciva a dormire, pensando al tesoro che teneva nascosto sotto; e<br />
quando finalmente, dopo aver per molte ore sognato a occhi aperti, riuscì a<br />
chiuder occhio, li vide in sogno, quei benedetti scudi!<br />
Il giorno dopo, di prima mattina, si mise subito in cammino, tanto era<br />
impaziente di andare a confidare la grande notizia alla sua Lucia. Non appena poté<br />
essere sola con lei, le rivelò tutto, mettendola anche a parte dei suoi lieti progetti<br />
per l’avvenire: non appena Renzo avesse dato notizia di sé, esse sarebbero andate<br />
là, e si sarebbe messa su casa in quel paese, lontano da ogni pericolo e da ogni<br />
tentazione, perché col denaro a tutto si trova rimedio… Però la figlia, invece di<br />
rallegrarsi a quella rosea prospettiva, sembrava impensierirsene, <strong>com</strong>e oppressa da<br />
una pena segreta; per cui Agnese le chiese preoccupata perché rimanesse così<br />
fredda davanti a quell’insperata fortuna, che poteva capovolgere la loro situazione<br />
e risolvere tutto per il meglio…<br />
La ragazza, la quale aveva già deciso di rivelare il voto alla madre in<br />
quell’incontro, che doveva essere anche l’ultimo per quell’anno, approfittò del<br />
discorso iniziato dalla madre, per dirle che purtroppo non poteva più sposare quel<br />
poverino. E, alla meraviglia angosciata di Agnese, spiegò <strong>com</strong>e in quella terribile<br />
notte, disperando di ogni salvezza, aveva proprio fatto voto a Dio e alla Madonna<br />
di rimanere vergine per tutta la vita; e tra le lagrime supplicò la madre di<br />
<strong>com</strong>prenderla, <strong>com</strong>patendola e aiutandola a mantenere quella solenne promessa<br />
che aveva fatto con piena e libera coscienza.<br />
La povera donna rimase annichilita e muta: l’improvvisa rivelazione<br />
sconvolgeva tutti i suoi piani, sui quali aveva tanto speranzosamente almanaccato<br />
sin dal giorno precedente; appena poté articolar parola, chiese costernata: “E ora<br />
cosa farai?” Agnese è moralmente crollata alla notizia veramente imprevista e<br />
imprevedibile, e si lascia scappare questa desolata domanda che potrebbe solo<br />
accrescere lo sgomento della figlia; ma questa per grazia di Dio ha già superato<br />
l’abbattimento dei primi giorni, e risponde alla madre che lei si è affidata<br />
<strong>com</strong>pletamente alla Divina Provvidenza, in cui confida: ormai non desidera altro,<br />
dopo la salvezza dell’anima, che tornare al più presto a vivere con lei. La prega<br />
teneramente, non appena avrà notizie di Renzo, di metterlo al corrente di questo<br />
impedimento, pregandolo di rassegnarsi a ciò che purtroppo è immutabile; le<br />
chiede infine, con maggiore accoramento, di <strong>com</strong>unicare anche a lei che Renzo ha<br />
scritto e sta bene, che è stato avvertito… e poi più nulla. Ma il suo cuore, <strong>com</strong>e<br />
osserva acutamente il Manzoni, “faceva ancora a mezzo con Renzo”, per quanto<br />
lei cercasse di dimenticarlo; sicché chiese alla madre ancora un altro piacere: di<br />
161
mandare una metà di quegli scudi a quel poverino che aveva perduto tutto, e<br />
andava in giro per il mondo, bisognoso di tutto.<br />
La buona donna aderì subito al desiderio della figliola, aggiungendo che era<br />
stata tanto contenta di quel denaro solo perché pensava che lei avrebbe potuto<br />
goderselo con il suo Renzo; ora che ciò non era più possibile, avrebbe volentieri<br />
aiutato quel poverino, per quanto capisse che quegli scudi non gli avrebbero fatto<br />
buon pro, ac<strong>com</strong>pagnati <strong>com</strong>’erano dalla notizia di dover rinunciare per sempre<br />
alla fidanzata. Quindi madre e figlia si separarono <strong>com</strong>mosse, con la promessa di<br />
rivedersi, al più tardi, alla prossima villeggiatura.<br />
Il Cardinale, <strong>com</strong>e aveva promesso alle donne, cercò di avere informazioni del<br />
fuoruscito; presumibilmente si rivolse a qualche ecclesiastico del Bergamasco, ma<br />
non ne ricevette che notizie vaghe e contraddittorie; e il fatto si spiega. Il<br />
Governatore di Milano aveva protestato energicamente presso l’ambasciatore<br />
veneto, perché un pericoloso ribelle, fuggito dalle mani della polizia, aveva<br />
trovato ricovero nel territorio della Repubblica. Il Governo veneto, che aveva<br />
interesse ad attirare gli operai tessili milanesi entro i propri confini, per<br />
incrementare la sua industria serica in concorrenza con quella lombarda,<br />
desiderava anche che costoro non avessero noie, qualunque fosse il motivo per cui<br />
avevano passato il confine. Perciò le autorità di Venezia, prima di indagare su<br />
questo espatrio clandestino, onde inviare una risposta ufficiale al loro<br />
ambasciatore, per interposta persona fecero sapere a Bortolo che era bene far<br />
cambiare aria al suo amico, per metterlo al sicuro da ogni ricerca. Il buon<br />
“baggiano” capì a volo, e immediatamente portò il cugino in un’altra filanda, a<br />
una quindicina di miglia da lì, dove lo rac<strong>com</strong>andò al proprietario, suo amico, al<br />
quale lo presentò col nome di Antonio Rivolta. Così il Governo della Serenissima<br />
poté <strong>com</strong>unicare a quello di Milano che, fatte diligenti ricerche in base alle<br />
informazioni fornite, risultava che nessun Lorenzo Tramaglino si era rifugiato nel<br />
territorio bergamasco. Finezze della politica, sempre vecchie e sempre nuove!<br />
Bortolo poi, a chi gli chiedeva del cugino, rispondeva che era partito senza dirgli<br />
niente, s<strong>com</strong>parso proprio all’improvviso: forse si era arruolato contro i Turchi,<br />
oppure era andato in Germania, chi sa! Quando poi gli furono chieste<br />
informazioni di Renzo per conto del Cardinale Borromeo, senza nominarlo ma<br />
facendo capire che si trattava di un personaggio importante, il signor Castagneri<br />
maggiormente si insospettì, non potendo conoscere le intenzioni benevole di quel<br />
tal personaggio, e sciorinò in una volta tutte le dicerie che sul conto del cugino<br />
aveva via via fabbricate e poste in giro per accontentar la gente.<br />
162
CAPITOLO XXVII<br />
In apertura di capitolo l’Autore torna a parlare della guerra di successione al<br />
Ducato di Mantova, alla quale ha già accennato di sfuggita altre volte, e della<br />
quale si era anche parlato durante il banchetto in casa di don Rodrigo. Ritorna più<br />
diffusamente sull’argomento, per meglio rendere conto del <strong>com</strong>portamento di don<br />
Gonzalo, governatore di Milano, nei riguardi dei tumulti di San Martino e delle<br />
persone in essi implicate, tra cui il nostro Renzo; perciò ne daremo un cenno<br />
anche noi, cercando di lumeggiare l’intricata vicenda.<br />
Alla morte del duca Vincenzo II Gonzaga, che non lasciava eredi, il ducato di<br />
Mantova e il Monferrato, che ne dipendeva, furono occupati dal parente più<br />
prossimo, Carlo Gonzaga, naturalizzato francese, quale duca di Nevers e Rhétel, e<br />
quindi protetto dal re di Francia Luigi XIII o meglio dal potente suo ministro<br />
Cardinale di Richelieu, il quale voleva naturalmente fare di quel duca una valida<br />
pedina della politica francese in Italia. Favorevoli al nuovo duca erano anche il<br />
papa Urbano VIII (Barberini) e la Repubblica di Venezia. Contrari a Carlo<br />
Gonzaga erano per converso il re di Spagna Filippo IV, cioè il suo primo ministro<br />
Conte d’Olivares il quale non poteva naturalmente vedere quella presenza<br />
francese ai fianchi del dominio spagnolo di Lombardia, e Ferdinando II<br />
d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, il quale si era sentito offeso dal<br />
fatto che il duca di Nevers si fosse insediato in Mantova senza richiedere la sua<br />
investitura, pur essendo quel ducato un feudo dell’Impero; quindi pretendeva che<br />
Carlo Gonzaga rimettesse a lui in deposito gli stati contestati; lui poi, valutati i<br />
titoli e le ragioni dei pretendenti, lo avrebbe assegnato a chi di diritto. L’aspirante<br />
sostenuto dalla Spagna era Ferrante Gonzaga, principe di Guastalla, per Mantova,<br />
mentre per il Monferrato le simpatie spagnole andavano a Carlo Emanuele I, duca<br />
di Savoia, il quale pretendeva il Monferrato <strong>com</strong>e spettanza della figlia<br />
Margherita, che aveva sposato un Gonzaga e poi era rimasta vedova.<br />
Don Gonzalo Fernandez de Cordova, desideroso d’ingrandire il dominio<br />
spagnolo nella penisola, aveva stipulato un trattato col duca di Savoia, per<br />
occupare e dividersi il Monferrato, protestando però che l’occupazione era del<br />
tutto provvisoria, in attesa della decisione dell’Imperatore. Ma mentre il Duca<br />
aveva celermente e facilmente occupata la propria quota, don Gonzalo non<br />
riusciva a spuntarla contro Casale, per la vigorosa difesa degli assediati o forse<br />
anche per la sua inettitudine. Sicché Carlo Emanuele, col pretesto di volerlo<br />
aiutare, occupava or l’uno or l’altro dei paesi assegnati all’alleato, con grande<br />
dispetto di questo, il quale non osava però lagnarsene nel timore che il Duca, noto<br />
per le sue impennate, non facesse qualche voltafaccia.<br />
Sembra che il Manzoni, parlando dell’assedio di Casale Monferrato e di don<br />
Gonzalo, non sia stato storicamente obiettivo e imparziale, esprimendo un<br />
giudizio piuttosto canzonatorio nei riguardi di tutta la faccenda e soprattutto del<br />
Governatore di Milano, che qualcuno ha definito “una vittima storica” del nostro<br />
163
Autore. Infatti dai documenti dell’epoca risulterebbe che il Cordova, uomo pio e<br />
di buona cultura, aveva intrapreso il famigerato assedio di Casale contro sua<br />
volontà; nel romanzo invece lo si dice “voglioso oltremodo” di condurre quella<br />
guerra, per pura brama di gloria militare. Ma non vogliamo addentrarci nella<br />
polemica storica, artisticamente irrilevante; e diciamo soltanto che il<br />
Governatore, mentre era appunto ingolfato in quel maledetto assedio, fu<br />
richiamato a Milano dai tumulti di cui abbiamo parlato. Ivi gli fu presentata una<br />
relazione degli avvenimenti, e non gli fu taciuto che uno dei caporioni della<br />
sedizione si era rifugiato nel territorio bergamasco, dopo essere scappato dalle<br />
mani dei birri. Allora don Gonzalo, oltremodo irritato per gli aiuti che i Veneziani<br />
davano sotto mano al Duca di Nevers, pensò di approfittare della circostanza per<br />
fare con loro la voce grossa, per dimostrare che si sentiva forte nonostante i<br />
tumulti. Perciò presentò quella protesta della quale già conosciamo il seguito e il<br />
risultato del tutto negativo. Quando la risposta veneta gli venne inoltrata, al campo<br />
nei pressi di Casale, don Gonzalo, in tutt’altre faccende affaccendato, stentò<br />
finanche a ricordarsi del fatto.<br />
Tuttavia Renzo, il quale non poteva sapere che quella protesta e la<br />
conseguente ricerca era stata puramente dimostrativa, e che lui si era trovato<br />
immischiato in avvenimenti politici che trascendevano la sua modesta persona,<br />
temendo di essere rintracciato, se ne stette per molti mesi ben nascosto nel nuovo<br />
paese, pur pensando sempre al modo di far avere sue notizie ad Agnese, e di<br />
ricevere a sua volta notizie soprattutto di Lucia, perché erano giunte sino a lui<br />
alcune vaghe voci sui terribili casi che le erano occorsi. La prima difficoltà, per<br />
<strong>com</strong>unicare con le nostre donne, era per Renzo quella di trovare un segretario che<br />
scrivesse per lui, una persona veramente fidata; la seconda, di trovare un corriere<br />
ugualmente fidato, che s’incaricasse di recapitare la lettera. Dopo molte e diligenti<br />
ricerche, le due gravi difficoltà furono finalmente superate: la lettera fu scritta<br />
all’indirizzo di Agnese Mondella, ma venne inserita in una missiva diretta a Padre<br />
Cristoforo di Pescarenico, poiché Renzo non sapeva se la donna fosse ancora a<br />
Monza o fosse tornata in paese. La lettera giunse regolarmente al convento, ma<br />
qui il Guardiano probabilmente la cestinò, stante l’ordine del Provinciale che fra<br />
Cristoforo non mantenesse alcuna corrispondenza con gente del posto.<br />
Non vedendo giungere alcuna risposta, il giovane fece scrivere una seconda<br />
lettera, che accluse in un ‘altra diretta a un suo amico o parente di Lecco. La<br />
missiva giunse felicemente ad Agnese la quale corse a Maggianico, per farsela<br />
leggere dal cugino Alessio, “uomo di proposito” oltre che “letterato”, nel senso<br />
che conosceva quella “birberia” del leggere e scrivere. Nella lettera Renzo, dopo<br />
aver parlato della sua fuga, del cambiamento di paese e di nome, per l’avviso<br />
segreto ricevuto da Bortolo, passava a chiedere ansiosamente notizie di Lucia, e<br />
concludeva con promesse di fedeltà e con parole di fiducia nell’avvenire. Agnese<br />
s’accordò con Alessio, persona esperta oltre che seria, e insieme stilarono la<br />
risposta, che fu inviata e recapitata; s’iniziò così, tra lei e Renzo, un carteggio non<br />
regolare, ma continuato, pur tra mille difficoltà, di cui non ultima quella di capirsi<br />
attraverso lo stile dei vari scrivani, i quali non si rassegnavano affatto a essere<br />
164
strumenti passivi, ma pretendevano di interpretare, di migliorare, di correggere<br />
quello che veniva loro dettato; e preoccupandosi di dare una forma letteraria allo<br />
scritto, secondo le loro personali vedute, spesso non facevano altro che travisarne<br />
o annebbiarne il senso. La situazione si <strong>com</strong>plicava anche per il fatto che gli stessi<br />
interessati, trattando argomenti un po’ gelosi, che non volevano lasciar capire agli<br />
estranei, si esprimevano un po’ in enigma, con allusioni poco chiare, che elaborate<br />
dalla penna dei segretari si trasformavano in veri e propri rompicapo.<br />
Quando Agnese trovò un corriere molto fidato, mandò a Renzo i cinquanta<br />
scudi, secondo il desiderio di Lucia, con una lettera con cui gli spiegava il fatto<br />
del voto, per mezzo di circonlocuzioni poco chiare, e infine lo esortava a mettere<br />
il cuore in pace e non pensare più alla ragazza, la quale non poteva più essere<br />
moglie di nessuno. Immaginatevi l’emozione, o meglio la furia del giovane<br />
quando sentì la lettera, che si fece rileggere più volte, perché non si poteva<br />
capacitare della cosa, tanto essa gli sembrava strana e inaudita. Quindi, ancor tutto<br />
turbato per la nuova che lo aveva sconvolto, pretese che il “lettore interprete”<br />
prendesse subito la penna in mano e rispondesse che lui il cuore in pace non lo<br />
metterebbe mai, che Lucia doveva essere sua, che lui non voleva saperne di<br />
promesse, che la Madonna ci sta per aiutare i tribolati e per dispensare grazie,<br />
non per far mancare di parola; aggiungendo che non toccherebbe neppure uno di<br />
quegli scudi, che dovevano servire per dote della giovane.<br />
Quando Lucia seppe dalla madre “che quel tale era vivo e in salvo e<br />
avvertito” (del voto), provò una grande consolazione, e augurandosi che Renzo<br />
pensasse a dimenticarla, cercava anche lei di fare la stessa cosa, e ci riusciva fino<br />
a un certo punto, dedicandosi tutta alla preghiera e al lavoro. Ci sarebbe riuscita<br />
molto meglio, se non ci si fosse messa anche donna Prassede la quale, per fargli<br />
dimenticare il fidanzato, glielo dipingeva <strong>com</strong>e un “birbante venuto a Milano per<br />
rubare e scannare”, aggiungendo che certe ragazze hanno un debole per gli<br />
scapestrati, e quando ne hanno uno nel cuore, non se lo tolgono più. La povera<br />
giovane “con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che<br />
poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna”, cioè nella sua<br />
condizione di ospite beneficata, cercava di difendere il povero bistrattato, solo per<br />
senso di giustizia e di carità cristiana; e allora l’arcigna moralista incalzava<br />
maggiormente, adducendo questa umile difesa dell’assente <strong>com</strong>e prova lampante<br />
“che il suo cuore era ancora preso dietro a colui”, <strong>com</strong>e appunto lei sosteneva; e<br />
l’aspra reprimenda continuava per un pezzo, mentre la poverina tremava e<br />
piangeva. Ma l’ispida vecchia non si <strong>com</strong>moveva a quelle lagrime, e continuava<br />
imperterrita il suo rabbuffo, convinta che faceva un’opera meritoria, e che nel far<br />
del bene non bisogna farsi smuovere neppure dalle lagrime; allo stesso modo,<br />
osserva il Manzoni, i pianti supplichevoli potranno trattenere la spada di un<br />
nemico, ma non il bisturi d’un chirurgo, il cui dovere sacrosanto è di immergerlo<br />
nella carne dolorante del paziente, allo scopo di sanarlo. Per fortuna di Lucia<br />
queste baruffe non erano molto frequenti, perché la signora non doveva<br />
raddrizzare solo il suo cervello. C’era il resto della servitù, tutta gente piena di<br />
difetti, che donna Prassede doveva continuamente emendare secondo le sue<br />
165
personali vedute; c’erano soprattutto le cinque figlie le quali, pur non essendo in<br />
casa, le davano da fare e da pensare più che se ci fossero. Tre erano suore, per cui<br />
ella aveva tre monasteri da sorvegliare; due erano sposate, ed ecco due case da<br />
controllare e da guidare. Naturalmente e nelle due case e nei tre monasteri si<br />
faceva di tutto per evitare o eludere le sue premure opprimenti, i suoi interventi<br />
senza tatto e senza senno, le sue pretese odiose o balorde; ma lei continuava<br />
imperturbabile a intromettersi e a lottare, convinta <strong>com</strong>’era di essere investita di<br />
una missione speciale della Divina Provvidenza per la salvaguardia morale della<br />
società.<br />
Anche al signor marito l’arcigna matrona aveva cercato d’imporre il suo<br />
giogo, ma don Ferrante, tutto chiuso nei suoi studi, era riuscito a sfuggirgli,<br />
accontentandosi di lasciarla fare; e lei, dopo aver tentato a lungo di farselo umile<br />
ministro del suo dispotico governo, lo mise da parte, relegandolo in un cantuccio e<br />
chiamandolo uno schivafatiche, un fissato, un letterato: “titolo nel quale, insieme<br />
con la stizza, c’entrava anche un po’ di <strong>com</strong>piacenza”. Questo barlume di<br />
sentimento, vale a dire questa certa fierezza per il dotto marito, rende un po’ di<br />
dimensione umana a questa bigotta importuna e scriteriata, angusta e pretenziosa,<br />
la quale però in fondo non era cattiva; e lo vediamo anche nel suo <strong>com</strong>portamento<br />
verso la nostra dolce Lucia: è vero che le faceva di tanto in tanto quelle tali lavate<br />
di capo, ma “poi nel resto la trattava con gran dolcezza”; e la ragazza non provava<br />
alcun risentimento verso di lei, anche se molto doveva soffrire per quelle scenate<br />
irragionevoli che le toglievano la calma per parecchi giorni.<br />
Ma torniamo a don Ferrante, al quale l’Autore dedica la fine del capitolo,<br />
parlando diffusamente della sua biblioteca e dei suoi studi prediletti. Trattando di<br />
questi e di quella, il Manzoni attua forse meglio che altrove il suo verismo<br />
espressivo, esprimendosi cioè <strong>com</strong>e avrebbe potuto fare lo stesso don Ferrante,<br />
riportando per così dire i suoi giudizi, le idee cioè di un vacuo letterato del<br />
Seicento, che si è dedicato con assoluta serietà a imparare le nozioni di una<br />
cultura fasulla, già da tempo superata, ma nella quale egli credeva con la fede<br />
cieca dei cultori dell’”ipse dixit”. Infatti essa si basava sulla filosofia aristotelica,<br />
assunta tutta acriticamente <strong>com</strong>e fondamento di verità, dato che Aristotele era «il<br />
maestro di color che sanno» <strong>com</strong>e afferma Dante (Inf. IV,131). La più parte di<br />
queste nozioni, tanto faticosamente imparate quanto caparbiamente professate,<br />
sono delle vere e proprie sciocchezze, che ci fanno ridere di gusto. Per noi don<br />
Ferrante vale molto più <strong>com</strong>e uomo che <strong>com</strong>e dotto; egli ci torna alquanto<br />
simpatico per il fatto che “non gli piaceva né di <strong>com</strong>andare né d’ubbidire”,<br />
volendo essere del tutto indipendente; e perciò si era opposto vittoriosamente alla<br />
dittatura della signora moglie, almeno per quanto riguardava la sua persona; il<br />
che non è piccolo merito, se si tiene conto della personalità invadente di donna<br />
Prassede. E’ vero che talora le prestava la sua arte di letterato, stilando per lei<br />
delle lettere con la sua penna di raffinato dicitore, ma lo faceva solo nelle<br />
occasioni veramente importanti, e quando lui stesso era persuaso di ciò che voleva<br />
fargli scrivere; in caso contrario sapeva rifiutarsi anche in questo; e se lei insisteva<br />
sostenendo che la cosa era semplice e lampante, rispondeva sarcasticamente: “La<br />
166
s’ingegni, faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara.” Dopo l’uomo,<br />
prendiamo in esame il dotto.<br />
La sua biblioteca, dove “passava di grand’ore”, <strong>com</strong>prendeva quasi trecento<br />
volumi: “tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate”; lo scrive il Manzoni, ma,<br />
per il suo verismo espressivo, è <strong>com</strong>e se lo sentissimo affermare dalla voce<br />
enfatica di quel bolso letterato; infatti noi sappiamo che quel fior di roba era<br />
invece ciarpame librario. I volumi allineati in bella mostra sugli scaffali del suo<br />
studio rispecchiavano naturalmente i suoi gusti e le sue preferenze: astrologia,<br />
filosofia antica, filosofia naturale (cioè scienze naturali) , magia e stregoneria,<br />
storia, politica e soprattutto scienza cavalleresca, in cui era considerato un vero<br />
specialista, per cui veniva spesso invitato a decidere questioni d’onore, cioè<br />
contese di gentiluomini su punti di cavalleria, allora piuttosto frequenti, <strong>com</strong>e<br />
vediamo anche dal romanzo.<br />
I giudizi di don Ferrante sui vari autori ci fanno veramente sorridere; le sue<br />
nozioni scientifiche sulle sirene, sull’unica fenice, sulla salamandra che può stare<br />
nel fuoco senza bruciare, sulla remora, questo pesciolino che può fermare<br />
qualunque vascello, sul camaleonte che si ciba di aria, e altre simili fanfaluche, ci<br />
mettono addosso l’ilarità, e ci chiediamo attoniti <strong>com</strong>e nel secolo di Galileo si<br />
potesse ancora credere a siffatte corbellerie. Ma tanta balordaggine si spiega: il<br />
nostro studioso era un accanito aristotelico, un fanatico dell’ “ipse dixit”, e quindi<br />
tutte le antiche fole, avallate dalla Fisica di Aristotele, e in più i vari pregiudizi e<br />
le molte stupidaggini della tradizione scolastica, lui li credeva in base al principio<br />
d’autorità, anche se andavano contro la logica e l’esperienza. Del resto sappiamo<br />
quanto dové lottare e penare Galileo per far trionfare il metodo sperimentale<br />
contro il principio d’autorità, che per allora rimase inconcusso e vittorioso, mentre<br />
fu condannato <strong>com</strong>e eretico chi aveva osato confutarlo in nome della vera scienza,<br />
opponendosi alla pseudo-scienza dogmatica e libresca.<br />
Assolviamo quindi il povero don Ferrante, il quale almeno non inquisiva e non<br />
condannava la gente, ma si limitava a trinciare giudizi innocui quanto avventati,<br />
per soddisfazione sua e di pochi seguaci; e del resto, fra tanti libri dozzinali,<br />
aveva riservato un posto nella sua libreria anche per Machiavelli, “mariolo sì, ma<br />
profondo”. Per il nostro letterato però era di gran lunga superiore, in politica, don<br />
Valeriano Castiglione, del quale esaltava “quel libro piccino, ma tutto d’oro”, il<br />
capolavoro dei capolavori, vale a dire lo “Statista Regnante”. Questo giudizio, che<br />
riportiamo <strong>com</strong>e campione di tanti altri, pronunciati dal nostro dotto con uguale<br />
sicumera, può dimostrare da solo la cultura e la capacità critica di questo ridicolo<br />
letterato ammantato di serietà.<br />
Don Ferrante e donna Prassede sono personaggi inventati dalla fervida<br />
fantasia manzoniana. Ma non sono macchiette: sono rappresentativi di uomini e<br />
donne del Seicento, della società barocca, di questa età vacua e pretenziosa. Se il<br />
Manzoni ha insistito tanto a descriverne la tipologia, è perché uomini e donne<br />
simili non erano rari anche al suo tempo, e forse lui ne aveva conosciuti alcuni.<br />
167
CAPITOLO XXVIII<br />
Dopo i tumulti dei giorni 11 e 12 novembre “parve che l’abbondanza fosse<br />
tornata in Milano, <strong>com</strong>e per miracolo”: pane in quantità e a buon mercato, una<br />
vera pacchia! quelli che avevano adoperata la bocca per urlare o le mani per fare<br />
qualcosa di più redditizio, potevano essere contenti dell’esito, meno i pochi che<br />
erano stati arrestati, dei quali quattro furono poi impiccati il 24 dicembre, due<br />
davanti al forno delle grucce e due davanti alla casa del Vicario di provvisione,<br />
per salutare ammonimento di tutti coloro a cui pizzicavano le mani. Ma<br />
quell’abbondanza e quel prezzo così vile erano cose artificiose, che non potevan<br />
durare; e la gente, che press’a poco lo capiva, tanto più di dava ad approfittare<br />
della cuccagna, <strong>com</strong>prando pane, e soprattutto farina, quanta più ne poteva. Ed<br />
ecco perciò una sequela di gride che cercavano di porre riparo all’accaparramento,<br />
dovuto all’incertezza dell’avvenire e anche maggiormente al prezzo basso. Se il<br />
prezzo fosse stato giusto, sembra voler dire il Manzoni che in economia era<br />
liberista, cioè il prezzo stabilito naturalmente dall’incontro tra la domanda e<br />
l’offerta, tra la quantità esistente e il bisogno reale, le cose non sarebbero andate<br />
così, né si sarebbero verificati i tumulti. Quelle gride, emanate per impedire<br />
l’accaparramento, erano per di più balorde e ineseguibili; per esempio la prima,<br />
del 15 novembre, stabiliva che chi avesse grano o farina in casa non poteva più<br />
<strong>com</strong>prarne, e che non si doveva vender pane a nessuno in quantitativo superiore al<br />
fabbisogno di due giorni. Ma chi avrebbe ammesso di avere grano o farina in<br />
casa? e la quantità per due giorni <strong>com</strong>e e da chi poteva essere fissata? e chi<br />
impediva a uno di far credere di avere più persone a carico o di andare<br />
successivamente a rifornirsi presso vari forni? Queste semplici obiezioni<br />
dimostrano l’ingenuità della grida e la stoltezza dei loro autori; non c’è che dire: o<br />
si deve giungere a un severo sistema di tesseramento o è meglio affidarsi alla<br />
legge del mercato, cioè al sistema dell’equilibrio automatico della domanda con<br />
l’offerta, limitandosi a reprimere la speculazione al rialzo o al ribasso con mezzi<br />
economici e non polizieschi.<br />
Queste belle gride, di nessuna efficacia pratica, erano però tutte ac<strong>com</strong>pagnate<br />
da severe e arbitrarie <strong>com</strong>minazioni di pene, sempre aumentabili “ad libitum” del<br />
Governatore, le quali arrivavano sino a cinque anni di galera e peggio. Sic<strong>com</strong>e i<br />
condannati alla galera allora andavano effettivamente a remare nelle galere o<br />
galee, incatenati ai banchi, l’Autore osserva argutamente che, se quelle gride<br />
fossero state eseguite, “il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in<br />
mare, quanta ne possa avere ora la Gran Bretagna”. Tutti sanno che la marina<br />
inglese nella prima metà dell’Ottocento era la prima del mondo, e tale restò per<br />
tutto il secolo; il Manzoni dice dunque indirettamente che gli evasori di quelle<br />
ordinanze sciocche erano praticamente tutti i cittadini, i quali continuarono a<br />
<strong>com</strong>prare grano e farina cercando di aumentare, anziché scemare, le loro private<br />
riserve. In breve tempo il grano <strong>com</strong>inciò a scarseggiare, e si dovette ricorrere a<br />
168
mescolanze: si macinò il risone o riso vestito, e se ne miscelò la farina con quella<br />
di frumento. Ma bisognava pur trovare questo risone, e pagarlo; e il prezzo del<br />
riso era allora, <strong>com</strong>e del resto anche oggi, quasi il doppio di quello del grano,<br />
sicché risultava doppiamente impossibile mantenere quel prezzo da cuccagna, che<br />
naturalmente favoriva lo spreco e l’accaparramento, contro il quale nulla poteva,<br />
<strong>com</strong>e s’è dimostrato, la peregrina grida del 15 novembre. E sic<strong>com</strong>e da fuori<br />
Milano veniva gente in città, per approfittare di quel bengodi, ecco una grida del<br />
15 dicembre, che proibiva di esportare pane per più del valore di venti soldi. Ma<br />
vedete che governanti intelligenti! non si poteva portar fuori più di qualche<br />
pagnotta di pane, ma interi sacchi di farina sì, perché ciò non era proibito dalla<br />
grida; e per accorgersi di questa incredibile dimenticanza ci misero una settimana,<br />
poiché solo il 22 dello stesso mese si proibì, con altra grida, di esportare grano o<br />
farina. Comunque il prezzo non era più sostenibile, e decisero di aumentarlo; e<br />
probabilmente l’aumento fu decretato in con<strong>com</strong>itanza dell’impiccagione di quei<br />
quattro disgraziati; così vedendo i condannati dar calci all’aria, i cittadini erano<br />
indotti ad accettare senza fiatare il rincaro della vita. Sempre per via d’induzione,<br />
perché mancano documenti in proposito, io propendo a credere che l’aumento fu<br />
imposto immediatamente dopo l’esecuzione, avvenuta il 24 dicembre, poiché<br />
logicamente (nell’uso della forca sapevano essere logici!) i governanti avranno<br />
voluto dare prima l’esempio e il monito, e poi inasprire il prezzo, sicuri che<br />
nessuno avrebbe osato più protestare, né tanto meno si sarebbe mosso, dopo<br />
quell’avvertimento così persuasivo. E difatti nessuno fiatò.<br />
Comunque il pane, anche miscelato e a caro prezzo, scarseggiò sempre più,<br />
finché a poco a poco la carestia si fece sentire assieme alla disoccupazione e alla<br />
stasi di ogni attività produttiva, le quali costringevano all’accattonaggio anche<br />
laboriosi e onesti artigiani, e soprattutto i contadini, che affluivano sempre più<br />
numerosi in città a tender la mano, dopo aver perduto tutte le loro provviste per le<br />
violenze e l’avidità delle truppe, oltre che per l’esosità del fisco. Nell’inverno<br />
avanzato e nella primavera del 1629 lo spettacolo che presentava Milano era<br />
indescrivibile: “a ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le<br />
strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno<br />
perpetuo di patimenti.” La descrizione dell’Autore è così efficace, per icastica<br />
evidenza, che stringe veramente il cuore; in essa palpita l’accorata mestizia del<br />
cristiano per le miserie umane; è proprio il caso di ripetere con Virgilio: “sunt<br />
lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt.” 8<br />
Questo capitolo del romanzo, che a qualcuno può apparire di secondaria<br />
importanza, perché tratta avvenimenti generali, che non riguardano direttamente i<br />
nostri personaggi, è invece pur esso valido sul piano artistico e umano, pervaso<br />
<strong>com</strong>’è da una viva <strong>com</strong>mozione per la sofferenza degli uomini, dei nostri fratelli,<br />
sentita maggiormente per il fatto che tale degradazione della condizione umana<br />
non fu prevenuta né riparata, <strong>com</strong>e invece si poteva e si doveva, da parte delle<br />
8 = sono eventi lacrimevoli, e le miserie umane toccano il cuore.<br />
169
autorità. E tanto più vibra la <strong>com</strong>mossa ammirazione del Manzoni per chi, <strong>com</strong>e il<br />
Cardinale Federigo, in mezzo allo sbalordimento inoperoso dei pubblici poteri,<br />
operò efficacemente e mirabilmente per lenire la fame e le sofferenze, servendosi<br />
dei soli suoi mezzi, potenziati al massimo dallo spirito di’iniziativa e da un<br />
profondo senso della propria responsabilità. E l’Autore non può non esaltare, con<br />
ammirate e <strong>com</strong>mosse parole, “quella carità ardente e versatile” del buon pastore,<br />
la quale “doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto<br />
prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il bisogno.”<br />
Nel muovere al soccorso dei suoi diocesani il santo Arcivescovo mostrò infatti<br />
intelligente sollecitudine, spirito pratico, capacità organizzativa e soprattutto<br />
squisita sensibilità cristiana: si rivelò insomma un vero artista della carità.<br />
Cominciò col mobilitare i suoi mezzi finanziari, dato che egli “ricusava, per<br />
sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui”; destinò dunque alla carità<br />
anche le somme assegnate ad altre spese meno urgenti, e per avere disponibile più<br />
denaro che fosse possibile, impose la più stretta economia in tutte le spese<br />
correnti, a <strong>com</strong>inciare dal mantenimento suo, già così parsimonioso, e del suo<br />
seguito. Istituì nel vescovado lo stato maggiore, per così dire, di quella nuova<br />
crociata, diretta contro la fame e le sofferenze, e <strong>com</strong>inciò con l’organizzarvi una<br />
grande cucina, la quale era in grado di distribuire ogni giorno circa duemila<br />
scodelle di minestra di riso. Scelse poi sei sacerdoti, tra i più caritatevoli e anche<br />
fisicamente sani e robusti, dato il particolare servizio a cui erano destinati, i quali<br />
dovessero ogni giorno, a coppie, girare per la città, che all’uopo divise in tre zone,<br />
distribuendo aiuti. Questi bravi preti percorrevano indefessamente la zona loro<br />
assegnata, strada per strada, “con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più<br />
sottili e pronti ristorativi, e di vesti”, per sovvenire alle necessità più urgenti. E<br />
non si limitavano e rifocillare momentaneamente quelli che venivano meno per<br />
l’inedia, ma cercavano di pensare anche al domani degli indigenti, per i quali<br />
cercavano ricovero e mantenimento presso le case dei benestanti, i quali<br />
generalmente li accettavano gratuitamente, essendo il loro sentimento cristiano<br />
risvegliato ed esaltato dal buon esempio del clero. Se poi alla buona volontà degli<br />
ospitanti mancavano i mezzi materiali, i preti fissavano una pensione per i<br />
ricoverati e ne sborsavano subito un acconto; davano poi l’elenco delle persone<br />
così allogate ai parroci da cui dipendevano, affinché li visitassero periodicamente<br />
per confortarli e controllarne le condizioni fisiche e morali. Inoltre il Cardinale<br />
<strong>com</strong>prò, dove e <strong>com</strong>e poté, grandi quantità di grano e di altri cereali, che<br />
distribuiva avvedutamente in città e nei paesi dove più si faceva sentire la miseria;<br />
e nelle campagne, col grano, mandava anche del sale, che può trasformare in cibo<br />
anche le umili erbe del campo. Lui stesso poi vigilava personalmente su tutta<br />
l’organizzazione, visitando la città quartiere per quartiere e dispensando anch’egli<br />
aiuti; altri ne affidava ai vari curati, perché li distribuissero ai loro parrocchiani;<br />
insomma in ogni bisogno, in ogni circostanza dolorosa, in ogni strettezza rifulse<br />
radiosa l’inesausta carità di Federigo.<br />
Il Manzoni rileva, <strong>com</strong>e cosa degna di nota, che in mezzo a tanta sofferenza e<br />
a tanti stenti non ci fu mai neppure un cenno di rivolta; e ciò avvenne, osserva<br />
170
giustamente, non per il terrore di quei quattro impiccati, ma perché noi uomini<br />
generalmente “ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci<br />
curviamo in silenzio sotto gli estremi.” Una cosa simile, ma con intento ben<br />
diverso, aveva già osservata il Segretario Fiorentino, nella sua lucida analisi del<br />
principato assoluto.<br />
Sic<strong>com</strong>e la mortalità aumentava di giorno in giorno e si temeva un contagio, il<br />
tribunale di Sanità (formato da un presidente e da sei “conservatori” cioè tutelatori<br />
della salute pubblica; di questi due erano medici e quattro funzionari; tribunale si<br />
diceva allora anche nel senso di <strong>com</strong>missione o giunta, quale era appunto questa)<br />
fece presente a quello di Provvisione l’esigenza urgente che tutti gli accattoni<br />
fossero raccolti in diversi ospizi. Il tribunale di Provvisione ritenne più semplice e<br />
spedito riunirli tutti nel lazzaretto, “contro il parere della Sanità, la quale<br />
opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si<br />
voleva metter riparo.” Essendo prevalso il parere della Provvisione, in pochi<br />
giorni il lazzaretto si riempì di miserabili, in parte andatici spontaneamente, in<br />
parte condottici con la forza. Inopportunamente poi si volle dare ai birri un premio<br />
di dieci soldi per ogni accattone o vagabondo che avessero portato in quel luogo;<br />
disposizione che provocò non solo sperpero del pubblico denaro, proprio quando<br />
ce n’era tanto bisogno per altri usi più umani, ma anche una vera e propria caccia<br />
all’uomo, non scevra di violenze e di vessazioni, da parte dei birri avidi di denaro.<br />
Il Manzoni ci dà a questo punto una precisa e dettagliata descrizione del<br />
lazzaretto, tanto nitida ed esatta, che ci sembra davvero di averlo davanti quel<br />
grande recinto quasi quadrato, che misurava passi 500 per 485 ed era circondato<br />
<strong>com</strong>plessivamente da 288 stanzette; nella parte interna dell’edificio, su tre lati,<br />
girava “un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.” Nel<br />
centro del recinto c’era (l’edificio fu distrutto alla fine del settecento) una chiesa<br />
ottagonale, poggiata su arcate, sicché l’altare era visibile da ogni parte del vasto<br />
cortile. Il lazzaretto (così chiamato da San Lazzaro, protettore degli appestati) era<br />
stato costruito nel 1498 per ricoverarvi appunto gli ammalati di peste, che in quei<br />
tempi soleva <strong>com</strong>parire in Europa, or qua or là ora in gran parte di essa, da due a<br />
otto volte in un secolo. L’ultima peste nel Milanese si era verificata nel 1576 , e<br />
sic<strong>com</strong>e in essa S. Carlo Borromeo si prodigò eroicamente per curare i contagiati,<br />
fu poi <strong>com</strong>unemente chiamata “la peste di S. Carlo”: la forza della sua carità fece<br />
in modo che una calamità generale divenisse per lui <strong>com</strong>e un emblema o<br />
un’impresa gloriosa, perché in essa soprattutto rifulse l’inesausto suo amore per<br />
l’umanità sofferente. Il lazzaretto veniva utilizzato, in quegli anni, <strong>com</strong>e deposito<br />
delle merci soggette a controllo sanitario, perché provenienti da località infette;<br />
