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VeneziaMusicaedintorni 48 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia

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Note medievali: alla ghironda,<br />

Maria De Toni<br />

(Belluno, Colle Santa Lucia.<br />

Foto di Mariano Beltrame).


2<br />

Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. <strong>48</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

In copertina: L’Opera Gala<br />

del Prefestival «Lo spirito della musica di <strong>Venezia</strong>»<br />

organizzato dalla Fondazione Teatro La Fenice<br />

(foto di Michele Crosera).<br />

Questo numero è stato realizzato<br />

grazie alla collaborazione di Luca Ronconi,<br />

Luigi Laselva, Andrea Estero, Andrea Porcheddu,<br />

Fortunato Ortombina, Emanuela Caldirola,<br />

Maria Stefanoni, Elena Casadoro, Adriana Vianello,<br />

Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Cecilia Dolcetti,<br />

Silvia Carrer, Lorenza Cossutta, Laura Corazzol,<br />

Maria Rita Cerilli, Alexia Boro,<br />

Andrea Benesso, Cristina Savi, Clizia Benedettelli<br />

<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni<br />

Anno ix – n. <strong>48</strong> – settembre /ottobre 2012<br />

Reg. Tribunale di <strong>Venezia</strong> n. 1496 del 19 / 10 / 2004<br />

Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004<br />

ISSN 1971-8241<br />

Direttore editoriale: Giuliano Segre<br />

Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano<br />

Direttore responsabile: Leonardo Mello<br />

Caporedattore: Ilaria Pellanda<br />

Art director: Luca Colferai<br />

Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,<br />

Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,<br />

Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti<br />

Segreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni<br />

Redazione e uffici: Dorsoduro 3<strong>48</strong>8/U – 30123 <strong>Venezia</strong><br />

tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939<br />

e-mail: l.mello@euterpevenezia.it<br />

i.pellanda@euterpevenezia.it<br />

web: www.euterpevenezia.it<br />

<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni è stata fondata<br />

da Luciano Pasotto nel 2004<br />

Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),<br />

Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis,<br />

Ignazio Musu, Giampaolo Vianello<br />

Editore: <strong>Euterpe</strong> <strong>Venezia</strong> s.r.l.<br />

<strong>Euterpe</strong> <strong>Venezia</strong> è una società strumentale<br />

della Fondazione di <strong>Venezia</strong> che si occupa dello studio, della<br />

produzione e della gestione di processi e interventi formativi,<br />

di ricerca e di presenza nel campo delle arti<br />

e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite<br />

alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo<br />

e alle discipline a esse correlate<br />

Presidente: Gianpaolo Fortunati<br />

Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo<br />

Consiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino<br />

La Fondazione di <strong>Venezia</strong> è presieduta da Giuliano Segre<br />

Consiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini,<br />

Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati,<br />

Riccardo Calimani, Carlo Carraro,<br />

Antonio Foscari, Anna Laura Geschmay Mevorach,<br />

Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza,<br />

Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo<br />

Stampa: Tipografia Crivellari 1918<br />

Via Trieste 1, Silea (Tv)<br />

Raccolta pubblicitaria:<br />

Luciana Cicogna<br />

347 6176193 – lucianacicogna@libero.it<br />

Nicoletta Echer<br />

3<strong>48</strong> 3945295 – nicoletta.echer@fastwebnet.it<br />

Tiratura: 3000 copie<br />

Uscita bimestrale


Editoriale<br />

Due maestri indiscussi e internazionalmente<br />

riconosciuti come Luca Ronconi e Pierre Boulez<br />

caratterizzano le due nuove edizioni della Biennale<br />

Teatro e Musica: con il Leone d’oro alla carriera<br />

l’ente veneziano ha voluto sottolineare la centralità di<br />

queste due figure nel panorama teatrale e musicale contemporaneo.<br />

E di Biennale torniamo come sempre a parlare anche<br />

noi in questo periodo dell’anno, fondendo in un unico<br />

focus il laboratorio estivo ideato da Álex Rigola per le arti<br />

sceniche e il festival musicale diretto da Ivan Fedele, che avrà<br />

invece luogo in ottobre. L’ideale contiguità tra i diversi comparti<br />

delle cosiddette performing arts è dunque ribadita anche<br />

in questo numero, che riunisce uno sguardo retrospettivo<br />

dedicato al cantiere teatrale agostano e una prospettiva<br />

futura, quella musicale, di cui cerchiamo di fornire alcuni<br />

strumenti interpretativi attraverso dei «ritratti» significativi,<br />

a partire proprio da quello di Boulez, firmato da Paolo<br />

Petazzi.<br />

In realtà la visione progettuale della Biennale, secondo gli<br />

obiettivi portati avanti dal suo presidente Paolo Baratta, si<br />

è in questi<br />

ultimi tempiparzialmentemodificata,rivolgendo<br />

attenzione<br />

prioritaria<br />

ai nuovi talenti,giovani<br />

già artisticamentestrutturati<br />

che giungono<br />

in laguna<br />

a inc<br />

o n t r a r e<br />

a f f er m ati<br />

maîtres del<br />

panorama<br />

scenico internazionale.<br />

Questo<br />

approccio<br />

formativo<br />

– che vede<br />

addirittura<br />

un «mostro<br />

sacro»<br />

come Luca<br />

Ronconi<br />

svolgere un laboratorio pratico insieme a giovani attori e registi<br />

– si riverbera anche nel cantiere editoriale gestito per il<br />

secondo anno, sempre all’interno della Biennale Teatro, da<br />

Andrea Porcheddu, che raccoglie sei ragazzi da tempo ormai<br />

occupati nella comunicazione online dei più rilevanti eventi<br />

nazionali nei settori delle arti dal vivo. A loro lasciamo dunque<br />

il campo per una narrazione articolata di quanto si è sviluppato<br />

all’interno dei molti luoghi prescelti per far interagire<br />

gli artisti con la città d’acqua. L’interesse per le nuove pro-<br />

Luca Ronconi a <strong>Venezia</strong> (foto di Luigi Laselva).<br />

di Leonardo Mello<br />

poste è d’altro canto uno degli aspetti più interessanti della<br />

nuova edizione del festival musicale, dove – a fianco di grandi<br />

nomi del presente e del passato più prossimo – sono previste<br />

numerose prime assolute di autori generazionalmente<br />

giovanissimi, ascoltati e selezionati dal direttore artistico girando<br />

l’Europa in lungo e in largo.<br />

Ma lungi dall’essere un numero «estivo», questo quarantottesimo<br />

si distingue per la varietà della sua offerta. Insieme<br />

ai grandi nomi della musica leggera e cantautoriale – pregevole<br />

in questo senso il ritratto di Leonard Cohen che ci regala<br />

Giò Alajmo – andiamo ad approfondire l’arte filmica di<br />

Francesco Rosi, la pittura di Giuseppe Capogrossi, i seminari<br />

fotografici dei Tre Oci, per citare solo alcuni degli articoli<br />

presenti. L’idea è – pur volendo restare un bimestrale saldamente<br />

incentrato sulle arti performative – quella di allargare<br />

gli orizzonti cercando di creare un racconto complessivo<br />

dell’offerta culturale del nostro territorio, che si presenta ricca<br />

e articolata nonostante soffino preoccupanti venti di crisi.<br />

E per una volta sconfiniamo anche in un terreno a noi normalmente<br />

limitrofo, dando spazio al Festival della Politica<br />

organizzato a Mestre dalla Fondazione Gianni Pellicani, che<br />

tra i molti appuntamenti vede anche la partecipazione del<br />

Presidente della Repubblica: l’importanza di quest’iniziativa<br />

– che coinvolge, tra le altre, personalità del calibro di Gustavo<br />

Zagrebelsky, Corrado Augias, Stefano Rodotà, Massi-<br />

mo Cacciari, Ilvo Diamanti, Massimo Donà, Ernesto Galli<br />

della Loggia, Massimo Giannini, Angelo Panebianco, Paola<br />

Concia, Dacia Maraini ed Emanuele Macaluso – giustifica<br />

l’interesse anche da parte di una rivista di settore come la nostra.<br />

Perché politica e cultura, in un ideale mondo da costruire,<br />

vanno sempre di pari passo, nutrendosi l’una dell’altra.<br />

Continua infine la parentesi dedicata a Mario Bortolotto,<br />

con altri due preziosi interventi che delineano aspetti sempre<br />

nuovi di questo grande musicologo e intellettuale. Pagine<br />

forse di nicchia, che però possono essere, ci auspichiamo,<br />

un interessante spunto d’analisi per tutti i nostri lettori. ◼<br />

3


4<br />

sommario<br />

3 Editoriale<br />

7 Il Leone d’oro al magistero di Luca Ronconi<br />

8 Sei giovani critici raccontano la Biennale Teatro 2012<br />

8 Un laboratorio di critica alla Biennale<br />

di Andrea Porcheddu<br />

focus on<br />

9 «Questa sera si recita a soggetto»: il lavoro sul testo ai tempi della performance<br />

Focus sul laboratorio di Luca Ronconi<br />

di Rossella Menna<br />

10 To show the time: per una immaginazione del corpo<br />

Intorno al laboratorio di Gabriela Carrizo / Peeping Tom<br />

di Matteo Antonaci<br />

11 Dai «barrios» di Buenos Aires alla Biennale di <strong>Venezia</strong>:<br />

il teatro di Claudio Tolcachir<br />

di Giada Russo<br />

12 Quattro gruppi in residenza alla Biennale 2012<br />

Dai laboratori 2010-2011 alla presentazione di progetti autonomi<br />

di Elena Conti<br />

13 Un campus d’agosto fra incontro e condivisione<br />

Il progetto di Álex Rigola per un cantiere che lavori tutto l’anno<br />

di Roberta Ferraresi<br />

15 La formazione continua: una riflessione sulla Biennale Teatro<br />

di Andrea Pocosgnich<br />

16 Rafael Spregelburd secondo Luca Ronconi<br />

a cura di Oliviero Ponte di Pino<br />

20 «+Extreme-», il primo Festival di Ivan Fedele<br />

a cura di Leonardo Mello<br />

22 Pierre Boulez<br />

di Paolo Petazzi<br />

26 John Cage<br />

di Mario Messinis<br />

28 L’importanza del pubblico come interlocutore<br />

Una conversazione con Yotam Haber, direttore artistico del mata<br />

a cura di Federico Capitoni<br />

30 «L’occasione fa il ladro» di Rossini secondo Betta Brusa<br />

a cura di Arianna Silvestrini<br />

31 Alle Sale Apollinee un omaggio a Gino Gorini<br />

di Mario Messinis<br />

32 Una performance in Piazza per chiudere il Prefestival<br />

La Fenice fa un bilancio della nuova manifestazione estiva<br />

di Leonardo Mello<br />

34 Al Festival Monteverdi-Vivaldi due «stromenti venetiani» dimenticati<br />

di Alberto Castelli<br />

opera<br />

concerti<br />

7-29<br />

Le Biennali Teatro e Musica:<br />

grandi maestri e molti giovani<br />

nelle rassegne<br />

di Álex Rigola e Ivan Fedele<br />

16-19<br />

Luca Ronconi analizza<br />

il teatro di Rafael Spregelburd<br />

in tre interviste<br />

di Oliviero Ponte di Pino<br />

32<br />

30


35 Ancora concerti per il Venetian Centre for Baroque Music<br />

di Alberto Castelli<br />

36 Ad Aldo Ciccolini il Premio «Rubinstein» 2012<br />

di Vitale Fano<br />

37 «Una vita nella musica» 2012<br />

di Ilaria Pellanda<br />

38 Il Festival Galuppi compie diciott’anni<br />

di Ilaria Pellanda<br />

39 Un nuovo autunno in musica per Palazzetto Bru Zane<br />

di Andrea Oddone Martin<br />

40 «L’ape musicale» degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />

di Paolo Cattelan<br />

41 I «Concerti della domenica» dei Solisti Veneti<br />

di Leonardo Mello<br />

42 Il «Pierrot Lunaire» di Schönberg incanta Padova<br />

di Filippo Juvarra<br />

43 Leonard Cohen in una parola: «Hallelujah»<br />

di Giò Alajmo<br />

44 I Radiohead approdano a Villa Manin<br />

Atteso a Udine il concerto della band di Thom Yorke<br />

di Giuliano Gargano<br />

45 Nina Zilli, l’anima soul della musica italiana<br />

di Tommaso Gastaldi<br />

46 Vinicio Capossela al Teatro Verde per Live in Venice<br />

Si conclude un’estate di grandi artisti a San Giorgio<br />

di Ilaria Pellanda<br />

<strong>48</strong> Slash: un nuovo progetto e un po’ di Guns N’ Roses<br />

di Tommaso Gastaldi<br />

49 Herbie Hancock in piano solo<br />

di Guido Michelone<br />

50 «E noi faremo come la Russia…»<br />

La canzone comunista<br />

di Gualtiero Bertelli<br />

52 Giuseppe Capogrossi secondo Luca Massimo Barbero<br />

a cura di Ilaria Pellanda<br />

55 A Ca’ Rezzonico l’opera grafica dei Tiepolo<br />

di Eva Rico<br />

56 Un ritratto di Francesco Rosi, Leone d’oro alla carriera 2012<br />

di Roberto Pugliese<br />

58 «Se ti abbraccio non aver paura», storia di un padre e un figlio<br />

di Mariano Beltrame<br />

l’altra musica<br />

arte<br />

cinema<br />

letteratura<br />

45<br />

52<br />

55<br />

56-57<br />

43<br />

Un ritratto di Francesco Rosi<br />

firmato da Roberto Pugliese<br />

sommario 5


6<br />

sommario<br />

58 Una conversazione con Fulvio Ervas<br />

a cura di Mariano Beltrame<br />

59 Nuovi workshop ai Tre Oci<br />

di Ilaria Pellanda<br />

60 <strong>Venezia</strong> tra salvaguardia e contemporaneità<br />

Una conversazione con Renata Codello<br />

a cura di Leonardo Mello<br />

62 Le «Voci Fuori Campo» della Fondazione Pellicani<br />

Giorgio Napolitano ospite d’onore del Festival della Politica<br />

di Nicola Pellicani<br />

64 «Musiche Culture Identità»<br />

Il congresso della Società Internazionale di Musicologia a Roma<br />

di Emanuele Senici<br />

66 Alla Cini un convegno su Luigi Squarzina<br />

di Leonardo Mello<br />

67 Il provetto stregone<br />

Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />

di Jacopo Pellegrini<br />

69 Bortolotto l’oscuro<br />

di Gian Paolo Minardi<br />

72 L’anima del Lied<br />

di Alberto Caprioli<br />

76 Le recensioni<br />

di Giuseppina La Face Bianconi<br />

77 Palchi e gironi per i cantautori italiani<br />

di Ilaria Pellanda<br />

77 Emma Dante e la sua Biancaneve<br />

di Ilaria Pellanda<br />

78 «L’attore civile» di Paola Bigatto e Renata Molinari<br />

di Leonardo Mello<br />

78 «Scritto dentro», un libro bellissimo<br />

di Leonardo Mello<br />

79 Il pop-rap dei giovanissimi Rockit & Gugly<br />

di Leonardo Mello<br />

79 Il «Sunrise» del Masabumi Kikuchi trio<br />

di Giovanni Greto<br />

fotografia<br />

in vetrina<br />

in vetrina – Mario Bortolotto<br />

carta canta libri / dischi<br />

I nuovi workshop<br />

fotografici ai Tre Oci<br />

60-61<br />

78<br />

Renata Codello<br />

parla di <strong>Venezia</strong><br />

e del suo immenso<br />

patrimonio artistico<br />

59<br />

62-63<br />

Giorgio Napolitano<br />

al Festival della Politica<br />

della Fondazione Pellicani


Il Leone d’oro<br />

al magistero<br />

di Luca Ronconi<br />

Il 6 agosto scorso, presso la Sala delle Colonne di<br />

Ca’ Giustinian, Paolo Baratta e Álex Rigola – rispettivamentepresidente<br />

della Biennale<br />

di <strong>Venezia</strong><br />

e direttore artistico<br />

del settore<br />

Teatro – hanno<br />

consegnato a<br />

Luca Ronconi<br />

(che ha condotto<br />

uno dei laboratoriprevisti<br />

per quest’edizionedella<br />

Biennale Teatro)<br />

il Leone<br />

d’oro alla carriera.<br />

A seguire,<br />

lo stesso Ronconi<br />

è stato protagonista<br />

di una<br />

chiacchierata<br />

sul suo lungo<br />

percorso artistico,condotta<br />

da Gianfranco<br />

Capitta. Ecco<br />

la motivazione<br />

che ha accompagnato<br />

la<br />

cerimonia di<br />

premiazione:<br />

«Riconosciuto<br />

in tutto il<br />

mondo come<br />

uno dei massimirappresentanti<br />

del teatro<br />

di regia, che ha<br />

attraversato dagli<br />

anni sessanta<br />

con passionesperimentale<br />

misurandosi<br />

con spazi e tempiinconsueti,<br />

Luca Ronconi<br />

è stato autore<br />

di grandi narrazioniteatrali,<br />

dall’Orlando<br />

Furioso a Gli ultimi giorni dell’umanità e Infinities, da Pirandello<br />

e Gadda a Dostoevskij e Nabokov, ma ha anche sa-<br />

In alto: Luca Ronconi Leone d'oro (foto di Luigi Laselva).<br />

A destra: la consegna del premio con Paolo Baratta e Álex Rigola.<br />

A sinistra: un momento della conversazione<br />

tra Luca Ronconi e Gianfranco Capitta<br />

(Courtesy La Biennale di <strong>Venezia</strong> — foto di G. Zucchiati).<br />

puto generosamente e costantemente guardare alla trasmissione<br />

dei saperi tra generazioni, facendosi guida per tanti giovani<br />

allievi. Il rinnovamento del linguaggio scenico operato<br />

da Ronconi ha lasciato un’impronta anche nel campo della<br />

lirica, dove il regista ha affrontato i grandi autori classici<br />

– Mozart, Verdi, Rossini – insieme a compositori meno frequentati<br />

del periodo barocco e ai contemporanei.<br />

Alla testa delle maggiori istituzioni teatrali italiane, a partire<br />

dalla Biennale stessa, di cui ha diretto i Settori Teatro e<br />

Musica in anni di radicali cambiamenti – tra il 1975 e il ’77<br />

– e poi direttore artistico dei Teatri Stabili di Torino, Roma<br />

e Milano, Ronconi ha sempre curato direttamente le attività<br />

delle accademie di teatro a questi annesse. Nel 2002 ha coronato<br />

la sua vocazione pedagogica fondando il Centro Teatrale<br />

di Santacristina a Gubbio, dedicato all’alta formazione<br />

di attori professionisti». ◼<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

focus on 7


8<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

Sei giovani critici<br />

raccontano<br />

la Biennale Teatro 2012<br />

Quest’edizione della Biennale Teatro,<br />

diretta per la seconda volta da Álex Rigola, è stata<br />

caratterizzata da una forte dimensione laboratoriale,<br />

che ha riunito – come si potrà leggere<br />

negli articoli che seguono – maestri e artisti<br />

di generazioni e poetiche diverse.<br />

Sono state inoltre presentate quattro «Residenze», vale a<br />

dire lavori, più o meno compiuti, realizzati dai partecipanti<br />

alla Biennale negli scorsi due anni. In questi sette giorni d’agosto,<br />

nei quali i protagonisti sono stati i circa centocinquanta<br />

giovani attori coinvolti, è stata attiva anche una redazione,<br />

coordinata da Andrea Porcheddu e composta da sei altrettanto<br />

giovani critici teatrali attivi nel web. A loro – dopo<br />

l’introduzione dello stesso Porcheddu – abbiamo chiesto di<br />

raccontare quello che hanno visto (e che non poteva, ovviamente,<br />

essere tutto) e di esprimere anche qualche valutazione<br />

conclusiva. (l.m.)<br />

Un laboratorio<br />

di critica<br />

alla Biennale<br />

introduzione di Andrea Porcheddu<br />

Siamo tornati, anche quest’anno, nelle belle sale<br />

di Ca’ Giustinian: uno spazio, all’interno della sede<br />

della Biennale, dedicato alla critica teatrale. Un laboratorio<br />

dedicato alla scrittura critica, per dare corpo e anima a<br />

una esperienza che si ripete sistematicamente ormai da quasi<br />

cinque anni.<br />

Picchiano le dita sui tasti dei sette pc della «redazione»:<br />

sono tutti al lavoro, giovani e giovanissimi, seri e motivati.<br />

Preparano gli articoli dopo aver seguito i laboratori, gli incontri,<br />

dopo aver fatto interviste e incontri. La Biennale Teatro<br />

ha voluto aprire i propri spazi formativi anche alla pratica<br />

critica: è opera meritoria, non vi è dubbio. E per quest’anno<br />

sono stati selezionati sei critici di provenienza (geografica<br />

e redazionale) diversa.<br />

Ci siamo trovati, quotidianamente, a discutere, analizzare,<br />

commentare. Abbiamo fatto tarda la notte, con un bicchiere<br />

di vino, a sviscerare temi emersi durante la visione dei workshop<br />

tenuti dai Maestri internazionali che hanno animato<br />

l’edizione 2012 della Biennale Teatro. Abbiamo fatto interviste<br />

ai partecipanti, incontri (anche informali: con Oliviero<br />

Ponte di Pino, Anna Maria Monteverdi, Leonardo Mello,<br />

Fausto Paravidino e Iris Fusetti), abbiamo ascoltato i Maestri<br />

e osservato i loro metodi di insegnamento.<br />

Abbiamo voluto e cercato il dialogo con i laboratoristi che<br />

erano (e sono) il vero fulcro di questo enorme campus veneziano:<br />

attori e attrici provenienti da mezza Europa per ascoltare<br />

le lezioni di Donnellan e Ormerod, di Tolcachir e Carrizo,<br />

di LaBute e Ronconi. Maestri che certo hanno depositato<br />

schegge di memorie future nell’immaginario dei giovani<br />

allievi.<br />

Per quel che ci riguarda, abbiamo cercato di spingere l’acce-<br />

leratore sul dubbio e sulla domanda, proponendoci come osservatori<br />

attenti, ma aperti, disponibili. Un approccio verso<br />

la ricerca e lo studio, per fare di un laboratorio di critica un<br />

momento non solo di testimonianza e racconto, ma anche<br />

– e soprattutto – di riflessione. Come per gli altri laboratori<br />

della Biennale, abbiamo avuto poco tempo per affinare le<br />

armi e calibrare una proposta: nonostante ciò, siamo riusciti<br />

a tener fede allo spirito degli Open Doors, e siamo «usciti»<br />

quotidianamente, sul sito della Biennale Teatro e sui rispettivi<br />

siti/blog coinvolti nella iniziativa. E mi piace, allora,<br />

citare e ringraziare i partecipanti a questo laboratorio critico:<br />

Matteo Antonaci, di artribune.it; Roberta Ferraresi, di<br />

doppiozero.com; Giada Russo, di ateatro.it; Elena Conti, di<br />

iltamburodikattrin.com; Rossella Menna di rumorscena.<br />

com e Andrea Pocosgnich di teatroecritica.net (e chi scrive,<br />

di myword.it, a coordinare il lavoro). Un gruppo che rispecchia,<br />

tra l’altro, e ben rappresenta, la grande vivacità della critica<br />

italiana on line.<br />

Come sempre accade in questi casi, ci sono voluti un paio<br />

di giorni per trovare un ritmo e uno stile comune (o quanto<br />

meno condiviso), ma poi la «redazione» ha iniziato a lavorare.<br />

L’esperienza «critica» della Biennale nasce, va però ricordato,<br />

da un contesto ampio, ossia dalla volontà di fare di<br />

questa attività una sorta di investigazione continua: indugiare,<br />

senza stancarsi, nel dubbio, nel cavillo. Nel «perché»: come<br />

fanno i bambini irriverenti che vogliono sempre sapere<br />

tutto. Dunque, già negli anni di direzione di Maurizio Scaparro<br />

abbiamo aperto il laboratorio Biennale a studenti delle<br />

Università di <strong>Venezia</strong>. Poi con Álex Rigola abbiamo in qualche<br />

modo alzato il tiro pensando a una sorta di masterclass<br />

per giovani critici già attivi sul web. Gli obiettivi, con Rigola,<br />

erano infatti da subito molteplici e di grande respiro. Intanto<br />

mettere a confronto – diretto, immediato, feroce – i maestri<br />

della scena con i giovani critici. Credo sia sempre un privilegio,<br />

per un critico, entrare nella fucina di un artista, vederne<br />

il momento creativo, coglierne le dinamiche inventive<br />

o di crisi. Questo è di grande valore per chi deve fare dell’osservazione<br />

partecipata il proprio mestiere. Non solo: si trattava,<br />

poi, di rompere delle barriere di linguaggio. La giovane<br />

critica italiana è spesso legata (a ragione o a torto) al piccolo<br />

mondo del giovane teatro di ricerca. Dunque un’apertura internazionale,<br />

fatta di lingue, prospettive, aspettative diverse,<br />

non poteva che far crescere la nostra critica.<br />

Perché è ormai chiaro quanto sia necessario un bagaglio di<br />

consapevolezze sempre più articolate – musica, opera, cinema,<br />

arti visive, danza, fumetto, politica, scienza, economia,<br />

attualità e molto altro – per tener dietro al teatro fatto e visto,<br />

e per superare un diffuso impressionismo di molta critica<br />

italiana. Poi c’è quella parola, su cui riflettere sempre: deontologia.<br />

Esiste una deontologia professionale del critico?<br />

Una onestà intellettuale nel rapportarsi alla scena? Il mestiere<br />

di critico si declina ormai (e non potrebbe essere altrimenti)<br />

in mille rivoli: consulenze, direzioni artistiche, traduzioni,<br />

drammaturgie. Come mantenere una propria dignità, indipendenza,<br />

franchezza e freschezza di giudizio?<br />

Penso dunque che la nuova generazione di critici che si sta<br />

affacciando alla scena nazionale abbia molte possibilità per<br />

disegnare nuove aperture, nuove tendenze, nuovi codici di<br />

comportamento, facendo tesoro degli errori del passato. Oggi<br />

mi pare che il profilo ideale del nuovo critico teatrale debba<br />

contenere una buona dose di capacità creative (se si vuole<br />

vivere di questo non-mestiere) ma anche una capacità relazionale<br />

e di gioco di squadra che spesso in passato è mancata.<br />

Anche per questo trovo molto interessante e utile che un’istituzione<br />

come la Biennale Teatro si preoccupi, oltre che di<br />

formare attori, attrici e registi, anche di aiutare la nuova critica<br />

italiana a formarsi. ◼


«Questa sera si recita<br />

a soggetto»: il lavoro sul testo<br />

ai tempi della performance<br />

Focus sul laboratorio<br />

di Luca Ronconi<br />

di Rossella Menna*<br />

Si frantuma, alla Biennale teatro di <strong>Venezia</strong>, declinata<br />

nel 2012 in forma di laboratorio, il classico binomio<br />

tradizione/innovazione. Nel campus lagunare<br />

saltano le caselle: si applaude al Leone d’oro a Luca Ronconi,<br />

si inneggia al lavoro sui personaggi dell’argentino Claudio<br />

Tolcachir, si assiste entusiasti alle proposte dell’iper-performativa<br />

compagnia Peeping Tom. Nessun criterio predefinito<br />

di giudizio, sguardi allenati alla varietà: fila tutto troppo<br />

liscio.<br />

Poi si entra nel laboratorio di regia guidato da Luca Ronconi,<br />

e, per fortuna, le contraddizioni tra i due termini della<br />

contrapposizione si mettono in fila sul proscenio offrendo<br />

spunti di discussione. Coinvolto in un’insolita formula laboratoriale,<br />

Ronconi affida a quattro giovani registi un compito<br />

gravoso: il lavoro su un testo classico. Armati di un gruppo<br />

d’attori ciascuno, di una copia di Questa sera si recita a soggetto<br />

di Pirandello e di qualche lezione seminariale del maestro,<br />

i registi si ritrovano, a loro volta, alla guida di un workshop<br />

per attori.<br />

Alla serata di Open Doors si scoprono le carte: tre su quattro<br />

hanno lavorato sul frammento finale della commedia,<br />

sulla parte del testo in cui la metateatralità della pièce si dissolve<br />

in univocità finzionale e gli attori decidono di ribellarsi<br />

al loro regista per preparare, in completa autogestione, la scena<br />

madre, il litigio finale tra Verri e Mommina.<br />

Stesso tessuto verbale per tre variazioni sul mito completamente<br />

diverse.<br />

Licia Lanera, annunciata con qualche espediente la cornice<br />

metateatrale, si concentra sul dramma di Mommina, sulla<br />

sua condizione di donna violentata dal marito nella propria<br />

vitalità. La scena in cui la prima attrice viene truccata per il<br />

finale si trasforma in una macabra seduta di vivisezione in<br />

Al lavoro con Luca Ronconi (foto di Luigi Laselva).<br />

cui la giovane donna, immobilizzata su un tavolo anatomico,<br />

viene imbruttita, denudata e rivestita, spogliata della giovinezza<br />

e ornata del vuoto pallore di moglie infelice. La regista<br />

sfrutta tutti gli strumenti del mestiere: immerge la scena<br />

in una luce spettrale, recupera qualche oggetto di scena,<br />

azzarda un brano di Vinicio Capossela, S.S. Dei Naufragati,<br />

sulla bella immagine di un drappo nero che accoglie l’amplesso<br />

tra Verri e Mommina, metafora visiva di un bozzolo<br />

che fatica a schiudersi.<br />

Nella stanza accanto, Luca Micheletti inverte l’ordine dei<br />

fattori, lavorando sulla stessa porzione di testo ma col fine di<br />

ribaltarne gli equilibri, per immettere, cioè, nelle ultime battute<br />

della commedia, la stessa dose di doppiezza contenuta<br />

nella prima parte.<br />

Cogliendo l’opportunità per ragionare su tutto Pirandello,<br />

Micheletti riflette sull’intera trilogia del teatro nel teatro,<br />

sul concetto di Maschere Nude e di Uno Nessuno e Centomila.<br />

Così, al doppio inteso come contrapposizione tra attore e<br />

personaggio, aggiunge un secondo livello di doppiezza inerente<br />

il duplice volto dell’individuo comune<br />

e un terzo livello che oppone attore e spettatore.<br />

In scena, due coppie di Verri e Mommina<br />

e due pubblici. Due blocchi che si spiano a<br />

vicenda, come in uno specchio in cui l’originale<br />

e l’immagine riflessa si osservano senza<br />

distinguere la propria natura di verità o di finzione.<br />

I quattro attori agiscono specularmente.<br />

Realtà e finzione non sono più discernibili:<br />

di chi sono i corpi che si agitano imbarazzati<br />

sulla scena? Degli attori della compagnia<br />

di Hinkfuss che interpretano Mommina e<br />

Verri? Degli attori di Micheletti che interpretano<br />

gli attori di Hinkfuss? Sono i personaggi<br />

stessi? I piani si sovrappongono e si incastrano<br />

sottopelle: restano imbrigliati in un<br />

sistema macchinoso e non si esplicitano mai<br />

mentre parla con chiarezza, per controparte,<br />

il linguaggio dei segni teatrali, che attraverso<br />

luci fredde e toni recitativi grotteschi, calca<br />

con forza il regime della finzione.<br />

Fattori invertiti, si diceva, ma stesso risultato<br />

per Lanera e Micheletti: disegno registico<br />

tangibile per una performance finita, coerente, che non si arrischia<br />

fuori dal recinto delle partiture fissate.<br />

Chiude la triade il giovanissimo Rocco Schira, che si allontana<br />

poco dall’originale testuale, limitandosi a costruire un<br />

contenitore metateatrale di secondo grado che apre e chiude<br />

la pièce. La sua regia poggia per lo più su un disegno dello<br />

spazio di matrice noir. Sala completamente oscurata e illuminazione<br />

a luci led per un lavoro dominato dai toni espressionisti<br />

ed esasperati delle attrici.<br />

Tutt’altra storia per Claudio Autelli che rinuncia alla performance<br />

chiusa e sperimenta fino all’ultimo momento. Tema<br />

della ricerca: dinamiche reali della recita a soggetto. Lo<br />

scopo è quello di mettere in gioco l’identità stessa di attore,<br />

intesa come equilibrio precario ma necessario tra la natura<br />

quotidiana e la struttura narrativa in cui muoversi. Autelli<br />

libera i suoi attori nello spazio scenico chiedendo a ciascuno<br />

di far esplodere la propria attitudine attoriale in relazione<br />

al proprio personaggio. Gli interpreti divengono quindi<br />

parte di un gioco al massacro creato per smontare a vista<br />

il meccanismo teatrale. Nella visione di Autelli i personaggi<br />

del dramma non perseguono alcun principio comune, si dimenano<br />

in una situazione assurda in cui ciascuno insegue un<br />

proprio progetto di recita a soggetto dal momento che, per<br />

paradosso, il soggetto, la trama, sono proprio gli elementi che<br />

vengono a mancare nel testo. Così il melodramma imma-<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

focus on 9


10<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

ginato dalla prima attrice inciampa e cade sull’idea di recita<br />

a soggetto del primo attore, producendo un annientamento<br />

di entrambi gli obiettivi. A interessare il regista sono proprio<br />

urti violenti di questo tipo, le interruzioni delle dinamiche<br />

in atto tra i partecipanti al gioco, l’esplosione delle relazioni.<br />

Rischia e paga pegno, Autelli. Laddove<br />

viene meno il disegno registico predefinito,<br />

emerge con più evidenza lo sforzo di attori<br />

disabituati alla parola, che pure è visibile in<br />

tutte e quattro le presentazioni.<br />

In giro per le sale dell’ex cotonificio di Santa<br />

Marta si percepisce la difficoltà degli interpreti<br />

del dover reggere la parola, del riempirla,<br />

del doverla agganciare all’azione. Gli attori,<br />

a onor del vero quasi tutti bravi professionisti,<br />

si difendono come possono da un lavoro,<br />

per cui sembrano poco attrezzati, sul testo<br />

e sui personaggi: capita che il tono si fiacchi e<br />

che il ritmo cali intrappolato in un corpo irrigidito,<br />

oppure che si reagisca tentando la via<br />

della recitazione impostata.<br />

Evidentemente, i lavori in cui la regia ha assunto<br />

un ruolo predominante hanno retto<br />

meglio l’urto del pubblico. Regia uno. Teatro<br />

d’attore zero.<br />

Più interessante, però, in un laboratorio, osservare<br />

lo sforzo di un regista che tesse la trama<br />

giorno per giorno solo sulle abilità degli<br />

attori stessi, che la più facile riuscita di lavori finiti (o quasi)<br />

fondati su progetti di regia prescritti. ◼<br />

*rumor(s)cena.com<br />

To show the time:<br />

per una immaginazione<br />

del corpo<br />

Intorno al laboratorio<br />

di Gabriela Carrizo / Peeping Tom<br />

di Matteo Antonaci*<br />

Lo spazio interno di una casa, delle pareti di legno<br />

verdi consumate dal tempo, una libreria semivuota,<br />

poltrone antiche, libri gettati a terra accanto ad un<br />

letto ai cui piedi una donna canta tendendo volto e braccia<br />

verso un anziano, probabilmente malato. Qui un ragazzo ed<br />

una ragazza danzano, senza mai allontanare i loro volti, indissolubilmente<br />

uniti dalle labbra, mentre tra le mani tengono<br />

stretta una bambina. All’esterno della scena, dai vetri<br />

delle finestre, un uomo anziano, come un guardone, spia<br />

questa situazione familiare e porta nell’intimità sentimentale<br />

dell’azione scenica un tempo esterno; strania il rapporto<br />

amoroso, inquieta, taglia con la lama del surrealismo la realtà<br />

perfettamente ricostruita. Questa celebre sequenza tratta<br />

da Le Salon potrebbe essere assunta come un marchio della<br />

compagnia Peeping Tom, distillato di quel mood emozionale<br />

e di quel fare scenico che caratterizza non solo tutta la produzione<br />

artistica ma anche il lavoro laboratoriale che Gabriela<br />

Carrizo, uno dei membri fondanti del gruppo, ha svolto durante<br />

la Biennale 2012.<br />

Trasferitasi a Parigi dall’Argentina, formatasi con Alain<br />

Platel e Jan Lauwers, la Carrizo fonda il collettivo Peeping<br />

Tom insieme a Frank Chartier principalmente per la volontà<br />

ed il desiderio di raccontare storie e costruire personaggi.<br />

Ogni entità posta in scena appare come sviscerata dall’intimità<br />

di ogni singolo componente del gruppo e presentata allo<br />

spettatore attraverso nuove modalità di rappresentazione<br />

scenica capaci di rompere ogni confine tra le varie discipline<br />

e di rifiutare qualsiasi tipo di categorizzazione.<br />

Improntato totalmente sulle orme della Postmodern Dance,<br />

a tratti reazionario, il lavoro del collettivo coniuga clownerie,<br />

contact, teatro e cinema concentrandosi in particolare<br />

su una determinata concezione del tempo e della tecnica di<br />

montaggio ad esso sottesa. Caratterizzandosi principalmente<br />

attraverso le differenti qualità di movimento e di relazione<br />

tra corpo/scenografia, i personaggi si inseriscono, infatti, in<br />

un flusso di immagini determinato da tecniche di montaggio<br />

e di editing dall’impronta cinematografica. Le strutture<br />

classiche della narrazione sono ricondotte a una dimensione<br />

prettamente contemporanea attraverso la spazializzazione<br />

del codice cinematografico, lì dove «spazializzare il codice<br />

cinematografico» significa agire sul tempo della performance<br />

e modellare rapporti temporali attraverso la materia<br />

spaziale offerta dalla scena. Se, attraverso la scenografia e l’illusione<br />

ottica è possibile costruire dinamiche vicine a quelle<br />

del campo/fuoricampo o del campo/controcampo, il lavoro<br />

sul montaggio e sul movimento corporeo dei «danzattori»<br />

permette di costruire dinamiche di rallenty o di accelerazione,<br />

zoom e panoramiche. Dichiara a proposito del montaggio<br />

la Carrizo: «Il montaggio si potrebbe suddividere in due<br />

fasi. Una prima fase consiste nel verificare i momenti fondamentali<br />

di transizione all’interno della narrazione, come nel<br />

cinema, quando si sposta una cinepresa da un’inquadratura<br />

ad un’altra. La seconda fase, invece, consiste nel giocare con<br />

la struttura dello spettacolo, con il tempo e con i personaggi.<br />

Pensiamo alla tecnica dello zoom: in teatro tale tecnica non<br />

esiste, ma possiamo riprodurre un dispositivo simile attraverso<br />

l’utilizzo del movimento: dilatiamo il tempo dell’azione<br />

come per avvicinarla allo sguardo. Al contrario, se vogliamo<br />

allontanarla, l’acceleriamo. Alteriamo il tempo per donare<br />

all’azione nuovi significati».<br />

Mostrare il tempo. Sembra questo uno dei principali fini di<br />

Peeping Tom: lasciare che il corpo trattenga non solo il pensiero<br />

ma anche quelle dimensioni cronotopiche in cui esso<br />

Il laboratorio di Gabriela Carrizo<br />

alla Fondazione Cini (foto di Elena Conti).


si estende; dunque, offrire allo spettatore non l’azione tout<br />

court, ma le possibilità di azione che scaturiscono quando<br />

il corpo si immobilizza (come un frame quando si mette in<br />

pausa una videocassetta) e il caso e la mente seguono immaginarie<br />

sequenze filmiche in cui ciò che accade è carica erotica,<br />

desiderio, volontà di azione e mai mero accadimento.<br />

Ed è con tale attitudine che Gabriela Carrizo accoglie gli<br />

allievi del suo laboratorio. Ogni singolo partecipante è chiamato<br />

a ragionare autonomamente su un tema<br />

o su una condizione in cui il proprio corpo si<br />

trovi immerso, a spogliarsi del proprio essere<br />

attore o danzatore, ad abbandonare ogni forma<br />

di teatralità per scoprire un tempo intimo,<br />

coerente con il proprio spazio interiore.<br />

Questo spazio, creato dalla mente, deve allora<br />

mostrarsi attraverso il movimento corporeo.<br />

Improvvisazioni collettive su scene costruite<br />

al contrario, o su movimenti rallentati<br />

in atmosfere temporali astratte, sono stimoli<br />

attraverso i quali plasmare «un’immaginazione<br />

del corpo». Quell’universo in cui,<br />

attraverso il movimento, ogni singola interiorità<br />

diviene narrazione e ogni minuscola<br />

contrazione muscolare il disegno di un tempo<br />

nel quale lo sguardo precipita un po’ meravigliato<br />

ed un po’ inquieto, un po’ innamorato<br />

e un po’ solo.<br />

Il conclusivo Open Doors attraverso il quale<br />

la Carrizo mostra il suo laboratorio agli<br />

spettatori della Biennale appare allora come<br />

un momento di apertura su un tempo esistente<br />

solo nello spazio laboratoriale; un tempo fragile perché<br />

privo di fini (e di fine), perché privo di spettacolarità. Infine,<br />

un tempo in cui quel celebre bacio tratto da Le Salon e<br />

riproposto dagli allievi, sembra riattualizzarsi e recuperare<br />

vita, donando al marchio di fabbrica di questa compagnia<br />

una nuova intimità. ◼<br />

*artribune.com / teatroecritica.net<br />

Dai «barrios»<br />

di Buenos Aires<br />

alla Biennale di <strong>Venezia</strong>:<br />

il teatro di Claudio Tolcachir<br />

di Giada Russo*<br />

Negli ultimi anni, la vivacità del panorama<br />

artistico argentino ha cominciato a incuriosire i teatri<br />

europei, tanto che alcuni nomi come Bartís, Veronese,<br />

Spregelburd, Tolcachir sono ormai noti agli spettatori<br />

del vecchio continente.<br />

Questa crescente apertura testimonia un diffuso bisogno –<br />

nel mare magnum della «ipercontemporaneità» nostrana –<br />

di ritornare agli elementi fondanti del fare teatrale: i personaggi,<br />

le storie, i luoghi.<br />

Claudio Tolcachir, argentino di Buenos Aires, classe 1975,<br />

è una delle figure di spicco dell’ultima generazione di teatristas<br />

appartenenti al circuito indipendente della metropoli rioplatense.<br />

Un artista a tutto tondo che recita, scrive, dirige,<br />

insegna e coordina il proprio gruppo teatrale, Timbre 4, fon-<br />

Una sessione con Claudio Tolcachir<br />

alla Fondazione Cini (foto di Giada Russo).<br />

dato nel 1998 e divenuto un importante punto di riferimento<br />

della scena culturale della città.<br />

Proprio nel 2001, anno della crisi economica argentina, il<br />

giovane regista trova una casa per la sua compagnia, il Teatro-Escuela<br />

Timbre 5 che comprende due spazi – in Avenida<br />

Boedo 640 e in Avenida México 3554 – situati all’interno<br />

del medesimo stabile, nel quartiere operaio di Buenos Aires.<br />

Il teatro indipendente ha disegnato una nuova mappa te-<br />

atrale, parallela a quella ufficiale e commerciale di Corrientes,<br />

che si dipana tra sobborghi, strade di periferia, case chorizo,<br />

appartamenti, ex depositi: Timbre 4 è uno dei tanti spazi<br />

di questa città invisibile. Già dal nome, che riproduce il<br />

numero del campanello, dichiara la propria condizione indipendente<br />

e alternativa.<br />

Dai barrios della Buenos Aires off, Tolcachir ottiene la consacrazione<br />

del pubblico europeo al Festival d’Automne nel<br />

2010 con la pièce La omisión de la familia Coleman, primo<br />

quadro di una trilogia sulla famiglia e sulla società. Applaudito<br />

in più di venti Paesi, il giovane artista argentino arriva in<br />

Italia nel 2008 a Vie Festival Scena Contemporanea di Modena<br />

e, passando per il Piccolo di Milano e il Mercadante di<br />

Napoli, approda quest’anno alla Biennale di <strong>Venezia</strong> con un<br />

laboratorio rivolto a venticinque giovani attori.<br />

Per sei giorni, la Sala degli Arazzi della Fondazione Cini,<br />

sull’isola di San Giorgio, delimita uno spazio di libertà appartato,<br />

strappato a una calda e caotica <strong>Venezia</strong>.<br />

Nella fucina di Claudio Tolcachir la parola d’ordine è gioco:<br />

vanità e competizione restano fuori dalla porta, insieme<br />

con le scarpe dei partecipanti. E le regole del gioco sono<br />

non giudicarsi e non giudicare, coerentemente con il metodo<br />

del maestro, che non esprime sentenze né dispensa ricette<br />

di teatro.<br />

Nel tempo sospeso del laboratorio si impara a mettersi e<br />

togliersi maschere a comando e a fare persino la parodia di<br />

se stessi, pregi e difetti. La prima fase di lavoro si concentra<br />

sull’ascolto del proprio corpo, che conserva tutte le necessità<br />

dell’azione. Dalla mattina al pomeriggio si assiste a un cambiamento<br />

di rotta: il gioco puro lascia il passo all’esercizio del<br />

pensiero, che per Tolcachir deve essere un «pensiero visibile».<br />

Esiste sempre un surplus dietro le parole e i silenzi, e l’obiettivo<br />

dell’attore deve essere quello di mostrarlo attraverso<br />

uno sguardo o un gesto. Tolcachir si sofferma su uno dei fondamenti<br />

del lavoro dell’attore: la costruzione del personaggio.<br />

Gli allievi vengono invitati a vestire i panni di una per-<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

focus on 11


12<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

sona incontrata per caso tra le calli veneziane per darne dimostrazione<br />

nel piccolo bar dell’isola durante la pausa pranzo;<br />

l’idea è quella di una sorta di teatro invisibile, che scardina<br />

il senso della rappresentazione per restringere sempre più<br />

i confini fra teatro e vita. Una volta rientrati in sala, il regista<br />

sottopone gli attori a una serie di domande per conoscere<br />

meglio i personaggi, ovvero le «nuove persone che il giorno<br />

prima non aveva visto».<br />

Nell’arco di appena una settimana la sala di Tolcachir è già<br />

casa. Quello di conoscersi e identificarsi come gruppo è stato<br />

il primo obiettivo raggiunto: dentro la fucina dell’artista<br />

porteño, come tra i banchi di scuola, il gioco quotidiano comincia<br />

dall’appello collettivo, dove vince chi per primo riconosce<br />

l’altro.<br />

Tolcachir ha fatto una scelta coraggiosa e, per l’Open Door<br />

conclusivo della Biennale, ha abbandonato le microdrammaturgie<br />

nate durante il laboratorio e ha deciso di mettere<br />

in scena cinque situazioni (di teatro e di vita) ambientate<br />

idealmente in cinque luoghi diversi: una camera ardente,<br />

un treno, una barca, una strada di periferia, la sala d’attesa<br />

di un medico. Ad abitarli, i personaggi su cui gli attori hanno<br />

lavorato nei giorni precedenti: prostitute, vagabondi, uomini<br />

d’affari, scrittori, collegiali impaurite, travestiti in cerca<br />

d’amore, e chi più ne ha più ne metta. Gli spettatori entrano<br />

quasi di soppiatto a spiare le loro azioni. Non succede nulla.<br />

Dopo qualche minuto finalmente i personaggi entrano in<br />

relazione tra di loro, ma comunicano solo attraverso sguardi,<br />

piccoli gesti e poche parole, per lo più sussurrate: nessuna<br />

storia, almeno per chi non raccoglie la sfida ad andare oltre,<br />

per carpire quello che gli attori vorrebbero dirsi ma non si dicono.<br />

Se si supera questo primo ostacolo invisibile, prodotto<br />

da secoli di convenzioni (nel teatro e nella vita) e si dà libero<br />

sfogo all’immaginazione, il gioco è fatto: lo spettatore, libero<br />

di muoversi tra un angolo e l’altro della sala, può inventare<br />

storie infinite e diventare autore di uno spettacolo che<br />

nessun altro ha mai visto. Le dinamiche degli spettatori diventano<br />

interessanti quanto quelle della scena: i loro bisbigli<br />

all’orecchio, tra sguardi di stizza o di complicità, costituiscono<br />

parte integrante dello<br />

spettacolo.<br />

Se oggi anche il «nuovo»<br />

ha ormai alle spalle<br />

una lunga tradizione,<br />

questo esito teatrale non<br />

può dirsi del tutto inedito;<br />

eppure risulta affatto<br />

originale per un<br />

pubblico che non è ancora<br />

pronto a rinunciare<br />

alle proprie abitudini,<br />

e con difficoltà si adegua<br />

a una modalità di partecipazione<br />

che non gli appartiene.<br />

Il tema che accomuna<br />

le diverse situazioni<br />

è l’attesa. I personaggi<br />

aspettano – chi il<br />

proprio turno dal medico,<br />

chi l’arrivo dopo un<br />

lungo viaggio, altri che<br />

la notte passi in fretta –<br />

e ingannano il tempo vivendo;<br />

gli spettatori, dal<br />

canto loro, attendono<br />

che accada qualcosa che<br />

li distolga, almeno per un’ora, dalla realtà della vita (e dalla<br />

finzione del teatro).<br />

Tolcachir mette in scena una riflessione sul tempo che ha<br />

raccolto la lezione di Beckett e non si nasconde dietro falsi<br />

intellettualismi, ma si ciba di vita vera.<br />

E il suo lavoro sembra raccogliere, a più di mezzo secolo di<br />

distanza, il senso delle parole con cui Peter Brook commentava<br />

The Connection del Living Theatre, augurandosi che,<br />

a partire dalla sfida radicale alle convenzioni contenuta in<br />

quello spettacolo, il pubblico teatrale sarebbe stato in grado,<br />

nei decenni a venire, «di guardare persone normali, in uno<br />

stato normale, con interesse».<br />

Era il 1959, ma la profezia sembra stentare ad avverarsi, almeno<br />

per il momento. ◼<br />

*ateatro.it<br />

Quattro gruppi in residenza<br />

alla Biennale 2012<br />

Dai laboratori 2010-2011<br />

alla presentazione<br />

di progetti autonomi<br />

di Elena Conti*<br />

Quando si abita un luogo si sente presto il desiderio<br />

di visitare quegli spazi che, nel corso dell’epoca<br />

moderna, sono stati privatizzati, chiusi alla<br />

comunità. Questo vale in particolar modo per<br />

una città come <strong>Venezia</strong>, rinomata per lo splendore dei suoi<br />

palazzi e giardini, pochi dei quali, purtroppo, visitabili. I 7<br />

Peccati, i micro-show che riflettevano sul peccato contemporaneo<br />

ad opera di sette registi internazionali, presentati lo<br />

scorso anno alla Biennale Teatro, hanno offerto l’occasione<br />

di assistere alla presentazione pubblica dell’esito laboratoriale<br />

in spazi bellissimi, non frequentemente aperti al pubblico<br />

e non intesi come sale teatrali. Non è stata questa certamen-<br />

Gli esiti delle quattro Residenze della Biennale, dall’alto in senso orario:<br />

Qui-es-tu? Tu-me-tu (es), Propaganda, Swimming B e Pocilga.


te l’unica peculiarità del lavoro, ma piace ricordare l’importanza<br />

di quell’esperienza. A segnare un’apertura e uno sviluppo<br />

di quel momento di incontro, Álex Rigola ha offerto<br />

quest’anno a quattro gruppi la possibilità di presentare un<br />

progetto autonomo a cui lavorare nel corso di una residenza<br />

artistica a <strong>Venezia</strong> (dal 4 al 10 agosto 2012). Il fil rouge che lega<br />

queste formazioni alle esperienze laboratoriali delle passate<br />

edizioni, risiede nella partecipazione dei componenti ai<br />

workshop tenuti da Jan Lauwers, Romeo Castellucci, Rodrigo<br />

García e Thomas Ostermeier nel 2010 e 2011.<br />

«Il nostro gruppo non si è ancora formalizzato in una compagnia<br />

– racconta John Romão in un’intervista a cura di<br />

Matteo Antonaci – non avevamo mai lavorato insieme prima<br />

d’ora. Il laboratorio di Romeo Castellucci ci ha permesso<br />

di conoscerci e di creare legami di reciproca ammirazione».<br />

La decisione di Rigola di accostare le Residenze ai Laboratori,<br />

ha posto l’attenzione sulla ricerca teatrale di nuove<br />

formazioni, sul lavoro di artisti che, come John Romão, assieme<br />

a Georgina Oliva, Piera Formenti e Damiano Ottavio<br />

Bigi, hanno deciso di intraprendere e condividere un percorso<br />

per affinità di interessi e di poetica. Pocilga è il progetto su<br />

cui si è concentrato il collettivo; gli spazi del Teatro Junghans<br />

hanno accolto un primo avvicinamento scenico a Porcile di<br />

Pasolini, in una riflessione focalizzata sul corpo umano e sul<br />

corpo animale quali oggetti «di desiderio “invertito” – come<br />

scrive Romão – e cause di scandalo all’interno di un gruppo<br />

sociale. Un giovane, invece di amare il corpo umano, lo divora;<br />

un altro, invece di mangiare il corpo del maiale, lo ama. Si<br />

tratta di corpi trasgressori che il potere vuole cancellare e nascondere.<br />

È questa la principale linea drammaturgica di cui<br />

voglio occuparmi».<br />

Sempre al Teatro Junghans, la compagnia Divano Occidentale<br />

Orientale, già costituita da Giuseppe Bonifati nel<br />

2010 e impegnata lo scorso anno nel laboratorio condotto<br />

da Rodrigo García, ha sviluppato Qui-es-tu? Tu-me-tu (es),<br />

una performance nata dall’idea di un televisore che genera<br />

interferenze. «In scena – racconta Bonifati – una casalinga<br />

ha un rapporto sessuale con un televisore dal quale sembrano<br />

nascere due figure, Y e Z. Le due entità non si conoscono ma<br />

stabiliscono lentamente un dialogo fino a quando una violenza<br />

domestica non crea un cortocircuito imprevisto. Non<br />

sono interessato ad una critica massmediale – continua il regista<br />

– voglio mettere in scena un incubo nel quale i personaggi<br />

non sono che entità astratte».<br />

Accanto a queste esperienze, altre due formazioni hanno<br />

lavorato negli splendidi saloni del Conservatorio Benedetto<br />

Marcello: sono The Moors of Venice, il gruppo creatosi<br />

all’interno del laboratorio di Thomas Ostermeier, ora alle<br />

prese con Propaganda, la prima parte di The Revolution<br />

Project, e l’ensemble costituito da Carlota Ferrer, Nicolas<br />

Wan Park, Francesca Tasini e Emmanuelle Moreau, impegnato<br />

in Swimming B, una rilettura di alcuni monodrammi<br />

di Beckett.<br />

La possibilità di seguire parte delle prove degli artisti presenti<br />

al Conservatorio, ha distolto dalla congettura che legava<br />

e restringeva il percorso di questi professionisti al nome<br />

del regista del laboratorio, come alla ricerca di segni distintivi<br />

di un «superficiale» passaggio di testimone da maestro<br />

ad allievo, ponendo piuttosto in evidenza la sperimentazione<br />

apportata da questi giovani autori al contemporaneo panorama<br />

performativo. Ognuno di loro ha potuto organizzare<br />

a proprio modo le giornate di lavoro: così se The Moors of<br />

Venice, il gruppo guidato da Fèlix Pons, nel corso delle prime<br />

prove si è approcciato alla messinscena di Propaganda –<br />

un interessante studio sull’eta, l’organizzazione terroristica<br />

basca – in maniera più consueta, per giungere in seguito<br />

a un capovolgimento totale della costruzione drammaturgi-<br />

ca, la modalità perseguita nella creazione di Swimming B ha<br />

mantenuto costante l’idea di work-in-progress trasmessa alla<br />

formazione dall’esperienza fatta precedentemente con Jan<br />

Lauwers, ma modellata sulle specificità dei singoli. «Tutto il<br />

gruppo che ha lavorato con il maestro a <strong>Venezia</strong> – racconta<br />