naturalmente, per sgombrare l’edificio, si dovette a un tratto rilasciare tutte queste<br />
mercanzie, contro ogni norma dell’igiene e del buon senso, oltre che contro i<br />
regolamenti della Sanità. Gli accattoni stipati in quelle 288 stanzette, di cui<br />
evidentemente una certa aliquota dové essere adibita ai servizi generali, furono in<br />
principio tremila, ma salirono ben presto per arrivare sin quasi a diecimila,<br />
soprattutto per le spietate e interessate retate della polizia. Ognuno può<br />
immaginare in quali condizioni potesse vivere tanta gente, diversa di sesso e d’età,<br />
171
<strong>com</strong>e di condizione e d’educazione, ammonticchiata, per così dire, in quel breve<br />
spazio, privo di ogni garanzia igienica e sanitaria. “Dormivano ammontati a venti<br />
a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di<br />
paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra”; per l’acqua erano costretti a ricorrere,<br />
in mancanza di acquedotto, a una gora che costeggiava il recinto, “bassa, lenta,<br />
dove anche motosa”, la quale poi in breve tempo divenne una vera e propria<br />
cloaca. In tali condizioni di sporcizia, di iponutrizione, di cibo pessimo e<br />
indigesto, non c’è da meravigliarsi che si diffondesse quasi subito tra i ricoverati<br />
un contagio pernicioso e mortale, che ad alcuni parve pestilenza, ma che forse era<br />
soltanto un’influenza piuttosto maligna o una specie di tifo petecchiale, alimentato<br />
dal sudiciume e dalla mancanza di ogni pur elementare profilassi. La conseguenza<br />
di questo stato di cose fu che “il numero giornaliero dei morti nel lazzaretto<br />
oltrepassò in poco tempo il centinaio.” Che fare? Non si trovò di meglio che dare<br />
un calcio a quanto si era <strong>com</strong>piuto “con tanta spesa, con tante vessazioni”:<br />
s’aprirono i cancelli, e i poveri prigionieri (il nome è appropriato) “scapparon<br />
fuori con una gioia furibonda”, meno naturalmente i malati e quelli che non si<br />
reggevano in piedi per la debolezza, in seguito alla lenta consunzione. “La città<br />
tornò a risonare dell’antico lamento, ma più debole e interrotto”, perché i<br />
mendicanti erano scemati di numero e così stremati nel fisico, <strong>com</strong>e abbattuti nel<br />
morale.<br />
Intanto giunse finalmente la messe dell’anno 1629: i contadini, che erano<br />
accorsi in città per sfamarsi, erano impazienti di tornare ai loro campi per quella<br />
sospirata mietitura; e il Cardinale, con cuore paterno e spirito pratico, diede a<br />
ognun d’essi una piccola somma e una falce messoria. Col nuovo raccolto cessò la<br />
carestia, mentre la mortalità, pur scemando, si prolungò sino all’autunno,<br />
allorquando si abbatté sulle misere terre del Ducato un nuovo flagello: la discesa<br />
dell’esercito alemanno, inviato dall’Imperatore contro il Nevers, che si era<br />
insediato a Mantova senza il suo beneplacito. Diamo conto succintamente di<br />
questi avvenimenti.<br />
Il Cardinale di Richelieu, presa La Rochelle e concluso un armistizio col Re<br />
d’Inghilterra, Carlo I Stuart, aveva convinto il suo re, Luigi XIII, a intervenire in<br />
Italia in aiuto del Duca di Nevers. Nel frattempo il Conte di Nassau, <strong>com</strong>missario<br />
imperiale, aveva già per tre volte intimato al predetto duca di consegnare Mantova<br />
nelle mani dell’Imperatore; non avendo il Nevers obbedito all’ingiunzione, sicuro<br />
<strong>com</strong>’era ormai dell’intervento francese, il <strong>com</strong>missario era ripartito<br />
minacciandogli la guerra. E infatti Ferdinando II, sdegnato per il rifiuto, ordinò<br />
l’invio contro Mantova di 35.000 uomini, di cui 7.000 cavalieri, al <strong>com</strong>ando del<br />
capitano italiano Conte Rambaldo di Collalto. Ma prima di questo esercito erano<br />
calati in Italia i Francesi, <strong>com</strong>andati dal loro stesso re, che aveva al suo fianco il<br />
Richelieu. Il Duca di Savoia, Carlo Emanuele I, aveva tentato di opporsi al<br />
passaggio di queste truppe, ma era stato vinto e aveva dovuto concludere col Re la<br />
disastrosa pace di Susa, per cui abbandonava il Monferrato, impegnandosi a far sì<br />
che don Gonzalo togliesse l’assedio a Casale, e in caso contrario a marciare contro<br />
di lui assieme ai Francesi. Il Cordova però cedette subito, e in Casale entrarono i<br />
172
soldati di Luigi XIII il quale, pago del successo, per consiglio del suo onnipotente<br />
primo ministro, ripassò le Alpi, lasciando però un forte presidio nella fortezza di<br />
Susa, per assicurarsi della fedeltà del Duca di Savoia col possesso di<br />
quell’importante valico.<br />
Sfortunatamente per il ducato di Milano, “mentre quell’esercito se n’andava<br />
da una parte, quello di Ferdinando s’avvicinava dall’altra”: erano i famigerati<br />
lanzichenecchi, luterani arrabbiati, spietati saccheggiatori dei paesi cattolici che<br />
cadevano sotto le loro grinfie. Essi calavano <strong>com</strong>e alleati degli Spagnoli, in<br />
quanto volevano togliere Mantova al Nevers, e <strong>com</strong>e tali avevano diritto all’<br />
“ospitazione” nel Milanese, cioè all’alloggio e alla fornitura dei viveri, i quali<br />
però avrebbero dovuto essere regolarmente pagati; in pratica quelle truppe, nel<br />
paese amico, si <strong>com</strong>portavano <strong>com</strong>e in un paese nemico, e percorrevano la<br />
regione saccheggiando, bruciando, stuprando. I miseri abitanti dei paesi per dove<br />
dovevano passare, fuggivano sui monti, cercando di salvare con la vita qualche<br />
provvista o qualche masserizia; ma talora anche la fuga era vana, perché quei<br />
briganti si arrampicavano pure sui monti a <strong>com</strong>piere le loro rapine e violenze. E<br />
quel che era peggio, in quelle bande si annidava sempre qualche focolaio di peste<br />
o di altra grave malattia epidemica, che veniva seminata per dove passavano.<br />
Perciò il tribunale di Sanità incaricò uno dei suoi membri, il medico<br />
Alessandro Tadino, “di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che<br />
sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all’assedio di<br />
Mantova.” Ma don Gonzalo (ammirate il suo bel senso di responsabilità) “rispose<br />
che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali<br />
s’era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto<br />
ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza”. Ma può<br />
sperare fiduciosamente nella Provvidenza – sembra voler dire il religiosissimo<br />
Autore in questo punto – solo chi da parte sua ha fatto quant’era nelle possibilità<br />
umane per evitare il male, non chi ad esso non oppone che vuote parole o, peggio,<br />
dimostra solo inerzia colposa e quasi connivente.<br />
Per evitare ogni contatto, e quindi contagio, da parte dei lanzi, i due medici<br />
della Sanità proposero di vietare “sotto severissime pene di <strong>com</strong>prar roba di<br />
nessuna sorte dai soldati ch’eran per passare”; ma non riuscirono a far approvare<br />
il bando dal presidente del tribunale stesso, e perciò non se ne fece nulla. Anche in<br />
questo caso, bel senso di responsabilità da parte di chi era preposto alla pubblica<br />
salute! Poco dopo l’abboccamento col medico Tadino, al quale diede la mirabile<br />
risposta che sopra abbiamo riportato, don Gonzalo fu rimosso dal governo di<br />
Milano, per l’insuccesso da lui subito nella guerra, e sostituito col genovese<br />
marchese Ambrogio Spinola. La partenza dalla città dell’impopolare Governatore<br />
suscitò una dimostrazione ostile con fitta sassaiola contro le carrozze, sua e del<br />
seguito, le quali a stento poterono guadagnare Porta Ticinese, donde uscirono a<br />
salvamento sotto una salva di pietre lanciate dai dimostranti, saliti sulle mura per<br />
dare al loro beneamato amministratore quell’ultimo lapideo saluto.<br />
Come abbiamo già detto, i soldati luterani si <strong>com</strong>portavano nei paesi cattolici<br />
con efferata violenza, per l’odio rinfocolato nel loro animo dalle lotte religiose<br />
173
che di tanto in tanto insanguinavano la Germania. Circa un secolo prima, nel<br />
1527, i lanzichenecchi avevano saccheggiato Roma nel modo barbaro che tutti<br />
conoscono; nel 1630 daranno il sacco alla città di Mantova, in maniera non meno<br />
efferata anche se meno famosa. Il saccheggio era ormai ad essi riconosciuto quasi<br />
<strong>com</strong>e un diritto sia dai loro <strong>com</strong>andanti sia dai principi che li assoldavano; esso<br />
era considerato <strong>com</strong>e un supplemento, tacitamente convenuto, del soldo loro<br />
dovuto, che non veniva mai pagato regolarmente o intero, per il fatto che i principi<br />
assoldavano sempre più uomini di quanti permettessero le loro finanze, nella<br />
speranza di vincere così la guerra e di <strong>com</strong>pensare le bande col saccheggio dei<br />
territori conquistati. E’ celebre in proposito la frase del Wallenstein, forse il più<br />
tristamente famoso di questi capitani di ventura: “esser più facile mantenere un<br />
esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila”; infatti un grande esercito<br />
ha la possibilità di vincere, e quindi <strong>com</strong>pensare i soldati col saccheggio: mentre il<br />
piccolo esercito ha poche possibilità di vincere, per cui è anche difficile che venga<br />
assoldato, poiché non ispira fiducia per la vittoria finale, ed è ancora più difficile<br />
che venga regolarmente pagato. L’affermazione del cinico Wallenstein ha dunque<br />
il suo fondamento di verità.<br />
I lanzi, <strong>com</strong>andati dal conte di Collalto, erano divisi in venti reggimenti, i<br />
quali si susseguivano, giorno dopo giorno, negli sfortunati paesi che segnavano<br />
l’itinerario dell’esercito imperiale. Considerando poi che per attraversare tutto il<br />
Ducato esso impiegava otto giorni di marcia, possiamo concludere che per circa<br />
un mese il Milanese soffrì di questa alluvione di predatori. Naturalmente i<br />
reggimenti d’avanguardia erano per questo rispetto i più fortunati, perché<br />
trovavano i paesi intatti, e potevano quindi rapinare con più profitto, soprattutto<br />
viveri e preziosi; mentre i reparti della retroguardia, non trovando ormai più nulla<br />
da saccheggiare, per la rabbia bruciavano e distruggevano tutto, e talora<br />
piombavano inaspettati su qualche paese un po’ lontano dal percorso di marcia,<br />
per fare man bassa e rifarsi così della loro scalogna. Ai danni materiali bisognava<br />
aggiungere, purtroppo, le violenze carnali, le percosse, le ferite e anche le<br />
uccisioni, tutte cose che restavano ugualmente ignorate e impunite. Realtà<br />
raccapriccianti di tutte le guerre, antiche e moderne; ma in questo caso esse<br />
venivano perpetrate in territorio alleato; immaginiamoci che cosa dette truppe<br />
avranno fatto in territorio nemico.<br />
174
CAPITOLO XXIX<br />
Tra i paesi abbandonati e quasi offerti al saccheggio dei lanzi, c’era purtroppo<br />
quello d’Agnese, la quale si rammaricava però non tanto per dover abbandonare la<br />
propria casa, quanto per non poter rivedere la sua Lucia, dato che donna Prassede<br />
non sarebbe andata in quell’autunno (del 1629) a villeggiare nel territorio di<br />
Lecco,che doveva appunto essere percorso dalle bande alemanne. Nell’imminenza<br />
dell’arrivo di queste, il panico si era diffuso in tutta la zona, e la povera vedova<br />
risolvette subito di mettersi in salvo sui monti, tanto più in grazia di quegli scudi,<br />
essendo noto che soprattutto quelli che avevano dei soldi erano “esposti insieme<br />
alla violenza degli stranieri e all’insidie dei paesani.” E’ vero che di quei soldi<br />
nessuno sapeva niente all’infuori di don Abbondio, dal quale la buona donna era<br />
andata, ogni tanto, a spicciolarne uno, lasciandogli sempre qualcosa per i meno<br />
abbienti; ma, <strong>com</strong>e osserva acutamente il Manzoni, “i danari nascosti tengono il<br />
possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui.”<br />
Orbene Agnese pensò innanzi tutto agli scudi, che si cucì ben bene all’interno<br />
del busto, quindi si mise a nascondere alla meglio ciò che non poteva portare con<br />
sé, sempre col pensiero al piccolo tesoro che aveva indosso. A un tratto si ricordò<br />
di chi glieli aveva donati, il quale le aveva in quella occasione fatto dire, dal<br />
Cardinale, di poter far conto su di lui per qualunque necessità, e le venne subito in<br />
mente che il castello di quel signore sarebbe stato il più sicuro rifugio contro ogni<br />
violenza e ogni insidia. Avendo deciso di andarci, e pensando al modo di farsi<br />
riconoscere dal padrone del castello, concluse che la cosa migliore era parlarne al<br />
curato, proponendogli di andare insieme lassù, dove sarebbero stati certamente<br />
bene accolti. Presa la decisione, si mise in spalla una gerletta con biancheria e un<br />
po’ di cibarie, e si avviò alla canonica per fare la sua proposta.<br />
Don Abbondio, alle terribili notizie che circolavano sui lanzi, aveva<br />
letteralmente perduta la testa. “Chi non ha visto don Abbondio” in quel giorno,<br />
afferma con umorismo l’Autore, “non sa bene cosa sia impiccio e spavento.”<br />
Risolvette subito di fuggire, “prima di tutti e più di tutti”, ma sospettoso e pauroso<br />
<strong>com</strong>’era, in ogni strada da prendere, in ogni rifugio da raggiungere, trovava<br />
difficoltà e pericoli formidabili. Pensava a un ricovero che gli ispirasse fiducia;<br />
ma quale? Andare sui monti? ma se i lanzichenecchi ci si arrampicavano <strong>com</strong>e<br />
gatti, poco poco che subodorassero la buona preda! Passare il lago? ma se faceva<br />
paura, tant’era tempestoso! e poi le barche erano ormai partite tutte, stracariche,<br />
col pericolo di affondare. Raggiungere il territorio bergamasco? ma lì<br />
scorrazzavano i “cappelletti”, mandati dalla Serenissima a proteggere il confine; e<br />
quelli erano diavoli in carne e ossa! Non sapendo che partito prendere, voleva<br />
consigliarsi con Perpetua, la quale però non gli dava retta, tutta indaffarata<br />
<strong>com</strong>’era a nascondere la roba più di valore; la poveretta, turbata e scalmanata per<br />
la fatica, era in quella circostanza meno trattabile del solito, e se il padrone<br />
cercava di trattenerla, gli dava sulla voce <strong>com</strong>e a un ragazzino. Il curato allora,<br />
175
non ottenendo udienza neppure presso Perpetua, si affacciava alla finestra e si<br />
rivolgeva alla gente che passava, curva sotto il peso delle povere masserizie,<br />
implorando “con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero” che gli<br />
trovassero qualche cavalcatura, che lo aspettassero almeno, per fargli da scorta;<br />
ma vedendo che coloro o non gli davano nemmeno ascolto o gli rispondevano che<br />
s’ingegnasse <strong>com</strong>e gli altri, borbottava contro l’egoismo dei parrocchiani: “Oh<br />
che gente! che cuori! non c’è carità: ognun pensa a sé; e a me nessuno vuol<br />
pensare”. Non capiva il nostro curato, il quale non si peritava di tacciare gli altri<br />
di egoismo, che l’egoista era proprio lui, che voleva gli altri al suo servizio,<br />
mentre avrebbe dovuto lui prodigarsi per i suoi parrocchiani, e soprattutto pensare<br />
alla chiesa. A questo riguardo rabbrividiamo nel sentire le sue ciniche parole: “Al<br />
popolo tocca custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di cuore per la loro<br />
chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.” Vogliamo credere<br />
almeno che avrà pensato a togliere dal ciborio il Sacramento, per salvarlo dalla<br />
sicura profanazione dei protestanti, che si accanivano soprattutto contro<br />
l’Eucarestia; ma l’Autore nulla dice in proposito, e noi dobbiamo purtroppo<br />
dubitarne, conoscendo il suo zelo sacerdotale. Se si dimenticò del Sacramento,<br />
non si dimenticò certamente del suo tesoro, che prelevò dallo scrigno e consegnò<br />
alla serva perché lo seppellisse nell’orto.<br />
Quand’ebbe <strong>com</strong>piuto quest’ultimo e più importante occultamento, Perpetua<br />
preparò una gerla con dentro un po’ di viveri e della biancheria per sé e per il<br />
padrone; quindi, con tono risoluto, disse al curato che andasse a prendere il<br />
breviario, il cappello e il bastone, per mettersi subito in strada. Don Abbondio<br />
sembrava proprio intontito, non avendo ancora deciso dove andare, e ci volle tutta<br />
l’autorità della donna per farlo muovere. Finalmente anche lui fu pronto, ma<br />
proprio mentre si accingevano a lasciare la canonica, ecco arrivare Agnese, la<br />
quale fece subito la sua proposta di rifugiarsi al castello, che Perpetua accolse con<br />
entusiasmo, <strong>com</strong>e una vera ispirazione del Signore, mentre il padrone non ne era<br />
troppo convinto. Prima chiese se era convertito davvero; non ostante tutto quello<br />
che ha visto e sentito lui stesso, egli nutre ancora dei sospetti: chi sa – pensava<br />
forse tra sé – la sua conversione potrebbe essere stato un fuoco di paglia. Poi,<br />
rassicurato da Agnese nei riguardi della conversione, obiettò che, andando lassù,<br />
rischiavano di mettersi in gabbia, di esser cioè assediati dagli alemanni, e forse<br />
anche dai cappelletti, bramosi di metter le mani su una preda tanto allettante. Ma<br />
Perpetua gli rimproverò questo suo continuo sospettare, dicendo che non era<br />
capace d’altro che d’impicciare e ostacolare ogni cosa con le sue sciocche<br />
obiezioni, con i suoi ragionamenti inconcludenti. Si decise dunque di mettersi la<br />
strada tra le gambe alla volta del castello; ma don Abbondio pretendeva ora che<br />
trovassero qualcuno per servirgli di scorta; il che fece perdere la pazienza alla<br />
serva, la quale gli dette ancora sulla voce, dimostrandogli quanto fosse assurda la<br />
sua pretesa, che intanto faceva loro perdere del tempo prezioso.<br />
Messisi finalmente in cammino, il curato se ne stette per un buon tratto zitto e<br />
mogio, guardandosi intorno con sospetto, nel timore di qualche brutto incontro.<br />
Ma a mano a mano che s’allontanavano dalla zona pericolosa, essendo scemata<br />
176
quella gran paura, si fece in lui sentire più forte la stizza contro tutti e contro tutto.<br />
Cominciò dunque a brontolare contro il Duca di Nevers “che avrebbe potuto stare<br />
in Francia a godersela”, contro l’Imperatore “che avrebbe dovuto aver giudizio<br />
per gli altri, lasciar correre l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli”, e<br />
soprattutto contro il Cordova “a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani<br />
i flagelli dal paese”, e invece lui stesso ce li attirava, per il gusto matto di fare la<br />
guerra. Ma Perpetua gli fece osservare che erano ciarle oziose e inconcludenti;<br />
piuttosto lei si rammaricava di aver dimenticato di nascondere la tal cosa, di aver<br />
occultato male la tal altra… Allora il padrone, “ormai sicuro della vita, quanto<br />
bastava per poter angustiarsi della roba”, <strong>com</strong>inciò a inveire contro di lei,<br />
chiedendogli ironicamente dove avesse avuto la testa, per dimenticarsi di quelle<br />
cose; la serva però, non sopportando tanta sicumera, si fermò “mettendo i pugni<br />
sui fianchi”, con un atteggiamento aggressivo, e ritorse violentemente il<br />
rimprovero su di lui, perché, semmai, era stato lui che gliel’aveva fatta perdere la<br />
testa, con le sue ubbie e ciarle insulse, mentre invece avrebbe potuto aiutarla e<br />
farle coraggio, invece di disanimarla con le sue paure irragionevoli. Dopo un tale<br />
sfogo della donna, don Abbondio si guardò bene dal tornare su quell’argomento,<br />
in cui era sicuramente perdente.<br />
Giunti in prossimità del paese del sarto, decisero di fermarsi un momento per<br />
salutarlo, tanto ormai erano fuori pericolo; e ricevettero un’accoglienza molto<br />
cordiale, poiché “rammentavano una buona azione.” A questo proposito il<br />
Manzoni riporta, attribuendola all’anonimo, una massima che vale la pena riferire:<br />
“fate del bene a quanti più potete; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar dei visi<br />
che vi mettano allegria”. Sic<strong>com</strong>e era l’ora di pranzo, i viaggiatori furono invitati<br />
a mangiare un boccone; ma le donne dissero che avevano portato qualcosa, e non<br />
volevano recar disturbo; ma per restare un po’ in <strong>com</strong>pagnia, si decise<br />
“d’accozzare il pentolino”, cioè di riunire le cibarie e di magiare tutti insieme. Il<br />
sarto si diede da fare per onorare gli ospiti: mandò una bambina a “diricciar<br />
quattro castagne primaticce”, un ragazzo a cogliere le pesche e un altro a trovar<br />
sull’albero quattro fichi maturi, mentre lui andò in cantina a spillare, per<br />
l’occasione, il suo vino migliore. Abbiamo già rilevato, nel riassunto del capitolo<br />
XXIV, la svista dell’Autore circa i tre figli del sarto: là, due bambinette e un<br />
fanciullo; qua, una bambina e due ragazzi. Potremmo ora aggiungere che il<br />
divario esiste anche nei riguardi dell’età, perché bambinetta non è propriamente<br />
bambina, e fanciullo non corrisponde a ragazzo; è pur vero che è passato un anno,<br />
dal primo incontro, ma mi sembra che questi benedetti figlioli siano cresciuti un<br />
po’ troppo in fretta. Torniamo però a ripetere che queste sviste non tolgono nulla<br />
al valore artistico e poetico del romanzo, sono anzi, per così dire, delle piacevoli<br />
novità: infatti anche i nei possono donare a un bel viso di donna, purché non siano<br />
posticci, ma naturali; e a nessuno è finora passato per la mente il sospetto che don<br />
Lisander abbia volutamente <strong>com</strong>messo il pasticcio, per vedere quando gli<br />
onorevoli critici se ne sarebbero accorti. A quanto mi risulta, essi si sono accorti<br />
della svista piuttosto tardi, <strong>com</strong>unque dopo la morte dell’Autore, il quale pertanto,<br />
177
stando a quest’azzardata ipotesi, potrà aver sorriso della miopia degli occhiuti<br />
revisori, che non avevano saputo trovare il proverbiale pelo nell’uovo.<br />
Quando don Abbondio disse dov’erano diretti, il sarto approvò la decisione,<br />
affermando che lassù potevano considerarsi “sicuri <strong>com</strong>e in chiesa”; ma il nostro<br />
curato nutriva ancora dei dubbi sulle disposizioni di quel signore, e <strong>com</strong>e<br />
l’apostolo Tommaso cercava una conferma definitiva e autorevole; perciò uscì in<br />
un’esclamazione: ”Gran bella conversione! e si mantiene, n’è vero? si mantiene.”<br />
A quanto pare, per don Abbondio risultava quasi strano che quel tale si<br />
mantenesse sulla buona strada. Per fortuna il buon sarto, certamente ben<br />
informato, poté dissipare tutte le sue residue apprensioni, parlando<br />
magnificamente e “alla distesa della santa vita dell’Innominato, e <strong>com</strong>e,<br />
dall’essere il flagello dei contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.”<br />
C’era però un’altra cosa che tormentava il vile prete: lui, il signore, poteva anche<br />
essere un santo; ma i suoi giannizzeri? non si sa mai, essi gli avrebbero potuto fare<br />
qualche brutto tiro, magari per vendicarsi della conversione del loro padrone, a<br />
loro certo non gradita, tanto più che lo avrebbero riconosciuto, e potevano<br />
avercela con lui! Perciò, per scoprire paese, chiese con aria d’indifferenza, ma con<br />
interna ansietà: “E quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?...”<br />
Anche per questo dubbio la risposta del sarto fu molto rassicurante: “Sfrattati la<br />
più parte; e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma <strong>com</strong>e! In somma è<br />
diventato quel castello una Tebaide”. La citazione della Tebaide non era fatta a<br />
caso; il nostro letterato voleva con essa ricordare all’ecclesiastico che lui aveva<br />
letto il Leggendario dei santi; e anzi si offrì di prestargli qualche libro per passare<br />
meglio il tempo lassù al castello, ma don Abbondio declinò l’offerta, dicendo che<br />
in simili circostanze” si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto.”<br />
Il bravo sarto fece poi vedere agli ospiti un ritratto del Cardinale, che teneva<br />
appeso a un battente della porta sia per ricordo del personaggio sia per poter dire<br />
ai visitatori che però non era somigliante, perché lui lo aveva visto con tutto<br />
<strong>com</strong>odo in quella stessa stanza, dove si era degnato una volta di entrare. Questo<br />
egli ripeteva a tutti con giusto vanto; peccato che in quella storica occasione non<br />
aveva avuto tempo di immortalarsi con qualche bella frase! Di questo si<br />
rammaricava profondamente, e chi sa che cosa avrebbe dato perché gli si offrisse<br />
un’altra occasione d’incontrarsi con un uomo così eminente! anche agli ospiti<br />
espresse questo suo desiderio: “Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra<br />
volta, un po’ più con <strong>com</strong>odo.” Questo soprattutto avrebbe voluto: un po’ più di<br />
tempo, per fare la sua figura; la fretta guasta tutto.<br />
Il buon uomo si adoperò quindi per trovare un baroccio, affinché il parroco e<br />
le donne potessero <strong>com</strong>piere con maggiore <strong>com</strong>odità la strada che ancora<br />
rimaneva per giungere alla meta; procurato il mezzo, aiutò a salirvi gli ospiti, i<br />
quali si congedarono con la promessa di fare lì un’altra fermatina al loro ritorno<br />
dal castello.<br />
Il Manzoni nell’ultima parte del capitolo si dilunga a parlare della nuova vita<br />
dell’Innominato, tutta spesa a “<strong>com</strong>pensar danni, chieder pace, soccorrer poveri”.<br />
Pur essendo divenuto inerme e inoffensivo, esponendosi volutamente a qualsiasi<br />
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offesa, “era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua<br />
sicurezza, tante braccia e il suo.” La gente, che tanto lo aveva temuto e magari<br />
odiato, ora lo ammirava e quasi venerava, sicché lui doveva cercare di “non<br />
abbassarsi troppo, per non essere troppo esaltato”. Anche la forza pubblica non<br />
osò levare le mani contro uno che spontaneamente si era disarmato, che aveva lui<br />
stesso condannato con orrore il proprio passato di violenza, cercando di riparare<br />
con ogni mezzo al male <strong>com</strong>piuto: infierire ora contro di lui sarebbe parsa una<br />
viltà, e anche un’offesa all’opinione pubblica e soprattutto al cardinale Borromeo,<br />
che tanta parte aveva avuto nel mutamento di quella vita, da rovinosa in benefica.<br />
<strong>“I</strong> rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si<br />
dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà… Gli odi, anche i più rozzi e<br />
rabbiosi, si sentivano <strong>com</strong>e legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica<br />
per l’uomo penitente.”<br />
Anche tra i suoi accoliti, sottoposti e <strong>com</strong>plici di ogni grado, la conversione<br />
dell’Innominato aveva prodotto stizza e disagio, ma non odio né disprezzo: essi<br />
pensavano che egli “aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragione di<br />
lagnarsene”. Costoro se la prendevano piuttosto col Cardinale, al punto da sentire<br />
un sordo rancore contro di lui, perché “s’era mischiato nei loro affari, per<br />
guastarli”. Dei bravi, quelli che non s’erano potuti adattare alla nuova vita, se<br />
n’erano andati a cercare un nuovo padrone o ad arrolarsi in qualche esercito<br />
belligerante o anche a fare il bandito di strada, da solo oppure con altri. Di quelli<br />
rimasti, “i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella<br />
prima età”, gli altri erano diventati servitori, ma venivano considerati dal padrone<br />
quasi <strong>com</strong>e fratelli; tutti poi, “quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro<br />
padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e<br />
rispettati.”<br />
Allorché, alla calata dei lanzichenecchi, alcuni profughi vennero al suo<br />
castello a chiedere asilo, il signore li accolse “con espressioni piuttosto di<br />
riconoscenza che di cortesia”; e pensando che in quella triste circostanza poteva<br />
fare del bene a parecchi, fece spargere la voce che il castello era aperto per<br />
chiunque vi si volesse rifugiare, e si mise subito all’opera per renderlo adatto a<br />
ospitare il maggior numero possibile di fuggiaschi. Le ampie sale divennero<br />
dormitori, mentre i magazzini del pian terreno furono trasformati in cucine e<br />
depositi per le masserizie dei profughi. E affinché i soldati non osassero venir<br />
lassù a molestare i ricoverati, mise il castello in assetto di guerra, organizzandone<br />
la difesa nel modo più efficace. Allo scopo riarmò i servitori, mobilitò i suoi<br />
contadini, assegnando loro le armi, che giacevano ormai accantonate in soffitta;<br />
stabilì turni di guardia nei punti più importanti e della valle e del castello,<br />
sorvegliando personalmente che tutto fosse eseguito con diligenza e con<br />
disciplina. Per non far mancare il cibo a tanta gente, di cui una buona parte non<br />
sarebbe stata in grado di provvedersene, accumulò nel castello notevoli scorte di<br />
viveri, spendendo senza risparmio “per ispesar gli ospiti che Dio gli manderebbe”.<br />
In mezzo a quella guarnigione di armati, assoggettatisi spontaneamente a una<br />
disciplina quasi militare, egli solo, capitano indiscusso e venerato del minuscolo<br />
179
esercito, volle restare sempre disarmato, “fosse voto, fosse proposito”. I poveri<br />
fuggitivi, che giungevano in gran numero al castello, “o lo avessero già visto, o lo<br />
vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i<br />
guai e i timori che li avevano spinti lassù.”<br />
180
CAPITOLO XXX<br />
I nostri fuggiaschi, ripartiti dal paese del sarto in baroccio, <strong>com</strong>inciarono ben<br />
presto a incontrare <strong>com</strong>pagni di sventura, anch’essi diretti al castello. <strong>“I</strong>n<br />
circostanze simili, tutti quelli che s’incontrano, è <strong>com</strong>e se si conoscessero”.<br />
Perciò, nell’affiatamento creato dalla <strong>com</strong>une sventura, le donne sentirono <strong>com</strong>e<br />
un sollievo; e ricevendo le ultime notizie sull’avanzata dei lanzi, seppero pure che,<br />
dall’imboccatura opposta della valle, era anche maggiore la folla dei profughi<br />
diretti al castello. Sentir questo fece piacere ad Agnese e Perpetua, perché esse<br />
pensavano che “nei pericoli, è meglio essere in molti”; ma non era affatto dello<br />
stesso parere don Abbondio, il quale <strong>com</strong>inciò a borbottar sottovoce che il<br />
radunarsi di tanta gente in uno stesso luogo, vi avrebbe attirato certamente i<br />
soldati, i quali crederebbero che lì magari ci siano dei tesori; tanto più che tutti<br />
portavano via il meglio, e nelle case non rimaneva niente di valore, che potesse<br />
soddisfare l’avidità dei predatori. Egli avrebbe quasi preteso che la gente lasciasse<br />
le case ben guarnite di roba, perché i saccheggiatori fossero contenti del bottino e<br />
non corressero dietro ai fuggitivi; nel suo inqualificabile egoismo giunse perfino<br />
a chiamare quei poveri sventurati, che facevano la loro stessa strada, col nome di<br />
seccatori, di pecoroni che vanno l’uno dietro l’altro senza discernimento e senza<br />
ragione. Ma Agnese lo rimbeccò prontamente: “a questo modo, anche loro<br />
potrebbero dir lo stesso di noi;” osservazione molto giusta, alla quale lui non poté<br />
replicare nulla, per cui dovette tacere su quell’argomento. Ma tacque per poco. Il<br />
suo disappunto per quella folla di profughi si mutò in disgusto, in disagio<br />
insopportabile allorquando, all’imboccatura della famigerata valle, notò un forte<br />
posto di guardia, una vera guarnigione armata di tutto punto e arroccata in una<br />
casa, <strong>com</strong>e in una caserma. Pieno di sbigottimento davanti a quella messa in scena<br />
militaresca, pensò tra sé: “Ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere<br />
altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa<br />
vuol fare? vuol fare la guerra? vuol fare il re, lui?<br />
Le donne invece a quella vista si erano rinfrancate, e Perpetua aveva<br />
esclamato tutta <strong>com</strong>piaciuta: “Vede ora, signor padrone, se c’è della brava gente<br />
qui, che ci saprà difendere”. Ma don Abbondio l’aveva zittita irosamente, anche<br />
se sottovoce, dicendo che quello era uno sfidare, un provocare i lanzichenecchi i<br />
quali, se per caso – Dio non voglia! – arrivavano a saperlo, sarebbero certamente<br />
venuti al castello, perché per loro andare ad assalire una fortezza era “<strong>com</strong>e<br />
andare a nozze”, tanto più con la prospettiva di fare lì un ricco bottino. Alla<br />
Malanotte, dove era postato un altro picchetto di soldati, il baroccio si fermò per<br />
farli scendere; e di lì proseguirono a piedi la salita. Agnese mirava attonita quei<br />
posti selvaggi, che si era finora raffigurati con la fantasia, ogni volta che pensava<br />
alle sofferenze di Lucia durante il suo rapimento; ora poi, vedendoli nella realtà,<br />
ne provava una forte <strong>com</strong>mozione, e a un certo punto esclamò: “Oh signor curato!<br />
a pensare che la mia Lucia è passata per questa strada!” Ma don Abbondio aveva<br />
181
imposto anche a lei di tacere, dicendo che non bisognava toccare quelle memorie,<br />
ora che erano entro il dominio di quel signore; e con tono solenne d’ammonizione<br />
per tutte e due aggiunse che ai signori, anche se sono reputati santi, non si può<br />
dire senza riguardo tutto ciò che passa per la testa; che lì dovevano parlar poco o<br />
niente, perché tacendo non si sbaglia mai, e soprattutto “far sempre viso ridente, e<br />
approvare tutto quello che si vede”. Quindi ricordò ad Agnese di pensare piuttosto<br />
a ringraziare il signore per il bene che le aveva fatto, con l’invio di tutti quegli<br />
scudi; ma la donna gli rispose che ci aveva già pensato, perché le buone creanze le<br />
conosceva, senza bisogno di essere imboccata.<br />
Poco dopo s’incontrarono con l’Innominato, che stava scendendo a valle per<br />
uno dei suoi normali giri d’ispezione; visti i nuovi ospiti, si avvicinò ad essi<br />
premuroso, e fece la più cordiale accoglienza a don Abbondio. Questi gli disse<br />
che, confidando nella sua gentilezza, aveva osato venire a dargli del fastidio, e si<br />
era anche presa la libertà di condurre la propria governante e la madre di Lucia,<br />
alla quale egli aveva già fatto del bene… Il signore, confuso per quella presenza<br />
inaspettata, replicò: “Del bene, io!... Voi, mi fate del bene, a venir qui… da me…<br />
in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione”. Agnese disse<br />
che veniva a in<strong>com</strong>odarlo e anche a ringraziarlo per il beneficio; ma l’Innominato<br />
troncò le parole di ringraziamento, domandando con premura notizie della<br />
figliola; quindi, tornando indietro, volle lui stesso ac<strong>com</strong>pagnarli al castello, per<br />
provvedere personalmente alla loro sistemazione. Mentre salivano, chiese al<br />
parroco se i lanzichenecchi fossero giunti alla sua parrocchia. Don Abbondio<br />
rispose che non li aveva voluti aspettare, quei diavoli, per i quali accoppare un<br />
prete cattolico sarebbe stato un piacere e un merito. Il signore gli fece coraggio,<br />
dicendo che lì non sarebbero venuti a dar fastidio; ma che, se ci volessero provare,<br />
erano pronti a ricacciarli. Il curato non fece alcun <strong>com</strong>mento, tenendo ben<br />
nascosto il suo malumore per quei propositi guerreschi; quindi, indicando i monti<br />
dirimpetto, chiese se era vero che anche su quelli si aggirassero altri soldati poco<br />
rac<strong>com</strong>andabili, al servizio della Repubblica Veneta. L’Innominato confermò la<br />
notizia, aggiungendo però che il castello era ben guarnito anche contro i loro<br />
eventuali assalti. Immaginate voi <strong>com</strong>e il pavido prete rimanesse allibito di fronte<br />
alla (secondo lui) spavalderia del signore, che sembrava contento di trovarsi tra<br />
due fuochi, per dimostrare la sua potenza; il poveretto invece si rodeva dentro, e<br />
chi sa quanto si pentiva di essersi cacciato in quella situazione pericolosa, sempre<br />
per dar retta a due pettegole; e amaramente <strong>com</strong>mentava tra sé con stizza: “E<br />
costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo!” A<br />
questo punto ci viene spontanea un’osservazione: don Abbondio si scandalizza<br />
degli altri, ha da ridire su tutto e su tutti, <strong>com</strong>e in questo caso sull’Innominato,<br />
mentre l’individuo scandaloso è proprio lui: pauroso, egoista, scontento sempre.<br />
Era scontento di quel gran concorso di profughi al castello; ma si potrebbe<br />
s<strong>com</strong>mettere che gli sarebbe anche dispiaciuto di restare solo, temendo di<br />
rimanere senza aiuto; gli dava ombra e sospetto quell’apprestamento difensivo<br />
organizzato dal premuroso signore che l’ospitava; ma molto probabilmente<br />
avrebbe trovato da ridire anche se il castello fosse stato lasciato sguarnito,<br />
182
temendo di rimanere indifeso in caso di un assalto. Questo eterno brontolone e<br />
incorreggibile egoista, quest’uomo scandalosamente vile e insensibile ai suoi<br />
doveri e alla propria responsabilità, è purtroppo l’esemplare tipico di tanti uomini<br />
anche del mondo di oggi, che non vivono che per sé, sordi agli altrui bisogni,<br />
intolleranti di tutto ciò che minimamente fa ombra alla loro mentalità meschina ed<br />
egoistica.<br />
L’Innominato condusse dunque gli ospiti alle stanze loro assegnate, le donne<br />
nel quartiere loro riservato, don Abbondio in una di quelle camere riservate agli<br />
ecclesiastici. Il signore aveva preparato ogni cosa con diligenza e generosità, in<br />
modo che tutto funzionasse nel modo migliore, e gli ospiti si trovassero a loro<br />
agio; possiamo ben dire che, <strong>com</strong>e nella carestia e successivamente nella peste<br />
rifulse la carità intelligente e fervida di Federigo, così durante la calata dei<br />
lanzichenecchi brillò la carità squisita e premurosa, larga e previggente del grande<br />
convertito. Tutto il castello, <strong>com</strong>e abbiamo accennato, era stato sistemato e<br />
organizzato nel modo più funzionale, affinché potesse accogliere quanta più gente<br />
fosse possibile, dando loro un minimo di <strong>com</strong>odità. Parlando di questa<br />
sistemazione, il Manzoni ci traccia per così dire una pianta del castello: esso era<br />
all’incirca rettangolare, con due cortili interni, uno dalla parte davanti, uno dalla<br />
parte di dietro, <strong>com</strong>unicanti attraverso un andito aperto nel corpo mediano<br />
dell’edificio, proprio in corrispondenza della porta che dava sulla spianata. Le<br />
stanze che si affacciavano sul cortile anteriore e sulla spianata erano state<br />
destinate agli uomini, e di queste alcune riservate ai sacerdoti che fossero capitati<br />
lassù; le camere che davano sul cortile posteriore furono assegnate alle donne,<br />
mentre il corpo di mezzo fu utilizzato per deposito dei viveri e per custodire le<br />
suppellettili che i fuggitivi avessero portato con sé, per salvarle dalla furia<br />
devastatrice dei nuovi vandali.<br />
Poco più di tre settimane rimasero i nostri nel castello; a dir il vero, non ci fu<br />
giorno che non sonasse l’allarme, ma per fortuna non si verificò mai alcun<br />
incidente o scontro vero e proprio. Quando veniva dato l’allarme, perché lanzi o<br />
cappelletti erano stati visti nei dintorni, l’Innominato mandava subito da quella<br />
parte degli esploratori a cavallo, per rendersi conto dell’entità del pericolo; se poi<br />
se ne rivelava il bisogno, partiva lui stesso con un drappello di fanti, che era<br />
tenuto sempre pronto per ogni evenienza; lui disarmato alla testa di un reparto<br />
armato di tutto punto: spettacolo insolito e ammirabile. La causa di questi ripetuti<br />
allarmi erano generalmente dei soldati sbandati, che si erano spinti al saccheggio<br />
dei paesi posti fuori dell’itinerario di marcia; essi, vedendosi venire addosso<br />
quella truppa così marziale e decisa, se la battevano senza fare resistenza. Un<br />
giorno l’intervento dell’Innominato valse a salvare un intero paese, che veniva<br />
saccheggiato da una torma di soldati di vari reparti, allontanatisi dalle bandiere e<br />
riunitisi per dare il sacco ai paesi non abbandonati dagli abitanti, perché piuttosto<br />
lontani dalla direttrice di marcia dell’esercito invasore; i poveri abitanti, colti di<br />
sorpresa, venivano spogliati degli averi ed esposti alla violenza di una soldataglia<br />
avida e licenziosa. Ma per quella volta i loro piani non riuscirono. Per fortuna del<br />
paese, l’Innominato si trovava nelle vicinanze, intento a scacciare alcuni<br />
183
saccheggiatori isolati, “per insegnar loro a non venir più da quelle parti”; appena<br />
ricevuta la pressante invocazione di aiuto, egli agì da prode ed esperto<br />
<strong>com</strong>andante. Dopo aver rincuorato i suoi con poche ma efficaci parole, li<br />
condusse contro quei ribaldi con tanta celerità e impeto, che coloro non pensarono<br />
neppure un momento ad accettare la battaglia, per salvare il loro bottino, ma<br />
fuggirono alla rinfusa, abbandonando ogni cosa. Il signore li inseguì per un lungo<br />
tratto, per togliere loro ogni possibilità e ogni ardire di tornare sulla preda che<br />
avevano dovuto abbandonare sul posto; quindi fermò il suo reparto su un luogo<br />
elevato, donde si assicurò che coloro si allontanassero definitivamente. Quando li<br />
ebbe visti sparire in lontananza, tornò sui suoi passi e, attraversando il paese così<br />
insperabilmente salvato, fu ac<strong>com</strong>pagnato dagli applausi e dalle benedizioni degli<br />
scampati, giusto <strong>com</strong>penso per la sua sollecitudine e per il suo coraggio.<br />
“Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di<br />
condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine<br />
d’importanza”. Questo perché il padrone di casa aveva messo su<br />
un’organizzazione efficiente anche dal punto di vista disciplinare, disponendo<br />
sentinelle nei luoghi più opportuni, e delegando poi gli ecclesiastici e le persone<br />
più autorevoli a invigilare nei vari quartieri, soprattutto per quanto riguardava<br />
l’ordine e la disciplina nei dormitori, nelle cucine e nei magazzini dei viveri, a cui<br />
era preposto personale fidato e responsabile. Lui poi era presente dappertutto, e<br />
non si limitava a <strong>com</strong>andare e a disporre, ma si accertava sempre dell’esecuzione<br />
di ogni suo ordine, correggendo e intervenendo personalmente là dove ce ne fosse<br />
bisogno; il che avveniva di rado. Infatti i suoi dipendenti erano in genere zelanti e<br />
irreprensibili, anche perché sapevano di dover rendere conto a lui di ogni cosa; del<br />
resto non erano più i “bravi” di un tempo, ma uomini nuovi nell’animo, i quali<br />
avevano volontariamente abbracciato gli stessi ideali di onestà e di giustizia del<br />
loro padrone; e questo rendeva ogni cosa più facile nel funzionamento di quel<br />
ricovero.<br />
Nella valle erano sorte locande e osterie; chi aveva denari e buona educazione,<br />
andava a mangiare laggiù, per non pesare troppo sull’ospitalità del signore; chi<br />
invece mancava di moneta o di discrezione, mangiava alla mensa <strong>com</strong>une che<br />
veniva imbandita ogni giorno a spese dell’Innominato: vi si distribuiva pane,<br />
minestra e vino. Alcune tavole poi venivano servite a parte per gli ospiti di<br />
riguardo, tra i quali figuravano i nostri fuggitivi. Agnese e Perpetua però,<br />
dimostrando ancora una volta il loro buon senso e la loro grande discrezione,<br />
avevano insistito per “essere impiegate nei servizi che richiedeva una così grande<br />
ospitalità”; così nel mentre si rendevano utili, avevano anche modo di non<br />
annoiarsi, essendo occupate gran parte della giornata; nel tempo libero<br />
chiacchieravano “con certe amiche che s’eran fatte, o col povero don Abbondio.<br />
Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli faceva<br />
<strong>com</strong>pagnia.”<br />
Fermiamoci un po’ a considerare queste scarne parole: “non aveva nulla da<br />
fare”. Evidentemente l’Innominato non gli aveva dato nessuna in<strong>com</strong>benza<br />
particolare. Lo fece per riguardo, o meglio perché aveva ormai conosciuto la sua<br />
184
nullità? Oh, quanto meschino gli doveva apparire quel prete, dopo aver conosciuto<br />
e ammirato lo spirito apostolico del Cardinale! Se questo fantoccio di sacerdote<br />
avesse avuto un po’ di senso del dovere e anche un po’ di discrezione, che non si<br />
peritava di rac<strong>com</strong>andare alle due donne, si sarebbe adoperato anche lui<br />
attivamente al buon andamento di tutte le operazioni, e soprattutto avrebbe sentito<br />
il dovere di organizzare l’assistenza religiosa tra i ricoverati, i quali chi sa quanto<br />
bisogno avevano del conforto divino, mediante la preghiera, le funzioni religiose e<br />
i sacramenti. Egli invece passava le lunghe ore in <strong>com</strong>pagnia della sua paura, non<br />
preoccupandosi affatto delle condizioni materiali e spirituali di tanti poveri<br />
cristiani. Quando poi era stanco di starsene in panciolle, usciva fuori a girovagare<br />
sulla spianata e lungo i fianchi del maniero, per scoprir qualche anfratto, qualche<br />
nascondiglio sicuro, dove rifugiarsi in caso di un attacco; perché aveva sempre<br />
quella pauraccia di trovarsi in un parapiglia, essendo il castello, a suo parere, tra<br />
due fuochi, da una parte i lanzichenecchi, dall’altra i cappelletti; perciò non osò<br />
mai discendere nella valle, per non avere qualche brutto incontro o con gli uni o<br />
con gli altri.<br />
Le notizie dei passaggi e dei <strong>com</strong>portamenti dei vari reggimenti arrivavano fin<br />
lassù, giorno dopo giorno. Finalmente giunse la notizia che era passata per il<br />
ponte di Lecco anche la retroguardia, <strong>com</strong>andata dal capitano italiano Galasso.<br />
Terminato il pericolo di uno sconfinamento degli imperiali in territorio veneto, fu<br />
ritirato dal confine anche lo squadrone volante dei cappelletti della Serenissima, e<br />
tutto il paese, da una parte e dall’altra, restò libero. La gente <strong>com</strong>inciò a lasciare<br />
l’ospitale rifugio, e Perpetua sollecitava il padrone a non indugiare la partenza,<br />
perché altrimenti i ladri paesani avrebbero <strong>com</strong>pletato l’opera di rapina; ma lui<br />
tenne duro, temendo di potersi incontrare per strada con qualche pericoloso<br />
sbandato: “quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la<br />
vinceva”; e così avvenne che i nostri furono proprio gli ultimi a partire, <strong>com</strong>e<br />
erano stati tra i primi ad arrivare.<br />
L’Innominato mostrò ancora una volta la sua squisita gentilezza, facendo<br />
trovar pronta per loro una carrozza alla Malanotte, dove volle ac<strong>com</strong>pagnarli di<br />
persona. Nel calesse aveva fatto mettere della biancheria per Agnese alla quale, in<br />
disparte, “fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che<br />
troverebbe in casa”. La donna non voleva accettarli, dicendo che ne aveva<br />
addosso ancora di quelli vecchi, ma il signore insistette che prendesse anche i<br />
nuovi, perché ne avrebbe avuto certamente bisogno; quindi con voce accorata le<br />
diede i suoi saluti per la figlia: “Quando vedrete quella vostra buona, povera<br />
Lucia… già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele<br />
adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in<br />
tanta benedizione per lei.”<br />
Durante il viaggio di ritorno a casa fecero una fermatina alla casa del buon<br />
sarto, ma solo per scambiare i saluti e apprendere qualche notizia sul passaggio<br />
delle truppe, avvenuto a non molta distanza da lì; ripartirono dopo la breve sosta,<br />
e poco dopo videro purtroppo coi propri occhi <strong>com</strong>e erano ridotti i campi e le<br />
case. Sulla campagna sembrava che si fosse rovesciata una fitta e violenta<br />
185
grandine, ac<strong>com</strong>pagnata <strong>com</strong>e da un uragano; le case erano ridotte peggio di<br />
stalle; lo spettacolo era desolante: usci sfondati, finestre infrante, masserizie<br />
bruciate o fracassate. L’aria era dappertutto greve e maleodorante; ma da alcune<br />
case, usate <strong>com</strong>e cessi, uscivano zaffate di puzzo insopportabile. “La gente, chi a<br />
buttar fuori porcherie, chi a rac<strong>com</strong>odar le imposte alla meglio, chi in crocchio a<br />
lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli<br />
sportelli, per chieder l’elemosina”. Spettacolo di spaventosa miseria, che stringeva<br />
veramente il cuore; ma purtroppo era solo il presagio delle sofferenze future.<br />
Con queste scene davanti agli occhi, giunsero al paese già preparati e<br />
rassegnati, e trovarono quello che ormai si aspettavano; ma la canonica era stata<br />
presa particolarmente di mira da quegli anticristi; avevano rotto tutto, insozzato<br />
ogni locale, bruciato o reso inservibile ogni mobile. Le pareti erano state istoriate<br />
con caricature di preti, fatte col carbone; e i soldatacci si erano adoperati “a farli<br />
orribili e ridicoli: intento che, per la verità, non poteva andar fallito a tali artisti”.<br />
Non parliamo poi delle figure oscene e dei disegni sacrileghi!<br />
Il padrone e la serva entrarono “senza aiuto di chiavi”, stringendosi il naso con<br />
le dita, non resistendo al tanfo di quella latrina, e badando bene dove posavano i<br />
piedi in mezzo a tanto stomachevole luridume; ma la descrizione dettagliata dello<br />
scempio che trovarono dentro, ce la possiamo risparmiare; basta riportare il<br />
<strong>com</strong>mento istintivo di Perpetua: “Ah porci!”. Da quel porcile dovettero uscir<br />
subito, riparando nell’orto, per non esser soffocati dal lezzo. Ma lì videro la cosa<br />
peggiore, che dette il colpo di grazia al povero don Abbondio: il suo gruzzolo era<br />
stato portato via! Sotto il fico c’era una buca aperta, e del tesoro, messo insieme in<br />
decenni di taccagneria, neppure l’ombra. Figuratevi con che risentimento il<br />
derubato si scagliò contro la serva, accusandola di non aver nascosto bene il<br />
denaro; ma questa non se la tenne, ma contrattaccò con violenza, <strong>com</strong>e al solito,<br />
senza peli sulla lingua, riversando tutta la colpa su di lui, non d’altro capace che<br />
d’impicciare e brontolare e far perdere la testa alla gente che ha da fare. Il curato<br />
dovette dunque tacere e tenersi per sé la sua stizza. Perpetua poi, nei giorni<br />
successivi, “a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di<br />
certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio dei soldati,<br />
erano invece sane e salve in casa di gente del paese”, e voleva assolutamente che<br />
don Abbondio richiedesse il suo. Ma costui era sordo da quell’orecchio, dato che<br />
“la sua roba era in mano di birboni”, cioè di quei tali da cui voleva stare sempre<br />
alla larga. E così cessò anche di lamentarsi di qualche cosa che non trovasse più,<br />
perché, se apriva bocca, la serva pronta lo rimbeccava, dicendo che quella cosa<br />
era in casa della data persona: andasse perciò a richiederla; se non ne aveva il<br />
coraggio, la smettesse almeno di belarne. Il povero curato capì l’antifona, e non<br />
toccò più quest’argomento, per evitare simili risposte, e anche più pepate: la<br />
zitella diventava sempre più acida!<br />
Questo capitolo, col precedente, serve mirabilmente per <strong>com</strong>pletare e rifinire<br />
la figura di don Abbondio, pavido e brontolone, egoista e smidollato; e ne vien<br />
fuori un vero capolavoro di <strong>com</strong>icità e di umorismo, ma anche, da parte del<br />
Manzoni, di pensosa e indulgente analisi delle umane miserie, perché un po’ di<br />
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questo vile prete può essere o è, anche se ci riesce difficile ammetterlo, in<br />
ciascuno di noi.<br />
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CAPITOLO XXXI<br />
Questo capitolo, assieme al successivo, può considerarsi una piccola ma<br />
accurata monografia della peste del 1630 nel Milanese, la quale fu chiamata anche<br />
“la peste del cardinale Federigo Borromeo”, così <strong>com</strong>e la precedente, del 1576,<br />
era stata denominata “la peste di San Carlo”. Il Manzoni a questo proposito<br />
esclama: “tanto è forte la carità!” Essa infatti può, “d’una calamità per tutti, far<br />
per un uomo <strong>com</strong>e un’impresa; nominarla da lui, <strong>com</strong>e una conquista o una<br />
scoperta”. La memoria delle azioni caritative di questi due santi arcivescovi fu più<br />
memorabile dei mali stessi, perché essi li affrontarono con la forza della carità, e<br />
amorevolmente, umilmente si eressero a “guida, soccorso, esempio, vittima<br />
volontaria” a favore di tutti i sofferenti, che solo in loro trovarono un po’ di<br />
conforto.<br />
L’Autore, appassionato <strong>com</strong>’era della ricerca storica, ha voluto darci di quella<br />
peste una relazione il più possibile esatta e <strong>com</strong>pleta, derivandola dalle memorie<br />
del tempo e dai pochi documenti ufficiali. In questi due capitoli prevale<br />
naturalmente il gusto dello storico, <strong>com</strong>e nella precedente descrizione della<br />
carestia; ma con lo storico è presente, quasi in ogni pagina, anche il pensatore e il<br />
cristiano, che guarda con infinita <strong>com</strong>passione alle miserie, alle debolezze e agli<br />
errori umani, che sono da <strong>com</strong>patire più che da condannare, meno che là dove si<br />
constati l’evidente malafede di qualcuno.<br />
Tra le molte cronache contemporanee, tutte più o meno difettose, ma tutte utili<br />
alla storia, appunto perché originali, di prima mano, e quindi fornite sempre di<br />
quella “forza viva, propria e, per dir così, in<strong>com</strong>unicabile”, che deriva dall’aver<br />
visto e sentito, il Manzoni segue soprattutto quella, in latino, di Giuseppe<br />
Ripamonti, e quella, in volgare, del medico Alessandro Tadino, che era appunto<br />
uno dei due medici del tribunale di Sanità, e quindi il più interessato a prevenire e<br />
curare il contagio. L’altro medico della Sanità era Senatore Settala, figlio del<br />
famoso protofisico Lodovico Settala, “allora poco men che ottuagenario”, ma<br />
ancora sulla breccia, il quale aveva visto la peste precedente e “n’era stato uno dei<br />
più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo, dei più riputati curatori.”<br />
La peste dunque, <strong>com</strong>e si era temuto e <strong>com</strong>e il medico Tadino aveva<br />
prospettato al Governatore, era davvero entrata nel Milanese al seguito delle<br />
bande alemanne, e dalla Lombardia “invase e spopolò una buona parte d’Italia”;<br />
ancora una volta si ripeteva per l’infelice penisola il biblico triplice flagello: fame,<br />
guerra e peste. Infatti lungo l’itinerario percorso dall’esercito teutonico erano stati<br />
trovati dei cadaveri nelle case abitate dalla soldataglia, e alcuni anche per le<br />
strade: era <strong>com</strong>e un seminìo di contagio. Poco dopo in quei paesi <strong>com</strong>inciarono a<br />
morire persone isolate, e talora famiglie intere, di mali violenti, strani, con sintomi<br />
sconosciuti, quali lividi e bubboni, con febbri altissime, ac<strong>com</strong>pagnate da delirio<br />
oppure da una specie di letargo. Però quelli che 53 anni avanti avevano visto la<br />
peste di San Carlo, conoscevano bene i segni inconfondibili del terribile morbo, e<br />
188
primo tra tutti il protofisico Lodovico Settàla, già nominato, il quale ritenne suo<br />
dovere, in data 20 ottobre 1629, avvertire il tribunale di Sanità che a Chiuso “era<br />
scoppiato indubitabilmente il contagio”. Ma non fu preso alcun provvedimento;<br />
eppure quella voce era la più autorevole che ci potesse essere, perché il Settàla,<br />
oltre che medico primario (questo significava protofisico), era stato un illustre<br />
docente universitario e aveva <strong>com</strong>posto diversi trattati di medicina, per cui era<br />
considerato un luminare della materia.<br />
Sic<strong>com</strong>e giunsero pochi giorni dopo preoccupanti avvisi di mortalità, con<br />
somiglianti sintomi, da Lecco e da Bellano, la Sanità dovette scuotersi dalla sua<br />
inerzia; ma si limitò a inviare un <strong>com</strong>missario che, facendosi ac<strong>com</strong>pagnare da un<br />
medico di Como, si recasse sul posto a indagare. Purtroppo sia il <strong>com</strong>missario,<br />
ignaro di medicina, sia il medico che lo ac<strong>com</strong>pagnava, non meno ignorante in<br />
materia nonostante la qualifica, si fecero infinocchiare da un barbiere di Bellano,<br />
il quale sosteneva che il decesso con quei sintomi era “effetto consueto<br />
dell’emanazioni autunnali delle paludi” e, dove paludi non ci fossero, “effetto dei<br />
disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli Alemanni”. E questa bella<br />
spiegazione scientifica fu avallata, pare, anche dalla Sanità, che si mise l’animo in<br />
pace e non cercò oltre, per allora.<br />
Ma poiché consimili e peggiori notizie <strong>com</strong>inciarono a piovere anche da altri<br />
paesi più vicini a Milano, la Sanità mandò a indagare in loco due suoi membri, di<br />
cui uno, per fortuna, medico esperto e diligente, e precisamente il già nominato<br />
Alessandro Tadino. Costoro condussero una severa inchiesta nei paesi loro<br />
indicati, e trovarono dappertutto i sinistri e inequivocabili marchi della peste.<br />
Senza aspettare che fosse terminato il loro giro d’ispezione, si affrettarono a<br />
<strong>com</strong>unicare la loro certezza alla Sanità, la quale il 30 ottobre prescrisse una<br />
bolletta sanitaria per tutti quelli che volessero entrare in Milano, al fine di tener<br />
lontani dalla città quanti provenissero dai paesi già invasi dal morbo. Ma per<br />
rendere operante questa deliberazione del tribunale di Sanità, occorreva<br />
un’apposita grida, che fu stesa solo il 23 novembre e pubblicata nientemeno che il<br />
29 di quel mese, cioè 30 giorni precisi dopo la deliberazione della Sanità! Era il<br />
proverbiale chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati: nel frattempo la<br />
peste era già entrata a Milano.<br />
Molto probabilmente questo inspiegabile ritardo nell’emanare la grida fu<br />
dovuto a un personale intervento del Governatore il quale, volendo celebrare<br />
solenni feste per la nascita dell’Infante (feste indette infatti con grida del 18<br />
novembre), non riteneva conveniente allarmare l’opinione pubblica e mettere in<br />
orgasmo la città con quella prescrizione delle bollette, vale a dire dei certificati<br />
medici da esibire da parte di chiunque volesse entrare in Milano; altrimenti la<br />
festa non sarebbe più stata così solenne e generale, senza l’accorrere di spettatori<br />
da tutti i paesi del Ducato! Ma c’è di più per bollare l’insensibilità del nuovo<br />
Governatore, il già nominato marchese Ambrogio Spinola; il 14 novembre il<br />
Tadino e il suo <strong>com</strong>pagno, di ritorno dal giro d’ispezione, ricevettero dal tribunale<br />
di Sanità l’incarico di prospettare al Governatore la gravità della situazione e<br />
l’urgenza dei rimedi. “V’andarono e riportarono: aver lui di tali nuove provato<br />
189
molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser<br />
più pressanti”. E infatti da una parte aveva ripreso l’assedio di Casale, per lavare<br />
l’onta del suo predecessore, dall’altra si preparava a indire feste grandiose e<br />
universali per la felice nascita del principe ereditario di Spagna! Lo Spinola<br />
apparve dunque, in quanto a insensibilità morale e civile, per nulla dissimile dal<br />
Cordova; eppure il nuovo Governatore era italiano di nascita, e ci si sarebbe<br />
aspettata da lui una maggiore premura per le condizioni dei concittadini. Ma,<br />
<strong>com</strong>e ben sappiamo, allora il sentimento nazionale albergava solo nell’animo di<br />
pochi eminenti Italiani; tuttavia, se non carità di patria, da un governatore era<br />
lecito attendersi almeno un po’ di senso di responsabilità della propria carica;<br />
senso di responsabilità che invece dimostrò il Cardinale, per quanto non fosse sua<br />
materia, prescrivendo con lettera pastorale ai parroci “che ammonissero più e più<br />
volte” i fedeli del pericolo del contagio e “dell’obbligo stretto di rivelare ogni<br />
simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette”. Luminoso esempio di<br />
spirito di iniziativa di fronte all’inerzia delle autorità.<br />
In mezzo alle centinaia di migliaia di vittime senza nome, buttate nelle fosse<br />
<strong>com</strong>uni, il Tadino e il Ripamonti vollero tramandare ai posteri il nome di colui<br />
che introdusse la peste a Milano: fu un soldato italiano al servizio degli Spagnoli,<br />
il quale, avendo <strong>com</strong>prato o rubato ai lanzi delle vesti, entrò nella città con un<br />
gran fagotto di detta mercanzia, e andò ad alloggiare presso parenti, nel borgo di<br />
Porta Orientale, proprio vicino al convento dei Cappuccini, al quale il nostro<br />
Renzo aveva bussato quella malaugurata mattina di San Martino. Il soldato<br />
sventurato, e portator di sventure, “appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo<br />
spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in<br />
sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì”. Sic<strong>com</strong>e nell’ospedale<br />
caddero ammalati di peste i due infermieri e il frate che avevano assistito il<br />
poveretto, furono prese le debite precauzioni, che valsero a evitare il propagarsi<br />
del contagio in quel luogo. La Sanità fece inoltre segregare in casa la famiglia che<br />
aveva ospitato il soldato, bruciare il letto in cui aveva dormito e i suoi vestiti. Ma<br />
ciò non valse ad arrestare il contagio, ormai penetrato in città.<br />
Infatti il soldato, prima di andare in quella casa di suoi parenti, aveva<br />
girovagato per Milano, e del virus della peste “ne aveva lasciato di fuori un<br />
seminìo che non tardò a germogliare”. E sic<strong>com</strong>e la Sanità ordinava sequestri in<br />
casa degli ammalati e delle loro famiglie, la distruzione con le fiamme di tutti i<br />
panni e dei letti, con relativi materassi, lenzuola e coperte, oppure il trasferimento<br />
al lazzaretto di tutti i familiari e magari di tutti i coinquilini di coloro che<br />
cadevano ammalati, sorse <strong>com</strong>e una gara accanita a trafugar e a nasconder robe,<br />
una cieca determinazione di non denunciare casi di peste, spesso con la<br />
connivenza interessata dei vigili sanitari o addirittura dei medici, non ancora tutti<br />
convinti del contagio. Anzi quei medici i quali erano convinti che si trattava di<br />
peste, vennero in odio al popolo, soprattutto i due della Sanità, che avevano dato il<br />
primo disperato allarme, e il padre di uno di essi, il già nominato protofisico<br />
Lodovico Settala. Questi un brutto giorno, mentre si recava in bussola a visitare i<br />
suoi ammalati, rischiò di venir linciato: la folla inferocita lo bloccò per strada,<br />
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inveendo con insulti e gridando che lui, e gli altri che la pensavano <strong>com</strong>e lui,<br />
erano nemici della patria, ma che lui era “il capo di coloro che volevano per forza<br />
che ci fosse la peste”, per far cassetta sullo spavento della gente. Niente di più<br />
falso, perché egli curava spesso gratuitamente, ed era sommamente modesto e<br />
benefico; ma non gli valse nulla, perché la folla irragionevole diventava sempre<br />
più minacciosa e rabbiosa; sicché “i portantini, vedendo la mala parata,<br />
ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina”.<br />
Il Manzoni a questo punto osserva che questo trattamento “gli toccò per aver<br />
veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di<br />
persone”; mentre invece aveva incontrato il favore e l’approvazione popolare<br />
qualche tempo prima, quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far<br />
torturare, tanagliare e bruciare, <strong>com</strong>e strega, una povera infelice sventurata”.<br />
Infatti anche l’illustre protofisico seguiva, in certi campi, gli stolti pregiudizi del<br />
suo secolo, tra cui il più rovinoso era quello dell’esistenza delle streghe,<br />
generalmente povere donne malate di nervi o addirittura alienate, che venivano<br />
bruciate vive dopo orrendi supplizi, mentre avrebbero avuto bisogno di amorevoli<br />
cure.<br />
Verso la fine di marzo del 1630 la morbilità, con i ben noti segni, e la<br />
mortalità crebbe a tal punto in tutti i rioni della città, che riusciva invero difficile<br />
non ammettere il contagio; ma chi non voleva che si parlasse di peste, per non<br />
dover riconoscere il proprio errore, trovò la circonlocuzione di febbri maligne,<br />
febbri pestilenti: “miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva<br />
gran danno”, perché non ammetteva quello che era più importante ammettere e far<br />
sapere a tutti, che cioè quella malattia si propagava per contatto o con persone o<br />
con cose infette. Se questo dato importantissimo fosse stato ben chiaro per tutti sin<br />
dal principio del morbo, questo poteva essere circoscritto o <strong>com</strong>battuto<br />
efficacemente.<br />
Avendo la Sanità prescritto che tutti i contagiati vi fossero portati, il lazzaretto<br />
rigurgitava di ammalati; e sebbene la maggioranza di essi morisse in pochi giorni,<br />
tuttavia l’afflusso dei nuovi arrivati era tale, che il numero <strong>com</strong>plessivo dei<br />
ricoverati andò enormemente crescendo, creando gravi problemi di carattere<br />
sanitario, logistico e disciplinare. La Sanità, sotto la cui autorità erano la direzione<br />
e l’amministrazione di quell’immenso noso<strong>com</strong>io, non sapendo <strong>com</strong>e<br />
provvedervi, pensò di affidarlo ai Cappuccini. Furono designati a reggerlo padre<br />
Felice Casati, <strong>com</strong>e direttore, e padre Michele Pozzobonelli, <strong>com</strong>e suo assistente;<br />
poi vi accorsero altri frati a mano a mano che il bisogno crebbe; “e furono in quel<br />
luogo sovrintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardaroba,<br />
lavandai, tutto ciò che occorresse.”<br />
Fu certamente uno strano ripiego affidare un simile ospedale a uomini che,<br />
per la loro formazione e per la stessa finalità dell’Ordine, erano molto lontani da<br />
simili in<strong>com</strong>benze. “Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità<br />
che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder<br />
quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente.” E su questa bravura basta<br />
riportare una sola citazione, quella di Alessandro Tadino, testimone oculare, il<br />
191
quale <strong>com</strong>e medico e membro della Sanità era anche in grado di giudicare<br />
obiettivamente e con cognizione di causa. Egli dunque così afferma (traduciamo<br />
dal suo italiano secentesco-lombardo): “che se questi Padri ivi non si trovavano, al<br />
sicuro tutta la Città annichilita si trovava; poiché fu cosa miracolosa l’aver questi<br />
Padri fatto in così poco spazio di tempo tante cose per beneficio pubblico, che non<br />
avendo avuto aiuto, o almeno poco dalla città, con la sua (=loro) industria e<br />
prudenza avevano mantenuto nel Lazzaretto tante migliaia di poveri”. A detta del<br />
Ripamonti, infatti, i ricoverati in quel noso<strong>com</strong>io furono <strong>com</strong>plessivamente<br />
50.000 nei sette mesi che ne ebbe la direzione il padre Felice.<br />
Ormai più nessuno negava la peste e il contagio; anche perché <strong>com</strong>inciarono<br />
ad ammalarsi e a morire dei cittadini appartenenti alla borghesia e alla nobiltà, e<br />
non più soltanto i popolani, <strong>com</strong>e al principio dell’epidemia. Si ammalarono, tra<br />
gli altri, tutti i familiari e la servitù del protofisico Settala: di tanti scamparono<br />
solo lui e un figliolo. Ma purtroppo, mentre si riconosce la peste, ci si attacca<br />
l’idea che sia propagata con venefizi e malefizi, o addirittura con arti e operazioni<br />
diaboliche. Era questo un terreno fertile di mille ubbìe, in cui la fantasia popolare<br />
era abituata a esercitarsi sin dalla notte dei tempi. Ma purtroppo anche le persone<br />
autorevoli erano vittime di questi fatali pregiudizi. C’era stato anche il fatto che<br />
l’anno prima era giunto da Madrid un dispaccio, firmato personalmente dal Re,<br />
che ordinava di stare all’erta e fare ricerche, perché erano scappati dalla capitale<br />
spagnola “quattro francesi, ricercati <strong>com</strong>e sospetti di spargere unguenti velenosi,<br />
pestiferi”. Questo dispaccio, che era stato <strong>com</strong>unicato anche alle autorità<br />
subalterne, aveva già fatto nascere nella popolazione il “sospetto indeterminato<br />
d’una frode scellerata”: quando poi la peste scoppiò davvero, i più ritennero che<br />
fosse stata provocata con empio divisamento, magari dimenticando di averla<br />
temuta, e forse anche predetta, in occasione della discesa delle truppe imperiali. Il<br />
Manzoni cita due casi di pretese “unzioni” a scopo venefico e pestifero (e “untori”<br />
furono chiamati quei fantomatici agenti nemici che si diceva le andassero<br />
facendo). Il primo si verificò la sera del 17 maggio 1630, nel duomo: ad alcuni<br />
sembrò di vedere degli sconosciuti che andavano ungendo una transenna. La cosa<br />
fu denunciata alla Sanità; e per quanto il presidente di questa, accorso di persona a<br />
ispezionare assieme ad alcuni subalterni, non avesse trovato nulla di sospetto,<br />
tuttavia, più per cautela che per bisogno, sia la transenna che le panche (ad<br />
abundantiam!) furono portate fuori e sottoposte ad accurato lavaggio. “Quel<br />
volume di roba accatastata – osserva giustamente l’Autore – produsse una<br />
grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così<br />
facilmente un argomento”. Il lavaggio, incautamente ordinato, dette credito al<br />
sospetto di unzione, il sospetto si mutò subito, nei più, in certezza; e l’episodio,<br />
passando di bocca in bocca, fu ingrandito in modo, che si disse in giro, <strong>com</strong>e cosa<br />
certa, che nel duomo erano state unte transenne, panche, pareti, e financo le corde<br />
delle campane. Ma il giorno seguente i cittadini che uscirono mattinieri videro un<br />
più orrendo spettacolo: muri e porte “per lunghissimi tratti e in ogni parte della<br />
città” erano imbrattati con una poltiglia giallognola e quasi biancastra, applicata<br />
evidentemente con spugne o pennelli. A quella vista la città fu presa dal panico,<br />
192
ma per fortuna la Sanità non aveva ancora perso la testa. Furono fatti esami,<br />
eseguiti esperimenti su cani: non si trovò che quella sudiceria recasse alcun male;<br />
e in una lettera al Governatore il tribunale di Sanità espresse il parere che<br />
quell’imbrattamento fosse stato atto più di insolenti temerari che di scellerati:<br />
insomma uno scherzo di cattivo genere. Ciò non pertanto la Sanità pubblicò un<br />
bando, con cui si prometteva “premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore<br />
o gli autori del fatto”, senza accennare affatto, <strong>com</strong>e sarebbe stato doveroso, a<br />
“quella ragionevole e acquietante congettura” che giustamente avevano<br />
prospettata al Governatore. Perché? Questo silenzio si può spiegare solo<br />
considerando che alla Sanità faceva, in certo qual modo, <strong>com</strong>odo che la grande<br />
epidemia fosse attribuita a un infame disegno, piuttosto che alla sua incapacità di<br />
prevenirla prima e di isolarla dopo.<br />
E così la fantasia popolare, eccitata più che calmata dalla grida, poté<br />
immaginare che quell’unzione fosse o una vendetta di don Gonzalo, per gli insulti<br />
ricevuti alla sua partenza da Milano, o un espediente di quel diabolico Cardinale<br />
di Richelieu per impadronirsi del Ducato senza colpo ferire. Tuttavia c’era un<br />
certo numero di persone le quali non erano ancora convinte che ci fosse la peste,<br />
che esistesse il contagio, e quindi non vedevano alcuna necessità di precauzioni,<br />
onde evitare il contatto con persone o cose infette. Costoro andavano blaterando<br />
che, se fosse davvero peste, tutti gli ammalati sarebbero morti, mentre era<br />
innegabile che alcuni, anche se pochi, guarivano. ”Per levare ogni dubbio, trovò il<br />
tribunale della Sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare<br />
agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo”. Essendo in quei<br />
giorni morta di peste un’intera famiglia, i cadaveri ignudi, deposti su di un carro,<br />
furono portati al cimitero di San Gregorio in un giorno in cui era là affluito quasi<br />
tutto il popolo, per una <strong>com</strong>memorazione funebre dei morti della peste<br />
precedente, seppelliti appunto in quel camposanto. Era una ricorrenza tradizionale<br />
molto sentita, che richiamava ogni anno una grande affluenza di fedeli. Costoro si<br />
trovarono ad assistere all’imprevisto e macabro spettacolo; così ognuno poté<br />
vedere nei cadaveri “il marchio manifesto della pestilenza”. Si ottenne,<br />
naturalmente, l’effetto voluto, ma in modo inopportuno e brutale: “un grido di<br />
ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro… La peste fu più<br />
creduta… e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.”<br />
Il Manzoni, nella chiusa del capitolo, nota che molte idee, parecchie verità<br />
hanno avuto un destino simile al contrastato riconoscimento della peste di Milano<br />
del 1630: prima negate, poi ammesse a metà, poi ammesse per intero, ma già<br />
storpiate o corrotte da qualche pregiudizio, dovuto a ignoranza o interesse, il quale<br />
rappresentava <strong>com</strong>e una vendetta postuma di quella certa mentalità che non<br />
voleva assolutamente accettarle, ed era stata poi smentita dalla realtà dei fatti. Per<br />
nostra fortuna – osserva l’Autore – non sono molte le verità che hanno<br />
conquistato la loro evidenza e ottenuto credito a un prezzo così caro <strong>com</strong>e la peste<br />
in parola. Come andrebbero meglio le cose per l’umanità se, invece di seguire i<br />
pregiudizi o le apparenze o le dicerie, si ricorresse al “metodo proposto da tanto<br />
tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Se non erro,<br />
193
il Manzoni ci vuole richiamare bonariamente al metodo scientifico, basato<br />
sull’osservazione, sull’esperimento e sul confronto; metodo affermato appunto<br />
nel Seicento, dal Galilei, ma anch’esso riconosciuto tardi, dopo essere costato al<br />
sommo matematico tante sofferenze e innumerevoli guai. Ecco dunque un monito<br />
che dobbiamo accogliere: pensare, prima di parlare, “per non venir sanza<br />
consiglio a l’arco”, 9 <strong>com</strong>e dice Dante. ”Ma parlare – conclude don Lisander con<br />
un sorriso d’arguzia – è talmente più facile di tutte quell’altre cose insieme, che<br />
anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da <strong>com</strong>patire.”<br />
9 Divina Commedia: Purg. VI v.131<br />
194
CAPITOLO XXXII<br />
Poiché riusciva ormai impossibile provvedere ai bisogni della città con i mezzi<br />
finanziari ordinari, il Consiglio dei Decurioni (una magistratura municipale,<br />
<strong>com</strong>posta di nobili, che durò sino al 1796) il 4 maggio 1630 decise di ricorrere al<br />
governatore Spinola, impegnato nell’assedio di Casale, per ottenere speciali<br />
stanziamenti e provvidenze da parte del Governo. Il 22 di quel mese (un po’ tardi,<br />
dal giorno in cui era stata presa la decisione) due <strong>com</strong>ponenti di quel consiglio,<br />
all’uopo delegati, si recarono al quartier generale e fecero al Governatore le<br />
seguenti richieste: fosse sospesa la riscossione delle tasse, data la miseria<br />
generale per la paralisi di ogni attività economica; le spese straordinarie per la<br />
peste fossero a carico dell’Erario e non del Municipio, <strong>com</strong>e del resto era stato<br />
stabilito da un decreto di CarloV; si informasse il Re delle miserie della città e del<br />
Ducato, per sollecitarne un intervento finanziario adeguato; “dispensasse da nuovi<br />
alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati”. Lo Spinola per risposta<br />
diede delle belle parole, facendo delle promesse molto vaghe. Il Gran Cancelliere<br />
Ferrér allora gli scrisse, per <strong>com</strong>unicargli lo sconforto dei decurioni e di tutta la<br />
città in seguito ai risultati deludenti dell’ambasceria, ma lo Spinola non fece nulla<br />
di concreto; anzi, per non essere più seccato da quelle questioni, per lui del tutto<br />
marginali, trasferì addirittura la sua autorità al Ferrèr medesimo, lavandosene così<br />