Carlota Ferrer – è rimasto influenzato dal suo linguaggio. La<br />

modalità che seguiamo nella creazione si avvicina al suo modo<br />

di lavorare: un continuo work-in-progress che si basa sulle<br />

proposte differenti degli attori».<br />

A chiusura del periodo di residenza, i progetti sono stati<br />

presentati al pubblico in Open Doors volti a fornire agli artisti<br />

un riscontro sulla ricerca intrapresa in questa breve esperienza.<br />

Osservare la pluralità di linguaggi – pur trattandosi<br />

ancora di piccoli frammenti – portata in scena da questi ensemble<br />

multinazionali, fa riflettere sulle difficoltà che si possono<br />

incontrare all’inizio di un percorso (come la disponibilità<br />

di uno spazio), e porta a riconoscere l’opportunità che la<br />

direzione artistica di Álex Rigola ha offerto a questi gruppi.<br />

Ora si può guardare al futuro, a una maturazione del lavoro,<br />

come racconta Ferrer, che nello sviluppo della performance<br />

vorrebbe coinvolgere un drammaturgo; o come dimostra<br />

The Moors of Venice, il cui pensiero va a InSIGHT?, il secondo<br />

step della trilogia dedicato all’aspra realtà siriana, che verrà<br />

presentato a settembre a Monaco di Baviera. ◼<br />

*iltamburodikattrin.com<br />

Un campus d’agosto<br />

fra incontro e condivisione<br />

Il progetto di Álex Rigola<br />

per un cantiere<br />

che lavori tutto l’anno di Roberta Ferraresi*<br />

Álex Rigola, fra i rappresentanti di quella nuova<br />

possente generazione della regia europea che – ne abbiamo<br />

visto qualche esito proprio nelle ultime sue Biennali<br />

– continua a scuotere i palcoscenici e a reinventare il linguaggio<br />

teatrale, è al secondo mandato come direttore del festival<br />

lagunare. Qui, con l’intenzione di fare di <strong>Venezia</strong> un campus<br />

internazionale delle arti sceniche, sta sperimentando una<br />

curiosa formula di direzione, capace di intrecciare la logica laboratoriale<br />

con il momento della messinscena. Cominciamo<br />

l’intervista ponendo le domande che, lungo tutta la settimana,<br />

abbiamo rivolto agli allievi dei workshop, per proseguire<br />

poi verso le idee e le spinte che da questo campus, ormai alla fine,<br />

portano già verso gli orizzonti del festival 2013.<br />

La prima domanda che abbiamo posto ai laboratoristi è:<br />

qual è lo spettacolo che le ha cambiato la vita?<br />

I sette rami del fiume Ota di Lepage, Shopping & Fucking di<br />

Ostermeier, Je suis sang di Jan Fabre… che altro? Mi è piaciuto<br />

molto uno degli spettacoli che abbiamo portato in Biennale<br />

l’anno scorso: Isabella’s Room di Jan Lauwers. Poi tutti<br />

i Dostoevskij di Castorf... Fra i più recenti c’è la versione<br />

del Maestro e Margherita di Simon McBurney. I lavori di Sidi<br />

Larbi, un artista che vorrei portare a <strong>Venezia</strong>. Poi Sasha<br />

Waltz, Pina Bausch…Gli spettacoli che mi hanno cambiato<br />

sono così tanti che potrebbero non finire mai!<br />

La seconda domanda riguarda direttamente i laboratori di<br />

questa Biennale: fra «costi e ricavi», chiediamo di fare un bilancio<br />

dell’edizione 2012.<br />

Cos’ho guadagnato? Sicuramente la felicità. Ad esem-<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

focus on 13


14<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

pio i due Open Doors dell’ultima sera (dai laboratori di Gabriela<br />

Carrizo e Claudio Tolcachir, ndr) mi hanno reso molto<br />

felice: non tanto perché quello che hanno mostrato fosse<br />

bello o interessante – in effetti lo era – ma per il rapporto<br />

che hanno mantenuto con il percorso di lavoro che si è sviluppato<br />

in questi giorni. Perché abbiamo voluto presentare<br />

degli Open Doors alla fine dei workshop? Certo non per vedere<br />

degli spettacoli: queste dimostrazioni non erano come<br />

i 7 peccati, la serie di micro-show itinerante che ha concluso<br />

la Biennale 2011; piuttosto rappresentano, per gli altri allievi<br />

dei laboratori, la possibilità di conoscere altri modi di lavorare<br />

e pensare il teatro. Così mi chiedo: cosa succederebbe<br />

se, per un giorno alla settimana, potessimo<br />

cambiare i nostri maestri e provare qualcosa<br />

di totalmente diverso? Credo potrebbe<br />

essere un’esperienza fondante: una specie di<br />

«pausa» dal proprio lavoro, in cui il cervello<br />

si sposta per andare a incontrare un altro percorso<br />

e poi, il giorno successivo, torna rinnovato<br />

dal maestro e dal teatro che ha scelto. Mi<br />

pare che l’esperienza dell’ultima serata abbia<br />

saputo raccontare davvero molto bene quello<br />

che ho provato a fare qui con il Laboratorio di<br />

arti sceniche della Biennale.<br />

L’ultima domanda che abbiamo posto in<br />

questi giorni agli allievi dei laboratori: che senso<br />

ha, secondo lei, fare teatro in questi tempi di<br />

crisi?<br />

…che sia troppo tardi per iniziare una nuova<br />

carriera?! (ride) Ora tutto è peggiorato, ma<br />

non penso di essere cambiato molto rispetto<br />

a due anni fa, sono sempre ugualmente critico.<br />

Credo che, facendo regia, il mio lavoro<br />

possa essere quello di indagare – anche se solo<br />

parzialmente – la psicologia umana e di vedere<br />

un po’ come va il mondo. Non ho soluzioni: non sono<br />

uno statista, un economista o un filosofo, posso solo raccontare<br />

quello che mi accade intorno ogni giorno.<br />

Tuttavia, mi è capitato spesso di pormi questa domanda e,<br />

pur credendo che non ci sia una risposta precisa o necessaria,<br />

sono giunto alla conclusione che facciamo teatro per sapere<br />

qualcosa in più su noi stessi. Penso sia questo il senso ultimo<br />

dell’arte scenica, anche dal punto di vista degli spettatori:<br />

andiamo a teatro per conoscere qualcosa in più sull’essere<br />

umano. Ma perché vogliamo sapere così tanto, e sempre di<br />

più, su noi stessi? Forse questa è la vera domanda.<br />

Una Biennale all’insegna del laboratorio: il progetto, avviato<br />

nel 2010, quest’anno si condensa in un’unica settimana e richiama<br />

a <strong>Venezia</strong> più di centocinquanta fra maestri e allievi…<br />

Per me il laboratorio non è un luogo di lezione, ma di «simmetria».<br />

Deve essere un posto in cui il maestro sperimenta<br />

qualcosa e gli allievi lo seguono, possono vedere come lavora:<br />

ma deve essere innanzitutto anche un’occasione per il<br />

maestro stesso, un momento che serva profondamente anche<br />

a lui, ossia uno spazio per mettersi alla prova. Il laboratorio,<br />

dunque, non può seguire una direzione univoca – una<br />

trasmissione di sapere dal maestro agli allievi – ma diventare<br />

una occasione di condivisione di esperienze.<br />

Veniamo alla presenza dei maestri: nelle passate stagioni si<br />

poteva individuare un legame empatico, quasi generazionale,<br />

fra gli artisti invitati in Biennale. Quest’anno la proposta<br />

è «esplosa»: c’è un grande maestro come Ronconi e un regista<br />

come Donnellan; si trovano la drammaturgia, il teatro-danza<br />

e l’esperienza di un autore-regista come Claudio Tolcachir…<br />

Qual è il criterio, l’interesse, che muove verso queste persone?<br />

Il percorso di selezione – quest’anno, ma anche nelle edizioni<br />

precedenti e future – è un processo complesso. Ma non<br />

esiste una teoria, come ad esempio lavorare con artisti che appartengono<br />

a una stessa generazione. Quella del 2011 si può<br />

dire sia stata una pura casualità; anche se è vero che le coincidenze<br />

non esistono e si potrebbe pensare che, trattandosi di<br />

artisti tutti miei coetanei, sono persone il cui lavoro mi piace<br />

molto e da cui ho imparato tantissimo, innanzitutto come<br />

spettatore.<br />

Che relazione lega gli artisti coinvolti nel 2012? Ognuno<br />

è qui con il proprio percorso, con il proprio lavoro e un’estetica<br />

specifica. Il punto, piuttosto, è un altro: un progetto laboratoriale<br />

è profondamente diverso da un festival – e noi,<br />

in questi tre anni, ci stiamo muovendo fra entrambe queste<br />

polarità. Workshop e spettacolo sono elementi strettamente<br />

legati, per me è un punto molto importante. Non si viene<br />

a <strong>Venezia</strong> soltanto a seguire delle lezioni o a vedere delle messinscene;<br />

si viene alla Biennale piuttosto per un campus estivo<br />

dove il tratto determinante è la condivisione di esperienza<br />

a tutti i livelli. Qui si può incontrare il lavoro di un maestro<br />

e gli allievi possono seguirne i processi di sperimentazione.<br />

Ma la trasmissione di sapere funziona anche fra i singoli<br />

partecipanti dei laboratori, fra allievi attori e registi... Siamo<br />

tutte persone a cui piace il teatro e che vogliono imparare<br />

qualcosa in più: è per questo che ci ritroviamo tutti insieme<br />

per una settimana.<br />

Come si rapporta questo progetto legato alla dimensione laboratoriale<br />

e della ricerca con uno spazio istituzionale come<br />

quello della Biennale di <strong>Venezia</strong>?<br />

Devo dire che qui c’è una grande libertà artistica. La Biennale<br />

è un luogo in cui si può provare a realizzare quello che si<br />

desidera artisticamente. Ogni volta che ho raccontato le mie<br />

idee e i miei progetti sono sempre stati accolti con interesse e<br />

curiosità: non dappertutto esiste tale disponibilità nei confronti<br />

della direzione che un artista intende proporre.<br />

In particolare, per quanto riguarda i percorsi laboratoriali,<br />

è stata proprio la Biennale a stimolare un approccio del genere:<br />

l’idea non è soltanto mia. Ad esempio Ismael Ivo, direttore<br />

del Settore Danza, ha attivato un percorso formativo lungo<br />

cinque mesi. Ora c’è il nostro, con il teatro; e a fine ottobre<br />

ci sarà Musica. Sono progetti formativi che si dipanano<br />

quasi per tutto l’anno. E questa è un’idea fortemente sostenuta<br />

dal Presidente Baratta: il termine «Biennale College»<br />

è suo. Ciò significa che ci siamo incontrati su di uno stesso<br />

Álex Rigola.


cammino: le nostre ricerche si uniscono nella volontà di abitare<br />

questa «città della conoscenza», dove abbiamo la fortuna<br />

di trovarci. Proseguendo su questa linea, la Biennale Teatro<br />

potrà diventare una sorta di «Cambridge dell’arte scenica».<br />

Sembrerà una definizione eccessiva ma, guardandosi<br />

un po’ intorno, ci si rende conto che al giorno d’oggi, in teatro,<br />

non c’è nessuno che stia lavorando a qualcosa di simile. ◼<br />

*iltamburodikattrin.com / doppiozero.com<br />

La formazione continua:<br />

una riflessione<br />

sulla Biennale Teatro<br />

di Andrea Pocosgnich *<br />

Il termine «condivisione» appare più volte nelle<br />

risposte date da Álex Rigola a Roberta Ferraresi nell’intervista<br />

che compare proprio in queste pagine. Ed è in effetti<br />

questo il senso ultimo del progetto formativo ideato dal<br />

regista catalano sin dalla prima edizione del<br />

2010. Il tiro è andato modificandosi di anno<br />

in anno, con in mezzo un festival direttamente<br />

connesso al precedente periodo formativo.<br />

Se nella prima edizione i laboratori cominciavano<br />

in ottobre e terminavano in primavera<br />

inoltrata, questa Biennale ha invece visto concentrarsi<br />

tutte le classi in meno di dieci giorni<br />

permettendo uno scambio osmotico di esperienze<br />

non solo tra i partecipanti, ma anche<br />

tra i maestri, mantenendo comunque intatta<br />

la durata di ogni workshop. È stato curioso<br />

osservare l’affermato Declan Donnellan interloquire<br />

con l’astro nascente del teatro argentino<br />

Claudio Tolcachir del quale fu maestro<br />

in un laboratorio tenuto a Buenos Aires<br />

alcuni anni fa; oppure vedere l’americano<br />

Neil LaBute incrociare il suo particolarissimo<br />

percorso (regista teatrale, drammaturgo,<br />

filmaker) con quello del teatro europeo, distante<br />

per metodo e funzione sociale.<br />

La «Cambridge delle arti sceniche» – così<br />

tra speranza e ironia Rigola chiama il futuro<br />

del suo progetto formativo – ha visto, oltre ai<br />

tre maestri citati, il teatro-danza di Peeping Tom (alle prese<br />

con un lavoro spietato, ma anche allegro e ironico, sul corpo<br />

degli allievi) e il Leone d’oro alla carriera Luca Ronconi con<br />

le sue lezioni su Pirandello che immediatamente divenivano<br />

seminari sull’arte teatrale. Personalità che vanno a comporre<br />

un mosaico eterogeneo e complesso della scena contemporanea<br />

e in parte anche interpreti di una vocazione – per lo più<br />

assente in Italia – che caparbiamente lega tradizione, ricerca<br />

e commerciabilità dell’opera.<br />

Un campus delle arti sceniche, inevitabilmente, è anche<br />

una comunità. Il che comporta una condivisione non solo<br />

degli spazi e dei tempi laboratoriali, il prima e il dopo si mescolano:<br />

la sveglia in ostello, la colazione prima del vaporetto,<br />

la cena, le passeggiate per le fondamenta, lo studio in notturna.<br />

Nel segno di questa condivisione si costruiscono le basi<br />

di un vero e proprio campus. Per ora rimane l’idea, romantica<br />

e affascinante, che deve vedersela con la consueta scarsi-<br />

Alcuni partecipanti ai laboratori (foto di Giada Russo).<br />

tà di risorse economiche. È stato un assaggio. Come definire<br />

d’altronde dei laboratori che nella migliore delle possibilità<br />

hanno avuto una durata settimanale? Cosa si porteranno a<br />

casa gli allievi di LaBute dopo tre giorni di corso? La cura del<br />

gesto e la ricerca sul corpo drammaturgico di Gabriela Carrizo<br />

possono essere appresi con meno di una settimana di lavoro?<br />

È il segno dei tempi, certo: anni in cui gli artisti debbono<br />

vivere in una condizione di formazione perenne, perché<br />

se il lavoro scarseggia bisogna sapersi adattare, fare tutto,<br />

anche impreziosire il curriculum con momenti formativi<br />

mordi e fuggi. La riuscita non è dunque misurabile proprio<br />

perché strettamente legata alle esperienze pregresse di ogni<br />

partecipante. Variegata d’altronde la platea di attori e performer,<br />

più di cento, che hanno risposto all’avviso pubblico<br />

della Biennale, anche grazie ai costi molto contenuti. Resiste<br />

come punto di riferimento principale l’accademia. Il percorso<br />

formativo di lunga durata sembra rimanere la prima tappa<br />

obbligata (quantomeno lo è per chi si è occupato di selezionare<br />

i curricula), ma anche per chi è già inserito nel mondo<br />

lavorativo l’appuntamento laboratoriale col grande maestro<br />

è d’obbligo. Non mancano però artisti che si stanno affermando<br />

tra le nuove generazioni – a seguire il workshop di<br />

Ronconi vi erano ad esempio Claudio Autelli e Licia Lanera,<br />

entrambi vincitori dell’ultima edizione del premio Nuo-<br />

ve Creatività eti, Luca Micheletti, Premio Ubu 2011, alcuni<br />

venivano invece da recenti esperienze nel cinema e nella<br />

televisione. Se escludiamo insomma quel senso di incontro<br />

e condivisione per concentrarci sulla risultante pedagogica<br />

(anche se è chiaro che mentre il primo può fare a meno della<br />

seconda non è vero il contrario) difficilmente riusciamo a tirare<br />

le somme del progetto di Rigola. A sentire i partecipanti,<br />

a parte lo spaesamento iniziale degli attori venuti per Ronconi<br />

che poi si sono trovati a lavorare in gran parte con giovani<br />

registi, l’esperienza ha portato i suoi frutti: artisti come<br />

Claudio Tolcachir e Gabriela Carrizo hanno avuto una presa<br />

immediata sui propri allievi stabilendo un rapporto empatico<br />

e di grande stima. Ma nel caso di una istituzione come la<br />

Biennale un campus estivo deve anche essere l’epicentro del<br />

dibattito artistico, luogo di eccellenza dove si misura il fermento<br />

della scena, punto nevralgico della città, realmente e<br />

per tutto l’anno, open door; l’alternativa è l’ennesimo fast-food<br />

del workshop teatrale. ◼<br />

*TeatroeCritica.net<br />

le biennali 2012 — teatro<br />

focus on 15


16<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro — appendice<br />

Rafael Spregelburd<br />

secondo<br />

Luca Ronconi<br />

a cura di Oliviero Ponte di Pino<br />

Rafael Spregelburd è uno degli autori più rappresentati<br />

in Europa. In Italia alla sua drammaturgia<br />

si è interessato nientemeno che Luca Ronconi,<br />

che nel 2011 ha allestito La modestia, e nel prossimo<br />

futuro metterà in scena Il panico, cioè due delle sette tessere<br />

che compongono l’Eptalogia di Hieronymus Bosch. Oliviero<br />

Ponte di Pino, esperto conoscitore di entrambi, ha seguito<br />

l’avvicinamento del maestro all’autore argentino nelle<br />

sue varie fasi, intervistando Ronconi prima del debutto della<br />

Modestia, e poi a «prima» avvenuta. A queste due conversazioni<br />

se ne aggiunge ora una terza, dedicata allo spettacolo<br />

che verrà e realizzata per <strong>Venezia</strong>Musica e dintorni. Cogliendo<br />

l’occasione del Leone d’oro alla carriera, pubblichiamo le<br />

tre interviste per offrire anche diacronicamente un’idea del<br />

lavoro e delle riflessioni che il grande regista ha svolto a partire<br />

dalle pièce del drammaturgo di Buenos Aires. (l.m.)<br />

«La modestia» 1:<br />

uno spettacolo infinito in un teatro in fuga<br />

Hai lavorato moltissimo sui classici, ma nella tua carriera<br />

non mancano le incursioni nella drammaturgia contemporanea.<br />

Anche se poi a volte pare quasi che la drammaturgia<br />

contemporanea non ti soddisfi del tutto, visto che spesso senti il bisogno<br />

di utilizzare testi non teatrali.<br />

Non è affatto vero che non mi interessa la drammaturgia contemporanea,<br />

e non solo in questi ultimissimi anni. Nel 1978, quando<br />

ho fatto Calderón, Pasolini era contemporaneissimo...<br />

…Wilcock, di cui nel 1971 hai portato in scena XX, pure...<br />

Anche Infinities era drammaturgia contemporanea. In realtà il<br />

termine «drammaturgia» mi pare troppo generico. Ci sono scrittori<br />

per il teatro contemporaneo, e ce ne sono sempre stati, che però<br />

non chiamerei «autori»: sono piuttosto fornitori di copioni, secondo<br />

le regole teatrali vigenti in quel momento. Altri scrittori per<br />

il teatro sono invece propriamente «autori»: possiedono un linguaggio<br />

particolare, hanno un modo singolare di organizzare i materiali<br />

teatrali: sono gli autori che mi interessano di più.<br />

Dunque è in primo luogo un problema di linguaggio.<br />

Certo. Prendi in esame gli «ultimissimi». Un autore come Jean-<br />

Luc Lagarce (di cui ho allestito Giusto la fine del mondo nel 2009)<br />

ha il suo linguaggio. Anche Botho Strauss, che ho messo in scena<br />

due volte (Besucher, 1989, e Itaca, 2007) ha una sua fisionomia, come<br />

Edward Bond, un altro autore che ho messo in scena due volte<br />

(Atti di guerra, 2006, e La compagnia degli uomini, 2011). D’altra<br />

parte, perché devo dire che non è un autore contemporaneo l’autore<br />

di Infinities, John Barrow? O Giorgio Ruffolo, di cui ho portato<br />

in scena Lo specchio del diavolo? È vero, hanno scritto due saggi, che<br />

però hanno avuto una forte resa teatrale...<br />

La forza del linguaggio si coglie già alla lettura, sulla pagina, oppure<br />

è necessario aspettare di vederla incarnarsi in scena, nella parola<br />

degli attori?<br />

Si vede subito, dalla pagina. Quando ho letto l’epistolario di Vittorio<br />

Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti,<br />

mi sono detto: «Questo lo posso benissimo fare», non tanto<br />

perché si tratta di testi scritti in prima persona, ma perché sono tre<br />

forme di linguaggio molto precise e diverse una dall’altra.<br />

Quando metti in scena un classico sei sempre molto consapevole di<br />

tutte le varie messinscene di quel testo. Nel caso di un testo contemporaneo,<br />

questo non è possibile.<br />

Infatti l’approccio è abbastanza diverso. Sui classici gioca molto<br />

la memoria che ne hai, le frequentazioni... Il lavoro su un testo contemporaneo<br />

mi piace molto e mi è sempre piaciuto, perché è sempre<br />

un lavoro di scoperta. Un testo contemporaneo lo puoi fare in vari<br />

modi. Per esempio, c’è chi va a vedere una commedia inglese al Fe-<br />

stival di Edimburgo, e poi la riproduce più o meno uguale in Italia,<br />

con gli opportuni accorgimenti. Un’operazione del genere non sarei<br />

capace di farla, per un motivo molto semplice: per me, a parte il<br />

linguaggio del testo, anche la lingua che parlano gli attori non è facilmente<br />

trasferibile in un’altra lingua. Ecco, mi interessa lavorare<br />

su testi contemporanei dove la scrittura presenta dei problemi. La<br />

stessa cosa sarebbe accaduta se fossi nato quarant’anni prima e mi<br />

fossi trovato a mettere in scena una commedia di Pirandello.<br />

Quando dici che il linguaggio pone dei problemi, che cosa intendi?<br />

Si tratta ogni volta di capire, non solo dal punto di vista drammaturgico,<br />

perché l’autore usa quella cadenza, quel ritmo, quel giro di<br />

frase... Insomma, non si tratta di leggere il testo come uno spartito<br />

che va in qualche modo ripercorso, e poi alla fine lo spettacolo viene<br />

fuori da solo. Si tratta invece di capire le ragioni che stanno dietro<br />

alle scelte dell’autore.<br />

Quindi si tratta di andare a vedere quello che c’è aldilà e sotto il testo.<br />

Ma questo lo fai anche con Pirandello e con Shakespeare...<br />

Il presupposto è cercare di entrare nella mente di chi ha fatto una<br />

cosa, e questo vale sia per i classici sia per i contemporanei...<br />

Arrivando a Rafael Spregelburd, che cosa ti ha interessato quando<br />

hai incontrato i suoi testi?<br />

Mi sono subito sentito un suo parente. Una volta mi hanno chiesto:<br />

«Qual è il tuo spettacolo ideale?». Io ho risposto, e risponderei<br />

ancora, che è uno spettacolo infinito in un teatro in fuga. Lo sguardo<br />

un tantino scettico che mi viene quando si parla di «profondità»,<br />

e la curiosità che mi si sveglia immediatamente quando si parla<br />

di “estensione”, li ritrovo perfettamente in Spregelburd. E poi, come<br />

gli ho detto quando l’ho incontrato, il motivo per cui mi piace il<br />

suo teatro è che mi sembra che scriva commedie che si fanno da sole.<br />

In che senso le commedie di Spregelburd «si fanno da sole»?<br />

Sono organismi che proliferano quasi indipendentemente<br />

dall’autore. Anche se poi in realtà l’autore c’è, ed è presente in ogni<br />

cerniera. Tuttavia i suoi testi ti danno questa impressione: tanto è<br />

vero che in parecchie commedie, compresa La modestia, hai l’impressione<br />

che l’autore non riesca a trovarne la fine. E non lo considero<br />

un difetto o una mancanza.<br />

Infatti Spregelburd è autore di testi molto lunghi, a puntate, che<br />

proliferano...<br />

E questo mi piace molto.<br />

Ma secondo te qual è il meccanismo generativo che porta a questa<br />

proliferazione infinita?<br />

Le mie sono solo illazioni, ma credo che nel caso di Spregelburd<br />

sia il frutto di un senso storico molto preciso, da una forte consapevolezza<br />

della contemporaneità – e con questo non voglio certo dire<br />

dell’attualità. È un senso delle simultaneità contemporanee. In varie<br />

occasioni mi sono trovato a fare degli spettacoli in cui c’era una<br />

sincronia strutturale, con diverse azioni che accadono simultaneamente.<br />

Spregelburd parla addirittura di «struttura frattale».<br />

Quindi ti ha interessato il lavoro sul tempo, sulla durata e sulla<br />

simultaneità...<br />

Nella sua drammaturgia si sentono anche le ascendenze della sua<br />

formazione matematica. E possiamo trovarci anche tantissimi antecedenti<br />

letterari, anche perché molto spesso la sua drammaturgia<br />

si rifà a topoi drammaturgici e narrativi molto riconoscibili.<br />

Ed è argentino come Borges... Tuttavia lo scheletro logico-matematico<br />

che sostiene la sua drammaturgia, e questo intreccio di citazioni<br />

colte, poi si contaminano con l’aspetto pop, perché c’è una grande capacità<br />

di usare i linguaggi contemporanei...<br />

È anche molto ludico...<br />

...e molto ironico: nella Modestia ci sono varie stratificazioni ironiche.<br />

Ma questo, forse, per un regista come te pone un ulteriore problema.<br />

Hai detto che, di fronte a un testo, vai a scavare quello che c’è dietro,<br />

o sotto. Di fronte a una scrittura di per sé così stratificata, che cosa<br />

puoi trovare?<br />

Devi giocare anche temporalmente, prima una cosa, poi l’altra,<br />

poi un’altra ancora, per ricostruire la stratificazione che c’è nel<br />

testo.<br />

Come ti poni di fronte ai meccanismi ironici della scrittura di<br />

Spregelburd?<br />

Nella Modestia ci sono anche elementi patetici...<br />

Tutta la vicenda russa lavora sul patetico...<br />

È straziante!<br />

Come i grandi romanzi russi dell’Ottocento... Ma con tutte queste<br />

suggestioni presenti nel testo, come riesci a richiudere il cerchio, a far<br />

quadrare l’aspetto logico di cui si parlava prima?<br />

E chi lo sa? Vedremo...


Anche perché, di fronte a un testo di questo genere, il lavoro con gli<br />

attori non può certo andare verso l’approfondimento psicologico, lo<br />

scavo nell’interiorità dei personaggi...<br />

Non avrebbe senso. L’idea stessa di identità individuale viene<br />

messa radicalmente in discussione. C’è un aspetto che mi piace<br />

molto della Modestia: questi personaggi – anzi, questi attori, perché<br />

c’è la condizione del personaggio e quella dell’attore... Ecco, quello<br />

che mi piace è che gli attori non dovrebbero mai sapere con precisione<br />

se stanno in una storia o nell’altra. Quella sensazione di essere<br />

sempre profughi, di vivere continuamente le vite degli altri, mi<br />

pare che sia una caratteristica dei personaggi di Spregelburd. Molte<br />

delle sue commedie – penso al Panico, alla Paranoia – sono «bilocate»:<br />

si svolgono in più posti, in due luoghi se non in quattro.<br />

Dunque emerge la sensazione di essere un po’ i fantasmi di altri:<br />

nella Modestia questa sensazione è fortissima, si usano gli attrezzi<br />

di altri, i personaggi si siedono dove altri si sono seduti, si sdraiano<br />

su letti che appartengono ad altri, perché sono nell’altra storia... È<br />

una cosa bella e interessante: la riflessione sul rapporto tra l’attore e<br />

il personaggio si moltiplica all’ennesima potenza.<br />

Su Spregelburd avevi un piano più ambizioso rispetto alla messinscena<br />

di un unico testo.<br />

Sarei partito quest’anno portando in scena io tre testi suoi, e poi in<br />

futuro mi sarebbe piaciuto allargare l’esperienza anche ad altri colleghi,<br />

per presentare tutti i sette testi della Eptalogia.<br />

Forse ci si riuscirà, con il tempo.<br />

Farò di tutto per riuscirci, perché mi pare che si tratti di un autore<br />

che merita di essere conosciuto. Molto teatro contemporaneo prende<br />

i suoi temi dal giornalismo, dall’attualità, dalla cronaca: a volte<br />

questo dà origine a testi belli, altre volte a testi meno belli, ma sempre<br />

un po’ precotti. Spregelburd è invece un autore che si è affidato<br />

a una percezione della contemporaneità che corrisponde al nostro<br />

tempo ma non è cronachistica, lavora sull’immaginario. Ho sempre<br />

pensato che in teatro un tema contemporaneo, se lo cali nelle<br />

forme e nelle strutture consuete (il personaggio, il dialogo, la trama,<br />

l’intervallo, eccetera), alla fine tanto contemporaneo non risulta.<br />

Gira e rigira, quei testi sembrano tutte commedie dell’Ottocento:<br />

quelle forme non riescono più a contenerci, non ci stiamo<br />

più dentro...<br />

Un altro aspetto che ti ha incuriosito è che questi testi non sono scritti<br />

da un letterato, ma da un uomo di teatro.<br />

Lo senti subito! Una battuta di Schiller o di Ibsen può essere recitata<br />

bene o recitata male, ma resta, ha una sua autonomia. Invece<br />

una battuta di Spregelburd pretende di essere recitata.<br />

Perché non è letteratura?<br />

È anche letteratura, e questo è il suo bello. Però va in due direzioni<br />

diverse: da una parte c’è un gioco letterario, e infatti il testo, se<br />

lo leggi, funziona benissimo; d’altra parte, però, se il gesto e la voce<br />

non se ne fanno carico, improvvisamente quel gioco sparisce e rischia<br />

di restare solo una lettera piatta. Tenendo presente che il gesto<br />

e la voce dell’attore apparentemente possono dare molto, ma possono<br />

anche togliere molto.<br />

Un altro aspetto che conferma la forza di questo testo è la precisione<br />

dei rapporti tra gli attori, tra i personaggi, tra gli spazi, tra i tempi...<br />

È una consapevolezza che un autore può raggiungere solo se è abituato<br />

a fare teatro, a muovere gli attori in scena.<br />

Del resto le didascalie che costellano il testo sono fatte sulla rappresentazione.<br />

Le ripropongo tutte, perché fanno parte del testo.<br />

A volte nel caso dei classici sei andato «contro» il testo. Nel caso di<br />

un autore contemporaneo si può fare? Ha senso farlo?<br />

È un po’ difficile. I classici ormai sono diventati una terra di nessuno.<br />

Però con un testo contemporaneo, invece, è possibile in qualche<br />

modo sbagliarsi, cadere in qualche equivoco, non capire.<br />

Stai facendo lavorare duramente gli attori. Anche perché non devono<br />

sbagliare...<br />

Non è facile. Devono capire bene perché ci sono quelle parole,<br />

perché quella parola ne chiama un’altra... La maggior parte degli<br />

attori ha sempre la tendenza alla psicologia, alla ricerca della verità.<br />

Con questo testo diventa molto difficile.<br />

A quel punto, però, se gli attori non si possono agganciare a questo,<br />

che cosa resta?<br />

Devono trovare qualcos’altro a cui agganciarsi. Per esempio, c’è<br />

una scena in cui un personaggio – quello che interpreta Fausto Russo<br />

Alesi – gioca a carte un gioco che non conosce e contemporaneamente<br />

tratta un affare. Potrebbe diventare una specie di cliché comico,<br />

ma in realtà viene molto meglio, ed è più divertente, se senti<br />

che l’attore si mette in una specie di bilocazione reale: può ascol-<br />

tare e giocare, controllando contemporaneamente due codici completamente<br />

diversi. È una facoltà che esiste, c’è qualcosa di reale, di<br />

fisiologico. Sono procedimenti mentali e cognitivi che possiamo seguire,<br />

una situazione in cui le parole ti vengono da sole e non devi<br />

andarle a cercare...<br />

Questo meccanismo è già presente nel testo?<br />

Sì, e l’attore deve eseguirlo. Questo non vuol dire che non ci deve<br />

mettere del suo: però può metterci qualcosa di suo solo dopo aver<br />

restituito quello che c’è nel testo: per l’appunto questo essere perennemente<br />

bilocati.<br />

La bilocazione è una qualità che attribuivi in senso generale alla<br />

drammaturgia di Spregelburd, e che si riflette anche nel lavoro<br />

dell’attore.<br />

La nostra tendenza «italiana» consiste nel recitare sempre per<br />

convincere l’altro. L’attore cerca di essere convincente, vuole avere<br />

ragione. Invece in questa commedia l’obiettivo è frastornare,<br />

deviare...<br />

Tutto questo sullo spettatore che effetto può o deve avere?<br />

Nel migliore dei casi, dovrebbe accadere quello che capita con certi<br />

film di Hitchcock, come Marnie o La finestra sul cortile: capisci<br />

che tutto quanto ha una regola, però fatichi un po’ a trovarne<br />

la chiave.<br />

Il pericolo è che la chiave venga fuori troppo facilmente?<br />

Oppure che non venga fuori affatto...<br />

L’altro aspetto interessante della drammaturgia di Spregelburd, come<br />

abbiamo visto, è che offre diversi livelli – e dunque chiavi – di lettura.<br />

C’è lo spettatore a livello – diciamo così – di telenovela, che viene<br />

catturato dalla trama, dalle vicissitudini dei vari personaggi. C’è<br />

lo spettatore in grado di decodificare i riferimenti più o meno colti, teatrali,<br />

letterari e cinematografici, e quindi si diverte ironicamente a<br />

smontare il meccanismo... Ma sotto c’è ancora qualcos’altro?<br />

Be’, qualche ambizione filosofica c’è. Vuole essere un teatro scientifico,<br />

in qualche modo.<br />

L’oggetto di questa scienza?<br />

La perdita d’identità è sicuramente un tema.<br />

(Milano, 16 maggio 2011)<br />

«La modestia» 2:<br />

un imbroglione con un senso etico fortissimo<br />

Nel corso delle prove, rispetto alla tua lettura del testo di Spregelburd<br />

e al progetto iniziale, quanto spazio è rimasto a te e<br />

agli attori per cambiare la tua visione della commedia e dello<br />

spettacolo?<br />

La prima cosa che ho detto agli attori, il primo giorno di prova – e<br />

a quel punto si sono quasi spaventati – è: «Guardate che io non sono<br />

per niente preparato. Non ho un progetto già fatto, ma credo di<br />

conoscere molto bene la commedia. Però non mi sono posto il problema<br />

di quello che ne deve venir fuori». Non è che mi capiti sempre<br />

di trovarmi in una situazione del genere, ma in questo caso ci ho<br />

voluto provare.<br />

Mentre di solito, quanto inizi a provare, hai già preparato la messinscena<br />

nei dettagli? Dalla caratterizzazione dei personaggi ai movimenti<br />

degli attori…<br />

No, questo non mi capita mai. In questo caso avevo in mente diverse<br />

ipotesi, diciamo tre o quattro possibilità di lettura del testo o<br />

di una determinata scena. Secondo me questo è un buon punto di<br />

partenza. In genere mi dico: «Be’, questa scena potrebbe essere così,<br />

ma potrebbe anche essere fatta in quest’altro modo». È una logica<br />

combinatoria: le commedie di Spregelburd sono costruite proprio<br />

così, ed è per questo che mi piacciono. Dunque penso che il mio fosse<br />

l’atteggiamento giusto per affrontare un testo come questo… Poi,<br />

come sempre, durante le prove sono arrivati momenti di difficoltà.<br />

E la difficoltà può essere risolta pensando: «Be’, forse questa cosa<br />

qui è quest’altra». […]<br />

Spregelburd lavora per citazioni, rimandi, frammenti, e per accumulo.<br />

Dunque è come se mettesse moltissime virgolette all’interno<br />

della sua scrittura drammaturgica. In genere, tu hai lavorato con gli<br />

attori proprio togliendo queste virgolette, chiedendo loro di prendere<br />

il testo alla lettera, battuta dopo battuta: «Siete in questa situazione,<br />

e dunque dover comportarvi di conseguenza».<br />

Ma contemporaneamente, quando gli attori sono in una delle due<br />

situazioni, diciamo nella vicenda russa, sono anche in quell’altra,<br />

quella sudamericana…<br />

Però introducendo questo gioco del teatro nel teatro, è come se aggiungessi<br />

altre virgolette.<br />

le biennali 2012 — teatro — appendice<br />

focus on 17


18<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — teatro — appendice<br />

C’è un’altra situazione di questo genere nel finale.<br />

Ti riferisci al crollo?<br />

No, ancora dopo. Tutta la confusione finale… Accade un po’ come<br />

in altre commedie di Spregelburd: sembra che l’autore non riesca<br />

a venire a capo di tutti i fili che ha tirato. E allora, per giustificare<br />

quello che è accaduto, arriva quel finale. Ma perché bisogna giustificarlo?<br />

Il finale è quello, e basta… Ma può essere utile anche tener<br />

presente che questo testo Spregelburd l’ha anche interpretato:<br />

faceva la parte di Terzov/San Javier, quindi la parte dell’autore. Io<br />

sono sicuro - è una mia illazione, ma puoi anche essere sicuro delle<br />

tue illazioni, anche sapendo che restano illazioni… - sono sicuro che<br />

Spregelburd, recitando quel testo e occupandosi anche della regia,<br />

fosse anche un po’ curioso di vedere quello che combinavano gli altri<br />

personaggi. La situazione del suo personaggio è quella di chi capita<br />

in una certa situazione, non sa bene che cosa stia succedendo ed<br />

è curioso di capire come potrà evolvere. È quasi una posizione autoriale:<br />

sembra un po’ un autore di fronte a un gruppo di personaggi<br />

liberi. Nella Modestia ci sono otto personaggi, quattro per ciascuna<br />

delle due situazioni, ma potrebbero anche essere dodici, perché c’è<br />

anche l’essere attore dei personaggi. Infatti nello spettacolo ci sono<br />

diversi momenti in cui questa chiave funziona benissimo. Tanto è<br />

vero che a un certo punto ho pensato che non fosse necessario fare<br />

dei passaggi così scanditi, bruschi, tra le due situazioni, quella «russa»<br />

e quella «sudamericana». Nei primi quadri è utile e giusto far<br />

capire che c’è un cambio di scena: si vedono anche mobili e oggetti<br />

che si spostano a vista, per indicare il cambio di situazione, perché<br />

in una pièce a chiave è necessario avvertire gli spettatori che esiste<br />

una chiave. Però, una volta che la chiave è stata enunciata, non è<br />

più necessario seguirla così rigidamente. Così nello spettacolo ci sono<br />

alcuni passaggi in cui i personaggi, all’inizio della scena successiva,<br />

parlano ancora come quelli della scena precedente. Addirittura<br />

in un’occasione, quando si passa alla scena «russa», uno dei personaggi<br />

parla ancora in una specie di spagnolo...<br />

E gli attori, che cosa hanno dato a te e ai loro personaggi nel corso<br />

delle prove?<br />

Il ritmo! Io posso dare loro soltanto delle indicazioni molto precise<br />

sulla battuta...<br />

Indicazioni sulle motivazioni e sulle intonazioni?<br />

Piuttosto indicazioni di movimento e di rapporto. Soprattutto<br />

di rapporto. Però il ritmo dello spettacolo è assolutamente merito<br />

loro. I quattro protagonisti della Modestia sono bravissimi per due<br />

motivi: in primo luogo fanno bene i loro personaggi, e poi hanno<br />

un affiatamento che un regista non può costruire. Non glielo può<br />

imporre. Ho insistito molto sul fatto che il testo è basato sui rapporti<br />

tra i personaggi: ma un personaggio non sa mai chi è l’altro, non<br />

lo deve mai sapere, perché la situazione deve sempre rimanere sospesa.<br />

Però più di questo non potevo dare.<br />

Dunque dagli attori sono arrivati il ritmo e il rapporto tra i<br />

personaggi...<br />

Il modo in cui sono riusciti ad affiatarsi. Abbiamo provato relativamente<br />

poco, ma al debutto di Spoleto sembrava che avessero provato<br />

per tre mesi...<br />

Invece, per quanto riguarda le intenzioni, ci sono state scene in cui tu<br />

avevi un problema e gli attori ti hanno tirato fuori dai guai?<br />

Direi di no...<br />

Insomma, mi pare di capire che hai lavorato quasi più a togliere<br />

agli attori le idee che potevano essersi fatte sul loro personaggio, i loro<br />

pregiudizi...<br />

Anche perché una qualità dei personaggi di Spregelburd che apprezzo<br />

è che nemmeno loro stessi si conoscono così bene. Uno dei<br />

motivi del fascino della Modestia, e in genere di tutte le commedie<br />

di Spregelburd, è che i personaggi hanno degli obiettivi sull’azione,<br />

sanno benissimo quello che devono fare in quel preciso momento,<br />

ma non hanno certezze sulla propria identità. È qui che la commedia<br />

diventa davvero interessante...<br />

Anche nel lavoro sugli attori...<br />

Perché nel lavoro sugli attori si riproduce il senso della commedia...<br />

Quello che deve fare ogni attore è soprattutto lasciarsi portare<br />

da questo meccanismo. Se l’attore gestisce troppo il personaggio, se<br />

si pone in maniera eccessiva il problema delle sue motivazioni, e se<br />

deve metterle in relazione alle motivazioni dell’altro personaggio,<br />

il meccanismo s’inceppa. Seguendo questa strada, ne uscirebbe una<br />

specie di commedia psicologica, che però non terrebbe più, perché<br />

in scena perderebbe tutto il suo ritmo. Per questo ho molto spinto<br />

sul versante della mobilità, verso una mobilità totale.<br />

Nei testi di Spregelburd c’è moltissima ironia, molte scene comiche.<br />

Anche nella tua messinscena della Modestia ci sono scene molto divertenti,<br />

ma alla fine dallo spettacolo emerge una visione assai più<br />

tragica dell’esistenza, anche rispetto ad altri allestimenti dei testi di<br />

Spregelburd...<br />

Però lo spettacolo è molto divertente!<br />

Ma anche profondamente tragico...<br />

Alla fine della Modestia, quello che ti resta, non tanto dalle singole<br />

battute ma dall’intera commedia, è che nessuno dei personaggi è<br />

più al proprio posto, nessuno si sente più al proprio posto da nessuna<br />

parte. E questo non è tragico?<br />

Può essere sia comico sia tragico...<br />

Può anche far ridere. Però a pensarci bene, e facendo riferimento<br />

anche alle nostre esperienze, non è più così divertente... Succede<br />

anche con Il panico, un altro tassello dell’Eptalogia sui sette vizi<br />

capitali di Spregelburd, che porterò in scena l’anno prossimo. La<br />

commedia ruota intorno a un morto circondato dai vivi, e come La<br />

modestia fa molto ridere. Però se fai attenzione ti accorgi che tutti i<br />

personaggi «vivi» sono degli spostati: il Terapeuta fa il dogsitter, la<br />

sensitiva Susana si «occupa di una bambina»... Tutti i personaggi<br />

fanno centomila cose insieme e devono di fatto essere dappertutto.<br />

Non riescono mai a essere concentrati su quello che stanno facendo<br />

in quel preciso momento, perché stanno già correndo da un’altra<br />

parte... L’unico personaggio che si sente al proprio posto è proprio<br />

Emilio, il morto intorno a cui ruota il testo: lui ha la serenità<br />

di chi è crepato, mentre gli altri sono in preda al panico causato da<br />

questa continua bilocazione. È una trovata che potresti incontrare<br />

in una pièce di Coward o di Priestley, quasi un gioco da commedia<br />

brillante. Invece in questo caso, siccome il riferimento è il cinema<br />

horror, il testo si colora di un’altra tinta.<br />

Quest’anno Rafael Spregelburd ha vinto per il secondo anno consecutivo<br />

il Premio Ubu per la migliore novità straniera, per Lucido.<br />

Ha mandato un messaggio di ringraziamento, nel quale ha sottolineato<br />

l’attenzione che ha oggi l’Italia per la sua drammaturgia, che<br />

è nata in un’Argentina profondamente segnata dalla crisi economica,<br />

proprio come l’Italia di questi ultimi anni. Questa sensazione di<br />

incertezza, questa necessità di arrabattarsi facendo più parti in commedia,<br />

questo sdoppiamento, è certamente un riflesso di questa crisi...<br />

Sotto sotto, però, c’è un altro aspetto, anche se non viene mai<br />

esplicitato. Nel teatro di Spregelburd c’è incertezza su tutto, ma<br />

non c’è alcuna incertezza sui valori fondamentali dell’esistenza: la<br />

lealtà, l’etica... I personaggi sono altrettanti imbroglioni, ma con un<br />

senso etico fortissimo.<br />

Ma come è possibile essere degli imbroglioni con un senso etico<br />

fortissimo?<br />

Sono imbroglioni che però sanno che cosa è il bene e che cosa è il<br />

male. In loro non c’è cinismo, e questo è molto piacevole. Anche artisticamente,<br />

nell’approccio di Spregelburd al teatro, accade la stessa<br />

cosa. La sapienza con cui sono costruite le sue commedie è certamente<br />

frutto di una straordinaria furbizia drammaturgica, però al<br />

loro interno c’è anche un elemento di saggezza. In questo senso, si<br />

può dire che Spregelburd, a differenza di tantissimo teatro contemporaneo,<br />

non la vuol dare a bere.<br />

Che cosa vuol dire che «non la vuol dare a bere»?<br />

Che non vuol farla franca, che è sincero nel momento in cui costruisce<br />

le sue finzioni.<br />

(Milano, 21 dicembre 2011)<br />

Una verità<br />

non immediatamente riconoscibile<br />

Conversazione estiva a proposito del «Panico»<br />

Come avevi promesso, la tua esplorazione dei testi di Rafael<br />

Spregelburd continua.<br />

Sì, anche se non ho mai detto che avrei portato in scena<br />

tutta l’Eptalogia di Hieronymus Bosch. In effetti il mio progetto era<br />

di mettere in scena tre testi su sette.<br />

Quindi stai lavorando sul Panico che andrà in scena a Milano… E<br />

qui a Santacristina il progetto di questa estate 2012 comprende un altro<br />

testo dell’Eptalogia…<br />

Sì, stiamo lavorando sull’Inappetenza, ma in questo caso la regia<br />

non la faccio io, se ne occupa Giorgio Sangati, che ha già fatto l’assistente<br />

nella Compagnia degli uomini di Bond. In ogni caso, io avevo<br />

pensato di occuparmi personalmente della regia di La modestia,<br />

Il panico e La paranoia.<br />

Perché la tua scelta è caduta su questi tre testi?<br />

Be’, non potendo fare tutti i sette testi, ho dovuto scegliere. Di


sponendo di tre sale diverse al Piccolo Teatro di Milano, mi sembravano<br />

tre testi giusti per questi tre spazi. Era previsto che La modestia<br />

si facesse il via Rovello, al Teatro Grassi, e così è stato. Il panico,<br />

che è un’opera dove non è così indispensabile uno spazio ristretto<br />

e piccolo, e che parla anche della morte, lo faremo allo Strehler. Per<br />

quanto riguarda La paranoia, per adesso non se ne parla, ma pensavo<br />

di farlo al Teatro Studio. Il mio sogno era di fare i tre spettacoli<br />

in contemporanea…<br />

…in una specie di festival Ronconi-Spregelburd…<br />

Ma è un progetto troppo ambizioso, soprattutto con i tempi che<br />

corrono.<br />

Uno dei motivi del tuo interesse per Il panico, dicevi, è che si tratta<br />

di un testo che parla anche della morte...<br />

In realtà parla della vita! Ma dal momento che poi si muore, nel testo<br />

c’è anche la morte. Però, tutto sommato, la situazione non è poi<br />

tanto differente da certi spunti di altri testi dell’Eptalogia. Dietro<br />

al fatto che nel Panico convivano vita e morte, non c’è niente di filosofico:<br />

la vita e la morte sono solo due territori, esattamente come<br />

nella Modestia Buenos Aires e Villa Opicina sono due territori, oppure<br />

come lo sono i due pianeti dove si svolge l’azione della Paranoia,<br />

oppure il video e il vissuto, sempre nella Paranoia. Sono tutti testi<br />

in cui la bilocazione delle figure è tematica (una bilocazione che<br />

per esempio nell’Inappetenza non c’è).<br />

Come in tutte le cose che scrive Spregelburd, l’incertezza dell’identità<br />

è sempre presente. Qui è chiaramente rappresentata nei due<br />

territori simultanei della vita e della morte. È un chiasmo, più che<br />

una bilancia, o una alternanza, tra i due poli, perché vita e morte sono<br />

presenti nelle due storie che vengono rappresentate. Una delle<br />

due vicende, quella che ruota intorno a un’eredità, potrebbe ricordare<br />

Non ti pago di Eduardo De Filippo: ma già il fatto che si tratti<br />

di un’eredità, significa che continua un rapporto tra chi è morto<br />

e chi resta. L’altra vicenda si svolge su un palcoscenico dove si prova<br />

un balletto, e poi si scopre che la coreografia è ispirata al Libro dei<br />

morti egizio…<br />

…che è proprio il libro che il personaggio che è morto, Emilio, stava<br />

leggendo.<br />

Quindi si tratta di una struttura circolare. Non per niente nel Panico<br />

c’è un personaggio come Emilio che è morto e circola tra i vivi,<br />

ma fino a un certo punto non sa di essere morto, e poi se ne rende<br />

conto… Insomma, non è certo Spirito allegro di Noel Coward!<br />

Uno degli aspetti interessanti della scrittura di Spregelburd, anche<br />

dal tuo punto di vista, è il gioco con le convenzioni teatrali…<br />

La drammaturgia di Spregelburd è estremamente intelligente. Il<br />

suo non è certo un teatro «alternativo»: al contrario, riesce a costruire<br />

una forma che è a mio avviso assolutamente aggiornata, in<br />

sintonia con la nostra percezione della contemporaneità, ma utilizzando<br />

delle forme eterne.<br />

A proposito di «alternativo», nel Panico Spregelburd si diverte a<br />

prendere in giro la nuova danza…<br />

Ma c’è sempre una grande leggerezza, non c’è niente di aggressivo<br />

o di acido. Ha un atteggiamento quasi cechoviano nel rapportarsi<br />

alla realtà: il suo è uno sguardo abbastanza clinico, estremamente<br />

oggettivo, anche quando affronta l’attualità. Per esempio nella<br />

Paranoia il tema di fondo è un concetto di creatività che ci impone<br />

di inventare, inventare e inventare storie, e di conseguenza provoca<br />

la bulimia dell’informazione che ci travolge. Sono temi drammaticamente<br />

attuali, ma vengono sempre trattati con leggerezza e<br />

competenza…<br />

E, come in Cechov, anche con una certa dose di ironia…<br />

È anche divertente, anche se sempre con intelligenza. La stessa<br />

Modestia – un testo forse meno divertente di altri, che infatti può<br />

irritare qualche spettatore – ti comincia a divertire quando capisci<br />

attraverso quali spiragli puoi accedere al divertimento. Se non accadesse<br />

così, se questo passaggio non fosse necessario, sarebbe solo<br />

roba precotta, barzellette già conosciute.<br />

Nel Panico ci sono anche scene che sembrano prese pari pari dalla<br />

farsa, per esempio quando la famiglia dei protagonisti si presenta in<br />

banca per risolvere la pratica dell’eredità…<br />

Sì, però Spregelburd in questo è molto bravo. Perché quella farsa<br />

è una apparenza dietro cui ci sono cose più serie: poi si scopre che<br />

il personaggio della funzionaria di banca – Cecilia Roviro, che fa<br />

molto ridere – è animato da un lutto. Anche Cecilia, come Lourdes,<br />

la vedova di Emilio, è una donna in lutto. Insomma, si ride di<br />

Nelle immagini: Luca Ronconi e Rafael Spregelburd.<br />

una cosa, e poi si scopre che anche quel divertimento è una vernice.<br />

L’inappetenza, su cui stiamo lavorando a Santacristina, è fondata<br />

proprio su questo meccanismo: Spregelburd lavora sulle possibilità<br />

di gioco con la percezione del pubblico. È un gioco senza sosta a mostrare<br />

e nascondere, anticipare e ritardare, come a dire che la percezione<br />

dell’immediatezza esiste, ma è ingannevole. In questo senso<br />

è interessantissimo il suo uso della temporalità sulla scena. A teatro<br />

siamo abituati un po’ rozzamente a una diacronia continua, ma già<br />

quando parliamo di una situazione «contemporanea», in qualche<br />

modo diciamo un’altra cosa.<br />

Per questo sono interessanti i meccanismi delle convenzioni che<br />

Spregelburd mette in atto e poi smonta in continuazione, perché costruisce<br />

sempre delle cornici che poi distrugge davanti allo spettatore…<br />

In questo ha una straordinaria abilità teatrale. Senza dimenticare<br />

la qualità letteraria: non è un romanziere, però nella sua scrittura<br />

non c’è mai nemmeno un briciolo di sciatteria, c’è invece un totale<br />

controllo della letteratura teatrale.<br />

Come nella Modestia, anche nel Panico Spregelburd si diverte a<br />

giocare con i generi, che sono un altro aspetto della convenzione: li<br />

mette in scena, li evoca, e poi li smonta in continuazione.<br />

C’è perfino l’horror, la casa stregata… Però questi riferimenti<br />

non devono prevaricare. Offrono al pubblico un cliché conoscitivo<br />

troppo forte per essere messo in primo piano. Secondo me è meglio<br />

che per chi vede lo spettacolo questi riferimenti restino una interrogazione:<br />

«È anche una parodia dell’horror?», «È un riferimento<br />

all’horror?», oppure: «Sembra un horror…» Non bisogna andare<br />

oltre a questo livello, altrimenti il genere diventa una sovrapposizione<br />

troppo esplicita – come rischia di accadere in altri testi,<br />

per esempio nella Paranoia.<br />

E questo non ti garba più di tanto… Un altro aspetto interessante riguarda<br />

il modo in cui gli attori devono costruire i personaggi, con una<br />

drammaturgia di questo tipo.<br />

Gli attori devono stare sempre anche da un’altra parte. In questo<br />

mi sembra di essere davvero molto vicino a Spregelburd: non dico<br />

suo fratello, ma certo suo parente. Perché questo essere sempre da<br />

un’altra parte, so benissimo che cos’è, quando faccio qualsiasi spettacolo:<br />

quel non sapere mai che cosa stai veramente facendo, se fai<br />

il personaggio o se non lo fai, eccetera eccetera. È una libertà condizionata,<br />

ma è pur sempre libertà: e questo è molto importante.<br />

Questo essere da due parti contemporaneamente è forse la condizione<br />

costitutiva dell’essere attore…<br />

Be’, questo è un po’ troppo! Purtroppo sulla figura dell’attore ci<br />

sono tante cappe ideologiche, da secoli, e poi cappe generazionali, e<br />

così diventa difficile dare definizioni come questa…<br />

Ma lavorare sui testi di Spregelburd non può essere utile proprio per<br />

smontare queste cappe ideologiche?<br />

Spregelburd lo reciti meglio se non sai bene fino in fondo chi sei.<br />

All’attore deve dunque restare un margine di inconsapevolezza?<br />

Sei sei un attore che regola il suo fare, il suo dire e il suo agire rispetto<br />

al pubblico solamente per ottenere un determinato effetto,<br />

con Spregelburd non fai sempre centro. Perché la ricerca dell’effetto<br />

è continuamente messa in discussione, già dal testo. Per esempio,<br />

spesso si sente dire: «Qui il pubblico non capisce». Ma il testo<br />

è costruito apposta perché il pubblico non capisca: perché capirà<br />

dopo… C’è la volontà di rimandare la comprensione del pubblico<br />

– e quindi, con la comprensione, anche l’accettazione di quello<br />

che vede. Qualche volta questo «dopo» implica un posticipare che<br />

è ancora interno alla commedia, ma a volte può anche essere esterno,<br />

come accade per esempio nella Modestia: per capire, ci devi pensare<br />

quando sei uscito.<br />

Quindi all’inconsapevolezza dell’attore corrisponde una inconsapevolezza<br />

da parte dello spettatore…<br />

Secondo me è molto interessante: nei testi di Spregelburd si avverte<br />

che tutto ha la sua ragione, e che tutto ha una sua verità. Ma<br />

di quale verità di tratti, questo non è immediatamente conoscibile.<br />

A un certo punto uno dei protagonisti del Panico dice: «In certe società<br />

organizzate intorno al capitalismo estremo ormai non dovremmo<br />

parlare dio pazzia, ma di mero adattamento». Siamo in piena<br />

attualità…<br />

Spregelburd è sempre molto attento all’attualità, ma è sempre altrettanto<br />

attento a riprendere lo spunto attuale per non lasciarlo a<br />

livello giornalistico, e per farlo diventare un fatto comunicativo teatrale.<br />