le mani, onde dedicarsi <strong>com</strong>pletamente alla guerra. Questa poi, dopo aver portato<br />
nel Milanese la peste (che uccise un milione di persone, a dir poco), “dopo aver<br />
desolati i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il<br />
sacco atroce di Mantova; finì col riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il<br />
quale la guerra era stata intrapresa.” Solo che il Nevers dovette cedere una piccola<br />
porzione di territorio all’altro pretendente, Ferrante duca di Guastalla, e un pezzo<br />
di Monferrato al duca di Savoia, il quale a sua volta cedette Pinerolo ai Francesi;<br />
<strong>com</strong>pensi diretti per la Spagna non ce ne furono, e praticamente si ebbe una<br />
diminuzione del suo prestigio in Italia.<br />
Il Consiglio dei Decurioni aveva anche deciso di chiedere al Cardinale di<br />
autorizzare una processione solenne col corpo di San Carlo, per ottenere<br />
l’intercessione del Santo a favore dell’infelice città. Federigo rifiutò per molte<br />
buone ragioni: innanzi tutto non approvava quella cieca fiducia, espressa nella<br />
richiesta, che il morbo dovesse cessare con la processione; era poi sicuro che, se la<br />
grazia non si fosse ottenuta (<strong>com</strong>e poteva essere, perché Dio concede o non le<br />
grazie, secondo i suoi imperscrutabili disegni), i fanatici, cioè quelli che se ne<br />
ritenevano sicuri, si sarebbero scandalizzati, e anche il popolo fedele ne sarebbe<br />
rimasto turbato; infine era preoccupato per eventuali unzioni: infatti se gli untori<br />
esistevano davvero, nella processione avrebbero avuto agio di attuare i loro<br />
scellerati disegni, e <strong>com</strong>unque “il radunarsi tanta gente non poteva che spander<br />
sempre più il contagio: pericolo ben più reale.”<br />
195
Il Cardinale mostrava personalmente di credere più al pericolo reale del<br />
contagio che a quello eventuale degli untori; ma sta il fatto che il sospetto delle<br />
unzioni non solo si era ridestato col crescere della mortalità, ma si era anche<br />
generalizzato. Ormai i più credevano che, se quelle prime unzioni, di cui abbiamo<br />
riferito, non avevano avuto effetti catastrofici, era perché erano stati tentativi di<br />
novizi; ma ora, si diceva, l’arte venefica si era perfezionata, ed era capace di<br />
produrre una polvere sottilissima e invisibile, che si attaccava ai panni e alle<br />
calzature di chi camminava per le strade anche con la massima circospezione. Il<br />
Manzoni riporta, dal Ripamonti, due episodi, per dimostrare <strong>com</strong>e ormai il<br />
sospetto di veder ovunque untori aveva veramente stravolto le menti. Nella chiesa<br />
di Sant’Antonio, durante una solenne cerimonia religiosa, un vecchio<br />
ultraottantenne, prima di sedersi, aveva avuto l’infausta idea di spolverare la<br />
panca col lembo del mantello: bastò questo gesto, abbastanza abituale, per far<br />
travedere alcune donne che erano lì vicino, le quali subito gridarono: “dalli<br />
all’untore!” I presenti, eccitati da quelle grida spiritate, piombano sul malcapitato,<br />
lo trascinano fuori a pugni e a calci e infine, mezzo morto, lo consegnano al<br />
giudice per la tortura, perché confessi il suo delitto sotto i tratti di corda; ma per<br />
fortuna la morte lo liberò prima che fosse sottoposto al supplizio. Il secondo caso,<br />
che avvenne proprio il giorno dopo, non ebbe, fortunatamente, un epilogo così<br />
deplorevole. Già abbiamo detto che, e per la guerra in corso e per la<br />
<strong>com</strong>unicazione giunta da Madrid, i Francesi erano particolarmente sospettati del<br />
veneficio. Orbene tre giovani francesi, ben riconoscibili alla foggia del vestire,<br />
stavano <strong>com</strong>e turisti osservando “quella gran macchina del duomo”, considerato<br />
allora l’ottava meraviglia del mondo per quanto non fosse ancora <strong>com</strong>e lo<br />
ammiriamo oggi; qualcuno dei passanti si ferma insospettito, altri fanno lo stesso,<br />
e ben presto si forma un crocchio di malintenzionati. Bastò che uno dei tre<br />
toccasse col dito la facciata, per accertarsi che fosse marmo, per scatenare coloro<br />
che stavano lì a osservarli con occhio sospettoso: piombarono loro addosso <strong>com</strong>e<br />
furie e, tempestandoli di percosse, li condussero al Palazzo di Giustizia. Per loro<br />
buona sorte esso era lì vicino, ché altrimenti non ci sarebbero giunti vivi; e per<br />
maggiore fortuna trovarono giudici equanimi che, trovatili innocenti, li<br />
rilasciarono.<br />
Intanto i Decurioni, per nulla disarmati dal rifiuto del Cardinale, insistevano<br />
reiterando la loro richiesta, “che il voto pubblico secondava rumorosamente”.<br />
L’insistenza delle autorità e del popolo fu tale, che Federigo ritenne a un certo<br />
punto che fosse più pericoloso mantenere il rifiuto, che cedere alle pressioni che<br />
gli venivano da ogni parte. Infatti, se la peste durava ancora, avrebbero detto che<br />
egli non aveva voluto farla cessare, permettendo la processione. Non è che egli si<br />
preoccupasse dell’impopolarità, ma temeva il danno per la fede della gente<br />
semplice. Ormai il voto popolare era unanime, ed era giocoforza accontentarlo,<br />
affidandosi alla misericordia di Dio, che volesse per sua bontà concedere la grazia<br />
tanto attesa, anche se non era davvero da cristiani collegare fanaticamente la<br />
concessione di questa grazia all’uso di un mezzo arbitrario, quale quello della<br />
processione. Il tribunale di Sanità si sarebbe dovuto sentire in dovere di proibirla,<br />
196
per il pericolo del contagio; ma esso non fece alcuna obiezione, forse per non<br />
rischiare l’odiosità popolare.<br />
La solenne processione si fece l’11 giugno, e durò dall’alba, quando uscì dal<br />
duomo col corpo di San Carlo, al pomeriggio, allorché vi rientrò dopo aver<br />
percorse tutte le principali vie della città. Il corteo si snodò lentamente, con<br />
grande solennità, partecipandovi, col Cardinale, tutte le autorità e gran parte del<br />
popolo; le vie erano addobbate sfarzosamente, <strong>com</strong>e nelle maggiori solennità e nei<br />
tempi migliori; anche la fede e la pietà dei partecipanti era stata, in gran parte,<br />
viva e sincera.<br />
Ma nei giorni successivi, “mentre appunto regnava quella presuntuosa fiducia,<br />
anzi in molti una fanatica sicurezza” nel miracolo, <strong>com</strong>e se avessero fatto un<br />
contratto con Dio, la mortalità crebbe “con un salto così subitaneo, che non ci fu<br />
chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima”. Si disse<br />
subito che, mescolati alla folla dei fedeli, gli untori avevano avuto agio di<br />
spargere le loro polveri finissime e invisibili, sì da infettare e contaminare gran<br />
parte dei partecipanti, tanto più che molti, per penitenza, andavano quel giorno a<br />
piedi nudi. I ricoverati nel lazzaretto salirono in poco tempo da 2.000 a 16.000; la<br />
mortalità giornaliera da 500 a oltre 3.500; la popolazione di Milano, che era prima<br />
della peste di 250.000 abitanti, fu alla fine ridotta a 64.000 anime.<br />
Ormai riusciva sempre più difficile trovare il personale occorrente per il<br />
lazzaretto e per sgomberare le vie e le case dai morti e dagli ammalati;<br />
scarseggiavano anche le medicine, i viveri e i medici. Il personale subalterno della<br />
Sanità era formato da monatti e apparitori: gli uni erano addetti ai servizi più umili<br />
e faticosi, <strong>com</strong>e trasportare o seppellire cadaveri, condurre al lazzaretto gli<br />
ammalati, accudire ai bisogni dei ricoverati; gli altri, <strong>com</strong>e fa capire la parola,<br />
dovevano precedere i carri, che andavano raccogliendo i morti o gli ammalati,<br />
sonando il campanello per avvertimento, affinché i passanti si ritirassero, onde<br />
evitare il contagio, e quelli che avevano in casa dei morti o dei malati<br />
approfittassero del passaggio del carro per il trasporto dei loro cari al cimitero o al<br />
lazzaretto. Sugli uni e sugli altri vigilavano i <strong>com</strong>missari, che erano agli ordini<br />
diretti della Sanità. Ma scarseggiando soprattutto i monatti, e per riempire i vuoti<br />
provocati anche tra essi dalla mortalità e per l’accresciuto bisogno, veniva arrolata<br />
gente della peggiore risma, allettata non tanto dai salari quanto dalla rapina e dalla<br />
licenza. I monatti dunque erano ormai divenuti arbitri della situazione, i veri<br />
padroni di Milano: entravano liberamente nelle case, taglieggiavano i sani con<br />
minacce e violenze, si rifiutavano di portar via i cadaveri, magari già in<br />
putrefazione, se non a un certo prezzo, si facevano pagare profumatamente per<br />
consentire che i malati venissero curati in casa, contro il regolamento; alcuni<br />
rubavano a man salva, altri sfogavano la loro libidine sulle donne indifese. “Si<br />
disse, e l’afferma anche il Tadino, che monatti e apparitori lasciassero cadere<br />
apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta<br />
per essi un’entrata, un regno, una festa”. E se gli sventurati cittadini, per<br />
difendersi dalle angherie dei monatti, ricorrevano ai birri, cadevano, <strong>com</strong>e si dice,<br />
dalla padella nella brace, perché anche costoro erano in gran parte nuovi assunti,<br />
197
al posto di quelli portati via dal contagio, e avevano indossato la divisa più che<br />
altro per avidità di guadagno: gente equivoca o di peggiore specie, che<br />
approfittavano della loro autorità per entrare nelle case e farne di tutti i colori, in<br />
<strong>com</strong>butta con i monatti e con gli altri elementi della malavita.<br />
Assieme all’aumento della perversità umana si verificò, per grazia di Dio,<br />
anche una sublimazione della virtù in genere e della carità in specie, soprattutto da<br />
parte degli ecclesiastici, stimolati ed esaltati dall’esempio trascinatore del loro<br />
Arcivescovo, il quale così scriveva in una lettera di esortazione ai parroci: “siate<br />
disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa<br />
figliolanza vostra: andate con amore incontro alla peste, <strong>com</strong>e a un premio, <strong>com</strong>e<br />
a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo”. E non erano belle<br />
parole, ma quello che lui faceva ogni giorno, con semplicità e dedizione mirabile.<br />
Pregato insistentemente, da autorità, parenti e finanche principi circonvicini, di<br />
lasciare Milano, per ritirarsi in qualche villa di campagna, finché la furia della<br />
peste non fosse esaurita, non diede affatto ascolto a queste voci codarde, che lo<br />
invitavano, per così dire, alla diserzione di fronte al pericolo; anzi si cacciò più<br />
animosamente in mezzo alla peste, incurante del contagio, per visitare ogni giorno<br />
malati e sequestrati, per portare a tutti aiuto materiale e conforto morale, in<br />
<strong>com</strong>unione spirituale con i sofferenti. Percorreva ogni giorno le strade della città,<br />
entrando in tutte le case dove si patisse, vigilando, ammonendo, lodando,<br />
esortando, piangendo col suo popolo; sicché restò “meravigliato anche lui alla<br />
fine, d’esserne uscito illeso”. La carità operosa del Cardinale, dei sacerdoti e dei<br />
cappuccini del lazzaretto valse a evitare che il disastro assumesse le proporzioni di<br />
una catastrofe. A un certo punto mancarono gli uomini per raccogliere i cadaveri<br />
nelle strade e nelle case; non c’erano neppure le fosse per seppellirli. Non sapendo<br />
più <strong>com</strong>e rimediare, “il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le<br />
lagrime agli occhi, a quei due bravi frati” preposti al lazzaretto; e padre Michele<br />
s’impegnò di sgombrargli, in quattro giorni, la città dai cadaveri, e in otto di<br />
preparargli fosse sufficienti al bisogno futuro: e mantenne la promessa. Forza<br />
della carità!<br />
Nella città desolata dall’epidemia, assieme con la carità degli uni e la<br />
malvagità degli altri, crebbe anche la pazzia o meglio il delirio collettivo. Il<br />
popolo fantasticava di untori, sui quali correvano di bocca in bocca delle storie,<br />
date per certe, che invece erano frutto di menti stravolte e di animi esagitati, vere<br />
e proprie favole in cui spesso entrava anche il diavolo con tutta la sua corte di<br />
demoni. I dotti blateravano di influsso malefico di <strong>com</strong>ete, di cui una era apparsa<br />
nel 1628, un’altra nel 1630 nel colmo della peste; deploravano la fatale<br />
congiunzione di Saturno con Giove, parlavano di magie, attingendo<br />
un’inesauribile messe di bieche fantasie dalle “Disquisizioni Magiche” del gesuita<br />
belga Martino Delrio, il quale con questo suo trattato diede, per più di un secolo,<br />
“norma e impulso potente” ai processi contro le streghe, con il loro strascico di<br />
“legali, orribili, non interrotte carneficine”. Giustamente il Manzoni chiama<br />
“funesto” questo religioso dalla fantasia esaltata, il quale, dando corpo alle ombre,<br />
198
armò il truce sospetto popolare e religioso, perché si sfogasse nel sangue di povere<br />
donne innocenti.<br />
Ma naturalmente non tutti furono travolti da queste bieche fantasie del volgo,<br />
o da questi ugualmente funesti deliramenti dei dotti; c’era della gente savia la<br />
quale non credeva né agli untori né alle arti magiche o venefiche, ma se ne stava<br />
zitta, per non esporsi inutilmente a scherni o, peggio, a sospetti di connivenza<br />
interessata. Questo afferma il Muratori, che lo sapeva da buona fonte; si vede<br />
dunque che “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso<br />
<strong>com</strong>une”, cioè della voce pubblica, della vociaccia del popolo, che in questo caso<br />
non era certamente la voce di Dio, bensì del più fanatico pregiudizio.<br />
Ci si potrebbe chiedere di qual parere fosse il cardinal Federigo circa le<br />
unzioni. Ludovico Muratori e Pietro Verri, storici molto obiettivi, affermano che<br />
egli dubitava dell’esistenza di untori e di unzioni; il Manzoni, pur con tutto il<br />
desiderio che aveva di far fare una bella figura al mirabile Arcivescovo, riconosce<br />
sinceramente, avendo <strong>com</strong>pulsato i suoi scritti, che egli, pur essendo stato in<br />
principio piuttosto incredulo, in seguito inclinò a credere che nella cosa ci fosse<br />
qualcosa di vero, pur in mezzo alle inevitabili esagerazioni. E questo prova quale<br />
potenza di influsso possa avere un pregiudizio, se universalmente creduto, anche<br />
sulle menti più equilibrate e sugli animi più retti. Anche questi cedono talora<br />
all’opinione pubblica o all’impulso trascinatore di un sentimento universale, che<br />
soggioga per così dire, col cuore, anche la ragione. E questo possiamo dire anche<br />
a proposito del cedere di Federigo alla richiesta generale di effettuare la<br />
processione: certo agì egli in perfetta buona fede, in quella occasione, e se errore<br />
ci fu, è tutto da imputarsi all’intelletto, e da scusarne pienamente la coscienza.<br />
Ma era impossibile che tutti, o quasi, credessero agli untori, senza che<br />
qualcuno dicesse di averli visti. Ormai la gente era suggestionata; questo timore<br />
delle unzioni era divenuto un incubo continuo, per cui molti appestati in delirio,<br />
con la mente stravolta dall’altissima febbre, andavan farneticando di unzioni e<br />
facevano addirittura gesti da untori; il che faceva credere anche ai familiari che<br />
essi fossero stati nascostamente degli untori, e confermava quindi la credenza<br />
ormai universale. A poco a poco il sospetto di unzione dilagò anche nell’interno<br />
delle case, e ci si guardò dai parenti più stretti: nessun legame di affetto o di<br />
sangue fu ritenuto tanto saldo, da non dare adito all’atroce dubbio. “Cosa orribile<br />
a dirsi! – esclama il Ripamonti – la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano,<br />
<strong>com</strong>e agguati, <strong>com</strong>e nascondigli del venefizio.”<br />
In tutte le pestilenze verificatesi in Italia e all’estero, in quel secolo e nel<br />
precedente, “furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove<br />
qualcheduno, dove molti infelici, <strong>com</strong>e rei d’aver propagata la peste, con polveri,<br />
o con unguenti, o con malie, o con tutto ciò insieme”. Anche la peste di Milano<br />
del 1630 ebbe simili vittime del pregiudizio e del fanatismo; e sui processi contro<br />
gli untori di Milano il Manzoni ha voluto scrivere una monografia, alla quale si<br />
accenna verso la fine di questo capitolo. Essa fu pubblicata <strong>com</strong>e appendice<br />
all’edizione definitiva del romanzo (1840 – 42) col titolo di “Storia della colonna<br />
infame”.<br />
199
In questo opuscolo l’Autore, in polemica con quanto Pietro Verri aveva affermato<br />
nelle “Osservazioni sulla tortura”, sostiene che la condanna dei due presunti untori<br />
milanesi, il barbiere Giangia<strong>com</strong>o Mora e il <strong>com</strong>missario di Sanità Guglielmo<br />
Piazza, fu dovuta non tanto alle primitive e barbariche istituzioni giudiziarie del<br />
tempo, quanto alla volontà di condannare a ogni costo. La passione generale e la<br />
necessità di dare finalmente un esempio, dopo tanto gridare che s’era fatto contro<br />
le unzioni, aveva talmente stravolto le menti e suggestionato gli animi dei giudici,<br />
che essi, pur di condannare, violarono anche le disposizioni vigenti, che pur non<br />
erano fatte per difendere l’innocenza degli imputati dalla strapotenza di giudici<br />
prevenuti. Quei due poveri innocenti dovevano essere condannati: le autorità e il<br />
popolo inferocito dalla calamità non avrebbe tollerato un’assoluzione! E fu<br />
condanna veramente raccapricciante: furono innanzi tutto tagliate loro le mani, ree<br />
di aver manipolato e sparso le polveri venefiche, quindi i loro corpi sanguinolenti<br />
furono straziati con tenaglie roventi, e infine furono sgozzati dopo sei ore di lento<br />
e inumano martirio. La casa del Mora venne rasa al suolo, e sull’area rimasta<br />
libera fu eretta una colonna a eterna sua infamia, per indicare il luogo <strong>com</strong>e<br />
maledetto e inabitabile. Con questa barbarica esecuzione fu saziata la sete<br />
popolare di vendetta contro gli odiati untori, mentre le autorità governative<br />
potevano, grazie al verdetto dei giudici, trarre un respiro di sollievo e sentirsi la<br />
coscienza in pace: se la peste recava tanto danno e menava tanta strage, la colpa<br />
era di quei diabolici e inafferrabili untori; avevano, dopo lunga e snervante<br />
ricerca, finalmente messo le mani su due di essi, due soli, purtroppo; ma la<br />
condanna era stata veramente esemplare, tale da scoraggiare chiunque osasse<br />
attentare alla pubblica sanità!<br />
200
CAPITOLO XXXIII<br />
Con questo capitolo, esaurita la narrazione generale riguardante la peste, si<br />
torna a parlare dei nostri personaggi, a <strong>com</strong>inciare da don Rodrigo. Abbiamo già<br />
visto <strong>com</strong>e costui, dopo la liberazione di Lucia, nel novembre del 1628, e<br />
all’annunzio che il Cardinale sarebbe venuto in visita pastorale alla parrocchia di<br />
don Abbondio, lasciasse il suo palazzotto di villeggiatura nel Lecchese e se ne<br />
tornasse a Milano, per dimenticare negli stravizi la mancata soddisfazione del suo<br />
turpe capriccio. Da allora l’Autore non parla più di lui sino a questo punto della<br />
vicenda, cioè al colmo della peste, nell’estate del 1630. Siamo portati a credere<br />
che egli sia rimasto sempre a Milano, rinunciando nel 1629 alla consueta<br />
villeggiatura autunnale nel suo palazzotto presso il paese di Lucia, non tanto per il<br />
passaggio dei lanzichenecchi, quanto perché ivi il suo prestigio era<br />
irrimediabilmente <strong>com</strong>promesso, e il posto stesso gli rievocava ricordi tormentosi.<br />
La carestia del 1629 naturalmente non lo toccò né materialmente né moralmente,<br />
e neppure lo angustiò la discesa delle bande alemanne: erano flagelli per la povera<br />
gente, nata per lavorare e per soffrire, non per lui, rampollo della classe<br />
privilegiata, per la quale la vita dev’essere una festa. Per quanto il Manzoni non<br />
ne dica nulla, possiamo ben pensare che il giovin signore abbia continuato la sua<br />
vita di piaceri e di bagordi, nonostante la miseria e la sofferenza di tanta parte del<br />
popolo. La guerra e la fame non gli facevano paura; non erano per lui, non lo<br />
toccavano; ma coll’inizio del nuovo anno la peste <strong>com</strong>inciò a circuirlo, a<br />
minacciarlo, quasi per ricordargli che era anche lui mortale: gli portò via prima il<br />
Conte zio, il gran politico, sostegno e vanto del casato, ma lui non se l’ebbe per<br />
inteso, perché lo zio era ormai vecchio e se ne doveva andare. Più in là il contagio<br />
gli portò via anche il verde cugino conte Attilio, <strong>com</strong>pagno di vizi e alleato nelle<br />
malefatte, stuzzicatore sarcastico dei suoi bassi istinti <strong>com</strong>e del suo orgoglio<br />
nobilesco; ma lui continuò imperterrito a spassarsela coi suoi pari, soliti a darsi a<br />
ogni specie di orge, in un ridotto di giovani ricchi e cinici: si riunivano insieme<br />
quasi ogni giorno, per i loro stravizi, “e ogni volta ce n’eran dei nuovi, e ne<br />
mancava dei vecchi”. Anche questo era un segno inquietante, ma lui non ci<br />
badava, o meglio non ci voleva pensare, perché quel pensiero lo poteva portare ad<br />
amare considerazioni, e lui voleva affogare nei piaceri ogni conato di riflessione.<br />
Dei suoi numerosi e spavaldi giannizzeri, lustro e decoro della sua casa <strong>com</strong>e<br />
sostegno della sua prepotenza, ne erano rimasti ben pochi: il “fedel” Griso e un<br />
altro paio; ma lui continuava la stessa vita godereccia, ridendosela della peste,<br />
<strong>com</strong>e se non fosse affar suo. E se talvolta, in qualche momento di ripensamento,<br />
la paura di morire lo attanagliava, egli aveva cura di nascondere questa<br />
momentanea debolezza sotto la maschera del cinismo e dell’allegria.<br />
Una sera, sulla fine di agosto, proprio quando la peste ghermiva le sue vittime<br />
a migliaia al giorno, egli era stato uno dei più ridanciani, in quel ritrovo di giovini<br />
signori; “e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la <strong>com</strong>pagnia, con una specie<br />
201
d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima”. Forse<br />
la sua allegria era in parte sincera: per quanto fossero <strong>com</strong>pagni di vizi e di<br />
malefatte, il cugino gli era stato sempre un po’ sullo stomaco per la sua aria di<br />
superiorità, per il suo risolino ironico, per la pronta e spietata canzonatura di ogni<br />
sua presunta viltà; ne aveva sempre avvertito l’influsso malefico, che aveva<br />
condizionato, anche a distanza, il suo <strong>com</strong>portamento e le sue azioni. In fondo in<br />
fondo lo odiava, perché lo sentiva così diverso da sé: sempre sicuro, sprezzante,<br />
sarcastico; mentre lui aveva ogni tanto quelle debolezze, quelle paure, che doveva<br />
tenersi per sé, cercando di affogarle nell’alcool e nella sensualità. Ora, con la<br />
morte del cugino, si sentiva finalmente libero da quell’opprimente controllo, da<br />
quella specie di odiosa ipoteca sulla vita sua, che colui sembrava essersi arrogata,<br />
chi sa per quale diritto; sentiva di aver avuto, finalmente, una rivincita su di lui,<br />
non intera, perché postuma, ma tale da sentirsene euforico. E in questo stato di<br />
euforia aveva brindato alla morte del cugino, tessendone il panegirico in chiave<br />
umoristica, con molto successo, tanto che l’allegra brigata si s<strong>com</strong>pisciò dalle risa.<br />
Il successo lo aveva esaltato: ora che era tramontato l’astro del cugino, poteva<br />
brillare nella <strong>com</strong>pagnia l’astro suo, finalmente!<br />
Tornando a casa in <strong>com</strong>pagnia del suo fido guardaspalle, sentiva però un certo<br />
malessere, “che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla<br />
stagione”; ma la paura della peste era lì sempre viva e presente, “giacché era ancor<br />
più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio”. Giunti al palazzo,<br />
<strong>com</strong>andò al Griso di accendergli un lume, per andarsi a coricare. Pur a quella<br />
fioca luce il servitore “osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi<br />
in fuori, e lustri lustri”, e se ne stava perciò alla larga, perché ormai ogni<br />
scalzacane aveva acquistato, <strong>com</strong>e si dice, “l’occhio medico”. Don Rodrigo,<br />
accortosi del fare guardingo del servitore, cercò di rassicurarlo dicendo che aveva<br />
bevuto una vernaccia traditora, la quale lo aveva un po’ stordito, ma che con una<br />
buona dormita la sbornia passerebbe senz’altro; gli ordinò quindi di portar via<br />
immediatamente quel lume, che gli dava fastidio agli occhi, e di stare attento e<br />
all’erta, perché avrebbe sonato il campanello, se per caso avesse avuto bisogno di<br />
qualcosa; ma certamente non avrebbe avuto bisogno di niente… solo di dormire.<br />
Ma quando si cacciò sotto le coperte, queste gli parvero di piombo, e si sentiva<br />
<strong>com</strong>e oppresso e soffocato; le buttò subito via, e si rannicchiò cercando di<br />
dormire; ma appena velava un po’ l’occhio, si risvegliava di soprassalto, “<strong>com</strong>e se<br />
uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata”. Era accaldato, sudato,<br />
smanioso; pensava all’afa di quella torrida estate, al troppo vino bevuto, agli<br />
stravizi a cui si era abbandonato, e “avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa”<br />
del suo stato presente; ma ricordava con preoccupazione che anche le altre sere si<br />
era abbandonato agli stessi eccessi, eppure si era sentito benissimo, o forse solo<br />
un po’ di stanchezza, mentre allora si sentiva addosso un affanno insopportabile,<br />
una smania e una gravezza mai sentita in vita sua, inspiegabile…; e l’idea della<br />
peste gli si affacciava sgarbata e sinistra.<br />
Dopo uno smanioso voltarsi e rivoltarsi, fu preso da un certo torpore, e<br />
“finalmente si addormentò, e <strong>com</strong>inciò a fare i più brutti e arruffati sogni del<br />
202
mondo”. I sogni, <strong>com</strong>e si sa, sono manifestazioni tipiche del nostro subcosciente,<br />
dove giacciono latenti e confusi i timori, le speranze, le esperienze e le fantasie, le<br />
cose viste e le cose lette, le cose volute o semplicemente pensate o immaginate di<br />
tutta la vita passata, le quali appunto nel sogno riaffiorano in modo caotico, non<br />
essendoci, nel sonno, il controllo ordinatore della coscienza razionale. Nel<br />
subcosciente di don Rodrigo erano rimasti la preoccupazione e lo spavento<br />
causatigli dallo scontro con fra Cristoforo, e specialmente da quell’infausta<br />
profezia “Verrà un giorno…” che, anche così tronca, gli aveva fatto venire i<br />
bordoni. Aveva cercato di dimenticare quella predizione, di seppellire<br />
quell’impressione di spavento in una vita sfrenata e gaudente, ma c’era riuscito<br />
solo in parte: ogni tanto il confuso ricordo di quel giorno veniva sgarbatamente a<br />
insinuarsi nel suo pensiero, rinnovandogli un molesto senso di preoccupazione e<br />
di ansietà. Era quindi ben naturale che quella sensazione di spavento riaffiorasse<br />
ora dal subcosciente e si manifestasse in forme oniriche, cioè in immagini confuse<br />
e disordinate, ma vive e impressionanti.<br />
Da un sogno all’altro parve dunque al febbricitante signorotto di trovarsi in<br />
una grande chiesa, piena di gente squallida, di una marmaglia stomachevole, che<br />
invece di tenersi a rispettosa distanza, lo pigiava da ogni parte, senza alcun<br />
riguardo. Era perciò pieno di stizza, e non si capacitava <strong>com</strong>e mai gli fosse venuta<br />
l’idea di entrare in una chiesa, lui che non ci andava mai, e di cacciarsi per di più<br />
in mezzo a quella massa di appestati, che lasciavano scorgere i loro sozzi bubboni<br />
dagli strappi dei vestiti tutti logori e a brandelli. Gridava perciò a quella canaglia<br />
di cenciosi che facessero largo, ma nessuno si moveva, anzi lo premevano sempre<br />
più, e soprattutto gli sembrava che qualcuno col gomito lo punzonasse tra il cuore<br />
e l’ascella, “dove sentiva una puntura dolorosa e <strong>com</strong>e pesante”. Pensò allora di<br />
metter mano alla spada, per liberarsi da quella lercia turba che lo soffocava, e gli<br />
sembrava che, nella calca, fosse proprio l’elsa dell’arma che lo urtasse nel punto<br />
dove sentiva dolore; fece dunque per afferrarla, ma non trovò la spada; sentì solo<br />
una fitta più forte, che gli tolse il respiro. Tutt’affannato si mise a sbraitare e a<br />
strepitare, gridando invano che gli facessero largo, allorché tutti quei volti<br />
squallidi, con gli occhi abbacinati, si alzarono verso il pulpito dal quale, in mezzo<br />
alla generale sospensione e a un silenzio attonito, emerse a poco a poco un<br />
cappuccino, fra Cristoforo, alto diritto dominatore, mentre lui era subissato da<br />
quella turba ripugnante. Il frate, “fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio,<br />
parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano” in<br />
atto di rampogna, <strong>com</strong>e appunto quel giorno nel suo palazzotto. Allora fu assalito<br />
dalla rabbia e dallo spavento, e con un balzo cercò di afferrare quella mano<br />
minacciosa, emettendo contemporaneamente un grand’urlo, che lo fece svegliare.<br />
Quando si raccapezzò, dopo la confusione e il turbamento dei primi momenti, capì<br />
che per fortuna era stato solo un brutto sogno; tutto era sparito: frate, chiesa,<br />
quella sudicia marmaglia. Ma ebbe appena assaporata questa soddisfazione, che si<br />
accorse con spavento che quel dolore sotto l’ascella sinistra non solo non era<br />
s<strong>com</strong>parso, ma sembrava anzi cresciuto, ed insieme era aumentata la palpitazione<br />
di cuore, la pesantezza di testa, l’arsione interna. Dopo un po’ di esitazione<br />
203
paurosa, si decise a scoprire la parte che gli doleva: guardò paventosamente, “e<br />
vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror<br />
della morte l’invase”. Queste due ultime notazioni sono veramente scultoree nella<br />
loro tragica e cruda evidenza.<br />
Lo spavaldo signorotto, che si era ritenuto immune dai mali dei <strong>com</strong>uni<br />
mortali, che aveva osato ridere sulla morte altrui, ora che è raggiunto dalla<br />
sventura, mostra tutta la sua viltà; lui che, ridendosela di Dio e della sua legge,<br />
aveva contristato non uno, ma molti spiriti immortali, ora sente la sua nullità<br />
davanti alla peste che lo ha ghermito con le sue inesorabili grinfie. Ma, più della<br />
morte, lo terrorizzava il pensiero di diventare preda dei monatti, di essere caricato<br />
su quei luridi carri, per essere portato alla bolgia del lazzaretto, dove sarebbe stato<br />
gettato a languire su quella fetida paglia. A questo non si rassegnava, e doveva<br />
evitarlo assolutamente, questo scempio della sua persona: era ricco, e aveva<br />
ancora dei fedeli servitori che lo avrebbero difeso, curato, assistito! Sonò<br />
convulsamente il campanello; al Griso, che subito <strong>com</strong>parve, ricordò che lui era<br />
stato sempre il suo fedelissimo, e che di lui quindi si poteva fidare; aggiunse che<br />
gli aveva sempre fatto del bene, e promise che più ancora gliene farebbe in futuro.<br />
Dopo questo preambolo, confessò che stava male. Il servitore rispose che se n’era<br />
accorto, e intanto si manteneva a debita distanza, “aspettando dove andassero a<br />
parare” queste gentili premesse, che non potevano davvero mutare la sua<br />
decisione, ormai irremovibile; il ribaldo ci aveva probabilmente pensato tutta la<br />
notte, mentre vegliava insonne accanto alla camera del malato. Il padrone<br />
finalmente si decide a parlare, a dire che cosa vuole ora da lui; ma lo fa con<br />
insolita cortesia: “Fammi un piacere, Griso”. Notiamo con quale riguardo si<br />
rivolge al suo “fido”, al quale in precedenza mai si era sognato di chiedere dei<br />
favori, ma sempre aveva imposto dei <strong>com</strong>andi, anche duri, e con tono imperioso.<br />
Anche il Griso nota questo cambiamento di tono, e ne ride in cuor suo; ma<br />
dissimulando il suo stato d’animo, risponde prontamente: “Comandi”. Il ribaldo,<br />
“rispondendo con la formula solita a quell’insolita”, ristabilisce per così dire le<br />
distanze tra lui e il padrone, respingendo implicitamente ogni richiesta di<br />
maggiore familiarità. E’ vero, don Rodrigo fa veramente pena in questo suo<br />
maldestro tentativo di stabilire col suo servitore dei nuovi rapporti, basati sulla<br />
riconoscenza e sulla fiducia; tuttavia bisogna riconoscere che egli soltanto ora, che<br />
è colpito dalla sventura, acquista una sua dimensione umana, con tutte le<br />
debolezze degli uomini <strong>com</strong>uni, le quali ne fanno non più un oggetto di odio, ma<br />
una persona degna di <strong>com</strong>passione. Il nostro stato d’animo verso di lui ora è<br />
mutato, perché la sofferenza rende, per così dire, sacra la persona che ne è colpita;<br />
ora noi la rispettiamo, e la nostra avversione la riversiamo tutta contro chi si<br />
prepara a consumare il più nero tradimento verso colui che, in definitiva, lo ha<br />
beneficato, dandogli uno stipendio e mettendolo al sicuro dalla polizia. Don<br />
Rodrigo pregò dunque il servitore di andare col massimo riserbo dal medico<br />
Chiodo, il quale era un galantuomo che, pagato bene, curava in casa i malati,<br />
senza denunciarli all’autorità sanitaria; e di invitarlo a venire subito a visitarlo,<br />
assicurandogli l’onorario che volesse; ma tutto nel più assoluto segreto! Il Griso<br />
204
approva la decisione del padrone e aggiunge : “Vo e torno subito”. Prima che<br />
uscisse, don Rodrigo, non resistendo più all’arsura della gola, gli chiese di<br />
portargli un bicchier d’acqua; ma il ribaldo, che non vuole accostarsi al malato per<br />
nessun motivo, finge una certa precauzione di carattere sanitario, e rivestendosi di<br />
autorità, risponde impassibile: “No, signore: niente senza il parere del medico.”<br />
Quindi esce subito per la sua <strong>com</strong>missione.<br />
Il medico abitava piuttosto vicino; e don Rodrigo, il quale aveva seguito col<br />
pensiero il suo servitore lungo la strada che doveva percorrere, dopo un po’<br />
<strong>com</strong>inciò a stare in orecchi, perché gli sembrava che colui dovesse essere ormai di<br />
ritorno, in <strong>com</strong>pagnia del medico. A un tratto sente un tintinnio di campanello,<br />
che sembra venire non dalla strada, ma da dentro la stessa casa. E’ tutt’orecchi,<br />
col fiato sospeso, ma col cuore in tumulto: sente distintamente un rumore di molti<br />
passi, poi, nella stanza attigua, quello di un oggetto che viene deposto a terra con<br />
riguardo. Cos’è mai? “Un orrendo sospetto gli passa per la mente”: Si rizza a<br />
sedere sul letto, tutto sconvolto; ma nel frattempo la porta si è aperta, e sono<br />
apparsi due loschi figuri vestiti di rosso, “due facce s<strong>com</strong>unicate, due monatti, in<br />
una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente<br />
socchiuso, riman lì a spiare”.<br />
Il povero tradito impreca a quell’infame, grida aiuto invocando gli altri due<br />
servitori, e afferra la pistola da sotto il capezzale; ma già i monatti gli sono<br />
addosso, e uno gli strappa l’arma, schernendolo con cruda ironia: “Ah birbone!<br />
contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di<br />
misericordia!” Don Rodrigo cerca invano di divincolarsi dalla morsa di quelle<br />
manacce, e grida con voce roca: “Lasciatemi ammazzar quell’infame, e poi fate di<br />
me quel che volete”. Poi tornava a chiamare, con quanto fiato aveva in corpo,<br />
Biondino e Carlotto, ma inutilmente: il Griso li aveva naturalmente mandati<br />
lontano, con finti ordini del padrone; e ora poteva senza alcuna preoccupazione<br />
scassinare lo scrigno della camera, per dividere la preda con i <strong>com</strong>pagnoni,<br />
secondo l’accordo pattuito.<br />
L’appestato, dopo aver a lungo smaniato, gridato e imprecato contro<br />
“l’abominevole Griso”, che era tutto intento a cavar fuori dalla cassaforte il tesoro<br />
del padrone, dopo aver tentato ancora una volta, con un supremo sforzo, di<br />
liberarsi dalle mani forzute di uno dei monatti, le quali lo tenevano inchiodato sul<br />
letto, cadde infine esausto; i riflessi gli si annebbiarono ed egli, divenuto <strong>com</strong>e<br />
balordo, si calmò affatto, salvo a lamentarsi miserabilmente con un gemito flebile<br />
e arrantolato. Intanto il Griso con l’altro monatto avevano fatto le tre parti del<br />
bottino, delle quali ognuno prese la sua; dopo di che “il miserabil peso” fu<br />
caricato sulla barella e portato via al suo destino: il carro <strong>com</strong>une lo avrebbe<br />
trasportato al lazzaretto.<br />
Quel vigliacco del Griso aveva cercato bensì di stare alla larga sia dal padrone<br />
sia dai monatti, per paura del contagio; ma prima di lasciare la camera, accecato<br />
dall’avidità, non si tenne dal frugare nei panni del padrone, per prendere dalle<br />
tasche il denaro che c’era. Per amore dei soldi non pensò gran che al contatto con<br />
quei vestiti infetti. Il giorno dopo però, mentre si dava ai bagordi in una bettola,<br />
205
assieme a dei <strong>com</strong>pari, fu assalito improvvisamente dai brividi, sentì un languore<br />
mortale e cadde di peso sul pavimento; un caso, non raro, di peste fulminante.<br />
“Abbandonato dai <strong>com</strong>pagni, andò in mano dei monatti, che, spogliatolo di quanto<br />
aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima<br />
d’arrivare al lazzaretto, dov’era stato portato il suo padrone”. Abbiamo detto, altra<br />
volta, che questo sgherro era degno di don Rodrigo; ora, dopo il suo vile<br />
tradimento, possiamo precisare che egli, pari al suo padrone in malvagità e<br />
cinismo, lo superava certamente in viltà e perfidia. E il Manzoni gli fa fare proprio<br />
la fine che meritava. Questo abbietto assassino, col suo perfido <strong>com</strong>portamento, ci<br />
fa quasi sentir pietà del suo padrone, vittima insieme della peste e del suo “fido”.<br />
A questo proposito ci torna in mente l’apostrofe che l’Autore rivolge al Griso nel<br />
capitolo XI, la quale conclude con l’affermazione “che qualche volta la giustizia,<br />
se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo”. Ed è una<br />
giustizia che, purtroppo, non dà alcun adito alla misericordia.<br />
Ma lasciando per sempre questa odiosa figura di ribaldo, che non ci<br />
<strong>com</strong>muove neppure quando casca a terra stecchito, torniamo al nostro Renzo, che<br />
abbiamo lasciato, col nome di Antonio Rivolta, nel nuovo filatoio, dov’era stato<br />
portato dal cugino Bortolo. In verità stette lì pochi mesi; infatti, dichiarato lo stato<br />
di guerra tra la Serenissima e la Spagna, e non essendoci quindi più pericolo di<br />
cattura per richiesta delle autorità milanesi, a Bortolo convenne andarselo a<br />
riprendere, per tenerlo con sé, dato che gli era di grande aiuto nelle sue mansioni<br />
di factotum, essendo un giovane intelligente, onesto e capace. Il fatto che Renzo<br />
non sapesse leggere e scrivere era, per la mentalità del cugino, <strong>com</strong>e una garanzia:<br />
ignorando quell’arte, così indispensabile all’amministrazione, non poteva mai<br />
aspirare a divenire lui il factotum; insomma doveva necessariamente rimanere in<br />
posizione subordinata. Non mancava dunque, nell’animo di Bortolo, brav’uomo<br />
del resto, un po’ di gelosia, un certo calcolo del proprio tornaconto; era un uomo<br />
pratico, lui, e pensava che fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Voleva bene a<br />
Renzo, era disposto ad aiutarlo, ma non voleva rimetterci lui, non gli piaceva<br />
essere scavalcato; era in certo qual modo ambizioso, e temeva l’ambizione altrui;<br />
ma per sua fortuna Renzo, anche volendolo, non avrebbe potuto scalzarlo nella<br />
stima e nel favore del padrone della filanda. Il Manzoni, a questo proposito,<br />
osserva con un sorriso: “Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire:<br />
fabbricatevelo. Quello era così”. Anche gli uomini migliori hanno le loro pecche.<br />
Dopo aver saputo del voto di Lucia, al giovane era venuto più di una volta<br />
l’uzzo di arrolarsi, e così cercare di dimenticare; e quando Venezia <strong>com</strong>inciò a<br />
mobilitare truppe in vista delle ostilità contro la Spagna, maggiormente egli fu<br />
tentato di farsi soldato, perché si parlava di invadere il Milanese; e Renzo<br />
immaginava già di “tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e<br />
spiegarsi una volta con lei”. Ma Bortolo, col suo buon senso, aveva sempre saputo<br />
stornarlo da quell’idea guerresca con validi argomenti; e lo stesso fece allorché il<br />
cugino manifestò l’intenzione di tornare al suo paese sotto mentite spoglie; Renzo<br />
gli diede ascolto, e si convinse a pazientare, in attesa di qualche circostanza più<br />
favorevole, che gli permettesse di tornare a casa senza troppo pericolo. Scoppiata<br />
206
poi la peste, Renzo se la prese quasi subito, ma ne guarì: uno dei pochi fortunati.<br />
”Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le<br />
memorie”, e con queste il pensiero e il desiderio di Lucia: che ne era di lei? era<br />
viva, era sana? e <strong>com</strong>e chiarire una buona volta “quell’imbroglio del voto”?<br />
Soltanto andando lui, di presenza, avrebbe potuto chiarire tutt’insieme questi<br />
dubbi, i quali ormai non gli davano più pace. Decise perciò di andare senz’altro,<br />
non appena si sarebbe sentito di nuovo in gamba. La cattura non gli dava più<br />
pensiero: ormai la polizia era decimata, e poi aveva altro da pensare; la peste era<br />
un buon lasciapassare. Confermandosi nel suo proposito, si ripeteva spesso: “Se<br />
lascio scappare una occasione così bella, non ne ritorna più una simile!” Lo<br />
speriamo bene!<br />
Prima di mettere in atto il suo proposito, andò a darne notizia a Bortolo il<br />
quale, non avendo avuto la peste, se ne stava molto riguardato ed evitava ogni<br />
contatto, specie con persone che avessero già avuto la malattia. Renzo perciò lo<br />
chiamò dalla strada, facendolo affacciare alla finestra. Bortolo si congratulò col<br />
cugino, non senza una punta d’invidia: beato chi era guarito, e poteva quindi<br />
pensare all’avvenire senza più nessuna preoccupazione, essendo ormai immune al<br />
morbo, mentre lui chi sa se poteva starne fuori sino alla fine… e se fosse caduto<br />
ammalato, chi sa <strong>com</strong>e sarebbe andata a finire… Comunque sperava bene. Alla<br />
proposta di Renzo, non fece alcuna obiezione, e si limitò ad augurargli una felice<br />
riuscita: “Va, questa volta, che il cielo ti benedica: cerca di schivar la giustizia,<br />
<strong>com</strong>’io cercherò di schivare il contagio”. Nel suo senso pratico, capiva che la<br />
peste rendeva ora facile ciò che prima era difficile e pericoloso; perciò approvò e<br />
incoraggiò l’idea del cugino.<br />
Il giorno della partenza, Renzo si cinse a carne nuda una cintura, con cuciti<br />
dentro quei cinquanta scudi, che non aveva mai voluto toccare, <strong>com</strong>e se avesse<br />
fatto un voto; si mise in tasca i suoi risparmi e un benservito al nome di Antonio<br />
Rivolta, che gli poteva essere utile nel caso che fosse fermato dai birri; non<br />
dimenticò, in un taschino dei calzoni, “un coltellaccio, ch’era il meno che un<br />
galantuomo potesse portare a quei tempi”. E s’avviò franco e risoluto, nel colmo<br />
della peste, proprio tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzaretto,<br />
senza più alcuna preoccupazione per la sua salute, poiché si sapeva benissimo che<br />
la peste dà immunità, ma solo preoccupato per quello che andrebbe a scoprire nei<br />
riguardi di Lucia. Pensò bene di passare prima dal suo paese: così avrebbe potuto<br />
sapere da Agnese, se era viva, le ultime notizie della figlia, e anche l’indirizzo<br />
esatto di Milano, che dalle lettere non aveva potuto decifrare con sicurezza, stante<br />
la calligrafia poco chiara.<br />
Verso sera giunse al paese, che aveva lasciato due anni prima con una fuga<br />
notturna, e provò una <strong>com</strong>mozione profonda nel rivedere quei luoghi così<br />
familiari. Non volendo farsi scorgere dagli abitanti, si diresse per una viottola<br />
esterna alla casa di Agnese, dove aveva pensato di chiedere alloggio, ritenendo la<br />
sua inabitabile se non “da topi e da faine”. Mentre visibilmente emozionato si<br />
avvicinava alla meta, vide un uomo seduto a terra, appoggiato a una siepe, con<br />
un’aria incantata, tanto che gli sembrò di ravvisare “quel povero mezzo scemo di<br />
207
Gervaso”; ma avvicinatosi, riconobbe che era Tonio il quale, sfigurato dal morbo,<br />
rassomigliava ancor più a quello scimunito del fratello. Renzo cercò di farsi<br />
riconoscere, ma quello, avendo la mente stravolta dalla peste, non faceva che<br />
ripetere: “A chi la tocca, la tocca”. Evidentemente era la frase che riassumeva la<br />
sua concezione fatalistica nei riguardi dell’epidemia che infuriava; chi sa quante<br />
volte l’aveva detta prima, a proposito degli altri, con un senso di rassegnazione;<br />
ora che la malattia ha colpito anche lui, la ripete ancora, “con un certo sorriso<br />
sciocco”. Povero Tonio!<br />
Rattristato a quella vista, il giovane riprese la sua strada, ma dopo pochi passi<br />
scorse da lontano un prete: don Abbondio in persona! “Camminava adagio adagio,<br />
portando il bastone <strong>com</strong>e chi n’è portato a vicenda”, e quando anche lui riconobbe<br />
Renzo, “alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta”, perché<br />
il ritorno di colui al suo paese lo metteva in un grande imbarazzo, data anche la<br />
cattura che aveva addosso. Il breve colloquio di Renzo col suo curato è<br />
interessantissimo: da una parte il giovane che ansiosamente vuol sapere notizie di<br />
Lucia, di Agnese, di fra Cristoforo, dei morti di peste nel paese, e incalza con le<br />
sue domande pressanti; dall’altra don Abbondio il quale, sin dal principio, cerca di<br />
respingerlo indietro con una espressione disgustata e scandalizzata, investendolo<br />
con un “Siete qui, voi?” Ma Renzo non gli dà il tempo di esprimere il suo<br />
rimprovero, tempestandolo di domande, alle quali l’altro risponde a malincorpo e<br />
quasi evasivamente, premendogli piuttosto di manifestargli tutta la sua<br />
riprovazione per la sua venuta inconsulta. Finalmente, dopo ripetuti tentativi, ci<br />
riesce a sottrarsi un poco a quella gragnola di domande, e gli dice stizzito: “Ma<br />
voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per amor del cielo? Non sapete che<br />
bagattella di cattura?” Facendolo scandalizzare ancora di più, Renzo gli risponde<br />
che non se ne cura della polizia, e chiede piuttosto se don Rodrigo è lì a<br />
villeggiare; e sic<strong>com</strong>e don Abbondio elude la domanda, timoroso di fornire<br />
un’informazione sul conto del temuto signorotto, il giovane ripete la domanda con<br />
risolutezza impaziente, deciso a sapere ciò che gli preme: “Domando se è qui,<br />
colui”. E sic<strong>com</strong>e il pavido prete traccheggia ancora, sbotta iroso: “C’è o non<br />
c’è?” Messo alle strette, don Abbondio finalmente si decide, senza bisogno che,<br />
questa volta, il focoso giovane metta la mano sul suo coltellaccio, a scopo<br />
puramente intimidatorio, e risponde con tono conciliante: “Non c’è, via. Ma, e la<br />
peste, figliuolo, la peste!” Renzo replica che lui l’ha avuta, per grazia di Dio, e<br />
non la teme più; poi chiede al curato se l’ha avuta anche lui, <strong>com</strong>e pare<br />
dall’aspetto, e se nel paese ne son morti molti. Con evidente soddisfazione don<br />
Abbondio risponde che anche lui l’ha scampata, e volentieri indugia a parlare<br />
della sua malattia, “perfida e infame”, <strong>com</strong>e la chiama; poi elenca, a <strong>com</strong>inciare<br />
da Perpetua, “una filastrocca di persone e di famiglie intere”, portate via<br />
dall’inesorabile morbo. Ma poi si accorge di essersi lasciato troppo andare in quel<br />
discorso, e torna agli ammonimenti, alle preghiere di tornar subito sui suoi passi.<br />
Renzo però non l’intende così, per cui il curato stizzosamente lo rimprovera: “Ho<br />
inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me”. E così lo lascia, riprendendo<br />
borbottando la sua strada.<br />
208
Avendo saputo da don Abbondio che Agnese non era in paese, ma a Pasturo,<br />
dove la peste non infieriva troppo, Renzo decise di andare ad alloggiare presso un<br />
amico d’infanzia, il quale era rimasto solo soletto a causa della moria. Avviandosi<br />
alla casa di costui, che era un po’ fuori del paese, dovette passare davanti alla sua<br />
vigna, nella quale per due inverni di seguito i paesani erano andati a far legna, per<br />
difendersi dal freddo. Perciò dei tralci di vite non ne rimaneva più neppur uno, e<br />
anche i grossi alberi da frutta, che pure c’erano, erano ugualmente spariti, o<br />
tagliati alla base o sradicati alla men peggio. Dell’antica coltivazione non erano<br />
rimasti che alcuni polloni rispuntati dalle ceppaie recise, mentre era nata<br />
dappertutto una vegetazione nuova, di erbacce e arbusti selvatici, che aveva preso<br />
pieno possesso del terreno lasciato libero dalle piante utili. Tutta la superficie era<br />
stata invasa e ricoperta da questo esercito di piante clandestine, fattesi avanti<br />
risolutamente a rivendicare il loro spazio vitale.<br />
La tanto discussa descrizione della vigna di Renzo è un vero pezzo di bravura<br />
pittorica e botanica, che dimostra ancora una volta il gusto manzoniano della<br />
notazione minuta ed esatta, dell’osservazione attenta e appassionata del gran libro<br />
della natura vegetale. E’ questo per il nostro Autore un libro vivo e palpitante, non<br />
meno interessante di quello rappresentato dalla società umana. A noi non sembra,<br />
<strong>com</strong>e a qualche critico, che la descrizione sia prolissa e oziosa, anche se può<br />
parere esagerata l’insistenza su certi particolari. Il Manzoni però ha saputo<br />
ravvivare la parte descrittiva con osservazioni e confronti di grande interesse; per<br />
esempio, egli scorge <strong>com</strong>e un’immagine della lotta accanita per l’esistenza in quel<br />
“guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a<br />
passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni<br />
verso”. Quando poi nota che tra quella marmaglia d’erbacce ce n’erano alcune<br />
“più rilevate e vistose, non però migliori”, sembra che voglia ricordarci che, allo<br />
stesso modo tra gli uomini, gli oziosi improduttivi, anche se nobili e ricchi, non<br />
sono affatto migliori del volgo inerte e vizioso, perché il blasone e le ricchezze<br />
non nobilitano la vita. Subito dopo l’Autore richiama la nostra attenzione su<br />
un’umile zucca selvatica la quale, bisognosa di appoggio, “s’era avviticchiata ai<br />
nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva<br />
attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e mescolando i loro deboli steli e le loro<br />
foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, <strong>com</strong>e accade spesso ai deboli<br />
che si prendon l’uno con l’altro per appoggio”. E infine, ecco il simbolo<br />
dell’arrogante invadente e brutale, che non ha riguardi né <strong>com</strong>passione per alcuno:<br />
era il rovo che coi suoi rami spinosi tutto ricopriva e opprimeva; “e, attraversato<br />
davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al<br />
padrone”. Possiamo dunque concludere che il Manzoni ha opportunamente<br />
vivificato la sua minuziosa descrizione con pensose riflessioni morali e sociali.<br />
Dopo la spettacolo desolato della vigna, si presentò alla vista di Renzo quello,<br />
non meno triste, della sua casa, tutta piena di sudiciume, per averci bivaccato<br />
quasi un mese i lanzi, e popolata di ratti i quali si affrettarono a rintanarsi con<br />
“uno s<strong>com</strong>piglio, uno scappare incrocicchiato”, allorché il padrone apparve<br />
davanti all’uscio sfondato. Dopo aver gettato appena uno sguardo all’interno e al<br />
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“parato di ragnateli” che pendeva dal soffitto, Renzo si allontanò subito<br />
contristato e si diresse a passi svelti verso la sua meta, perché già <strong>com</strong>inciava a<br />
imbrunire. Scorse da lontano l’amico, seduto davanti alla porta di casa, “<strong>com</strong>e un<br />
uomo sbalordito dalle disgrazie, e inselvatichito dalla solitudine”. Sentendo il<br />
calpestio, colui credette che fosse il becchino, il quale veniva sempre a<br />
importunarlo perché andasse a seppellire i morti assieme a lui; e sic<strong>com</strong>e era<br />
ormai nauseato di quel servizio, gridò alzandosi: “Non ci son che io? non ne ho<br />
fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di<br />
misericordia”. Renzo, meravigliato per quelle parole di cui non poteva intuire il<br />
motivo, rispose a sua volta chiamandolo per nome; allora quegli lo riconobbe e gli<br />
corse incontro, scusandosi per quanto gli aveva detto, avendolo scambiato per<br />
“Paolin dei morti”. Gli fece quindi la più cordiale accoglienza; dopo tante<br />
sofferenze e calamità, sia pubbliche che private, si ritrovarono a un tratto più<br />
amici di prima, “perché all’uno e all’altro eran toccate di quelle cose che fanno<br />
conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza”. Fattolo entrare in casa, gli<br />
preparò la cena nel miglior modo che poté, e lo ragguagliò anche su molte cose<br />
che a Renzo premeva si sapere, <strong>com</strong>e il preciso casato di don Ferrante; durante la<br />
cordiale conversazione venne informato anche della morte del podestà di Lecco e<br />
di gran parte della sua sbirraglia: così Renzo si sentì più al sicuro dalle ricerche<br />
della polizia.<br />
Messo così al corrente della situazione locale, il nostro giovane stette un po’ in<br />
forse, se gli convenisse andar prima a trovare Agnese o recarsi prima a Milano;<br />
ma poi decise di andar prima a trovar Lucia, e poi correre a Pasturo, a portare le<br />
sue notizie alla madre, la quale chi sa <strong>com</strong>e le aspettava. Renzo sperava proprio di<br />
poterle recare delle buone notizie di Lucia, ché altrimenti… forse non era il caso<br />
di andarla ad amareggiare, quella poveretta. Pernottò dunque in casa dell’amico, e<br />
allo spuntar del giorno, in procinto di partire, ringraziò e salutò accoratamente<br />
l’ospite: “Se la mi va bene, se la trovo in vita, se… basta… ripasso di qui… Ma<br />
se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia… allora, non so quel che farò,<br />
non so dov’anderò: certo, da queste parti non mi vedete più”. All’amico non<br />
aveva parlato del voto, essendo argomento troppo geloso; ma uno dei “se” delle<br />
sue sconnesse parole allude evidentemente ad esso. Renzo quindi non si faceva<br />
illusioni sulla difficoltà della sua ricerca: non bastava che non incappasse nelle<br />
maglie della polizia, non era sufficiente trovare Lucia in vita: bisognava anche<br />
superare la difficoltà del voto. Non chiedeva poco il nostro giovane!<br />
Messosi in viaggio, camminò senza fretta, sic<strong>com</strong>e gli bastava in quella<br />
giornata di arrivare molto vicino a Milano, senza entrarci; vi avrebbe fatto il suo<br />
ingresso solo il mattino successivo, per iniziare subito la sua gran ricerca.<br />
All’imbrunire, giunto in vista della città, cercò nella campagna una cascina<br />
disabitata, dove si arrampicò sul fienile per passarvi la notte. Riposò<br />
<strong>com</strong>odamente sulla paglia, e il mattino dopo con fresche energie riprese il suo<br />
cammino, “prendendo per sua stella polare il duomo”, ben visibile nella piatta<br />
pianura.<br />
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CAPITOLO XXXIV<br />
Entrare a Milano non era permesso a chi non fosse munito della bolletta di<br />
sanità; ma i gabellieri e le guardie, per tanti ovvi motivi, non si curavano di<br />
eseguire rigorosamente questa disposizione, allora perfettamente inutile, mentre<br />
sarebbe stata necessaria alle prime avvisaglie del contagio, quando invece, <strong>com</strong>e<br />
abbiamo visto, si indugiò colpevolmente ad attuarla. Ora Milano era il covo più<br />
virulento della peste, “e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante<br />
della propria salute, che pericoloso a quella dei cittadini."<br />
Renzo arrivò dunque, per una viottola, al tratto di mura che vanno da Porta<br />
Orientale a Porta Nuova; lì, non avendo alcun indizio che lo potesse guidare né<br />
persona a cui domandare, prese a destra, a caso, andando quindi verso Porta<br />
Nuova. Camminava con l’animo sospeso, guardando a destra e a sinistra: nessun<br />
vivente, nessun rumore; solo si vedeva una colonna di fumo innalzarsi<br />
pigramente, in ampi globi, “nell’aria immobile e bigia”: erano panni e suppellettili<br />
infette che venivan bruciate sugli spaldi. La scena era lugubre, e rendeva più triste<br />
l’animo del nostro giovane, che si sentiva stringere il cuore in quel vasto silenzio,<br />
in quella desolata solitudine, che gli davano <strong>com</strong>e un presagio di morte. Anche<br />
l’aspetto del cielo era intonato con questo stato d’animo del mesto viaggiatore:<br />
sembrava che la natura tutta soffrisse insieme con gli uomini; “il tempo era<br />
chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione<br />
uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna<br />
d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una<br />
gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti”. L’aria gravosa e morta pare che<br />
opprima anche noi lettori, tanto la descrizione manzoniana è viva e potente. In<br />
pochi minuti Renzo giunse alla porta, la quale per precauzione era stata cinta da<br />
uno steccato, munito di cancello; ma sia questo sia quella erano aperti, poiché due<br />
monatti stavano portando via il capo dei gabellieri, ammalatosi di peste.<br />
Partiti i monatti con la barella, Renzo entrò risolutamente per la porta rimasta<br />
aperta; e avendogli una guardia intimato di fermarsi, gli diede d’occhio<br />
mostrandogli un mezzo ducatone; ricevuto un cenno di consenso, gli gettò la<br />
moneta e passò avanti in fretta, <strong>com</strong>e colui gli aveva <strong>com</strong>andato con un gesto.<br />
Mentre si allontanava a passi svelti dalla porta verso l’interno della città, si sentì<br />
gridar dietro un “olà” da un altro gabelliere, ma lui fece finta di non sentire,<br />
allungando ancor più il passo. Colui, gridatogli un altro “olà” più per dovere che<br />
per volontà di essere obbedito, visto che il viandante non sentiva, scrollò le spalle<br />
con aria d’indifferenza e rientrò nella sua garitta.<br />
Renzo, dopo aver camminato un po’ senza vedere anima viva, scorse<br />
finalmente uno che veniva nella sua direzione, e pensò di chiedere a lui in quale<br />
via fosse l’abitazione di don Ferrante, del quale aveva saputo dall’amico il<br />
cognome preciso, ma non il recapito. Colui, vedendo il forestiero venirgli incontro<br />
e togliersi il cappello, avendo la fantasia riscaldata dalle storie degli untori, lo<br />
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itenne uno di questi, e puntandogli contro un poderoso bastone dalla punta di<br />
ferro, gridò <strong>com</strong>e uno spiritato: “via! via! via!” Alla mala parata Renzo, che non<br />
capì per chi era stato preso, rimase allibito, proprio di stucco; e non volendo<br />
attaccar lite con uno stravagante o peggio, si rimise il cappello in testa e proseguì<br />
la sua strada; mentre l’altro, allontanatosi tutto fremente e voltandosi ogni tanto<br />
indietro con sospetto, giunto finalmente a casa, raccontò ancor tutto emozionato di<br />
aver incontrato un untore “con aria umile, mansueta, con un viso d’infame<br />
impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben<br />
certo qual dei due) in mano, nel cocuzzolo del cappello”, che si era tolto<br />
appositamente, per fargli meglio il tiro; ma lui l’aveva tenuto a distanza con la<br />
punta del suo nocchieruto bastone, e se il birbone si fosse avvicinato ancora un<br />
passo, lo avrebbe senz’altro infilzato; peccato, proprio peccato, che non c’era<br />
gente intorno, per poterlo catturare, il manigoldo! Quindi concluse tutto<br />
preoccupato: “Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa!” E finché visse,<br />
tutte le volte che si parlava di peste e d’untori, raccontava la sua prodezza con<br />
delle frange sempre più vistose, ammonendo che quelli i quali non credevano agli<br />
untori, non lo venissero a dire a lui, che li avrebbe smentiti in pieno, “perché le<br />
cose bisogna averle viste”. Questo è un efficace esempio di <strong>com</strong>e potevano<br />
nascere, ed effettivamente nascevano, le fantastiche storie degli untori, le quali<br />
poi, ripetute di bocca in bocca, confermavano la credenza ormai generale.<br />
“Renzo, lontano dall’immaginarsi <strong>com</strong>e l’avesse scampata bella, e agitato più<br />
dalla rabbia che dalla paura”, capì press’a poco, ripensandoci, per chi era stato<br />
scambiato, e costatava amaramente che un destino avverso lo perseguitava in<br />
Milano: tutto a gonfie vele per entrarci, ma poi, una volta dentro, i dispiaceri lì<br />
pronti ad accoglierlo. Ma si fece coraggio e andò avanti, sperando di trovare<br />
prima o poi qualche persona un po’ più trattabile e soprattutto meno sospettosa.<br />
Non aveva fatto molta strada, che si sentì chiamare: “o quell’uomo!”. Renzo si<br />
voltò nella direzione della voce, e vide una donna affacciata a un balconcino di<br />
una casetta isolata. Avvicinatosi con sollecitudine, sentì che era una povera<br />
madre, con una nidiata di bambini affamati all’intorno: li avevano sequestrati in<br />
casa, inchiodando l’uscio, perché il marito era morto di peste; ma intanto era una<br />
giornata intera che non portavano loro da mangiare, e non ne potevano più. Il<br />
giovane, che aveva in tasca due pagnotte, <strong>com</strong>prate a Monza, le offrì<br />
immediatamente alla poveretta, e le mise nel panierino che colei gli calò con una<br />
funicella; circa la preghiera della donna, di avvertire un <strong>com</strong>missario di sanità<br />
della loro situazione, rispose che non sapeva a chi rivolgersi, non essendo pratico<br />
della città, ma che, se trovava “qualche uomo un po’ domestico e umano”,<br />
avrebbe affidato a lui la <strong>com</strong>missione. A sua volta Renzo chiese alla donna, se per<br />
caso sapesse dove stava di casa un certo don Ferrante (e aggiunse il casato); quella<br />
rispose che ne aveva sentito parlare, ma non sapeva di preciso dove abitava.<br />
Il nostro giovane riprese il suo cammino un po’ rinfrancato e per l’incontro e<br />
per l’opera buona che aveva <strong>com</strong>piuta, donando quei due pani; e ricordandosi di<br />
quelli che aveva raccolti ai piedi della croce di San Dionigi, due anni prima,<br />
considerò la sua azione <strong>com</strong>e una doverosa restituzione, fatta a chi ne aveva più<br />
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urgente bisogno. Continuando alacremente la sua strada, vide un po’ più in là, in<br />
piazza San Marco, “l’abbominevole macchina della tortura”, che le autorità<br />
avevano fatto alzare non solo in quel luogo, ma in vari punti della città, per “farci<br />
applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di pena: o sequestrati<br />
che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque<br />
altro. Era uno di quei rimedi eccessivi e inefficaci dei quali, a quel tempo, e in<br />
quei momenti specialmente, si faceva tanto scialacquio”.<br />
Poco dopo incontrò un convoglio di carri pieni di morti, la più parte ignudi,<br />
buttati alla rinfusa l’uno sull’altro, i quali a ogni scossa tremolavano e si<br />
s<strong>com</strong>ponevano sconciamente: si vedevano “ciondolar teste, e chiome verginali<br />
arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già<br />
inorridito <strong>com</strong>e un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio”. Il<br />
convoglio era preceduto da un “apparitore”, che andava sonando il suo<br />
campanello, ed era scortato da monatti i quali, stando alle costole dei cavalli<br />
affaticati per il gran carico, li spingevano avanti “a frustate, a punzoni, a<br />
bestemmie”. Renzo si fermò al passaggio dei carri, e si mise a pregare<br />
fervorosamente per tutti quei morti sconosciuti, con una grande pena nel cuore,<br />
mentre gli si insinuava nella mente il pensiero tormentoso che, forse, in mezzo a<br />
quei cadaveri ammonticchiati… Cercò di scacciare il brutto pensiero,<br />
rac<strong>com</strong>andandosi al Signore e rassegnandosi alla Sua Santa Volontà. Ripreso il<br />
cammino, sboccò in Borgo Nuovo, dove vide uno che doveva essere certamente<br />
un sacerdote, benché fosse in farsetto, perché, ritto accanto a una porta chiusa,<br />
teneva l’orecchio appoggiato allo spiraglio, evidentemente per ascoltare una<br />
confessione. Renzo si rincorò alla vista di lui, pensando che, <strong>com</strong>e prete, doveva<br />
avere almeno un po’ di carità e di buona grazia; e avvicinatosi, ma non troppo, gli<br />
fece capire che aveva qualcosa da dirgli. Colui si fermò ad ascoltarlo, e il giovane<br />
gli chiese l’indirizzo di don Ferrante; il buon prete glielo poté fornire, e insieme<br />
gli diede delle chiare indicazioni sulla strada da seguire per giungere a quella casa.<br />
Renzo lo ringraziò di tutto cuore, quindi lo mise al corrente della povera vedova<br />
abbandonata con i suoi numerosi bambini. Il bravo sacerdote ringraziò a sua volta<br />
dell’avviso che gli aveva dato, e assicurò che si sarebbe occupato personalmente<br />
della cosa, onde rimediare a quella dimenticanza.<br />
Il nostro giovane si rimise in cammino, seguendo l’itinerario indicatogli, ma<br />
sentiva crescere nel cuore una grave preoccupazione, anzi un’angoscia che<br />
l’attanagliava alla gola: ora stava per giungere al termine delle sue ricerche, e tra<br />
poco avrebbe ascoltato la sentenza, o di vita o di morte. Si sentiva tutto<br />
emozionato, tutto sottosopra: tra poco avrebbe potuto rivederla, la sua Lucia; ma<br />
avrebbe anche potuto sapere che era morta; ormai vicino alla soluzione di tutti i<br />
suoi angosciosi dubbi, il cuore di Renzo non resisteva al cimento, e invece di<br />
essere vicino alla meta, avrebbe preferito essere ancora all’inizio del viaggio,<br />
nella più assoluta incertezza.<br />
Stava attraversando uno dei rioni più desolati dalla peste: tutti gli usci chiusi<br />
per la paura dei monatti e il sospetto degli untori; molti inchiodati e sigillati,<br />
perché visitati dalla peste; altri spalancati, perché in casa non era rimasto più<br />
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nessuno, e la roba era stata depredata dai monatti o da altri malviventi; alcuni<br />
infine crociati col carbone, “per indizio ai monatti, che c’eran dei morti da portar<br />
via”. I pochi passanti camminavano nel mezzo della strada, sospettosi e<br />
guardinghi, con le barbe lunghe e incolte, coi capelli prolissi e in disordine, dato<br />
che tutti i barbieri erano diventati sospetti, dopo che uno di essi (quel<br />
Giangia<strong>com</strong>o Mora di cui si è già parlato) era stato giustiziato <strong>com</strong>e untore.<br />
Regnava dappertutto un silenzio di morte, interrotto soltanto, qua e là, da quel<br />
funesto rotolìo dei carri, ac<strong>com</strong>pagnato dai sinistri squilli dei campanelli degli<br />
apparitori, e dalle urla, dalle canzonacce e anche dalle bestemmie dei monatti, che<br />
la facevano ovunque da padroni. I pochi superstiti, chiusi nelle case semivuote,<br />
con le finestre e le porte sbarrate, a questi infausti rumori della strada, che<br />
rimbombavano cupamente nei vuoti cortili, si sentivano stringere il cuore <strong>com</strong>e in<br />
una morsa angosciosa. Eppure gli animi erano induriti e quasi inselvatichiti dallo<br />
spettacolo continuo della morte e di tutte le miserie che l’ac<strong>com</strong>pagnavano; i più<br />
ormai non avevano nessun riguardo, nessuna pietà, neppure per i congiunti.<br />
Talora, orribile a dirsi, gli stessi familiari gettavano dalle finestre i cadaveri dei<br />
propri congiunti, per liberarsene al più presto e senza l’intervento dei monatti, che<br />
erano temuti più della peste medesima. Certamente non tutti si erano abbrutiti a tal<br />
punto; la religione ispirava ancora conforto e infondeva coraggio e spirito di carità<br />
a quelli che la sentivano profondamente. Quando al mattino, a mezzogiorno e a<br />
sera sonavano mestamente le campane per la recita simultanea delle preghiere<br />
ordinate dall’Arcivescovo, si vedevano delle persone affacciarsi alle finestre e<br />
pregare insieme piamente: “avreste sentito – aggiunge il Manzoni – un bisbiglio di<br />
voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto”.<br />
In mezzo a questo spettacolo desolato e nello stesso tempo <strong>com</strong>movente,<br />
Renzo si stava avvicinando alla via dove abitava don Ferrante, allorché incontrò<br />
un altro convoglio di carri, fermi in mezzo alla strada, in attesa che venisse<br />
<strong>com</strong>pletato il loro carico di morte. Dei monatti trasportavano cadaveri dalle case e<br />
li buttavano alla rinfusa gli uni sugli altri sopra ai carri; e il giovane notò con<br />
raccapriccio <strong>com</strong>e alcuni di quei ribaldi portassero “pennacchi e fiocchi di vari<br />
colori”, <strong>com</strong>e segno di allegria e quasi per irrisione al pubblico lutto. Affrettò il<br />
passo per superare al più presto possibile quel triste convoglio, allorché una scena<br />
<strong>com</strong>movente lo fece fermare, senza che lui se ne accorgesse. Usciva da una casa,<br />
diretta verso i carri, una mamma ancor giovane, con in braccio una bambina,<br />
morta, ma tutta agghindata <strong>com</strong>e per una festa, con un candido e ricco vestito da<br />
Prima Comunione, coi capelli ben pettinati e divisi da una sottile scriminatura. Il<br />
volto della donna mostrava, nei lineamenti affilati, “una bellezza velata e<br />
offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale”. Teneva<br />
stretta amorosamente al petto la figlioletta, la quale appoggiava il visino<br />
sull’omero materno, <strong>com</strong>e se dormisse; “se non che una manina bianca a guisa di<br />
cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza”. Ammirevole<br />
madre! Aveva visto morire questa bambina, il marito, altri figli, aveva visto<br />
distrutta la sua famiglia, la sua felicità terrena, ma non si era abbandonata alla<br />
disperazione né alla desolata inerzia; la fede la sosteneva: non lamenti, non grida,<br />
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non gesti s<strong>com</strong>posti, ma sofferenza consapevole e rassegnata. L’amore la sostiene<br />
sino all’ultimo, dandole una straordinaria forza morale proprio nel deperimento<br />
fisico: ”la sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan<br />
lacrime, ma portavano segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so<br />
che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a<br />
sentirlo”.<br />
Questa madre, in cui la religione ha sublimato il dolore, e il dolore ha<br />
sublimato la religione, rendendo la fede più viva e profonda, è l’incarnazione<br />
terrena della “Mater Dolorosa”, la raffigurazione indimenticabile della vera, della<br />
grande madre cristiana, forte nel dolore perché grande nell’amore. La descrizione<br />
di questa donna, sbozzata dall’Autore con tratti di rara efficacia rappresentativa, è<br />
tutta pervasa da una lirica <strong>com</strong>mozione, che investe anche la figlioletta che porta<br />
in braccio, l’indimenticabile Cecilia. La <strong>com</strong>mozione che spirava da questa scena<br />
insolita di amore materno era tale, che ne restarono toccati anche gli animi più<br />
duri.<br />
“Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie<br />
d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria”. La donna ricusò di<br />
consegnargliela, “senza però mostrare sdegno né disprezzo”; fece capire al<br />
monatto che desiderava deporla e ac<strong>com</strong>odarla lei stessa sul carro; e dandogli una<br />
borsetta piena di denaro, gli fece promettere di non toglierle nulla di dosso, alla<br />
bambina, e di seppellirla così <strong>com</strong>e stava. Il rozzo uomo, quasi <strong>com</strong>mosso, si mise<br />
la mano al cuore in atto di solenne giuramento; quindi si adoperò premurosamente<br />
“a fare un po’ di posto sul carro per la morticina”, mosso non tanto<br />
dall’inaspettata ri<strong>com</strong>pensa, quanto dal “nuovo sentimento da cui era <strong>com</strong>e<br />
soggiogato”. La madre, baciata un’ultima volta la bambina, l’adagiò con cura<br />
nello spazio a lei riservato, ve la <strong>com</strong>pose amorosamente con le manine in croce,<br />
quindi la coprì con un lindo lenzuolino, salutandola con queste semplici ma<br />
accorate parole: “Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per<br />
restare sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri”.<br />
Queste parole dimostrano quale rassegnazione, quale confortante certezza sa<br />
donare la santa speranza cristiana a chi possiede la fede.<br />
Dopo aver dato l’estremo saluto alla figliola, si rivolse al monatto pregandolo,<br />
quando sarebbe ripassato di lì verso sera, di salire in casa a prendere lei e una<br />
bambina più piccola; con questa si affacciò poco dopo alla finestra, per dare un<br />
ultimo sguardo al frutto delle sue viscere, che si allontanava sul carro verso<br />
l’estrema dimora. La piccina che stringeva al seno era ancora viva, ma col visino<br />
già segnato dalla morte. Dinanzi a questo straziante, ma anche cristianamente<br />
consolante spettacolo, la <strong>com</strong>mozione del Manzoni si effonde in parole pervase di<br />
flebile lirismo: “E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le<br />
rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? <strong>com</strong>e il fiore già rigoglioso<br />
sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che<br />
pareggia tutte l’erbe del prato”.<br />
Renzo, fortemente <strong>com</strong>mosso per quello che aveva visto e udito, sentì il<br />
bisogno di rivolgersi a Dio con una breve ma fervorosa preghiera: “O Signore!<br />
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esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno<br />
patito abbastanza!” Aveva appena ripreso il cammino, profondamente turbato,<br />
quando fu colpito da una nuova visione di miseria e di dolore: un gruppo di<br />
ammalati condotti dai monatti al lazzaretto. Era uno spettacolo che stringeva il<br />
cuore: chi piangeva, chi vanamente si ribellava, chi si lamentava con voce fioca,<br />
chi camminava <strong>com</strong>e insensato. Ma anche in mezzo a quella turba d’infelici non<br />
mancava “qualche esempio di fermezza e di pietà” e qualche scena<br />
particolarmente <strong>com</strong>movente: “fanciulline che guidavano i fratellini più teneri e,<br />
con giudizio e con <strong>com</strong>passione da grandi, rac<strong>com</strong>andavano loro d’essere<br />
ubbidienti, li assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura<br />
di loro per farli guarire”. Renzo si mise a osservare con grande ansietà e<br />
sospensione d’animo quegli ammalati, a mano a mano che gli passavano davanti,<br />
per vedere se, per caso, tra essi ci fosse la sua Lucia, tanto più che ormai la casa<br />
dove costei era ospitata non doveva essere lontana. Quando la miserabile turba fu<br />
tutta passata, il poveretto, ancora col cuore in gola, si rivolse a un monatto, che<br />
camminava in coda al gruppo, per chiedergli la precisa ubicazione della casa di<br />
don Ferrante. <strong>“I</strong>n malora, tanghero.” gli rispose quello con disprezzo; ma un<br />
<strong>com</strong>missario che veniva più dietro, al quale Renzo rivolse la stessa domanda, si<br />
mostrò più umano e gli fornì l’indicazione richiesta: “la prima strada a diritta,<br />
l’ultima casa grande a sinistra”.<br />
Sboccato nella strada indicatagli, il giovane scorse subito in fondo a mancina<br />
un palazzo signorile: Lucia era lì, almeno lo sperava; <strong>com</strong>unque lì avrebbe<br />
ricevuto la sua sentenza di vita o di morte: il cuore <strong>com</strong>inciò a martellargli in<br />
petto più violentemente. Arrivato al portone, prende in mano il picchiotto quasi<br />
tremando; prima di dare il colpo esita un poco, poi si fa coraggio e si decide. Il<br />
picchio risuona cupo e all’interno della casa e dentro le sue orecchie, che gli<br />
ronzano per l’emozione. Dopo pochi secondi da una finestra fa capolino una<br />
donna, con aria di sospetto: monatti? untori? malandrini? Renzo le domanda se<br />