◼<br />

(Santacristina, agosto 2012)<br />

le biennali 2012 — teatro — appendice<br />

focus on 19


20<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — musica<br />

«+Extreme-»,<br />

il primo Festival<br />

di Ivan Fedele a cura di Leonardo Mello<br />

Ivan Fedele è il nuovo direttore del settore Musica della<br />

Biennale, dopo i quattro anni di Luca Francesconi<br />

(2008-2011) e di Giorgio Battistelli (2004-2007). Gli<br />

chiediamo di raccontarci le linee guida di questa sua prima<br />

edizione, a partire dal titolo.<br />

Il titolo «+Extreme-» dà un’indicazione, parla appunto<br />

degli «estremi» presenti nella musica d’arte d’oggi. Nei<br />

miei viaggi degli ultimi anni mi sono reso conto che la giovane<br />

musica si orienta verso le regioni estreme del linguaggio,<br />

quelle che ho chiamato massimalismo o minimalismo:<br />

da una parte ho incontrato compositori il cui pensiero musicale<br />

si esprime attraverso un linguaggio estremamente complesso<br />

dal punto di vista concettuale, oppure estremamente<br />

d’impatto dal punto di vista sonoro, quindi con una compo-<br />

nente timbrica e fonica decisamente importanti. Dall’altra<br />

mi sono imbattuto in interessanti autori che adottano strategie<br />

diverse, il loro pensiero e la loro poetica hanno la necessità<br />

di esprimersi tramite un linguaggio musicale ridotto<br />

all’osso, partendo da un nucleo minimo di elementi, come<br />

per esempio due note che piano piano si distanziano l’una<br />

dall’altra creando battimento, e questo battimento da semplice<br />

fenomeno acustico diventa storia o racconto. Oppure<br />

un solo accordo, quindi un lessico estremamente ridotto che<br />

in realtà viene letto e osservato da più prospettive ma – come<br />

nel pezzo di Kirill Shirokov – è l’unica struttura linguistica<br />

presente in un brano, e le sue varianti, cioè le variazioni, sono<br />

soltanto di tipo temporale. O ancora il pezzo su un solo bit<br />

dell’americano Tristan Perich, con il quale arriviamo al massimo<br />

dell’economia espressiva. Ma se dietro c’è un’idea forte,<br />

anche questo atteggiamento ha una sua valenza e un suo<br />

valore. Così come, per fare un altro esempio, sul versante del<br />

massimalismo la corrente della saturation – di cui Raphaël<br />

Cendo e Franck Bedrossian sono i rappresentanti più in vista<br />

– affonda le radici in un pensiero molto profondo in senso<br />

storico, estetico o direi anche etico. Ci si potrebbe chiedere<br />

cosa vi sia in mezzo a questi due «estremi». Be’, sostanzial-<br />

1.<br />

mente nel mezzo stanno altre due tipologie di compositori:<br />

la prima è rappresentata da coloro che hanno una certa propensione<br />

al compendio, che cercano sempre delle coniugazioni<br />

o delle mediazioni creative degli opposti (e questo è un<br />

fatto interessante, di casi del genere nella storia della musica<br />

ne abbiamo avuti tantissimi). La seconda tipologia comprende<br />

chi si fa tentare da una sorta di manierismo di una nuova<br />

koiné, di un nuovo codice, e spesso scivola nell’accademismo<br />

del pezzo che «funziona» e «suona bene». Quel politically<br />

correct che non vuole disturbare nessuno e che pretende allo<br />

stesso tempo<br />

di svolgere un<br />

ruolo di punta<br />

dal punto di vista<br />

del linguaggio.<br />

Vorrei però<br />

fare una precisazione:<br />

il fenomeno<br />

che ho semplificato<br />

in due<br />

formule, massimalismo-minimalismo,<br />

non è<br />

solo attuale, ma<br />

è già presente,<br />

in modi diversi,<br />

nella musica<br />

del dopoguerra.<br />

Per esempio<br />

viene da pensare<br />

che il serialismo<br />

integrale sia una<br />

forma di massimalismo<br />

degli<br />

anni cinquanta,<br />

così come la<br />

musica di Morton<br />

Feldman –<br />

che comunque<br />

aveva frequentato<br />

Darmstadt<br />

– può in un certo<br />

modo cristallizzarsi<br />

in un’idea<br />

di «minimalismo»dove<br />

la funzione<br />

del tempo non<br />

è più narrativa<br />

ma espositiva,<br />

e ci porta in<br />

una dimensione<br />

più contemplativa<br />

dell’evento.<br />

2.<br />

3.<br />

E poi c’è John Cage, che riunisce in sé i due aspetti: se ascoltiamo<br />

i Freeman Études ci troviamo di fronte a una composizione<br />

di mirabolante virtuosismo, mentre se analizziamo il<br />

meccanismo compositivo di altri suoi pezzi, dal punto di vista<br />

concettuale non c’è quel furore della scrittura che invece<br />

si può ritrovare in un rappresentante della nuova complessità<br />

quale è Brian Ferneyhough. Gli anni novanta sono stati<br />

un po’ all’insegna del politically correct, cui accennavo prima,<br />

invece tra la fine del secolo scorso e quest’ultimo decen-<br />

1. Ivan Fedele.<br />

2. Raphaël Cendo (champdaction.be).<br />

3. Franck Bedrossian (lalettredumusicien.fr).


nio mi sembra che – seguendo quelli che sono dei riferimenti<br />

importanti di entrambe le tendenze – molti giovani abbiano<br />

fatto e continuino a fare esperienze coerenti con l’uno o l’altro<br />

tipo di atteggiamento. Non so se Alexander Khubeev conosca<br />

la saturation (probabilmente sì), ma in ogni caso il suo<br />

pezzo potrebbe essere stato scritto da un saturazionista. Non<br />

so quanto approfonditamente il ventenne Shirokov conosca<br />

Morton Feldman, però ne sembra in qualche modo il nipote.<br />

Con questo non voglio togliere nulla alla loro originalità, mi<br />

riferisco esclusivamente alla filiazione intellettuale.<br />

Come sono stati<br />

selezionati i<br />

brani, molti dei<br />

quali in prima<br />

italiana?<br />

È stato piuttostosemplice:<br />

tutti gli autori<br />

che ascolteremo<br />

durante il<br />

festival li avevo<br />

conosciuti precedentemente,<br />

durante i miei<br />

viaggi in occasione<br />

di concerti<br />

e masterclass.<br />

Altri pezzi li ho<br />

sentiti in festival<br />

e rassegne in cui<br />

ero presente come<br />

compositore<br />

oppure semplicemente<br />

come<br />

spettatore. Tutto<br />

il programma,<br />

come anche<br />

la tematica prescelta,<br />

proviene<br />

da un’esperienza<br />

personale.<br />

Com’è riuscito<br />

a organizzare<br />

un festival così<br />

articolato in<br />

tempi di crisi<br />

generalizzata?<br />

Ci sono due<br />

fattori molto<br />

importanti: il<br />

primo riguarda<br />

una nuova consapevolezzadegli<br />

artisti: in una<br />

situazione di difficoltà, non soltanto economica, ma anche<br />

sociale (si è persa del tutto l’idea di andare a un concerto per<br />

scoprire cose nuove, e c’è un’assenza grave di curiosità), il<br />

musicista ha compreso che deve cercare di esercitare la sua<br />

arte a condizioni diverse da quelle di qualche anno fa (a patto<br />

però che restino decorose). Da questo deriva un venirsi incontro<br />

reciproco, cercando da parte nostra di offrire un’accoglienza<br />

adeguata alla professionalità ma senza eccessi (anche<br />

se non credo che in passato vi fossero molti eccessi, alme-<br />

4. Morton Feldman (lastfm.it).<br />

5. Brian Ferneyhough.<br />

6. Tristan Perich.<br />

4.<br />

5.<br />

no nel campo della musica contemporanea…). Questa situazione<br />

si rivela anche un grande filtro, che fa capire chi veramente<br />

«sta sul pezzo» e chi invece preferisce trovare altre soluzioni.<br />

E devo dire che, in generale, ho avuto una buona risposta.<br />

Il secondo fattore ha a che fare con l’appeal internazionale<br />

della Biennale. La stima e la reputazione si creano<br />

con il tempo, e nei suoi più di settant’anni di vita la Biennale<br />

Musica ha, mediamente, lavorato molto bene, acquisendo<br />

sempre maggiore autorevolezza. Io farò di tutto per preservare<br />

e magari rafforzare quest’appeal. Mi sforzerò, attraverso<br />

le programmazioni, di far conoscere la vivacità della musica<br />

d’arte di oggi, a tutti i livelli. Quest’anno ho scelto un tema<br />

concettuale, che ha direttamente a che fare con il linguaggio,<br />

ma altri arriveranno in futuro, direi quasi che li ho già tutti<br />

in mente. Anzi, i temi che ho già individuato sono in numero<br />

eccedente rispetto agli anni che ho a disposizione. Ma,<br />

prendendo spunto proprio dalle difficoltà finanziarie, vorrei<br />

sottolineare un altro aspetto che considero cruciale: io penso<br />

che lo strumento-orchestra sinfonica non rappresenti più<br />

il pensiero della musica d’oggi in maniera adeguata. In primo<br />

luogo per motivi economici: per essere di buon livello,<br />

i concerti hanno bisogno di un certo numero di prove, e le<br />

prove costano. Per ridurre questi costi si prova sempre meno,<br />

6.<br />

con un conseguente, ovvio abbassamento della qualità. Va<br />

aggiunto che le composizioni contemporanee, anche quando<br />

non sono troppo impegnative dal punto di vista della scrittura,<br />

richiedono comunque molta concentrazione, perché non<br />

si tratta di musica di repertorio. E spesso le orchestre, quando<br />

si accingono a eseguire un pezzo contemporaneo, è la prima<br />

volta che lo studiano. In secondo luogo c’è la questione della<br />

competenza dello strumentista rispetto a un linguaggio<br />

che è in grande evoluzione, ma che non viene insegnato nelle<br />

scuole: ognuno si deve costruire da sé la propria esperienza<br />

e le proprie conoscenze. Se un musicista d’ensemble si focalizza<br />

su questo tipo di musica, prima di tutto significa che<br />

ha una grande passione per quel repertorio, e quindi che è disposto<br />

a studiarlo attentamente e con grande impegno. Ecco<br />

perché secondo me gli ensemble, anche allargati, sono il futuro<br />

della nostra musica. C’è poi un terzo fattore: la tecnologia<br />

– dall’amplificazione e dalla sonorizzazione all’intervento<br />

creativo dell’area elettronica – viene oggi regolarmente<br />

utilizzata. E questi sono strumenti che moltiplicano e danno<br />

spessore al colore e al timbro, oltre a fornire novità e varietà.<br />

Personalmente favorirò questa tendenza, preferendo in<br />

genere ensemble con appendici elettroniche alle orchestre. ◼<br />

le biennali 2012 — musica<br />

focus on 21


22<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — musica<br />

Pierre Boulez<br />

di Paolo Petazzi<br />

Il Leone d’oro alla carriera a Pierre Boulez fa<br />

onore a chi lo assegna più ancora che al maestro francese,<br />

un protagonista il cui rilievo storico è da tempo fuori<br />

discussione: le ragioni della scelta si impongono con<br />

tale evidenza che un bastian contrario potrebbe trovarla ovvia<br />

e tardiva usando gli stessi argomenti che la fanno apparire<br />

doverosa. Si dedicherebbe ad un esercizio<br />

sterile, tanto più che con questo Leone d’o-<br />

ro si ribadisce qualcosa che dovrebbe essere<br />

ovvio, ma oggi forse non lo è per tutti. Certo<br />

non è invecchiata la complessità e la straordinaria<br />

ricchezza della lezione di Boulez,<br />

nella attività del compositore e nel particolarissimo<br />

intreccio con quella di teorico e di<br />

direttore d’orchestra.<br />

Tenterò di ricordare in modo schematico<br />

qualche aspetto di un lungo cammino, che<br />

ha conosciuto percorsi non lineari e periodi<br />

di riflessione e silenzio, un cammino in cui<br />

Boulez ama sottolineare in primo luogo gli elementi di continuità:<br />

«Tutto il mio cammino ha perseguito la libertà momentanea<br />

in una disciplina generale». E ancora, in una intervista<br />

di molti anni fa: «... amo molto la dialettica tra l’or-<br />

dine e il caos, perché è una dialettica fisica della natura ed è<br />

una dialettica della mente. Ci sono momenti in cui la mente<br />

ama il disordine, ma essa non può sopportare il disordine<br />

molto a lungo e a partire da un certo momento se ne distacca.<br />

Viceversa se la mente ama l’ordine, non ama un ordine prevedibile.<br />

In una composizione bisogna navigare tra un minimo<br />

di ordine e un minimo di disordine, a costo di esplorare<br />

i territori estremi per un tempo limitato. Si può avere<br />

il caos, ma fino al momento che la mente se ne disinteressa<br />

e allora bisogna riportarlo a qualcosa che la mente possa afferrare.<br />

Questo problema non me lo ponevo affatto quando<br />

ero molto giovane, perché davo e ancora non ricevevo, mentre<br />

l’attività di interprete mi ha molto insegnato sul circuito<br />

dare-ricevere...».<br />

Il 6 ottobre<br />

Paolo Baratta e Ivan Fedele<br />

consegneranno<br />

a Pierre Boulez<br />

il Leone d’oro alla carriera.<br />

Con l’occasione presentiamo<br />

un dettagliato ritratto<br />

del compositore francese.<br />

Riflessioni come queste definiscono la poetica di Boulez<br />

oggi (da qualche decennio) e implicano un atteggiamento<br />

autocritico nei confronti di alcune partiture giovanili dove<br />

«la spinta di rinnovamento in senso radicale era così forte<br />

che non ci si preoccupava troppo della percezione». Quella<br />

spinta di rinnovamento aveva davvero chiarezza e forza<br />

d’urto sconvolgenti all’epoca in cui Boulez, ventenne, si affacciava<br />

sulla scena del mondo musicale imponendosi subito<br />

con straordinaria originalità. Nato a Montbrison (Loire) nel<br />

1925, compì studi matematici prima di dedicarsi completamente<br />

alla musica, fu allievo di Messiaen e<br />

fu tra i primi a prendere da Leibowitz lezio-<br />

ni sul metodo dodecafonico, in un momento<br />

in cui la grandezza di Schönberg, Berg e<br />

Webern non appariva affatto fuori discussione<br />

come oggi. Fra i grandi della sua generazione<br />

Boulez si mosse per primo sulla via<br />

che portò nel corso degli anni cinquanta ad<br />

un radicale sconvolgimento del linguaggio<br />

musicale. Aveva vent’anni quando compose<br />

Notations (raccolta di brevi pagine pianistiche<br />

che in parte sono diventate il punto<br />

di partenza per grandi Notations orchestrali)<br />

dell’anno successivo sono la Sonatine (1946) per flauto<br />

e pianoforte e la Prima Sonata per pianoforte, del 19<strong>48</strong><br />

la Seconda Sonata e allo stesso periodo appartengono i primi<br />

grandi incontri con la poesia di René Char nelle cantate<br />

Le Visage nuptial (che<br />

conoscerà la versione<br />

definitiva soltanto<br />

nel 1989) e Le Soleil<br />

des Eaux (versione<br />

definitiva 1965).<br />

Tra gli antecedenti<br />

di questa originalissima<br />

esplosione creativa<br />

si possono citare<br />

Messiaen (per le sue<br />

ricerche sul ritmo e<br />

per il suo interesse per<br />

le tradizioni musicali<br />

orientali), lo Stravinsky<br />

più inventivo dal<br />

punto di vista ritmico,<br />

e soprattutto Debussy<br />

e Webern, uniti<br />

in una singolare costellazione(impensabile<br />

prima di Boulez).<br />

L’amore per Webern<br />

non comportava l’imitazione<br />

del grande<br />

viennese: basterebbe<br />

a dimostrarlo il sensualismo sonoro raffinatamente filtrato<br />

che emerge dalle cantate su testo di Char. E forti suggestioni<br />

schönberghiane sono riconoscibili nella lucida e furiosa<br />

violenza del gesto espressivo della II Sonata. Lasciandosi alle<br />

spalle la tecnica dodecafonica classica Boulez non rispetta<br />

l’integrità della serie, ma la usa liberamente come fonte di<br />

cellule da sottoporre a serrata elaborazione. Di grande complessità<br />

inoltre è la sua ricerca sul ritmo, organizzato secondo<br />

una nuova tecnica di costante trasformazione di brevi cellule.<br />

Fin dalle prime opere Boulez mette in discussione le tradizionali<br />

categorie di tema, melodia, armonia.<br />

Le opere immediatamente successive sono rimaste famose<br />

Pierre Boulez (foto di Catherine Panchout/Corbis).


per l’austero rigore e il radicalismo iconoclasta: dopo la geniale<br />

tensione inventiva del Livre pour quatuor (19<strong>48</strong>-1949)<br />

Polyphonie X è divenuta un mito, perché Boulez ne ha ritirato<br />

la partitura, dichiarandosi insoddisfatto della realizzazione<br />

strumentale. Del primo libro delle Structures per due pianoforti<br />

(1951) Boulez disse: «Si trattava per me di una prova,<br />

di ciò che si chiama il dubbio cartesiano, rimettere tutto<br />

in discussione, far tabula rasa di ogni eredità e ricominciare<br />

da zero per vedere come si può ricostruire la scrittura sulla<br />

base di un fenomeno che ha annullato la invenzione individuale».<br />

La sua immagine è stata a lungo fin<br />

troppo caratterizzata, agli occhi di molti,<br />

dal radicalismo del primo libro delle Structures,<br />

e Boulez ebbe a sottolineare i limiti<br />

di quella esperienza: «Il primo libro delle<br />

Structures mi ha occupato per due mesi della<br />

mia esistenza: non è tutta la mia esistenza.<br />

Era quello che io chiamo grado zero della<br />

scrittura, dove cercavo la base di un nuovo<br />

linguaggio e in un certo modo un anonimato<br />

(per questo ho preso come punto di<br />

partenza un materiale non mio, un materiale<br />

di Messiaen). Il radicalismo ha qualcosa<br />

di seducente proprio perché è riduttivo,<br />

ed è molto facile parlarne. […] La prima delle<br />

Structures, quella analizzata da tutti, mi<br />

ha preso soltanto una notte: mi sono messo<br />

al lavoro nel pomeriggio e la mattina dopo<br />

era finita; perché erano elementi di linguaggio<br />

assolutamente ridotti, e la scrittura<br />

era quasi come la scrittura automatica dei<br />

surrealisti. Immediatamente dopo il primo<br />

libro delle Structures ho composto il pezzo<br />

del Marteau sans maître per voce e flauto,<br />

che è assolutamente melodico, perché man<br />

mano che procedevo nelle Structures ho riflettuto<br />

al problema di come arrivare alla libertà<br />

di decisioni momentanee all’interno<br />

di una disciplina costrittiva sulla lunga misura.<br />

Tutto il mio percorso (e in ciò credo<br />

sia giustificato) è consistito nel poter dare<br />

la libertà del momento in rapporto ad una<br />

disciplina generale; dunque poter procedere<br />

senza essere prevedibile.»<br />

La svolta immediatamente successiva è<br />

dunque il recupero dell’invenzione individuale,<br />

o meglio, la definizione di una polarità,<br />

di una dialettica tra un’organizzazione<br />

di grande rigore e lo spazio concesso a liberi<br />

interventi della fantasia del compositore.<br />

Nacque allora uno dei capolavori più<br />

noti di Boulez, Le marteau sans maître (finito<br />

nel 1954) su tre poesie tratte dall’omonima<br />

raccolta di Char. Fu il terzo (e ultimo)<br />

incontro con la poesia di Char, e stimolò<br />

Boulez ad approfondire una originale indagine<br />

sul rapporto parola-musica, sull’idea<br />

della poesia come «centro e assenza» del corpo sonoro. Nel<br />

primo dei quattro brani vocali la poesia è cantata senza interruzione<br />

(e la parte della voce si intreccia con quella del flauto),<br />

nei seguenti mutano i rapporti voce-strumenti, nell’ultimo<br />

il testo viene intonato una volta e poi scompare, diventa<br />

«assente» perché la voce non pronuncia più parole e si pone<br />

al livello degli strumenti. Le marteau sans maître si collo-<br />

In alto: René Char.<br />

Sotto: Stéphane Mallarmé in un ritratto di Edouard Manet.<br />

ca sotto il segno delle qualità che Boulez dichiarava di amare<br />

in Char, la concentrazione, la violenza, la purezza. L’organico<br />

strumentale, atipico, ricerca punti di contatto con timbri<br />

esotici, con la sonorità dei gamelan giavanesi, piegandosi,<br />

senza indulgere al pittoresco, a variegate e austere seduzioni<br />

timbriche: vi sono momenti di assorta dolcezza, profili di<br />

nitida lucentezza, dissolvenze, pulviscoli baluginanti e scintillanti,<br />

accanto a scatti violenti, di incandescente purezza.<br />

Dopo il congedo da Char con le brevi poesie «surrealiste»<br />

del Marteau, un altro dei poeti prediletti da Boulez emer-<br />

ge come punto di riferimento nella sua ricerca compositiva:<br />

Mallarmé. A Mallarmé si lega un vasto ciclo che ha un rilievo<br />

centrale nell’opera di Boulez, Pli selon pli (1957-1962, oggetto<br />

di revisioni fino al 1989). Convergenze di poetica si riconoscono<br />

anche in altre opere del compositore, come la Terza<br />

Sonata (1957); ma il ciclo comincia con le prime due Improvisations<br />

sur Mallarmé (1957) alle quali tra il 1959 e il 1962<br />

si aggiunsero la terza, Don e Tombeau a formare l’opera dove<br />

«piega dopo piega» si delinea un «ritratto di Mallarmé».<br />

Nel corso degli anni sessanta e settanta il catalogo di<br />

le biennali 2012 — musica<br />

focus on 23


24<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — musica<br />

Boulez si arricchì di opere di grande rilievo, da Figures-Doubles-Prismes<br />

(1963) a Éclat-Multiples (1965-1970) a Rituel in<br />

memoriam Bruno Maderna (1974-1975). Il piacere del suono,<br />

l’invenzione timbrica fascinosa, e lo straordinario magistero<br />

della scrittura strumentale si affermano sempre all’interno<br />

di una grande complessità e di un nitido rigore strutturale.<br />

Il compositore si vale anche delle nuove esperienze da lui<br />

compiute intensificando l’attività direttoriale, iniziata nel<br />

1954 al tempo della fondazione del Domaine Musical a Parigi,<br />

e proseguita con impegno crescente dal 1958 (data del-<br />

la prima esperienza con una grande orchestra e dell’incarico<br />

di direttore dell’Orchestra della Radio di Baden-Baden).<br />

Boulez aveva cominciato a dirigere quasi per necessità, quando<br />

ben pochi (Bruno Maderna, Hans Rosbaud, Hermann<br />

Scherchen) sapevano e volevano eseguire la nuova musica;<br />

scoperse così straordinarie doti di interprete, arricchite dalla<br />

intelligenza e dalla acuminata penetrazione analitica del<br />

compositore con esiti rivelatori, mentre la esperienza direttoriale<br />

a sua volta fu posta al servizio della attività creativa.<br />

Nel 1969 Boulez assunse a Londra la direzione dell’Orche-<br />

stra della bbc, e nel 1971 succedette a Bernstein a capo della<br />

New York Philharmonic. Nel 1966 aveva diretto a Bayreuth<br />

il Parsifal e nel 1976 fu l’interprete del famoso Anello del Nibelungo<br />

del centenario, con la regia di Chéreau (ripreso poi<br />

per cinque anni). Nel 1979 rivelò a Parigi la Lulu di Berg per<br />

la prima volta con il terzo atto (completato da Cerha). Questi<br />

sono soltanto alcuni momenti fondamentali di una attività<br />

direttoriale che è continuata nelle sedi e con le orchestre<br />

più prestigiose, ma la cui fase più intensa ebbe a coincidere<br />

con un periodo di riflessione del compositore, e si legò ad<br />

una rimeditazione sul passato, sui maggiori<br />

protagonisti del Novecento storico<br />

e su autori come Wagner, Mahler,<br />

Berlioz, Schumann, fino a comprendere<br />

una parte molto ampia del repertorio.<br />

Soprattutto il rapporto con Wagner<br />

e Berg segna una svolta, anche per<br />

l’interprete: oggi Boulez ha registrato<br />

di nuovo il suo repertorio, in una prospettiva<br />

interpretativa più libera e flessibile,<br />

meno «oggettiva» rispetto al rigore<br />

degli esordi; ma sempre con straordinaria,<br />

rivelatrice acutezza analitica.<br />

Sulla propria attività direttoriale ebbe<br />

a dichiarare Boulez: «Ho cominciato<br />

per necessità, poi l’ho fatto per piacere...<br />

Le attività di compositore e direttore<br />

richiedono qualità completamente<br />

diverse. All’inizio ero molto a disagio,<br />

poi ho capito di averne bisogno, per<br />

molti motivi, in primo luogo apprendere,<br />

perché non si impara mai una partitura<br />

meglio che dirigendola. C’è la stessa<br />

differenza che passa fra guardare una<br />

carta geografica e fare un percorso a piedi.<br />

Si conosce un’opera fisicamente, e<br />

per me è molto importante. Inoltre ho<br />

potuto compensare le lacune dell’insegnamento<br />

che avevo ricevuto. Non c’era<br />

legame tra l’apprendimento teorico della<br />

scrittura musicale e la trascrizione reale.<br />

Per me era indispensabile ascoltare<br />

analiticamente una partitura e non l’avevo<br />

mai veramente fatto. Naturalmente<br />

si compensa con l’intuizione; ma c’è<br />

il rischio che una parte dell’utopia che<br />

è in un’idea non giunga a realizzazione.<br />

Dalla direzione ho imparato molto<br />

su come far passare l’utopia nella realizzazione,<br />

e ho smesso di dirigere regolarmente<br />

quando ho capito che non avevo<br />

più da imparare».<br />

Una nuova fase di riflessione iniziò<br />

con la nomina (nel 1975) a direttore<br />

dell’ircam (Institut de Recherche et<br />

de Coordination Acoustique/Musique)<br />

a Parigi. Circa sei anni di silenzio<br />

furono necessari a dominare le possibilità offerte dalle nuove<br />

tecnologie: a Donaueschingen il 18 ottobre 1981 Boulez<br />

presentò circa metà di Répons, e nel 1984 la partitura raggiunse<br />

la durata e la calibratissima forma attuale (poco più<br />

di quaranta minuti, ma non è esclusa una prosecuzione). L’esecuzione,<br />

oltre all’elettronica dal vivo, ha impegnato molte<br />

Sopra, a sinistra: Olivier Messiaen;<br />

a destra: Alban Berg e Arnold Schönberg.<br />

Sotto: l’ircam a Parigi.


volte l’Ensemble InterContemporain, lo straordinario complesso<br />

creato e all’inizio diretto da Boulez con solisti selezionatissimi<br />

per garantire alla musica contemporanea i massimi<br />

livelli interpretativi.<br />

Delle nuove tecnologie Boulez si serve come mezzo per trasformare<br />

il suono prodotto da strumenti dal vivo e per aprire<br />

nuove prospettive nell’uso dello spazio, mantenendo però<br />

una continuità senza fratture nella sua ricerca, nelle linee essenziali<br />

del suo pensiero. In Répons un gruppo di ventiquattro<br />

strumenti (otto archi, otto legni e otto ottoni) sta al centro<br />

della sala con il direttore; il pubblico si colloca tra l’orchestra<br />

centrale e i sei solisti che lo circondano e suonano<br />

due pianoforti, arpa, vibrafono, cimbalom, xilofono e glockenspiel,<br />

strumenti tutti che una volta prodotto il suono<br />

non possono tenerlo o modificarlo, come possono fare invece<br />

gli archi e i fiati. Si ripropone così in Répons una contrapposizione<br />

tra modi fondamentalmente diversi di produrre il<br />

suono che aveva già un rilievo essenziale ad esempio nel Boulez<br />

di Éclat-Multiples. Répons significa «responsori», un termine<br />

preso dal canto liturgico medievale solo per evocare vagamente<br />

l’idea di dialoghi tra solista e coro. I sei solisti sono<br />

collegati agli altoparlanti e alle macchine per l’elettronica<br />

dal vivo, che producono un caleidoscopico gioco di rifrazioni,<br />

frantumazioni, rispecchiamenti, prolungamenti e movimenti<br />

nello spazio, attraverso ritardi, moltiplicazioni del<br />

suono, traiettorie da un altoparlante all’altro.<br />

La tecnologia dell’ircam ha consentito di usare come dimensione<br />

compositiva la distribuzione del suono nello spazio<br />

anche nel Dialogue de l’ombre double (1982-1985), per<br />

clarinetto dal vivo e clarinetto «double» registrato, dove<br />

si alternano un musicista presente e uno «assente», il suo<br />

«doppio».<br />

Le successive esperienze di ricerca all’ircam sono confluite<br />

nella realizzazione del progetto di...explosante-fixe..., nato<br />

da un’idea del 1972 elaborata in diverse fasi, soprattutto<br />

tra il 1991 e il 1993, in<br />

una versione provvisoria<br />

che comprende le tre sezioni<br />

più ampie, fra le sette<br />

progettate, e due interludi.<br />

Vi sono tre flauti solisti<br />

(dei quali uno è collegato<br />

con un sistema informatico<br />

dell’ircam), intorno<br />

ai quali un gruppo di ventidue<br />

strumenti e l’elettronica<br />

creano una complessa<br />

varietà di piani sonori,<br />

di mutevoli sfondi, intrecci,<br />

dilatazioni. Boulez<br />

parla di una forma «a mosaico»,<br />

perché nasce dalla<br />

elaborazione di cellule indipendenti,<br />

che si ripresentano<br />

trasformate, ma riconoscibili,<br />

in frammentata<br />

successione, come i tasselli<br />

di un mosaico. Il pezzo<br />

rivela una straordinaria<br />

forza di seduzione, degna<br />

della suggestione visionaria<br />

del titolo (preso da una<br />

definizione della bellezza<br />

di Breton).<br />

Un materiale di una par-<br />

Pierre Boulez (sfcmp.org).<br />

te violinistica della versione originaria di ...explosante-fixe...<br />

è stato il punto di partenza, radicalmente rielaborato, per un<br />

breve pezzo violinistico del 1991, Anthèmes. Questo pezzo<br />

è stato ripensato e dilatato con i mezzi del live-electronics in<br />

Anthèmes 2 (1997).<br />

Un ritorno, dopo molti decenni, al pianoforte solo è segnato<br />

da Incises, composto nel 1994 usando alcuni materiali<br />

destinati a un lavoro per pianoforte e ensemble iniziato nel<br />

1989. Il progetto prese una forma completamente diversa:<br />

Boulez aveva in mente qualcosa per cui gli era indispensabile<br />

avere più di un pianoforte (ad esempio un gioco d’echi<br />

richiede uno strumento che abbia la velocità e il colore del<br />

pianoforte, e in una intervista il compositore ha ricordato i<br />

quattro pianoforti delle Noces di Stravinsky). Così è nato Sur<br />

Incises (1996/98), che va molto oltre il punto di partenza senza<br />

mai citarlo alla lettera. Appartiene al pensiero di Boulez<br />

l’arte del «dedurre», dove la deduzione non ha nulla di scolastico,<br />

perché comporta l’invenzione e la scoperta di svolgimenti<br />

imprevedibili. Sur Incises è composto per tre pianoforti,<br />

tre arpe, tre percussionisti: analizzando, per così dire, il<br />

suono pianistico di Incises, un triplo trio ne dilata nello spazio<br />

diversi aspetti attraverso le caratteristiche delle corde velocemente<br />

percosse del pianoforte, delle corde pizzicate delle<br />

arpe, dei metalli e dei legni percossi. Caratterizzano il pezzo<br />

gli indugi su ricchi arabeschi, su una fastosa ornamentazione,<br />

o su arcani giochi di risonanze, oppure gli scatti virtuosistici:<br />

un aspetto è anche una vera e propria gara tra i tre<br />

pianisti. Si crea un colore molto particolare con il continuo<br />

intreccio dei pianoforti e delle arpe e con i barbagli luminosi<br />

della percussione.<br />

La più recente partitura portata a termine da Pierre Boulez<br />

è la versione completa di Dérive 2 (1988-2006) per undici<br />

strumenti. Il pezzo fu iniziato nel 1988, quattro anni dopo<br />

il bellissimo Dérive 1, che non ha nulla in comune, salvo<br />

il fatto di «derivare» da un materiale in un certo senso<br />

occasionale. Dérive 2<br />

aveva raggiunto una durata<br />

di circa venticinque minuti<br />

nel 2002 (ed era stato<br />

allora registrato dallo stesso<br />

Boulez); ma poi è cresciuto<br />

ancora di circa venti<br />

minuti. Non è il solo lavoro<br />

di Boulez ad aver conosciuto<br />

una genesi complessa<br />

e stratificata, ma<br />

nel caso di Dérive 2 la natura<br />

stessa della concezione<br />

rende possibile la graduale<br />

crescita. Partendo<br />

da materiali «anonimi»<br />

(esempi musicali dei suoi<br />

corsi) e sottoponendoli a<br />

una complessa elaborazione,<br />

Boulez studia le possibilità<br />

di processi periodici,<br />

di combinazioni e «variazioni»<br />

dei materiali di<br />

partenza (le cui potenzialità<br />

sono esplorate in modo<br />

magistrale), di ritorni circolari<br />

di natura non semplicemente<br />

ripetitiva, anzi<br />

accortamente dissimulata,<br />

con esiti di straordinaria<br />

ricchezza fantastica e di<br />

grande freschezza. ◼<br />

le biennali 2012 — musica<br />

focus on 25


26<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — musica<br />

John Cage<br />

di Mario Messinis<br />

John Cage seguì le lezioni di Arnold Schönberg<br />

tra il 1935 e il 1937; era poco più che ventenne e partecipò<br />

a quell’insegnamento solo come udito-<br />

re. Dal compositore viennese apprese il rigore<br />

del pensiero, anche se seguì subito altri percorsi<br />

sperimentali fin dalla fine degli anni trenta.<br />

La percussione divenne il suo laboratorio compositivo<br />

con un arsenale strumentale imponente, anche<br />

con oggetti della quotidianità (l’influenza da<br />

lui riconosciuta di Duchamp). Assimila le tecniche<br />

che inglobano il rumore di Cowell e di Varèse: Ionisation<br />

è del 1931 e First Construction (in metal)<br />

di Cage, per cinque percussionisti e pianoforte, del<br />

1939. Nella decina di composizioni per percussione,<br />

circoscritte al quadriennio 1939-1943, si allontana<br />

spesso dalla corporeità materica del modello nella ardita<br />

esplorazione di una timbrica sommessa che sfiora il silenzio.<br />

In questi momenti umbratili e preinformali Cage supera<br />

certa ingenua ossessività ritmico-melodica che altrove affiora.<br />

Contestualmente inventa il cosiddetto «pianoforte preparato»:<br />

l’inserzione tra le corde di bulloni, viti, gomme, ecc.<br />

– con una complessa intavolatura dei materiali – nasce come<br />

mimesi e sostituzione della percussione. La distorsione delle<br />

altezze prefigura l’indeterminazione. Gli interventi aleatori<br />

nel processo compositivo Cage li aveva esperiti sin dalla giovinezza:<br />

le radio ci sono già nel coreografico Credo in Us (1941);<br />

la perdita del controllo della notazione, l’uso casuale dei giradischi<br />

accanto alle percussioni e al pianoforte con sordina figurano<br />

fin dal primo Imaginary Landscape (1939). Vorrebbe<br />

far costruire una macchina per fabbricare microcosmi intervallari,<br />

ma rifiuta l’avventura con le «macchine controllore»:<br />

«sono troppo stupide» amava ripetere. Dunque negli anni<br />

quaranta Cage si interessa, con analoghi metodi compositivi,<br />

alla elettroacustica, alle percussioni e al pianoforte preparato,<br />

alla ricerca del suono incognito.<br />

Si affaccia l’interesse per l’Oriente – la filosofia indiana, la<br />

saggezza cinese, il Buddhismo Zen – come perdita della soggettività:<br />

è un interesse che riguarda per lo più il pensiero, ma<br />

non il linguaggio (anche quando ricorre ad uno strumento<br />

giapponese, lo Sho, è sollecitato dalle peculiarità del timbro<br />

e non dall’orientalismo). C’è qualche allusione all’esotismo<br />

decorativo solo nella prima stagione compositiva, come nei<br />

celebrati e suggestivi Sonate e Interludi del ‘<strong>48</strong>. Sono tracce labili,<br />

destinate a sparire all’inizio degli anni cinquanta quando<br />

inizia il dialogo con Boulez, testimoniato da un eccezionale<br />

carteggio, risalente al quinquennio 1949-1954, recentemente<br />

pubblicato in italiano da Archinto, un’importante<br />

testimonianza teorica e tecnica. È indicativo che due ce-<br />

Con cinque brani<br />

in programma,<br />

John Cage<br />

è certamente<br />

uno dei protagonisti<br />

della Biennale.<br />

Il contributo<br />

di Mario Messinis<br />

ne delinea<br />

con la consueta precisione<br />

il percorso artistico.<br />

lebri studiosi bouleziani, nella prefazione e postfazione dello<br />

stesso volume, esprimano opinioni abbastanza diverse: Piancikowski<br />

privilegia Boulez e Nattiez Cage. Questa contraddizione,<br />

editorialmente stravagante, rispecchia divergenti criteri<br />

interpretativi. In un primo tempo Cage è stato influenzato<br />

dal più giovane Boulez, dopo la conoscenza della Seconda Sonata<br />

per pianoforte del ‘<strong>48</strong>. La svolta verso l’atema-<br />

tismo (in precedenza solo fuggevolmente adottato)<br />

e l’astrattismo, a mio parere, si deve alla suggestione<br />

di Boulez, nel biennio decisivo 1950-1951.<br />

Con il Concerto per pianoforte preparato e orchestra<br />

(imperturbabile, infinito), la Music of Changes<br />

per pianoforte, le Pastorali per pianoforte preparato,<br />

Cage abbandona definitivamente i lacerti<br />

esotici. Le scelte radicali dimostrano la tangenziale<br />

vicinanza alla scuola di Darmstadt e al postwebernismo<br />

anche se Cage non ha mai adottato la serialità<br />

integrale. In Music of Changes coniuga le geometrie<br />

analitiche della scrittura con l’apertura al<br />

caso. È indicativo però che i principi strutturali prevalgano<br />

sugli aspetti aleatori. Molto originale è il rapporto tra suono<br />

e silenzio in un’inedita impaginazione spaziale. Cage dilata i<br />

1. 2. 3.<br />

bagliori di Webern: i silenzi sono musicali al pari del suono:<br />

il suono del silenzio. D’altronde non è un caso che solo qualche<br />

mese dopo la composizione di questo brano, Cage inventi<br />

il suo lavoro più provocatorio e «silenzioso», 4’ e 33”: il pianista<br />

non suona per quattro minuti e mezzo e lascia percepire al<br />

pubblico soltanto le voci ambientali. In Imaginary Landscape<br />

n. 4 ricorre a 24 esecutori per 12 radio. È curioso del paesaggio<br />

sonoro (dichiara che «avrebbe voluto amplificare gli alberi e<br />

gli arbusti»), con l’osservazione delle voci della natura, nella<br />

convinzione sperimentale che tutto è musica, secondo il principio<br />

dadaista che tutto può essere estetico.<br />

Prevede, prima di Schaeffer, la musica concreta; è il profeta<br />

della musica elettronica prima di Stockhausen con Imaginary<br />

Landscape n.5 per nastro magnetico. In questo periodo<br />

le scelte di Cage si muovono in più direzioni tra indeterminazione<br />

e determinazione. L’interesse per il caso – il caso è «l’ignoto»<br />

– è sollecitato dal ricorso al libro cinese degli oracoli,<br />

con il lancio di monete che impone il flusso compositivo: un<br />

modo per sfuggire alla predeterminazione e all’automatismo<br />

dell’edificio costruttivo. È una critica al determinismo della<br />

scuola di Darmstadt. Il dialogo con Boulez comincia ad affievolirsi<br />

quanto maggiore diventa l’interesse per il caso. Qui il<br />

rapporto tra i due compositori si rovescia. Cage non subisce<br />

più le certezze di Boulez, ma tende ad incrinarle. D’altronde<br />

intorno alla metà degli anni cinquanta si estende l’influenza<br />

del musicista sugli ambienti di Darmstadt. La seconda ma-<br />

1. Mario Messinis e John Cage; 2. Anton Webern;<br />

3. Merce Cunningham in un ritratto di Annie Leibovitz (1997);<br />

4. Morton Feldman; 5. Franco Donatoni.


niera di Stockhausen sarebbe inconcepibile senza Cage, fino<br />

a Momente e all’estremismo aleatorio di Aus den sieben Tagen.<br />

Lo stesso Boulez della Terza Sonata per pianoforte risponde,<br />

senza dichiararlo, al collega statunitense, anche se di fatto la<br />

cosiddetta «alea controllata» è una normalizzazione delle<br />

operazioni casuali, un modo per aprire la porta alla flessibilità,<br />

senza rinnegare le norme del sistema. Nel ‘52 Cage crea,<br />

al Black Mountain College, il primo happening, la prima assoluta<br />

esperienza performativa. Era un insieme di musica, poesia,<br />

pittura e danza con al centro il coreografo Merce Cunningham,<br />

il pittore Robert Rauschenberg, il pianista David<br />

Tudor e naturalmente lo stesso Cage. Era la premessa a esperienze<br />

multimediali cariche di futuro, che attraverseranno<br />

per un quarantennio l’ansia sperimentale del musicista. Mi<br />

accadde di assistere allo «scandaloso» e sorprendente progetto<br />

promosso da Tito Gotti per le Feste musicali di Bologna,<br />

Alla ricerca del tempo perduto: un treno viaggiante tra varie<br />

stazioni ferroviarie con musicassette, televisori, strumenti<br />

ed esposizioni d’arte: Cage era gioiosamente impegnato nelle<br />

sue irriverenti esplorazioni ludiche. Recentemente Veniero<br />

Rizzardi e Giovanni Mancuso hanno ricostruito, al Conservatorio<br />

Benedetto Marcello di <strong>Venezia</strong>, una Lettura di Ca-<br />

4.<br />

ge della fine degli anni cinquanta, intercalata all’esecuzione<br />

di alcuni frammenti del Concerto per pianoforte e orchestra<br />

(all’origine il pianista era David Tudor). Ironia, umorismo,<br />

piacere del gioco: affiora la disinvoltura di un maestro che si<br />

occultava nel gesto teatrale.<br />

Nel ‘58 Cage per la prima volta è invitato a Darmstadt (precedentemente<br />

però si era affacciato come pianista e compositore<br />

al festival di Donaueschingen). Fu una rivoluzione, e<br />

la sua influenza mise in crisi per oltre un decennio la musica<br />

nuova, soprattutto in Germania e in Italia. L’opera che sconvolse<br />

il cenacolo internazionale dell’avanguardia è il Concerto<br />

per pianoforte e orchestra del ‘58, uno degli esempi estremi<br />

di apertura al caso e di coinvolgimento creativo dell’interprete<br />

(63 pagine con 84 tipi di notazione); qualche anno dopo<br />

il lunare John Tilbury suonava per la Biennale all’ingresso<br />

della Fenice, mentre l’orchestra era impegnata in ordine<br />

sparso nel foyer del teatro. L’ascolto del Concerto determinò<br />

tempestivamente l’intervento saggistico, Cage o della liberazione,<br />

di Heinz Klaus Metzger – il luciferino allievo di<br />

Adorno – che aveva già demolito la serialità «generalizzata»<br />

di Boulez. Lo stesso Berio fu interessato a quel saggio «storico»<br />

e lo fece tradurre nel 1959 per la sua rivista, gli Incontri<br />

Musicali. Metzger soggiogò gli avamposti della nuova musica<br />

anche sul piano teorico, come conferma il teologo, compositore<br />

e filosofo del caso, l’adorniano Dieter Schnebel. Ma<br />

fu un saggio arbitrario perché vedeva Cage attraverso la «negazione<br />

determinata». È un’interpretazione che successivamente<br />

è stata accolta dallo stesso Adorno e che è proliferata in<br />

Italia. Franco Evangelisti, Mario Bortolotto, Aldo Clementi<br />

e Franco Donatoni agivano nei circuiti del pensiero nega-<br />

5.<br />

tivo secondo la «cadaverica» retorica della fine della musica<br />

(Donatoni giunse a una temporanea afasia e alla rinuncia del<br />

comporre). In realtà Cage era un genio atarassico, totalmente<br />

estraneo al dibattito speculativo europeo; non credeva alla<br />

fine del linguaggio, ma all’allargamento interdisciplinare<br />

dell’esperienza creativa. L’adozione di scritture aleatorie divenne<br />

ecumenica (si pensi alle pittografie liberty di Bussotti).<br />

Il compositore europeo che comprese, senza sovrastrutture<br />

ideologiche, la lezione di Cage, anche per quanto riguarda<br />

la vocazione teatrale, fu Mauricio Kagel; Bruno Maderna lo<br />

ebbe presente soprattutto nell’apertura all’indeterminazione<br />

delle ultime opere.<br />

Dopo molte ricerche grafiche, nell’ultimo quindicennio<br />

Cage si riconvertì ai piaceri della notazione. I fluviali Freeman<br />

Etudes si appagano di un arido virtuosismo utopico nelle<br />

spettacolari acrobazie violinistiche. Negli spezzoni melodrammatici<br />

di Europeras, commissionate su suggerimento di<br />

Bertini e di Metzger, Cage intese conciliare la multimedialità<br />

con le esigenze di un teatro di tradizione, l’Opera di Francoforte.<br />

Come è noto, alcuni artisti furono vicini negli Stati<br />

Uniti a Cage, da Cunningham a Rauschenberg, ad allievi<br />

e sodali: Morton Feldman, Earle Brown, Christian Wolff.<br />

Marginale invece fu il rapporto con i minimalisti: l’orientalismo<br />

divulgativo di Terry Riley devastò l’ascetismo rituale di<br />

Cage; Steve Reich ne accolse alcuni processi iterativi e l’energia<br />

ritmica delle opere giovanili. Fondamentale fu il dialogo<br />

con Merce Cunningham. Entrambi hanno teorizzato l’indipendenza<br />

tra creazione coreografica e creazione musicale, ma<br />

l’autonomia della sperimentazione coincide con una perfetta<br />

armonia del pensiero.<br />

Mi sia consentito un ricordo personale. Cunningham amava<br />

molto <strong>Venezia</strong> e per questo gli proposi di dedicare una prima<br />

assoluta alla Fenice (ma il teatro bruciò un anno dopo e<br />

il balletto Interscape si svolse nel 2000 al Palafenice). Cunningham<br />

sembrò accettare, con la mitezza che condivideva<br />

con Cage, di coreografare un’opera di Feldman, ma poi pensò<br />

a 108, per altrettanti strumentisti, dell’amico scomparso<br />

da un decennio, iperbole del silenzio come filosofia della quiete.<br />

Autore della scenografia fu il prediletto Rauschenberg. Le<br />

operazioni casuali non implicavano la rinuncia alla scrittura.<br />

Negli ultimi lavori Cage prosciuga l’anarchia degli happening<br />

per vivere l’attrazione del vuoto. Non escludo sia stato<br />

suggestionato dalla sublime immobilizzazione del tempo di<br />

Feldman. 103, l’estrema monumentale composizione di largo<br />

organico presentata alla Biennale Musica nel 1993, un anno<br />

dopo la morte dell’autore, era associata a One, un film senza<br />

soggetto, fondamentalmente ideato, nelle linee guida, dal<br />

musicista. Dice Cage: «C’è luce ma non ci sono persone, né<br />

cose, né idee sulla ripetizione e sulla variazione. Si tratta di<br />

un’attività senza senso che tuttavia è comunicativa, come la<br />

luce stessa, che sfugge alla nostra comunicazione perché non<br />

ha nessun contenuto. Come ha affermato McLuhan, la luce è<br />

informazione pura senza alcun contenuto che limiti il suo potere<br />

trasformante e informativo». In questi tardi lavori si definisce<br />

il «terzo stile» dell’autore, tra appello metafisico e respiro<br />

cosmico. Trapelano assonanze con Scelsi e persino con<br />

l’ultimo Nono. Evidentemente certe idee circolavano e la scoperta<br />

e l’invenzione di Cage si irradiavano nelle trame della<br />

nuova musica.<br />

Cage è stato compreso, quando era attivo, più dai compositori<br />

che dai critici. Fedele D’Amico parlò di «ebetudine»<br />

(come di «Urpernacchie» a proposito di Boulez).<br />

Ma ciò fa parte di un’aneddotica definitivamente<br />

sommersa. In realtà Cage è stato il pensatore che più<br />

ha determinato la palingenesi di tante avanguardie. ◼<br />

(per gentile concessione di «classic voice» n. 160, settembre 2012) .<br />

le biennali 2012 — musica<br />

focus on 27


28<br />

focus on<br />

le biennali 2012 — musica<br />

L’importanza<br />

del pubblico<br />

come interlocutore<br />

Una conversazione<br />

con Yotam Haber,<br />

direttore artistico del mata<br />

a cura di Federico Capitoni<br />

Parlando con i giovani compositori d’oggi si<br />

viene spesso investiti dalla strana sensazione d’una<br />

esibizione – un po’ sospetta – di educazione, cortesia<br />

e rispetto. Ciò farebbe sembrare finiti i tempi del<br />

musicista ribelle, anticonformista a tutti<br />

i costi, che fa finta di rinnegare la tradi-<br />

zione e si lamenta del presente. Forse, più<br />

semplicemente e probabilmente, lo spirito<br />

di contraddizione è messo soltanto tra<br />

parentesi, nell’esercizio di una prudente<br />

epoché in attesa di momenti migliori (momenti<br />

che di solito coincidono col successo,<br />

raggiunto il quale un artista è convinto<br />

di potersi permettere qualsiasi gesto o affermazione).<br />

Fatto sta che conversare con<br />

Yotam Haber, classe 1977 quindi «giovane» in tutti i Paesi<br />

del mondo (figuriamoci da noi), concilia anche il più scettico<br />

e rassegnato con la speranza di un futuro rigoglioso e so-<br />

prattutto realistico per la composizione musicale. Nato in<br />

Olanda, ora newyorkese dopo l’infanzia passata in Israele<br />

e in Nigeria, Haber ha carriera e ambizioni di uno normale<br />

– bravo, studioso, sì, ma con i piedi per terra, e all’attività<br />

di compositore affianca quella di organizzatore musicale<br />

e di direttore artistico. Ascolteremo una sua composizione,<br />

Between Composure and Seduction, alla Biennale di <strong>Venezia</strong><br />

nel concerto del 9 ottobre intitolato New Russia/Old America,<br />

anche se, dice l’autore, «non ho capito perché mi abbiano<br />

messo lì, dato che non sono né un giovane russo né un vecchio<br />

americano». Il suo pezzo è tra i lavori di tre giovani russi<br />

e il capolavoro del minimalismo americano, In C di Ter-<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Teatro Piccolo Arsenale<br />

9 ottobre, ore 18.00<br />

Between Composure and Seduction<br />

di Yotam Haber<br />

per violino, contrabbasso e percussioni<br />

(2009, 12’) prima esecuzione italiana<br />

ry Riley, forse c’è un’affinità, almeno nei termini della macrodistinzione<br />

tra massimalisti e minimalisti su cui il direttore<br />

artistico Ivan Fedele ha ragionato per questa edizione,<br />

ma come la maggior parte dei compositori, Haber fa fatica a<br />

collocarsi in una delle due categorie: «Io vengo da entrambi<br />

i mondi, perché a Milano ho studiato con Adriano Guarnieri<br />

che scrive una musica che sembra totalmente massimalista,<br />

molto piena, forte, ricca di note, quasi caotica, ma che<br />

poi, dopo un po’ che la si ascolta, rivela improvvisamente un<br />

luogo piatto, statico in cui ci si rende conto che gli strumenti<br />

fanno sempre la stessa cosa. Accade dopo venti, trenta minuti;<br />

è un paradosso bellissimo. D’altra parte poi ho studiato<br />

anche con i Bang on a Can, musicisti della scuola derivata<br />

direttamente da a Philip Glass e Steve Reich. Quindi direi<br />

che mescolare Guarnieri con l’ensemble americano potrebbe<br />

essere un risultato nuovo, di sintesi, che comunque impone<br />

una mia voce». Haber ha scritto la composizione, che verrà<br />

eseguita in prima italiana a <strong>Venezia</strong>, nel<br />

2008 a Roma, l’anno successivo alla vitto-<br />

ria del prestigioso Prix de Rome: «Mentre<br />

ero borsista all’Accademia americana,<br />

ho conosciuto l’architetto Peter Zumthor<br />

che era molto interessato alla musica contemporanea.<br />

Mi erano rimaste impresse<br />

alcune parole del suo libro Atmospheres,<br />

nome che viene tra l’altro da un titolo<br />

di un pezzo di Ligeti, con cui tentava di<br />

descrivere un posto effimero ove lui creava<br />

la sua architettura; “between composure and seduction”.<br />

Ho provato nel mio pezzo a trovare lo stesso posto, e a Zumthor<br />

stesso ho fatto scegliere l’organico degli strumenti per<br />

questo pezzo. Alla fine è un brano per tre soli musicisti: violinista,<br />

contrabbassista e percussionista. Quelli che ascoltano<br />

questo pezzo registrato talvolta non mi credono quando<br />

dico che ci sono solo tre strumenti; questa è la cosa di cui sono<br />

più fiero: senza amplificazione questo pezzo produce un<br />

suono enorme, volevo provare a creare un suono monolitico<br />

ma non un timbro semplice, e per me questa è la cosa essenziale<br />

dell’architettura di Zumthor che volevo esprimere:<br />

A sinistra: Kronos Quartet<br />

(foto di Zoran Orlic / kronosquartet.org).<br />

A destra: Steve Reich.


compostezza e seduzione». Coerentemente dunque, Haber<br />

cerca di coniugare minimalismo e massimalismo in un risultato<br />

in cui entrambi gli indirizzi possano essere rintracciabili<br />

pur non essendo definibile né in un modo né nell’altro.<br />

Del resto i sincretismi di cui la musica si nutre da tempo dovrebbero<br />

ormai aver superato la fase illusoria della contaminazione<br />

e quella seducente del crossover, giungendo a quella<br />

sintetica della novità. Più probabile è il raggiungimento<br />

del risultato se al solipsismo creativo si preferisce un’apertura<br />

alla musica degli altri (cosa che i compositori non sempre<br />

fanno). Haber non può fare a meno di ascoltare la musica dei<br />

giovani colleghi perché è attualmente direttore artistico di<br />

uno dei più importanti festival internazionali di musica contemporanea,<br />

il mata, che si svolge a New York da quindici<br />

anni e che ospita anche un concorso: «il mata è stato fondato<br />

nel 1996 da Philip Glass che ancora vive nell’East Village,<br />

accanto al cinema The Anthology in cui ha fatto il primo<br />

concerto dal titolo Music at the Anthology che gli dato il<br />

nome. Per tredici anni la sede è stata a Manhattan, ora è Brooklyn<br />

dove c’è la maggior parte di compositori e ascoltatori,<br />

è il nuovo «west village» in cui si riuniscono oggi artisti<br />

e poeti. «La nostra missione è di promuovere, commissionare<br />

e suonare la musica dei compositori giovani (meno di quarant’anni)<br />

di tutto il mondo. Quest’anno abbiamo ricevuto<br />

seicentocinquanta composizioni inedite da ogni parte del<br />

pianeta, il che spiega che ci sono tantissimi compositori che<br />

vogliono lavorare. Io da direttore artistico scelgo una giuria<br />

di quattro compositori importanti americani. Poi seleziono<br />

l’ensemble o l’orchestra che deve suonare il pezzo. Il festival è<br />

primaverile, ma quasi ogni mese facciamo un concerto nella<br />

serie “Interval” che è un’occasione anche per curatori esterni<br />

i quali possono proporre un’idea per un concerto. Ogni<br />

anno premiamo qualcuno e stavolta tocca al Kronos Quartet.<br />

Verranno premiati da Glass e Reich, due luminari della<br />

musica americana contemporanea che hanno sempre litigato:<br />

è bello vederli insieme ora che a settantacinque anni hanno<br />

messo da parte le inimicizie. Infine come mata non solo<br />

presentiamo pezzi, ma a tre o quattro compositori – quelli<br />

che riteniamo i migliori tra chi si presenta – ogni anno commissioniamo<br />

un pezzo nuovo. Io ho avuto una commissione<br />

Sopra: Philip Glass.<br />

A destra: Yotam Haber.<br />

da mata, è stato importantissimo, per i musicisti americani<br />

ha un peso rilevante».<br />

Haber crede molto nella musica contemporanea, e ne rivendica<br />

lo statuto di professione: «Io sono ottimista, trovo<br />

che le opportunità per i compositori non manchino. E non<br />

esiste solo New York, ma tante città che fino a dieci anni fa<br />

non offrivano chance. Il Texas per esempio oggi è un importante<br />

centro di musica moderna. Noi, come mata, siamo<br />

fieri di pagare gli autori e i musicisti, mentre è pieno di artisti<br />

che lavorano gratis. Trovo che ci sia una tradizione di direttori<br />

e orchestre che chiedono di scrivere musica solo per<br />

l’onore di ricevere un’esecuzione e noi siamo completamente<br />

contrari a questo mercato falso». Da questo<br />

punto di vista, cioè la pretesa del rispetto<br />

della musica, di chi la fa e di chi l’ascolta, Yotam<br />

Haber è intransigente: «Trovo che finalmente<br />

ci si muova verso la creazione di musica<br />

che abbia un’attrazione per il pubblico. Negli<br />

anni settanta Babbit scrisse un famoso articolo<br />

dal titolo Non mi interessa se ascolti, il<br />

messaggio era chiaro. Abbiamo avuto compositori<br />

che hanno creato dei muri: i seguaci del<br />

serialismo puro hanno contribuito a fondare<br />

un’accademia in grado di ignorare chiunque<br />

non seguisse quelle regole. Per fortuna oggi<br />

le cose sono cambiate, il compito è quello<br />

di coinvolgere il pubblico. È importante che<br />

i compositori tocchino gli spettatori. E i nuovi<br />

autori vogliono andare incontro alla gente:<br />

la musica è narrazione, non più un gioco intellettuale».<br />

E allora Yotam Haber che tipo<br />

di compositore ritiene di essere? «Ce ne sono<br />

due tipi: quelli definibili ricercatori e quelli<br />

che sono veri e propri musicisti. Sono entrambi<br />

importanti per l’evoluzione della musica<br />

contemporanea. Ma è un equilibrio molto<br />

delicato, perché alcuni di loro sono radicali. Ci sono posti<br />

in Europa e in America dove le accademie di ricerca si dedicano<br />

a trovare nuovi timbri, nuovi suoni, un nuovo vocabolario,<br />

ma niente di ciò che fanno è musica. In altri luoghi<br />

ci sono posti in cui i compositori non si interessano di chi li<br />

ha preceduti e creano musica in base a ciò che sentono di dover<br />

dire, senza che importi loro di ciò che è successo prima.<br />

Queste due estremità sono l’apice dell’Ego, poiché in tutti e<br />

due i casi il compositore pensa solo a sé, creando solo per sé,<br />

stando fuori dalla storia, senza pensare<br />

al pubblico, ai musicisti che devono<br />

suonare. L’avanguardia mi<br />

sembra proprio abbia pensato<br />

a una musica scritta per<br />

nessun altro che per se stessa;<br />

invece io scrivo per me<br />

ma anche per chi deve suonare:<br />

se il musicista non capisce<br />

ciò che ho scritto non<br />

c’è possibilità che il pubblico<br />

possa capire me. Lo so che<br />

nei posti accademici estremi<br />

l’idea di creare qualcosa per<br />

un pubblico è quasi un’idea<br />

eretica, ma io non sono d’accordo.<br />

Anche io cerco un vocabolario<br />

nuovo ma la mia responsabilità<br />

di compositore<br />

è che chi suona,<br />

come chi ascolta,<br />

mi capisca». ◼<br />

focus on 29


30<br />

opera<br />

«L’occasione<br />

fa il ladro» di Rossini<br />

secondo Betta Brusa<br />

a cura di Arianna Silvestrini<br />

Venerdì 12 ottobre al Teatro Malibran<br />

andrà in scena L’occasione fa il ladro di Gioacchino<br />

Rossini, opera scritta per <strong>Venezia</strong>, di cui si celebra<br />

quest’anno il bicentenario. Abbiamo incontrato<br />

Betta Brusa, che firma la regia della nuova messinscena.<br />

Quali sono le novità dell’allestimento e qual è la poetica<br />

dell’opera?<br />

Non si tratta di una semplice messinscena, ma di un progetto<br />

più ampio che cerca di mettere insieme molte componenti<br />

e che risponde a una proposta molto intelligente<br />

del sovrintendente Chiarot. Nel 2012 assistiamo<br />

a grandi cambiamenti in tutti i settori,<br />

compreso quello della lirica. Occorre quindi porsi<br />

delle domande. Mi sono chiesta quali siano le<br />

ragioni per cui autori dell’Ottocento come Rossini<br />

resistano ai grandi cambiamenti e quali siano<br />

i motivi per cui le loro opere ancora ci commuovono.<br />

La proposta di Chiarot mira all’invenzione<br />

e alla costruzione del futuro del teatro grazie<br />

al patrimonio operistico, a partire dalla constatazione<br />

che la lirica è il frutto dell’insegnamento<br />

tra maestro e allievo. Questo progetto si<br />

compone di diversi elementi, prima di tutto della<br />

collaborazione degli studenti dell’Accademia<br />

di Belle Arti, in particolare di venti studenti molto<br />

motivati e attenti; la mia assistente alla regia<br />

per quest’opera è una studentessa di Ca’ Foscari.<br />

Il secondo elemento del progetto è il materiale<br />

stesso dell’opera di Rossini. Le sue farse sono veri<br />

gioielli teatrali, voli dello spirito di grande raffinatezza e aristocraticità<br />

che non sfociano mai nella comicità e che mirano<br />

al sorriso più che al riso.<br />

L’allestimento sarà articolato in un percorso che comincia<br />

già all’esterno del teatro, proprio perché ogni luogo ha<br />

una sua ragion d’essere. Nella piazzetta di ingresso<br />

del Malibran il pubblico verrà accolto<br />

da una scritta luminosa di Giovan-<br />

ni Querini: «I libri sono un furto fatto<br />

alla legge del tempo». Il nostro furto<br />

sta nel ricorrere a questa partitura<br />

aristocratica che rubiamo al tempo<br />

e restituiamo a <strong>Venezia</strong>, città dalla<br />

quale, ai tempi di Rossini, la cultura<br />

si diffondeva in tutta Europa,<br />

anche per via delle numerosissime<br />

tipografie che c’erano allora. L’allestimento<br />

è un omaggio a <strong>Venezia</strong>,<br />

alla scrittura, alla biblioteca, ai libri<br />

e alla carta come strumento di tradizione,<br />

«furto» e trasmissione di<br />

un passato. All’entrata, nel foyer, si<br />

troveranno dei librettini, che il pubblico<br />

potrà «rubare» liberamente,<br />

che raccolgono tutti i progetti inviati<br />

dagli studenti in risposta all’intento di<br />

costituire una «bottega artigianale»<br />

di integrazione tra formazione e realizzazione<br />

scenico-musicale, come pro-<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Teatro Malibran<br />

L’occasione fa il ladro<br />

di Gioacchino Rossini<br />

burletta per musica in un atto<br />

libretto<br />

Luigi Prividali<br />

maestro concertatore e direttore<br />

Matteo Beltrami<br />

regia<br />

Betta Brusa<br />

scene e costumi<br />

Laboratorio Accademia<br />

di Belle Arti di <strong>Venezia</strong><br />

Orchestra del Teatro La Fenice<br />

Orchestra del Conservatorio<br />

Benedetto Marcello di <strong>Venezia</strong><br />

posto da Chiarot. L’allestimento del foyer e dell’ingresso in<br />

sala è fatto con carte assorbenti, tutte le scene e i costumi saranno<br />

realizzati con la carta. La storia così esce dal libro della<br />

partitura: giunti gli spettatori in sala le figure prenderanno<br />

vita, i cantanti stessi si libereranno dalla pagina per entrare<br />

in scena, mentre sul palco, sullo sfondo, ci sarà la proiezione<br />

di una lettera di Rossini indirizzata alla madre. Una delle<br />

componenti di questo progetto è infatti anche il rapporto<br />

del figlio con la madre e l’insicurezza del primo Rossini.<br />

Ho cercato di insegnare ai ragazzi a non limitarsi alla costruzione<br />

dell’allestimento, ma di progettare una proposta<br />

più elevata, che coinvolga molti aspetti e in cui nulla è casuale.<br />

Trovo che nella nostra epoca ci sia un grande bisogno di<br />

fare rete, e forse questa può essere proprio la cifra di questo<br />

periodo storico così ricco di stimoli. La lirica può tornare a<br />

essere un punto di riferimento per le proposte culturali, perché<br />

la lirica da sempre è una costruzione e un lavoro che esige<br />

di sviluppare una rete.<br />

In questo senso l’opera può avvalersi delle nuove<br />

tecnologie?<br />

Non ne faremo più a meno, ma la vera rivoluzione<br />

sta nel nostro modo di pensare, non negli<br />

oggetti e nella tecnologia in sé, altrimenti saremo<br />

solo un’epoca di passaggio. La grande tragedia<br />

del nostro tempo consiste nel<br />

fatto che non si scrivono più opere<br />

contemporanee; invece è necessario<br />

salvaguardare la tradizione<br />

e commissionare nuovi lavori<br />

che aprano strade, poiché l’elemento<br />

fondamentale rimane<br />

il teatro e non la comunicazione<br />

o l’applicazione delle<br />

nuove tecnologie. Trovo che<br />

il teatro possa dare forma<br />

all’invisibile. Nella nostra<br />

rappresentazione non ci<br />

sarà niente di naturalistico<br />

né di realistico, nemmeno<br />

nella gestualità e<br />

nella recitazione. Troveremo<br />

un modo per<br />

unificare tutti questi<br />

elementi. ◼<br />

12, 16, 18 ottobre, ore 19.00<br />

14, 20 ottobre, ore 15.30 Bozzetti di Betta Brusa.