c’è lì a servire una ragazza di campagna, di nome Lucia. Colei risponde che non<br />
c’è più, e fa l’atto di richiudere; ma il giovane la prega che, per carità, gli dica<br />
dov’è andata. “Al lazzaretto”, risponde quella sgarbatamente e vuole ancora<br />
chiudere; ma Renzo la supplica di attendere un momento, insiste: vorrebbe sapere<br />
quando è stata portata al lazzaretto, se era molto ammalata; ma la sgarbata, senza<br />
dargli ascolto, ha già richiuso la finestra.<br />
“Afflitto della nuova e arrabbiato della maniera” il giovane afferra di nuovo il<br />
martello, con l’intenzione di picchiare ancora e alla disperata, per farsi aprire, per<br />
sapere quello che gli preme; ma volgendo lo sguardo intorno, per vedere se c’è<br />
qualcuno nella via a cui poter fare le sue domande, scorge a poca distanza una<br />
vecchia la quale, con occhi stralunati, fa convulsi cenni con le mani <strong>com</strong>e per<br />
chiamar gente. Intuisce subito che l’ha preso per untore e vuole organizzare la<br />
caccia all’uomo; alterato, alza le mani minacciose contro la donna che, vistasi<br />
scoperta, ancora più spiritata lancia il grido spaventoso: “l’untore! dagli! dagli!<br />
dagli all’untore!” Renzo sente <strong>com</strong>e una frustata in viso; grida inviperito: “Chi?<br />
io! ah strega bugiarda! sta zitta!” e fa per scagliarsi contro quella megera, “per<br />
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impaurirla e farla chetare”. Ma si accorge che è già accorsa gente; anche quella<br />
sgraziata del palazzo si è riaffacciata alla finestra, per gridare all’untore; ormai<br />
non c’è tempo da perdere: bisogna svignarsela di lì prima che i nemici siano<br />
troppi, da poterlo accerchiare. Sceglie la direzione più libera, e via di corsa: alcuni<br />
cercano di sbarrargli la strada, per tagliargli la ritirata, ma il nostro giovane, ormai<br />
scatenato e galvanizzato dal pericolo, li respinge con pugni e con urtoni, senza<br />
riguardo, e via di gran carriera. Ma vedendo che gli inseguitori non desistevano,<br />
ma lo incalzavano gridando a più non posso, per chiamar gente, Renzo a un certo<br />
punto non ci vede più per la rabbia e, preso dalla disperazione, si ferma a un<br />
tratto, e brandendo il suo coltellaccio grida furibondo, con gli occhi fuori dalle<br />
orbite: “chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo”.<br />
E rimase lì fremente, piantato in mezzo alla strada con le gambe divaricate,<br />
dimenando per l’aria da una parte il coltello, dall’altra il suo pugno nocchiuto.<br />
Per fortuna gli inseguitori si erano fermati, <strong>com</strong>e titubanti; ma continuavano a<br />
gridare e facevano “cenni da spiritati, <strong>com</strong>e a gente che venisse di lontano dietro a<br />
lui”. Voltatosi, Renzo vide un convoglio di carri mortuari, e oltre quello un<br />
gruppetto di gente che si era radunata alle grida, vogliosa anch’essa di dare<br />
addosso all’untore, non appena si fosse tolto di mezzo quel sinistro impedimento.<br />
Vedendosi preso tra due fuochi, capì che l’unica salvezza era per lui quel<br />
convoglio, il quale invece per coloro rappresentava il maggiore ostacolo; e senza<br />
pensarci due volte prese la rincorsa e con un bel salto si issò sopra uno di quei<br />
carri, in mezzo alle acclamazioni dei monatti. Ma i suoi nemici, pur a distanza,<br />
inveivano e minacciavano, gridando a squarciagola contro l’untore; allora uno dei<br />
monatti, per farli scappare, prese da sopra un cadavere un cencio lordo di marcia,<br />
lo annodò strettamente, quindi roteandolo a guisa di fionda fece finta di lanciarlo<br />
contro di loro; bastò la mossa, e quelli subito fuggirono a gambe levate, mentre i<br />
monatti levavano un urlo di vittoria.<br />
Il giovane ringrazia di cuore i suoi salvatori, di cui uno gli dice: “Fai bene a<br />
ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non<br />
quando son morti.” Renzo non risponde né osa smentire la taccia d’untore: guai a<br />
lui, perderebbe immediatamente la benevola protezione di quei birboni, e<br />
correrebbe guai seri; perciò se ne sta zitto, aspettando gli eventi. Intanto coloro<br />
<strong>com</strong>inciano a trincare da un gran fiasco; e uno di essi, quand’ebbe il recipiente tra<br />
le mani, si rivolse con un ghigno diabolico al padrone del vino, che era tra quei<br />
morti, e con ironia beffarda lo apostrofò così: “Si contenta, padron mio, che un<br />
povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe<br />
vite: siam quelli che l’abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura.” Il<br />
brindisi eccitò le risa sguaiate di quei ribaldi, che offrirono da bere anche a Renzo<br />
il quale declinò l’offerta ringraziando, dicendo che proprio non ne sentiva la<br />
voglia. Allora uno dei <strong>com</strong>pagnoni gli disse, con un tono di “<strong>com</strong>passione<br />
sprezzante”, prendendo lui il fiasco: “Bisogna che il diavolo col quale hai fatto il<br />
patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un<br />
bell’aiuto”. E in mezzo all’ilarità generale avvicinò il fiasco alla bocca, bevendo a<br />
garganella.<br />
217
Mentre quelli ridevano dell’untore novellino, costui pensava, in silenzio, a<br />
<strong>com</strong>e liberarsi dai suoi liberatori, e stava all’erta per approfittare di ogni occasione<br />
favorevole, per squagliarsela senza che coloro potessero fare una scenata che<br />
mettesse in sospetto i passanti. Quando si accorse di essere sul corso di Porta<br />
Orientale, dalla quale si esce per andare al lazzaretto, capì che quello era il luogo<br />
opportuno, perché conosceva la strada, e poteva quindi allontanarsi senza doverne<br />
chiedere ad alcuno. E sic<strong>com</strong>e un <strong>com</strong>missario aveva fermato il convoglio,<br />
ordinando non so che cosa, ne approfittò subito per svignarsela; ringraziato il<br />
monatto che gli era vicino, saltò giù dal carro cercando di allontanarsi senza dare<br />
nell’occhio; ma colui, a guisa di saluto, lo apostrofò con aria di scherno: “Va, va,<br />
povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”. Per fortuna lì vicino non<br />
c’era nessuno che potesse sentire queste parole, e Renzo, allontanatosi quatto<br />
quatto, si affrettò a uscire da Porta Orientale, donde si diresse al lazzaretto.<br />
218
CAPITOLO XXXV<br />
Se tutta la città era piena di miserie e di dolore, il lazzaretto era però tutto un<br />
dolorante spettacolo, un “immenso covile” di morti, di ammalati, di frenetici, di<br />
convalescenti, di personale di servizio; nel vasto recinto era <strong>com</strong>e un brulichio di<br />
povera umanità, dalla quale si levava per l’aria un confuso ronzio, formato di<br />
pianti, di gemiti, di grida, “di voci alte e fioche” <strong>com</strong>e dice Dante del suo<br />
inferno; 10 e questo ronzio si aggirava perenne, notte e giorno, senza mai alcuna<br />
pausa, entro le mura che chiudevano da ogni parte questo miserabile “soggiorno<br />
dei guai”. Già dal di fuori Renzo ebbe la prima dolorosa impressione e <strong>com</strong>e il<br />
preannuncio di ciò che andrebbe a vedere: ammalati pallidi e macilenti che si<br />
trascinavano verso l’ingresso, altri che languivano distesi lungo il fossato esterno,<br />
altri infine che andavano errando qua e là, balordi o forsennati; un poveretto,<br />
sedutosi giù nel fondo del fossato, cantava a squarciagola una “villanella”; un<br />
altro, nella frenesia della febbre, era salito a furia su di un cavallaccio, lasciato lì<br />
incustodito, e lo aveva lanciato, tempestandolo di pugni e di calci, a una corsa<br />
sfrenata in mezzo ai poveri languenti, lasciandosi dietro un nuvolone di polvere.<br />
Entrato dalla porta che si apriva verso le mura della città, il giovane notò che,<br />
da lì alla cappella centrale e da questa alla porta dirimpetto, c’era <strong>com</strong>e un viale<br />
sgombro di capanne, che alcuni inservienti stavano liberando da ogni altro<br />
impedimento, facendo anche allontanare la gente non addetta a quel lavoro.<br />
Renzo, temendo di essere mandato via, si cacciò a destra, in mezzo alle capanne, e<br />
<strong>com</strong>inciò la sua ricerca, osservando in viso tutti gli ammalati giacenti allo<br />
scoperto, su un po’ di fetida paglia, e facendo anche capolino in ciascuna capanna,<br />
per guardare i degenti che vi erano ricoverati. Ma vedendo che erano tutti uomini,<br />
pensò che le donne fossero in un luogo a parte; e decise di avanzare, continuando<br />
a cercare finché non le avesse trovate. Incontrava ogni tanto gli addetti<br />
all’assistenza, sia secolari che cappuccini, “tanto diversi d’aspetto e di maniere e<br />
d’abito, quanto diverso e opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una<br />
forza uguale di vivere in tali servizi: negli uni l’estinzione di ogni senso di pietà,<br />
negli altri una pietà sovrumana”. Neppure agli inservienti il giovane volle<br />
rivolgere domande, nel timore di crearsi degli ostacoli alla sua ricerca; continuò<br />
perciò ad avanzare così, <strong>com</strong>e in esplorazione.<br />
L’afa andava crescendo, a causa della bassa pressione; il cielo era tutto<br />
coperto di oscuri nuvolosi, dai quali traspariva appena la sfera del sole, che<br />
diffondeva “un calore morto e pesante”. Si udiva ogni tanto un brontolìo di tuoni<br />
lontani; l’aria era immota e greve; non si vedeva né muovere una frasca né volare<br />
un uccello; solo le rondini talora planavano entro il recinto del lazzaretto, ma<br />
subito riprendevano quota, quasi impaurite dal triste e caotico spettacolo.<br />
10 Inf. III, 27<br />
219
L’oppressione dell’atmosfera faceva repentinamente peggiorare gli infermi,<br />
aumentando i dolori dell’agonia; quasi tutti i degenti davano in smanie, affannati,<br />
sentendosi mancare il respiro.<br />
Renzo aveva girato un bel po’ senza ancora trovare le donne, quando lo colpì<br />
un suono misto di vagiti e di belati: era infatti giunto al reparto dei bambini,<br />
protetto da un assito. Mise l’occhio a uno spiraglio tra tavola e tavola, e vide il<br />
<strong>com</strong>movente spettacolo di quell’improvvisato “spedale d’innocenti”. Sia le<br />
capanne sia il terreno circostante era cosparso di materassini o cuscini o lenzuoli,<br />
con sopra dei lattanti; tra di essi si aggiravano delle balie e anche delle capre; si<br />
vedeva qualcuna di queste bestiole avvicinarsi, quasi con istinto materno, a un<br />
bambino piangente, e tentare di porgergli la mammella, belando <strong>com</strong>e per<br />
invocare aiuto. Delle balie adibite all’allattamento di quegli orfanelli, qualcuna si<br />
stringeva al seno la creatura non sua con tale “atto d’amore”, che faceva capire di<br />
essere andata colà non per la paga, ma per “quella carità spontanea che va in cerca<br />
dei bisogni e dei dolori” altrui, per lenirli; tal’altra invece, “abbandonando il suo<br />
petto al lattante straniero”, sedeva triste e accorata, pensando al proprio figliolo,<br />
che pure aveva succhiato quel latte, e ora non c’era più; la sconsolata fissava lo<br />
sguardo assente davanti a sé, tutta assorta nel suo segreto tormento; e di tanto in<br />
tanto alzava verso il cielo plumbeo gli occhi sgomenti.<br />
La vista di quei pargoli innocenti intenerì Renzo, e lo tenne lì a contemplare<br />
più di quanto avrebbe voluto. Allorché, ancora tutto <strong>com</strong>mosso, riprese il suo<br />
cammino, vide di sfuggita, in lontananza, un cappuccino che gli parve tutto padre<br />
Cristoforo. Ebbe <strong>com</strong>e un sussulto al cuore, e subito affrettò il passo, per<br />
rintracciarlo tra le capanne in mezzo alle quali lo aveva visto sparire. Dopo un po’<br />
di ricerca, fatta con l’emozione che potete immaginare, in quell’andirivieni di<br />
capanne, finalmente lo ritrovò, che stava accingendosi a consumare una scodella<br />
di minestra, seduto sull’uscio di una capanna: era proprio lui, il suo buon frate!<br />
Questi, appena scoppiata la peste a Milano, aveva pregato i suoi superiori di<br />
esserci mandato, per la cura degli appestati, nella speranza di poter dare la sua vita<br />
a servizio del prossimo, <strong>com</strong>e aveva sempre desiderato ardentemente. Il Conte zio<br />
era morto, era morto pure il Padre provinciale, i quali si erano messi d’accordo per<br />
tenerlo lontano dal Milanese; quindi non ci furono difficoltà per l’accoglimento<br />
della sua domanda, ed era infatti al lazzaretto da circa tre mesi.<br />
La gioia che il giovane provò nel rivederlo dopo quasi due anni, fu subito<br />
offuscata dal costatare in che stato fisico lo ritrovava: si vedeva proprio che era<br />
esaurito dalla fatica e dal male, e che si trascinava ancora al servizio del prossimo<br />
solo mediante un grande e continuo sforzo di volontà. Il viso era smunto,<br />
l’andatura cascante, la voce fioca; soltanto gli occhi, pur infossati nelle orbite,<br />
erano quelli di sempre, anzi apparivano più vivi e <strong>com</strong>e splendenti: “quasi la<br />
carità, sublimata nell’estremo dell’opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo<br />
principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l’infermità ci<br />
andava a poco a poco spegnendo.” Nell’esaurimento delle risorse corporee,<br />
nell’imminenza della morte materiale il santo frate sentiva la gioia di potersi<br />
presto ricongiungere al Creatore, nella vera vita.<br />
220
Il cappuccino aveva scorto a sua volta Renzo che veniva verso di lui, e<br />
sommamente meravigliato posò la scodella a terra e si alzò per andargli incontro.<br />
Dopo i primi <strong>com</strong>mossi saluti e lo scambio delle notizie essenziali, il padre chiese<br />
con ansia di Lucia, e rimase molto colpito nel sapere che era stata portata lì al<br />
lazzaretto; chiese quando ci fosse entrata, ma purtroppo il giovane non poté<br />
precisarglielo. Domandò poi a costui che cosa mai avesse <strong>com</strong>binato a Milano<br />
nella famigerata giornata di San Martino; e Renzo confessò francamente che quel<br />
giorno non aveva avuto giudizio, ma che non aveva <strong>com</strong>messo niente di<br />
riprovevole, e la cattura non poteva spiegarsi che <strong>com</strong>e una montatura della<br />
polizia, basata su falsi indizi. Il frate disse che ne era convinto anche prima, ma<br />
aveva voluto sentirne la conferma dalla sua bocca; quindi, vedendolo piuttosto<br />
pallido, gli chiese se avesse pranzato; e saputo che non mangiava dal giorno<br />
prima, andò a riempire una scodella di minestra e la porse al giovane con un<br />
cucchiaio, dopo averlo fatto sedere sul suo saccone; quindi andò a spillare un<br />
bicchiere di vino per il suo ospite, il quale ringraziò <strong>com</strong>mosso. Il Padre rispose<br />
che non doveva ringraziare lui, ma la Provvidenza, e soggiunse con tono ispirato:<br />
“è roba dei poveri, ma anche tu sei un povero, in questo momento”.<br />
Tra una cucchiaiata e l’altra Renzo diede al Cappuccino tutte le altre notizie<br />
che sapeva su Lucia e Agnese; raccontò del rapimento della ragazza, il quale<br />
mozzò letteralmente il fiato al buon frate, che si sentiva in un certo senso<br />
corresponsabile dell’accaduto, avendo indirizzato lui Lucia a Monza; ma si<br />
rianimò subito, nel sentire la miracolosa liberazione. Provò una viva consolazione<br />
nel costatare ancora una volta che il Buon Dio veglia sulle sue creature, e talora<br />
interviene direttamente per salvarle, allorché tutti i mezzi umani sono falliti allo<br />
scopo, e non si può sperare che in Lui. Continuando il suo racconto, il giovane<br />
disse che, dopo la liberazione, Lucia era stata allogata presso una nobile e pia<br />
gentildonna, lì a Milano, sin dall’autunno del 1628; che lui in mattinata si era<br />
recato a quella casa, dove aveva saputo che era stata portata al lazzaretto, ma non<br />
gli avevano voluto dire né quando né in quali condizioni; perciò si era messo a<br />
cercarla alla cieca, senza avere alcun indizio, ma finora non aveva visto che<br />
uomini: dov’era dunque il reparto delle donne?<br />
Fra Cristoforo rispose che in quel reparto con potevano entrare che le persone<br />
espressamente addette; la norma era giusta e andava rispettata, anche se fosse<br />
mancata una vigilanza e una sanzione; ma lui ci si recava con rette intenzioni, ne<br />
era sicuro, per cui non poteva vietargli di andarci, anzi in un certo qual modo lo<br />
autorizzava a farlo. Dopo avergli indicato l’ubicazione del reparto femminile,<br />
protetto da uno steccato che però offriva qualche passaggio, aggiunse con tono di<br />
solenne ammonimento: “Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a<br />
nessuno, nessuno probabilmente non dirà nulla a te. Se però ti si facesse qualche<br />
ostacolo, di’ che il padre Cristoforo da *** ti conosce e renderà conto di te.<br />
Cercala lì; cercala con fiducia e… con rassegnazione… Va preparato a fare un<br />
sacrificio…”<br />
Renzo, all’idea che Lucia poteva essere già morta, fu preso dall’accoramento;<br />
con la paura si riaccese il suo risentimento contro chi aveva impedito con la forza<br />
221
il suo matrimonio; il rancore, rinfocolato dal terribile dubbio, gli fece perdere il<br />
controllo e, con gli occhi biechi e col volto stravolto, disse con forza che, se non<br />
l’avesse trovata, avrebbe cercato un altro, cagione di tutti i suoi guai; lo avrebbe<br />
certamente trovato, magari a casa del diavolo e, se la peste non aveva già fatto<br />
giustizia di quel maledetto ribaldo, ci avrebbe pensato lui…<br />
Il Padre, nel sentire questi truci propositi di vendetta, in un giovane che aveva<br />
sempre ritenuto pio e degno di Lucia, si alterò anche lui, passando dal dolore allo<br />
sdegno; e non si tenne dal rimproverarlo aspramente, chiamandolo ripetutamente<br />
“sciagurato”, a tal punto anche lui aveva perduto la calma; quindi stringendolo<br />
fortemente a un braccio, con la mano tesa e tremante gli mostrò la vasta scena del<br />
dolore, che si spiegava tutto all’intorno, esclamando: “Guarda chi è Colui che<br />
castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona!<br />
Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia!... Va’! Non ho più tempo di darti<br />
retta”. Ma avendolo Renzo supplicato di non abbandonarlo così, mostrando anche<br />
di essersi pentito delle sue parole insensate, il frate lo apostrofò ancora con voce<br />
severa: “Come! Ardiresti tu di pretendere ch’io rubassi il tempo a questi afflitti, i<br />
quali aspettano ch’io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di<br />
rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta?”<br />
Renzo, <strong>com</strong>mosso e profondamente dispiaciuto del suo sfogo così poco<br />
cristiano, scosso da quelle parole dure ma vere del caro Padre, esclamò con tutto il<br />
cuore: “Ah gli perdono! Gli perdono davvero, gli perdono per sempre!”<br />
Avendogli il frate chiesto, con tono di rimprovero, quante volte gli avesse<br />
perdonato, tutto confuso rispose: “Capisco che non gli avevo mai perdonato<br />
davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora, con la grazia<br />
del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore”. Allora il Cappuccino, dopo avergli<br />
ricordato che il Signore ci ha <strong>com</strong>andato non solo di perdonare ai nostri nemici,<br />
ma anche di amarli, <strong>com</strong>e li ha amati Lui, disse che l’uomo, che lui voleva<br />
uccidere, era lì al lazzaretto da quattro giorni, e forse Iddio aspettava la sua<br />
preghiera sincera per fargli la grazia di una santa morte. Gli chiese quindi che<br />
cosa farebbe, se lo vedesse; e avendo ricevuto la risposta che si attendeva da un<br />
animo contrito, che cioè avrebbe pregato Dio affinché gli toccasse il cuore, strinse<br />
fortemente il braccio di Renzo, e così tenendolo lo condusse senz’altro alla<br />
capanna dove colui era ricoverato.<br />
In mezzo ad altri appestati, don Rodrigo giaceva insensato e quasi<br />
irriconoscibile, col viso cosparso di nere lividure e con le labbra gonfie e di colore<br />
oscuro. Nel vedere il prepotente signorotto ridotto in quel miserabile stato, il<br />
nostro giovane rimase senza fiato, profondamente <strong>com</strong>mosso; e seguendo<br />
l’esempio del frate, anche lui giunse le mani e pregò fervorosamente il Signore<br />
per la salvezza di quel fratello, affinché potesse ottenere qualche momento di<br />
lucidità per conoscere il suo stato e pentirsi del suo passato peccaminoso. Quindi<br />
uscirono in silenzio e si separarono subito: l’uno tornò ai suoi malati, l’altro alla<br />
sua difficile ricerca.<br />
222
CAPITOLO XXXVI<br />
Fra Cristoforo aveva detto a Renzo che, prima di recarsi al quartiere delle<br />
donne, andasse a vedere la processione dei guariti, che tra poco padre Felice<br />
avrebbe guidato, partendo dalla cappella centrale; gli augurò di poterla trovare lì,<br />
tra le donne guarite, le quali uscendo dal lazzaretto sarebbero andate a passare la<br />
quarantena in un ospizio; se non l’avesse trovata tra quelle, poteva sperare di<br />
rintracciarla tra le malate, nel reparto che gli aveva indicato. Il giovane, quindi, si<br />
avviò senz’altro verso la chiesa, dove i partecipanti alla processione erano già<br />
radunati, e stavano in quel momento ascoltando la predica di fra Felice, della<br />
quale anche lui poté ascoltare una parte. Il Cappuccino invitava i guariti a<br />
considerare la vita <strong>com</strong>e un dono di Dio, da spendere nelle opere che si possono<br />
offrire a Lui; e li ammoniva a essere benevoli e soccorrevoli verso chi<br />
soffre, memori dei propri patimenti e della grande grazia che avevano ricevuto da<br />
Dio Misericordioso. Aggiunse che si dovevano <strong>com</strong>portare, dopo quella dolorosa<br />
ma salutare esperienza, in maniera esemplare, in modo che, chi li guardava,<br />
ricevesse edificazione dal loro contegno; da quel momento, avendo <strong>com</strong>preso il<br />
vero valore della vita nella visione della morte, dovevano <strong>com</strong>inciare una vita<br />
tutta di carità, la quale avrebbe cancellato i loro peccati, addolcendo nel contempo<br />
il loro dolore per le persone care che avevano perduto.<br />
La moltitudine, che ascoltava in <strong>com</strong>punto silenzio, era percorsa da un fremito<br />
di <strong>com</strong>mozione, che qua e là si manifestava in gemiti sommessi; anche Renzo era<br />
intenerito e dalle parole e dall’aspetto ieratico del predicatore, che parlava con<br />
tono veramente ispirato e toccante. Finito di parlare, colui si gettò una corda<br />
intorno al collo, in simbolo di penitenza, e inginocchiatosi davanti agli astanti,<br />
chiese umilmente perdono a tutti per le manchevolezze in cui lui e i suoi<br />
confratelli fossero incorsi nel servirli, per pigrizia o impazienza o poca carità. E<br />
non erano solo belle parole, perché quel “mirabil frate” era convinto di quello che<br />
diceva; egli sentiva effettivamente <strong>com</strong>e parlava: “chiamava privilegio quello di<br />
servir gli appestati, perché lo teneva per tale… chiedeva perdono, perché era<br />
persuaso di averne bisogno”. Ma quella gente che aveva visto i cappuccini, e lui<br />
per primo, prodigarsi con tanto zelo e abnegazione, con tanta umiltà e premura,<br />
senza mai alcun risparmio, piangeva <strong>com</strong>mossa e intenerita a quelle parole del<br />
frate, pronunciate con accento sincero. Egli poi, toltisi i sandali, prese una gran<br />
croce, che era lì preparata, “se la inalberò davanti” non senza sforzo, e si mise alla<br />
testa della processione che <strong>com</strong>inciò lentamente a snodarsi dietro di lui.<br />
Renzo, con gli occhi inondati di lagrime, si tirò indietro per lasciarla passare,<br />
postandosi di fianco a una capanna, donde aveva la visuale libera; e rimase lì<br />
fermo e tutt’occhi, “con una gran palpitazione di cuore, ma insieme con una certa<br />
nuova e particolare fiducia”, che gli era fiorita nell’animo ascoltando quelle parole<br />
ardenti di carità e assistendo a quello spettacolo davvero <strong>com</strong>movente. Dietro<br />
padre Felice venivano per primi i bambini, e subito dopo le donne, le quali<br />
tenevano quasi tutte per mano una bambina, e cantavano alternatamene i versetti<br />
223
del salmo “Miserere”, sfilando a passo lento, sicché il nostro giovane aveva tutto<br />
il tempo di guardar bene quei volti pallidi, purtroppo tutti sconosciuti per lui. E<br />
mentre osservava quelle che passavano, con la coda dell’occhio gettava di tanto in<br />
tanto uno sguardo alle donne che dovevano ancora passare; e la sua speranza<br />
diminuiva a mano a mano che si accorciava la fila delle ultime. Ecco, ormai sono<br />
poche, ecco l’ultima, sconosciuta anch’essa! Il povero giovane rimase lì desolato<br />
“con le braccia ciondoloni, e con la testa piegata sur una spalla”, a guardare senza<br />
più alcun interesse, <strong>com</strong>e un insensato, il passaggio degli uomini. Si riscosse e<br />
ravvivò la sua attenzione, allorché si accorse che la processione a piedi era seguita<br />
da alcuni carri, con sopra i più deboli; e qui le donne venivano per ultime. Ancora<br />
un barlume di speranza, dunque, ancora dei palpiti, ma per poco, perché ben<br />
presto anche quei carri furono passati, portandosi via quei bricioli di speranza del<br />
nostro giovane, che rimase <strong>com</strong>e oppresso da un cupo abbattimento. Ora, svanita<br />
la speranza di trovarla guarita, rimaneva l’estrema, incerta speranza di trovarla<br />
ammalata; speranza ben misera e molto ambigua, perché, se l’avesse trovata<br />
malata, era poi sicuro che sarebbe guarita? Quanti degli ammalati guarivano? Ben<br />
pochi! Tuttavia, per non disperarsi, “il poverino s’attaccò con tutte le forze<br />
dell’animo a quel tristo e debole filo” di speranza, che lo legava ancora alla vita.<br />
Lottando contro lo scoraggiamento, si mosse per recarsi al quartiere delle donne;<br />
giunto davanti alla chiesa, si inginocchiò sui gradini esterni, e rivolse a Dio una<br />
fervida preghiera, <strong>com</strong>posta “di parole arruffate, di frasi interrotte,<br />
d’esclamazioni, d’istanze, di lamenti, di promesse”, una supplica confusa e<br />
accorata, quale poteva levarsi dal suo animo desolato.<br />
Alzatosi un po’ più fiducioso, entrò nel reparto femminile senza difficoltà; e<br />
avendo visto a terra, quasi all’ingresso, un campanello, di quelli che i serventi si<br />
legavano al piede per farsi udire dai ricoverati e riconoscere dai sovrintendenti,<br />
pensò che quello poteva essere per lui <strong>com</strong>e un lasciapassare lì dentro, e se lo<br />
allacciò al piede, accertandosi che nessuno lo vedesse. E <strong>com</strong>inciò la sua ansiosa e<br />
appassionata ricerca, di capanna in capanna, di fila in fila, ma vedeva sempre volti<br />
sconosciuti. Dopo un po’ si sentì chiamare da un <strong>com</strong>missario, che gli ordinò di<br />
andare nelle stanze sotto i portici, dove c’era bisogno di aiuto. Renzo si accorse<br />
subito della situazione equivoca, in cui si era venuto a trovare a causa del<br />
campanello; ma per non dare sospetto, fece cenno di sì con la testa e fece finta di<br />
avviarsi verso il luogo indicato; fermatosi invece tra due capanne, si affrettò a<br />
togliersi quel benedetto campanello, rivelatosi un inciampo, mentre aveva creduto<br />
che gli potesse essere di aiuto.<br />
Ma mentre, chino a terra, stava appunto slegandosi quell’arnese, tenendo<br />
involontariamente il capo quasi appoggiato alla parete di paglia di una capanna,<br />
dall’interno di questa gli giunse inaspettatamente all’orecchio una voce, quella<br />
voce!, che diceva in tono soave: “Paura di che? Abbiamo passato ben altro che un<br />
temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso”. Renzo rimase<br />
senza fiato: gli si annebbiarono gli occhi, gli tremarono le ginocchia; ma fu un<br />
momento: subito si riprese, <strong>com</strong>e rinato alla vita. Si alzò in piedi <strong>com</strong>e una molla,<br />
e in un balzo fu sull’uscio di quella capanna, dove vide proprio la sua sospirata<br />
224
Lucia. La vide in piedi, quindi guarita, che prestava le sue amorevoli cure a<br />
un’altra donna, la quale sembrava anch’essa fuori pericolo. Non ci proveremo<br />
neppure a descrivere la gioia del giovane a quella vista: gli sembrava di sognare!<br />
Lucia si voltò al rumore dei passi, e rimase <strong>com</strong>e trasognata nel vedere in carne e<br />
ossa quel Renzo che per venti mesi aveva cercato, invano, di dimenticare. Non<br />
staremo a riferire il dialogo, veramente drammatico; noteremo solo lo spirito che<br />
anima questo incontro tra i due ex-fidanzati, che ci appare <strong>com</strong>e un vero e proprio<br />
scontro tra due mentalità diverse e per molti punti antitetiche. E’ anche lo scontro<br />
tra la passione e la ragione, tra l’amore e la religione. Da una parte Renzo che<br />
cerca di far rivivere nel cuore della ragazza le memorie, le promesse, i pensieri e i<br />
desideri di una volta, annullando per così dire il tempo trascorso, eludendo o<br />
minimizzando il voto; dall’altra Lucia, che al soprassalto dei sentimenti a<br />
malapena sopiti sente con spavento vacillare la sua promessa alla Madonna, e<br />
prega ripetutamente il giovane di smetterla su quel tono, di non farla soffrire<br />
ancora, di andar via, di dimenticarla. E ribadisce che ha fatto proprio un voto, una<br />
promessa solenne alla Madonna, di non sposarsi; e quando Renzo le risponde “che<br />
son promesse che non contan nulla”, la poverina si scandalizza, e domanda<br />
inorridita: “Cosa dite?Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato?”<br />
Evidentemente Lucia, davanti all’opinione espressa da Renzo circa il suo voto,<br />
teme che egli sia diventato un miscredente; ma lui le conferma che parla da buon<br />
cristiano, e che la Madonna non vuol promesse in danno del prossimo; e propone,<br />
scandalizzando ancor di più la povera ragazza, di promettere invece alla Vergine<br />
che avrebbero chiamato Maria la prima bambina che sarebbe nata dal loro<br />
matrimonio.<br />
Lucia, dopo averlo supplicato ancora una volta di non tentarla più e di andar via,<br />
“si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio”, quasi per difendersi<br />
dai ripetuti appelli del giovane, che l’avevano profondamente sconvolta. Davanti a<br />
questo atteggiamento di ripulsa della ragazza, Renzo dimostra tutta la sua abilità:<br />
egli capisce subito che non è il caso di insistere nel minimizzare il voto, ché<br />
altrimenti Lucia si sarebbe maggiormente allarmata e messa sulla difensiva;<br />
bisognava invece aggirare l’ostacolo. Innanzi tutto, senza tentare di accostarsi a<br />
lei, perché sarebbe stato controproducente, le chiede se lei sarebbe la stessa di<br />
prima per lui, qualora non ci fosse il voto. Lucia risponde con un accorato<br />
rimprovero, più significativo di qualunque “sì ”: “Uomo senza cuore! Quando<br />
m’aveste fatto dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle<br />
parole che sarebbero forse peccati, sareste contento?” E torna a pregarlo, per amor<br />
del Cielo, di lasciarla in pace, di tornarsene per la sua strada e di non pensare più a<br />
lei… se non quando pregherà il Signore. Questa concessione, che Lucia fa ora, di<br />
essere ricordata nella preghiera, è una ammissione indiretta che il suo cuore batte<br />
ancora per Renzo, da cui non vuole essere dimenticata, se non altro nella<br />
preghiera. Il giovane intuisce con intima gioia che la ragazza, in fondo, è ancora<br />
tutta sua; ma abilmente non insiste sull’argomento dell’amore, che lei avrebbe<br />
considerato <strong>com</strong>e un attentato alla sacertà del voto, e cerca di interessarla con altri<br />
argomenti che la distraggano e l’attraggano, impedendole di rimanere sempre in<br />
225
quello stato di allarmata difensiva. Comincia perciò a parlarle dell’incontro avuto<br />
poco prima con padre Cristoforo: Lucia prova una forte emozione a quella notizia<br />
veramente inattesa, e non crede quasi ai suoi orecchi nel sentire che è lì nel<br />
lazzaretto a curare i malati; si addolora nell’udire che il buon frate è in condizioni<br />
fisiche pietose; e chiedendo con ansia altre notizie di lui, si riaccosta a Renzo<br />
senza accorgersene.<br />
Il giovane, vedendola così interessata e <strong>com</strong>mossa, ritorna sul voto, per<br />
invalidarlo per mezzo dell’autorità del padre Cristoforo; è un argomento specioso,<br />
che potremmo esporre in questa specie di sillogismo: i santi non possono<br />
sbagliare; ma fra Cristoforo, che è un santo, ha approvato il mio proposito di<br />
venirti a cercare; dunque il voto non ha nessun valore. Lucia ribatte che il frate ha<br />
parlato così, perché non sa niente del voto; ma Renzo ripete che quello è un santo,<br />
e i santi parlano ispirati da Dio, il quale sa tutto. Poi passa a parlare di don<br />
Rodrigo, raccontando dove e <strong>com</strong>e l’ha visto, aggiungendo di aver pregato<br />
sinceramente per lui assieme al Padre, proprio davanti al suo giaciglio. A quella<br />
descrizione, a quella notizia così inaspettata, Lucia “stava tutta <strong>com</strong>presa d’orrore<br />
e di <strong>com</strong>passione”. Allora il giovane, cercando di far servire per il suo scopo<br />
anche questo fatto, mette in campo un altro argomento, veramente labile, per<br />
quanto lui si sforzi di farlo apparire convincente. Egli afferma in definitiva che<br />
Dio non potrebbe perdonare a don Rodrigo, se il male da lui fatto non fosse<br />
rimediato; e non potrebbe essere rimediato che con la celebrazione del<br />
matrimonio che lui appunto aveva impedito. Ragionamento molto sforzato, <strong>com</strong>e<br />
ognun vede, e che non dimostra assolutamente nulla; ma se Renzo cercava di<br />
arrampicarsi pure sugli specchi, aveva le sue ragioni, e noi lo <strong>com</strong>patiamo se la<br />
sua dialettica è piuttosto capziosa. Lucia avverte subito che è un ragionamento<br />
storto, e risponde subito: “No, Renzo, no: il Signore non vuole che facciamo del<br />
male, per far Lui misericordia”. Il giudizio della ragazza è chiaro e pieno di buon<br />
senso: Dio non può volere che noi facciamo del male, violando il voto, affinché<br />
Lui possa perdonare don Rodrigo.<br />
Non essendo riuscito a smuoverla con questi due argomenti, Renzo ne tenta un<br />
altro, tirando questa volta a indovinare; dice cioè che anche sua madre, la buona<br />
Agnese, tanto saggia e pia, le ha dimostrato che quella promessa è una fisima,<br />
insomma un’idea sbagliata… Ma Lucia ribatte che la madre non si è mai sognata<br />
di dirle una cosa simile, perché ella sa benissimo che le promesse fatte a Dio e alla<br />
Madonna si devono rispettare molto più di quelle fatte agli uomini. Allora il<br />
giovane, non avendo altri argomenti e non sapendo a che santo appellarsi,<br />
sentenzia con aria di sufficienza: “Voi altre donne queste cose non le potete<br />
sapere.” E aggiunge che andrà a riferire la cosa al padre Cristoforo, il quale lo<br />
aveva appunto pregato di tornare da lui a <strong>com</strong>unicargli il risultato della sua<br />
ricerca. Lucia approva, mostrandosi sicura che il frate gli farà capire la ragione, in<br />
modo che lui possa finalmente convincersi a mettersi il cuore in pace. Non<br />
l’avesse mai detto! A questo invito a mettere il cuore in pace, Renzo si accende e<br />
si lascia andare a una sfuriata molto simile a quella che aveva indotto la poverina<br />
al matrimonio clandestino. Sono parole di fuoco, minacce terribili, volutamente<br />
226
esagerate. Infatti, per quanto sconvolto e realmente sdegnato per quell’invito, il<br />
giovane <strong>com</strong>prendeva benissimo che quello era l’ultimo mezzo con cui poteva<br />
vincere l’animo di Lucia, così sensibile e impressionabile, e cercò quindi di<br />
sfruttare questa debolezza della ragazza, per un calcolo interessato anche se non<br />
premeditato, perché furono in verità le parole di lei che lo fecero montare sulle<br />
furie.<br />
Renzo è realmente sdegnato, e quasi furioso, ma non ha perduto del tutto il<br />
controllo di sé stesso, tanto è vero che, non ostante l’ira, dà <strong>com</strong>e sempre del<br />
“voi” alla ragazza, in segno di grande rispetto. Ma sentiamo direttamente le sue<br />
parole, per vedere con quanta efficacia egli si lamenta della durezza di cuore<br />
dell’ex-fidanzata: <strong>“I</strong>l cuore in pace! Oh! questo , levatevelo dalla testa. Già me<br />
l’avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m’ha fatto patire; e ora<br />
avete anche il cuore di dirmela.” Poi minaccia cose terribili e indeterminate, per<br />
intimidire la ragazza: “E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio,<br />
non lo riacquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete<br />
condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato viverò…” Quindi<br />
la perorazione finale, patetica, appassionata; in cui Renzo vuol apparire la vittima<br />
innocente, ingiustamente sacrificata, per una parola, per una promessa senza<br />
costrutto! “Cosa v’ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perché ho patito, mi<br />
trattate così? Perché ho avuto delle disgrazie? Perché la gente del mondo m’ha<br />
perseguitato? Perché ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi?<br />
perché, al primo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?”<br />
Sono parole sincere, anche se un po’ esagerate; accenti pieni di crucci e di<br />
passione; ma il rimprovero mosso a Lucia è molto ingiusto, e Renzo lo sa; ma lui<br />
non misura davvero i termini, pur di spezzare la resistenza di lei, anche a costo di<br />
farla soffrire. La poverina non rispondeva che con il pianto a quelle parole<br />
veementi, che avrebbero spezzato il cuore anche a una ragazza non innamorata<br />
<strong>com</strong>e lei; e quando poté formare delle parole, invocò innanzi tutto la Vergine,<br />
perché sentiva il bisogno di tutto il suo aiuto: “Voi sapete che, dopo quella notte,<br />
un momento <strong>com</strong>e questo non l’ho mai passato. M’avete soccorsa allora;<br />
soccorretemi anche adesso.” Renzo, pur vedendola piangere, non la smette, non<br />
desiste; anzi, vedendo che le sue parole hanno in un certo senso fatto breccia nel<br />
cuore di lei, insiste su quel tono, con una certa crudeltà mentale, diventando quasi<br />
provocante; infatti mette in dubbio la sua sincerità: “Se poi questa fosse una<br />
scusa; se è ch’io vi sia venuto in odio… ditemelo… parlate chiaro.” Povera<br />
Lucia! Peggiore trafittura non poteva ricevere dal suo amato; e giunge a<br />
supplicarlo, con gli occhi inondati di lagrime: “Per carità, Renzo, per carità, per i<br />
vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire… Non sarebbe un buon<br />
momento. Andate dal padre Cristoforo, rac<strong>com</strong>andatemi a lui, non tornate più qui,<br />
non tornate più qui”. Il giovane a queste ultime parole <strong>com</strong>prende che Lucia, pur<br />
turbata e <strong>com</strong>mossa, pur innamorata ancora, non tradirà mai il suo voto; perché si<br />
decida a venir meno a quella promessa, occorre un intervento autorevole,<br />
un’autorità religiosa. Renzo pensa subito al padre, e risponde che andrà a riferire<br />
tutto al buon frate, ma poi tornerà, di sicuro. Partito Renzo, la povera ragazza,<br />
227
spossata e sconvolta, “andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto<br />
al lettuccio”, piangendo senza ritegno, per dare un po’ di sfogo all’angoscia che<br />
l’opprimeva.<br />
La <strong>com</strong>pagna, che fino allora aveva ascoltato senza fiatare, cercò di<br />
consolarla, e le chiese il motivo di tutto quel pianto. Era costei una ricca<br />
mercantessa, di circa trent’anni, che aveva perduto nella peste il marito e i figli;<br />
ammalatasi anche lei, era stata portata al lazzaretto, dove era stata messa nella<br />
stessa capanna di Lucia, la quale era ormai fuori pericolo, e così poté curarla e<br />
farle <strong>com</strong>pagnia, mentre anche lei superava la crisi e si avviava alla guarigione.<br />
Appunto per rimanere con lei, a cui si era molto affezionata, Lucia non era voluta<br />
uscire quel giorno dal lazzaretto assieme con i guariti; infatti avevano promesso di<br />
non uscire se non insieme; e la brava signora voleva assolutamente che Lucia<br />
rimanesse sempre con lei, nella sua casa ben fornita, ora che non aveva altre<br />
persone care. La ragazza aveva acconsentito, con senso di riconoscenza, perché le<br />
sembrava che non potesse trovare un migliore ricovero che l’abitazione di quella<br />
buona vedova, almeno finché non avesse potuto avere notizie della madre, onde<br />
poterne conoscere la volontà circa la sua sistemazione definitiva. Tra le due donne<br />
era nata, nel dolore e nel bisogno, una tenera amicizia e una grande reciproca<br />
fiducia, favorita anche dall’età non molto diversa. Ordunque, alle amorevoli<br />
parole di costei, Lucia si calmò alquanto e, “stretta con tutt’e due le mani la destra<br />
di lei, si mise subito a soddisfare alla domanda, senz’altro ritegno, che quello che<br />
le facevano i singhiozzi”. Quello sfogo fece tanto bene alla poverina, perché<br />
nell’amicizia anche ricordare i dolori è un sollievo.<br />
Intanto Renzo a passi affrettati andava alla ricerca di padre Cristoforo, che<br />
costituiva ormai la sua ultima risorsa, perché solo lui avrebbe potuto convincere<br />
Lucia. Finalmente lo trovò che stava assistendo un moribondo; attese in disparte,<br />
con impazienza, e quando il frate si fu rialzato, dopo aver chiusi gli occhi di quel<br />
poveretto, gli andò incontro tutto emozionato, dicendo che l’aveva trovata, e per<br />
di più guarita, ma che c’era un’altra difficoltà; e si mise a esporre a suo modo il<br />
fatto del voto, cercando di influenzare il giudizio dell’ascoltatore: “Dice, che so<br />
io? Che, quella notte della paura, s’è scaldata la testa, e s’è, <strong>com</strong>e a dire, votata<br />
alla Madonna. Cose senza costrutto, n’è vero?... n’è vero che son cose che non<br />
valgono?” Ma il frate, nonostante l’ansia <strong>com</strong>prensibile del giovane, non vuole<br />
anticipare nessuna valutazione sulla validità del voto, prima di aver ascoltato<br />
l’interessata; e quindi prega Renzo di guidarlo da lei. Prima di avviarsi, entrò un<br />
momento nella sua capanna, per prendere la sporta con dentro il cofanetto<br />
contenente il “pane del perdono”, che voleva lasciare in ricordo a quella creatura<br />
eletta, la quale era stata per tanti anni sua figliola spirituale.<br />
Il tempo andava facendosi sempre più fosco: lampi fitti rompevano quel buio<br />
minaccioso, seguiti da tuoni paurosi, che scoppiavano con strepito lacerante.<br />
Renzo, per quanto impaziente d’arrivare, misurava il proprio passo su quello del<br />
<strong>com</strong>pagno che, “stanco dalle fatiche, aggravato dal male, oppresso dall’afa,<br />
camminava stentatamente”, sentendosi quasi mancare il respiro. Finalmente<br />
arrivano alla capanna delle due donne. Dopo i primi affettuosi saluti il frate, tirata<br />
228
in disparte Lucia, le chiese se voleva confidarsi a lui, <strong>com</strong>e un tempo; e avendo<br />
quella risposto di sì con trasporto, perché lui era sempre il suo buon Padre, le<br />
chiese <strong>com</strong>e fosse andata la faccenda del voto. Al che la ragazza riferì con tutta<br />
sincerità in che modo e in quali circostanze avesse fatto quella promessa alla<br />
Madonna, mettendo in rilievo <strong>com</strong>e l’avesse fatta liberamente e in piena<br />
coscienza. Il frate, dopo aver ascoltato e valutato tutto attentamente, le chiese se<br />
nel momento del voto aveva riflettuto che era già legata da una promessa, di<br />
sposarsi con Renzo. Avendo colei risposto che non ci aveva pensato, “trattandosi<br />
del Signore e della Madonna”, le fece osservare che lei non poteva legare, con la<br />
sua, anche la volontà di un altro, al quale era obbligata da una promessa<br />
precedente. Allora l’angelica fanciulla chiese preoccupata se avesse fatto male,<br />
ma il buon Padre la rassicurò, aggiungendo che certamente la Vergine aveva<br />
gradito la sua buona intenzione, l’offerta di un cuore devoto; però il voto, <strong>com</strong>e<br />
tale, non aveva valore; per cui, se non c’erano altri motivi, lui poteva restituirle la<br />
piena libertà dall’obbligo contratto con quella promessa. E sic<strong>com</strong>e la ragazza<br />
esitava, non perché ci fossero altri motivi che le impedissero di sposare Renzo, ma<br />
perché era ancora presa quasi da un senso di colpa nell’abbandonare quel voto, fra<br />
Cristoforo, che la capiva, le fece coraggio, dicendo che “Dio ha data alla sua<br />
Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere”, che questa autorità era stata dal<br />
Cardinale delegata, nel lazzaretto, ad essi frati, e che quindi poteva, per mandato<br />
divino, scioglierla da quel voto fatto senza riflettere: anzi desiderava che lei glielo<br />
chiedesse.<br />
Lucia allora, “con un volto non turbato più che di pudore”, disse che, sì, lo<br />
chiedeva con tutto il cuore; e il Padre, chiamato il giovane, il quale intanto era<br />
rimasto in disparte e in un dubbio angoscioso, disse a voce alta, rivolta a Lucia,<br />
che la dichiarava sciolta dal voto di verginità, in base all’autorità ricevuta dalla<br />
santa Chiesa. Pensate alla gioia di Renzo! Ringraziò con gli occhi il buon frate,<br />
suo rifugio e sua speranza, e “cercò subito, ma invano, quelli di Lucia”, che li<br />
teneva bassi, sopraffatta dall’irrompere dei sentimenti di un tempo, i quali le<br />
davano un’emozione troppo forte, facendola quasi tremare. Fra Cristoforo,<br />
<strong>com</strong>prendendo il suo stato d’animo, la incoraggiò con amorevoli e paterne parole:<br />
“Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri di una volta, chiedete di nuovo al<br />
Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie santa”. Quindi, rivolto<br />
al giovane, lo ammonì dolcemente: “Ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende<br />
questa <strong>com</strong>pagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e<br />
mondana… ma per avviarvi tutt’e due sulla strada della consolazione che non avrà<br />
fine… Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’istillar<br />
loro l’amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto”.<br />
Quindi, dopo aver rac<strong>com</strong>andato di pregare ambedue per il loro persecutore, che<br />
aveva tanto bisogno della misericordia di Dio, diede a Lucia la cassettina di legno<br />
lucido, nella quale era conservato un pezzo del “pane del perdono”, dicendo con<br />
tono <strong>com</strong>mosso: “Lo lascio a voi altri; serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli.<br />
Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo ai superbi e ai<br />
provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!” Lucia con<br />
229
grande venerazione, quasi fosse una reliquia, ricevette il cofanetto dalle mani del<br />
frate, il quale poi con paterna premura s’informò se ella avesse in Milano degli<br />
appoggi, per quando sarebbe uscita dal lazzaretto. La ragazza lo rassicurò,<br />
dicendo che quella buona vedova, che era lì con lei, l’avrebbe presa con sé, nella<br />
sua casa, finché non poteva tornare da sua madre. Il cappuccino lodò e benedisse<br />
la mercantessa, per la sua offerta di ospitalità, che era anche un’opera meritoria; e<br />
la donna, oltremodo contenta per la felice soluzione del dramma interiore<br />
dell’amica, disse che le avrebbe fatto lei il corredo di nozze, perché aveva in casa<br />
molta biancheria, mentre lei purtroppo era rimasta sola.<br />
Fra Cristoforo, ora che ha riportato la pace e la gioia nel cuore dei due<br />
giovani, non può più trattenersi: ha fretta di tornare dai suoi malati, che hanno<br />
tanto bisogno di lui; ha premura soprattutto per quel tale, che ha tanto bisogno del<br />
perdono di Dio. Si ac<strong>com</strong>iata perciò senza indugio da Renzo e da Lucia la quale,<br />
nel salutarlo, esclama intenerita: “Oh padre! La vedrò ancora? Io sono guarita, io<br />
che non fo nulla di bene a questo mondo; e lei!...” Ma il frate rispose con tono<br />
ispirato: “E’ già molto tempo che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di<br />
finire i miei giorni in servizio del prossimo”. Perciò, se otteneva ora questa<br />
bellissima grazia, tutti quelli che gli volevano bene dovevano aiutarlo a<br />
ringraziare Dio.<br />
Scambiati con Lucia gli ultimi saluti, misti di auguri, Renzo si allontanò<br />
assieme al Padre, il quale gli offrì di restare nella sua capanna per quella notte,<br />
dato che si annunciava imminente un gran temporale. Ma il giovane, desideroso di<br />
recare ad Agnese la grande notizia riguardante la figlia, e vedendo che il rimanere<br />
lì non gli sarebbe servito a nulla, perché non poteva stare né vicino alla fidanzata<br />
né in <strong>com</strong>pagnia del caro frate, che era sempre in giro tra i suoi malati, preferì<br />
partire subito. La minaccia del tempo non lo preoccupava affatto: ormai, avendo<br />
recuperata la sua Lucia, e sicuro del suo amore, si sentiva <strong>com</strong>e invulnerabile;<br />
nello stato euforico in cui si trovava allora “si può dire che notte e giorno, sole e<br />
pioggia, zeffiro e tramontano, eran tutt’uno per lui”. Congedandosi dal suo buon<br />
Padre, gli chiese tutto <strong>com</strong>mosso: “Oh caro padre…! Ci rivedremo? Ci<br />
rivedremo?” – “Lassù, spero” – rispose con uno stanco sorriso il Cappuccino,<br />
alzando gli occhi al cielo; quindi tornò sollecito alla sua inesausta opera di carità a<br />
pro degli ammalati.<br />
230
CAPITOLO XXXVII<br />
Distaccatosi dal frate, Renzo si avviò alacremente verso l’uscita del lazzaretto;<br />
ma ne aveva attraversata appena la porta, che <strong>com</strong>inciarono a cadere con violenza<br />
dei grossi goccioloni, che sollevavano un fitto polverio dalla superficie della<br />
strada, arida e farinosa per la lunga siccità. I goccioloni, prima radi, infittirono<br />
sempre più, finché divennero una pioggia scrosciante; in breve l’acqua venne giù<br />
a rovesci: sembrava proprio che si fossero aperte a un tratto tutte le cateratte del<br />
cielo. Ma la terra inaridita beveva quasi con voluttà l’acqua celeste: in poco tempo<br />
la campagna, prima polverosa e scialba, apparve <strong>com</strong>e ravvivata, quasi fosse stata<br />
riverniciata a nuovo, se ci si passa l’immagine; e anche per questo Renzo “se la<br />
godeva in quella rinfrescata, in quel sussurrio, in quel brulichio dell’erbe e delle<br />
foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre”. Si sarebbe rallegrato ancor di<br />
più, se avesse potuto prevedere che quel violento acquazzone di fine agosto<br />
avrebbe spazzato via il contagio, e che una settimana dopo la situazione sanitaria<br />
della città e di tutto il Ducato sarebbe stata affatto diversa; che avrebbe<br />
ri<strong>com</strong>inciato a pulsare la vita e l’attività degli uomini, ormai liberati da<br />
quell’incubo mortale e riconciliati con la gioia e la fiducia, da tanto tempo bandite<br />
dalla terra. Andava dunque avanti, il nostro giovane, sguazzando allegramente<br />
nell’acqua, che ormai lo aveva inzuppato <strong>com</strong>pletamente, facendo tutt’uno con la<br />
sua persona e dando al suo corpo <strong>com</strong>e un solletico tonificante e inebriante; tanta<br />
era la sua felicità interiore, che si sentiva <strong>com</strong>e rigenerato alla vita, e quella fresca<br />
doccia celeste gli dava una sensazione infinitamente piacevole.<br />
Non aveva fatto alcun disegno né su dove né su quando fermarsi; quello che<br />
gli premeva era di avvicinarsi quanto più al suo paese, e magari di raggiungerlo<br />
tutto in una tirata, se le gambe reggevano allo sforzo; ormai non vedeva l’ora di<br />
poter correre a Pasturo, a trovare quella buona Agnese, per parteciparle la duplice<br />
buona notizia, e della guarigione e dello scioglimento del voto. Chi sa <strong>com</strong>e<br />
sarebbe rimasta contenta la brava donna!<br />
Ripercorrendo la strada, per la quale era passato quello stesso mattino o il<br />
giorno prima, ripensava al suo stato d’animo di quando stava andando verso<br />
Milano, oppresso da tanti dubbi assillanti, sul <strong>com</strong>e e sul dove trovarla, su <strong>com</strong>e<br />
l’avrebbe trovata, se pure l’avesse trovata! Eppure l’aveva trovata! Riandava col<br />
pensiero e con la fantasia al suo itinerario milanese, al momento in cui aveva<br />
picchiato al palazzo di don Ferrante, a quella risposta così amara e così sgarbata: è<br />
stata portata al lazzaretto! <strong>com</strong>e? quando? mah! Eppure l’aveva trovata! Rivedeva<br />
nella fantasia il lazzaretto, quell’immenso ospizio di dolore e di morte: doverla<br />
cercare in mezzo a quella marea di ammalati, di moribondi! Era <strong>com</strong>e voler<br />
cercare un ago in un pagliaio! Eppure l’aveva trovata: viva, in mezzo a tanti morti,<br />
anzi guarita, che era la cosa più importante! E ricostruiva nell’immaginazione<br />
tutta la scena: vederla in piedi, già fuori pericolo! E quella voce! Ma c’era<br />
l’imbroglio del voto: che serviva averla trovata, se lei era legata dalla promessa<br />
231
alla Madonna? Ebbene, tolto anche quell’ostacolo, in quattro e quattr’otto, grazie<br />
all’intervento del caro Padre! Ora potevano finalmente sposarsi, e subito! La sua<br />
felicità era al colmo: tra poco Lucia sarebbe stata sua, sua per sempre;<br />
metterebbero su casa (e la grazia di Dio non mancava, con quei bei cinquanta<br />
scudi che portava addosso!), formerebbero una famiglia cristiana, avrebbero dei<br />
figli! Solo delle lievi ombre turbavano quella felicità sconfinata: “l’incertezza<br />
intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel<br />
trovarsi ancora in mezzo a una peste”. Ma il contagio doveva pur finire, l’attività<br />
doveva pur ri<strong>com</strong>inciare!<br />
Arrivato a Sesto sul far della sera, decise di proseguire, sentendosi ancora in<br />
forza nelle gambe; solo avvertiva un certo languore di stomaco, avendo mangiato<br />
solo quella poca minestra offerta dal frate; cercato dunque un forno, <strong>com</strong>prò due<br />
pani, di cui uno fu divorato lì per lì, in un battibaleno. E subito riprese la sua<br />
strada. Giunse a Monza che era già notte fatta, ma riuscì lo stesso a trovare la<br />
strada giusta, e proseguì al fioco barlume notturno, non sbagliando mai, ai vari<br />
bivi e crocicchi, pur andando così a lume di naso: la fortuna, dopo avergli fatto il<br />
viso brusco per tanti anni, aveva decisamente <strong>com</strong>inciato a proteggerlo! Dopo<br />
aver dunque camminato ininterrottamente per tutta la notte, all’alba arrivò alla sua<br />
Adda, e alla luce lattiginosa del mattino scorse con emozione i suoi monti, il<br />
Resegone, il territorio di Lecco, il suo paese! Si sentiva tutto fiero della sua bella<br />
impresa; si sentiva <strong>com</strong>e un vincitore, un dominatore. A mirare quel paesaggio<br />
familiare, con quello stato d’animo così euforico, gli sembrava che fosse<br />
“diventato tutto <strong>com</strong>e roba sua”; si sentiva lui il padrone, il redivivo: sensazione<br />
più che giustificata in chi, neppure due anni prima, era dovuto fuggire davanti<br />
all’iniquo potente, ed era dovuto rimanere per tanto tempo lontano, ramingo e<br />
perseguitato. Era soddisfatto anche perché finalmente aveva deposto quel fiero<br />
odio contro don Rodrigo, quel sentimento tutt’altro che cristiano: ora gli aveva<br />
perdonato davvero, di tutto cuore, e si sentiva in pace con la propria coscienza;<br />
mentre prima – ora lo riconosceva – non gli aveva mai perdonato sul serio,<br />
conservando in fondo al cuore quella tal ruggine che lo teneva in uno stato di<br />
continua agitazione.<br />
Ormai la pioggia battente era cessata, e veniva giù solo un’acquerugiola fitta e<br />
leggera. Renzo ogni tanto si guardava addosso, sorridendo, vedendo <strong>com</strong>’era<br />
conciato, <strong>com</strong>e sembrava buffo e lercio ai suoi stessi occhi: “dalla testa alla vita,<br />
tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta dei piedi, melletta e mota”.<br />
La brezzolina dell’alba, aggiunta al fresco della notte, gli mise nelle membra<br />
nuovo vigore, e si mise a camminar più in fretta, anche per scaldarsi un poco.<br />
Passa il ponte di Lecco, sale per le sue colline, ovattate da una nebbiolina leggera,<br />
e in breve giunge alla casa dell’amico, il quale da poco si era alzato e stava<br />
sull’uscio a guardare il tempo che si stava rimettendo: le nuvole diventavano<br />
sempre più rade, quasi diafane per il chiarore che cresceva da oriente. Egli si<br />
meravigliò molto nel vedere quella figura così infangata, quasi irriconoscibile: ”ai<br />
suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento”. Quando lo<br />
ravvisò, gli andò incontro con aria d’interrogazione.<br />
232
Renzo gli gridò subito la grande notizia: l’ho trovata! Guarita! Ci sposeremo<br />
al più presto, e tu dovrai fare da testimone alle nozze; e staremo allegri, dobbiamo<br />
fare una bella festa, a dispetto di tutti i guai che abbiam passati! L’amico si<br />
rallegrò con lui sinceramente; e aggiunse che avrebbe acceso immediatamente un<br />
buon fuoco, per farlo asciugare, poiché era fradicio mézzo, e in verità avrebbe<br />
potuto adoperare l’acqua che portava dalla testa alla vita, per lavare le zacchere di<br />
cui era cosparso dalla vita ai piedi. Ridendo di gusto alle scherzose parole<br />
dell’ospite, Renzo <strong>com</strong>inciò a liberarsi da quei panni molli, che gli si erano<br />
appiccicati addosso, a <strong>com</strong>inciare dal cappello, il quale era diventato ormai<br />
inservibile, sicché il giovane lo gettò a terra allegramente. Dovendo cambiarsi da<br />
capo a piedi, pregò l’ospite di prendergli quell’involto di panni che gli aveva<br />
lasciato due giorni prima; e davanti alla bella fiamma che crepitava sul focolare,<br />
dopo essersi asciugato ben bene, si rivestì con la roba asciutta e pulita, che faceva<br />
tutt’altra figura. Intanto l’amico si era messo a preparare da mangiare, per<br />
rifocillarlo, avendo notato che ne aveva proprio bisogno, dopo quella bella<br />
scarpinata e dopo tante snervanti emozioni. E mentre colui approntava il desinare,<br />
Renzo gli faceva il resoconto del suo avventuroso viaggio, disordinatamente,<br />
saltando di palo in frasca, ri<strong>com</strong>inciando ora da un punto ora da un altro, perché la<br />
troppa gioia non gli permetteva di seguire né il filo cronologico né quello logico.<br />
Il suo racconto era piuttosto un seguito di esclamazioni, e sul lazzaretto e su<br />
Milano e sulla peste: ”Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le<br />
cose che bisogna toccare! Cose da farsi schifo a sé medesimo”. Ma il tono era<br />
prevalentemente allegro e scherzoso; circa le cose schifose che aveva dovuto<br />
vedere e toccare, concluse con una battuta: “Sto per dire che non ci voleva meno<br />
di quel bucatino che ho avuto”.<br />
Per quella giornata rimase presso l’ospite, e perché era assai stanco (ora se<br />
n’accorgeva!) e perché continuava a piovigginare, anche se a tratti. Per passare il<br />
tempo, l’amico si mise a eseguire dei lavoretti in preparazione della vendemmia, e<br />
Renzo lo aiutò con piacere, continuando a narrargli or l’uno or l’altro episodio,<br />
senza mai stancarsi, per tutta la giornata. Il giorno dopo si alzò presto, e vedendo<br />
che la pioggia era cessata, si mise subito in cammino, diretto a Pasturo. Ci arrivò<br />
prima di mezzodì, e chiese di Agnese Mondella; apprese con grande gioia che era<br />
viva, e si fece indicare dove abitava. Era una casetta fuori del paese, isolata,<br />
proprio l’ideale per stare lontano dal contagio; e infatti era rimasta finora immune<br />
dalla peste, la nostra Agnese. Renzo la chiamò dalla strada, e quando la donna si<br />
fu affacciata alla finestra, le diede tutte in una volta le grandi notizie di cui era<br />
latore, mentre quella rimaneva estatica e a bocca aperta. Riavutasi poi<br />
dall’emozione, disse che scendeva ad aprire; ma Renzo le chiese se aveva avuto la<br />
peste; avuta la risposta negativa, le rac<strong>com</strong>andò di stare riguardata e di non<br />
avvicinarglisi, perché lui l’aveva avuta, e per di più veniva dal bel mezzo del<br />
contagio, da quella Milano che era tutta <strong>com</strong>e un immenso lazzaretto. Per evitare<br />
ogni contatto, decisero che avrebbero parlato nell’orto, a debita distanza. E così<br />
fecero. Agnese, notando con quale disinvolta allegrezza e sicurezza il giovane<br />
parlava di metter su casa, di andare a vivere insieme, rimaneva perplessa e<br />
233
incredula, e alla fine si decise a chiedere chiarimenti circa il voto. Il giovane però<br />
non le fece nemmeno formulare la domanda: “Eh! Non c’è ma che tenga. So quel<br />
che volete dire; ma sentirete, sentirete, che dei ma non ce n’è più”. E le diede la<br />
notizia del padre Cristoforo, riferendo <strong>com</strong>e il sant’uomo avesse messo tutto in<br />
chiaro, sciogliendo Lucia dall’impegno contratto, impegno che non poteva valere,<br />
dato che lei aveva già dato promessa di matrimonio. Si dilungò quindi sui progetti<br />
dell’avvenire, insistendo sul fatto che si sarebbe andati tutti nel Bergamasco, a<br />
metter su casa in quel paese ospitale, dove potevano vivere un po’ tranquilli e<br />
felici, dopo tanto patire. Agnese, a sua volta, disse che, non appena fosse finito<br />
quel cattivo influsso, che doveva pur finire, tornerebbe a casa sua, ad aspettare<br />
l’arrivo della figlia e di quell’altra brava signora milanese, le quali sarebbero<br />
certamente venute non appena terminata la quarantena.<br />
Renzo non si trattenne molto presso la buona vedova, pur desiderandolo, dato<br />
che il conversare con lei del loro avvenire era un gran balsamo per il suo cuore; e<br />
poi lui, che non aveva la madre, la considerava proprio <strong>com</strong>e una seconda<br />
mamma, ed era da lei trattato <strong>com</strong>e figlio, da quando si era legato a Lucia. Perciò<br />
non voleva essere per lei di pericolo, rimanendole troppo tempo vicino, lui che era<br />
certamente portatore di contagio: temeva troppo per l’incolumità della persona<br />
che, dopo Lucia, era per lui più cara. Dopo la cordiale e ottimistica chiacchierata,<br />
il giovane ripartì con l’animo più sereno e, tornato al paese, <strong>com</strong>unicò all’ospite<br />
quest’altra consolante notizia, della buona salute di Agnese.<br />
Il giorno dopo si rimise in marcia, questa volta verso quel paese del<br />
Bergamasco, che ormai considerava sua patria d’elezione; trovò Bortolo in buona<br />
salute, e in minor timore di perderla, perché in quei pochi giorni che Renzo era<br />
stato assente, la mortalità in quel paese era a un tratto diminuita, essendo il morbo<br />
divenuto, per così dire, benigno. Una settimana ancora, e la mortalità cessò del<br />
tutto; quei pochi che s’ammalavano, non mostravano più “quei lividi mortali, né<br />
quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al<br />
più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava <strong>com</strong>e un fignolo ordinario”.<br />
Passata la gran paura, si ri<strong>com</strong>inciava a vivere, si riprendeva l’attività. Si<br />
ricercavano gli operai specializzati, particolarmente i filatori di seta, che erano<br />
stati scarsi anche prima della moria. Renzo, senza farsi troppo pregare, dato il<br />
debito di gratitudine che aveva con lui, promise a Bortolo di tornare a lavorare<br />
nella sua filanda, “salve però le debite approvazioni”, perché ormai, grazie a Dio,<br />
non era più solo: doveva sentire in proposito le sue donne, che presto sarebbero<br />
venute a star con lui. Pensate anche alla consolazione del buon Bortolo, nel vedere<br />
che gli affari di cuore del cugino si erano così felicemente risolti, e che egli<br />
sarebbe rimasto sempre con lui, accasandosi lì nella nuova patria. Renzo intanto<br />
era impegnato nei preparativi per le nozze: trovò una casa più grande di quella che<br />
aveva abitato da scapolo, la fornì di mobili e di tutto il necessario per una<br />
famiglia, e poté provvedere a tutto con una spesa relativamente piccola, perché,<br />
essendo molto diminuita la popolazione, l’offerta dei beni di consumo era<br />
ovviamente superiore alla domanda.<br />
234
Avendo preparato e ordinato ogni cosa per la futura vita in <strong>com</strong>une, Renzo<br />
tornò a Pasturo presso Agnese; e sic<strong>com</strong>e anche nel territorio di Lecco il morbo<br />
era s<strong>com</strong>parso o divenuto benigno, riportò lui stesso la buona donna al paese,<br />
nella sua casetta, che trovarono per vera fortuna intatta, così <strong>com</strong>’era stata<br />
lasciata, sicché lei andava ripetendo che vi “avevan fatto la guardia gli angioli”.<br />
La buona donna <strong>com</strong>inciò subito i preparativi per ospitare degnamente la<br />
mercantessa, che le avrebbe riac<strong>com</strong>pagnato la figlia a casa. Renzo, che sapeva<br />
fare due mestieri, aveva momentaneamente ripreso quello di contadino, e ora<br />
aiutava l’ospite nei lavori di campagna, ora dissodava l’orto della cara Agnese,<br />
per rendere la casa più bella e accogliente, in vista dell’arrivo delle milanesi. ”In<br />
quanto al suo proprio podere – dice il Manzoni – non se n’occupava punto,<br />
dicendo ch’era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia<br />
a ravviarla”. Del bando non se ne curava, sapendo che ormai, non essendoci più<br />
né don Rodrigo né il Podestà, i soli che avrebbero potuto o voluto metterlo in atto,<br />
esso decadeva da sé, anche perché i birri erano morti quasi tutti, e i pochi<br />
sopravvissuti non avrebbero preso nessuna iniziativa senza una spinta dall’alto.<br />
Allora così andavano le cose: tutto si faceva per sollecitazioni interessate, senza le<br />
quali ogni provvedimento rimaneva lettera morta; qualche maligno potrebbe<br />
osservare che anche oggi le cose, in certi campi, non sono affatto cambiate. E con<br />
don Abbondio <strong>com</strong>e se la passava il nostro Renzo? Si ignoravano a vicenda:<br />
“stavano alla larga l’uno dall’altro”. Il curato temeva che gli fosse di nuovo<br />
chiesto di fare quel tal matrimonio, che gli era stato proibito due anni prima, e a<br />
questa prospettiva “si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, coi<br />
suoi bravi, il Cardinale dall’altra, coi suoi argomenti”. Il giovane, per parte sua, lo<br />
scansava perché, non essendo stato ancora deciso niente circa la celebrazione<br />
delle nozze, non voleva metterlo in sospetto prima del tempo, rischiando di<br />
<strong>com</strong>plicare inutilmente le cose: quando fosse venuto il momento, si vedrebbe.<br />
Lucia intanto era uscita dal lazzaretto assieme alla buona vedova la quale,<br />
essendo sorella di un <strong>com</strong>missario di Sanità, aveva ottenuto in via del tutto<br />
eccezionale di poter trascorrere la prescritta quarantena in casa propria, con la cara<br />
Lucia, alla quale sin dai primi giorni <strong>com</strong>inciò a preparare il corredo, <strong>com</strong>e aveva<br />
promesso. La ragazza le fece alquanta resistenza in questo suo proposito, dicendo<br />
che non doveva privarsi di tutta quella bella roba, la quale le poteva sempre<br />
tornare utile, in futuro, ma la mercantessa fu irremovibile, e Lucia, profondamente<br />
grata, si mise anche lei a lavorare intorno al proprio corredo, pensate con che<br />
emozione. Era il secondo corredo che veniva preparato per lei: il primo, opera in<br />
gran parte delle mani materne, se l’erano portato via i lanzichenecchi, e chi sa<br />
dov’era andato a finire; al posto di quello, la Provvidenza aveva mandato<br />
quest’altro, da parte di una persona da cui nessuno se lo sarebbe aspettato. Le vie<br />
della Provvidenza sono davvero mirabili e infinite!<br />
Parlando ormai con la massima confidenza con la signora, Lucia le raccontò<br />
senza più alcun ritegno tutte le sue disavventure, tra cui il rapimento avvenuto<br />
mentr’era ricoverata nel monastero di Monza, sotto la protezione di Gertrude.<br />
Allora seppe dall’amica – e il fatto la colpì profondamente – “che la sciagurata,<br />
235
caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del Cardinale,<br />
trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi,<br />
s’era ravveduta, s’era accusata”, e aveva <strong>com</strong>inciato una vita d’aspra penitenza.<br />
Quest’ultima notizia la rincorò alquanto, temperando il sentimento di “dolorosa e<br />
paurosa meraviglia” che l’aveva colta al primo annuncio di una cosa così<br />
inaspettata, la quale le fece intuire che il suo rapimento non era stato fortuito, ma<br />
voluto dalla monaca.<br />
Il padre Cristoforo intanto era morto; Lucia aveva saputo la triste notizia<br />
prima di uscire dal lazzaretto, provandone “più dolore che meraviglia”, perché<br />
purtroppo la prevedeva, per quello che lei stessa aveva potuto vedere. Si informò<br />
anche della sorte dei signori che l’avevano ospitata, essendo sua intenzione, se<br />
erano ancora in vita, di far loro una visita di ringraziamento, prima di lasciare<br />
Milano; ma purtroppo erano morti tutt’e due. “Di donna Prassede, quando si dice<br />
che era morta, è detto tutto”, ammette l’Autore, lasciando trasparire l’antipatia che<br />
il personaggio ha suscitato anche in lui, oltre che nei lettori; ma intorno a don<br />
Ferrante, a questo don Chisciotte della scienza fasulla del Seicento, il Manzoni<br />
spende un po’ di parole. Infatti, nonostante la sua infatuazione pseudo-scientifica,<br />
l’uomo non è affatto antipatico, anzi per certi aspetti ci appare decisamente<br />
simpatico; per esempio, nella sua volontà d’indipendenza dalla tirannica moglie.<br />
Aristotelico convinto, sostenne sino all’ultimo, contro l’evidenza dei fatti, che il<br />
contagio non esisteva; e mantenne il suo assunto “non già con schiamazzi, <strong>com</strong>e il<br />
popolo, ma con ragionamenti”. Erano ragionamenti scolastici, basati su sillogismi<br />
campati in aria, i quali si risolvevano in veri e propri sofismi, miranti al<br />
dimostrare che il contagio, non potendo essere né “sostanza” né “accidente” 11 ,<br />
non esisteva. E fin qui don Ferrante trovava orecchi attenti e animi docili di<br />
ascoltatori, perché – osserva con fine ironia il Manzoni – “non si può spiegare<br />
quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare<br />
agli altri le cose di cui sono già persuasi”. E la gente era persuasa, tenacemente<br />
persuasa, per malinteso interesse, che il contagio non esisteva. Ma allorché il<br />
letterato non negava “che ci fosse un male terribile e generale”, e ne indicava la<br />
causa in “quella fatale congiunzione di Saturno con Giove”, allora il sottile<br />
dialettico non trovava più orecchie attente, ma lingue polemiche, che non gli<br />
permettevano più di dissertare con tanta autorevolezza, ma lo contraddicevano<br />
quasi a ogni proposizione, perché anche loro avevano le loro particolari idee in<br />
proposito, né c’è da meravigliarsi: “quot capita, tot sententiae” 12 . Ma don Ferrante<br />
non disarmava, non cedeva d’un millimetro, non cambiava opinione né tanto né<br />
poco: era un dotto serio e coerente con sé stesso, lui. E se la rideva dei medici e<br />
delle loro inutili prescrizioni, dei loro insulsi divieti; infatti, che cosa potevano<br />
quei palliativi contro gl’influssi malefici dei pianeti? Contro gli oppositori<br />
s’infervorava, usando or l’ironia or il sarcasmo: “E lor signori mi vorranno negar<br />
11 Termini della filosofia medievale, secondo la quale ogni cosa esistente doveva essere o sostanza<br />
(che esiste in sé) o accidente (che può esistere o no presso una sostanza).<br />
12 = quante sono le teste, tanti sono i pareri.<br />
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l’influenze? Mi negheranno che ci sia degli astri? O mi vorranno dire che stian<br />
lassù a far nulla, <strong>com</strong>e tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma<br />
quel che non mi può entrare, è di questi signori medici;… venirci a dire, con<br />
faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo<br />
schivare il contatto materiale dei corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale<br />
dei corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar dei cenci! Povera gente! Brucerete<br />
Giove? Brucerete Saturno?” Con assoluta coerenza con questa sua convinzione<br />
che la peste derivasse da un cattivo influsso celeste, contro il quale nulla può la<br />
scienza terrena, non prese alcuna precauzione contro il morbo, e caduto ammalato<br />
“andò a letto, a morire, <strong>com</strong>e un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle”.<br />
La sua vasta raccolta di libri eruditi, il fior fiore della produzione secentesca, andò<br />
naturalmente dispersa, e forse qualcuno di essi – osserva con un sorriso l’Autore -<br />
si può trovare in vendita, a vil prezzo, su qualche bancarella di libri usati. Chi<br />
l’avesse detto a don Ferrante, dotto bibliofilo, quando li raccoglieva con tanta<br />
cura!<br />
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238
239
CAPITOLO XXXVIII<br />
Una sera Agnese sentì fermarsi una carrozza davanti casa; immaginando chi<br />
era, corse tutta emozionata ad aprire: era proprio lei, la sua Lucia, con la buona<br />
signora! L’abbraccio fu caldo e prolungato, non privo di lagrime: erano ormai due<br />
anni che non si vedevano, e le tristi vicende trascorse li avevano fatti sembrare<br />
due secoli. Renzo, il quale passava gran parte della giornata presso la futura<br />
suocera, a quell’ora se n’era già andato, a pernottare dal suo amico. Il poveretto<br />
chi sa quanto stava in ansia per il ritardo della fidanzata; ed essendo solo sera, e<br />
non notte, ci meravigliamo davvero, secondo la nostra mentalità, che egli non<br />
venisse subito avvertito, tanto più in un villaggio, in cui le distanze tra casa e casa<br />
non potevano che essere molto modeste; ma il giovane non fu mandato a chiamare<br />
per quella riservatezza che allora dominava nei rapporti tra i fidanzati in genere, e<br />
tra i nostri due promessi in specie.<br />
Renzo dunque si reca a casa di Agnese il giorno seguente, di buon mattino,<br />
con l’intenzione di lamentarsi e insieme sfogarsi, con lei, di quel gran tardare di<br />
Lucia; immaginate voi che cosa provò e che cosa disse, quando se la vide davanti,<br />
non più pallida <strong>com</strong>e nel lazzaretto, ma rifiorita nella salute e nell’aspetto; le gote,<br />
di un bell’incarnato, divennero in quell’incontro di porpora, per il ben noto pudore<br />
della giovane. Le sue parole non furono molte, perché, nel suo verecondo riserbo,<br />
ella non riusciva mai ad esprimere tutto quello che sentiva in cuore; ma Renzo,<br />
che la conosceva da tempo, sapeva benissimo che cosa volessero significare<br />
quelle parole, semplici e magari usuali, ma che rivolte a lui, dalla sua bocca,<br />
avevano un altro tono e un senso così dolce! A questo proposito il Manzoni<br />
stabilisce un confronto: <strong>com</strong>e nei <strong>com</strong>plimenti che si ricevono bisogna togliere la<br />
tara, perché in genere essi sono volutamente esagerati, così alle parole di Lucia,<br />
sempre così modeste e controllate, bisognava saper aggiungere tutto l’ardore del<br />
sentimento interiore, che si avvertiva nel tono della voce soave e nell’espressione<br />
di tutto il viso, anche in quegli occhi abbassati per verecondia. E Renzo sapeva<br />
leggere in quegli occhi.<br />
Avviata la conversazione, Lucia <strong>com</strong>unicò con visibile <strong>com</strong>mozione la morte<br />
del padre Cristoforo, vittima della carità; e la notizia rattristò anche Agnese e<br />
Renzo, il quale doveva tanto al buon frate, specie per lo scioglimento del voto; ma<br />
si consolarono pensando che egli ormai godeva il meritato premio nel regno della<br />
pace celeste. Ma qualunque argomento si toccasse, anche se triste, per il nostro<br />
giovane erano note dolci e soavi ormai; egli tutto vedeva ora in una luce rosea, e<br />
gli sembrava che il tempo volasse accanto alla sua Lucia: “prima i minuti gli<br />
parevan ore, ora l’ore gli parevan minuti”. Dopo qualche ora di piacevole<br />
conversazione, alla quale anche la mercantessa partecipava con interesse, Renzo si<br />
distaccò malvolentieri dalla <strong>com</strong>pagnia, perché doveva andare dal curato, per<br />
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parlare questa volta delle nozze, ché era venuta l’ora di parlare chiaro e forte, ora<br />
che la sposa era pronta. Dopo i saluti, ricambiati da don Abbondio con poco<br />
calore, il giovane esordì: “con un certo fare tra burlesco e rispettoso: - Signor<br />
curato, le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci<br />
maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia di<br />
<strong>com</strong>odo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto.-” Don Abbondio non<br />