Alle Sale Apollinee<br />

un omaggio<br />

a Gino Gorini<br />

di Mario Messinis<br />

Gino Gorini, 1914-1991, era un grande pianista<br />

e un compositore ingiustamente misconosciuto.<br />

<strong>Venezia</strong>no, era stato allievo di Gino Tagliapietra,<br />

a sua volta allievo di Ferruccio Busoni, entrambi<br />

espressione di un gigantismo pianistico tardoromantico.<br />

Gorini non aveva molto a che vedere con questi maestri e<br />

predecessori. Era un artista neoclassico, legato per formazio-<br />

4. 5.<br />

3.<br />

ne a Gianfrancesco Malipiero, con cui studiò, poco piu che<br />

ventenne, alla fine degli anni trenta, al Conservatorio Benedetto<br />

Marcello e di cui eseguì l’intera opera pianistica. Dal<br />

compositore veneziano aveva appreso, nel rispetto dei testi,<br />

a contestare l’esibizionismo degli interpreti. Tutta la produzione<br />

strumentale del Novecento gli era famigliare, convinto<br />

che anche i classici dovevano essere riletti nel segno del-<br />

1. Gino Gorini e Sergio Lorenzi;<br />

2. Gianfrancesco Malipiero;<br />

3. Dmitri Sostakovic;<br />

4. Jakub Tchorzewski;<br />

5. Béla Bartók.<br />

2.<br />

la modernità. L’eccezionale allargamento dei repertori toccò<br />

anche l’intera produzione per due pianoforti e per pianoforte<br />

a quattro mani con la collaborazione prima di Sergio Lorenzi<br />

e poi di Eugenio Bagnoli.<br />

Si dedicò soprattutto tra gli Anni trenta e quaranta alla<br />

composizione. Questa attività è stata riscoperta e valorizzata<br />

da Giovanni Morelli quando il figlio del maestro, Claudio,<br />

donò alla Fondazione Cini il Fondo Gorini. Il grande studioso<br />

aveva già presentato alla Fondazione la Sonata per violino<br />

solo del 1947, scritta a ridosso della Sonata per violino<br />

solo di Bartók, e non meno ardita nella scrittura strumentale.<br />

Uno splendido concerto monografico di indediti e pagine<br />

rare, nel ventennale della morte appena trascorso, si è ascoltato<br />

lo scorso 25 luglio alle Sale Apollinee, nell’ambito del<br />

Festival estivo dedicato dalla Fenice alla Civilta Marciana.<br />

La giovanile Sonata per violoncello e pianoforte del 1938 e<br />

1.<br />

ancora legata all’apprendistato con Malipiero, ma solo qualche<br />

anno dopo Gorini rivela una conoscenza del dibattito<br />

culturale europeo, di Sostakovic e soprattutto di Bartók, dimostrando<br />

qualche affinità con il pensiero del primo Maderna,<br />

del quale era fraterno amico. La Sonata per viola e pianoforte<br />

del 1944 è tra le piu notevoli pagine cameristiche italiane<br />

del tempo: meriterebbe di circolare, al pari del contemporaneo<br />

Quintetto per pianoforte e archi, forse non meno interessante<br />

del celebre Quintetto di Sostakovic.<br />

Esecuzione impeccabile, guidata dal penetrante pianista<br />

polacco Jakub Tchorzewski, affiancato da un giovane e solido<br />

quartetto d’archi statunitense. ◼<br />

concerti<br />

31


32<br />

concerti<br />

Una performance<br />

in Piazza per chiudere<br />

il Prefestival<br />

La Fenice fa un bilancio<br />

della nuova manifestazione estiva<br />

di Leonardo Mello<br />

Con Cento Squilli, l’installazione-performance<br />

realizzata in piazza San Marco il 3 agosto, si è<br />

concluso il Prefestival «Lo spirito della musica di<br />

<strong>Venezia</strong>», ideato e organizzato dalla Fenice con<br />

la prospettiva di continuare e ingrandire l’iniziativa nei prossimi<br />

anni (cfr. vmed n. 47, p. 17). A partire da questo evento,<br />

Cristiano Chiarot e Fortunato Ortombina, rispettivamente<br />

sovrintendente e direttore artistico del Teatro, fanno un bilancio<br />

della manifestazione. «Con Cento Squilli – afferma il<br />

primo – abbiamo voluto sperimentare un altro modo di utilizzare<br />

la piazza, meno invasivo rispetto ai concerti del passato.<br />

Abbiamo considerato questo straordinario palcoscenico<br />

naturale dal punto di vista scenografico, immaginando<br />

la performance proprio in funzione di quello spazio». «Si<br />

è trattato di una sorta di installazione musicale – aggiunge<br />

Ortombina – durante la quale una cinquantina di ottoni<br />

hanno suonato in vari angoli della piazza, eseguendo musiche<br />

dei Gabrieli, che hanno reso la spazializzazione del suono<br />

un elemento imprescindibile, cui tutti i compositori moderni<br />

e contemporanei ricorrono. L’anima di questi cinquanta<br />

strumentisti sono gli ottoni della Fenice, che si stanno dedicando<br />

al recupero della musica della scuola marciana, non<br />

so perché rarissimamente eseguita in città, mentre a ogni angolo<br />

si sente suonare Vivaldi». Ideale conclusione dunque<br />

di un’iniziativa che ha visto il costituirsi di un’inedita collaborazione<br />

tra molti diversi enti cittadini, Cento Squilli – oltre<br />

alle musiche di Andrea e Giovanni Gabrieli – ha proposto<br />

anche la fanfara dell’Otello verdiano, «che ha un valore<br />

simbolico e di continuità nel tempo – continua il direttore<br />

artistico – perché proprio<br />

quell’opera sarà allestita<br />

l’anno prossimo a Palazzo<br />

Ducale. Per la giornata<br />

conclusiva del prossimo<br />

festival torneremo comunque<br />

a “prendere in prestito”<br />

la piazza, ma in un contesto<br />

diverso: la Fenice commissionerà<br />

un brano a un compositore<br />

contemporaneo,<br />

cui verrà chiesto di pensare<br />

il pezzo proprio per quello<br />

spazio, in un momento<br />

che dunque sarà unico e<br />

irripetibile».<br />

Passando a considerazioni<br />

più generali, il sovrintendente<br />

non nasconde la<br />

soddisfazione per il successo<br />

del Prefestival: «Abbiamo<br />

collaborato con diverse<br />

istituzioni, dalla basilica<br />

dei Frari alla Fondazione<br />

Cini, per fare solo i primi<br />

due nomi che mi vengono<br />

in mente. In questo periodo,<br />

funestato dalla crisi,<br />

è quasi obbligatorio fare<br />

squadra, costituire una<br />

rete con le moltissime associazioni<br />

che operano nel<br />

nostro territorio. Solo così<br />

sarà possibile sconfiggere<br />

le difficoltà e immaginare<br />

i festival dei prossimi anni.<br />

Ma già fin d’ora abbiamo<br />

voluto portare il nostro<br />

enorme patrimonio musicale<br />

in posti dove solitamente<br />

non è facile ascoltar-<br />

Sopra: l’omaggio<br />

a Sara Mingardo.<br />

In basso: un momento<br />

di Fenix.


lo, in linea, del resto, con la tradizione musicale veneziana,<br />

che storicamente nasce nei palazzi e nelle chiese. Quest’anno<br />

abbiamo raggiunto Burano e Mestre, in futuro dovremo<br />

coinvolgere ancora di più le isole, portando concerti a Pellestrina,<br />

a Sant’Erasmo, al Lido, senza dimenticare, ovviamente,<br />

l’importanza della città di terraferma, dove certamente<br />

torneremo. Tra i molti appuntamenti ricordo, per esempio,<br />

il Gala internazionale delle Accademie di danza, in cui nella<br />

cornice magica del Cortile di Palazzo Ducale protagonisti<br />

sono stati danzatori e coreografi giovanissimi, oppure le<br />

serate dedicate a grandi vocaliste come Sara Mingardo, all’apice<br />

della sua carriera, e Jessica Pratt, il cui repertorio abbiamo<br />

contribuito anche a noi a scoprire e valorizzare. E ancora<br />

vorrei ricordare i concerti dei vincitori del Premio <strong>Venezia</strong>,<br />

oppure gli altrettanto giovani e straordinari interpreti<br />

delle musiche di Gino Gorini. Insomma, pur essendo partiti<br />

con un certo ritardo siamo molto soddisfatti del risultato<br />

complessivo, anche sul versante della ricerca e della sperimentazione,<br />

come dimostra Fenix, il progetto multimediale<br />

di danza contemporanea che – grazie alla collaborazione con<br />

la Fondazione Bevilacqua La Masa – ha visto lavorare insie-<br />

Due eventi nel cortile di Palazzo Ducale: in alto a destra, l’Opera<br />

Gala; a sinistra il Gala internazionale delle Accademie di danza.<br />

A destra: Cento Squilli in piazza San Marco (tutte le foto sono di<br />

Michele Crosera).<br />

me un coreografo come Foofwa d’Imobilité e un artista concettuale<br />

come Stefano Arienti». Qualche valutazione merita<br />

anche il tipo di spettatori che questo Prefestival ha saputo<br />

raccogliere: «Abbiamo avuto un pubblico abbastanza diverso<br />

da quello delle nostre prime, composto solitamente da<br />

persone che provengono da tutto il mondo e che si muovono<br />

in funzione della singola opera, prenotando con grande anticipo<br />

il viaggio e l’albergo. Tra luglio e agosto invece, oltre ai<br />

tanti veneziani, anche molti turisti che si trovavano per caso<br />

a <strong>Venezia</strong> sono stati “catturati” dalla nostra variegata serie<br />

di offerte, dimostrando che pure in un periodo come quello<br />

estivo è possibile presentare proposte culturali di qualità».<br />

E per quanto riguarda il festival 2013? «L’anno prossimo<br />

– prosegue il sovrintendente – sarà presente anche l’opera, a<br />

cominciare dall’Otello a Palazzo Ducale, cui accennava poco<br />

prima il maestro Ortombina. Ma grande attenzione sarà rivolta<br />

al panorama contemporaneo, che, per motivi organizzativi,<br />

è stato un po’ sacrificato nel Prefestival. E vi sarà inoltre<br />

una riflessione ancora più articolata sul repertorio marciano.<br />

Cercheremo di intercettare un turismo colto e curioso,<br />

offrendogli la garanzia della qualità. Già con questa prima<br />

edizione, che pur è stata ridotta e ha avuto la funzione di<br />

un prologo, la Fenice ha sperimentato nuove possibilità di<br />

lavoro, affiancando quest’attività a quella normale per il nostro<br />

Teatro, che consiste nelle produzioni. E l’esito è stato decisamente<br />

confortante». ◼<br />

concerti<br />

33


34<br />

concerti<br />

Al Festival<br />

Monteverdi-Vivaldi<br />

due «stromenti<br />

venetiani» dimenticati<br />

di Alberto Castelli<br />

La convergenza tra i cartelloni del Festival<br />

Monteverdi-Vivaldi 2012 e del Pre-<br />

festival «Lo spirito della musica di<br />

<strong>Venezia</strong>» (cfr. vmed n. 47, p. 17 e pp.<br />

32-33 di questo numero) – convergenza nata<br />

da una sinergia di eccellenza, quella tra il Venetian<br />

Centre for Baroque Music e il Teatro<br />

La Fenice – torna a far risuonare la musica barocca<br />

veneziana alle Sale Apollinee del Gran<br />

Teatro veneziano.<br />

Dopo il successo del doppio appuntamento<br />

– 20 e 21 luglio appena trascorsi – dedicato<br />

alla Canzone da Battello e alla barcarola tra<br />

Sette e Novecento, con i concerti di inizio settembre<br />

il centro dell’attenzione si sposterà sul versante strumentale,<br />

con un’indagine a tutto tondo intorno a due stru-<br />

menti-principe nella <strong>Venezia</strong> tra Sei e Settecento, il cornetto<br />

e il violoncello, la cui fortuna fu successivamente oscurata<br />

dallo straripante successo della pratica e della letteratura<br />

violinistica.<br />

Il primo appuntamento sarà quello di lunedì 3 settembre<br />

alle 21.00, che vedrà il violoncellista Francesco Galligioni<br />

(già applaudito interprete, assieme all’ensemble L’Estravagante,<br />

del concerto svoltosi in Punta della Dogana lo scorso<br />

1 luglio), accompagnato dal violone di Paolo Zuccheri e<br />

dal clavicembalo di Roberto Loreggian, interpretare alcune<br />

tra le più belle sonate per violoncello e basso continuo di Antonio<br />

Vivaldi (da segnalare il cameo cembalistico di Loreggian,<br />

che la stessa sera proporrà il vivaldiano concerto op. 3<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Sale Apollinee<br />

del Teatro La Fenice<br />

3 settemre, ore 21.00<br />

6 settembre, ore 21.00<br />

12 settembre, ore 18.00<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Palazzo Pisani Moretta<br />

5 settembre, ore 21.00<br />

n. 3 nella versione per tastiera che ne fece Johann Sebastian<br />

Bach).<br />

Il concerto di giovedì 6 settembre, sempre alle 21.00, darà<br />

invece la possibilità al pubblico del Festival Monteverdi-<br />

Vivaldi di ascoltare Jean Tubery (sempre con Loreggian al<br />

continuo), considerato oggi il più grande virtuoso di cornetto<br />

al mondo. Il programma, dal suggestivo titolo «Il cornetto<br />

della Serenissima: uno “stromento veneziano” dimenticato»,<br />

riunirà in un’ampia antologia Canzoni, Sonate, Balli,<br />

Madrigali e Mottetti diminuiti di Girolamo Della Casa,<br />

Andrea e Giovanni Gabrieli, Giovanni Bassano, Giovanni<br />

Battista Riccio, Giovanni Battista Fontana, Giovanni Picchi<br />

e Biagio Marini. L’ascolto non sarà pura-<br />

mente musicale: per l’occasione, infatti, Tubery<br />

illustrerà ai presenti in sala le caratteristiche<br />

principali di uno strumento e di un repertorio<br />

che – perlomeno fino alla grande peste<br />

del 1630 – ebbero a <strong>Venezia</strong> un ruolo di primissimo<br />

piano.<br />

L’incontro di mercoledì 12 settembre, previsto<br />

per le 18.00, completerà il mini-cartellone<br />

barocco alla Fenice con l’incontro con Claudio<br />

Cavina, uno tra i più affermati specialisti<br />

della musica di Monteverdi e Cavalli che condividerà<br />

con il pubblico la propria esperienza<br />

di interprete del repertorio barocco veneziano.<br />

A margine degli appuntamenti strumentali alle Sale Apol-<br />

linee va ricordato il concerto di mercoledì 5 settembre alle<br />

21.00 a Palazzo Pisani Moretta con uno tra i giovani direttori<br />

emergenti per il repertorio barocco, Leonardo García-<br />

Alacórn (già sul podio della Fenice lo scorso autunno per<br />

Acis e Galatea di Händel), che accompagnerà il soprano Mariana<br />

Flores in una selezione di arie di Frescobaldi, Barbara<br />

Strozzi, Cavalli e Händel. (Info: www.vcbm.it; e-mail: contact@vcbm.it;<br />

tel. 041 5227325. Biglietti: concerti €10-20;<br />

incontro del 12/9 a ingresso gratuito). ◼<br />

A sinistra:Leonardo García-Alacórn.<br />

Al centro: Jean Tubery.<br />

A destra: Francesco Galligioni.


Ancora concerti<br />

per il Venetian Centre<br />

for Baroque Music<br />

sono i teatri di musica a dar principio<br />

con una pompa e splendore incredibile,<br />

«Primi<br />

punto non inferiore a quanto si pratica in diversi<br />

luoghi dalla magnificenza<br />

de’ principi, con questo solo divario che,<br />

dove questi lo fanno godere con generosità,<br />

in <strong>Venezia</strong> è fatto negozio […]».<br />

Le Memorie teatrali di <strong>Venezia</strong> di Cristoforo<br />

Ivanovich costituiscono una testimonianza<br />

preziosa della vita teatrale della città lagunare.<br />

All’altezza del 1681, anno in cui il canonico<br />

dalmata di San Marco dedicò l’opera<br />

ai fratelli Grimani, Claudio Monteverdi era<br />

scomparso da trentotto anni, Francesco Cavalli<br />

da un lustro, Antonio Sartorio da appena<br />

pochi mesi; ma il sistema-opera che ciascuno,<br />

pur a titolo diverso, aveva contribuito<br />

a istituire e alimentare – a partire dal fatidico<br />

Carnevale del 1637, che, con l’allestimento<br />

dell’Andromeda di Manelli e Ferrari al Teatro di San<br />

Cassiano, aveva segnato la nascita dell’opera in musica come<br />

impresa – godeva di ottima<br />

salute.<br />

Al vivido affresco del<br />

«trascorso istorico»<br />

dell’Ivanovich, il Festival<br />

Monteverdià-Vivaldi 2012<br />

«I Furori della gioventù»<br />

(cfr. p. 34) fornirà una puntuale<br />

corrispondenza musicale<br />

con gli ultimi tre concerti<br />

in cartellone, dedicati<br />

all’opera veneziana.<br />

A partire da venerdì 14<br />

settembre alla Punta della<br />

Dogana (ore 21.00), quando<br />

Les Musiciens du Paradis<br />

riporteranno alla luce<br />

In alto: l’Ensemble Scherzi Musicali<br />

(foto di Philip Van Ottegem).<br />

Sopra: l’Ensemble Gene Barocco.<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Punta della Dogana<br />

14 settembre, ore 21.00<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Sala degli specchi<br />

di Ca’ Zenobio<br />

15 settembre, ore 21.00<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Ca’ Zen<br />

16 settembre, ore 21.00<br />

alcune tra le più belle scene tratte da due Orfeo: la celebre<br />

partitura di Monteverdi del 1607 e quella assai meno praticata<br />

di Sartorio, tenuta a battesimo il 14 dicembre 1672 al<br />

Teatro San Salvatore a <strong>Venezia</strong>, che al perfetto equilibrio tra<br />

dramma e musica (sulla linea Monteverdi-Cavalli) somma<br />

una scrittura vocale che anticipa in larga misura lo stile virtuosistico<br />

dell’opera del Settecento. Il concerto è realizzato<br />

in collaborazione con la Fondazione François Pinault e<br />

con il Festival Les Promenades Musicales (Calvados – Basse<br />

Normandie).<br />

Sabato 15 settembre alle 21.00, la straordinaria cornice della<br />

Sala degli specchi di Ca’ Zenobio ospiterà<br />

il ritorno a <strong>Venezia</strong> (patrocinato dal Muziektheater<br />

Transparant di Anversa) dei gio-<br />

vani musicisti dell’Ensemble Scherzi Musicali,<br />

compagine che proprio al Collegio Armeno<br />

aveva inaugurato le attività del Venetian<br />

Centre for Baroque Music lo scorso anno.<br />

All’Ensemble belga diretto dall’eclettico<br />

Nicolas Achten (clavicembalista, tiorbista,<br />

liutista, arpista baritono e direttore, nato<br />

a Bruxelles nel 1985) il Festival Monteverdi-Vivaldi<br />

ha affidato il compito di ridare voce<br />

ai personaggi di alcune tra le più importanti<br />

opere di Cavalli: Didone (1641), Giasone<br />

(1649) e Calisto (1652), esempi insuperati<br />

del genio veneziano espresso nel neonato genere<br />

dell’opera «pubblica».<br />

Per il concerto finale di domenica 16 settembre, ospita-<br />

to, sempre alle 21.00,<br />

al piano nobile di Ca’<br />

Zen, il festival guarderà<br />

invece alle conseguenze<br />

settecentesche<br />

dell’opera di Monteverdi<br />

e Cavalli, dando<br />

carta bianca a Giuseppina<br />

Bridelli, vincitrice<br />

del primo premio al vi<br />

Concorso di Canto barocco<br />

di Vicenza. Insieme<br />

ai musicisti del Gene<br />

Barocco, già applauditi<br />

interpreti del concerto<br />

dello scorso 6 luglio<br />

a Palazzo Zorzi, il<br />

giovane mezzosoprano italiano canterà un programma interamente<br />

dedicato a Vivaldi. (Info: www.vcbm.it; email contact@vcbm.it;<br />

tel. 041 5227325. Biglietti: €10-20). (a.c.) ◼<br />

concerti<br />

35


36<br />

concerti<br />

Ad Aldo Ciccolini<br />

il Premio<br />

«Rubinstein» 2012<br />

di Vitale Fano<br />

Il prestigioso Premio «Una vita nella musica»,<br />

ideato dall’Associazione «Arthur Rubinstein presieduta<br />

da Bruno Tosi (cfr. pagina a fronte), giunge<br />

quest’anno alla sua trentaquattresima edizione, e sarà<br />

consegnato il 17 settembre, nella Sala Grande del Teatro La<br />

Fenice, al pianista italo-francese Aldo Ciccolini.<br />

Napoletano di nascita, attivo nelle sale da concerto di tutto<br />

il mondo fin dal 1941, anno in cui debutta sedicenne<br />

al San Carlo di Napoli, Ciccolini lascia l’Italia<br />

nel 1971 e si stabilisce a Parigi, diventando in seguito<br />

cittadino francese. È uno dei più grandi pianisti del<br />

Novecento e continua tutt’oggi la sua intensa attività<br />

concertistica, mostrando in ogni esibizione una profondità<br />

interpretativa e una sapienza musicale di straordinaria<br />

levatura.<br />

Nel corso di sette decenni di carriera, ha inciso più<br />

di cento dischi, consegnando alla storia della musica<br />

interpretazioni di grande nobiltà ed eleganza; basti<br />

ricordare le integrali pianistiche di Debussy, Ravel,<br />

Satie, delle sonate di Mozart e di Beethoven, i cicli<br />

completi delle Harmonies poétiques et réligieuses di<br />

Liszt, dei Concerti di Saint-Saëns o Iberia di Albeniz.<br />

La sua produzione discografica rivela il grande amore<br />

per la musica francese, ma c’è anche in lui l’interesse<br />

per autori meno frequentati (Alexis de Castillon, fra<br />

gli altri) e l’attenzione particolare nei confronti della<br />

musica italiana, così trascurata dai nostri connazionali<br />

da fargli maturare la convinzione che gli italiani<br />

siano i peggiori nemici della loro cultura. Ciccolini<br />

ha inciso quattro cd di musica pianistica di Mario<br />

Castelnuovo-Tedesco, il Concerto per pianoforte<br />

e orchestra di Ildebrando Pizzetti, la musica da camera<br />

di Achille Longo e il Quintetto di Guido Alberto<br />

Fano (eseguito anche al Teatro Goldoni di <strong>Venezia</strong><br />

nel 1997 in favore della ricostruzione del Teatro<br />

La Fenice).<br />

Dal 1972 ha insegnato per diciott’anni al Conservatorio<br />

di Parigi, e continua tutt’oggi a dedicarsi a giovani<br />

pianisti di talento che guida nel perfezionamento<br />

e nella ricerca della loro personalità artistica.<br />

Come interprete, sorprendono la fedeltà al testo, la<br />

nitidezza e la precisione che sembrano rifarsi all’insegnamento<br />

di Arturo Benedetti Michelangeli, pietra<br />

miliare del suo cammino artistico. «L’osservanza del<br />

testo non limita l’immaginazione. Anzi, più si rispetta<br />

il testo, più si è liberi. Sembra un paradosso ma è così»,<br />

afferma il pianista nel volumetto Roberto Piana<br />

incontra Aldo Ciccolini (Editoriale Documenta, Cargeghe,<br />

Sassari, 2010), da cui sono tratti i virgolettati che seguono.<br />

Per il pubblico veneziano, Ciccolini ha distillato dal suo<br />

vasto repertorio alcuni brani significativi di alcuni fra gli autori<br />

più amati: Mozart, Clementi, Debussy e Castelnuovo-<br />

Tedesco, quasi a voler suggerire che il giusto ossequio per il<br />

grande repertorio non deve annullare l’interesse per la «propria»<br />

musica. Del Genio di Salisburgo, il pianista sceglie la<br />

Fantasia K475 e la Sonata K457, nate a poca distanza l’una<br />

dall’altra ed entrambe pervase dalla stessa agitazione tragica.<br />

Pensando a Mozart, Ciccolini sostiene che «anche quando è<br />

drammatico, lo è come un bimbo», perché «aveva sempre la<br />

spontaneità dell’infanzia». Dell’amato e «misterioso» Debussy<br />

(«un enigma che ci accompagna tutta la vita»), propone<br />

tre Préludes, tratti dal secondo libro.<br />

Quanto agli autori italiani, la scelta ricade emblematicamente<br />

su Muzio Clementi, padre del pianoforte (fu concertista,<br />

compositore, didatta, editore e costruttore) e capostipite<br />

dei pianisti italiani. Sono arcinote le sue composizioni<br />

didattiche, mentre di rado si ascoltano in concerto le sue Sonate;<br />

l’op. 34 n. 2 è composizione ampia e ambiziosa, forse<br />

trascrizione di un lavoro orchestrale. Ancor meno si sente in<br />

concerto la musica di Castelnuovo-Tedesco, «meraviglioso<br />

compositore completamente ignorato», costretto dalle leggi<br />

razziali a emigrare negli Stati Uniti. La suite Piedigrotta<br />

1924, intrisa di folklore e napoletanità, rielabora materiali<br />

popolari in chiave moderna e sperimentale.<br />

Ciccolini manca da <strong>Venezia</strong> dal 2002, quando eseguì al Palafenice<br />

il Quarto Concerto di Beethoven diretto da Arnold<br />

Östman. L’iniziativa di Bruno Tosi pone quindi rimedio a<br />

un lungo periodo di disattenzione della città nei confronti di<br />

un grande maestro dalla profonda cultura e dallo spirito sagace:<br />

per lui il pianoforte è «come l’aria che si respira» e Beethoven<br />

è come Dio. Nel corso di un’intervista radiofonica<br />

ebbe infatti a dichiarare: «Se Dio non assomiglia a Beethoven…<br />

non m’interessa!». ◼<br />

Aldo Ciccolini (blog.lefigaro.fr).


«Una vita nella musica»<br />

fin dal 1979<br />

di Ilaria Pellanda<br />

Si svolgerà ancora una volta in Fenice, il 17<br />

settembre alle 19.00, la nuova edizione del Premio<br />

«Arthur Rubinstein – Una vita nella musica», che<br />

quest’anno giunge a festeggiare il suo<br />

xxxiv compleanno.<br />

Bruno Tosi, presidente dell’Associazione intitolata<br />

al celebre pianista, consegnerà il premio<br />

ad Aldo Ciccolini (cfr. p. 36), uno dei rari,<br />

grandi maestri del pianoforte che, a più di<br />

ottant’anni, continua a percorrere instancabilmente<br />

le strade della carriera mondiale, fedele a tutta una<br />

vita posta sotto il segno del movimento.<br />

La cerimonia di premiazione vedrà Ciccolini salire sul palco<br />

della Fenice – che fin dal 1979 ospita l’evento nato in collaborazione<br />

proprio con il Teatro veneziano – e raggiungere<br />

il suo pianoforte per un concerto dedicato in gran parte a<br />

Mozart, Castelnuovo Tedesco e a Scarlatti.<br />

«Questa nuova edizione 2012 segna per noi un importante<br />

traguardo», sottolinea Bruno Tosi. «Non è sempre facile,<br />

infatti, riuscire a portare avanti iniziative di questo tipo,<br />

mantenendo nel susseguirsi degli anni sempre un ottimo livello.<br />

Fin dal 1979, quando il Premio vide la sua prima, folgorante<br />

luce grazie alla presenza di Arthur Rubinstein a <strong>Venezia</strong>,<br />

abbiamo avuto la fortuna di poter contare sulla piena<br />

collaborazione del Teatro La Fenice, sodalizio durato nel<br />

tempo e che ancora oggi gode di ottima salute. Ci prepariamo<br />

inoltre a festeggiare un importante anniversario: anche<br />

se i miti non muoiono mai, in questo 2012 ricorrono infatti<br />

i trent’anni dalla scomparsa di Rubinstein, al quale dedicheremo<br />

più che un pensiero durante la cerimonia tributata<br />

a Ciccolini. Rubinstein – premiato a <strong>Venezia</strong> quando aveva<br />

novantré anni – è stato uno dei massimi virtuosi della tastiera,<br />

un uomo che ha girato tutti i continenti, riscuotendo<br />

trionfi davvero incredibili, incidendo centinaia di dischi…<br />

Insomma, un uomo record».<br />

Tosi ricorda poi alcune delle personalità alle quali è stato<br />

conferito il Premio «Una vita nella musica» nell’avvicendarsi<br />

delle edizioni: «Oltre ad Arthur Rubinstein, abbia-<br />

Sopra: Bruno Tosi (a sinistra) e Aldo Ciccolini<br />

in occasione del concerto del 28 dicembre 2011<br />

al Teatro alla Pergola di Firenze.<br />

A destra: Ciccolini al pianoforte.<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Teatro La Fenice<br />

17 settembre, ore 19.00<br />

mo avuto la fortuna e l’onore di incontrare Andrés Segovia,<br />

Karl Böhm, Mstislav Leopoldovich Rostropovich, Leonard<br />

Bernstein, Isaac Stern, Renzo Piano, Luca Ronconi, Carla<br />

Fracci, Raina Kabaivanska, Carlo Bergonzi, Daniel Barenboim<br />

e, l’anno scorso, Gidon Kremer (cfr. vmed n. 43, p. 36)<br />

– solo per citarne alcuni – tutti grandissimi nomi. Inoltre,<br />

vorrei sottolineare ancora una volta che il prestigio di questa<br />

iniziativa è derivato anche e soprattutto dall’aver avuto come<br />

primo ospite un maestro del calibro di Athur Rubinstein,<br />

che diede il la al Premio da un trampolino di<br />

lancio davvero importante. Conoscevo già il<br />

Maestro, e quell’anno, il 1979 appunto, andai<br />

a Parigi per incontrarlo nuovamente. Divenni<br />

quindi buon amico anche della moglie,<br />

che accettò di diventare Presidente onorario<br />

della mia iniziativa. Rubinstein amava <strong>Venezia</strong><br />

e, come un giorno mi disse, la amava come si poteva fare<br />

con una bella donna. Suonò in laguna decine di volte. Il primo<br />

concerto, curiosamente, non lo tenne alla Fenice bensì al<br />

Conservatorio “Benedetto Marcello”, che allora, come oggi,<br />

aveva una sala molto prestigiosa». ◼<br />

concerti<br />

37


38<br />

concerti<br />

Il Festival Galuppi<br />

compie diciott’anni<br />

di Ilaria Pellanda<br />

Tutti a <strong>Venezia</strong> conoscono il Festival Galuppi<br />

– I Luoghi di Baldassare, longeva realtà musicale<br />

volta alla riscoperta e la riproposta delle opere<br />

compositive di Baldassare Galuppi, figura di notevole<br />

rilievo ai suoi tempi, poi in parte oscurata<br />

dalla fama del concittadino Antonio Vivaldi.<br />

Quest’anno, nonostante la crisi economica che<br />

tartassa anche il nostro Paese, la rassegna veneziana<br />

si prepara a compiere la maggiore età: il 9<br />

settembre – data d’inaugurazione, che si svolgerà<br />

nella Sala Concerti del Conservatorio «Benedetto<br />

Marcello» di <strong>Venezia</strong> – soffierà le candeline di diciotto<br />

anni di attività, che l’hanno vista collezionare e mettere<br />

in atto proposte da parte di studiosi di tutta Europa<br />

con l’intento di portare alla luce non solo i repertori<br />

inediti di Galuppi ma anche quelli<br />

di altri musicisti.<br />

Fin dai suoi esordi il festival ha ideato<br />

percorsi che rendessero possibile<br />

associare le musiche ai luoghi,<br />

così da proporre una <strong>Venezia</strong><br />

inedita a chi non l’aveva<br />

ancora conosciuta dal e<br />

nel vivo, e una laguna da<br />

riscoprire per coloro che,<br />

cittadini, non avevano<br />

mai trovato l’occasione<br />

di osservarla, assieme<br />

al suo complesso<br />

di isole, con sguardo<br />

diverso.<br />

«I tagli alla cultura,<br />

ahimé, sono sempre<br />

più drastici e inesorabili»<br />

– lamenta<br />

giustamente Alessio<br />

Benedettelli, presidentedell’Associazione<br />

veneziana e direttore<br />

artistico del festival<br />

– «ma anche quest’anno<br />

abbiamo avuto il coraggio<br />

di buttare il cuore oltre la<br />

barricata e realizzare un nuovo<br />

cartellone. Gli anni trascorsi<br />

ci hanno regalato moltissime<br />

soddisfazioni, sia dal punto di vista<br />

della critica che da quello dell’affluenza<br />

di pubblico ai nostri concerti, nonostante<br />

ci siamo trovati a soffrire sempre più a<br />

causa della scure dei famigerati, e già citati, tagli. Di<br />

anno in anno abbiamo sempre cercato di essere propositivi,<br />

aprendo anche delle sottosezioni del festival: alludo ad esempio<br />

alla “Linea verde”, che, in collaborazione con la Fondazione<br />

“Santa Cecilia” di Portogruaro, ha offerto ai giovani la<br />

possibilità di esibirsi su un palcoscenico privilegiato com’è<br />

quello della città di <strong>Venezia</strong>, e magari di farlo la sera successiva<br />

al concerto di un grande artista di fama internazionale;<br />

abbiamo realizzato una sezione centrata sull’opera buffa,<br />

e poi ancora quella dedicata agli Oratori, ai Fondaci, ecc.<br />

Due anni fa abbiamo dato vita a un percorso che ha cominciato<br />

a esplorare la <strong>Venezia</strong> segreta e i suoi giardini, un itinerario<br />

che ha visto il proprio battesimo a Palazzo Minelli Spada,<br />

alla Madonna dell’Orto. Quest’anno andremo a scoprire<br />

lo splendido giardino di Palazzo Franchetti, angolo verde<br />

affacciato sul Canal Grande, ai piedi del Ponte dell’Accademia,<br />

dove, il 15 settembre, ospiteremo l’Ensemble patavino<br />

di ottoni I Similoro, diretto da Vincenzo Montemitro. Realizzeremo<br />

poi una collaborazione molto importante con Palazzetto<br />

Bru Zane che vedrà l’Ensemble Musagete presentare,<br />

il 16 settembre nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice,<br />

un programma dedicato ai Quintetti di Beethoven<br />

e Magnard. Facendo qualche passo in-<br />

dietro, l’inaugurazione del 9 settembre al «Be-<br />

<strong>Venezia</strong><br />

dal 9 settembre nedetto Marcello» vedrà i Virtuosi Veneti im-<br />

al 30 ottobre pegnati in una serie di Concerti di Galuppi. La<br />

peculiarità della serata sarà quella di poter ascoltare<br />

alcuni fra coloro che, in anni diversi, sono<br />

stati allievi del Conservatorio veneziano. Quest’anno inizierà<br />

inoltre un nuovo ciclo, “Le voci sull’acqua”, che presenterà<br />

musiche corali di varia provenienza. Avremo il Coro<br />

Latomas, compagine tutta al femminile che<br />

Diana D’Alessio dirigerà ancora una volta<br />

nelle Sale Apollinee accompagnata<br />

dal Quartetto Leggio; vi sarà poi il<br />

Coro polifonico Amurianum, diretto<br />

da Franco Salvadori, che il<br />

22 settembre suonerà sull’Isola<br />

del Lazzaretto Nuovo<br />

“Il Teson Grande” per<br />

un concerto che, così come<br />

quello che si svolgerà<br />

a Palazzo Franchetti,<br />

sarà totalmente gratuito.<br />

E anche per quanto<br />

concerne l’evento<br />

inaugurale del 9, ai veneziani<br />

verrà data la<br />

possibilità di accedere<br />

in sala senza pagare.<br />

Sempre nell’ambito<br />

del progetto “Le<br />

voci sull’acqua”, l’ultimo<br />

coro in cartellone<br />

sarà quello dei Cantori<br />

<strong>Venezia</strong>ni, il 13 ottobre,<br />

che la D’Alessio<br />

dirigerà nel Salmo xxxvi<br />

di Benedetto Marcello. Sarà<br />

inoltre presente al festival<br />

l’Ensemble vocale De’ Caracci,<br />

che, diretto da Paolo Faldi<br />

alla Scuola Grande di San Rocco<br />

il 29 settembre, presenterà in prima<br />

mondiale un inedito di Galuppi: si<br />

tratta della Passione Secondo San Giovanni,<br />

alla quale seguirà lo Stabat Mater di Scarlatti.<br />

Il 30 settembre, nuovamente nelle Sale Apollinee,<br />

ospiteremo un’orchestra tutta formata da bambini: si<br />

tratta dei piccoli allievi del Conservatorio “Cesare Pollini”<br />

di Padova, detti i “Pollicini”, che presenteranno musiche di<br />

Brahms e Bizet; e il 3 ottobre si potranno ascoltare il violino<br />

di Dora Bratchkova e il pianoforte di Aldo Orvieto, i Russian<br />

Masters, in un concerto che avrà in programma musiche<br />

di Shostakovich, Stravinsky e Prokofiev». ◼<br />

Baldassare Galuppi tra il 1770 e il 1780.


Un nuovo autunno<br />

in musica<br />

per Palazzetto Bru Zane<br />

di Andrea Oddone Martin<br />

In tutte le epoche, parte della cultura non corrisponde<br />

allo spirito del proprio tempo ma, in un accesso<br />

nostalgico, sceglie e idealizza un<br />

passato rievocando eden sociali e<br />

miti originari. Invero particolari periodi<br />

della storia sono stati determinati da tale<br />

atteggiamento, dal quale si sono potuti<br />

ricavare i principali percorsi di pensiero.<br />

Ad esempio il Neoclassicismo, ma ugualmente<br />

l’attenzione che il Romanticismo dedica all’antichità<br />

ne sono un esempio manifesto. Il primo festival della stagione<br />

2012-2013 di Palazzetto Bru Zane, organizzato dal<br />

Centro della Musica Romantica Francese e intitolato «Antichità,<br />

Mitologia e Romanticismo», riprende questa tematica<br />

all’interno del<br />

repertorio particolarmentesconosciuto<br />

del romanticismo<br />

musicale<br />

francese, delineando<br />

una serie di interessantiproposte,<br />

tra settembre<br />

e novembre, che si<br />

terranno a <strong>Venezia</strong><br />

e nel mondo.<br />

«Uno dei concerti<br />

che riteniamo<br />

più importanti»,<br />

afferma Florence<br />

Alibert, direttore<br />

generale del<br />

Centro veneziano,<br />

«è l’Atys di Niccolò<br />

Piccinni. Sarà<br />

in prima esecuzione<br />

il 23 settembre<br />

alle 17.00 alla<br />

Scuola Grande San<br />

Giovanni Evangelista<br />

di <strong>Venezia</strong><br />

e il giorno dopo al<br />

Théâtre des Bouffes<br />

du Nord di Parigi. Il capolavoro di Piccinni sarà proposto<br />

in una forma tipica per le esecuzioni ottocentesche, e cioè in<br />

riduzione per strumentisti e alcuni cantanti, quasi una versione<br />

cameristica. Un altro concerto importante è quello<br />

che si svolgerà il 22 settembre alle 20.00, sempre nella Scuola<br />

Grande di San Giovanni Evangelista, che vedrà la mezzosoprano<br />

Jennifer Borghi, oramai una nostra affezionata, affronatare<br />

un repertorio di arie di vari autori romantici dedicate<br />

alle figure tradizionali dell’antichità; da segnalare, la prima<br />

esecuzione moderna di Phèdre, scritta da Jean-Baptiste<br />

Lemoyne. Tra i vari artisti che collaborano costantemente<br />

con noi, anche il giovane pianista Wilhelm Latchoumia, che<br />

il 13 ottobre alle 20.00, questa volta al Palazzetto Bru Zane,<br />

Un concerto a Palazzetto Bru Zane (foto di Michele Crosera).<br />

<strong>Venezia</strong><br />

dal 6 settembre all’11 dicembre<br />

(per informazioni: www.bru-zane.com)<br />

eseguirà una serie di trascrizioni di Richard Wagner realizzate<br />

da compositori dell’Ottocento, dando così inizio alle<br />

celebrazioni in onore del compositore tedesco programmate<br />

durante la stagione. Assolutamente inedito sarà il ciclo di<br />

conferenze che si svolgeranno durante questa nuova stagione,<br />

e la prima, condotta da Carlo Montanaro il 20 novembre<br />

alle 18.00 a Palazzetto, sarà dedicata alla riproduzione musicale<br />

nell’Ottocento e analizzerà i metodi di diffusione della<br />

musica dell’epoca attraverso mezzi meccanici, prima dell’avvento<br />

del fonografo. Adriana Guarnieri, l’11 dicembre alle<br />

18.00 sempre al Bru Zane, tratterà gli argomenti della conferenza<br />

successiva, intitolata a «Berlioz e<br />

Liszt come critici musicali». È nostro in-<br />

tento, attraverso questo ciclo di incontri,<br />

non fermarsi a considerare esclusivamente<br />

il prodotto musicale romantico ma comprendere<br />

anche le qualità della contemporaneità<br />

ottocentesca nei suoi aspetti collaterali.<br />

Questi saranno i primi due appuntamenti del cartellone<br />

autunnale. Daremo il la anche a un programma pedagogico,<br />

che coinvolgerà le scuole elementari della città per dare<br />

ai più giovani la possibilità di assistere alle prove dei concerti.<br />

I programmi delle esecuzioni saranno quelli più adatti a<br />

un pubblico infantile, che avvicineremo maggiormente alla<br />

musica attraverso alcuni laboratori introduttivi».<br />

Oltre che alla realizzazione dei festival concertistici, il vostro<br />

Centro è impegnato nell’ambito della ricerca e dell’editoria.<br />

Sono previste delle novità in questo settore?<br />

Ci sono delle novità dal punto di vista internazionale, nel<br />

senso che cercheremo di far conoscere anche all’estero, attraverso<br />

l’organizzazione di alcuni festival, la diffusione del lavoro<br />

scientifico che svolgiamo a <strong>Venezia</strong>. Il primo evento si<br />

svolgerà a Parigi nel giugno 2013: l’idea che lo anima è appunto<br />

quella di creare un ponte con l’attività veneziana. Dopo<br />

l’esperienza parigina, abbiamo in animo di sviluppare<br />

questo tipo manifestazioni anche in altre città europee, che<br />

potranno così diventare un’interessante vetrina per le attività<br />

scientifiche del Bru Zane. ◼<br />

concerti<br />

39


40<br />

concerti<br />

«L’ape musicale»<br />

degli Amici<br />

della Musica di <strong>Venezia</strong><br />

di Paolo Cattelan*<br />

Su invito della azienda Rigoni di Asiago abbiamo<br />

progettato un percorso musicale sul tema delle<br />

api e del miele che sarà eseguito alle Sale Apollinee<br />

della Fenice il prossimo 29 settembre. In un primo<br />

momento avevamo pensato di riprendere puntualmente Lorenzo<br />

Da Ponte cui spetta il merito di aver inventato questo<br />

titolo, L’ape musicale, alludendo al poeta impresario che crea<br />

un’opera dal «nettare» di altre opere. Tuttavia proprio andando<br />

qua e là, di musica in musica come di fiore in fiore secondo<br />

il metodo di Da Ponte, abbiamo scoperto che non solo<br />

c’era la possibilità di mettere insieme delle belle partiture, ma<br />

anche di affrontare il tema con una diversa profondità d’approccio<br />

guidati nella ricerca proprio dall’ape e dal suo rapporto<br />

ancestrale con l’uomo. Vorremmo citare quanto scherzosamente<br />

Andrea Rigoni ci ha detto in un incontro preliminare:<br />

«Con l’ape vogliamo entrare nel mito». E così è stato davvero<br />

nel momento in cui ci siamo messi a seguire le situazioni<br />

operistiche più forti, dove l’ape entra in campo come fattore<br />

simbolico decisivo della dinamica storica.<br />

Una di queste opere è senz’altro l’atto di Aristeo che Cristoph<br />

Willibald Gluck mette in musica su libretto di Giuseppe<br />

Pezzana per lo sposalizio di Ferdinando di Borbone e di Maria<br />

Amalia d’Asburgo a Parma nel 1769. Aristeo è, per il mondo<br />

greco, il semidio dell’apicultura e il suo mito ci è stato tramandato,<br />

insieme a quello di Orfeo, nel Quarto libro delle<br />

Georgiche di Virgilio cui s’ispira molto fedelmente il libretto<br />

di Pezzana per Gluck. Nell’Aristeo del compositore vi sono<br />

alcune gemme come l’Aria virtuosistica «Nocchier che in<br />

mezzo all’onde» oppure l’Aria «Cessate fuggite» con violino<br />

e violoncello concertanti. Ma vi è persino il racconto, sviluppato<br />

in forme recitative, del rituale della Bugonia (letteralmente<br />

«genesi dal bue») che si credeva portasse le api a nascere<br />

spontaneamente dalle carcasse di animali sacrificati, secondo<br />

un processo in cui gli antichi vedevano riflessa l’immagine<br />

dell’anima che si distacca dal corpo materiale.<br />

Ancora più sorprendente è il rilievo che si ottiene da una rapida<br />

ricognizione su un altro titolo di grande importanza per<br />

la mitica presenza delle api. Cominciamo dal dire che molti<br />

sono i compositori che hanno messo in musica la storia di<br />

Sansone e Dalila, ma che uno solo è quello che lavora anche<br />

ad un altro episodio della vicenda biblica dell’eroe ebreo che<br />

bisogna rapidamente ricordare ancor prima di nominare il<br />

compositore. L’episodio è dunque quello del leone che Sansone<br />

avrebbe squarciato a mani nude mentre andava in Timnata<br />

a prendere per moglie una donna filistea. Al suo ritorno<br />

a casa Sansone vide che nella carcassa del leone<br />

le api avevano fatto un favo ch’egli<br />

prese cibandosi del miele. Quindi rielaborò<br />

tutto quanto gli era accaduto<br />

in forma di enigma e lo pose<br />

ai Filistei durante il banchetto di<br />

nozze. Esiste un chiaro legame tra il leone<br />

di Sansone e i tori di Aristeo, un legame<br />

adombrato nella storia stessa dei Filistei,<br />

il popolo di origine egea che diede nome alla<br />

Palestina e che fu alleato degli ebrei prima di<br />

diventarne mortale nemico. Occorre a questo<br />

punto fare un po’ di chiarezza sul nome del<br />

compositore italiano che sente talmente il fascino di Sansone<br />

dal derivarne una specie di trilogia tragica (Sansone in Tamnata,<br />

Sansone in Gaza, La caduta del tempio di Dagone): si<br />

tratta di Francesco Basily (o Basili, anche Basilj nelle fonti coeve)<br />

e la sua opera andò in scena al teatro San Carlo di Napoli<br />

nel 1824 con un grande cantante nel ruolo di cartello: Luigi<br />

Lablache. Vale sottolineare la qualità della musica di Basily,<br />

scolpita in modo che non poco richiama alla mente Verdi da<br />

una posizione storica però nettamente anticipe. Basily era nato<br />

nel 1767 a Loreto, solo undici anni dopo Mozart, da una famiglia<br />

di musicisti originaria dell’Umbria e prevalentemente<br />

attiva a Loreto. Francesco aveva appreso lo stile osservato<br />

da Giovanni Battista Borghi e Giuseppe Jannacconi a Roma<br />

e nel corso della sua carriera fu maestro di cappella a Foligno,<br />

Macerata, Loreto e quindi alla Cappella Giulia in Roma.<br />

Compose moltissima musica sacra, strumentale e da camera<br />

ed ebbe importanti incarichi al Conservatorio di Milano,<br />

ma anche all’Accademia di Berlino. Non disdegnò l’opera<br />

e, a giudicare dal Sansone, la sua produzione non mancherà<br />

di essere riscoperta in un prossimo futuro. Per la cronaca la<br />

sua conoscenza di Verdi si lega ad un fatto preciso: mentre<br />

quest’ultimo si presentava per essere ammesso al Conservatorio<br />

di Milano, Basily presiedeva la commissione che<br />

lo bocciò: colpito sul vivo, molti anni dopo<br />

Verdi rifiuterà di dare il proprio nome<br />

al conservatorio di Milano, come lui<br />

stesso ebbe a dire «Non mi hanno voluto<br />

da giovane, non mi avranno da vecchio».<br />

Francesco Basily muore a Roma<br />

nel 1850, chissà se il prossimo anno<br />

verdiano porterà qualcosa anche<br />

per lui…<br />

L’ultima stazione è Debora, che<br />

in ebraico significa proprio<br />

«ape». A Debora che nel<br />

mondo Egeo era Melissa, si<br />

ricollegano tutte le altre storie:<br />

Aristeo, la Bugonia, Sansone…<br />

Debora ha avuto alcune ricorrenze importanti nella Storia<br />

della musica, prima fra tutte Händel (1733). L’azione sacra<br />

per musica di Pietro Alessandro Guglielmi su libretto di Carlo<br />

Sernicola intitolata Debora e Sisara andò invece in scena al<br />

Teatro San Carlo di Napoli nel 1788. Fu un successo memorabile.<br />

Una grande virtuosa, Brigida Banti Giorgi, gareggiò<br />

con gli strumenti nel ruolo dell’unica donna che la Bibbia ricordi<br />

tra i Giudici d’Israele, la donna che portò il suo popolo<br />

(e gli alleati Filistei) a sconfiggere il re di Canaan.<br />

Protagonisti del volo dell’ape musicale al Teatro La Fenice<br />

saranno il soprano Susanna Armani, il mezzosoprano Silvia<br />

Regazzo, il basso-baritono Devis Fugolo, il violoncellista Simone<br />

Tieppo, il pianista Bruno Volpato: un gruppo di solisti<br />

di raffinati interessi culturali vicino alle attività di ricerca degli<br />

Amici della Musica di <strong>Venezia</strong>. ◼<br />

*Presidente degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />

Debito a Gioachino Rossini<br />

L’attività degli Amici della Musica<br />

di <strong>Venezia</strong> in provincia<br />

Un’intensa attività si preannuncia per la stagione<br />

d’autunno degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong>. Tra<br />

settembre e ottobre si inaugura il ciclo di concerti dedicato a<br />

Rossini nel cxx anniversario della nascita.<br />

Il progetto, che rientra nella programmazione Reteventi<br />

2012 della Provincia di <strong>Venezia</strong>, si avvale anche della colla-


orazione dei Comuni di Scorzé, Salzano, Noale, San Donà,<br />

Concordia Sagittaria, Cavallino-Treporti, Santa Maria di Sala,<br />

Chioggia e di alcuni enti privati come il Lions Club di Noale,<br />

il Rotary club «Noale dei Tempesta», l’Associazione Lirico-Musicale<br />

Clodiense.<br />

Concordia Sagittaria – Cattedrale<br />

14 settembre – ore 20.45<br />

Noale – Duomo<br />

20 settembre, ore 20,45<br />

Cavallino – Chiesa di S. Maria Elisabetta<br />

19 ottobre, ore 20,45<br />

Petite Messe Solennelle<br />

per soli, coro, pianoforte e harmonium<br />

Salzano – Filanda Romanin-Jacur<br />

6 ottobre, ore 20.45<br />

San Donà – Auditorium Comunale<br />

12 ottobre, ore 20.45<br />

Chioggia – Auditorium San Nicolò<br />

31 ottobre, ore 20.45<br />

Tornare a Babilonia<br />

per soprano, mezzosoprano e pianoforte<br />

con interventi di Carlo Borghesan<br />

Santa Maria di Sala – Villa Farsetti<br />

23 ottobre, ore 20.45<br />

Scorzé – Villa Soranzo-Conestabile<br />

27 ottobre, ore 20.45<br />

Il cioccolatte osmazonico<br />

per soprano, pianoforte<br />

con interventi di Carlo Borghesan<br />

Il percorso nasce dall’importante contributo<br />

di Carlo Borghesan, erede dello<br />

speziale veneziano Giuseppe Ancilllo che<br />

nel libro <strong>Venezia</strong>ni e <strong>Venezia</strong> di ieri e l’altro ieri<br />

(Ibiskos editrice, Empoli, 2002) racconta della lunga amicizia<br />

di Ancillo con Rossini e dell’ambiente culturale ruotante<br />

intorno alla farmacia «All’insegna della Vecchia e del Cedro<br />

imperiale» in Campo San Luca a due passi dalla Fenice che<br />

il pesarese frequentava in occasione del debutto delle sue opere,<br />

dalle prime farse al Teatro San Moisé fino a Semiramide al<br />

Teatro La Fenice. Tre sono i programmi di concerto circuitati<br />

nelle varie sedi (cfr. gli appuntamenti qui a fianco): «Tornare<br />

a Babilonia», «Petite Messe Solennelle» e «Il cioccolatte<br />

osmazonico». Nel gergo degli impresari ottocenteschi «Tornare<br />

a Babiblionia» significava allestire Semiramide (regina<br />

di Babiblonia) con le sorella Barbara e Carlotta Marchisio celebri<br />

cantanti che Rossini volle anche alla première della Petite<br />

Messe Solennelle.<br />

E «Il cioccolatte osmazonico»? Fu un brevetto dello Spicier<br />

Giuseppe Ancillo, che doveva provvedere a tutti i malanni<br />

di Rossini, provocati dai suoi ben noti peccati di gola,<br />

mentre quest’ultimo, ospite in casa sua, scriveva la Semiramide.<br />

Nel corso dello spettacolo musicale, tra un’aria<br />

e l’altra, sarà possibile degustare alcuni piatti rossiniani<br />

e finalmente scoprire insieme misteriose ricette. Interpreti<br />

principali sono il soprano Susanna Armani, il mezzosoprano<br />

Silvia Regazzo, il tenore Matteo Mezzaro, il basso<br />

Devis Fugolo, il pianista Bruno Volpato e il Coro Polifonico<br />

da camera San Filippo Neri diretto da Ubaldo Composta.<br />

Per informazioni: www.amicimusicavenezia.it;<br />

info@amicimusicavenezia.it ◼<br />

Caricatura di Gioachino Rossini.<br />

A fronte: Lucas Cranach il Vecchio, Sansone e il leone<br />

(1520, in alto) e Cupido e un favo (1537, in basso).<br />

I «Concerti<br />

della domenica»<br />

dei Solisti Veneti<br />

Sono trascorsi quarantacinque anni da<br />

quando, nell’ottobre 1967, I Solisti Veneti diretti da<br />

Claudio Scimone hanno creato la formula, nata a Padova<br />

e divenuta ormai tradizionale, dei «Concerti<br />

della domenica». Questi appuntamenti, che si svolgono tuttora<br />

la domenica mattina alle 11 a prezzi molto ridotti, avevano<br />

e hanno ancora lo scopo di raggiungere un pubblico<br />

nuovo che raduni, oltre agli appassionati dei concerti serali, i<br />

giovani e tutti coloro che per diversi motivi non amano uscire<br />

di casa la sera, come le persone anziane e le famiglie con<br />

bambini (cui sono dedicati molti programmi speciali).<br />

Per il ciclo del 2012 – che si svolgerà nell’Auditorium<br />

«Pollini» di Padova nelle domeniche di ottobre e novembre,<br />

sempre alle ore 11 – I Solisti Veneti hanno preparato<br />

un programma ricco e articolato. Il concerto inaugurale avrà<br />

luogo domenica 7 ottobre e sarà intitolato «Per grandi e piccini»<br />

con la presenza – accanto all’ensemble diretto da Scimone<br />

– di Cecilia Gasdia nel ruolo di voce recitante in Pierino<br />

e il lupo di Prokofiev. La Gasdia interpreterà anche due<br />

pagine di Rossini, il Duetto dei gatti e La chanson du bébé.<br />

Il programma (e con esso il ciclo) verrà aperto dal Corsaro,<br />

un’opera di Riccardo Drigo (1846-1930), compositore padovano<br />

tuttora celebre in Russia per aver diretto le «prime»<br />

dei più famosi balletti di Čajkovskij.<br />

Domenica 14 ottobre sarà di scena Corrado Augias, che<br />

terrà una conversazione su «Raccontare Verdi» in preparazione<br />

del bicentenario verdiano del 2013. I programmi successivi<br />

della rassegna comprenderanno – tra le molte altre<br />

proposte – il tradizionale omaggio al massimo genio veneto,<br />

Antonio Vivaldi, con l’Opera Quarta «La Stravaganza».<br />

Di particolare richiamo ed interesse sarà poi l’appuntamento<br />

dedicato ai walzer viennesi di Johann Strauss nelle<br />

trascrizioni effettuate per una manifestazione benefica da<br />

Schönberg, Berg e Webern, integrato da walzer di Beethoven,<br />

Schubert e Chopin. Per informazioni: www. solistiveneti.it.<br />

(l.m.) ◼<br />

Il primo «Concerto della domenica» dei Solisti Veneti.<br />

concerti<br />

41


42<br />

concerti<br />

Il «Pierrot Lunaire»<br />

di Schönberg<br />

incanta Padova di Filippo Juvarra<br />

È<br />

il 16 ottobre 1912: alla Choralionsaal di Berlino<br />

avviene la prima esecuzione del Pierrot Lunaire<br />

di Arnold Schönberg. L’autore dirige<br />

un complesso strumentale composto da<br />

H.W. de Fries (flauto), K. Essberger (clarinetto), J.<br />

Maliniak (violino e viola), H. Kindler (violoncello),<br />

E. Steuermann (pianoforte). La voce è quella<br />

della cantante e attrice Albertine Zehme (aveva<br />

sposato a Lipsia l’avvocato Felix Zehme), che,<br />

in costume da Pierrot, è accompagnata dal gruppo<br />

strumentale diretto da Schönberg che si trova invece dietro<br />

un paravento.<br />

Era stata la stessa Zehme a commissionare a Schönberg<br />

una riduzione in musica del Pierrot Lunaire del poeta belga<br />

A. Giraud, nella traduzione in tedesco di O.E. Hartleben.<br />

Schönberg trovò la cosa molto stimolante, come annotò nel<br />

suo diario: «Si va senz’altro incontro a una nuova espressione.<br />

I suoni diventano qui una espressione addirittura animale<br />

di moti sensuali e spirituali».<br />

L’entusiasmo di Alberatine fu notevole e così scrisse al maestro:<br />

«Lei trasporta in musica tutti gli ideali della mia fantasia<br />

artistica».<br />

A Berlino la prima esecuzione ebbe un successo incondizionato<br />

(non sarà così poi a Vienna e a Praga). Era presente<br />

anche Stravinsky, che scriverà: «Di una cosa mi ricordo con<br />

grande esattezza: la sostanza strumentale del Pierrot Lunaire<br />

mi impressionò moltissimo. Con “strumentale” io intendevo<br />

allora non solo la strumentazione di questa musica ma la<br />

struttura contrappuntistica e polifonica complessiva di questo<br />

stupefacente capolavoro».<br />

Esattamente cento anni dopo, il 16 ottobre 2012 all’Auditorium<br />

«Cesare Pollini», gli Amici della musica di Padova<br />

riproporranno il Pierrot Lunaire affidandone l’esecuzione al<br />

Divertimento Ensemble diretto da Sandro Gorli, e alla voce<br />

di Alda Caiello.<br />

Si tratta del secondo concerto della stagione 2012-2013 organizzata<br />

dall’associazione padovana, che si aprirà il 3 ottobre<br />

con un concerto della Petite Bande di Sigiswald Kuijken<br />

(in programma le quattro Suites per orchestra e il Concerto<br />

brandeburghese n. 5 di Johann Sebastian Bach) dedicato<br />

al ricordo di Gustav Leonhardt, clavicembalista e direttore<br />

Padova<br />

Auditorium<br />

«Cesare Pollini»<br />

16 ottobre, ore 20.30<br />

d’orchestra olandese più vote presente all’interno delle stagioni<br />

musicale degli Amici della musica di Padova.<br />

Ma la proposta del Pierrot Lunaire rimanda anche a un’altra<br />

data importante per Padova: quella del 4 aprile 1924,<br />

giorno in cui Schönberg lo diresse nell’ambito dei concerti<br />

della «Bartolomeo Cristofori», la società nata nel 1921<br />

in stretto collegamento con l’istituto musicale «Cesare Pollini».<br />

Schönberg guidò un complesso formato da membri<br />

del Quartetto Pro Arte di Bruxelles (che in apertura di programma<br />

esegue il Concerto di Alfredo Casella) e da L. Fleury<br />

(flauto), H. Delacroix (clarinetto), E. Steuermann<br />

(pianoforte). La voce era quella dell’attri-<br />

ce Erika Wagner (una star dello Schauspielhaus<br />

di Vienna), che, sposatasi poi con il direttore d’orchestra<br />

F. Stiedry, inciderà in America nel 1951<br />

il Pierrot – sempre diretto da Schönberg – per la<br />

Columbia.<br />

Il concerto di Padova del ’24 fu una delle tappe<br />

della tournée italiana del Pierrot Lunaire promossa da<br />

Alfredo Casella con la Corporazione delle Nuove Musiche,<br />

che Casella aveva fondato assieme a Malipiero e D’Annunzio,<br />

nel 1924, a Roma. La tournée costituì un momento<br />

fondamentale per l’apprezzamento in Italia della musica di<br />

Schönberg, che, in occasione di un concerto a Firenze, ebbe<br />

l’occasione, e l’onore, di avere in sala e poi di conoscere Giacomo<br />

Puccini. Nel programma di sala preparato per la tournée<br />

(con note anche di Vittorio Rieti, che accostò il Pierrot<br />

alla Sagra di Stravinsky)<br />

Casella<br />

scrisse: «Il lavoro<br />

illustre e singolare<br />

che la Corporazione<br />

delle<br />

Nuove Musiche<br />

ha l’alto onore di<br />

far conoscere per<br />

prima agli italiani,<br />

attraverso le<br />

dieci esecuzioni<br />

di Roma, Napoli,<br />

Firenze, <strong>Venezia</strong>,<br />

Padova, Torino<br />

e Milano e<br />

sotto la direzione<br />

dell’autore, va<br />

considerato con somma, acuta attenzione. Esso costituisce<br />

senza dubbio una delle più audaci “tappe” della moderna storia<br />

musicale, nella quale assume un’importanza paragonabile<br />

a quella dell’avvento del cubismo nella pittura o della teoria<br />

della relatività nella scienza».<br />

Recensendo nella «Provincia di Padova» del 5-6 aprile<br />

1924 il concerto, Renzo Lorenzoni, pianista padovano allievo<br />

di Cesare Pollini, animatore della «Bartolomeo Cristofori»<br />

e docente all’Istituto Musicale, parlò di «un concerto di<br />

raro e magnifico interesse», e scrisse che «la Corporazione<br />

delle Nuove musiche che si è assunta l’elevato e difficile compito<br />

di portare alla conoscenza del pubblico italiano una delle<br />

opere più potentemente originali e demolitrici uscite dalla<br />

moderna musicalità quale il Pierrot Lunaire di Schönberg,<br />

può andare orgogliosa dei risultati del suo fervore di iniziativa<br />

e orgogliose possono pure andarne quelle società di concerto<br />

che hanno voluto offrire ai loro soci questo singolarissimo<br />

componimento di battaglia che è anche, rispetto alla coscienza<br />

del suo autore, un atto profondo di fede». ◼<br />

A sinistra: locandina della prima esecuzione del Pierrot Lunaire;<br />

a destra: Arnold Schönberg.


Leonard Cohen<br />

in una parola:<br />

«Hallelujah»<br />

Una stagione della musica sta certamente<br />

finendo, quella che negli anni sessanta<br />

e successivi aveva legato la canzone popolare<br />

a idee, poesia, creatività, impegno, un modo<br />

per allargare la mente con pochi versi, qualche melodia,<br />

nuovi suoni e strumenti e la voglia di cambiare il mondo.<br />

Oggi la canzone sembra tornata sulla strada del puro intrattenimento,<br />

la musica si costruisce in laboratorio, le macchine<br />

replicano figure ritmiche e armoniche standard e si consuma<br />

tutto piuttosto velocemente, senza soffermarsi sulla qualità,<br />

né della produzione<br />

musicale né dei suoni.<br />

Non si va troppo per il<br />

sottile. I reality producono<br />

successi improvvisi<br />

quanto effimeri, dalle<br />

voci urlate troppo uguali<br />

fra loro, la tv e le radio<br />

non osano uscire dal tranquillo<br />

trantran del già<br />

noto, continuando a replicare<br />

presenze di personaggi<br />

decotti, antichi,<br />

ma che garantiscono<br />

non tanto i facili ascolti<br />

quanto la tranquillità di<br />

chi guarda e che può sentirsi<br />

rassicurato da nomi<br />

fin troppo conosciuti.<br />

E così mentre i giovanissimi<br />

consumano mp3 come<br />

Cocacola, scaricano<br />

Pulcino Pio e danzano lo<br />

stesso ritmo meccanico<br />

riciclato con qualche coretto<br />

in più, quel che resta<br />

della generazione degli<br />

anni sessanta continua a<br />

rivolgersi alla musica della<br />

propria epoca, finché l’età non ha il sopravvento sulla vita.<br />

Leonard Cohen è uno dei punti fermi di questa generazione.<br />

Cohen è stato tra i primi a cambiare la prospettiva della<br />

canzone moderna. Non più solo futile intrattenimento ma<br />

un piano più elevato di comunicazione. Come Bob Dylan,<br />

il cantautore canadese ha trasformato in canzone la poesia.<br />

Rubo al regista e scrittore Roberto Andò una citazione: ogni<br />

vera rivoluzione politica comincia dal linguaggio, e la poesia<br />

anche se non fa accadere niente – come diceva Auden – è la<br />

lingua in cui far coincidere la passione e la verità.<br />

Se Prèvert con «Les feuilles mortes» aveva mostrato come<br />

fondere canzone e poesia, la generazione dei Cohen, dei<br />

Dylan, usa la canzone e la poesia per raccontare passione e<br />

verità. La lingua canzone cambia, smette di essere «canzonetta»,<br />

intrattenimento anche se ne usa spesso<br />

gli stilemi. E diventa una forma di divulga-<br />

zione popolare di visioni immagini sentimen-<br />

Leonard Cohen (leonardcohen.com).<br />

di Giò Alajmo<br />

Verona – Arena<br />

24 settembre, ore 20.30<br />

ti non banali, non scontati, non scritti per soddisfare i palati<br />

ma per trasferire all’esterno il proprio mondo interiore.<br />

La canzone non è poesia. Lo sappiamo. Ma la poesia nasce<br />

dalla musica e talvolta vi ritorna. La funzione della poesia di<br />

un tempo nella nostra era è stata spesso presa dalla Canzone.<br />

Cohen è un poeta, è un cantante.<br />

A settantasette anni (il 21 settembre) Leonard Cohen<br />

può permettersi di scrivere un nuovo album Old Ideas...<br />

e vederlo considerare tra i migliori del 2012. Può permettersi<br />

di dire «no, grazie» all’offerta di una laurea honoris<br />

causa da parte dell’antica Università di Gent in Belgio<br />

(«Grazie, molto carini ma non è necessario»), può<br />

permettersi di tornare ancora una volta in Italia per vedere<br />

se l’effetto splendido della sua voce bassa e dei suoi versi<br />

può vestire anche l’Arena di Verona, dove si esibirà il<br />

24 settembre, con il solito cappello, la solita folta band.<br />

Il poeta che scoprì la canzone grazie a Judy Collins se n’è<br />

innamorato al punto da non riuscire a smettere: «Scrivo in<br />

continuazione. E man mano che le canzoni cominciano ad<br />

aggregarsi, io non faccio altro che continuare a scrivere. Vorrei<br />

essere una di quelle persone che scrivono canzoni velocemente.<br />

Ma non lo sono. Così mi ci vuole un sacco di tempo<br />

per scoprire cosa sia una canzone», ha raccontato a «The<br />

Athlantic».<br />

Il piacere di bere un buon vino nel bicchiere giusto alla<br />

giusta temperatura e in buona compagnia è forse la metafora<br />

migliore per tradurre un suo concerto. Per fortuna<br />

la sua generazione, quella della parola che diverte facendoti<br />

pensare, è ancora attiva a dispetto del tempo che passa.<br />

Una volta Cohen scrisse: «Vorrei dire tutto ciò che c’è<br />

da dire in una sola parola. Odio quanto possa<br />

succedere tra l’inizio e la fine di una frase».<br />

Ma c’è una parola che raccoglie tutto, il titolo<br />

di una sua canzone fra le più famose: «Hallelujah!»<br />

◼<br />

l’altra musica 43


44<br />

l’altra musica<br />

I Radiohead approdano<br />

a Villa Manin<br />

Atteso a Udine il concerto<br />

della band di Thom Yorke<br />

È<br />

uno dei gruppi più antisistema in circolazione.<br />

Poco amanti delle luci della ribalta, dei meccanismi<br />

del mondo delle major musicali, delle ovvietà. Sono<br />

stati tra i più bravi a dare voce al malessere esistenziale<br />

della generazione cresciuta tra gli anni<br />

novanta e il primo decennio del duemila. Sono<br />

quelli che hanno raccolto la rabbia degli ultimi<br />

punk, che hanno salvato ciò che c’era da salvare<br />

del grunge, e che oggi si riaffacciano sulla scena<br />

musicale in un’epoca che sembra fatta apposta<br />

di Giuliano Gargano<br />

per fare crescere di nuovo la pianta del malessere e della disillusione.<br />

I Radiohead, gruppo inglese nato a cavallo tra la fine<br />

degli anni ottanta e l’inizio dei novanta e formato da Thom<br />

Yorke, Jonny Greenwood, Ed O’Brien, Colin Greenwood e<br />

Phil Selway, muove con relativa facilità i primi passi. Già alla<br />

fine del 1991 la Emi mette la band sotto contratto. Le prime<br />

prove non sono però esaltanti, fino al settembre del 1992,<br />

quando viene pubblicato il singolo Creep. È un successo planetario,<br />

che esplode per primo negli Stati Uniti e poi rimbalza<br />

nel Vecchio Continente (all’inizio la radio inglese bbc1<br />

aveva deciso di non trasmetterla, perché ritenuta troppo deprimente).<br />

È l’inno di una generazione disperata, perduta,<br />

indolente, che non vede un futuro davanti a sé. La canzone<br />

diventa croce e delizia dei Radiohead: il brano più richiesto,<br />

l’esibizione che non può mancare durante i concerti. L’idiosincrasia<br />

del quintetto inglese per il successo facile e per l’isteria<br />

collettiva provocata da quella canzone li spinge a non<br />

eseguirla più nei loro concerti. Una decisione che perdura,<br />

Codroipo (Ud)<br />

Villa Manin<br />

26 settembre, ore 21.30<br />

con rarissime eccezioni, ancora oggi. In verità né l’album che<br />

contiene «Creep», Pablo Honey, né il successivo, The Bends,<br />

riscuotono lo stesso successo di quella sola canzone. La<br />

pressione sul gruppo è molto forte, e anche l’idea che si possa<br />

trattare di una one-hit-band complica le cose. Tutte le difficoltà<br />

e le perplessità vengono spazzate dalla pubblicazione<br />

di Ok Computer (1997), forse la loro opera migliore. Disco<br />

onirico, visionario, psichedelico, proiettato – già dal titolo<br />

– in un futuro fantascientifico pregno di alienazione e paranoia.<br />

Il sentimento anti-commerciale è alimentato dalla scelta<br />

– in opposizione all’etichetta discografica – del singolo<br />

da estrarre, la suite «Paranoid Android», lunga sette minuti.<br />

Ma sono soprattutto «Karma Police» e «No Surprises»<br />

a consacrare i Radiohead. La vena malinconica del gruppo è<br />

ai massimi livelli, i testi e le melodie sono intrisi<br />

di spleen di baudelariana memoria. L’intero al-<br />

bum è una summa dei temi cari alla band inglese,<br />

e a distanza di anni mantiene inalterata la sua<br />

ipnotica bellezza. Seguono anni di sperimentazione,<br />

in coerenza con il disprezzo del successo<br />

facile. Kid A (2000)<br />

e Amnesiac (2001) rappresentano<br />

le due facce<br />

di una stessa medaglia.<br />

Il primo è una raccolta<br />

di idee musicali, nelle<br />

quali quasi sparisce l’apporto<br />

umano (la voce di<br />

Thom Yorke è fortemente<br />

campionata e distorta),<br />

il secondo recupera<br />

invece l’aspetto melodico<br />

e cantato. Si arriva<br />

al 2003 e a Hail To The<br />

Thief, che segna un ritorno<br />

a sonorità già sperimentate<br />

in Ok Computer.<br />

L’album del 2007 –<br />

In Rainbows – resta negli<br />

annali soprattutto<br />

per le modalità di distribuzione:<br />

i Radiohead<br />

decidono di metterlo<br />

in vendita on-line. Il<br />

prezzo? Lo decidono gli<br />

acquirenti. Abile mossa<br />

pubblicitaria o reale voglia<br />

di andare controcorrente?<br />

La risposta la conoscono<br />

solo loro, visto che non sono mai stati diffusi i dati<br />

sugli incassi. Siamo ai giorni nostri. Gli Stati Uniti e tutto<br />

il mondo vivono ancora sotto l’ombra dell’attentato dell’11<br />

settembre 2001. Il primo decennio del nuovo millennio vive<br />

sotto questa cappa opprimente. E in due virulente tornate,<br />

la crisi economica tocca tutto l’Occidente. Terreno fertile<br />

per i Radiohead, che avrebbero l’occasione di insistere sulla<br />

precarietà di quest’epoca. Ma The King of Limbs (2011)<br />

spiazza ancora: disco compatto (trentasette minuti) e complesso,<br />

sembra destinato a restringere ulteriormente lo spazio<br />

dedicato alle concessioni commerciali. La scelta alternativa<br />

dei Radiohead, sempre più spinta verso la sperimentazione e<br />

la fruizione di nicchia, se da una parte li allontana inesorabilmente<br />

dal grande pubblico, dall’altra li proietta in una dimensione<br />

che supera l’ambito prettamente musicale e li rende<br />

testimoni del nostro tempo. ◼<br />

Radiohead, prove prima di un concerto (radiohead.com).


Nina Zilli, l’anima soul<br />

della musica italiana<br />

In un mercato discografico dominato da una<br />

parte da dinosauri che continuano imperterriti a vendere<br />

sempre gli stessi dischi ormai da tempi immemori<br />

e dall’altra da artisti usciti e costruiti dai talent show,<br />

che di solito durano una stagione o poco più, la presenza di<br />

Nina Zilli è la conferma che ancora si può riuscire a conquistare<br />

un proprio pubblico facendo un percorso<br />

artistico canonico, fatto di studi, esperienze la-<br />

vorative diverse e tanta gavetta. Sacrifici che ha<br />

imparato a fare sin da piccola, spedita a dieci anni<br />

da una mamma coraggiosa e lungimirante a<br />

studiare l’inglese in Irlanda. Lasciata la provincia<br />

piacentina dove era nata, si ritrova a vivere<br />

con una coppia di arzilli signori a Killala, piccola città del<br />

freddo nord ovest. Sarà un caso ma lì il primo film che vede<br />

è The Commitments!, la geniale pellicola di Alan Parker che<br />

narra le vicende della nascita di un gruppo soul in una Dublino<br />

divisa tra il profondo legame con la tradizione musicale<br />

dei Chieftains o dei Dubliners e il rock dei Thin Lizzy o<br />

degli U2. Tornata in Italia giusto il tempo di finire le scuole<br />

superiori, comincia un viaggio di due anni tra le capitali<br />

della musica americana, Chicago e New York, dove prende<br />

contatto con la cultura jazz e soul, che forma in maniera<br />

forte i suoi gusti musicali. La parte tecnica la apprende attraverso<br />

studi di pianoforte, che abbandona poco prima del<br />

diploma, e di canto lirico, che lascia per un’evidente maggior<br />

attrazione per altri generi. Inizia così la sua attività nel<br />

mondo dello spettacolo, non direttamente come cantante<br />

ma bensì come vee-jay per mtv. Il debutto discografico avviene<br />

nel 2001 con il gruppo Chiara e Gli Scuri, con il quale<br />

abbraccia uno dei generi che maggiormente ama, il rockste-<br />

Nina Zilli.<br />

di Tommaso Gastaldi<br />

Verona<br />

Teatro Romano<br />

7 settembre, ore 20.30<br />

ady: si tratta di un genere musicale di provenienza giamaicana,<br />

nato ancor prima del reggae come versione rallentata dello<br />

Ska. Collabora con artisti legati alla scena filo-giamaicana<br />

come Africa Unite e Franziska, con i quali intraprende un<br />

tour europeo. Se però finora è per tutti ancora Maria Chiara<br />

Fraschetta, diventerà ben presto Nina Zilli, concentrando<br />

in questo nome d’arte una delle sue cantanti preferite, Nina<br />

Simone, e il cognome da nubile di sua madre. L’omonimo<br />

ep di sei brani, fra i quali una cover in italiano di un successo<br />

delle Supremes («You Can’t Hurry Love», che nella versione<br />

italiana diventa «L’amore verrà»), definisce il suono e<br />

l’immagine della cantautrice piacentina, che mescola il soul<br />

degli anni cinquanta e sessanta a un’eleganza melodica italiana<br />

che guarda molto a Mina (tanto da venire<br />

soprannominata Mina Zilli) e si esprime visi-<br />

vamente con una profonda sensualità e un gusto<br />

per l’immagine immerso nel vintage. La canzone<br />

che la fa notare è «50mila», brano nostalgicamente<br />

sixties, registrato con Giuliano Palma:<br />

il regista Fernan Ozpetek, sempre molto attento<br />

nella scelta delle colonne sonore dei suoi lavori, si innamora<br />

del brano e lo sceglie per il film Mine Vaganti del 2010. Il primo<br />

disco, Sempre Lontano, porta Nina al suo primo Festival<br />

di Sanremo con «L’uomo che amava le donne», che le vale<br />

il Premio della Critica e della Sala stampa. Da qui in poi sarà<br />

un lungo susseguirsi di concerti in tutta Italia, premi e partecipazioni<br />

a manifestazioni nazionali di rilievo, come il concerto<br />

del primo maggio del 2010. Nel 2012 è pronta a pubblicare<br />

un nuovo disco dal titolo L’amore è Femmina, non<br />

prima però di partecipare nuovamente a Sanremo con «Per<br />

sempre», un lento che prende spunto dalla tradizione musicale<br />

italiana degli anni sessanta, soprattutto per le atmosfere<br />

sonore che richiamano ancora una volta Mina. «L’amore<br />

è femmina tour» è partito lo scorso aprile e continua ormai<br />

da mesi a girare per tutta Italia: passerà al Teatro Romano di<br />

Verona il 7 settembre nell’ambito di «Venerazioni», festival<br />

musicale tutto al femminile, che ospiterà anche Sarah Jane<br />

Morris, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, e Giorgia, che si<br />

esibirà all’Arena. E chissà che un giorno in Arena non ci sia<br />

spazio anche per Nina Zilli. ◼<br />

l’altra musica 45


46<br />

l’altra musica<br />

Vinicio Capossela<br />

al Teatro Verde<br />

per Live in Venice<br />

Si conclude un’estate<br />

di grandi artisti a San Giorgio<br />

qualche anno eravamo alla ricerca del luogo migliore per accoglierli.<br />

Del Teatro Verde avevamo avuto notizie anche da<br />

Fran Tomasi, e abbiamo così deciso di inviare una lettera di<br />

presentazione della nostra agenzia alla Fondazione Giorgio<br />

Cini, nella quale abbiamo trovato un interlocutore curioso<br />

e disponibile. Il programma di luglio ha avuto una gestazione<br />

piuttosto veloce, che s’è svolta tra aprile e maggio con l’intenzione<br />

di dare alla luce un progetto pilota che ci consentisse<br />

di mettere a fuoco alcune questioni, non da ultima la bontà<br />

del luogo scelto. Da più parti ci erano infatti giunte voci<br />

che descrivevano il Teatro Verde come un posto bellissimo<br />

ma un po’ isolato. La cautela è stata molta, e alla fine abbiamo<br />

però potuto constatare che se le proposte sono interessanti<br />

e ben curate il buon risultato è garantito. Per accogliere<br />

al meglio il nostro pubblico, abbiamo anche pensato all’allestimento<br />

di un’area relax dotata<br />

di servizio di ristorazione dove po-<br />

di Ilaria Pellanda<br />

grande attesa per l’arrivo in laguna di<br />

Vinicio Capossela, che il 7 settembre presenterà<br />

le sue «Bal- C’è<br />

late nella barena.<br />

Ombre, oriente e caìgo», progetto<br />

speciale che il noto cantautore<br />

e polistrumentista italiano – nato<br />

in Germania da genitori di ori-<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Teatro Verde<br />

(Isola di San Giorgio Maggiore)<br />

gine irpina – dedicherà alla Vene-<br />

7 settembre, ore 21.00<br />

zia porta d’oriente, città magica «Ballate nella barena. Ombre, oriente e caìgo»<br />

e specchiante dove le suggestioni<br />

dell’altrove trasfigurano nelle ombre<br />

e nei veli del «caìgo» (che in<br />

veneziano sta a indicare la nebbia).<br />

Si tratta del quarto concerto –<br />

dopo i tre che si sono svolti lo scorso<br />

luglio – che la<br />

Vinicio Capossela voce, piano, chitarra<br />

Alessandro Stefana chitarre, banjo, armonio<br />

Vincenzo Vasi theremin, campionatori, voce<br />

Dimitri Sillato violino<br />

Glauco Zuppiroli contrabbasso<br />

Ponderosa Music<br />

& Arts di Titti<br />

Santini, in collaborazione<br />

con<br />

la Fondazione<br />

Giorgio Cini, ha<br />

in programma<br />

per la prima edizione<br />

di L.i.Ve.<br />

(Live in Venice),<br />

rassegna di<br />

eventi in musica<br />

ambientati nella<br />

cornice unica<br />

e suggestiva del<br />

Teatro Verde,<br />

nel cuore dell’Isola<br />

di San Giorgio<br />

Maggiore.<br />

«La Ponderosa<br />

è specializzata<br />

nella progettazione<br />

e organizzazione<br />

di rassegne<br />

e concerti<br />

di musica jazz,<br />

world music e<br />

musica d’autoreinternazionale»,<br />

ci ha spiegato<br />

Santini, «e<br />

anche per questo<br />

abbiamo pensato<br />

che <strong>Venezia</strong><br />

fosse la cornice<br />

1. 2.<br />

ideale per i nostri<br />

eventi. Da<br />

3.<br />

ter attendere l’inizio dei concerti<br />

fra le note di alcuni dj-set. Gli appuntamenti<br />

di luglio, per i quali<br />

abbiamo riscontrato molta curiosità<br />

e interesse non solo da parte<br />

dei veneziani ma anche dei turisti,<br />

hanno voluto mettere assieme tre<br />

tipi di pubblici diversi, per cercare<br />

così di capire che tipo di attrattiva<br />

avrebbe potuto esercitare l’isola<br />

veneziana. L’ultimo dei tre concerti,<br />

quello dei Blonde Redhead,


ha visto coinvolto un pubblico più giovane rispetto a quello<br />

presente alla data di Ludovico Einaudi e Paolo Fresu e a quella<br />

di Rufus Wainwright. Le risposte ai tre eventi sono state<br />

tutte positive».<br />

La prima parte della rassegna L.i.Ve. si è dunque aperta il<br />

18 luglio con il concerto di Ludovico Einaudi e Paolo Fresu,<br />

appuntamento che, a cinque anni di distanza dalla prima<br />

estemporanea e applauditissima apparizione all’Audito-<br />

rium di Roma (era l’aprile<br />

del 2006), ha proposto ancora<br />

una volta il connubio<br />

tra questi due protagonisti<br />

della nostra musica, che al<br />

Verde hanno fatto il tutto<br />

esaurito.<br />

Anche la serata dedicata<br />

a Rufus Wainwright il<br />

20 dello stesso mese – unica<br />

data italiana – ha potuto<br />

contare su un notevole<br />

afflusso di spettatori, accorsi<br />

ad ascoltare le note del<br />

suo settimo album in studio,<br />

Out of the Game, lavoro<br />

prodotto da Mark Ronson,<br />

conosciuto per le sue<br />

collaborazioni con artisti<br />

del calibro di Amy Winehouse,<br />

Adele e Christina<br />

Aguilera. I risultati di<br />

quest’ultimo album portano<br />

a una musica più accessibile<br />

rispetto a precedenti<br />

produzioni della carriera<br />

di Wainwright, mantenendo<br />

comunque inalterato il<br />

suo spiccato senso narrativo<br />

e ironico.<br />

Il 21 luglio è stata la volta<br />

dei Blonde Redhead, attesissimi<br />

dal pubblico più<br />

giovane, come ci ha confermato<br />

poche righe fa lo stesso<br />

Santini. Penny Sparkle,<br />

ultimo cd in studio, propone<br />

un’ulteriore inversione<br />

sonora nel loro già intricato<br />

percorso artistico, una<br />

sorta di chiusura di quel<br />

cerchio tracciato a partire<br />

da Misery Is a Butterfly (sesto<br />

album della band, pubblicato<br />

nel 2004) e consistente<br />

nell’oramai definitivo<br />

assestamento del gruppo<br />

americano su sonorità<br />

di un pop elettronico liquido ed etereo.<br />

L’appuntamento è ora con la seconda parte della rassegna,<br />

che il 7 settembre – così si scriveva in apertura di articolo –<br />

vedrà approdare Vinicio Capossela nelle magiche atmosfere<br />

4.<br />

1. Teatro Verde (Isola di San Giorgio Maggiore, <strong>Venezia</strong>);<br />

2. Rufus Wainwright (rufuswainwright.com);<br />

3. Blonde Redhead (blonde-redhead.com).<br />

4. Vinicio Capossela in concerto (viniciocapossela.it);<br />

5. Stefano Bollani (foto di Riccardo Sgualdini);<br />

6. Paolo Fresu (paolofresu.it).<br />

del Teatro Verde: nell’anfiteatro che più accoglie le istanze<br />

della laguna, di fronte ai terreni tabulari delle barene che ora<br />

appaiono e ora scompaiono, Capossela allestirà il suo ennesimo<br />

incanto. Un programma di ballate e canzoni, madrigali<br />

di porto e di bàcaro, distillati di melodie ottomane, armene,<br />

bizantine; e poi ancora la morna e i bolero riportati dalla<br />

risacca, gli inni dei marinai del grande mare salato. Durante<br />

la Mostra del Cinema (dal 29 agosto all’8 settembre, cfr.<br />

5. 6.<br />

vmed n. 47, pp. 60-61) verrà inoltre presentato il docu-film<br />

di Andrea Segre (il cui lungometraggio Io sono Li, presentato<br />

alla scorsa edizione del festival veneziano dedicato alla<br />

settima arte, continua a ricevere importanti riconoscimenti<br />

ed è stato scelto tra i tre finalisti del Premio lux del Parlamento<br />

Europeo), pellicola prodotta da Jole Film che narrerà<br />

il viaggio di Vinicio in una Grecia martoriata dalla crisi<br />

economica mondiale e alla quale Capossela ha dedicato il<br />

suo Rebetiko Gymnastas, disco che, uscito lo scorso giugno,<br />

è più di un omaggio a quella terra che «ha donato al mondo<br />

la civiltà». ◼<br />

l’altra musica 47


<strong>48</strong><br />

l’altra musica<br />

Slash:<br />

un nuovo progetto<br />

e un po’<br />

di Guns N’ Roses<br />

di Tommaso Gastaldi<br />

Qualche anno fa, nella sua autobiografia, ha<br />

candidamente ammesso di averlo rubato. Non<br />

per un impulso clepto-maniacale ma solo perché<br />

gli sembrava perfetto per<br />

quello che aveva in mente. In<br />

un negozio qualsiasi di Los Angeles, l’ha visto<br />

addosso a un manichino, l’ha sfilato ed è<br />

uscito. Da quel giorno, con quel cilindro alla<br />

Mandrake e i riccioli neri a nascondergli il viso,<br />

è diventato Slash, il chitarrista più famoso<br />

degli anni novanta, il guitar hero che ha suonato<br />

con Lenny Kravitz, Iggy Pop e Michael Jackson, tanto<br />

per citarne qualcuno, lui che con un gruppo chiamato The<br />

Cospirators, guidato dal cantante Gibson Les Paul, è diventato<br />

protagonista di un vendutissimo videogioco. Oggi si<br />

presenta con Myles Kennedy alla voce in un tour<br />

mondiale che toccherà Padova il 26 ottobre.<br />

Con questa formazione ha da poco pubblicato<br />

anche l’album Apocalyptic love:<br />

tredici pezzi di puro hard rock che poco<br />

si allontanano da quel suono che lo<br />

ha portato a un livello di celebrità planetaria<br />

con i Guns N’ Roses. Non si può<br />

scindere Slash dalla band che ha segnato<br />

in maniera così decisa la storia della<br />

musica, dei concerti e dell’industria<br />

discografica tra la fine<br />

degli anni ottanta e la metà<br />

degli anni novanta. L’arrivo<br />

di Saul Hudson (questo il<br />

suo vero nome) nei Guns N’<br />

Roses passa attraverso una<br />

breve permanenza nei Road<br />

Crew di Steven Adler,<br />

con i quali aveva militato<br />

anche il bassista Duff<br />

McKagan. Come spesso<br />

accade in questi casi,<br />

per una fortuita serie<br />

di coincidenze nel giro<br />

di pochi mesi si ritrovano<br />

a suonare con Izzy<br />

Stradlin e Axl Roses,<br />

il fondatore dei Guns<br />

N’ Roses. Messi sotto<br />

contratto da una<br />

casa discografica e<br />

con un produttore<br />

di livello, nel 1987<br />

viene alla luce Appetite<br />

for Destruction<br />

e inizia così la<br />

velocissima ascesa<br />

dei Guns N’ Roses<br />

nell’olimpo del<br />

rock. Sono gli an-<br />

Padova<br />

Gran Teatro Geox<br />

26 ottobre, ore 21.00<br />

ni in cui il successo è decretato dai passaggi video su mtv, e<br />

l’immagine del gruppo passa attraverso i video di Welcome<br />

to the Jungle, Paradise City e Sweet Child O’Mine. I Guns N’<br />

Roses diventano il nutrimento musicale delle trasgressioni<br />

adolescenziali di quegli anni. L’anno successivo esce G N’ R<br />

Lies, disco che contiene materiale di poca qualità, scritto precedentemente<br />

al primo album, fatta eccezione per la ballata<br />

acustica «Patience». L’apice arriva nel 1991 con l’uscita di<br />

Use Your Illusion i e ii, due dischi venduti separatamente ma<br />

uniti dai contenuti e dalla grafica di copertina: il numero di<br />

copie vendute è enorme, anche grazie a una promozione che<br />

investe fiumi di denaro. Il video November Rain, con i suoi<br />

otto minuti conditi da un lunghissimo assolo, ancora oggi<br />

rimane uno dei più costosi della storia. L’estenuante «Use<br />

Your Illusion Tour» durò ben tre anni, toccando<br />

ogni angolo del globo a dimostrazione<br />

della popolarità che i Guns avevano raggiun-<br />

to in quegli anni. Terminata la tournée, inizia<br />

anche l’inesorabile declino: i continui problemi<br />

dei vari membri con l’eroina e l’alcol e<br />

le innumerevoli intemperanze di Axl avevano<br />

minato il già fragile equilibrio all’interno del<br />

gruppo. La pubblicazione dell’album di cover The Spaghetti<br />

Incident segna la fine dell’epopea dei Guns N’ Roses, benché<br />

negli anni a venire Axl Roses abbia provato più volte a rimettere<br />

insieme la band con altri musicisti.<br />

Slash è ora libero di seguire i propri<br />

progetti musicali: il primo a nascere<br />

è il gruppo Slash’s Snakepit, con<br />

cui pubblica due album: It’s Five<br />

O’Clock Somewhere del ’95<br />

e Ain’t Life Grand del 2000.<br />

Poi è la volta dei Velvet Revolver,<br />

in cui convogliano parte<br />

dei Guns e che per iniziare incidono<br />

una cover di «Money» dei<br />

Pink Floyd: con loro Slash pubblica<br />

l’album Libertad, nel 2007.<br />

Londinese di nascita ma cresciuto a Los<br />

Angeles, si è guadagnato il denaro per la<br />

sua prima chitarra partecipando e vincendo<br />

numerose gare di bmx, ma c’è da dire<br />

che ha bazzicato l’ambiente dello<br />

show business sin da piccolo: il padre<br />

era un grafico e aveva disegnato<br />

copertine di dischi per artisti come<br />

Neil Young e Joni Mitchell, mentre<br />

la madre era una delle stiliste preferite<br />

da David Bowie. Capitava<br />

a volte che Pamela<br />

Courson, modella e<br />

amica della madre,<br />

facesse da babysitter<br />

al piccolo Saul.<br />

Pamela, Pam, era<br />

la compagna di un<br />

certo di Jim Morrison<br />

e fu proprio lei a<br />

trovare il Re Lucertola<br />

morto nella vasca<br />

da bagno del loro<br />

appartamento di<br />

Parigi il 3 luglio del<br />

1971. Ma questa è<br />

un’altra storia. ◼<br />

Slash (slashonline.com).


Herbie Hancock<br />

in piano solo<br />

di Guido Michelone<br />

Sarà forse un’occasione irripetibile poter<br />

ascoltare, il 23 ottobre al Teatro Comunale Giuseppe<br />

Verdi di Pordenone, il pianista Herbie<br />

Hancock, in solo e dal vivo: il gran-<br />

dissimo jazzman, settantaduenne chicagoano,<br />

da annoverare nel Pantheon del sound afroamericano,<br />

è solito cimentarsi alla tastiera da circa<br />

mezzo secolo in qua, passando dallo Steinway<br />

grancoda ai marchingegni elettronici, privilegiando<br />

soprattutto i piccoli ensembles, dal duo<br />

al sestetto.<br />

Negli ultimi tempi, poi, ogni concerto di Hancock è l’occasione<br />

per ascoltare quel jazz neomoderno (ma anche postmoderno,<br />

come egli stesso contribuisce a divulgarlo fin dagli<br />

anni ottanta) che lo vede protagonista accanto ai più bei<br />

nomi dello scenario artistico-musicale.<br />

A comprendere<br />

il valore di Herbie compositore,<br />

a soli ventidue anni, è<br />

anzitutto il cubano Mongo<br />

Santamaria, che popolarizza<br />

in tutto il mondo il brano<br />

«Watermelon Man»,<br />

un ballabile esempio di souljazz;<br />

altrettanto farà il regista<br />

Michelangelo Antonioni,<br />

che, un lustro dopo, gli<br />

affida la colonna sonora (ancora<br />

soul-jazz) di Blow Up,<br />

film-culto di un’intera generazione<br />

e simbolo della<br />

swingin’ London.<br />

Ma a valorizzarne il genio<br />

pianistico è il divino Miles<br />

Davis, che lo vuole nel suo<br />

quintetto accanto a Wayne<br />

Shorter, Ron Carter, Tony<br />

Williams, dal 1964 al 1969,<br />

in quella che resta la formazione<br />

più compatta, prolifica,<br />

inventiva non solo del geniale<br />

trombettista ma forse<br />

dell’intera storia dei piccoli<br />

gruppi. Negli anni di Davis,<br />

Hancock ha pure la chance<br />

di firmare da solista album<br />

sopraffini come Mayden<br />

Voyage e Speak Like a Child,<br />

che lo consacrano jazzista assai<br />

originale, in grado di assimilare<br />

e fondere il modale,<br />

il free e l’hard-bop con sicura<br />

padronanza ed elegante<br />

sperimentalismo, che rimarranno<br />

un po’ le due costanti<br />

del suo linguaggio stilistico,<br />

non senza però qualche<br />

strizzatina d’occhio allo<br />

show business (fedele, in<br />

Herbie Hancock.<br />

Pordenone<br />

Teatro Comunale<br />

Giuseppe Verdi<br />

23 ottobre, ore 20.30<br />

questo, a tutta la storia del jazz prima del bebop).<br />

Con la svolta rock di Miles, anche Herbie si adegua, non solo<br />

formando band che portano spesso i nomi degli album incisi<br />

(Mwandishi e Head Hunters) per un jazz elettrico funkeggiante,<br />

ma arrivando persino a scalare le classifiche del<br />

pop con «Rockit», vera e propria hit contenuta nell’album<br />

Future Shock, dall’accattivante ritmo techno accompagnato<br />

da un fortunatissimo videoclip ipertecnologico. In Hancock<br />

la qualità maggiore resta però quella imprevedibile<br />

di stupire ogni volta il pubblico, ragion per<br />

cui mentre tutti si aspettano il bis nel pop, ecco<br />

l’artista ribadire la vena di jazzista puro, peraltro<br />

già anticipata dal progetto di The v.s.o.p. Quintet,<br />

in pratica il gruppo modale di Davis senza<br />

Miles, all’epoca gravemente malato.<br />

Herbie insomma, allineandosi a giovani come<br />

Wynton Marsalis, riprende la bella forma del modernjazz,<br />

sia pur aggiornandola continuamente, ad esempio accettando<br />

il «gioco», come ai tempi del ragtime, di una sfida<br />

a due, fra lui e Chick Corea, altro eccellente pianista davisiano.<br />

E a proiettare ulteriormente Hancock nell’Olimpo musicale<br />

c’è anche il cinema:<br />

la colonna sonora che firma<br />

per il lungometraggio<br />

Round Midnight di Bertrand<br />

Tavernier è un affettuoso<br />

omaggio al Blue Note<br />

Style e all’aureo mainstream<br />

che venti-trent’anni<br />

prima mette d’accordo<br />

tutti, dal revival al pre-free.<br />

Ecco quindi la musica di<br />

Hancock scorrere piacevolmente<br />

tra sempre nuovi<br />

progetti – Village Life con<br />

l’africano Foday Musa Suso<br />

è world music in netto<br />

anticipo – che mantengono<br />

una sorta di vivace dialettica<br />

tra passato e presente,<br />

attualità e futuro, ricerca<br />

e tradizione, come si<br />

evince dall’ascolto dei dischi<br />

dell’ultimo ventennio,<br />

The New Standards,<br />

Gershwin World, Future 2<br />

Future e Directions in Music,<br />

benché i più riusciti siano<br />

da un lato 1+1, negli<br />

intensi duetti con Shorter,<br />

e dall’altro River: The Joni<br />

Letters, un sincero tributo<br />

alla cantautrice Joni<br />

Mitchell. Dice Hancock:<br />

«È utopia pensare che un<br />

problema sparisca? No: è<br />

utopia pensare che sparisca<br />

senza il nostro impegno.<br />

Ci sono un sacco di cose<br />

che dobbiamo sviluppare:<br />

la compassione, il coraggio,<br />

la saggezza. E il senso di responsabilità.<br />

Ma la parola<br />

che racchiude tutto questo<br />

è: umanità. Bisogna essere<br />

più umani. Più veri». ◼<br />

l’altra musica 49


50<br />

l’altra musica<br />

«E noi faremo<br />

come la Russia…»<br />

La canzone comunista<br />

di Gualtiero Bertelli<br />

Affrontando l’ultimo dei grandi repertori<br />

della canzone politica in Italia, quello comunista,<br />

viene spontaneo chiedersi: «Ma quanto “fastidio”<br />

potevano dare queste canzoni a un potere che di<br />

fatto gestiva tutto con la selezione dell’elettorato, con il controllo<br />

di ogni fonte di produzione, con l’esercito sempre all’erta.<br />

Come potevano far breccia su un popolo tenuto nell’ignoranza<br />

da un sistema agrario e capitalistico tra i più arretrati<br />

d’Europa e dalla connivenza della Chiesa?»<br />

Nel 1963 Michele L. Straniero e Sergio Liberovici furono<br />

denunciati assieme all’editore Einaudi per aver pubblicato un<br />

libro di Canti della Nuova Resistenza Spagnola, cioè canti nati<br />

in clandestinità durante il lungo periodo della dittatura franchista.<br />

L’accusa: offesa a capo di Stato straniero. Il feroce dittatore<br />

Franco! Nel 1964 poi lo stesso Straniero fu denunciato<br />

per aver cantato al festival di Spoleto una strofa «proibita»<br />

del canto «Gorizia» nato nelle trincee della prima guerra<br />

mondiale. Offesa alle forze armate! Entrambi i casi, dopo<br />

anni, si risolsero in altrettante assoluzioni, ma ci confermano<br />

che anche in un’Italia percorsa dal miracolo economico, ai<br />

primi passi tra i Paesi democratici, la canzone politica, con il<br />

suo linguaggio semplice e diretto, faceva paura. Eppure tutti<br />

gli organi d’informazione, escluso qualche giornale, suonavano<br />

all’unisono il canto del potere.<br />

«Ignoranti, senza scuole, / calpestati dai padron / eravam<br />

la plebe della terra / in risaia come in una prigion.<br />

/ … / Ma i nemici hanno armi / di menzogna<br />

e corruzion: / han giornali, cinema e la<br />

radio / che difendono i profitti dei padron. /<br />

Ma noi donne è un gran faro / che c’illumina<br />

il cammin…»<br />

Così cantavano le mondine all’inizio degli<br />

anni cinquanta; la Repubblica Italiana, nata<br />

dalle ceneri del fascismo, faceva fatica a rispettare<br />

la Costituzione che si era data, ricorrendo<br />

spesso a metodi largamente sperimentati dal<br />

vecchio regime per mettere a tacere il dissenso.<br />

Sono di quegli anni le grandi lotte per il lavoro<br />

e per la riforma agraria che insanguinarono le<br />

piazze e le contrade del nostro Paese.<br />

«Sul muro di casa mia / una pece nera non<br />

vuole sparir. / Scrive la traccia sicura / di un grido strozzato<br />

che non sa morire. / Con mano ferma decisa / è scolpito da<br />

anni padrone assassino, / la tua forza è l’inganno / la Breda ci<br />

insegna che deve finir».<br />

Nel 1954 l’occupazione della fabbrica Breda di Portomarghera<br />

diede vita a una serie di scontri che culminarono in una<br />

manifestazione durante la quale la polizia sparò sul corteo degli<br />

operai ferendone uno in maniera molto grave. Gli operai si<br />

riversarono in piazza San Marco, guidati dal sindaco comunista<br />

Gianquinto, che reggeva la camicia insanguinata del ferito,<br />

e dai principali dirigenti dei partiti della sinistra. Nella nostra<br />

città la memoria di quei fatti ha scavato un solco indelebile.<br />

Con i versi sopra riportati l’ho ricordata vent’anni dopo:<br />

la scritta nera era ancora ben leggibile su un muro della Giudecca:<br />

l’hanno definitivamente cancellata i restauri di questi<br />

ultimi anni.<br />

«Che cosa fa quel Mario Scelba / con la sua celere questura /<br />

ma i comunisti non han paura / difenderanno la libertà /…».<br />

Il ministro degli Interni Scelba fu il simbolo di questo periodo<br />

di violenza e repressione. Il battaglione Celere da lui istituito<br />

fu attore principale di numerosi scontri, ma la manovra<br />

certamente più diretta e, dal suo punto di vista, più efficace fu<br />

l’allontanamento degli iscritti alla cgil da tutti i luoghi che<br />

potessero avere un qualche interesse strategico per quella che<br />

fu denominata «guerra fredda». Sempre a <strong>Venezia</strong> duecento<br />

«arsenalotti» furono repentinamente licenziati; tra que-<br />

1. 2. 3. 4.<br />

sti anche mio padre. Fu riconosciuta la persecuzione politica<br />

vent’anni dopo.<br />

Se tutto ciò accadeva nella Repubblica fondata sul lavoro, è<br />

facile intuire quale fosse il clima nel momento in cui il fascismo<br />

stava prendendo il potere e nasceva il Partito Comunista<br />

d’Italia.<br />

«Fascisti e comunisti giocavano a scopone / ma vinsero i fascisti<br />

con l’asso di bastone…».<br />

«Sapete chi ha incendiato la camera del lavoro?<br />

/ Chiedetelo ai fascisti ve lo diranno<br />

loro…»<br />

Non fa neanche tempo a nascere il Partito<br />

Comunista che lo scontro con i fascisti diventa<br />

diretto e totale, non solo nelle canzoni.<br />

Il legame con il canto anarchico e socialista risulta<br />

subito evidente, ma il linguaggio è più diretto<br />

e la prospettiva rivoluzionaria sempre più<br />

spesso evocata. Inoltre, man mano che il potere<br />

fascista si rafforza e il quadro internazionale<br />

si chiarisce, la scelta di campo filo-sovietica si<br />

fa più esplicita e viene sempre più spesso invocata<br />

nei canti.