rifiutò, ma portò diverse scuse, e specialmente che non era prudente, con quella<br />
catturaccia addosso, celebrare il matrimonio nel suo paese, mentre poteva<br />
benissimo far tutto altrove, evitando ogni rischio. Renzo capì subito che il curato<br />
aveva ancora un po’ di quel mal di testa di due anni prima, per quella maledetta<br />
paura di don Rodrigo; gli descrisse perciò in che stato lo aveva trovato nel<br />
lazzaretto, dicendosi sicuro che era morto, in quelle condizioni disperate. L’altro,<br />
per dissimulare la sua pusillanimità, disse che quel tale non c’entrava affatto nella<br />
faccenda delle nozze; mentre era proprio quello il canchero che lo rodeva, e non<br />
lo faceva essere lui: l’incertezza sulla fine del signorotto. Tant’è vero che poco<br />
dopo si scoprì, affermando che sulla sorte dei malati non si può dire mai niente,<br />
perché finché c’è vita c’è speranza; e aggiunse, a mo’ d’esempio, che anche lui<br />
era stato più di là che di qua, eppure era guarito, pur essendo “una conca fessa”,<br />
un vecchio decrepito; figuriamoci poi certi giovani, pieni di vitalità…<br />
Renzo, capita l’antifona, “per non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il<br />
rispetto”, pensò bene di andarsene, strisciandogli “una bella riverenza”, e e tornò<br />
dalle donne a fare la sua relazione. La mercantessa, che era di carattere allegro e<br />
di umore socievole, propose di andare a provare loro donne, nel pomeriggio,<br />
perché aveva una grande curiosità di conoscerlo, questo parroco, per vedere se era<br />
proprio così vile. Poi con bel garbo, e con fine intenzione, pregò lo sposo di<br />
ac<strong>com</strong>pagnare lei e Lucia a passeggio, per conoscere un po’ quei bei posti in riva<br />
al lago, di cui aveva tanto sentito parlare. Il giovane ben volentieri le condusse in<br />
un lungo giro, <strong>com</strong>inciando dalla casa del suo ospite, che invitarono a mangiare<br />
con loro sia quel giorno, particolarmente festivo, sia possibilmente anche nei<br />
successivi, sino alla loro partenza dal paese.<br />
Dopo pranzo le donne, massime le due vedove, si misero d’accordo sul modo<br />
migliore “di prender don Abbondio; e finalmente andarono all’assalto”; mentre<br />
Renzo, senza rivelar nulla ad esse, si avviò al palazzotto di don Rodrigo, perché<br />
era convinto che lì si dovesse saper qualcosa di preciso sul padrone, se era morto<br />
o per caso guarito. E seppe infatti che era già arrivato l’erede, un certo marchese<br />
X, e la notizia gli fu confermata da Ambrogio il sagrestano, che era stato appunto<br />
al palazzotto, per certi servizi, e lo aveva visto, questo marchese, disporre e<br />
riordinare ogni cosa, farla insomma da padrone. Renzo, ben conoscendo<br />
l’incredulità del curato, che in certe cose era più sofistico dell’apostolo Tommaso,<br />
pregò il sagrestano di andare con lui alla canonica, per confermargli la (per loro)<br />
fausta notizia. Ambrogio acconsentì volentieri.<br />
Intanto le nostre donne erano a colloquio con don Abbondio il quale, pur<br />
avendo capito, subito nel vederle venire <strong>com</strong>e in <strong>com</strong>missione, il motivo della<br />
visita, fece tuttavia finta di niente, e si mise a chiacchierare alla distesa di<br />
241
tutt’altro, e della peste, e dei casi di Lucia, e di Agnese che se l’era passata liscia,<br />
e di altre fanfaluche. A sua volta la mercantessa, alla quale il curato fece gran<br />
<strong>com</strong>plimenti, parlò di Milano e del lazzaretto; e di argomento in argomento cercò<br />
di arrivare al punto che le premeva, aiutata in ciò da Agnese, che stava anch’essa<br />
alle velette. Ma don Abbondio era <strong>com</strong>e sordo da quell’orecchio; neppure ad esse<br />
disse di no, ma tirò in ballo le solite scuse, insinuando che era meglio far tutto là<br />
nel Bergamasco, che ormai poteva considerarsi la nuova patria degli sposi, e dove<br />
la cattura che pendeva su Renzo non aveva alcun effetto. Le due esperte vedove<br />
potevano bensì ribattere quelle ragioni con i loro argomenti, ma il curato<br />
imperterrito le rimetteva in campo, magari sotto altra forma. Si era a questa sterile<br />
schermaglia di parole, quando a un tratto “entra Renzo, con passo risoluto, e con<br />
una notizia in viso”; tutti si voltano ansiosi verso il nuovo venuto, per sapere la<br />
novità che annunziava il suo volto; e lui con aria solenne disse che era giunto al<br />
palazzo l’erede di don Rodrigo, e precisamente il signor marchese X; perciò non<br />
sussistevano più dubbi sulla morte del signorotto, per l’anima del quale lui aveva<br />
già pregato e ancora pregherebbe in avvenire.<br />
Don Abbondio, che conosceva per fama quel marchese <strong>com</strong>e una vera perla di<br />
galantuomo, rimase trasecolato, tanto la notizia gli sembrava bella e quasi<br />
incredibile; ma espresse subito il suo dubbio, ultimo stadio della sua paura: “Ma<br />
che sia proprio vero?...” Renzo, che si doveva aspettare quell’incredulità, da un<br />
simile uomo, chiamò allora il sagrestano, che aveva pregato di attendere lì fuori,<br />
<strong>com</strong>e abbiamo detto. Ambrogio, testimone oculare e fededegno, conferma al suo<br />
curato tutto ciò che Renzo ha detto, non lasciando adito neppure all’ombra di un<br />
minimo dubbio. Don Abbondio, finalmente sicuro della grande notizia, non sta<br />
più in sé per la gioia, e intona per così dire l’inno della vittoria e del trionfo,<br />
sfogando liberamente il suo livore, a lungo represso, per quel prepotente, che<br />
prima d’ora ha sempre definito “cavaliere rispettabile”; ora che è morto, e<br />
meriterebbe solo per questo un po’ di rispetto, il pavido prete non lo rispetta<br />
affatto, mostrando di non avere un briciolo di cristiana pietà. Adesso, liberato da<br />
quella specie di incubo, viene fuori il vero don Abbondio: loquace, scherzoso,<br />
perfino lezioso, e piuttosto volgaruccio. Adesso, infranto il gelo della paura, <strong>com</strong>e<br />
per incanto gli si scioglie in bocca la parlantina, la quale gli si era congelata lì da<br />
tanto tempo; ora il suo viso assume tutt’altra cera, essendo s<strong>com</strong>parsa quella<br />
mutria uggiosa che per lui non era affatto naturale, ma solo il prodotto della<br />
continua paura e insoddisfazione in cui viveva. Riporteremo soltanto alcune frasi<br />
del suo inno di liberazione, che ha certamente la dote della sincerità, ma non<br />
quella della pietà e della carità: “Oh! È morto dunque! È proprio andato! Vedete,<br />
figliuoli, se la Provvidenza arriva (=raggiunge) alla fine certa gente. Sapete che l’è<br />
una gran cosa! Un gran respiro per questo povero paese! Ché non ci si poteva<br />
vivere con colui… Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro,<br />
con quell’albagia, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la<br />
gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non<br />
c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’ambasciate ai galantuomini…”<br />
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Come possiamo notare da questo squarcio significativo, e a tratti pittoresco, il<br />
nostro curato non si preoccupa affatto della sorte eterna di quel signore, in un<br />
certo senso suo parrocchiano, non parla di perdono o di preghiere o di suffragi, di<br />
cui ha pur parlato un semplice cristiano quale Renzo; il prete invece pensa solo<br />
egoisticamente, e con aria di rivalsa, che lui è vivo, mentre quello è, per grazia di<br />
Dio, crepato. Per don Abbondio la Provvidenza esiste soltanto per dare la caccia a<br />
coloro che danno fastidio a lui, non per aiutare i miseri e per salvare i peccatori. Il<br />
prepotente signorotto, morendo, ha ridato la vita a don Abbondio, il quale sembra<br />
gridargli, in tono trionfale: mors tua, vita mea! E mentre egli indugia con<br />
<strong>com</strong>piacenza in questo pensiero così poco sacerdotale, Renzo gli dà una lezione di<br />
carità cristiana, dicendo con semplicità: <strong>“I</strong>o gli ho perdonato di cuore”. Il parroco<br />
non arrossisce né si mostra mortificato, pur ammettendo che il giovane fa il suo<br />
dovere di cristiano; però aggiunge: “Ma si può anche ringraziare il cielo, che ce<br />
n’abbia liberati”.<br />
E ora che è stato liberato da colui, torna lui stesso sull’argomento delle nozze;<br />
non aspetta che i suoi interlocutori gli facciano una nuova richiesta, ma li<br />
previene, li supera nel tempo, brucia le tappe; ora tutte le difficoltà, tutte le ragioni<br />
di prudenza e di convenienza sono svanite, la cattura non esiste più! Sentiamolo,<br />
<strong>com</strong>’è sbrigativo: “Sicché, se volete… oggi è giovedì… domenica vi dico in<br />
chiesa”. Fra tre giorni, dunque; si può essere più spicci di così? Nessuno degli<br />
interessati avrebbe certo osato sperare o chiedere un termine così breve. Per<br />
arrivare a tanto, don Abbondio si avvale di poteri eccezionali: non farà neppure le<br />
prescritte pubblicazioni di matrimonio, chiedendone la dispensa alla Curia<br />
arcivescovile, <strong>com</strong>e per i casi più urgenti e delicati. La mente del curato, che<br />
prima era <strong>com</strong>e bloccata da quella gran paura, ora diventa fertile di iniziative,<br />
anche apprezzabili, <strong>com</strong>e vedremo: non solo chiederà la dispensa dalle<br />
pubblicazioni, ma si premurerà di partecipare a Sua Eminenza la felice<br />
conclusione dei casi di Lucia; così si acquisterà dei meriti presso il suo superiore,<br />
mostrando il suo zelo nel venire incontro alle necessità dei due sposi lungamente<br />
promessi.<br />
Mirabili effetti della s<strong>com</strong>parsa di don Rodrigo! Anche la memoria si è<br />
sbloccata al nostro ineffabile Abbondio: ora infatti, solo ora si ricorda che la<br />
cattura contro Renzo non ha più vigore, essendoci stata l’amnistia generale per la<br />
nascita del principe ereditario del regno di Spagna. Ora egli diventa anche lepido,<br />
ed è un piacere sentirlo chiacchierare; si vede che ne ha una gran voglia.<br />
Essendosi Agnese meravigliata nel sentirgli dare dell’ “Eminenza”<br />
all’Arcivescovo, spiega argutamente che il papa Urbano VIII ha inventato quel<br />
titolo per i cardinali, dato che l’ “illustrissimo” , che prima era riservato ad essi e<br />
ai principi, aveva subito un’inflazione nel suo valore reale, venendo concesso<br />
ormai ad ogni nobiluccio. Quindi continua con lepidezza: “E <strong>com</strong>e se lo succiano<br />
volentieri! E cosa doveva fare il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri,<br />
guai; e per di più, continuar <strong>com</strong>e prima. Dunque ha trovato un bonissimo ripiego.<br />
A poco a poco poi, si <strong>com</strong>incerà a dar dell’eminenza ai vescovi; poi lo vorranno<br />
gli abati, poi i proposti: perché gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,<br />
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sempre salire; poi i canonici…” E avendo la spiritosa vedova milanese aggiunto<br />
sorridendo: “Poi i curati”, egli riprese scherzoso: “No, no; i curati a tirar la<br />
carretta: non abbiate paura che li avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla<br />
fin del mondo”.<br />
L’euforia del momento fa emergere il vero carattere di don Abbondio: egli si<br />
rivela ridanciano, ma il suo linguaggio, talora sboccato e plebeo, denunzia la sua<br />
mancanza assoluta di delicatezza; il suo scherzare mostra la volgarità del suo<br />
animo. Alludendo ai molti matrimoni che doveva celebrare in quella settimana,<br />
disse che, se si continuava con quel ritmo, nessuno dopo la peste darebbe rimasto<br />
s<strong>com</strong>pagnato; e senza alcun rispetto per la sua affezionata e fedele governante,<br />
rapita dal contagio, aggiunse irridente: “Ha fatto proprio uno sproposito Perpetua<br />
a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei”.<br />
Rivolgendosi quindi alla mercantessa, che pur vedeva allora per la prima volta,<br />
uscì in un’espressione veramente irriguardosa; alludendo agli eventuali<br />
pretendenti alla mano della giovane vedova, le chiese: “E lei, signora, non hanno<br />
principiato a ronzarle intorno dei mosconi?” Poi si mise a scherzare anche con<br />
l’altra vedova, la vecchia Agnese, dicendo che doveva trovare il suo “avventore”<br />
anche lei, perché la peste aveva lasciati molti mariti disponibili. In bocca a un<br />
sacerdote, che dovrebbe sentire lui e inculcare negli altri la dignità, anzi la santità<br />
del matrimonio, queste espressioni nei riguardi di un sacramento disdicono<br />
troppo, e rivelano ancora una volta che lui, del sacerdozio, ha solo l’unzione<br />
sacra, non altro.<br />
Don Abbondio è in vena di scherzare, con tutti e per tutto; e nelle sue parole si<br />
avverte <strong>com</strong>e un’invidia per i giovani, che ora potranno godersi la vita, mentre lui<br />
è ormai agli sgoccioli: <strong>“I</strong>o invece, sono alle ventitrè e tre quarti, e… i birboni<br />
posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio: e, <strong>com</strong>e<br />
dice, senectus ipsa est morbus” 13 . Don Abbondio non precisa chi dice questa<br />
massima, perché non lo sa o non lo ricorda. Ma questa frase 14 gli offre il destro di<br />
scherzare anche con Renzo; infatti, avendogli costui detto che ormai può parlare<br />
in latino quanto vuole, ché tanto non gliene importa niente, ora, lui si ricorda degli<br />
scontri avuti, a proposito del “latinorum”, col focoso giovane, e gli dice ridendo:<br />
“Tu l’hai ancora col latino, tu: bene, bene, t’ac<strong>com</strong>oderò io: quando mi verrai<br />
davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti<br />
dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace”. Ma Renzo, pur scherzando anche lui,<br />
lo rimbecca per bene: “Quello è un latino sincero, sacrosanto, <strong>com</strong>e quel della<br />
messa… Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a<br />
tradimento, nel buono di un discorso. Per esempio,… quel latino che andava<br />
cavando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e<br />
che ci voleva dell’altre cose,… me lo volti un po’ in volgare ora”.<br />
13 = la vecchiaia è essa stessa una malattia.<br />
14 Essa è propriamente di Terenzio (Formione v. 575); il Nardi nel suo <strong>com</strong>mento l’attribuisce a<br />
Cicerone, , ma questi nel “De senectute” dice qualcosa di simile ma non uguale.<br />
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Al curato non conviene insistere sull’argomento, per lui scottante, di quel<br />
“latinorum” traditore, e passa ad altro, replicando: “Sta zitto, buffone, sta zitto:<br />
non rimestar queste cose; ché, se dovessimo ora fare i conti , non so chi<br />
avanzerebbe. Io ho perdonato tutto: non ne parliam più: ma me n’avete fatti dei<br />
tiri”. Poverino! Fa anche la vittima, ora, e accorda un magnanimo perdono! E<br />
continua a scherzare, chiamando Renzo “malandrinaccio”; e qui lo scherzo, anche<br />
se non garbato, è per lo meno passabile; ma passa i limiti, quando poi definisce<br />
Lucia “quest’acqua cheta, questa santerella, questa madonnina infilzata”, che però<br />
tenta di cogliere di sorpresa il suo parroco, ammaestrata all’uopo dalla<br />
spregiudicata e astuta Agnese. E durò ancora per un pezzo, “sempre a parlar di<br />
bubbole”, perché la morte di don Rodrigo gli aveva messo addosso una tal voglia<br />
di cicalare, che non la finiva più, e trattenne più volte la <strong>com</strong>pagnia, che stava per<br />
andarsene, finanche sull’uscio di strada. Vedete quanto una notizia può mutare e<br />
la vita e il carattere di un uomo!<br />
Il giorno dopo, una seconda sorpresa piacevole per don Abbondio: gli andò a<br />
rendere visita nientemeno che il signor marchese, erede di don Rodrigo. Era un<br />
attempato gentiluomo dello stampo antico: cortese, umile, dignitoso, e col volto<br />
soffuso di una mestizia cristianamente rassegnata, avendo perduto nella peste la<br />
moglie e i due unici figli. Veniva a fare una visita di cortesia al parroco della<br />
parrocchia dov’era sita la sua nuova proprietà, e anche a informarsi dei due<br />
promessi sposi, che gli erano stati rac<strong>com</strong>andati caldamente dal Cardinale, quando<br />
era andato a trovarlo, in visita di congedo, prima di lasciare Milano per la sua<br />
nuova residenza. Il marchese s’interessava ai due giovani anche per un motivo<br />
particolare, per così dire personale, essendo lui l’erede di chi era stato la causa di<br />
tutti i loro guai: voleva per quanto era possibile riparare al male fatto dall’indegno<br />
parente, rendendosi utile in qualche modo a quella buona gente; e chiese appunto<br />
al curato che cosa potesse fare per loro. Abbiamo già detto che la mente di don<br />
Abbondio si è ormai sbloccata, mentre prima era congelata da quella maledetta<br />
paura; ora essa lavora bene, ed è fertile di ottime idee; il che vuol dire che il buon<br />
senso non gli mancava, ma prima era <strong>com</strong>e <strong>com</strong>presso sotto il peso schiacciante<br />
della paura.<br />
Intelligente fu infatti la proposta che fece al marchese, per aiutare<br />
efficacemente quella brava gente: <strong>com</strong>prare le loro modeste proprietà, cioè la<br />
vigna di Renzo e le due casette, dato che essi dovevano partire al più presto per la<br />
nuova residenza, e non avrebbero facilmente trovato un <strong>com</strong>pratore, a meno di<br />
cederle “per un pezzo di pane”. Il gentiluomo accettò la proposta con molta<br />
gratitudine, e volle subito dar inizio alla sua attuazione; invitò quindi il curato,<br />
facendolo “restar di sasso” per tanta magnanimità, ad andare insieme, lì per lì, alla<br />
casetta della sposa, dove troverebbero probabilmente anche lo sposo, per portar<br />
loro i saluti del Cardinale e anche per trattare dell’affare. “Per la strada don<br />
Abbondio, tutto gongolante, <strong>com</strong>e vi potete immaginare, ne pensò e ne disse<br />
un’altra”, anche questa molto opportuna: ottenere, per Renzo, una buona<br />
assolutoria presso le <strong>com</strong>petenti autorità di Milano, in modo che la sua fedina<br />
penale ritornasse immacolata; col tempo, chi sa, egli poteva tornare nel Ducato, e<br />
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la fedina sporca avrebbe potuto nuocere o a lui o ai suoi figlioli. Questa<br />
preoccupazione del curato per il futuro del nostro giovane dimostra che non gli<br />
mancava un certo altruismo, quando non cozzasse col suo naturale e prepotente<br />
egoismo, cioè quando non gli costasse nulla; ma questo altruismo è troppo facile e<br />
per nulla degno di particolare ammirazione: don Abbondio in definitiva non<br />
faceva altro che proporre opere certamente buone, ma lui non moveva un dito; era<br />
il valente marchese che agiva. Costui infatti, informatosi bene dei casi di Renzo in<br />
Milano e della relativa cattura, prese senz’altro la cosa su di sé, e in pochi giorni<br />
ottenne per il giovane una sentenza di assoluzione con formula piena, <strong>com</strong>e si<br />
direbbe oggi.<br />
Il marchese e il curato, conversando così familiarmente e utilmente, giunsero<br />
alla casetta di Agnese, dove trovarono appunto tutti quanti, <strong>com</strong>e avevano<br />
immaginato. I poveretti rimasero, <strong>com</strong>’è naturale, meravigliati e insieme confusi<br />
per quella grande degnazione. Sentirono da principio un certo imbarazzo davanti a<br />
un sì nobile personaggio; ma il valent’uomo “avviò lui la conversazione, parlando<br />
del Cardinale e dell’altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicati<br />
riguardi”. Espresso il suo desiderio di acquistare le loro proprietà, invitò don<br />
Abbondio a fissarne il prezzo. Questi, che durante la strada era stato dal marchese<br />
pregato di stabilire un prezzo alto, dopo aver protestato che non se ne intendeva,<br />
disse una cifra che era “a parer suo, uno sproposito”. Ma il generoso <strong>com</strong>pratore,<br />
quasi avesse inteso male, la raddoppiò, e non volle sentir rettifiche; e per coronare<br />
la sua opera benefica e riparatrice, invitò i presenti tutti a pranzo, nel suo palazzo,<br />
per il giorno successivo a quello delle nozze, per poter fare, alla presenza degli<br />
interessati, lo strumento definitivo di acquisto per mano di un notaio.<br />
Il matrimonio di Renzo e Lucia fu <strong>com</strong>e una festa trionfale, non solo per loro<br />
ma per tutto quanto il paese, che conosceva le loro peripezie e vedeva con<br />
simpatia la realizzazione di un legame così contrastato e sofferto. “Un altro<br />
trionfo, e ben più singolare, fu l’andare a quel palazzotto”, dove furono fatti<br />
ac<strong>com</strong>odare a tavola, in un bel tinello, dallo stesso padrone di casa, che aiutò<br />
anche a servirli, prima di ritirarsi a pranzare, in disparte, con don Abbondio. Circa<br />
il fatto che il marchese non ritenne di pranzare con i suoi ospiti, <strong>com</strong>e sarebbe<br />
stato più semplice e simpatico, il Manzoni osserva che egli era umile, ma non a tal<br />
punto: in quanto occorre più umiltà per mettersi alla pari della povera gente, che<br />
mettersi, in una circostanza, al di sotto di essa; perché, anche nel mettersi al di<br />
sotto, permane un certo distacco. Osservazione molto acuta; ma io penso che, in<br />
un caso reale simile a quello immaginato nel romanzo, il padrone di casa faccia<br />
bene a non pranzare con i suoi ospiti popolani, per non tenerli in soggezione per<br />
l’intero pranzo, impedendo loro di godere appieno della festa, perché si sa bene<br />
che la gente umile si sente a disagio quando deve mangiare alla presenza di<br />
persone altolocate. I nostri sposi dunque, assieme ad Agnese e alla mercantessa,<br />
anche per la discrezione del marchese, potettero stare <strong>com</strong>pletamente a loro agio,<br />
godendosi nell’intimità quell’eccezionale evento.<br />
Nel pomeriggio di quella giornata memorabile fu steso e firmato l’atto di<br />
vendita, rogato da un dottore in legge, che non fu certamente l’Azzecca-garbugli,<br />
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che era stato portato via anche lui dal contagio. A questo proposito ci si permetta<br />
di osservare <strong>com</strong>e l’Autore, forse un po’ troppo ingenuamente e<br />
semplicisticamente, immagina che la “scopa” della peste spazzi via dalla scena del<br />
romanzo tutti i cattivi, <strong>com</strong>presi i loro ministri e manutengoli; <strong>com</strong>e una potente<br />
tramontana che in breve spazza via dal cielo fosco e minaccioso tutte le nuvole,<br />
lasciando a un tratto l’atmosfera pura e diafana. La peste è, per così dire, il “deus<br />
ex machina” di questo dramma, che scioglie ogni nodo e tutto risolve per il<br />
meglio: questo “deus ex machina”, a una valutazione attenta, appare non meno<br />
artificioso di quelli che, col solo loro apparire, risolvevano l’intreccio delle<br />
antiche tragedie greche. Con tutto il rispetto che nutro per il Manzoni, oserei dire<br />
che il dramma della vita non ha quasi mai di queste risoluzioni così <strong>com</strong>plete e<br />
definitive, per cui a un certo punto il male sia definitivamente sconfitto e trionfi<br />
senza più contrasto il bene. Il dolore, prodotto dal male che c’è in questo mondo,<br />
non è una semplice e breve parentesi della vita, ma ne forma, per così dire,<br />
l’essenza; e la novità del messaggio cristiano sta appunto nell’aver dato a questo<br />
dolore un significato e un valore trascendenti. Il cristiano non è chiamato a<br />
trionfare sul male esterno, ma piuttosto a vincere il male interno, costituito dalle<br />
passioni e dal peccato, per dare al dolore, <strong>com</strong>unque originato, uno scopo<br />
ultraterreno, per farne una palingenesi spirituale. Il dolore quindi è <strong>com</strong>e il sale<br />
della vita cristianamente intesa; esso viene vinto solo in quanto viene accettato e<br />
sublimato nella fiducia in Dio, che permette il male solo a fin di bene, ma del vero<br />
bene, quello eterno. Questo è certamente anche il pensiero del Manzoni, il quale<br />
avrebbe fatto forse bene a chiudere il romanzo col capitolo XXXVI, perché<br />
quanto segue indulge troppo alla ricerca del lieto fine, che nella vita reale non<br />
esiste mai, perché la vita è una continua lotta col male e col dolore o fisico o<br />
morale. Ora invece, dopo la peste, nella vita dei nostri due giovani, le cose<br />
<strong>com</strong>inciano a girare, tutt’a un tratto, in un modo troppo e sempre favorevole.<br />
Adesso, dopo la favorevolissima vendita di quei pochi beni, Renzo è anche pieno<br />
di soldi (si pensi anche agli scudi dell’Innominato), tanto che, nel ritorno dal<br />
palazzo, è addirittura “in<strong>com</strong>odato dal peso dei quattrini” che ha ricevuti dal<br />
marchese: dolce in<strong>com</strong>odo!<br />
Insomma, dalla peste in poi, lo stellone favorevole non lo abbandona più,<br />
anche se egli continua a <strong>com</strong>mettere errori, per il suo carattere piuttosto<br />
impulsivo. Infatti in quel paese del Bergamasco dove andarono ad allogarsi dopo<br />
le nozze, il giovane finì col mettersi “in guerra con quasi tutta la popolazione”, per<br />
certe critiche che si facevano, da alcuni, alla bellezza di Lucia, della quale c’era<br />
stata lì una troppo grande aspettativa, alimentata dal racconto delle sue<br />
vicissitudini. “Ora sapete – dice con fine osservazione il Manzoni – <strong>com</strong>e è<br />
l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa:<br />
non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si<br />
volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione”. Perciò<br />
quando Lucia, delle cui avventure tanto si era parlato, motivandole con la sua<br />
eccezionale bellezza che aveva fatto incapricciare un nobile, giunse finalmente in<br />
quel paese, quelli che avevano tanto atteso “<strong>com</strong>inciarono ad alzar le spalle, ad<br />
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arricciar il naso… e ci furon fin di quelli che la trovarono brutta affatto”. E si<br />
trovarono i soliti amici che andarono a riferire le varie critiche a Renzo, il quale<br />
ne rimase amareggiato, e non sapendo ingoiare in silenzio l’amaro boccone,<br />
<strong>com</strong>inciò anche lui a criticare le mogli degli altri, con aria di sufficienza,<br />
diventando a poco a poco sgarbato, disgustoso, sardonico; sicché “non eran pochi<br />
quelli che l’avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene”.<br />
Ma la buona stella non lo abbandona neppure in questa circostanza: “si direbbe –<br />
ammette l’Autore – che la peste avesse preso l’impegno di rac<strong>com</strong>odar tutte le<br />
malefatte di costui”; la peste è dunque ancora una volta il “deus ex machina” che<br />
tutto rimedia! Infatti era morto di peste il vecchio proprietario di una filanda quasi<br />
alle porte di Bergamo, e il giovane figlio, che era uno scapestrato, voleva<br />
disfarsene per far soldi e spassarsela a modo suo, ma voleva naturalmente denaro<br />
contante. Bortolo, saputa la cosa, andò a vedere, e subodorò subito l’affare: si<br />
poteva avere quell’opificio a meno della metà del suo valore, purché a pronta<br />
cassa; ma era pur sempre una somma considerevole. Sic<strong>com</strong>e, anche con tutti i<br />
suoi risparmi, non ci poteva arrivare, pensò al cugino, che di liquidi ne aveva<br />
adesso più di lui, e gli propose di <strong>com</strong>prare quella bella filanda metà per ciascuno:<br />
così ognuno avrebbe diretto e amministrato la sua parte, la sua proprietà. Renzo<br />
accettò subito, perché lo allettava la prospettiva di lavorare in proprio, e perché il<br />
paese in cui stava gli era venuto ormai in uggia, e voleva cambiare aria. Infatti,<br />
fatto l’acquisto, si trasferì subito con la famiglia in quell’opificio, finalmente<br />
<strong>com</strong>e proprietario. Lì Lucia non era affatto aspettata, sicché non dispiacque,<br />
tutt’altro; e Renzo con fierezza e soddisfazione venne a risapere che più d’uno<br />
aveva detto: “Avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?” L’aggettivo<br />
rendeva accettabile il sostantivo, che al nostro giovane non piaceva troppo, <strong>com</strong>e<br />
sappiamo.<br />
Egli poi, col tempo, <strong>com</strong>inciò a diventare più maturo, più riflessivo, e a pesar<br />
meglio le parole; imparò che queste hanno un sapore a dirle e un altro a sentirle;<br />
“errando discitur”, e lui aveva imparato anche a non “criticar la donna d’altri”, se<br />
non voleva che fosse criticata la sua. Anche lì qualche fastidiuccio non mancò, ma<br />
non erano cose da poter intaccare la fortuna e la felicità di Renzo e della sua<br />
famiglia. I fastidi, si sa, non mancano mai, anche nella situazione più prospera e<br />
tranquilla; e l’uomo è d’altronde incontentabile. Per dimostrarci questa verità, il<br />
Manzoni ci porta una bella similitudine, che è poi l’ultima del romanzo: “l’uomo,<br />
fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto s<strong>com</strong>odo più o<br />
meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si<br />
figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è<br />
ac<strong>com</strong>odato nel nuovo, <strong>com</strong>incia, pigiando, a sentire, qui una lisca che lo punge, lì<br />
un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima”.<br />
Da questa acuta osservazione sulla vita umana, l’Autore ricava una delle sue<br />
bonarie massime: “si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si<br />
finirebbe anche a star meglio”. La corsa alle <strong>com</strong>odità e ai piaceri non dà la<br />
felicità; chi invece pensa soprattutto a fare il suo dovere di uomo e di cristiano, e<br />
cerca di <strong>com</strong>pierlo con impegno e senso di responsabilità, conquista quella<br />
248
serenità interiore, quella pace che il mondo non può né dare né togliere, e che è il<br />
meglio di questa vita, perché bene vero e duraturo.<br />
Gli affari materiali andavano per Renzo a gonfie vele, anche perché fu<br />
concessa l’esenzione totale dalle imposte, per dieci anni, a favore dei forestieri<br />
che esercitassero un’attività nel territorio della Serenissima: “per i nostri fu una<br />
nuova cuccagna”. Renzo è ormai un industriale, e con l’esenzione fiscale si avvia<br />
a diventar ricco! Ci sembra davvero che il desiderio del lieto fine abbia portato<br />
don Lisander a esagerare un po’ troppo; non perché simili fortune non possano<br />
verificarsi, ma perché questo finale troppo roseo non serve davvero a ribadire il<br />
concetto di vita che l’Autore ci ha inculcato con tanta efficacia e convinzione.<br />
Vennero naturalmente anche i figli, a benedire quel matrimonio cristiano;<br />
<strong>com</strong>’era da aspettarsi, la primogenita fu chiamata Maria, secondo la “magnanima<br />
promessa” fatta da Renzo nel lazzaretto; poi ne vennero chi sa quanti, di bambini,<br />
che la buona nonna portava a spasso con piacere e con fierezza, “chiamandoli<br />
cattivacci, e stampando loro in viso dei bacioni, che ci lasciavano il bianco per<br />
qualche tempo”. Essi furono tutti docili e di buon carattere (altra fortuna che non<br />
facilmente si verifica, anche a ottimi genitori), e tutti impararono a leggere e<br />
scrivere, per esplicita volontà dell’illetterato genitore, il quale aveva costatato<br />
quanto importasse saper tenere la penna in mano, e spesso ripeteva che, “giacché<br />
la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”, cioè i suoi<br />
figlioli.<br />
Renzo, dato il suo carattere estroverso e un po’ saccente, si lasciava andare<br />
spesso e volentieri a raccontare le sue peripezie, magari aggiungendoci, quasi<br />
senza avvedersene, qualche frangia d’abbellimento, e concludeva sempre con la<br />
solita sua morale, spicciola e angusta: “Ho imparato a non mettermi nei tumulti:<br />
ho imparato a non predicare in piazza… ho imparato a non alzar troppo il<br />
gomito…” Ma Lucia non era soddisfatta di questa morale così limitata: “le<br />
pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa”. Quella morale infatti era<br />
troppo misera e unilaterale, non tale da valere per tutti, anche per quelli che pur<br />
non si erano messi nei tumulti né si erano ubriacati. Essa, per esempio, che cosa<br />
poteva dire di aver imparato? I guai, lei, non se li era andata a cercare, <strong>com</strong>e il suo<br />
dissennato marito; anzi, aveva cercato sempre di evitarli, con una condotta<br />
prudente e irreprensibile; lei poteva dire in coscienza di aver sempre fuggito ogni<br />
occasione pericolosa; ma ciò non era bastato per evitare il male: ebbene?<br />
Sbagliando s’impara: questo è anche vero; ma chiese al marito che errori aveva<br />
fatto lei, dai quali potesse dire di aver imparato qualcosa? E con un soave sorriso<br />
aggiunse: “Quando non voleste dire che il mio sproposito sia stato quello di<br />
volervi bene, e di promettermi a voi”.<br />
Davanti a questa semplice obiezione della consorte, il moralista troppo pratico<br />
non sapeva che rispondere: la sua morale non andava oltre il caso spicciolo,<br />
abbastanza ovvio; ma Lucia, dotata di profonda sensibilità religiosa, l’aiutò a<br />
trovare una risposta soddisfacente al problema morale della vita umana: “Dopo un<br />
lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso,<br />
perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a<br />
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tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio<br />
li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Questa è la conclusione del<br />
romanzo, “il sugo di tutta la storia” dei due promessi, giunti al sospirato<br />
matrimonio attraverso il dolore.<br />
Questa conclusione, pur nella sua semplicità, racchiude tutta la consolante<br />
risposta cristiana alla domanda assillante che preme e urge sul pensiero umano:<br />
perché soffrire? Perché soffrono anche gli innocenti? La soluzione cristiana del<br />
problema della vita, cioè del problema del dolore (perché vivere è soffrire), è tutta<br />
qui. Questo problema che ha travagliato tanti filosofi, che ha smagato tanti<br />
pensatori, che ha turbato tante coscienze; che ad alcuni è apparso insolubile, che<br />
ad altri ha suggerito risposte desolate o disperate; questo problema trova qui, in<br />
queste poche parole volutamente disadorne, messe in bocca a persone umili, la sua<br />
soluzione convincente e rassicurante. Il dolore, conseguenza del male, del<br />
peccato, cioè della superbia e cattiveria umana, è permesso da Dio <strong>com</strong>e<br />
espiazione e purificazione del peccato, e insieme <strong>com</strong>e mezzo di miglioramento<br />
interiore, <strong>com</strong>e strumento di affinamento e di elevazione della creatura sino al<br />
Creatore. Il male può derivare dai nostri errori, dalle nostre colpe, <strong>com</strong>e fu per<br />
Renzo; ma può anche piombarci addosso e attanagliarci senza nostra colpa alcuna,<br />
perché esso colpisce anche le persone più buone e più innocenti, <strong>com</strong>e la buona e<br />
soave Lucia; ma in un caso e nell’altro la fiducia in Dio, cioè la persuasione che il<br />
male Iddio non lo può permettere che a fin di bene, essendo Egli infinitamente<br />
Buono, lo farà apparire più dolce, quasi soave, quasi desiderabile, perché è mezzo<br />
di purificazione e di merito. <strong>“I</strong>l mio giogo è soave”, dice Gesù nel Vangelo; e il<br />
suo giogo è appunto il dolore, che risulta soave a chi ne ha <strong>com</strong>preso l’altissima<br />
finalità e cerca di unirsi alla passione di Cristo. Il dolore è la grande prova della<br />
nostra vita, la pietra di paragone del nostro valore; un giorno, alla fine di questa<br />
breve esistenza terrena, saremo giudicati in base a <strong>com</strong>e ci siamo <strong>com</strong>portati<br />
davanti al dolore degli altri e allorché siamo stati visitati noi stessi dal dolore,<br />
dalla sventura, cioè quando siamo stati visitati, in definitiva, da Dio stesso. “Dio<br />
vi ha visitate”, dice padre Cristoforo a Lucia e ad Agnese, quando è informato<br />
dell’indegna persecuzione del malvagio don Rodrigo, artefice del male e<br />
persecutore dei buoni. Questo pensano i santi: il dolore è la visita del Signore.<br />
Il dolore infatti, se cristianamente accettato e sopportato, non solo diventa più<br />
leggero (per i santi addirittura soave), ma è utile per una vita migliore, non solo in<br />
questo mondo, perché rende l’uomo più buono e più virtuoso, affinandone le<br />
qualità e moltiplicandone le energie, ma soprattutto nell’altra vita, facendo<br />
meritare l’eterna beatitudine. E’ questa la grande speranza, che dico?, la<br />
meravigliosa certezza del cristiano, a cui il dolore non fa paura, perché esso è il<br />
cimento necessario, direi indispensabile per una vita vissuta nella consapevolezza<br />
del suo valore eterno, della sua finalità ultraterrena. Il vero cristiano dovrebbe<br />
atterrirsi, non del dolore, ma, se mai, dell’assenza del dolore; e infatti sappiamo<br />
che alcuni santi si sono volontariamente procurato il dolore con cilici, digiuni e<br />
altre aspre penitenze. Il Signore non esige certamente simili sacrifici: per i<br />
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cristiani <strong>com</strong>uni, <strong>com</strong>e siamo noi, basta aprire volentieri la porta al Signore,<br />
quando ci visita per mezzo del dolore.<br />
F I N E<br />
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INDICE<br />
Anagogica 2<br />
PREFAZIONE 4<br />
VITA E OPERE DI ALESSANDRO MANZONI 5<br />
NOTA CRITICA SU <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong> 15<br />
INTRODUZIONE <strong>DE</strong> <strong>“I</strong> <strong>PROMESSI</strong> <strong>SPOSI”</strong> 17<br />
CAPITOLO I 19<br />
CAPITOLO II 22<br />
CAPITOLO III 25<br />
CAPITOLO IV 28<br />
CAPITOLO V 31<br />
CAPITOLO VI 35<br />
CAPITOLO VII 39<br />
CAPITOLO VIII 44<br />
CAPITOLO IX 48<br />
CAPITOLO X 53<br />
CAPITOLO XI 59<br />
CAPITOLO XII 65<br />
CAPITOLO XIII 70<br />
CAPITOLO XIV 76<br />
CAPITOLO XV 81<br />
CAPITOLO XVI 86<br />
CAPITOLO XVII 91<br />
CAPITOLO XVIII 96<br />
CAPITOLO XIX 103<br />
CAPITOLO XX 110<br />
CAPITOLO XXI 118<br />
CAPITOLO XXII 125<br />
CAPITOLO XXIII 132<br />
CAPITOLO XXIV 139<br />
CAPITOLO XXV 152<br />
CAPITOLO XXVI 157<br />
CAPITOLO XXVII 163<br />
CAPITOLO XXVIII 168<br />
CAPITOLO XXIX 175<br />
CAPITOLO XXX 181<br />
CAPITOLO XXXI 188<br />
CAPITOLO XXXII 195<br />
CAPITOLO XXXIII 201<br />
CAPITOLO XXXIV 211<br />
CAPITOLO XXXV 219<br />
252
CAPITOLO XXXVI 223<br />
CAPITOLO XXXVII 231<br />
CAPITOLO XXXVIII 240<br />
253