Questo si verificò già all’indomani della vittoria<br />

dei Soviet.<br />

Sempre le mondine, punta di diamante del<br />

movimento bracciantile, nel 1921, a conclusione<br />

della lunga battaglia per le otto ore,<br />

cantavano:<br />

«Se otto ore vi sembran poche / provate voi<br />

a lavorar / e proverete la differenza / di lavorare<br />

e di comandar. / E noi faremo come la Russia<br />

/ chi non lavora non mangerà /e quei vigliacchi<br />

di quei signori / dovranno loro lavorar».<br />

Speranze come quelle evocate dal canto compariranno per<br />

molti anni nell’innodia comunista, almeno fino a quando il<br />

pci non incomincerà a prendere le distanze da Mosca.<br />

La minaccia bolscevica nelle mani della propaganda fascista<br />

diventa un’efficace arma di propaganda, e le canzoni, spesso<br />

tratte dall’avanspettacolo o dalle riviste, danno voce a que-<br />

sta propaganda. Nel ‘28 per esempio si attribuisce al bolscevismo<br />

ogni aspirazione delle donne alla loro emancipazione:<br />

«Il bolscevismo la donna l’applica / ma vuol mangiar, vestir,<br />

goder / e lavorar non ne vuol saper / Il bacio che ti dà ben caro<br />

fa pagar / tutto per essa e niente a te / questo è l’effetto che<br />

fa il soviet».<br />

Quando poi i nostri esuli politici incominceranno a riparare<br />

all’estero, in particolare in Francia, ancora la canzone di regime<br />

ne darà un’immagine fosca e terrorizzante:<br />

«Lungi dal confini consacrati / fuori usciti e rinnegati /<br />

stanno benon. / Parlano, complottano adunati, / con i piani<br />

preparati / d’insurrezion. / E s’addorme ognun come un<br />

eroe / sopra il motto della Liberté. / Sogna / l’Italia messa<br />

alla vergogna, /il Quirinale conquistato / col drappo rosso<br />

inalberato...».<br />

Dall’altra parte gli antifascisti che dopo le leggi speciali vengono<br />

incarcerati o condannati al confino, fanno sentire come<br />

possono la loro voce:<br />

«Mi avete incatenato e non fa niente / vostro mestiere è fare<br />

gli aguzzin, / mi avete bastonato crudelmente / siete pagati a<br />

fare gli assassin. / Son comunista e questo lo sapete / ed il mio<br />

cuore è pien di ribellion / ma voi sbagliate se credete coi martìri<br />

di fiaccar / questa mia fede di rivoluzione».<br />

Come il fascismo si consolida al potere, voci come questa diventano<br />

più flebili e clandestine, la protesta sotterranea, ricorrendo<br />

spesso alla parodia di canzoni in voga, come abbiamo<br />

visto parlando di Spartacus Picenus. È il modo attraverso<br />

il quale si riesce a far circolare le idee, le parole d’ordine, utiliz-<br />

1. Michele L. Straniero; 2. Pietro Nenni; 3. Palmiro Togliatti; 4.<br />

Giobatta Gianquinto; 5. Alcide De Gasperi; 6. Benito Mussolini;<br />

7. Mario Scelba (fondazionegiannipellicani.it).<br />

zando spesso più l’ironia che l’invettiva, poiché<br />

il fascismo ai tempi di Starace era sì feroce,<br />

ma nello stesso tempo ridicolo e grottesco.<br />

«Quando bandiera rossa se cantava / co<br />

trenta franchi al mese se magnava / adesso<br />

che se canta giovinessa / se va in leto co la<br />

debolessa…».<br />

«Quando vedrai Petacci in bicicletta / vuol<br />

dire che Benito l’è in bolletta / … / quando<br />

vedrai brillar la stella rossa / vuol dire che Benito<br />

è nella fossa».<br />

«Benito, Benito, / ti n’à ciavà puito / ti n’à calà la paga / ti<br />

n’à cressuo l’afito».<br />

Canti come questi godevano anche di una notevole diffusione,<br />

almeno nelle regioni del nord, tant’è che ne esistono versioni<br />

analoghe in dialetti diversi.<br />

Il primo bersaglio, dopo la liberazione e all’indomani della<br />

5. 6.<br />

fine dei governi di unità nazionale, è il nuovo partito di potere,<br />

la Democrazia Cristiana, e i suoi principali rappresentanti:<br />

«Con De Gasperi alla testa / non si mangia la minestra /<br />

noi vogliamo un altro capo / che mantenga l’unità. / E con de<br />

Gasperi non si va – e non si va / l’è contro noi lavorator – lavorator<br />

/ vogliam Togliatti / Nenni i capi del lavor. / … / E De<br />

Gasperi in pignata / e Stalin al ghi fa fuoco / e Togliatti tasta<br />

il brodo / se l’è zevat o salà».<br />

Dopo questo periodo eroico, che arriva fino ai primi anni<br />

sessanta, la canzone politica prende un nuovo impulso grazie<br />

al lavoro di ricercatori e autori che sono stati spesso argomento<br />

di altri articoli su questa rivista.<br />

Nelle raccolte di canti che sono state realizzate da allora sino<br />

a oggi le nostre canzoni sono state spesso riportate come<br />

«canti comunisti». Faccio fatica a inquadrare come tale, per<br />

esempio, «Nina ti te ricordi», però è vero che la maggior parte<br />

di noi militava in gruppi e partiti della sinistra oppure se<br />

ne sentiva parte ideologicamente. Ma le canzoni hanno incominciato<br />

a respirare un’aria di libertà ideale che ci ha permesso<br />

di percorrere itinerari diversi e diversificati, anche perché<br />

ben diversa e diversificata è diventata negli anni la «sinistra»<br />

a cui ci siamo riferiti.<br />

La diffusione della canzone sociale avvenuta negli anni settanta<br />

ha prodotto decine di gruppi musicali e Canzonieri che<br />

hanno ripreso e riproposto questi repertori, che hanno composto<br />

nuove canzoni, spesso legate a situazioni di lotta nelle<br />

fabbriche, nei campi, nella scuola, nella società.<br />

«Alle sbarre qui di Reggio / ogni giorno si sta peggio / i<br />

bambini mezzi nudi / hanno un prato di rifiuti / l’immondizia<br />

per giocare / l’epatite per morire / qui la gente ha la rabbia /<br />

di chi cresce in una gabbia» (Canzoniere delle Lame 1971) ◼<br />

7.<br />

l’altra musica 51


52<br />

arte<br />

Giuseppe Capogrossi<br />

secondo<br />

Luca Massimo Barbero<br />

a cura di Ilaria Pellanda<br />

La Collezione Peggy Guggenheim si prepara<br />

a rendere omaggio a Giuseppe Capogrossi (1900-<br />

1972), uno dei protagonisti assoluti della scena artistica<br />

del secondo dopoguerra, il<br />

cui segno inconfondibile, così come il ge-<br />

sto di Lucio Fontana e la materia di Alberto<br />

Burri, ha lasciato una traccia indelebile<br />

nella storia dell’arte italiana del xx secolo.<br />

Sarà Luca Massimo Barbero, curatore associato<br />

della Collezione veneziana, ad avere<br />

preziosa cura di una mostra che porta avanti<br />

la linea d’indagine perseguita attraverso le recenti perso-<br />

nali dedicate ad Adolph Gottlieb, Lucio Fontana, William<br />

Baziotes, Jackson Pollock, Germaine Richier e Richard Pousette-Dart,<br />

e incentrata sull’emblematica generazione d’artisti<br />

internazionali il cui linguaggio pittorico nasce e matura<br />

negli anni del collezionismo di Peggy.<br />

Capogrossi. Una retrospettiva, realizzata in collaborazione<br />

con la Fondazione Archivio Capogrossi di Roma, intende<br />

ripercorrere l’iter artistico del maestro romano portando in<br />

scena oltre settanta opere: partendo dagli esordi figurativi<br />

degli anni trenta, contraddistinti da una pittura tonale densa<br />

di contenuti originali che si snoda durante il periodo della<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Collezione Peggy Guggenheim<br />

dal 29 settembre 2012<br />

al 10 febbraio 2013<br />

Scuola Romana, si arriva, attraverso un breve momento cosiddetto<br />

neocubista, alla produzione astratta degli anni cinquanta<br />

e sessanta, con le grandi tele dominate dalla formasegno<br />

che, coniugandosi in infinite composizioni, giunge a<br />

costruire lo spazio del quadro, rappresentazione simbolica di<br />

una interiore organizzazione spaziale. Le opere di Capogrossi<br />

sono dominate da quell’innovativo «alfabeto» che ha reso<br />

celebre l’artista, e in esse si fa sempre più chiara l’importanza<br />

del segno che caratterizza in modo assolutamente personale<br />

la sua ricerca.<br />

Di tutto questo, e di molto altro ancora, ci parla Luca Massimo<br />

Barbero, che abbiamo incontrato in una torrida mattina<br />

di agosto.<br />

«In questa esposizione è innanzitutto<br />

ravvisabile una sorta di continuità con<br />

un certo tipo di “studio” che vado perseguendo<br />

da un po’ di tempo e che si concentra,<br />

nel mio lavoro con la Collezione Peggy<br />

Guggenheim, nella volontà di far scoprire<br />

al pubblico, non solo nazionale ma anche<br />

internazionale, i protagonisti del nostro<br />

dopoguerra, forse uno degli aspetti che maggiormente<br />

mi colpisce della storia dell’arte protocontemporanea. Do-<br />

po Fontana e insieme a Burri – anche se quest’ultimo non lo<br />

abbiamo ancora celebrato con una vera e propria antologica<br />

– Capogrossi è il terzo grande protagonista del dopoguerra<br />

italiano; e se Fontana è il gesto e Burri la materia, Capogrossi<br />

è sicuramente il segno. Si tratta di un autore con il quale<br />

tutti pensiamo d’avere grande confidenza, perché il suo sim-<br />

Alcune opere di Giuseppe Capogrossi.<br />

A sinistra, Superficie 210 (1957, olio su tela, 206.4 x 160 cm<br />

Solomon R. Guggenheim Museum, New York).<br />

A destra, Superficie 137 (1955, olio su tela, cm 195 x 160<br />

collezione privata, courtesy Galleria Tega, Milano).


olo è così famoso da essere immediatamente riconoscibile.<br />

In realtà è un pensiero che si basa su fondamenta tutt’altro<br />

che solide: non sono state realizzate molte esposizioni dedicate<br />

a questo artista romano, e una monografia come quella<br />

che presenteremo in occasione dell’esposizione che si aprirà<br />

il 29 settembre – che, fra le altre cose, darà alla luce ben<br />

undici saggi – non viene stampata da trenta o quarant’anni.<br />

Una mostra anche di studio, dunque, che ben rappresenta<br />

una delle peculiarità delle esposizioni da me curate.<br />

Da dove provengono le opere? Ci saranno solo lavori su tela o<br />

anche su carta?<br />

La maggioranza delle opere scelte saranno su tela, ma ce ne<br />

sarà anche qualcuna su carta. Sarà esposta la grandiosa tela<br />

acquisita nel 1958 dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim<br />

di New York, Superficie 210 (1957), avremo quadri che<br />

vennero presentati durante le Biennali di <strong>Venezia</strong> e ci sarà un<br />

lavoro del ’33 che non torna in Italia da quella data e che arriverà<br />

dal Centre Pompidou di Parigi; poi ancora dipinti da<br />

Roma, da Rovereto e da quasi tutti i musei italiani più importanti.<br />

La mostra ha una peculiarità che sorprenderà molto,<br />

in quanto prenderà il via da alcune opere figurative degli<br />

anni trenta: spesso dimentichiamo che, in quel periodo, Capogrossi<br />

fu uno dei fondatori – con Corrado Cagli, EmanueleCavalli<br />

e pochi altri<br />

– della Scuola<br />

Romana,<br />

e proprio per<br />

questo le prime<br />

stanze sarannodedicate<br />

alla ricerca<br />

svolta su<br />

tela in quegli<br />

anni. Vi sarà<br />

poi una sezione<br />

ancora più<br />

sorprendente<br />

dal punto di<br />

vista filologico,<br />

quella che<br />

narrerà il passaggio,<br />

fra il<br />

1946-’47 e il<br />

’50, dal figurativo<br />

al cosiddetto<br />

non<br />

figurativo. La<br />

mostra, che esporrà anche il grande arazzo che il maestro eseguì<br />

per il transatlantico Michelangelo (si trovava nella parete<br />

di prua del soggiorno di quello che fu l’ultimo transatlantico<br />

costruito per la Società Italiana. La nave rimase in servizio<br />

per soli dieci anni, dal 1965 al 1975, prima di essere posta in<br />

disarmo per via delle ormai insostenibili perdite economiche<br />

del servizio passeggeri, ndr), sarà suggellata da un video inedito<br />

– realizzato con Zenit e della durata di quindici minuti<br />

– che racconterà la storia del famoso segno di Capogrossi, di<br />

questo «elemento», come lui lo chiamava.<br />

In molti lo chiamano «la forchetta»…<br />

In realtà Capogrossi ha sempre sostenuto che non significasse<br />

quasi nulla e soffriva molto dell’oggettivazione di un<br />

A sinistra, Il Temporale (1933, olio su tela, 108 x 90 cm<br />

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna).<br />

A destra, Sole di Mezzanotte (1952, olio e tempera su tela , 98,5 x<br />

66 cm Collezione Maramotti, Reggio Emilia);<br />

(tutte le immagini: © Giuseppe Capogrossi, by SIAE 2012).<br />

elemento che lui considerava invece come qualcosa di sospeso,<br />

astratto e quasi metafisico. A mio parere si tratta di un elemento<br />

dotato di una forza originale e straordinaria che, in<br />

un qualche modo, nelle composizioni di Capogrossi va a determinare<br />

lo spazio: un elemento quindi tutt’altro che grafico<br />

e decorativo ma, piuttosto, strutturale, dalla forza quasi<br />

morale. Capogrossi parlava addirittura del bisogno di realizzare,<br />

in un momento come quello del passaggio immediato<br />

dal secondo dopoguerra, qualcosa che fosse in grado di rimuovere<br />

l’idea di semplice realismo.<br />

Che dialogo viene a instaurarsi tra le opere in mostra?<br />

L’allestimento è molto semplice e avrà una parte iniziale<br />

che dagli anni trenta arriverà alla metà dei quaranta: si tratta<br />

di una sezione di galleggiamento, una zona particolarmente<br />

scura dove i quadri verranno illuminati in una sorta di sospensione<br />

buia del tempo. Poi esploderà il caso-Capogrossi<br />

legato all’astrazione e tutto diverrà chiaro, bianco, contemporaneo,<br />

salvo ogni tanto incontrare delle pareti blu, quel-<br />

lo stesso colore che nel ’54 la Biennale utilizzò per presentare<br />

le nuove opere nella prima sala che Capogrossi ebbe per i<br />

suoi lavori astratti. La volontà è quella di provare a capire come<br />

l’artista già nel figurativo cercasse di lavorare a uno spazio<br />

molto ricco e però quasi bidimensionale, a un’idea di prospettiva<br />

diversa che non tralasciava un certo tipo di rapporto<br />

con la geometria. Verrà poi raccontato il viaggio a Vienna<br />

degli anni quaranta, lo studio delle finestre, che in realtà sono<br />

delle persiane e che narreranno delle cose molto curiose.<br />

Insomma, abbiamo costruito un filo rosso che permetterà di<br />

scorgere in che modo quest’uomo leggesse la natura, la realtà.<br />

Come dicevo, è da tantissimi anni che non si rivede «fisicamente»<br />

Capogrossi, un pittore molto raro e tuttavia forse<br />

il più noto all’estero, fra gli italiani, negli anni cinquanta<br />

e sessanta. Essere riusciti a radunare così tante opere rende<br />

quest’occasione davvero unica. ◼<br />

arte 53


IL RIDOTTO<br />

d i <strong>Venezia</strong><br />

★ ★ ★ la prima rivista in rete ★ ★ ★<br />

★ ★ ★ di attualità culturali ★ ★ ★<br />

★ direttore editoriale - roberto bianchin ★<br />

★ direttore responsabile - luca colferai ★<br />

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quello che gli altri non scrivono lo scriviamo noi<br />

Pubblicato da «I Antichi» Editori - <strong>Venezia</strong><br />

Registrazione presso il Tribunale di <strong>Venezia</strong> 172/10 n. 3 del 29 gennaio 2010<br />

c.f. p.i. 03631220278


A Ca’ Rezzonico<br />

l’opera grafica<br />

dei Tiepolo<br />

Con «Tiepolo Nero. Opera grafica e matrici incise»<br />

arrivano in laguna, dopo essere state esposte<br />

al m.a.x.museo di Chiasso e all’Istituto<br />

nazionale per la Grafica di Roma, le<br />

incisioni dei Tiepolo: i Capricci e gli Scherzi di fantasia<br />

di Giambattista e la serie della Fuga in Egitto del<br />

figlio Giandomenico. Ma soprattutto, per la prima<br />

volta esposte al pubblico, alcune delle matrici in rame<br />

che le hanno generate, restaurate dalla massima<br />

autorità italiana in materia: il citato Istituto nazionale per la<br />

Grafica di Roma.<br />

L’interpretazione delle trentacinque acqueforti di Giambattista<br />

Tiepolo, divise nelle due celebri serie note come Capricci<br />

e Scherzi di fantasia, ha occupato diverse generazioni di<br />

critici, eruditi e studiosi dell’arte: vi si ritrovano infatti maghi,<br />

satiri, soldati, astrologhi, filosofi, giovani uomini e donne<br />

e, immancabile, pulcinella, inseriti in paesaggi con piramidi<br />

e are decorate con mascheroni e bucrani, popolati da cani,<br />

asini, scimmie, capre, gufi e serpenti, teschi e ossa, e dove<br />

addirittura la morte in persona concede udienza. Giambattista,<br />

molto richiesto dai grandi dell’epoca per la decorazione<br />

delle loro sfarzose residenze con enormi e coloratissimi<br />

affreschi celebrativi della propria condizione e delle proprie<br />

gesta, realizza in privato queste incisioni, che non erano<br />

destinate al mercato. In tali opere, di evidente perizia tecnica<br />

e stilistica, Tiepolo esprime al massimo la sua sconfinata<br />

Uno Scherzo di Giambattista Tiepolo<br />

e una scena della Fuga in Egitto del figlio Giandomenico.<br />

di Eva Rico<br />

<strong>Venezia</strong><br />

Ca’ Rezzonico<br />

fino al 14 ottobre<br />

creatività, il suo carattere stravagante e anche la sua immensa<br />

erudizione. Questi lavori, di enorme attualità, rispecchiano<br />

le inquietudini dell’uomo del suo tempo, in un momento<br />

nel quale l’Illuminismo e la ragione convivono con la stregoneria<br />

e la magia. Fu il figlio Giandomenico a pubblicare per<br />

la prima volta l’opera incisoria del padre dopo la sua scomparsa,<br />

e già nel titolarla ci diede la chiave di lettura: Giambattista,<br />

facendo uso della sua incredibile immaginazione,<br />

riunisce i bizzarri protagonisti delle sue incisioni in maniera<br />

appunto capricciosa, scherzosa, fantasiosa. Osservando le<br />

opere in mostra emergono elementi ricorrenti come<br />

il fascino dell’inesplicabile e del misterioso, un’in-<br />

tima riflessione sul declino, un continuo riferimento<br />

alla morte, e anche la volontà di esprimere al massimo<br />

la propria creatività in opposizione all’accademismo<br />

e lontano della retorica autocelebrativa della<br />

decorazione di palazzi, ville e chiese.<br />

Nella deliziosa serie della Fuga in Egitto poi, se da un lato<br />

ancora una volta Giandomenico dimostra la sua bravura<br />

come disegnatore anche nella difficile arte dell’incisione,<br />

dall’altro si distingue per la delicatezza con cui rappresenta<br />

la Sacra Famiglia: una giovane Madonna che appare sempre<br />

serena e addirittura sorridente, sostenendo amorosamente<br />

il bambino fra le braccia ma dedicando anche teneri sguardi<br />

allo sposo, metre Giuseppe fa strada girando continuamente<br />

gli occhi per assicurarsi di avere lasciato indietro il pericolo<br />

o che gli amati moglie e figlio lo seguano, aiutati e accuditi<br />

da solleciti angeli.<br />

Ma l’incredibile maestria e inventiva dei Tiepolo si vede<br />

soprattutto nelle matrici in rame da poco restaurate: sono<br />

immagini spesso direttamente concepite e incise sulla lastra,<br />

dove con grande abilità le figure vengono modulate con segni<br />

lievi e producono sorprendenti effetti di chiaroscuro e di<br />

profondità, dosando saggiamente le morsure dell’acido o facendo<br />

più fitto il disegno per catturare maggiore quantità di<br />

inchiostro. Oltre ad alcuni esempi delle lastre che danno origine<br />

alle Fantasie e agli Scherzi già menzionati, si possono<br />

gustare la deliziosa Adorazione dei maghi di Tiepolo padre e<br />

un’interessantissima serie di lastre con studi di teste portati<br />

a termine dal figlio Giandomenico.<br />

La possibilità di confrontare le matrici in rame con le acqueforti<br />

costituisce una rara e imperdibile occasione di approfondire<br />

lo studio della parte meno nota della produzione<br />

artistica dei Tiepolo. La mostra, nata dalla collaborazione<br />

delle diverse istituzioni già ricordate in apertura, è stata curata<br />

da Lionello Puppi e Nicoletta Ossanna Cavadini, che firmano<br />

anche il catalogo edito da Mazzotta. ◼<br />

arte 55


56<br />

cinema<br />

Un ritratto<br />

di Francesco Rosi,<br />

Leone d’oro<br />

alla carriera 2012<br />

di Roberto Pugliese<br />

Il cinema di Francesco Rosi, Leone alla carriera<br />

della Biennale alla lxix Mostra di <strong>Venezia</strong> quasi mezzo<br />

secolo esatto dopo il Leone d’oro vinto con Le mani<br />

sulla città, appartiene ad una stagione e ad un’epoca<br />

culturali e storiche che, benché ci appaiano oggi remotissime,<br />

quasi arcaiche, fanno invece parte della nostra contemporaneità:<br />

anzi, la sostanziano, la innervano e le conferiscono<br />

un valore altrimenti destinato a disperdersi nei volatili<br />

fluidi dell’effimero o nella volgare precarietà del nostro<br />

presente.<br />

Era quello che si chiamava «cinema di impegno civile»,<br />

con una ridondanza che oggi muove al sorriso: quasi potesse<br />

esistere una forma di «impegno incivile» o una qualsiasi<br />

forma di civiltà fondata sul disimpegno. Sia chiaro: esiste<br />

fortunatamente anche ai nostri giorni, trasmessa nelle forme<br />

più varie, una vena di cinema italiano diversamente «engagé»,<br />

battagliero, di denuncia, di documentazione, di indignazione:<br />

o sub specie docu-satirica (Videocracy, Draquila)<br />

o di docudrama ben più duro (Diaz) o di fiction grottesca<br />

(Il divo) o di ricostruzione storica non convenzionale (L’uomo<br />

che verrà), per non citare che alcuni titoli. Ma il cinema<br />

di questo gentiluomo napoletano d’altri tempi, colto e raffinato,<br />

popolare senza mai essere populista, ha occupato l’intera<br />

seconda metà del Novecento con caratteristiche del tutto<br />

proprie e irripetibili: in testa a tutte, l’invenzione di quel<br />

particolare genere chiamato «film-inchiesta», a cominciare<br />

da Salvatore Giuliano del 1962, che – lungi dal rifarsi a<br />

cascami neorealisti – coniugava un approccio documentale,<br />

cronachistico, investigativo su fatti e aspetti tra i più scabrosi<br />

e scottanti dell’Italia di quegli anni con una ricostruzione<br />

romanzesca, squisitamente narrativa e avvincente, fondata<br />

sull’utilizzo strepitoso ed efficacissimo di grandi atto-<br />

ri, italiani e stranieri, da Rod Steiger a Frank Wolff, da Alberto<br />

Sordi a Josè Suarez da Lino Ventura a – soprattutto<br />

– Gianmaria Volonté, che diventerà di fatto l’attore-feticcio<br />

delle «drammatizzazioni» di Rosi, metamorfizzandosi<br />

da autentico, incredibile camaleonte in una serie di ruoli reali<br />

o immaginari (Enrico Mattei, Lucky Luciano, il tenente<br />

Ottolenghi di Uomini contro, il Cristof Bedoya di Cronaca di<br />

una morte annunciata) che divengono specchi e maschere di<br />

altrettante narrazioni incise sanguinosamente nella storia.<br />

Una formula, quella del film-inchiesta, con la quale Rosi<br />

anticipa di parecchio le pulsioni ribellistiche del cinema<br />

militante postsessantottino dei Bellocchio, Faenza, Taviani,<br />

Samperi, Cavani, peraltro rimanendo costantemente fedele<br />

ad un rigore linguistico e narrativo che non esclude affatto,<br />

anzi, la chiarissima scelta di campo civile e ideologica<br />

del regista, ma nemmeno vuol rinunciare alle potenzialità<br />

drammaturgiche del racconto cinematografico, persuaso<br />

al contrario che proprio in queste trovi ancora maggior linfa<br />

e forza la voce insopprimibile della denuncia e della battaglia<br />

delle idee.<br />

In realtà nel cinema del regista partenopeo è costante una<br />

meditazione analitica più vasta e profonda sulla Storia come<br />

palcoscenico spesso crudele della condizione umana e delle<br />

sue contraddizioni, non solo sociali e politiche ma anche<br />

psicologiche ed esistenziali, ravvisabile sin dalle prime esperienze<br />

come sceneggiatore per il maestro Luchino Visconti<br />

(La terra trema, Senso); essa permette a Rosi di espandere<br />

la propria ricerca narrativa anche in altre direzioni, oltre<br />

a quella del film-inchiesta e del docu-drama, spesso e volentieri<br />

appoggiandosi a testi letterari fondativi del Novecento,<br />

ma in ogni caso essenziali alla riflessione storica del regista,<br />

come nel caso di La tregua di Primo Levi, progetto già<br />

accarezzato nei primi anni ottanta ma poi sospeso per il suicidio<br />

dello scrittore e portato a termine solo nel ’97 (rimane<br />

il suo ultimo film), o di Cronaca di una morte annunciata<br />

(1987) di Gabriel García Marquez, o di Cadaveri eccellenti<br />

(1976) di Leonardo Sciascia, o ancora di Cristo si è fermato<br />

a Eboli (1979) di Carlo Levi. Inoltre, l’irrefrenabile curiosità<br />

intellettuale dell’autore lo ha portato più di una volta verso<br />

digressioni stilistiche e di genere apparentemente di difficile<br />

decifrazione o in conflitto con l’anima più rigorosa e severa<br />

della sua opera, come nel caso della fiaba all-star C’era<br />

una volta (1967), con Sofia Loren e Omar Sharif, girata qua-


si provocatoriamente proprio alla vigilia del rovente Sessantotto<br />

o, nell’84, di un colorito e ipernaturalistico adattamento<br />

della Carmen di Bizet, con Julia Migenes-Johnson, Placido<br />

Domingo e Ruggero Raimondi.<br />

Si evincono bene da questi dati la complessità e la ricchezza<br />

della personalità di Francesco Rosi e il valore, la potenza<br />

rappresentativa del suo cinema e del suo modo di incidere<br />

nella realtà e nelle sue varie raffigurazioni, anche spettacolari.<br />

Non va infatti mai dimenticato che Rosi è anche, forse<br />

soprattutto, un formidabile uomo di spettacolo in senso il<br />

più ampio possibile: dal teatro di prosa all’opera lirica, dalla<br />

fiction al documentario, ogni forma di messinscena lo attrae<br />

e lo stimola. Pertanto, l’efficacia documentale, sociale e<br />

ideale del suo cinema non prescinde – al contrario – dall’impianto<br />

narrativo ma vi si integra, utilizzando stilemi di vari<br />

generi (gangster movie, melodramma, commedia, noir, film<br />

di guerra, film-opera) alla ricerca persistente di un contatto<br />

quanto più possibile immediato con il pubblico.<br />

Francesco Rosi è infatti un cineasta «popolare», quando<br />

la parola non equivaleva ancora ad un insulto, ed è nello<br />

stesso tempo un cineasta di élite, selettivo, dal linguaggio,<br />

dal lessico non sempre facilmente accessibili, e dallo sguardo<br />

spesso profetico. Quasi mezzo secolo prima di Gomorra,<br />

scende con il suo esordio da regista in proprio La sfida (1958)<br />

nei vicoli della nativa Napoli per raccontare con durezza e<br />

asciuttezza ma anche con immensa umanità, grazie alla penna<br />

della grande e spesso a lui vicina (così come Tonino Guerra)<br />

Suso Cecchi d’Amico, una storia di camorra, di amicizia<br />

e di famiglia. E l’anno dopo, con I magliari, aspra tragicommedia<br />

su malavita e immigrazione, è tra i pochissimi a cercare<br />

con successo di sfruttare al massimo le (esilissime) doti di<br />

Alberto Sordi come attore drammatico. Ma è con Salvatore<br />

Giuliano e Le mani sulla città (1962 e ’63) che Rosi declina<br />

perentoriamente le generalità del proprio cinema di denuncia<br />

e di ricerca, iniziando a chiamare con nome e cognome<br />

alcune delle più inquietanti zone d’ombra della nostra storia<br />

recente: il primo, con una geniale struttura a flashback, rievoca<br />

la vicenda del bandito separatista siciliano autore della<br />

strage di lavoratori di Portella della Ginestra, della sua morte<br />

violenta nel 1950 e delle collusioni già vivissime fra mafia<br />

e ambienti reazionari; il secondo, forte di una drammaturgia<br />

ferrigna, squadrata, semidocumentaristica, affonda il bisturi<br />

nello scandalo della speculazione edilizia e nell’abbraccio<br />

mortale tra malaffare, apparati dello Stato e malavita. Le<br />

apparenti digressioni di Il momento della verità (1965), girato<br />

in Spagna e storia di un contadino che per sfuggire alla<br />

miseria affronta il destino dell’arena, e del già citato C’era<br />

una volta, prelude al trittico-Volonté<br />

Uomini contro,<br />

Il caso Mattei (Palma d’oro<br />

a Cannes nel ’72) e Lucky<br />

Luciano: sorta di Orizzonti<br />

di gloria italiano il primo,<br />

da Un anno sull’Altipiano di<br />

Emilio Lussu, straziante ancorché<br />

un po’ enfatico anatema<br />

pacifista, ritratti in piedi<br />

gli altri due di un antieroe<br />

dell’imprenditoria italiana e<br />

di un gangster sui generis, entrambi<br />

con fortissimo spirito<br />

d’indagine sui retroscena,<br />

i misteri e le aree oscure dei<br />

rapporti fra potere, finanza e<br />

politica. Se Cadaveri eccellenti<br />

cala ancora una volta l’argomento<br />

mafioso in una tipica<br />

atmosfera sciasciana da incubo<br />

insolubile e kafkiano, Cristo<br />

si è fermato a Eboli e il successivo<br />

Tre fratelli (1981) dimostrano<br />

una nuova fase creativa<br />

del regista, più intima e<br />

personale, memorialistica e<br />

lirica, letteraria e pacata ma,<br />

come attesta la già ricordata<br />

trasposizione marqueziana<br />

dell’87, non meno intransigente.<br />

Dimenticare Palermo,<br />

del ’90, robusto film di mafia<br />

aggiornato ai tempi, con Jim<br />

Belushi, Vittorio Gassman, è<br />

una nuova imperiosa dimostrazione<br />

di vitalità così come, dopo Diario napoletano, amaro<br />

e disilluso ritorno documentaristico nella realtà napoletana<br />

a trent’anni da Le mani sulla città, lo è ancor di più La tregua<br />

(1997), in cui le pagine implacabili di Primo Levi si decantano<br />

in un racconto intriso di sfumature e sottigliezze,<br />

dove l’atrocità dell’argomento non conosce né la retorica né<br />

gli stereotipi di tanto coevo cinema sulla Shoah.<br />

In tutto questo percorso, coerente e di straordinaria compattezza<br />

pur nella diversità dei risultati, il faro ispiratore di<br />

Rosi è sempre rimasto quello dell’approfondimento, della<br />

perlustrazione, dell’indagine pubblica e privata. Un maestro<br />

di cinema e di coscienza civile, in sintesi, per il quale «il<br />

momento della verità» non è mai sterile esercizio memorialistico<br />

o passato da archiviare, ma irrinunciabile viatico per<br />

un futuro migliore. ◼<br />

cinema 57


58<br />

letteratura<br />

«Se ti abbraccio<br />

non aver paura»,<br />

storia di un padre<br />

e un figlio<br />

di Mariano Beltrame<br />

Si dice che gli scrittori cerchino storie. Ogni<br />

tanto le storie li scovano. In entrambi i casi bisogna<br />

scriverle. Possibilmente bene.<br />

Se ti abbraccio non aver paura racconta una storia<br />

vera: il viaggio che un padre, Franco, compie nell’estate del<br />

2010 con un figlio. Sbarcano a Miami, partendo da Treviso,<br />

affittano una Harley Davidson e tagliano gli usa da costa a<br />

costa. Poi saltano in Messico, attraversano il Centro America<br />

e finiscono ad Arraial d’Ajuda, in Brasile.<br />

La solita vacanza? Sì, se Andrea, figlio di Franco, sedici anni,<br />

non fosse un ragazzo autistico. Allora è, come minimo,<br />

una vacanza complicata. O forse non è una vacanza. Forse<br />

c’è qualcosa di più.<br />

L’autismo viene spesso descritto come mancanza di relazione<br />

con gli altri, comportamenti stereotipati, scarsa autonomia<br />

personale. Portare in viaggio un ragazzo autistico implica<br />

imprevedibilità, difficoltà di gestione, grandi sforzi di<br />

comunicazione.<br />

Una gran fatica, per decine e decine di migliaia di chilometri.<br />

Perché, allora, un simile sforzo? Per dimostrare che cosa?<br />

Il romanzo ci racconta di un padre che, contro il parere di<br />

medici e amici, decide di partire, di far vedere un po’ di mondo<br />

al figlio autistico, convinto che questo abbia un effetto<br />

«curativo» superiore al tenerlo in qualche stanza, oppure<br />

sulla spiaggia di Jesolo. E in questo «cibarsi del mondo»,<br />

questo cambiare continuamente sfondo, si produce un’incredibile<br />

intimità tra padre e figlio, si rafforza un legame: affrontare<br />

assieme mille intoppi, e superarli, produce l’effetto<br />

positivo di essere capaci di agire e non subire.<br />

Ecco, il romanzo contiene il resoconto degli sforzi di adattamento<br />

a una situazione complessa, l’amore che il padre deve<br />

mettere in campo per stare, ogni giorno, a contatto con<br />

la mente autistica. Nell’era della comunicazione, l’autismo<br />

rappresenta una sfida: significa difficoltà di interpretare desideri,<br />

emozioni, le poche parole e confrontarsi con la ripetitività<br />

delle azioni, nella scelta del cibo, nei riti quotidiani.<br />

È un mondo fatti di colori, un periodo rosso e poi uno verde;<br />

di suoni in sottofondo, musica sempre e ovunque, talvolta<br />

ad alto volume e altre volte appena sussurrata; di acqua<br />

che scorre, come nei fiumi, o acqua in cui immergersi, come<br />

nei laghi, o di onde oceaniche dove lasciarsi cullare, per ore<br />

e ore. Senza sosta.<br />

La storia arriva all’autore quasi per caso. Il padre, Franco,<br />

tornato dal viaggio sente di dover raccontare l’esperienza e<br />

cerca qualcuno che lo aiuti. Racconterà allo scrittore, per undici<br />

mesi, i suoi ricordi di viaggio, le emozioni, le riflessioni.<br />

L’autore raccoglie ogni dettaglio e per un altro anno lavora<br />

pazientemente alla composizione del romanzo. Scritto<br />

in prima persona, diventando il padre narrativo di Andrea.<br />

Perché questo romanzo è anche una storia di padri. Ce<br />

n’è bisogno. ◼<br />

Una conversazione<br />

con Fulvio Ervas<br />

Quali sono state le motivazioni del padre per questo<br />

viaggio: raccontare un’avventura speciale, far conoscere<br />

di più l’autismo, dare una lezione di vita a tutti<br />

i genitori?<br />

Franco potrebbe averlo fatto per tutte queste cose messe<br />

assieme, perché sono connesse: per mettere nero su bianco<br />

un’esperienza personale molto forte; perché voleva che suo figlio<br />

uscisse da quella «terra di nessuno», come dicono molti<br />

genitori di figli autistici; perché i genitori che non vivono<br />

una relazione così complessa potessero vedere. O forse niente<br />

di tutto questo, perché potrebbero essere solo ipotesi razionali<br />

che facciamo noi. Forse solo un bisogno di libertà, istintivo,<br />

potente, che non si ferma nemmeno davanti all’autismo<br />

e, anzi, lo sfida. Ogni tanto, fuori dagli schemi, si respira.<br />

È stato difficile misurarsi con una storia vera come questa? E<br />

cosa pensa di aver detto, nel libro, ad Andrea?<br />

Misurarsi con un pezzo di vita vera, diretta, vestirla con le<br />

parole della narrazione è stata una grande esperienza. Ci sono<br />

stati molti momenti del viaggio che mi hanno colpito ed<br />

emozionato, anche divertito, perché si sorride spesso nel racconto.<br />

Nonostante la malattia, il viaggio non è stato un salto<br />

nel buio: piuttosto una sequenza di voli che puntavano verso<br />

il cielo. Ed è stato un viaggio anche per me, fatto di tante tappe<br />

personali: la mia genitorialità, il mio lavoro di insegnante,<br />

le esperienze con studenti complicati, anche autistici. Raccontare<br />

la storia di Franco e Andrea è stato mettersi in un incrocio<br />

dove confluivano strade provenienti da lontano. Andrea<br />

è pieno di sfumature, alle volte davvero sottili: quando<br />

affiorano le emozioni è come assistere al cambiamento di forma<br />

delle nuvole. Quello che ho potuto dirgli, sta tutto nel libro:<br />

Andrea, la vita è «un po’ sì».<br />

Qual è la chimica della sua vita e della sua scrittura?<br />

Zucchero come preferenza alimentare, orto come sfondo<br />

visivo, niente fumo, molto movimento, ironia, guardare<br />

avanti e vedere la vita come un flusso, un metrò dove si sale e<br />

si scende, lasciando il posto a qualcuno senza averlo sporcato<br />

e la scrittura è una pagina bianca, nessun progetto, solo invenzione<br />

improvvisa, una mattina silenziosa, un paio di cani<br />

che gironzolano pigramente e poi la sensazione di un’onda<br />

che prende le singole parole e le trascina lontano. Ecco, la<br />

scrittura è un’onda con la schiuma.<br />

Sta già pensando al suo prossimo libro?<br />

Se riesco a prendere fiato, un’avventura dell’ispettore Stucky<br />

in Dalmazia. Forse… (m.b.) ◼<br />

Fulvio Ervas (caligola.it).


Nuovi workshop<br />

ai Tre Oci<br />

di Ilaria Pellanda<br />

Nella suggestiva cornice della Casa dei Tre<br />

Oci – splendida testimonianza dell’architettura<br />

veneziana di inizio Novecento che sorge sull’isola<br />

della Giudecca, al centro del bacino di San<br />

Marco, in una zona di eccezionale interesse storico, artistico<br />

e monumentale – si svolgerà in autunno la seconda serie di<br />

alcuni workshop dedicati alla fotografia.<br />

Il disegno fa parte di un progetto siglato tra la Fondazione<br />

di <strong>Venezia</strong>, la sua società strumentale Polymnia (proprietaria<br />

della splendida Casa progettata nel 1910 dal pittore Mario<br />

De Maria), Civita Tre Venezie e la Fondazione Forma in<br />

collaborazione con Veneto Banca.<br />

Le proposte formative promosse ai Tre Oci sono da considerarsi<br />

parte integrante di un progetto culturale ed espositivo<br />

più ampio e fortemente legato allo stretto rapporto fra<br />

arte e immagine, che immerge gli studenti che decidono di<br />

prendere parte a queste iniziative in un vero e proprio laboratorio<br />

di idee.<br />

«La Casa dei Tre Oci si candida a essere un punto di riferimento<br />

a <strong>Venezia</strong> e in Italia per quanto riguarda il tema<br />

delle arti visive e della contemporaneità», sottolinea Denis<br />

Curti, direttore scientifico della Casa veneziana. «Abbiamo<br />

quindi deciso di realizzare un progetto che da una parte desse<br />

spazio alle esposizioni vere e proprie – l’inaugurazione è<br />

avvenuta con la mostra di Elliott Erwitt Personal Best (cfr.<br />

vmed n. 46, pp. 60-61) – e dall’altra a tutta una serie di attività<br />

di studio del linguaggio visivo esplorato secondo molteplici<br />

declinazioni. Nel caso dei due workshop realizzati prima<br />

dell’estate e di quelli che avranno luogo in autunno, ci si<br />

è concentrati sul linguaggio fotografico».<br />

Il primo laboratorio, intitolato «Nudo in Laguna» e volto<br />

alla scoperta della bellezza femminile, è stato condotto da<br />

Settimio Benedusi, uno dei più importanti fotografi di moda,<br />

che ha guidato un gruppo di appassionati in un percorso<br />

progettuale sul tema dell’estetica.<br />

Il workshop «Storia della Fotografia» s’è invece svolto in<br />

un ciclo di quattro incontri durante i quali Italo Zannier ha<br />

tracciato un racconto per immagini sulla storia della fotografia,<br />

appunto, dall’Ottocento ai giorni nostri. La narrazione<br />

è stata integrata con l’analisi e l’illustrazione di alcuni volumi<br />

– che fanno parte della collezione della Fondazione di<br />

Alcuni momenti del workshop «Nudo in laguna»<br />

condotto ai Tre Oci da Settimio Benedusi<br />

lo scorso marzo (foto di Silvia Pasquetto).<br />

<strong>Venezia</strong> – in un dialogo costante che Zannier ha tenuto con<br />

gli iscritti per far loro conoscere e comprendere gli sviluppi e<br />

l’evoluzione dell’arte fotografica.<br />

Dopo la pausa estiva, con l’arrivo dell’autunno ricomincerà<br />

anche l’attività laboratoriale. A cavallo tra i mesi di settembre<br />

e novembre, infatti, prenderanno il via altri tre workshop,<br />

il primo dei quali, intitolato a «Fotografia e Cinema»,<br />

sarà condotto dalla regista Marina Spada e dal fotografo<br />

Cesare Cicardini, che si dedicheranno ai nuovi linguaggi<br />

della tecnologia contemporanea, tra immagini still e motion.<br />

«Mi sembrava molto interessante amalgamare il lavoro di<br />

questa regista con quello di Cicardini» – continua Curti –<br />

«senza dimenticare che nel suo penultimo film, Come l’ombra<br />

(2007, ndr), la Spada aveva chiesto la consulenza di Gabriele<br />

Basilico per realizzare i punti macchina, le inquadrature<br />

fisse, ancora una volta a ribadire il suo grande interesse<br />

nei confronti della fotografia».<br />

Sarà quindi la volta di Francesco Jodice e del suo «After<br />

The West. Fotografie e urbanesimo sul finire dell’Occidente».<br />

Dagli scontri di Teheran a quelli siriani, passando per<br />

le «rivolte dei gelsomini», il ruolo delle immagini sarà analizzato<br />

in relazione a nuovi e drammatici scenari, tra un paesaggio<br />

urbano-umano modificato e la rinascita del regime<br />

del visibile.<br />

«Figlio del grande maestro Mimmo Jodice, Francesco<br />

svolgerà una riflessione sul tema della contemporaneità che<br />

si declinerà attraverso un’indagine quasi poliziesca sul territorio:<br />

un ricercare che farà dello strumento fotografico non<br />

un mero congegno visivo che cattura ciò che l’occhio vede,<br />

ma piuttosto un mezzo che mette in scena la realtà cercando<br />

di recuperare tutti i linguaggi e tutte le mediazioni possibili<br />

con l’arte contemporanea».<br />

L’ultimo appuntamento è quello con «L’oggetto fotografico»<br />

di Alberto Prandi per una due giorni che consentirà ai<br />

partecipanti di acquisire confidenza con i metodi di identificazione<br />

dei procedimenti fotografici e la loro puntuale storicizzazione,<br />

interrogandosi sul consistente patrimonio di<br />

scatti accumulato nel tempo e sulla necessità di far partecipare<br />

all’opera d’arte materiali evocativi per i loro riferimenti<br />

temporali.<br />

«Il terzo workshop – conclude Curti – vuole ribadire il<br />

rapporto con il territorio: la Casa dei Tre Oci viene a tessere<br />

un rapporto con le Università veneziane cercandone la complicità<br />

e mettendo a disposizione i suoi spazi per svolgere alcuni<br />

corsi e per ospitare gli studenti. Questo è solo l’inizio di<br />

un programma che si svolgerà con queste modalità anche nel<br />

prossimo futuro: continueremo a realizzare mostre di fotografia<br />

ma anche workshop e incontri con i protagonisti della<br />

contemporaneità, che non è assolutamente detto apparterranno<br />

al mondo della fotografia in maniera esclusiva». ◼<br />

fotografia 59


60<br />

in vetrina<br />

<strong>Venezia</strong> tra salvaguardia<br />

e contemporaneità<br />

Una conversazione<br />

con Renata Codello<br />

a cura di Leonardo Mello<br />

Pur nel caldo afoso di questo agosto Renata Codello, Soprintendente<br />

per i Beni Architettonici e Paesaggistici<br />

di <strong>Venezia</strong> e Laguna, accetta gentilmente di rispondere<br />

a qualche domanda<br />

sulla nostra città,<br />

dal punto di vista artistico e<br />

culturale ma non solo.<br />

Prima di tutto vorrei chiederle<br />

qual è lo stato generale<br />

del patrimonio artistico veneziano,<br />

e quali sono, secondo<br />

lei, gli interventi prioritari<br />

da effettuare.<br />

Direi buono. I colleghi<br />

di Firenze e Roma ci fanno<br />

i complimenti soprattutto<br />

considerando l’altissimo<br />

numero di visitatori<br />

della città dove tutto è storico.<br />

I turisti ormai arrivano<br />

ovunque e quindi anche<br />

i problemi della tutela cambiano<br />

di scala. Con una<br />

battuta: tutto è prioritario<br />

a <strong>Venezia</strong>. Intendo dire che<br />

l’approccio conservativo è<br />

una modalità di pensare e<br />

di agire: talvolta restaurare<br />

un portone in legno è importante<br />

quasi quanto l’intera<br />

facciata di un palazzo.<br />

Comunque, basta confrontare<br />

le campagne fotografiche<br />

degli anni settanta e ottanta<br />

per vedere quanto sia<br />

migliorata la città. Per altro<br />

verso, non si fa mai abbastanza:<br />

la straordinaria<br />

bellezza dei luoghi contrasta<br />

con tutto ciò che è sciatto<br />

e degradato.<br />

Quali sono, a suo parere,<br />

gli esempi più riusciti di architettura<br />

contemporanea<br />

realizzati a <strong>Venezia</strong> in questi<br />

ultimi anni?<br />

Tengo a sottolineare che a<br />

<strong>Venezia</strong> ci sono molti esempi<br />

di architettura contemporanea:<br />

la città storica per<br />

eccellenza è un luogo ideale per la nuova architettura. I progetti<br />

più riusciti sono quelli che dialogano con la storia, ma<br />

non rinunciano a esprimere il pensiero progettuale di oggi:<br />

l’ampliamento del cimitero monumentale di David Chipperfield,<br />

la biblioteca della Manica Lunga alla Fondazione<br />

Cini di Michele De Lucchi, la punta della Dogana di Tadao<br />

Ando, l’ampliamento delle Gallerie dell’Accademia di Tobia<br />

Scarpa. Talvolta, le nuove architetture hanno bisogno di un<br />

po’ di tempo per integrarsi ma, in generale, il livello è molto<br />

più alto che in altre città.<br />

Nello specifico, e sempre parlando di architettura contemporanea,<br />

come si è strutturato il progetto di ampliamento<br />

delle Gallerie dell’Accademia, e quali sono state le fasi più<br />

importanti?<br />

Il complesso della Carità, che ospita le Gallerie, riunisce<br />

l’architettura tre-quattrocentesca della chiesa e della Scuola<br />

della Carità, uno straordinario edificio di Palladio, e una<br />

lunga manica ottocentesca realizzata da Francesco Lazzari.<br />

Occorreva conservare le fabbriche esistenti, rigenerare gli<br />

spazi deturpati dagli usi passati, realizzare sistemi impian-<br />

tistici molto avanzati e, al contempo, mantenere l’aura dei<br />

luoghi e offrirla ai nuovi visitatori. Un percorso lungo, minuzioso,<br />

in cui Tobia Scarpa ha disegnato migliaia di detta-<br />

Ampliamento delle Gallerie dell’Accademia: un disegno<br />

di Tobia Scarpa e il rendering dello spazio espositivo nell’ala Selva<br />

(soprintendenza.venezia.beniculturali.it).


gli che, come le tessere di un mosaico, sono tutte uniche nel<br />

concorrere alla qualità del progetto. Anche le soluzioni tecnologiche<br />

come la climatizzazione o il sistema di illuminazione<br />

degli ambienti e delle opere d’arte sono stati molto importanti.<br />

Alla fine il Museo avrà dodicimila metri quadrati<br />

di superficie, poco più degli Uffizi, realizzati con grande perizia<br />

esecutiva.<br />

In un’intervista di qualche tempo fa, lei diceva che a beneficiare<br />

dei flussi turistici sono soltanto alcune categorie, e continuava<br />

affermando che una<br />

tassa d’ingresso indistinta<br />

e per tutti non le sembrava<br />

una soluzione adeguata.<br />

Come si dovrebbe affrontare<br />

dunque il problema della<br />

sostenibilità di questi flussi?<br />

L’art. 9 della Costituzione<br />

dice che la Repubblica<br />

tutela il paesaggio e il patrimonio<br />

storico e artistico<br />

della Nazione. Tutti i<br />

cittadini ne fruiscono ma,<br />

appunto, è un patrimonio,<br />

un bene comune. Se alcuni<br />

lo usano come fonte di<br />

guadagno, devono trovare<br />

– più di altri – i modi per<br />

contribuire a mantenerlo<br />

disponibile per tutti. Troppo<br />

spesso si dimentica che<br />

il patrimonio storico non<br />

è una risorsa inesauribile,<br />

che la città si usura, si deteriora<br />

e non si può restaurare<br />

all’infinito. Per quanto<br />

riguarda i flussi turistici, il<br />

problema è molto complicato,<br />

mi piacerebbe che venisse<br />

affrontato sul serio e<br />

senza pregiudiziali.<br />

Spesso si sente dire dai visitatori,<br />

non senza ragione,<br />

che <strong>Venezia</strong> e i suoi abitanti<br />

non sono molto accoglienti<br />

e ospitali (a cominciare dai<br />

trasporti pubblici, sovraffollati<br />

e carissimi). D’altro<br />

canto i residenti vivono talvolta<br />

situazioni di oggettivo<br />

disagio. Pensa che si possa<br />

trovare un modo per coniugare le esigenze di chi viene a scoprire<br />

la città e quelle di chi la vive quotidianamente?<br />

Penso di sì ma, anche in questo caso, andrebbero superati<br />

molti luoghi comuni. <strong>Venezia</strong>ni sono i cittadini<br />

che hanno scelto di abitare qui, che amano<br />

e rispettano la città. L’iscrizione o meno<br />

all’anagrafe non è un parametro significativo.<br />

Va introdotto il concetto di «abitante equivalente»<br />

che vive in città almeno cinque giorni<br />

alla settimana anche se non ha la residenza.<br />

Per altro verso, se il disagio degli abitanti,<br />

a fronte del gran numero di turisti è reale,<br />

dobbiamo pensare che <strong>Venezia</strong> è come una<br />

In alto: la Punta della Dogana. Sopra: la Manica<br />

Lunga della Fondazione Cini (cini.it).<br />

A destra: la facciata delle Gallerie dell’Accademia.<br />

metropoli «giornaliera» e, quindi, lavorare su modelli diversi<br />

di sostegno a tutti gli abitanti. Trovo giusto che il prezzo<br />

del biglietto turistico sia alto. Per tanta bellezza, dovrebbe<br />

esserlo ancora di più.<br />

Data la situazione di crisi generalizzata, e la conseguente<br />

scarsità di finanziamenti pubblici, qual è secondo lei il modo<br />

migliore per attrarre fondi privati da destinare alla salvaguardia<br />

del nostro patrimonio?<br />

La condivisione delle responsabilità. Lo Stato non può<br />

pensare di mantenere questo sterminato patrimonio, deve<br />

condividere con i privati l’impegno della sua conservazione<br />

ma non solo a parole. Si dovrebbero sperimentare modalità<br />

diverse di collaborazione, valutandone<br />

poi i risultati e, alcuni,<br />

ci sono già. Un complesso sistema<br />

di norme allontana qualche<br />

buona intenzione dei privati,<br />

ma questi ultimi sono spesso<br />

improvvisati. L’attività di salvaguardia<br />

è un lavoro serio, culturale,<br />

scientifico e tecnico; soprattutto<br />

non è fatta dagli articoli<br />

dei giornali. Gli operatori<br />

delle soprintendenze restano<br />

sempre i più competenti in questi<br />

settori. ◼<br />

in vetrina 61


62<br />

in vetrina<br />

Le «Voci<br />

Fuori Campo»<br />

della Fondazione<br />

Pellicani<br />

Giorgio Napolitano ospite d’onore<br />

del Festival della Politica<br />

di Nicola Pellicani*<br />

La presenza del Presidente della Repubblica<br />

Giorgio Napolitano al Festival della Politica, in<br />

programma a Mestre dal 5 all’8 settembre tra piazza<br />

Ferretto e piazzetta Pellicani, costituisce il momento<br />

più alto di una manifestazione concepita per riportare<br />

l’attenzione sul pensiero politico, sul ruolo e<br />

sull’importanza strategica della politica nella società<br />

contemporanea. In una fase così complessa<br />

caratterizzata da un clima di preoccupante disaffezione<br />

per la politica e più in generale di sfiducia<br />

nei confronti dei partiti e delle istituzioni, il Festival,<br />

alla sua seconda edizione, intende contribuire<br />

a ritrovare il bandolo della matassa della Buona Politica e<br />

in questo senso la figura del Presidente, per il ruolo e il prestigio<br />

internazionale che ha saputo ritagliarsi in questi anni,<br />

rappresenta il punto di riferimento più significativo da cui<br />

ripartire. L’intervento del Presidente sarà il filo conduttore<br />

del Festival, la lezione permetterà di riordinare le parole della<br />

politica dando loro un senso e una gerarchia. Sarà un contributo<br />

determinante per riannodare i fili, partendo da concetti<br />

fondamentali come giustizia, libertà, equità.<br />

Tutti temi che saranno poi al centro degli incontri e dei dialoghi<br />

in programma durante il Festival che vuol essere un antidoto<br />

all’antipolitica dilagante.<br />

Per una volta non saranno politici a parlare di politica: la<br />

Fondazione Pellicani ha chiamato a raccolta filosofi, scrit-<br />

Mestre<br />

vari luoghi<br />

5-8 settembre<br />

tori, giuristi, giornalisti e politologi per aiutarci a capire il<br />

presente e a immaginare il futuro. Un concentrato di personalità<br />

di altissimo livello che non ha eguali in questo momento<br />

in Italia. Accanto a Massimo Cacciari, presidente della<br />

Fondazione Pellicani, che fin dall’inizio ha creduto fermamente<br />

in questo progetto, interverranno tra gli altri Gustavo<br />

Zagrebelsky, Dacia Maraini, Stefano Rodotà, Angelo<br />

Panebianco, Massimo Giannini, Corrado Augias, Massimo<br />

Donà, Ilvo Diamanti, Silvia Avallone e altri ancora. Un<br />

significato particolare assume la presenza delle donne. Tutte<br />

le giornate del Festival saranno aperte da appuntamenti al<br />

femminile. Come ha evidenziato Cacciari «il pensiero delle<br />

donne, oggi poco presenti nella politica, permetterà di gettare<br />

uno sguardo disincantato sull’oggi offrendo suggestioni<br />

importanti per costruire un futuro rinnovato». Particolarmente<br />

significativo è poi il laboratorio didattico rivolto<br />

agli studenti delle scuole superiori, animato da alcuni docenti<br />

del liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre, che sarà attivo<br />

nel corso del Festival a villa Settembrini (sede<br />

della Fondazione Pellicani). Gli studenti la mattina<br />

avranno l’opportunità di prepararsi agli incon-<br />

tri della giornata incontrando alcuni dei relatori.<br />

La Fondazione ha fortemente voluto una sezione<br />

dedicata ai ragazzi nella convinzione che è fondamentale<br />

cercare di avvicinare i giovani alla politica.<br />

Solamente se i giovani iniziano a occuparsi di politica e a studiare<br />

la politica, avremo la possibilità di favorire un ricambio<br />

della classe dirigente, un tema non più rinviabile. Non a caso<br />

questo sarà uno degli argomenti affrontati durante il Festival.<br />

Proprio Cacciari, assieme a Emanuele<br />

Macaluso e al giovane studioso<br />

Alessandro Aresu, parlerà di «Parricidio<br />

e Infanticidio».<br />

«In politica», ha ricordato Cacciari,<br />

«i figli devono uccidere i padri<br />

per prendere il loro posto, altrimenti<br />

non c’è vero ricambio di classe dirigente.<br />

In realtà continua a non avvenire,<br />

semmai in Italia abbiamo assistito<br />

a fratricidi». Seguendo la metafora<br />

i figli dagli anni sessanta in poi si sono<br />

eliminati tra di loro. Un tema particolarmente<br />

caldo in questo periodo, a<br />

pochi mesi dalle elezioni politiche. La<br />

carne al fuoco sul braciere della politica<br />

è molta, ma tutto ruoterà attorno<br />

al discorso del Presidente della Repubblica<br />

dal titolo «Le nuove mappe della<br />

politica in Italia e in Europa». È probabile<br />

che l’intervento del 6 settembre<br />

al Teatro Toniolo di fatto detterà<br />

l’agenda politica d’autunno che si preannuncia<br />

alquanto complicata. Già in<br />

un’altra occasione Napolitano, ospite<br />

della Fondazione Pellicani, pronunciò<br />

un discorso molto importante, in occasione<br />

della celebrazione del sessantesimo<br />

anniversario della Costituzione, organizzato a Palazzo<br />

Ducale a <strong>Venezia</strong>. In quell’occasione lanciò un messaggio<br />

molto forte alle forze politiche per riformare in senso federalista<br />

la seconda parte della Carta.<br />

Con la visita del 6 settembre è la quarta volta che il Presidente<br />

Giorgio Napolitano partecipa a un’iniziativa della<br />

Fondazione Pellicani. Fu Napolitano a inaugurare la Fondazione<br />

Pellicani il 27 marzo 2007, tornò il 18 settembre<br />

2008 per il convegno a Palazzo Ducale e venne poi il 2 settembre<br />

2010 a inaugurare piazzetta Pellicani. Il 6 settembre


sarà di nuovo con noi. L’ennesima testimonianza dell’affetto,<br />

dell’amicizia e della stima che legava Napolitano a Gianni<br />

Pellicani, che sono sempre stati politicamente molto vicini,<br />

anche nei momenti più difficili.<br />

Ma è merito della Fondazione se per la prima volta nella<br />

storia della Repubblica un Presidente interviene a Mestre per<br />

un convegno pubblico. Per la Fondazione Pellicani è motivo<br />

di grande orgoglio riuscire a contribuire in modo così significativo<br />

alla crescita socio-culturale della città.<br />

Troppe volte si è detto che Mestre è una città senza identità<br />

e priva di storia. Un dibattito che non ci ha mai appassionato,<br />

noi ci limitiamo a lavorare con l’obiettivo di far crescere<br />

Mestre, nella convinzione che momenti come questi aiutino<br />

a essere più città.<br />

La Fondazione ha fortemente voluto quest’evento a Mestre,<br />

una città che in questi anni ha conosciuto una stagione<br />

di grandi trasformazioni. In passato, pur stravolta nella<br />

sua forma e nella sua identità, si è trovata di colpo nel vivo<br />

del Novecento diventando protagonista di una storia straordinaria<br />

fatta di industrializzazione, di urbanizzazione, di<br />

migrazione e di conflitti sociali, in cui la politica ha svolto<br />

un ruolo fondamentale. Oggi tra mille contraddizioni questa<br />

storia continua ed è particolarmente significativo che da<br />

Mestre parta un’iniziativa per un confronto politico di ampio<br />

respiro basato sulle idee.<br />

Fin dall’inizio delle nostre attività Mestre è stata al centro<br />

delle iniziative che abbiamo sviluppato con l’obiettivo di<br />

portare l’attenzione su un’area urbana che svolge un ruolo<br />

fondamentale all’interno di quella Città Metropolitana di<br />

cui recentemente si è ripreso a parlare, anche sotto il profilo<br />

istituzionale. Il Festival è infatti parte di una programma-<br />

zione culturale che dura dodici mesi all’anno e si focalizza su<br />

tre filoni principali. «Idee per Mestre», che si concretizza in<br />

convegni, studi, seminari e sono state date alle stampe diverse<br />

pubblicazioni. Qual è la struttura economica e sociale della<br />

città in cui viviamo? Chi sono i suoi residenti? Quali ruoli<br />

svolgono Mestre e <strong>Venezia</strong> all’interno dell’area vasta? Quali<br />

le opportunità di sviluppo? Queste alcune delle domande<br />

Sopra e a fronte: alcuni momenti<br />

dell'edizione 2011 di Voci fuori campo.<br />

In alto: Giorgio Napolitano ospite della Fondazione Pellicani.<br />

alle quali «Idee per Mestre» cerca di rispondere, attraverso<br />

ricerche mirate, ponendosi l’obiettivo di agire come catalizzatore<br />

delle forze intellettuali cittadine per portare riflessioni<br />

approfondite sulla città stessa. Un filone quindi dedicato<br />

alle politiche urbane, agli intrecci e agli interventi rivolti al<br />

perseguimento dell’efficienza e di misure ispirate a innalzare<br />

la qualità della vita dei cittadini.<br />

Altro filone è la «Grande Politica e il Futuro dell’Italia»<br />

che quest’anno arriva alla sesta edizione, una serie di incontri<br />

che rappresentano un momento di riflessione, fuori da stere-<br />

otipi e luoghi comuni, sui grandi temi della<br />

politica italiana e internazionale. Ad oggi<br />

sono intervenuti relatori quali Giuliano<br />

Amato, Lucio Caracciolo, Piero Ignazi,<br />

Renzo Guolo, Antonio Martino e Ilvo<br />

Diamanti, Giorgio Ruffolo, Alberto Melloni,<br />

Guido Bodrato, Rino Formica, Rosy<br />

Bindi, Claudio Petruccioli e molti altri.<br />

Il terzo strumento è l’Atlante storico<br />

politico veneziano pensato per orientarsi<br />

in cinquant’anni di storia politico-amministrativa<br />

ed econonica che hanno mutato<br />

profondamente il territorio veneziano,<br />

non solo dal punto di vista urbanistico,<br />

ma anche nella sua composizione sociale,<br />

nelle popolazioni che lo abitano, nei<br />

modi e nelle forme politiche che ha espresso.<br />

Il lavoro in corso è strutturato in diversi<br />

punti, si avvale sia di fonti archivistiche<br />

che orali e si svolge in collaborazione<br />

con diversi enti ed istituzioni. Oltre a diverse<br />

pubblicazioni ha dato vita al progetto<br />

«Archivi della politica e dell’impresa<br />

del Novecento veneziano», un’iniziativa<br />

innovativa per la realtà veneziana, poiché per la prima volta<br />

vede impegnate entità istituzionalmente diverse a sostegno<br />

dell’amministrazione pubblica in un comune sforzo di<br />

raccolta, conservazione e valorizzazione di fondi archivistici<br />

novecenteschi a rischio di dispersione. Ad oggi il materiale<br />

inventariato e consultabile dal sito «Archivi della politica<br />

e dell’impresa del Novecento veneziano» è costituito da oltre<br />

25.000 documenti inventariati tra foto, libri, lettere, lucidi<br />

e altro materiale inedito. ◼<br />

* Segretario della Fondazione Gianni Pellicani<br />

in vetrina 63


64<br />

in vetrina<br />

«Musiche<br />

Culture Identità»<br />

Il congresso<br />

della Società Internazionale<br />

di Musicologia a Roma<br />

di Emanuele Senici<br />

La diciannovesima edizione del congresso della<br />

Società Internazionale di Musicologia, che si<br />

svolge ogni cinque anni, ha avuto luogo dall’1 al 7<br />

luglio all’Auditorium Parco della Musica di Roma.<br />

Organizzata dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in<br />

collaborazione con le tre università romane La Sapienza, Tor<br />

Vergata e Roma Tre, ha visto la presenza di più di seicento relatori,<br />

che, oltre alle sedute del convegno, hanno preso parte<br />

a varie altre attività, come concerti e visite guidate ai luoghi<br />

musicalmente più rilevanti di Roma e dintorni.<br />

La maggior parte dei congressi della sim svoltisi negli ultimi<br />

decenni ha avuto un tema generale: quello proposto dal<br />

comitato scientifico dell’edizione romana, presieduto da Fabrizio<br />

Della Seta, è stato «Musiche Culture Identità» (come<br />

utile termine di confronto si pensi che il congresso precedente,<br />

svoltosi a Zurigo nel 2007, era stato intitolato «Passaggi»).<br />

Si tratta più che altro di un punto d’orientamento<br />

utile a chi propone tavole rotonde e study sessions (ogni congresso<br />

ne prevede diverse di entrambe le tipologie), mentre<br />

le sedute di relazioni libere, assemblate dal comitato scientifico<br />

stesso dopo la selezione delle proposte ricevute, sono<br />

meno vincolate al tema generale. Al termine dei lavori l’impressione<br />

è stata però che l’identità sia una delle questioni al<br />

contempo più interessanti e più calde tra quelle che animano<br />

il dibattito musicologico oggi (è bene chiarire che in questo<br />

contesto «musicologia» è termine che serve da ombrello<br />

per tutte le attività di ricerca sulla musica, dalla musicologia<br />

storica all’etnomusicologia, dalla filosofia della musica<br />

all’organologia, dall’iconografia musicale<br />

alla psicologia della musica, e così<br />

via). In un certo senso sarebbe strano<br />

il contrario, dal momento che<br />

la musicologia, come ogni attività<br />

intellettuale, riflette la cultura<br />

in cui essa si trova immersa,<br />

seppur spesso in modo indiretto;<br />

e mi pare fuor di dubbio<br />

che l’identità sia una delle<br />

categorie fondanti della cultura,<br />

nonché della società, della<br />

politica e dell’ideologia del mondo<br />

contemporaneo – una delle ragioni,<br />

immagino, per cui il comitato<br />

scientifico l’ha proposta come<br />

tema del congresso –.<br />

Igor Stravinsky<br />

n un disegno<br />

di Pablo Picasso<br />

(31 dicembre 1920).<br />

Un’altra benemerita tradizione di questi convegni vuole<br />

che al centro della giornata inaugurale si collochino due relazioni<br />

plenarie presentate da non-musicologi, che riflettono<br />

sul tema generale da punti di vista esterni alla disciplina.<br />

Non sempre queste occasioni funzionano: ricordo per esempio<br />

una lezioncina superficiale del matematico Roger Penrose<br />

a Londra nel 1997, che sembrò ancora più striminzita per<br />

essere appaiata a una profonda riflessione filosofica su opera<br />

ed esecuzione del compianto Bernard Williams. A Roma,<br />

invece, le conferenze della filosofa statunitense Martha<br />

C. Nussbaum e dell’antropologo italiano Francesco Remotti<br />

hanno offerto spunti di riflessione molto stimolanti sulla<br />

questione dell’identità. Nussbaum ha indagato il ruolo della<br />

musica e della danza nel progetto filosofico ed educativo<br />

di Rabindranath Tagore, sottolineando la portata sovversiva<br />

di queste attività all’interno di una «religione dell’umanità»<br />

costituzionalmente anti-identitaria. Remotti ha invece<br />

offerto una critica articolata ed eloquentissima del concetto<br />

stesso di identità, seguita da un appassionato plaidoyer per<br />

la categoria della somiglianza, secondo lui molto più adatta a<br />

navigare il difficilissimo contesto sociale, politico e ideologico<br />

in cui ci troviamo a vivere.<br />

Le parole di Nussbaum e Remotti hanno risuonato per tutta<br />

la settimana seguente, offrendo prospettive generali assai<br />

stimolanti da cui contemplare sedute dedicate a temi apparentemente<br />

così diversi come le tavole rotonde su «Costruzione<br />

e decostruzione dell’identità nella musica dell’Asia<br />

orientale dagli anni sessanta», «Sguardi dal di fuori sull’identità<br />

musicale italiana», «Modelli cognitivi nelle attività<br />

musicali», «Musica e visualità», «Identità europea e condizione<br />

periferica nella musica iberica antica» e «Identità<br />

musicale e cultura dell’identità in Italia nel Quattro-Cinquecento»,<br />

oppure le study session su «Papi, cardinali e musica,<br />

1450-1630», «La trasmissione della conoscenza musicale:<br />

costruire una cittadinanza europea», «Prospettive interdiciplinari<br />

sulla musica, la cultura e l’identità brasiliane»,<br />

«Immagine-suono-struttura e l’esperienza audiovisiva»,<br />

«Com’era veneziana l’opera veneziana nel Seicento?»<br />

e «Questioni di identità stilistica e di disseminazione europea<br />

nella Scuola delle Nazioni di Tartini», per citare solo<br />

Gioacchino Rossini<br />

(dipinto anonimo<br />

prima metà Ottocento).


alcuni esempi da entrambe le tipologie. I titoli delle sedute<br />

di relazioni libere erano spesso più tradizionali: si andava<br />

da «Monodia medievale» a «Polifonia medievale e rinascimentale»,<br />

da «Opera italiana nel Settecento» a «Rossini»,<br />

da «Lo stile classico e Beethoven, ieri e oggi» a «Donizetti<br />

e Verdi», da «Musica tedesca dell’Ottocento” a «Wagner<br />

e l’opera nazionale ottocentesca”, da «Stravinsky e la musica<br />

francese del Novecento» a «Musica nel periodo sovietico»;<br />

ma non sono mancate sedute più insolite, come «Colonialismo»,<br />

«Esoticismi», «Diaspore», «Popular music»,<br />

«Identità ebraica e musica dell’esilio», «Cantanti e canti»,<br />

«Donne e uomini», nonché varie occasioni in cui le identità<br />

geografiche erano al centro dell’attenzione, come «Prospettive<br />

sull’Asia», «Tra Spagna e Nuova Spagna dal Cinque<br />

al Settecento», «L’Ungheria e i compositori ungheresi<br />

dell’Otto-Novecento», «America Latina» (tre sedute),<br />

«La Turchia e la penisola balcanica», «Gli USA nei secoli<br />

xix e xx», e così via.<br />

Lunghe discussioni con amici e colleghi durante le animatissime<br />

giornate del congresso hanno fatto emergere come<br />

le proposte di Nussbaum e Remotti abbiano profeticamente<br />

anticipato gli atteggiamenti critici o comunque interlocutòri<br />

di molti tra i relatori verso la categoria dell’identità, di<br />

cui al presente non pare si possa fare a meno, ma che oscura<br />

e confonde almeno tanto quanto illumina e chiarisce, soprattutto<br />

in un campo costituzionalmente fluido e cangiante<br />

come quello musicale. Come ha spiegato Benjamin Walton,<br />

per esempio, nella Calcutta della prima metà dell’Ottocento<br />

l’opera italiana era imbricata in una rete di somiglianze<br />

(per dirla con Remotti) che rimandano non solo all’Italia,<br />

ma anche a Londra e al teatro musicale in lingua inglese,<br />

nonché al rapporto tra genere femminile e rappresentazione<br />

scenico-musicale nel contesto della cultura bengalese<br />

del tempo. In modo non dissimile, nella colonna sonora che<br />

Miklos Rozsa scrisse per Ben Hur nel 1959 Stephan Prock ha<br />

rintracciato una complicata negoziazione delle relazioni, potenzialmente<br />

pericolose per la cultura del tempo, tra masco-<br />

Ludwig van Beethoven<br />

ritratto da W. J. Mähler<br />

nel 1804<br />

linità, omosocialità e identità religiosa che stanno al centro<br />

del film, aiutando a risolvere alcuni punti di tensione lasciati<br />

in parte aperti dalla componente visiva.<br />

Più sopra ho detto come la musicologia rifletta la cultura in<br />

cui essa si trova immersa, anche se indirettamente. Allo stesso<br />

tempo, però, la musicologia non sta al di fuori della cultura,<br />

ma ne fa parte come qualsiasi altra attività umana, e<br />

quindi contribuisce a questa stessa cultura. In questo senso,<br />

il congresso romano può aver dato un contributo al dibattito<br />

sempre più vivo sui significati e gli usi dell’identità all’interno<br />

della società contemporanea – significati e usi che, non<br />

dimentichiamolo, si esplicano in molte questioni scottanti<br />

del presente, dall’immigrazione al matrimonio tra coppie<br />

dello stesso sesso, e dalla violenza domestica sulle donne alle<br />

rivendicazioni territoriali da parte di vari stati contro altri –.<br />

C’è però anche un altro modo in cui il convegno romano<br />

può aver contribuito non solo alla discussione sulle identità,<br />

ma anche alla pratica di esse, per così dire. Il congresso quinquennale<br />

della sim è di gran lunga il più autenticamente globale<br />

tra le occasioni di portata simile nel panorama musicologico<br />

internazionale (molto di più, per esempio, dei convegni<br />

annuali della American Musicological Society o della<br />

Society for Ethnomusicology, che gli si possono avvicinare<br />

per numero di partecipanti «passivi», anche se il numero<br />

delle relazioni è inferiore). Per moltissimi tra noi, questa<br />

è l’unica occasione in cui incontrare colleghi di paesi lontani<br />

non solo geograficamente (notevole a Roma il numero<br />

di congressisti dall’America Latina e dall’Asia Orientale,<br />

per esempio), ma anche per tradizioni intellettuali e orientamenti<br />

della ricerca. Ascoltare una relazione diversa per contenuto,<br />

forma e stile da quelle che sentiamo di solito ci invita<br />

a riflettere in modo nuovo sulle nostre identità intellettuali<br />

e disciplinari, che spesso riteniamo, imperialisticamente,<br />

la pietra del paragone. Può persino accadere di fermarsi<br />

un attimo a pensare sull’uso troppo spesso irriflesso di aggettivi<br />

quali il «nostre» della frase precedente: «nostre»<br />

di chi? Voglio dunque, in conclusione, sottolineare l’importanza<br />

di un’occasione che ci ha<br />

portato ha ripensare la categoria<br />

dell’identità non solo<br />

nella musica che studiamo,<br />

ma anche nella<br />

nostra pratica intellettuale<br />

e quindi culturale<br />

e sociale. In questo<br />

senso mi pare assai significativo<br />

che il prossimo<br />

congresso si svolgerà,<br />

nel 2017, a Tokio,<br />

fuori dall’Europa<br />

per la prima volta dal<br />

1977: sarà un’occasione preziosa<br />

per continuare da un<br />

punto di vista anche geograficamente<br />

molto diverso la riflessione<br />

sull’identità e la musica<br />

avviata quest’anno a Roma. ◼<br />

Gaetano<br />

Donizetti<br />

(autocaricatura<br />

del 1843).<br />

in vetrina 65


66<br />

in vetrina<br />

Alla Cini un convegno<br />

su Luigi Squarzina<br />

Dal 4 al 6 ottobre 2012 nelle sale della Fondazione<br />

Giorgio Cini si svolge il convegno di studi<br />

dedicato alla figura artistica e all’opera del regista<br />

e drammaturgo italiano Luigi Squarzina (18<br />

febbraio 1922 – 8 ottobre 2010).<br />

Inserito nell’ambito delle iniziative collegate alla donazione<br />

che Squarzina ha voluto fare della propria Biblioteca al<br />

Centro Studi per la Ricerca documentale sul Teatro e il Melodramma<br />

europeo, il convegno, a cura di Maria Ida Biggi,<br />

è organizzato in collaborazione con l’Accademia Nazionale<br />

dei Lincei di Roma e con l’Alto Patronato del Presidente<br />

della Repubblica. Questa manifestazione vuole anche ricordare<br />

il maestro in occasione del secondo anniversario della<br />

scomparsa.<br />

Le tre giornate sono articolate in sessioni, ognuna delle<br />

quali contiene riflessioni e approfondimenti storico-critici,<br />

interventi di giovani studiosi e testimonianze di artisti collaboratori<br />

del maestro, affrontando le tematiche legate al-<br />

la sua attività di studioso e saggista, organizzatore culturale<br />

e direttore di teatri stabili, drammaturgo e regista teatrale<br />

di prosa e di lirica. L’importanza storica del personaggio è<br />

testimoniata dalla partecipazione dei numerosi e autorevoli<br />

relatori quali Carmelo Alberti, Roberto Alonge, Giovanni<br />

Agostinucci, Franca Angelini, Katia Angioletti, Anna Barsotti,<br />

Maria Ida Biggi, Francesca Bisutti, Lina Bolzoni, Paolo<br />

Bosisio, Eugenio Buonaccorsi, Roberto Cuppone, Masolino<br />

d’Amico, Guido Davico Bonino, Marco De Marinis, Siro<br />

Ferrone, Ilaria Gariboldi, Maurizio Giammusso, Maria Grazia<br />

Gregori, Camilla Guaita, Gerardo Guccini, Ginette Herry,<br />

Isabella Innamorati, Giuseppe Liotta, Stefano Locatelli,<br />

Claudio Longhi, Lorenzo Mango, Federica Mazzocchi, Nadia<br />

Palazzo, Matteo Paoletti, Giacomo Pedini, Franco Perrelli,<br />

Paolo Puppa, Alberto Quadrio Curzio, Elena Randi,<br />

Renzo Tian, Alessandro Tinterri, Roberto Tessari, Franco<br />

Vazzoler, Piermario Vescovo, Claudio Vicentini e Marianna<br />

Zannoni.<br />

Al termine di ogni giornata, a partire dalle 17.30, sono previsti<br />

incontri aperti al grande pubblico. Giovedì 4 ottobre,<br />

alle ore 17,30, si presenterà il volume degli Annali della Fondazione<br />

Istituto Gramsci di Roma intitolato Luigi Squarzi-<br />

na. Il teatro e la storia dedicato ai suoi scritti. In questa occasione<br />

saranno presenti il presidente della Fondazione Istituto<br />

Gramsci Giuseppe Vacca e il curatore del volume Elio<br />

Testoni. Nella stessa serata, l’attore Omero Antonutti leggerà<br />

un pezzo tratto dal dramma di Squarzina Cinque giorni<br />

al porto.<br />

Venerdì 5 ottobre, dalle ore 17.30 alle 22, si svolgerà una serata<br />

con testimonianze e letture degli attori Giorgio Albertazzi,<br />

Erika Blanc, Benedetta Buccellato, Massimo Foschi,<br />

Franco Graziosi, Gabriele Lavia, Lucilla Morlacchi e Tullio<br />

Solenghi con brani tratti da testi drammaturgici e saggi di<br />

Squarzina come L’esposizione universale, Siamo momentaneamente<br />

assenti, I cinque sensi, Tre quarti di luna, Il gioco dei<br />

potenti, Rosa Luxenburg, 8 settembre. Inoltre è previsto l’ascolto<br />

di estratti inediti della registrazione audio dell’Amleto,<br />

interpretato da Vittorio Gassman e diretto con Squarzina<br />

nel 1952, recentemente ritrovato negli archivi di Radio Rai.<br />

Per questa occasione, Paola Gassman e Ugo Pagliai leggeranno<br />

alcune lettere che Vittorio Gassman e Luigi Squarzina si<br />

sono scambiati durante la preparazione di questo spettacolo<br />

e brani dal carteggio Silvio d’Amico – Vittorio Gassman<br />

a proposito della messinscena dell’Amleto.<br />

Il convegno ha ottenuto la Media partnership di Rai Radio<br />

3 e Rai Teche, permettendo così di offrire al pubblico una se-<br />

lezione di registrazioni audio e video di cui Squarzina è stato<br />

autore, traduttore, organizzatore, interprete e regista. Grazie<br />

a ciò, è possibile ascoltare le registrazioni dei radiodrammi e<br />

delle interviste da lui rilasciate alla radio e visionare i video<br />

di alcuni suoi spettacoli in una sala appositamente allestita a<br />

fianco del luogo in cui si terrà il convegno e aperta al pubblico<br />

da lunedì 1 ottobre 2012.<br />

Sabato alle 17.30 è organizzata la tavola rotonda conclusiva<br />

con le testimonianze di Paolo Baratta, Maricla Boggio, Cristiano<br />

Chiarot, Matteo d’Amico, Gianfranco Padovani, Ottavia<br />

Piccolo, Pier Luigi Pizzi, Carlo Quartucci, Luca Ronconi,<br />

Giuliano Scabia, Marco Sciaccaluga, Gianrico Tedeschi<br />

e Lamberto Trezzini. Gli attori Paola Cannoni e Giancarlo<br />

Zanetti leggeranno brani dalla Romagnola e dal Tartufo<br />

.<br />

Il convegno ha il sostegno del Dipartimento di Filosofia e<br />

Beni Culturali dell’Università di Ca’ Foscari, della Fondazione<br />

Teatro La Fenice, del Comune di Lugo e della Regione<br />

del Veneto. (l.m.) ◼<br />

Luigi Squarzina.<br />

La biblioteca del regista alla Fondazione Cini.


Il provetto stregone<br />

Mario Bortolotto<br />

e le vie della musicologia (3)<br />

un progetto a cura di Jacopo Pellegrini<br />

Il periplo attorno a «Capo Bortolotto» (passaggio<br />

irto di perigli, infido persino, se, quando credi di<br />

aver finalmente afferrato il bandolo del discorso, una<br />

svolta improvvisa, un cambio di rotta verso un’espressione<br />

sibillina bastano a rimettere tutto in discussione, a precipitare<br />

in nuovi labirinti di senso: si veda, e si ammiri, la nota<br />

13 dello scritto di Alberto Caprioli, vero e proprio tour de<br />

force ermeneutico, in virtù del quale anche un comune «lettore<br />

ingenuo» quale lo scrivente è alfine messo nella condizione<br />

di toccare con mano l’intricatissimo congegno di allusioni<br />

e citazioni, dirette e indirette, che può annidarsi in<br />

un qualsiasi enunciato del nostro magmatico prosatore: l’esempio<br />

prescelto è l’explicit d’Introduzione<br />

al Lied romantico), questo<br />

periplo giunge finalmente a lambire<br />

la produzione libraria accumulata,<br />

in cinquant’anni precisi di attività<br />

(1962-2012, ma suoi saggi e articoli<br />

erano cominciati ad apparire un<br />

paio di anni avanti), da un insaziabile<br />

desiderio di conoscenza.<br />

Caprioli, compositore ben noto e<br />

forte studioso di letteratura comparata<br />

(in particolare esplora il rapporto<br />

poesia-musica), interroga per<br />

l’appunto il testo d’esordio, apprezzato<br />

a suo tempo da Fedele d’Amico<br />

e da Giorgio Vigolo (che, non si<br />

dimentichi, era anche poeta in proprio,<br />

e non dei trascurabili), e rileva<br />

come esso sia costituito da «una serie<br />

di microstorie dei Lieder e dei loro<br />

autori», una collana di monografie<br />

(Bortolotto non è davvero un seguace<br />

di Croce, eppure il ritratto a<br />

tutto tondo di singoli autori o opere<br />

è una sua «specialità»: si pensi a<br />

Fase seconda, a Consacrazione della casa, a Dopo una battaglia,<br />

a Est dell’Oriente) all’apparenza indipendenti, ma concepite<br />

secondo un piano unitario, a partire cioè da un’idea<br />

centrale, di solito racchiusa nel capitolo o nelle pagine iniziali<br />

e soggetta a sviluppo e dimostrazione. Libri di un musicista,<br />

quelli di Bortolotto, sostiene Caprioli: punto di vista<br />

già espresso da Stefano Catucci nel saggio comparso sul numero<br />

scorso di «<strong>Venezia</strong> musica e dintorni», e che dalla veste<br />

professionale di chi ora lo riprende e lo fa suo, invoglia a<br />

guardare sotto una luce diversa le rampogne, anche asperrime,<br />

e gli elogi indirizzati al Nostro da nomi illustri: Berio,<br />

Nono, Vlad da un lato, Boulez, Clementi, Donatoni, Pablo<br />

dall’altro. Insomma, schermaglie tra «consanguinei», gente<br />

fatta della stessa pasta.<br />

Il contributo del musicista bolognese, che, secondo un tipico<br />

(e spavaldo) processo di rispecchiamento nella materia<br />

trattata, concede qualcosa allo stile per «illuminazioni»<br />

di Bortolotto, individua nel Lied romantico una quantità<br />

di presagi e anticipazioni critiche invero sorprendente, isti-<br />

Mario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).<br />

tuendo confronti e paralleli con la più recente comparatistica<br />

e musicologia internazionale. Dal canto suo, invece, Gian<br />

Paolo Minardi da Parma<br />

(90 km appena, ma è<br />

un altro mondo) affronta<br />

Wagner l’oscuro (2003)<br />

in una prospettiva prettamente<br />

italiana. Criterio<br />

nient’affatto opinabile,<br />

trattandosi della prima<br />

monografia complessiva<br />

dedicata al compositore<br />

tedesco da un autore<br />

italiano dai tempi di<br />

Torchi (1890: ovviamente<br />

non tengo conto dei lavori<br />

divulgativi – Celli,<br />

Mila, Tedeschi – o dei tomi<br />

a firma Borrelli, Pannain,<br />

Rinaldi). In questo<br />

senso offre un inte-<br />

resse specifico la lettura<br />

di Tristano, mio Tristano.<br />

Gli scrittori italiani<br />

e il caso Wagner (1988),<br />

il sapientissimo studio di<br />

Adriana Guarnieri, ricordato<br />

anche da Minardi. Il<br />

nome di Bortolotto vi figura<br />

in rapporto ora ai<br />

«“ritorni” antiwagneriani<br />

al quadrato» (p. 347)<br />

della neoavanguardia (il<br />

Gruppo ’63, Arbasino in<br />

primis), dei quali condivide<br />

l’orrore per il «wagnerismo»<br />

idolatrico, per i<br />

«bidelli del Walhalla» 1 ,<br />

ora all’«indirizzo formalistico<br />

o polemicamente<br />

pragmatico, volto a considerare la produzione wagneriana<br />

preliminarmente in quanto “musica”» (p. 356), impo-<br />

Il provetto stregone 67


68<br />

Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />

stosi negli anni settanta e ottanta: l’«affermazione della musica»<br />

su cui insiste molto anche Minardi.<br />

Ma questo indirizzo<br />

non è caratteristico del<br />

solo scenario italiano,<br />

lo si ritrova anche nella<br />

musicologia mitteleuropea,<br />

in particolare<br />

nei contributi epocali<br />

di Carl Dahlhaus. È degno<br />

di nota il fatto che i<br />

due, il tedesco e l’italiano,<br />

si accostino a Wagner<br />

quasi in contemporanea,<br />

questo con la traduzione<br />

e la cura del saggio<br />

di Adorno (uscito nel<br />

1966 per i tipi di Einaudi),<br />

quello con le indagini<br />

che condurranno, nel<br />

1971, alla fioritura pressoché<br />

simultanea della<br />

Wagners Konzeption des<br />

musikalischen Dramas<br />

e dei Richard Wagners<br />

Musikdramen 2 : entrambi<br />

partono da un retroterrafilosofico-ideologico<br />

molto solido e specifico<br />

(l’interesse per la<br />

Nuova musica che si riverbera<br />

anche in scelte<br />

lessicali riconoscibili;<br />

il riferimento costante<br />

ad Adorno, specie in<br />

funzione antagonistica)<br />

3 , entrambi nutrono<br />

un certo qual sospetto<br />

intorno alla solidità<br />

dell’impalcatura teorica<br />

wagneriana, entrambi<br />

rimarcano che nel<br />

Wort-Ton-Drama «il testo,<br />

il poema, non diversamente<br />

dalla musica,<br />

è inteso da Wagner come<br />

un mezzo del dramma,<br />

non come la sua essenza»<br />

(Dahlhaus, Wagners<br />

Konzeption des<br />

musikalischen Dramas,<br />

p. 15: anche Bortolotto<br />

affronta l’argomento nel<br />

capitolo iniziale di Wagner<br />

l’oscuro, «Temperamento<br />

e teoresi», pp.<br />

13-58), ma poi – come si<br />

diceva – si concentrano<br />

sulla dimensione musicale,<br />

privilegiando la microforma,<br />

singole componenti<br />

del discorso o<br />

momenti delimitati, rispetto<br />

alla lunga gittata,<br />

all’impianto globale di un atto o di un Drama 4 .<br />

Ora, si potrebbe pensare, date alla mano, che Bortolotto<br />

sia in debito con Dahlhaus (il cui nome in Wagner l’oscu-<br />

ro compare tre volte, a pari merito con Diether de la Motte<br />

ed Ernest Newman, una in meno di Robert Donington,<br />

mentre Egon Voss e Jean-Jacques Nattiez 5 si fermano a quota<br />

uno: più frequenti le citazioni degli ammirati Boulez,<br />

Confalonieri e Lévi-Strauss); in realtà, la loro quête wagneriana<br />

procede parallela e indipendente. L’immagine di Wagner,<br />

essenzialmente desunta da Nietzsche, quale dissoluzione<br />

della Romantik e scaturigine del «negativo» novecentesco,<br />

in Bortolotto è già del tutto definita quando le monografie<br />

di Dahlhaus vedono la luce in italiano; anzi, è proprio in<br />

quell’immagine ch’è dato distinguere il timbro inconfondibile<br />

della sua voce tra le mille e mille che formano il coro della<br />

critica wagneriana. (j.p.) ◼<br />

1. Per ricorrere a un titolo ben noto di Beniamino Dal Fabbro (1954):<br />

non a caso la Guarnieri per la letteratura degli anni sessanta parla di<br />

«ritorni» antiwagneriani, giacché essi si ritrovano «a fianco della<br />

tradizione letteraria antiwagneriana neoclassica tuttora operante» (il<br />

rondismo di Montale), laddove le origini di questa ripulsa rimontano<br />

indietro sino a D’Annunzio, al suo progetto di «mito mediterraneo»<br />

alternativo a quello «nordico» di Wagner (Il fuoco, 1900).<br />

2. Tradotti anche in italiano, l’uno da Maria Cristina Donnini Maccio<br />

per Discanto, Fiesole (FI) 1983 («Contrappunti», 17), l’altro da Lo-<br />

renzo Bianconi (anche curatore) per Marsilio, <strong>Venezia</strong> 1984 («Musica<br />

critica»).<br />

3. A partire dagli anni settanta, Bortolotto gli affiancherà il prediletto<br />

Nietzsche: «Ben pochi casi conosce la storia della musica in cui un<br />

manuale di estetica , o anzi una formulazione di poetica, sia di tanto<br />

più brillante di quelle che già erano […] le composizioni da esso ispirate,<br />

o con esso simbiotiche. Pensiamo soltanto al Caso Wagner»: Mario<br />

Bortolotto, Cocteau e il marinaio, in Id., Corrispondenze, Adelphi, Milano<br />

2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 263-68: 263. Si veda anche<br />

Friedrich Nietzsche, Scritti su Wagner, trad. it. di Sossio Giametta e<br />

Ferruccio Masini, con un saggio di Mario Bortolotto, Adelphi, Milano<br />

1979 («Piccola biblioteca», 80), la cui introduzione, Altra aurora,<br />

graziosamente resa più accessibile ai comuni mortali da pochi ma capitali<br />

interventi, è poi confluita in Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi,<br />

Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42), pp. 140-196. Tutta sua anche<br />

la propensione per il mito e il sapere iniziatico, verificabile nella parte<br />

introduttiva dei capitoli sul Ring, su Tristan, e, in modo speciale, su<br />

Parsifal.<br />

4. Tema a cui ha invece prestato particolare attenzione la scuola angloamericana,<br />

da Anthony Newcomb e Carolyn Abbate in avanti. Per<br />

Dahlhaus e Bortolotto la questione viene forse data per risolta (termine<br />

da intendersi anche e soprattutto in senso etimologico) nel flusso<br />

continuo e onnicomprensivo della rete leitmotivica.<br />

5. Con le ricerche del quale non mancano punti di tangenza, con ogni<br />

probabilità del tutto casuali, ma non per questo meno sintomatici.<br />

Sopra: Carl Dahlhaus.


Bortolotto l’oscuro<br />

Il mio primo incontro con Wagner l’oscuro<br />

(Adelphi, Milano 2003) è avvenuto quasi in concomitanza<br />

con una bella proposta dei Meistersinger al Maggio<br />

musicale fiorentino 2004, il che mi ha naturalmente<br />

guidato a iniziare la lettura dal capitolo dedicato a quest’opera:<br />

a incorniciarlo, un titolo sottilmente allusivo, «La città,<br />

il profumo». Ed è stata subito coinvolgente occasione<br />

per ritarare lo strumento<br />

che convenzionalmente,<br />

e non poco<br />

passivamente, viene<br />

spesso applicato<br />

a quest’opera, nata a<br />

fianco del Tristan, durante<br />

l’ampia interruzione<br />

apertasi lungo il<br />

defatigante cammino<br />

creativo del Ring<br />

– «un’opera tra parentesi»,<br />

come scriveva<br />

l’autore a Cosima;<br />

per modificare, dunque,<br />

quelle misure che<br />

sembrano sovente costringerla<br />

entro una<br />

proiezione retrospettiva,<br />

quella di un Wagner<br />

che si rifugia nel<br />

passato, nel contrappunto,<br />

nella positività<br />

operosa di personaggi<br />

riconoscibili 1 , piuttosto che avventurarsi in altre ben più avvolgenti,<br />

non poco sibilline, spire.<br />

Aggiustare il tiro rispetto alla semplificazione è per Bortolotto<br />

fin troppo scontato; gli basta ricordare (p. 347) il chiarimento<br />

di Nietzsche: «Chi rimane sorpreso dalla vicinanza<br />

del Tristan coi Meistersinger, non ha capito, in un punto<br />

importantissimo, la vita e la natura di tutti i Tedeschi veramente<br />

grandi: non sa su quale terreno soltanto può crescere<br />

quella gaiezza propriamente ed unicamente tedesca di Lutero,<br />

Beethoven e di Wagner». Per poi innescare tutte le sue<br />

qualità introspettive nello sciogliere i nodi insiti nello stesso<br />

stacco del soggetto, non più innervato nel mitico o nel leggendario,<br />

ma arroccato alla storia ancora palpitante di una<br />

città: ecco quindi rinsaldata l’unità che ricomprende l’intera<br />

vicenda wagneriana. Di questa, infatti, i Meistersinger sono<br />

solo un altro aspetto, avvinti da una segreta continuità,<br />

oltre che dalla contiguità cronologica, con il Tristan, come a<br />

ribadire la profonda unità di questa «paradossale dilogia»<br />

(p. 353), dove la chiarezza dell’una, anche quella lunare della<br />

notte di San Giovanni, sembra fugare i più inquieti spiriti<br />

della notte che attraversano la partitura gemella. L’acutezza<br />

di Bortolotto è oltremodo penetrante nel leggere in filigrana<br />

i sottili intrichi di questo nodo: se, com’egli dice, i Meistersinger<br />

«enunciano la regola» (p. 341), nondimeno affiora<br />

insinuante «la volontà del nuovo», espressione che sembra<br />

attivare le segrete consonanze baudelairiane, e con esse<br />

lo spettro della «distruzione della lingua», spettro che fin<br />

dai suoi inizi critici ha accompagnato la sensibilità del Nostro.<br />

Centrale, in tale intreccio di tensioni opposte, è la figu-<br />

A destra: Richard Wagner.<br />

di Gian Paolo Minardi<br />

ra di Sachs, il cui profilo l’autore disegna con quella ricchezza<br />

e, pure, con quell’ambiguità di tocchi che smussa, confondendone<br />

le tensioni, certi tratti troppo netti, così da coglierne<br />

la complessità: «Lo sguardo di Sachs, – scrive Bortolotto<br />

– di lui solo, ha doppio orizzonte, l’eccezione e la regola, il<br />

nuovo e il bello» (p. 343). Può sembrare quasi un autoritratto<br />

di Wagner, trascinato da quel «demone dalla vertiginosa<br />

energia trascinatrice» (p. 344) che è il Wahn, il senso illusorio,<br />

sottile follia, che nella sua mobilità insinuante si apre alle<br />

più insospettate riverberazioni musicali: fino alla decantazione<br />

suprema del Quintetto, «musica assoluta: o almeno,<br />

[…] quanto in Wagner più le si accosta» (p. 352).<br />

Il Wahn come traccia sotterranea che delimita e insieme<br />

unisce le due opere, Tristan e Meistersinger; irradiato attraverso<br />

vari poli, esso trasmette il senso più recondito di un<br />

pensiero che nutre la musica, quasi sollecitando inafferrabili<br />

presentimenti. Bortolotto, con la sua sensibilità da rabdomante,<br />

sorretta dal dominio di letture sconfinate e dalla capacità<br />

di riattivarle entro prospettive attuali, segnala alcuni<br />

indizi preziosi, luci penetranti, utili a orientarci, seppur come<br />

sprazzi fugaci dell’inconscio, entro la fascinosa, non di<br />

rado disarmante, oscurità. È quanto, appunto,<br />

va attraversando l’animo di Sachs, quel suo<br />

modo di praticare il ruolo di «maestro»,<br />

consapevole che il rispetto della regola<br />

non può non divenire proiezione<br />

di nuove situazioni, di nuovi sentimenti.<br />

Motivo centrale dell’opera,<br />

questo, attestato dalla diversità<br />

delle reazioni: «Hanslick<br />

perse il controllo: “se i Meistersinger<br />

diventassero regola, sarebbe<br />

la fine di tutta la musica”;<br />

Nietzsche non si entusiasmò. Ma<br />

Brahms li predilesse, avendo vissuto<br />

quel dilemma come una spina<br />

nella carne» (p. 346).<br />

Allo stesso modo, proprio attraverso<br />

questo percorso sotterraneo, Bortolotto<br />

rivolge altrettanta attenzione<br />

a Beckmesser, liberandolo dalle insistite<br />

ristrettezze di certi tratti grotteschi<br />

appartenenti a un consunto<br />

oleografismo, al quale pure sottrae<br />

gli altri Maestri, per ritrovare<br />

più profonde radici di quell’inclinazione comica<br />

che, non va dimenticato, aveva rappresentato l’originario,<br />

benché tutto da decodificare, obiettivo di Wagner; di là dalla<br />

superficie, dunque, è l’humus diversamente fermentante<br />

che opera, quella «gaiezza propriamente ed unicamente tedesca»<br />

colta da Nietzsche, il quale, pur non entusiasta, aveva<br />

compreso il tessuto più segreto entro cui le varie tematiche,<br />

come in un contrappunto arioso eppur necessario, vanno<br />

intersecandosi. Persino il tema, più perigliosamente esposto,<br />

dello spirito patrio: «queste cose – aveva detto il filosofo<br />

– debbono venir intese artisticamente, non dogmaticamente.<br />

Anche il nazionalismo tedesco fa parte di ciò».<br />

Il Wahn, dunque, come chiave per penetrare l’oscuro, nella<br />

sofferta consapevolezza di Sachs (in questo davvero un doppio<br />

di Wagner) che carattere dominante della poesia è la dimensione<br />

onirica. Quella che, infine, troverà nell’estremo cimento<br />

poetico di Walter la forza fecondante dell’amore: non<br />

più il «malvagio spettro della notte», chiarisce Bortolotto a<br />

riscontro di Tristan, «ma illuminazione benigna» (p. 351).<br />

«Illuminazione benigna» e «follia d’amore» sono i termini<br />

per rilevare le differenze tra le due opere contigue: diverse<br />

ma non contrastanti, sembra pensare Bortolotto, il<br />

Il provetto stregone 69


70<br />

Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />

quale, nel rimarcare l’«unità di stile», scorge in questa vicinanza<br />

un momento nodale di quella stretta tra stile e linguaggio<br />

che prefigura le strade della modernità: fino a quel<br />

«punto di bruciante identità» realizzato da Anton von Webern<br />

(pp. 334-335).<br />

Il mio approccio al libro, partendo dai Meistersinger, è stato<br />

un repentino precipitare in medias res, cosicché ancor<br />

più sollecitante è risultato poi il risalire alle origini di questo<br />

straordinario viaggio entro l’«oscuro». Con una guida<br />

tanto avvincente quanto impegnativa: scherzosamente,<br />

si potrebbe parafrasare: «Bortolotto l’oscuro». Ma nel<br />

senso ch’egli ci consente di entrare nell’oscurità wagneriana,<br />

svelandocene i tratti che da quelle tenebre vanno via via<br />

definendosi, superando le contraddizioni più apparenti per<br />

stabilire una nuova complicità. La stessa cosa, insomma,<br />

che Bortolotto aveva fatto in Dopo una battaglia, ricreando<br />

una prospettiva inattesa della Francia dopo Sédan, o in Est<br />

dell’Oriente, dove ci aveva introdotto nei più riposti scenari<br />

della musica russa. Con Wagner Bortolotto ci rende partecipi<br />

di quel mondo fatto, com’egli dice, di «quasi inafferrabili<br />

fugacità, nebule intangibili, fibrillazioni tessutarie, collisioni<br />

cromatiche, microcosmi sfumanti in un magmatico habitat<br />

sinfonico» (pp. 183-184). Terreno oltremodo<br />

provocante per il Nostro, nel<br />

contrasto tra questo avventuroso universo<br />

linguistico e immaginario e la<br />

statura umana del mistificatore. Un<br />

contrasto irrisolvibile: «Impossibile<br />

affatto sarebbe procedere a districare<br />

nell’amalgama psichico, e verbale, di<br />

sincerità, mendacio, estetismo, egoismo,<br />

posa, generosità sconfinata» (p.<br />

22). E tuttavia il gioco è avvincente, e<br />

infiniti sono i labirinti attraverso cui<br />

Bortolotto ci guida, con le sue imprevedibili<br />

vividezze, le scorciatoie inaspettate<br />

quanto rivelatrici.<br />

Un viaggio, del resto, lungo il quale<br />

Bortolotto aveva già accompagnato<br />

il lettore nella prefazione<br />

all’edizione italiana del saggio di<br />

Adorno 2 , laddove sospingeva lo<br />

sguardo verso regioni più arcane,<br />

inesplorate – «il discorso su<br />

Schönberg si deve di necessità inserire<br />

nella prospettiva del Versuch» 3 , – sul<br />

filo di quella ambivalenza che troverà pure riverbero nel pensiero<br />

di Fedele d’Amico per giustificare come «tutto, dopo<br />

Wagner, diventa problema» in quanto «eterna resta l’ambiguità<br />

fra la tensione nichilista dell’inestirpabile eresiarca<br />

e la bronzea concretezza delle figure che ne son messe in moto»<br />

4 . Bortolotto sembra andare ancora oltre nel creare aspettative<br />

di lunghissima gittata, conseguenza del «negativo»,<br />

pur non celando la disillusione nella scettica chiusa: «Gli<br />

orologi della musica senza aggettivazione, arrestatisi simpateticamente<br />

nel febbraio 1883, il giorno 13 (in obbedienza<br />

al numero vitale del musicista) sul frammento Liebe-Tragik<br />

di Palazzo Vendramin, segnano adesso, meccanici ossimori,<br />

l’ora delle serenate» 5 .<br />

Un Wagner diverso, appunto, non riportabile entro linee<br />

definite, neppure rassicuranti, a considerare l’enorme sfrido<br />

che dall’imponente impresa è andato determinandosi. Anche<br />

questo fa parte dell’effetto Wagner, di quel gorgo avvitato<br />

dalla sua concezione musicale e, più ancora, dal suo linguaggio<br />

votato alla dissoluzione: la musica, come intuito da<br />

Schopenhauer e da Nietzsche, quale «arte del tramonto»,<br />

a disegnare l’arcata discendente in fondo alla quale, «ulti-<br />

ma tappa del sublime romantico» – scriveva Bortolotto nella<br />

prefazione al saggio di Adorno su Wagner – è «il Kitsch» 6 .<br />

Aloni fumosi quelli emanati da questo termine; quel fumo<br />

che costituiva la ragion d’essere degli adepti («Il wagnerismo<br />

[…] un rituale asiatico, baudelairianamente “impregné<br />

d’odeurs”»: p. 16), i Wagnerianer e, nella diramata idolatria<br />

francese, i Wagnerites, fino all’eccitazione di un Catulle<br />

Mendès il quale esclamava «Christ, Berlioz et Wagner, divins!»<br />

(p. 15). Un terreno in cui Bortolotto brucia tutta la<br />

sua sagacia, con una circolarità di movenze capace di mettere<br />

a frutto la banalità del gossip attraverso iperboli accecanti,<br />

che partendo dalle situazioni del divenire quotidiano ci pongono<br />

di fronte a snodi essenziali, facendoci intendere il senso<br />

ineludibile di un lascito. Lascito che va depurato, comprensibilmente,<br />

dalle incrostazioni sedimentate sul personaggio<br />

Wagner, pur esse però significative, come pure dalle infinite<br />

complicazioni innescate dal suo rapporto coi contemporanei,<br />

e con Liszt in particolare. Al quale non esitava a confessare<br />

«come musicista mi sento tale da far pietà» – pendant<br />

al giudizio impregnato di sufficienza sul futuro suocero:<br />

«non è che un musicista!».<br />

Una presenza, quella dell’ungherese, che nelle pagine di<br />

Bortolotto rivive non tanto in termini<br />

di rivendicazione quanto<br />

piuttosto innestata nel<br />

comune parametro dell’«inattualità».Molte,<br />

infatti, sono le situazionimusicali<br />

di Liszt che possono<br />

considerarsi incunaboli<br />

di Wagner; la più<br />

nota, la melodia dalle Campane<br />

del duomo di Strasburgo,<br />

che ritroviamo nel Parsifal<br />

quale motivo che accompagna<br />

il corteo funebre di Titurel<br />

(e che poi, simbolicamente, Liszt<br />

riprenderà nel tardo Am Grabe<br />

Richard Wagners per pianoforte).<br />

Bortolotto è chiarissimo nello<br />

sfatare la nebbia: «La distanza da<br />

Liszt è radicale, nonostante l’affinità<br />

apparente: l’atteggiamento di Wagner<br />

punta sull’estensione del principio<br />

tonale, laddove Liszt indaga plaghe<br />

ignote con attenzione meramente acustica, sperimentale<br />

nettamente» (p. 428). Più che il bilancio dei crediti, in parte<br />

riconosciuti da Wagner, in particolare quelli verso i poemi<br />

sinfonici, nonostante la sua iniziale sfiducia nella musica a<br />

programma (mentre risulterà insensibile, se non disgustato,<br />

dalle estreme pagine sperimentali, a tal punto ritenute frutto<br />

di uno squilibrio da chiamarne l’autore «re Lear»), emerge<br />

la comunanza di una particolare tensione formale nel gestire<br />

il rapporto con la parola. Tensione che per Wagner vede<br />

la sua naturale proiezione nel modo di concepire il tempo,<br />

miticamente, come uno scorrere circolare entro cui affiorano<br />

e agiscono, quali presenze riconoscibili, i temi, non organismi<br />

compiuti in sé, nella loro fisionomia grafica, avverte<br />

Bortolotto, bensì puro dato temporale, proprio come l’intermittence<br />

proustiana. Puntualissimo il rimbalzo attraverso<br />

la figura del «barone di Charlus, perno della Recherche; ove<br />

svolge insieme pratica di delucidazione e d’arbitraggio, e soffre<br />

passione sacrificale. Al pari di Wotan, non occupa trop-<br />

A sinistra: Friedrich Wilhelm Nietzsche.<br />

A destra: Arthur Schopenhauer.


po spazio nella generale economia» (p. 278). Ma questa peculiarità<br />

dei temi wagneriani, elementi di un cosmo in divenire<br />

(e non albero genealogico), di quella melodia infinita<br />

che lungi dall’essere isolata e ridefinita come forma chiusa –<br />

secondo una consuetudine pratica cui aderì per convenienza<br />

lo stesso Wagner – trova una sua ragion d’essere proprio<br />

nel suo vivere nel tempo, e quindi nel suo continuo trasformarsi,<br />

in quel suo cangiare quasi biologico che dalla nascita<br />

giunge all’estinzione, questa peculiarità dei temi, dicevo, è<br />

un tratto che, come suggerisce Bortolotto, può ritrovarsi anche<br />

«nella genesi della Comédie humaine e, in scala minore,<br />

nei Rougon-Macquart o, fra gli scrittori moderni, nelle complesse<br />

parentele diramantesi nella saga di Yoknapatawpha,<br />

in Faulkner» (p. 41).<br />

E proprio il parametro della «inattualità», nel rendere più<br />

segnatamente sensibile il rapporto di Liszt con Wagner, si allarga<br />

in maniera oltremodo significativa nel reclamare una<br />

più incidente considerazione del musicista ungherese. Lo si<br />

coglie nella sicura evidenza impressa al profilo del musicista<br />

magiaro-franco-tedesco nel bellissimo saggio Liszt o la coscienza<br />

romantica 7 , dal quale la visione si allarga verso orizzonti<br />

inattesi. Indubbio, dice Bortolotto, il riconoscere la<br />

grandezza di Liszt per la complessità ch’egli è andato diramando<br />

su vari fronti, dalla tecnica alla concezione formale,<br />

al gusto, ma ciò che più «allarma» è lo sperimentalismo<br />

e l’eterofonia, quest’ultima in particolare, «un modo di modernità<br />

schiacciante, un’espressione radicale di décadence».<br />

E proprio nel grembo indistinto in cui tali elementi si muovono,<br />

sovrapponendosi talora a più rassicuranti linee guida,<br />

si cela il senso più occulto, più istigante anche, dell’eredità<br />

lisztiana; fino a pensare che si stia «riscoprendo in lui la profezia<br />

di lontani approdi informali» 8 .<br />

Anche per Liszt, come per Wagner, il cammino di Bortolotto<br />

si muove sempre seguendo le ragioni della musica,<br />

esplorate nelle possibili declinazioni delle tante virtualità, a<br />

garantire un’autenticità dai rischi di ogni possibile contaminazione<br />

letteraria o agiografica. In altre parole, egli si sottrae<br />

ben consapevolmente alle insidie del wagnerismo, pur da lui<br />

osservato con quella lunghezza di sguardo, non poco cinica<br />

anche, che lo protegge da ogni «infezione». Una voce per<br />

questo ben sbalzata sul fondale di una tradizione come la nostra,<br />

in cui il wagnerismo si è innervato come termine di confronto<br />

in un ben diversificato tessuto di cultura. Un quadro<br />

che Adriana Guarnieri ha ampiamente ricomposto nel già citato<br />

Tristano, mio Tristano, prezioso gioco d’intarsi, ricchissimo<br />

variegato mosaico tra le cui tessere il «caso Wagner»<br />

si insinua come sottile provocazione, specchio riflettente anche<br />

di più segreti disagi.<br />

Wagner l’oscuro nasce da un confronto inesausto di Bortolotto<br />

con l’opera wagneriana, benché talora scandito in maniera<br />

occasionale: alcuni capitoli sono infatti ripresi da saggi<br />

apparsi in varie occasioni, programmi di sala, presentazioni;<br />

contingenze poi ricomposte attraverso la naturale progressione<br />

cronologica. Ma è soprattutto il filo che va snodandosi<br />

da questo viaggio gremito e avventuroso ad assicurare l’organicità<br />

del percorso, un filo che affiora sempre più significativamente<br />

da un cammino a senso unico, indirizzato all’affermazione<br />

della musica; dopo aver preso le mosse dall’imperioso<br />

statuto teorico del Wort-Ton-Drama, Bortolotto mostra<br />

come le «azioni della musica» vadano facendosi sempre<br />

più «visibili». La vistosa parentesi aperta da Wagner durante<br />

l’Atto II del Sigfrido, con la composizione del Tristan e<br />

dei Meistersinger, segna un trapasso sensibile. Tanti i segnali<br />

di questa presa di coscienza; sintomatica un’annotazione<br />

di Cosima nel suo diario, l’11 febbraio 1872, in cui viene ri-<br />

A destra: Franz Liszt.<br />

ferito un pensiero di Wagner, in quel periodo intento a correggere<br />

le bozze di Oper und Drama: «So quello che là dentro<br />

non conviene a Nietzsche, è ciò che è spiaciuto a Kossak,<br />

e che solleva Schopenhauer contro di me: è quanto dico del<br />

Verbo: in quel tempo non ero ancora capace di dire che era la<br />

musica ad aver dato origine al dramma, e tuttavia, interiormente,<br />

lo sapevo». Ancora Cosima, sei anni dopo, nel 1878,<br />

riferisce di un Wagner irato per una questione di «costumi<br />

e trucco», che si sfogava dicendo, dopo «aver creato l’orchestra<br />

invisibile», di voler «inventare il teatro invisibile». La<br />

questione, come ben si sa, è complessa e tanti sono gli aspetti<br />

contradditori su cui gli studiosi hanno dibattuto. Bortolotto<br />

la gestisce con la consueta sottigliezza; il che non gli<br />

impedisce di far l’occhiolino all’amato Stravinskij: «Là dove<br />

può sembrare che l’assunto ideologico vacilli – scrive, –<br />

interviene il “golfo mistico”: che mai come ora avanza pretese<br />

legittime per la tronfia designazione» (p. 282). Pretese<br />

che il nostro amico, altrettanto puntiglioso nel frugare entro<br />

gli angoli più riposti del disordinato magazzino<br />

da cui Wagner attinge i materiali per le sue ricreazioni<br />

poetiche, individua con acutezza<br />

fulminante, osservando attraverso la lente<br />

del suo penetrante microscopio ogni<br />

minimo passaggio, quasi che, nel chiudere<br />

quel cerchio da cui sono partite le<br />

diramazioni più imprevedibili, si sentisse<br />

sospinto dalle parole del musicista<br />

ormai vecchio, che sentiva Bach<br />

«come la radice delle parole. I rapporti<br />

di quest’opera con ogni altra musica<br />

sono quelli del sanscrito con le altre<br />

lingue». E quindi dar l’impressione<br />

di accondiscendere all’idea che Wagner,<br />

terminato il Parsifal, sognasse<br />

di lasciare il teatro, «dimostrarsi<br />

un musicista vero, fuori dalle lusinghe<br />

dell’azione scenica». Ma subito<br />

se ne ritrae, consapevole che in questo<br />

modo si uscirebbe «dal continente<br />

Wagner» per addentrarsi «nello<br />

scialbo territorio delle supposizioni»<br />

(p. 36). Ossia per entrare in<br />

un’altra dimensione di oscurità. ◼<br />

note<br />

1. Significativo il pensiero di Enrico De Angelis espresso nel saggio I<br />

maestri cantori. Lettura di un’«opera» pubblicato nel Numero unico del<br />

49° Maggio musicale fiorentino 1986, a cura di Mauro Conti, Alberto<br />

Paloscia, Annalena Aranguren, Ente autonomo del Teatro Comunale di<br />

Firenze, Firenze 1986, pp. 129-41, e così riassunto da Adriana Guarnieri<br />

Corazzol in Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso Wagner,<br />

il Mulino, Bologna 1988 («Saggi», 347), p. 361: «ha […] suggerito quale<br />

dimensione wagneriana più autentica (più moderna, novecentista appunto)<br />

quella comico-“moderata” (liberatoria ma non eversiva) dei Maestri<br />

Cantori; proponendo quale cifra privilegiata di questo “dramma satiresco”<br />

la parodia dell’opera tradizionale e sottolineandone quindi significativamente<br />

i caratteri ‘neoclassici’ (prestiti, citazioni, inversioni di<br />

senso, autocitazioni ironiche, effetti a sorpresa, ecc.)».<br />

2. Mario Bortolotto, Prefazione (1966), in Theodor Wiesengrund<br />

Adorno, Wagner (1952), prefazione e cura di Mario Bortolotto, Einaudi,<br />

Torino 2008 («Piccola biblioteca Einaudi», 414); prima ed. it. in Id.,<br />

Wagner – Mahler. Due studi, Einaudi, Torino 1966 («Saggi», 376).<br />

3. Ivi, p. XXIII.<br />

4. Fedele d’Amico, Il dio Wagner (1983), in Id., Tutte le cronache musicali.<br />

«L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la<br />

collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho,<br />

prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, III (1979-1989),<br />

pp. 1989-1993: 1993.<br />

5. Bortolotto, Prefazione, in Adorno, Wagner cit., pp. XXIII-XXIV.<br />

6. Ivi, pp. XXII-XXIII.<br />

7. Scritto nel 1970, è ora confluito in Bortolotto, Corrispondenze,<br />

Adelphi, Milano 2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 88-101.<br />

8. Le due citazioni si leggono ivi, rispettivamente alle pp. 100 e 101.<br />

Il provetto stregone 71


72<br />

Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />

L’anima del Lied<br />

di Alberto Caprioli<br />

I<br />

libri di Mario Bortolotto non sono soltanto libri<br />

da leggere, sono anche libri da ascoltare, perché parlano.<br />

Come nel caso del magistrale trattato sul Lied romantico<br />

apparso in due edizioni e in varie ristampe tra<br />

il 1962 e oggi, che il suo autore intitola con falsa modestia Introduzione,<br />

e che, al momento della sua riedizione nel 1984,<br />

giudica, addirittura, «impolverato profilo»: Sternenstaub,<br />

diremmo noi piuttosto, quella polvere di stelle che per gli<br />

astrofisici indica il prodotto di novae e supernovae, che il Nostro<br />

ritrasforma da sostantivi di nuovo in aggettivi.<br />

Essendo musicisti, ci si accorge che sono libri scritti da una<br />

mente in continuo dialogo con il proprio orecchio di musicista;<br />

libri che parlano una lingua che alterna ai continui riferimenti<br />

filosofici, artistici, letterari, finanche antropologici,<br />

una verifica incessante sul campo, sul tavolo talora spoglio,<br />

talora straordinariamente adorno di un’anatomia dei pensieri<br />

e dei sentimenti oltre che delle forme, delle attitudini<br />

superficiali e delle strutture profonde.<br />

Chi fosse abituato a confrontarsi con i saggi della maggior<br />

parte dei musicologi, dopo aver letto le prime due pagine di<br />

Introduzione al Lied romantico, comincerebbe a sfogliare<br />

questo, come tanti altri libri di Bortolotto, ricercandone i<br />

capitoli, i paragrafi, l’indice dei nomi; dimenticando che<br />

un’«introduzione» è appunto come un’ouverture, dove i<br />

temi o i Leitmotive dei personaggi si presentano a raccontarli,<br />

a difenderli, talvolta a rimpiangerli, ancor prima dei personaggi<br />

stessi. Ma in questo caso non si tratta di un’ouverture<br />

o di una sinfonia in stile italiano, bensì di una pièce sinfonica<br />

per grande orchestra, una Symphonische Dichtung generatrice<br />

di idee, così come la potrebbe concepire in musica un<br />

Richard Strauss (una lunga frase poematico-sinfonica accompagnata<br />

da una miriade iridescente e incessante di contrappunti<br />

intellettuali, di fermate reali, che fungono da perno<br />

per digressioni continue, ma segretamente e astutamente<br />

organizzate), dove l’ossimoro<br />

con il camerismo del Lied<br />

è artificio volontario<br />

e rende ragione della<br />

inimmaginabile<br />

portata di quella<br />

che si potrebbe<br />

chiamare una<br />

paginetta di<br />

Schubert, di<br />

Schumann<br />

o di Wolf.<br />

Di questa<br />

apparentemente<br />

infinita<br />

Erlösung<br />

d e l l a<br />

forma rimane<br />

la<br />

lucidità<br />

Novalis.<br />

dei timbri, la riconoscibilità degli accenti, la pregnanza delle<br />

dramatis personae, chiamate in causa nella loro chiara contestualità<br />

da manuale di alta geografia delle idee; la distillata<br />

sapienza della citazione appropriata, che non è mai, neppure<br />

nei casi e nei generi più intricati e sibillini, jeu de mots fine a se<br />

stesso, ma diviene viva carne e sangue pulsante del corpo del<br />

testo e dei suoi tessuti:<br />

con trame e orditi talvolta<br />

paralleli o trasversali<br />

che, se non esistono in<br />

natura, vengono creati<br />

da Bortolotto in preziosi<br />

artifici di autentica ars<br />

retorica: un invito al lettore<br />

a divenire l’interlocutore<br />

e l’artefice di uno<br />

scambio continuo.<br />

Bortolotto, da viennese<br />

(oltre che francese) di<br />

origine, prima ancora<br />

che di adozione, esordisce,<br />

inaspettatamente,<br />

con una disamina degli<br />

aspetti contraddittori di<br />

quello che chiama «il<br />

fondamento proibito»<br />

della storiografia tedesca<br />

del Lied, partendo<br />

dalle origini linguistiche<br />

e musicali del termine,<br />

dalla sua pretesa derivazione<br />

antica, germanica e<br />

popolare, con le conseguenti interpretazioni storiografiche,<br />

che oggi gli storici definirebbero sous surveillance.<br />

E in questa introduzione all’introduzione, che si salda al<br />

resto del trattato con l’accelerando proprio delle Einleitungen<br />

delle sinfonie schumanniane, già compaiono scaglie cristalline<br />

di metalli rari, di quelli che erano ancora da scoprire<br />

al tempo dell’alchimia, nel quale certa musicologia italiana<br />

giaceva allora wie eingeschlummert. Un esempio per tutti<br />

(non credevo ai miei occhi quando ho visto, nell’edizione<br />

del 1962, esattamente le stesse parole dell’edizione 1984: in<br />

quel caso nulla era stato aggiunto): quando nella prima pagina<br />

l’autore parla di Stilkritik, in un contesto che, se all’inizio<br />

degli anni sessanta poteva apparire connesso alle discipline<br />

artistiche e all’archeologia, è oggi invece inderogabilmente<br />

legato al suo côté storico-antropologico, non fa altro che<br />

anticipare di quarant’anni, con una fulminante intuizione,<br />

uno dei temi à la page dell’odierna semiotica, tanto da essere<br />

inserito tra i fili conduttori dell’XI Convegno internazionale<br />

della Deutsche Gesellschaft für Semiotik del 2005, intitolato<br />

per l’appunto Stil als Zeichen. Funktionen – Brüche<br />

– Inszenierungen (Stile come segno. Funzioni – trasgressioni –<br />

messinscene), ove un’intera sezione presenta una ricerca della<br />

cattedra di letteratura comparata e comunicazioni (Lehrstuhl<br />

für Vergleichende Literaturwissenschaft und Medienforschung)<br />

dell’Università europea Viadrina di Francoforte<br />

sull’Oder, intitolata per l’appunto Critica stilistica storica e<br />

antropologia. E la sensazione che si tratti di un presagio, di<br />

un’«illuminazione», si concretizza una trentina di pagine<br />

più avanti (per l’esattezza alla p. 32 dell’edizione Piccola<br />

biblioteca Adelphi, p. 31 della prima edizione nella Piccola<br />

biblioteca Ricordi), dove tra gli autori menzionati, al seguito<br />

di Theodor Wiesengrund Adorno, compare Claude Lévi-<br />

Strauss, sette anni prima che Luciano Berio ne utilizzasse i<br />

testi in Sinfonia (1968-1969). Di Lévi-Strauss, oltre ai Tristes<br />

tropiques del 1955 e all’Anthropologie structurale del ’58, si


intuisce che Bortolotto aveva in certo senso prefigurato non<br />

solo alcune pagine del primo scritto appartenente alla tetralogia<br />

dei Mythologiques, Le cru et le cuit, apparso due anni<br />

dopo il Lied romantico, nel 1964, ma anche quelle di Regarder<br />

écouter lire, pubblicato a trent’anni di distanza, nel 1993,<br />

laddove Lévi-Strauss (a proposito di Wagner), dialogando<br />

con un interlocutore d’eccezione quale Michel Leiris (dietro<br />

cui sta in realtà la figura del comune amico René Leibowitz),<br />

da un lato gli rimprovera di occuparsi del testo e non della<br />

musica, dall’altro afferma provocatoriamente che la verità<br />

della storia è nel mito e non viceversa. Ma quella che sembra<br />

una provocazione, Mario Bortolotto lo intravedeva già negli<br />

ormai lontani primi anni sessanta, perde la sua efficacia se la<br />

si legge nel contesto della tradizione dialettica occidentale,<br />

in particolar modo riguardo alle arti. Non solo nelle arti e<br />

nella musica, ma persino nella critica letteraria è ormai un<br />

dato acquisito quanto il mito influenzi in vario modo e a vari<br />

livelli la storiografia. Se Le Goff e Foucault avessero recensito<br />

il libro di Bortolotto avrebbero visto in questo capitolo<br />

introduttivo un parallelo con le allora vivissime polemiche<br />

contro l’antropocentrismo e contro il concetto di storia globale.<br />

Seguendo questo pensiero apparentemente sghembo,<br />

e utilizzando termini forse impropri, direi che Bortolotto,<br />

con il suo trattato, offre una precisa testimonianza di come<br />

fosse ormai risibile, all’epoca della nouvelle histoire, scrivere<br />

una storia del Lied, ma fosse invece necessario affrontare i<br />

problemi posti da una serie di microstorie dei Lieder e dei<br />

loro autori.<br />

E, cosa che rende il libro incredibilmente attuale, gli autori<br />

del passato sono messi in costante dialogo con gli autori del<br />

presente o del passato prossimo. Non vi è pagina dove non<br />

si parta da Bach per giungere a Thomas Mann, da Pfitzner,<br />

Claudel e Stockhausen indietro a Venanzio Fortunato e al<br />

Medioevo tedesco, indagato questa volta per nulla en passant<br />

da una mezza dozzina di pagine per poter leggere le quali<br />

non basta passare un pomeriggio in biblioteca.<br />

Cosa che altrove è richiesta più gradatamente, quando ci si<br />

immerge nelle medias res degli autori a noi più noti, sempre<br />

posti in relazione con l’oggi della musica, della letteratura,<br />

della storia delle idee. Per esempio, quando si parte dalla coscienza<br />

che con la deutsche Romantik è «intervenuta di riflesso,<br />

anche nella musica tedesca, una reale frattura. Dopo i<br />

nuovi ideali religiosi della Nona («Über Sternen»), parallelo<br />

esatto alle Reden über die Religion di Schleiermacher e alla<br />

Christenheit oder Europa di Novalis (per tacere di infiniti<br />

altri apporti), è impensabile una ulteriore variazione» 1 . In<br />

Italia bisognerà attendere gli stessi ventidue anni che separano<br />

la prima dalla seconda edizione dell’Introduzione al Lied<br />

romantico, perché uno studioso quale Luigi Magnani riprenda<br />

il tema del Beethoven lettore di Omero e della Gräkomanie<br />

viennese 2 ; un libro nel quale, peraltro inspiegabilmente,<br />

Novalis non è nemmeno citato, e Schleiermacher una volta<br />

soltanto, quale traduttore della Repubblica di Platone nell’edizione<br />

posseduta da Beethoven.<br />

Novalis, invece, in Bortolotto ritorna puntualmente in<br />

antitesi con le formulazioni di Lukács, introducendo così il<br />

concetto di popolo cui il Lied si ispira, e occupando tre delle<br />

trentaquattro pagine introduttive, sulle quasi duecento pagine<br />

del libro:<br />

Il popolo è inteso […], come ci dice un frammento di Novalis, come<br />

un’idea, idea che riassume in sé una vicenda oscura di sofferenza: la miseria<br />

tedesca marxiana, che il Lukács ha preso a tema centrale del suo schizzo.<br />

Ma a questo punto Novalis interviene: «Si dovrebbe essere orgogliosi<br />

del dolore. Ogni dolore è un ricordo del nostro alto rango. Le malattie<br />

distinguono l’uomo dagli animali e dalle piante. L’uomo è nato a soffrire.<br />

Tanto più misero, tanto più sensibile alla morale e alla religione. [...]<br />

Sempre più trionfanti diventeranno la religione e la moralità, queste basi<br />

del nostro essere». E qui non solo si nega ogni possibilità di redenzione<br />

sociale, ma si proscrive perfino la volontà di saltarne fuori. È necessario,<br />

è doveroso accettare quello stato di cose, perché da esso nasce la salvezza<br />

dell’esperienza basilare, concepita sempre più come unitaria: esteticoreligiosa.<br />

(p. 37; qui e più avanti si cita sempre dall’ed. 1984)<br />

Novalis che teorizza quindi l’accettazione della condizione<br />

umana, la celebrazione dell’amore (di quell’intesa sociale destinata<br />

a divenire la Christenheit-Europa [cristianità-Europa]<br />

del celebre saggio) «e anzitutto [del]la patria tedesca del<br />

nuovo nazionalismo – séguita Bortolotto; – a costituirsi, si<br />

vorrebbe dire, quasi come corpo mistico». Come nei migliori<br />

testi filosofici è qui esemplificato quel «profondo iato» tra<br />

la nascente Romantik, erede degli Stürmer und Dränger, e<br />

l’Illuminismo e la stessa Weimarer Klassik. Invano abbiamo<br />

cercato qualcosa di più vicino all’anima di Schubert di quelle<br />

parole novalisiane citate da Bortolotto: «“Il Lessing vedeva<br />

troppo acutamente e perdeva per questo il sentimento<br />

dell’oscura totalità, la visione magica degli oggetti, nel loro<br />

insieme, nella molteplicità delle luci e delle ombre”. La storia<br />

tedesca, presente tutta nell’istante poetico, nel sogno dell’anima<br />

bella, è una storia ideale eterna: onde nei più radicali<br />

non si parlerà neppure di un ritorno all’evo medio, ma di una<br />

presenza in atto» (p. 38).<br />

Qui si vede la capacità di far germinare il pensiero: non possiamo<br />

non aggiungere oggi, con il conforto del fondamentale<br />

saggio su Wagner 3 , che qui sta tutto il problema della non<br />

autenticità, o quanto meno del non romanticismo, del Lipsiense<br />

e del suo neogotico, opposto al romanticismo, a quella<br />

sorta di grande Liederkreis con cori, più simile al Faust e<br />

al Manfred, che è per esempio la Genoveva di Schumann,<br />

criticata da Wagner, perché non compresa, né da parte sua<br />

in alcun modo comprensibile. «In ogni caso, l’accettazione<br />

dell’attualità “alienata” è il punto di partenza. Essa diviene,<br />

in Beethoven e in Schubert, Wonne der Wehmut, Lob der<br />

Thränen: voluttà della pena, elogio delle lacrime. Schiude<br />

infatti l’unica salvezza: la “immaginazione” in cui consiste<br />

“il più gran bene”» (Ibid.).<br />

Un ulteriore elemento che emerge<br />

nel corso dell’analisi, anche<br />

particolareggiata, di molti<br />

Lieder, indagati dal punto<br />

di vista melodico, armonico,<br />

formale, o da<br />

quello del rapporto<br />

testo-musica,<br />

è il confronto fra<br />

le diverse versioni<br />

musicali di uno stesso<br />

testo letterario: è il<br />

caso della goethiana<br />

Mignon («Kennst du<br />

das Land»: Beethoven,<br />

1810; Schubert,<br />

1815; Schumann,<br />

1849; Wolf, 1888).<br />

Quasi venti pagine<br />

(pp. 42-60), fitte di<br />

concetti che anti-<br />

Franz Schubert.<br />

Il provetto stregone 73


74<br />

Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />

cipano una nutrita serie di studi di musicologia comparata<br />

da parte di più giovani leve della critica (pensiamo al saggio<br />

schubertiano di Giuseppina La Face Bianconi) 4 . Ma di esse<br />

non si può non citare quella che, se non ne è affatto la conclusione<br />

(in quanto invece di chiudere strade ne apre di nuove),<br />

ne è, in certo modo, il paradigma critico:<br />

Il confronto fra le quattro versioni del Lied, favorito dall’identità del<br />

testo, conclude a una verificazione fondamentale: la tendenza al comportamento<br />

organico, unitario: alla canzone durchkomponierte. [...] Ove la<br />

dissoluzione dello schema, della forma presupposta risulti impossibile,<br />

come nel nostro caso, il compositore riforma dall’interno le strutture<br />

accettate, arrivandosi con Wolf a mutarle integralmente: la variazione<br />

annulla la ripetizione; e niente rimane dell’antica strofe unitaria, sotto la<br />

quale si arrivò a segnare fino a sei testi sovrapposti 5 . Dopo questa rinnovata<br />

vocalità, affiancata dalle affini elaborazioni di Mahler, il Lied non<br />

può che eliminare gli ultimi elementi della sussunzione popolare, e quella<br />

sorta di musica al quadrato ante litteram rovesciarsi nelle depressioni morali<br />

e nelle assorte veggenze della Wienerschule. (pp. 59-60)<br />

E qui, di nuovo, come non vedere un apoftegma patrum nella<br />

definizione che segue: «Le sillabazioni iniziatiche di Webern<br />

portano il Lied a schivare ogni ricerca di salvezza per<br />

ascoltare la verità del suono-simbolo, nel silenzio dell’uomo<br />

interiore». Questa volta è Hölderlin e con lui i suoi migliori<br />

interpreti novecenteschi, da George a Heidegger. Ma eccolo<br />

citato, Hölderlin, quarantasette pagine più avanti (p. 107),<br />

con i Götter Griechenlands, insieme al Leopardi dell’Inno ai<br />

Patriarchi, incomprensibile a chi non ne ricordi il sottotitolo<br />

(De’ principii del genere umano).<br />

Le settantacinque pagine (pp. 35-109) dedicate a Schubert<br />

(che hanno per accompagnatori Mozart, Tomášek, Beethoven,<br />

Zelter, ma anche Schiller, Goethe, Lessing, Winckelmann,<br />

Novalis, Schlegel, Kierkegaard, e, quali paratesti,<br />

tra gli altri Nietzsche, Marx, Lukács) si concludono con un<br />

tramonto del compositore viennese dalle omeriche «dita<br />

di rosa», che prelude all’alba di Schumann, forse mai così a<br />

fondo, e così «germanicamente» compreso, se non da John<br />

Daverio 6 :<br />

Il pensiero idealista, fermamente radicato sui temi dell’umanesimo,<br />

chiarendo la responsabilità tutta umana della storia, parve determinare<br />

in quegli anni, come è stato notato, una seconda perdita del Paradiso. Da<br />

ogni parte d’Europa, Foscolo, Leopardi, Hölderlin, Blake, Keats, Coleridge,<br />

Platen, Nerval, e finanche, in termini di esulcerata ironia, l’amato<br />

Heine, sembrano insegnare agli uomini, nella consolazione del canto, a<br />

dischiudere nuove attualità edeniche. Il candidissimo Schubert, uomo di<br />

poca filosofia, poco dovette saperne: ma intuì quella necessità di ritorno,<br />

che riporta la favola umana a condizioni di primordio. (p. 108)<br />

Chi ha letto lo Schumann delle prime pagine dei Tagebücher<br />

7 lo sente già palpitare in queste parole. Bastano<br />

infatti meno pagine (solo ventotto, contro le settantacinque<br />

dedicate a Schubert) per giungere a un epilogo più da Eusebio<br />

che da Magister Rarus: «La conclusione di Schumann è<br />

[...] uno stupito accecato fissare le ragioni che la ragione non<br />

conosce: proprio attraverso il contatto immediato con la materiale<br />

tangibilità degli oggetti». Gli stessi echi schumanniani<br />

dell’infanzia sono qui accostati alla bella definizione di<br />

Adorno riguardo al «sempre vano tentativo degli uomini di<br />

nominare le cose stesse» (p. 136).<br />

Il terzo capitolo, dedicato a Mendelssohn e a Löwe, consta<br />

di sole sei pagine (pp. 137-142), divertentissime, dove la<br />

materia passa «dalla natura trascendentale del Gesang der<br />

Geister schubertiano alle canzoni da Touring Club, per le<br />

escursioni educative della media borghesia (la “malvagia”<br />

borghesia di Adorno), tra la religiosità sublime o la tenerezza<br />

della lirica amorosa, e le zuppe, le gelatine di tante graziose<br />

raccolte tutt’oggi pubblicate» (p. 142).<br />

Quasi nessuno – neppure conoscendo intimamente il<br />

Brahms dell’opus 33, le quindici romanze composte tra il<br />

1861 e il 1868 a Münster am Stein, dove il compositore aveva<br />

steso i primi abbozzi, poi abbandonati, della Prima Sinfonia,<br />

e dove si trovava in compagnia di Clara Schumann e dei figli<br />

di lei: quell’opus 33 i cui testi erano stati tratti dal romanzo<br />

della bella Magelone, in Italia quasi ignoto: Liebesgeschichte<br />

der schönen Magelone und des Grafen Peter von Provence,<br />

– quasi nessuno, dicevo, penserebbe di paragonare la prosa<br />

brahmsiana a quella di Tieck (p. 1<strong>48</strong>). E varrebbe la pena di<br />

discutere con Mario Bortolotto se, oltre beninteso al celebre<br />

articolo di Schönberg (nel 1962 non ancora così celebre)<br />

da lui citato, Brahms the Progressive 8 , avesse ragione anche<br />

quel critico contemporaneo di Brahms oggi ingiustamente<br />

dimenticato, che titolava all’inizio del Novecento uno dei<br />

capitoli conclusivi della sua bella epitome sulla storia musicale<br />

(allora) contemporanea «Der Klassizismus. Johannes<br />

Brahms» 9 . Come non pensare, oggi, alla rilettura «classica»<br />

che ne ha dato di recente l’ormai celebre raccolta saggistica<br />

di Giorgio Pestelli, che ridiscute, tra le altre, anche<br />

le tesi contraddittorie di Walter Niemann? 10 Nemmeno al<br />

caustico Ladislao Mittner – che definiva la Rapsodia per<br />

contralto, coro e orchestra di Brahms anziché il suo «Canto<br />

di Fidanzamento», come il compositore aveva scritto a Clara<br />

Schumann, «il canto della sua incapacità di fidanzarsi», 11 –<br />

sarebbe venuto in mente di stabilire un’equivalenza tra il preteso<br />

paganesimo di Brahms e quello di Chesterton (le celebri<br />

pagine sull’ateismo del Manalive vestito di verde). E a pochi,<br />

prima di leggere Bortolotto (mentre a posteriori appare<br />

chiarissimo), risulta chiaro come questo preteso paganesimo<br />

sia da identificare piuttosto con una religiosità à la Schleiermacher:<br />

quel «senso e gusto dell’infinito» (il celebre passo<br />

del teologo di Breslavia citato da Thomas Mann nel Doktor<br />

Faustus: «Sinn und Geschmack für das Unendliche»), che<br />

è l’«essenza del fenomeno religioso» (p. 152).<br />

Su Wagner, tre pristine rose: tante sono le pagine (154-<br />

Robert Schumann.


1. Mario Bortolotto, Introduzione al Lied romantico,<br />

Adelphi, Milano 19842 («Piccola Biblioteca»,<br />

165), p. 13.<br />

2. Luigi Magnani, Beethoven lettore di Omero, Einaudi,<br />

Torino 1984 («Saggi», 668).<br />

3. Mario Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi,<br />

Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42).<br />

4. Giuseppina La Face Bianconi, La casa del mugnaio.<br />

Ascolto e interpretazione della Schöne Müllerin,<br />

Olschki, Firenze 2003 («Historiae musicae<br />

cultores», 102).<br />

5. Si pensi a Mahler, Quarta Sinfonia, lo stupefacente<br />

Finale (Sehr behaglich «Das himmlische<br />

Leben») su quell’algido testo del Wunderhorn:<br />

nient’altro che una serie di variazioni.<br />

6. John Daverio, Robert Schumann: Herald of a<br />

“New Poetic Age”, Oxford University Press, Oxford-New<br />

York et al. 1997; Id., Crossing Paths:<br />

Schubert, Schumann and Brahms, Oxford University<br />

Press, Oxford-New York et al. 2002.<br />

7. Robert Schumann, Tagebücher, 3 voll., hrsg.<br />

von Georg Eismann und Gerd Nauhaus, VEB,<br />

Leipzig 1971-1087.<br />

8. Arnold Schönberg, Brahms the Progressive<br />

(1933-1947), in Id., Style and Idea, Philosophical<br />

Library, New York 1950; trad. it. di Maria<br />

Giovanna Moretti e Luigi Pestalozza, Brahms il<br />

progressivo, in Id., Stile e Idea, con un saggio introduttivo<br />

e a cura di Luigi Pestalozza, prefazione di<br />

Luigi Rognoni, Rusconi e Paolazzi, Milano 1960<br />

(«Le poetiche»); rist. Feltrinelli, Milano 1975<br />

(«I fatti e le idee», 293).<br />

9. «Der Klassizismus. Johannes Brahms und<br />

seine Nachfolge» è il titolo dell’Erstes Buch nel<br />

volume di Walter Niemann intitolato Die Musik<br />

der Gegenwart und der letzten Vergangenheit<br />

bis zu den Romantikern, Klassizisten und Neudeutschen,<br />

Schuster & Loeffler, Berlin [1913]<br />

1921 13-17 , pp. 32-60.<br />

156) dedicate<br />

a l l ’a u t o r e<br />

del Tristano<br />

nell’Introduzione<br />

al Lied romantico.<br />

Volgendo<br />

al contrarioquell’aforisma<br />

di<br />

Oscar Wilde<br />

secondo il<br />

quale dietro<br />

ogni cosa buffa<br />

va ricercata<br />

una verità nascosta,<br />

pare<br />

quasi che<br />

dietro le<br />

Richard Wagner.<br />

10. Giorgio Pestelli, Canti del destino. Studi su<br />

Brahms, Einaudi, Torino 2000 («Saggi», 833),<br />

in particolare il paragrafo 9 del cap. V, «Diritto<br />

degli artisti agli anacronismi», pp. 174-177 (dove<br />

si fa riferimento a Niemann, Brahms, Schuster &<br />

Loeffler, Berlin 1920).<br />

11. Ladislao Mittner, «Brahms ovvero un ultimo<br />

saluto all’Ottocento», in Id., Storia della letteratura<br />

tedesca, vol. 3, Dal realismo alla sperimentazione<br />

(1820-1970), Einaudi, Torino [1968] 1971 2 ,<br />

tomo I (Dal Biedermeier al fine secolo (1820-<br />

1890)), pp. 8<strong>48</strong>-849.<br />

12. A partire dalle prime biografie degli amici<br />

(Ernst Décsey e Heinrich Werner) e dal moltiplicarsi<br />

di testimonianze ed epistolari inediti (più di<br />

venti dal 1903, anno della morte di Wolf, al 1962,<br />

anno di pubblicazione del libro di Bortolotto),<br />

senza contare ben quattro studi di taglio psicopatologico,<br />

bisognerà attendere gli stessi anni<br />

sessanta, perché veda la luce uno studio organico<br />

sull’opera liederistica del compositore viennese<br />

(Eric Sams, The Songs of Hugo Wolf, Foreword by<br />

Gerald Moore, Methuen, London 1961, aggiornato<br />

nel 1983 per Eulemburg, London, e tradotto<br />

in italiano da Erik Battaglia per Analogon, Asti<br />

2011, quale numero 9 della collana «Le opere<br />

di Eric Sams»). Dei circa cento titoli apparsi dal<br />

1903 al 1962, quattordici sono biografie più e<br />

meno romanzate, dieci sono tesi di laurea; mentre<br />

solo una dozzina sono brevi studi critici sui Lieder,<br />

di cui pochi hanno lasciato traccia nei lavori<br />

sopra citati di Eric Sams e in quelli più recenti e<br />

approfonditi della maggiore studiosa di Wolf,<br />

Susan Youens (Hugo Wolf. The Vocal Music, Princeton<br />

University Press, Princeton 1992, e Hugo<br />

Wolf and His Mörike Songs, Cambridge University<br />

Press, Cambridge 2000, rist. 2006).<br />

13. La metafora è giocata su un termine che a noi<br />

non può non suonare lisztiano: «In Strauss po-<br />

acute definizioni che lo studioso friulano dà del Lied del secondo<br />

Ottocento, nel quale «la preoccupazione conoscitiva<br />

finisce nella soddisfazione artigianale» destinata a «divenire<br />

indagine di se stesso, poesia della poesia, o analisi del<br />

fare poetico» (p. 160), si celi un’ironica risposta agli strali di<br />

Léon Daudet e del suo Le stupide XIX e siècle (1922).<br />

La personalità di Hugo Wolf, non mi riferisco soltanto alla<br />

puntuale analisi del suo Nachtzauber su testo di Eichendorff<br />

(pp. 184-186), incontra per la prima volta in Italia un interprete<br />

degno di tal nome; e pure in ambito germanico, dove<br />

al più si era fatto del facile biografismo legato alle sue amare<br />

vicende umane, non molto era stato scritto che fosse realmente<br />

degno di essere conosciuto. 12 E la meravigliosa scoperta,<br />

che non è mera trouvaille, dell’inaspettata considerazione<br />

di Ravel per il grande viennese (p. 190), non appare poi così<br />

insospettabile, se si pensa a cosa rappresenti per il Novecento<br />

un capolavoro-enigma qual è La valse.<br />

All’amato Strauss, sei pagine (198-203): ma bastano a far<br />

cantare con nuovissimi accenti i Vier letzte Lieder, e non<br />

soltanto; solo due a Pfitzner (pp. 204-205), morto nel 1949,<br />

fedele «a un passato indimenticabile, sepolto ormai come<br />

ricordo o sedimento nell’anima del provincialismo tedesco»:<br />

così si conclude la parabola del Lied romantico, con<br />

un asintoto verso le zone dell’incognita negativa, quella del<br />

feroce antagonista del preteso futurismo musicale teorizzato<br />

da Ferruccio Busoni.<br />

E quando, infine, nell’explicit, Liszt sembra passar la mano<br />

a Sainte-Beuve 13 («La nuova schiatta del Lied, la mutata,<br />

è […] troppo vibrante di passione moderna per trovar luogo<br />

idoneo “dans cette étude du déclin”»), fieri delle parole<br />

espresse su di noi da Mario Bortolotto, viviamo nella speranza<br />

che il futuro ci riserbi, magari fra un secolo, alla scuola ideale<br />

del suo pensiero inimitabile, un nuovo sublime interprete<br />

dei nostri rinnovati canti. ◼<br />

stremi titoli, che parlano di settembre, di sonno e<br />

occaso, ci inducono, nella commozione dell’estinguersi,<br />

a considerare gli ultimi passi anche possibilità<br />

di consolation: così Liszt sembra passar la<br />

mano a Sainte-Beuve» (p. 205). In realtà è Bortolotto<br />

che rilegge Sainte-Beuve facendogli «passar<br />

la mano» da Strauss a Liszt e, ripercorrendo il passaggio<br />

riprodotto, ci si accorge che si tratta di una<br />

citazione quanto mai ellittica: non è Bortolotto a<br />

creare la lisztiana consolation, ch’è già presente in<br />

Sainte-Beuve (in un brano da lui non riportato);<br />

egli si limita solo a sottolinearla nel suo testo con<br />

un lieve tratto di penna, che il tipografo non può<br />

che tradurre in corsivo. Il passo è tratto dal Livre<br />

sixième di Port-Royal, intitolato Le Port-Royal<br />

finissant: «La fin de la vie est toujours triste. Estce<br />

une tristesse de plus, n’est-ce pas plutôt une<br />

consolation [sottolineatura nostra], de sentir que<br />

l’on s’en va avec tout un ordre de choses, et que ce<br />

qu’on affectionnait le plus dans la vie, ce qui nous<br />

y rattachait le plus étroitement, nous a précédé ou<br />

nous accompagne dans la mort? Le fait est qu’en<br />

tout genre Boileau [-Despréaux, Nicolas, 1636-<br />

1711] estimait son siècle fini et très-fini quand il<br />

mourut. Ce n’était plus ce qui s’appelle le siècle<br />

ni le temps qui l’occupait, il pensait à l’Éternité.<br />

Véritable chrétien, honnête homme exemplaire,<br />

il était trop essentiellement poëte [...] pour n’être<br />

pas traité ici comme l’un des nôtres, pour n’avoir<br />

pas une place exacte dans cette étude du déclin»<br />

(C[harles].-A[ugustin]. [de] Sainte-Beuve, Port-<br />

Royal, Renduel-Hachette, Paris 1840-1859; la<br />

citazione è stata controllata sul quinto dei sette<br />

tomi che formano la troisième édition, Hachette,<br />

Paris 1867, p. 520); le due versioni delle Consolations<br />

(Six penseés poétiques) lisztiane erano apparse<br />

per i tipi di Breitkopf & Härtel: nel 1844-19<strong>48</strong><br />

la prima, nel 1849–1850 la seconda...<br />

Il provetto stregone 75


76<br />

carta canta — libri<br />

Le recensioni<br />

di Giuseppina La Face Bianconi<br />

Di Ellen Rosand, che insegna storia della musica<br />

alla Yale, i cultori dell’opera veneziana del Seicento<br />

apprezzano l’imponente monografia Opera<br />

in 17th-Century Venice: the Creation of a Genre<br />

(1991; è in cantiere una traduzione italiana). In questi anni<br />

la studiosa statunitense ha continuato a dissodare il campo:<br />

ha promosso l’edizione critica delle opere di Francesco<br />

Cavalli (Kassel, Bärenreiter, 2012); e nel 2007 ha pubblicato<br />

una monografia su Le ultime opere di Monteverdi, uscita ora<br />

da Ricordi in un’edizione italiana attentamente curata da Federico<br />

Lazzaro. Il sottotitolo dell’ampio lavoro (Trilogia veneziana)<br />

implica una tesi. Per quanto diversi, Il ritorno d’Ulisse<br />

in patria (1640), Le nozze d’Enea con Lavinia (1641) e<br />

L’incoronazione di Poppea (1643) costituirebbero un trittico<br />

su un «programma» implicito: glorificare le mitiche origini<br />

di <strong>Venezia</strong>. Per gli intellettuali del Seicento la Serenissima discende<br />

idealmente dall’antica Troia. Ora, proprio ai poemi<br />

omerici rimanda la vicenda del rimpatrio d’Ulisse nel dramma<br />

stilato da Giacomo Badoaro. Fuggito da Troia, Enea approda<br />

nel Lazio per fondarvi una nuova civiltà dai fulgidi destini,<br />

Roma: è questo il tema delle Nozze d’Enea (dramma di<br />

cui rimane il libretto, attribuibile al lucchese Michelangelo<br />

Torcigliani, non però la musica di Monteverdi). A sua volta<br />

la Repubblica veneta si concepisce come erede legittima della<br />

Roma repubblicana, opposta al degrado morale e politico<br />

della Roma imperiale:<br />

nell’èra<br />

di Paolo Sarpi<br />

e dell’Interdetto,<br />

attingere dagli<br />

Annali di Tacito<br />

lo spettacolo<br />

della tirannide<br />

neroniana<br />

equivaleva a celebrare,<br />

per contrasto,<br />

la sovranità<br />

e la libertà<br />

di <strong>Venezia</strong>.<br />

È il caso dell’acre,<br />

beffarda tramadell’Incoronazione<br />

di Poppea<br />

di Busenello,<br />

fondata sugli<br />

amori scellerati di Nerone, la criminale sete di vendetta<br />

d’Ottavia e l’agguato omicida di Ottone ai danni dell’eroina.<br />

La tesi, affascinante, è argomentata da Rosand su molti<br />

piani – storia delle idee, critica delle fonti, analisi stilistica,<br />

drammaturgia – e va attentamente considerata. Certo,<br />

l’ideologia «negativa» del terzo dramma stride con quella<br />

«positiva» dei primi due: il che ha suscitato lo scetticismo di<br />

qualche recensore. Ma nessun amante del teatro monteverdiano<br />

può fare a meno di confrontarsi con una monografia<br />

così generosa di sapienza e acume critico.<br />

Carlo Piccardi è uno dei musicologi e operatori<br />

musicali di spicco nella Confederazione Elvetica. Autore di<br />

numerosi saggi, in particolare sulla musica per la radio e il cinema,<br />

per decenni ha lavorato come direttore della rete culturale<br />

della Radiotelevisione Svizzera italiana. Ricordi e lim<br />

pubblicano ora un corposo volume sui Maestri viennesi, che<br />

Ellen Rosand,<br />

Le ultime opere di Monteverdi. Trilogia veneziana,<br />

edizione italiana a cura di Federico Lazzaro,<br />

San Giuliano Milanese, Universal Music Publishing Ricordi,<br />

2012, xix-440 pp., isbn 978-88-7592-905-3, euro 28,00.<br />

Carlo Piccardi,<br />

Maestri viennesi.<br />

Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. Verso e oltre,<br />

San Giuliano Milanese, Universal Music Publishing Ricordi –<br />

Libreria Musicale Italiana, 2012 («Le Sfere», 53),<br />

vii-744 pp., isbn 978-88-7592-895-7, euro 32,00.<br />

Arnold Schönberg,<br />

Il pensiero musicale,<br />

a cura di Francesco Finocchiaro,<br />

Roma, Casa editrice Astrolabio – Ubaldini, 2012 («Adagio»),<br />

339 pp., isbn 978-88-340-1602-2, euro 32,00.<br />

tratta i quattro sommi, Haydn Mozart Beethoven Schubert,<br />

col contorno di parecchi «minori». Si narra qui la nascita e<br />

lo sviluppo di una fulgida civiltà musicale nella Vienna tra fine<br />

Sette e fine Ottocento. La capitale asburgica metabolizza<br />

le esperienze musicali del passato e ne crea di nuove: i quattro<br />

grandi compositori non sono riconducibili sic et simpliciter<br />

a un’astratta «viennesità» (solo Schubert era nativo), ma<br />

tutti si alimentarono della cultura offerta dalla città sul Danubio,<br />

così ricca di incroci colti e popolari. Il saggio di Piccardi<br />

è seducente, accattivante alla lettura, utile al musicologo<br />

come allo studente: ottimo lavoro, da salutare con gaudio.<br />

Si deve a un giovane studioso di Schönberg, Francesco<br />

Finocchiaro, un’impresa ragguardevole: l’edizione bilingue<br />

del trattato che, nelle intenzioni del capostipite della<br />

Scuola di Vienna, avrebbe dovuto compendiare il senso del<br />

«pensiero musicale» e della «logica, tecnica e arte» in cui<br />

esso si manifesta. La stesura fu avviata nel 1923; ma il lavoro<br />

rimase incompiuto. Negli anni novanta ne fu fatta una discutibile<br />

edizione inglese; ora Finocchiaro, in collaborazione<br />

con l’Istituto Schönberg di Vienna, offre integro l’originale<br />

tedesco e vi appone un’accuratissima traduzione italiana,<br />

che è nel contempo un prezioso commento. Un documento<br />

intellettuale e critico di primaria importanza. ◼


Palchi e gironi<br />

per i cantautori italiani<br />

È<br />

uscito lo scorso aprile, per i tipi di effequ,<br />

il primo volume che relega all’Inferno, non lascia<br />

certo deserto il Purgatorio e fa assurgere al Paradiso<br />

ben cinquant’anni di cantautorato italiano.<br />

Il coraggioso autore che s’è cimentato nell’impresa è Guido<br />

Michelone, che ha dato alla luce una sorta di commedia<br />

alla Dante Alighieri, con tanto di palchi e gironi.<br />

E proprio come l’Alighieri allora, accompagnato nella sua<br />

Divina commedia<br />

da Virgilio e Beatrice,<br />

così oggi un<br />

nuovo e scanzonato<br />

– è proprio<br />

il caso di dirlo –<br />

scrittore, Lazslo<br />

Kovacs (alter ego<br />

dell’autore), accompagnato<br />

dal<br />

poeta Cecco Angiolieri<br />

e dalla signorina<br />

Francis<br />

Nudella, si inoltra<br />

in una surreale<br />

fiera composta<br />

proprio da Inferno,<br />

Purgatorio e<br />

Paradiso. La abitano<br />

i cantautori<br />

italiani, appun-<br />

to, accomodati<br />

fra cerchi, gironi e<br />

cornici, a seconda<br />

del contributo discograficofornito<br />

alla storia della<br />

di Ilaria Pellanda<br />

guido michelone,<br />

La commedia dei cantautori italiani.<br />

Inferno – Purgatorio – Paradiso,<br />

effequ editore, Orbetello, 2012,<br />

pp. 240, 14 euro.<br />

canzone d’autore nel Belpaese della musica. Un gioco divertente<br />

dove Michelone racconta, tra fiction e saggistica, mezzo<br />

secolo di voci e volti, caratteri e pensieri, da Domenico<br />

Modugno e Fred Buscaglione a Francesco Guccini e Fabrizio<br />

De André (tutti e quattro in Paradiso), da Luigi Tenco (anche<br />

lui nel più celestiale dei cerchi) a Jovanotti, Vasco Rossi,<br />

Claudio Baglioni (relegati all’Inferno) e molti altri ancora,<br />

svelando pregi e difetti di novantanove personaggi tratteggiati<br />

con humor, ironia e teatralità.<br />

«Questo libro è un gioco della memoria su pensieri e parole<br />

– si legge nella premessa di Andrea de Antonio –, su nomi<br />

e cognomi, su canzoni e cantautori. È anche un gioco “sulla”<br />

memoria del passato e del presente, gioco esercitato attraverso<br />

i ricordi, le sensazioni, i ragionamenti, le idee che suscitano<br />

alcuni pezzi e i loro interpreti (sovente essi stessi autori).<br />

Non è un’altra storia della musica leggera nazionale, perché<br />

già molte ne esistono e si correrebbe il rischio di non dire<br />

nulla di speciale, al momento. Questo libro è piuttosto il<br />

tentativo di coniugare Marcel Proust (che diceva che la canzone<br />

– e non solo la musica più “seria” come quella classica,<br />

ad esempio – si ricorda e si ama di più grazie all’immediatezza<br />

del messaggio, ndr), Dante Alighieri e i giochi a premi che<br />

sono andati assai di moda nell’Italietta televisiva di questi<br />

ultimi cinquant’anni, forse non a caso in parallelo ai successi<br />

della cosiddetta “canzone d’autore”». ◼<br />

Emma Dante<br />

e la sua Biancaneve<br />

reale. La regina è nella sua stanza<br />

da letto davanti allo specchio. Si spoglia. Si<br />

«Palazzo<br />

toglie il rossetto facendo le smorfie. Si ammira.<br />

Si guarda di profilo, davanti, di dietro. Lo<br />

specchio la imita in tutto e per tutto».<br />

Comincia così la rilettura che la drammaturga e regista siciliana<br />

Emma Dante fa della favola di Biancaneve nel suo Gli<br />

alti e bassi di Biancaneve, pubblicato la scorsa primavera per<br />

i tipi della Tartaruga, illustrato ancora una volta da Maria<br />

Cristina Costa, che già aveva lavorato con la Dante al libro<br />

Anastasia, Genoveffa e Cenerentola (cfr. vmed n. 41, p. 86),<br />

e divenuto anche uno spettacolo cupo e colorato, divertente<br />

e profondo (presentato lo scorso 9 agosto all’interno del cartellone<br />

dell’Operaestate Festival).<br />

Vi è poi subito il famoso scambio tra la regina – curiosa<br />

di sapere chi sia la più bella del reame – e il suo specchio:<br />

«Dimmìllo ora, forza!», dice la sovrana.<br />

E lo specchio: «Sei bella, bellissima, favolosa, attraente, eccitante,<br />

sexy, meravigliosa, appetitosa, burrosa, voluttuosa,<br />

con le mani lunghe e affusolate ca putissi suonare la settima<br />

di Beethoven… coi capelli ricci e voluminosi, chilometri di<br />

capelli… il culetto sodo, ‘u pigghiassi a muzzicuni stu culu!<br />

La pancia piatta, ‘a<br />

vita stritta, la bocca<br />

rossa, carnosa,<br />

gli occhi grandi…!<br />

E che muscoli che<br />

hai? Miss Olimpia<br />

2012, la forza della<br />

natura in persona!<br />

Sii ‘a megghiu<br />

di tutto il reame!».<br />

Emma Da nte<br />

continua dunque<br />

il suo viaggio nel<br />

mondo delle fiabe<br />

con una nuova interpretazionevisionaria<br />

e crudele,<br />

dove l’alto si fa basso<br />

e il basso si fa alto.<br />

La regina rap-<br />

Emma Dante,<br />

Gli alti e bassi di Biancaneve,<br />

illustrazioni di Maria Cristina Costa,<br />

Milano, La Tartaruga edizioni, 2012,<br />

pp. <strong>48</strong>, 18,00 euro.<br />

presenta l’«alto», il pericolo di un’esaltazione del proprio io<br />

che rende malvagi e chiusi. La sovrana interroga lo specchio,<br />

Biancaneve il suo cuore, e l’invidia che tormenta la matrigna<br />

è tale da farle desiderare di uccidere la rivale. Quando, con un<br />

incantesimo, decide di trasformarsi in una vecchia per offrire<br />

alla giovane la mela avvelenata, eccola diventare altissima,<br />

per poi ricevere però una punizione esemplare che le farà perdere<br />

la memoria e che non le permetterà di ricordare la formula<br />

dell’antidoto. Tutto è sproporzionato, come le cose che<br />

vedono i bambini. C’è uno specchio che riflette sogni e paure,<br />

azioni malvagie e fughe verso la libertà. E un mondo dove<br />

anche i mostri insegnano a crescere.<br />

E se la matrigna rappresenta il rischio dell’esuberanza del<br />

proprio sé, saranno invece i nanetti – «piccoli» minatori<br />

che hanno perso le gambe durante un’esplosione – a costringere<br />

Biancaneve ad abbassare lo sguardo e a essere umile.<br />

Il lieto fine comunque non manca: Biancaneve viene risvegliata<br />

dal suo sogno incantato da un bel principe. E tutti ballano<br />

dalla felicità. (i.p.) ◼<br />

carta canta — libri 77


78<br />

carta canta — libri<br />

«L’attore civile»<br />

di Paola Bigatto<br />

e Renata Molinari<br />

La vita di un teatro e della sua scuola, ma anche<br />

della sua città, in un periodo cruciale della loro<br />

esistenza: così si potrebbe definire, molto riduttivamente,<br />

L’attore civile. Una riflessione tra teatro e storia<br />

attraverso un secolo di eventi all’Accademia dei Filodrammatici<br />

di Milano di Paola Bigatto e Renata M. Molinari. Così,<br />

affrontando i diversi capitoli, sempre intitolati a un tipo di<br />

attore («giacobino», «patriota», «professionista», «sensitivo»<br />

e «vate»), ecco che, nel 1796, si assiste alla nascita<br />

dei Filodrammatici ad opera della Società Patriottica milanese,<br />

e in quel contesto si inserisce anche la recita della Virginia<br />

alfieriana alla presenza addirittura di Napoleone. Diversi<br />

anni dopo, nel 1862, a Unità appena conseguita, incontriamo<br />

Garibaldi in platea per vedere La sposa senza saperlo di<br />

Giulio Genoino. In epoca postrisorgimentale poi si passa –<br />

per citare solo alcune stazioni di questo articolato percorso –<br />

dalla scoperta teatrale di Dante operata da Ernesto Rossi alle<br />

riflessioni sulla «suggestione<br />

scenica» di Giuseppe Giacosa<br />

all’arrivo, nel 1923, di Eleonora<br />

Duse a inaugurare la sede rinnovata<br />

per la seconda volta. Ma<br />

il segreto che rende piacevolissima,<br />

anzi emozionante la lettura<br />

sta nella forma in cui questo pregevole<br />

volume è stato concepito:<br />

esso è infatti costruito con criteri<br />

eminentemente drammaturgici,<br />

come spiega con la consueta<br />

chiarezza Renata M. Molinari<br />

nel suo Prologo (pp. 7-8):<br />

L’attore civile «si presenta strutturalmente<br />

come un’anomalia e<br />

metodologicamente è un azzar-<br />

Paola Bigatto<br />

e Renata M. Molinari,<br />

L’attore civile.<br />

Una riflessione tra teatro e storia<br />

attraverso un secolo di eventi<br />

all’Accademia dei Filodrammatici<br />

di Milano,<br />

Titivillus, Corazzano (pi),<br />

pp. 200, euro 16.<br />

di Leonardo Mello<br />

do: non è un saggio storico, né<br />

teorico, e nemmeno la cronaca<br />

di un evento o di un’istituzione<br />

teatrale; è pensato come un tracciato<br />

drammaturgico. […] Il libro<br />

racconta possibili spettacoli<br />

o eventi spettacolari che potrebbero<br />

prendere vita a partire dalle<br />

cronache e dalle fasi di crescita<br />

di una comunità teatrale impe-<br />

gnata nella costante definizione e indagine del suo fare. Questa<br />

comunità teatrale è l’Accademia dei Filodrammatici, vista<br />

soprattutto in alcuni particolari momenti di incontro con<br />

le vicende civili, politiche e artistiche della sua città: Milano.<br />

Una Milano raccontata attraverso i suoi teatri – attraverso alcune<br />

serate in un suo teatro: una città osservata nell’intreccio<br />

fra vicende civili e diverse forme dell’arte drammatica e<br />

delle riflessioni ad essa legate. Il tutto con un’attenzione sempre<br />

vigile al fare dell’attore, a quella particolare responsabilità<br />

del dire che egli declina sulle diverse scene della vita artistica<br />

e civile. Nell’avvicinarci e nel presentare momenti particolari<br />

di quella relazione attiva fra un’accademia e la sua città,<br />

gli accadimenti storici diventano tappe di un possibile itinerario<br />

nella pedagogia teatrale». ◼<br />

«Scritto dentro»,<br />

un libro bellissimo<br />

il prato dove è più alto, perché<br />

cresce sul mio cane sotterrato, la macchia di<br />

«Bagno<br />

trifoglio implosa nella conca, l’edera nella<br />

spelonca celeste della civetta, le mille costellazioni<br />

di gramigna. Ma anche dove è rado, arido, secco, dove<br />

non c’è speranza eppure aspetto, bagno ancora, e il geroglifico<br />

da sciogliere è solo lo strato delle orme e delle anatre.<br />

E anche la terra nuda<br />

rinfresco, i sassi del<br />

viale, le traversine che<br />

diventano scure come<br />

l’odore dei treni passati.<br />

E allora lavo anche<br />

questo corpo estraneo,<br />

la testa che sprigiona<br />

un vapore di pensieri,<br />

i piedi quadrati nel<br />

fango, gli occhi lasciati<br />

cadere, la gamba più<br />

lunga del passo. Quella<br />

matta che sente il tempo,<br />

che butta in parte,<br />

sghemba asta a matita.<br />

Quella che è buona soltanto<br />

a tremare. Eppure<br />

un tempo, insieme<br />

all’altra e a un pugno<br />

di idee, teneva su un<br />

Fernando Marchiori,<br />

Scritto dentro,<br />

Poiesis, Alberobello (Ba) 2012,<br />

pp. 110, euro 15.<br />

uomo»: queste le parole<br />

che concludono il<br />

primo tempo di Scritto<br />

dentro, il bellissimo libro<br />

di Fernando Mar-<br />

chiori, scrittore oltre che critico teatrale e studioso tra i più<br />

seri e illuminati. Edito dalla pugliese Poiesis nella pregevole<br />

collana «Le rive dei narratori», il volume descrive attraverso<br />

molte stazioni l’isolamento in cui Saetta, un Filottete dei<br />

nostri tempi, si è rinchiuso dopo un tragico avvenimento dei<br />

difficili anni settanta, in cui resta ucciso un suo compagno<br />

di lotta. Neottolemo assume in questo caso i panni di una ragazza,<br />

Moira, figlia del grande amore di Saetta, che lo induce<br />

con l’inganno e poi – presa dal rimorso – con la forza della<br />

persuasione a testimoniare al processo per scagionare amici<br />

d’un tempo chiamati in causa da uno dei molti pentiti, amici<br />

che l’hanno abbandonato alla solitudine della sua esistenza,<br />

in cui gli unici dialoghi il protagonista li instaura con piante<br />

e animali del suo giardino. Il frammento prescelto, nella<br />

sua ovvia parzialità, offre comunque già un saggio potente<br />

dell’universo in cui si muove questo uomo stanco e malato,<br />

che come lo sfortunato eroe sofocleo si ritira in un mondo<br />

«altro», dove dimenticare le tracce dolorose del proprio passato.<br />

Ma al di là del tema, che riprende in modo inedito e affascinante<br />

un argomento scottante della nostra storia recente,<br />

quello che incanta è la scrittura, magmatica eppure controllata,<br />

impetuosa e discreta, poetica e teatrale (credo si potrebbe<br />

con facilità trarne un tesissimo e appassionante monologo,<br />

dato che alcune parti sembrano naturali didascalie<br />

a un testo sempre perfetto): una lingua di «dentro», che associa<br />

vissuto individuale e vicende patrie, dove però si incontrano<br />

elementi universali, che ciascun lettore di oggi può facilmente<br />

fare e sentire propri. Un libro da leggere assolutamente,<br />

e tutto d’un fiato. (l.m.) ◼


Il pop-rap<br />

dei giovanissimi<br />

Rockit & Gugly<br />

di Leonardo Mello<br />

La creatività giovanile, nelle sue molte sfaccettature,<br />

era uno dei pensieri ricorrenti di Giovanni<br />

Morelli, il quale più volte, anche con noi di <strong>Venezia</strong>Musica,<br />

aveva ribadito l’importanza di monitorare<br />

le realtà sommerse, la «musica fatta in casa», come l’aveva<br />

definita lui stesso. E un interessante esempio di questa<br />

tendenza lo offre un originale duo, Rockit & Gugly, nato un<br />

paio di anni fa e composto, come suggerisce il nome stesso,<br />

da Guglielmo Manfrin e Rocco Camatti, rispettivamente di<br />

diciotto e ventun<br />

anni. Questi due<br />

ragazzi mescolano,<br />

in un assemblaggio<br />

ritmico<br />

assai intrigante,<br />

sonorità pop melodiche<br />

e cadenze<br />

rap. Il loro sodalizio,<br />

nato dalla frequentazione<br />

dello<br />

stesso liceo, ha dato<br />

luogo a un cd<br />

autoprodotto, Reset,<br />

che mette insieme<br />

due modalità<br />

espressive differenti,<br />

appunto<br />

il pop e il rap, trovando<br />

però un ottimo<br />

punto d’incontro tra le parole cadenzate dei testi (scritti<br />

da Rocco) e le linee dolci dei ritornelli (composti invece da<br />

Guglielmo). Le canzoni parlano un po’ di tutto, ma sono tra<br />

loro legate da una sorta di filo rosso che diventa anche, in un<br />

certo senso, un flusso narrativo. Così – per citare solo alcune<br />

tracce – si passa da «This Is Italy», dove viene descritto, nelle<br />

sue usanze e costumi, il Belpaese, a «Sideshow», in cui invece<br />

vengono messe in evidenza criticamente le disfunzioni<br />

e le magagne tipicamente nostrane. Ma c’è spazio anche per i<br />

sogni, con la bella «Dreams», e per una concezione più semplice<br />

e umana della vita, invocata in «Reset», che dà il nome<br />

al disco, senza dimenticare il poetico e impegnativo affondo<br />

sulla tragedia dell’Olocausto, evocata in «Fateless», di cui è<br />

stato anche costruito un video utilizzando spezzoni dei più<br />

importanti lungometraggi che hanno trattato l’argomento.<br />

Il processo compositivo dei brani vede prima l’invenzione<br />

delle basi musicali – opera di Guglielmo e creati al computer<br />

grazie al programma Logic Pro 9 – cui poi vengono aggiunte<br />

da Rocco le parole, sempre in lingua inglese. Se spesso si parte<br />

da un giro di chitarra, come ci racconta lo stesso Manfrin,<br />

poi tutto passa per il supporto elettronico: si tratta di musica<br />

di buon livello, costruita e registrata in casa con strumentazioni<br />

professionali, che varrebbe la pena fosse valorizzata e<br />

resa pubblica, tralasciando – com’è invece costume tutto italico<br />

– la diffidenza verso generi considerati, a torto, «minori».<br />

In realtà, attraverso le atmosfere sonore e le parole, ci si<br />

addentra con crescente entusiasmo all’interno del pensiero,<br />

per forza di cose contemporaneo, di due giovanissimi e promettenti<br />

musicisti. ◼<br />

Il «Sunrise» del<br />

Masabumi Kikuchi trio<br />

Un disco delizioso, tenero, malinconico, pieno<br />

di vitalità. Eppure, nell’ascoltarlo, non c’è modo<br />

di togliersi di dosso un velo di tristezza, pensando<br />

che non si potrà più sentire il fraseggio melodico,<br />

ritmico, ineguagliabilmente fantasioso e inventivo di Paul<br />

Motian, il quale, a due anni dalla registrazione se ne sarebbe<br />

andato all’improvviso – aveva suonato dal vivo fino a due<br />

mesi prima – lasciando artisti come Kikuchi dolorosamente<br />

sbigottiti. È dunque un disco postumo Sunrise, «il sorgere<br />

del sole», del settantatreenne pianista giapponese, che già<br />

aveva suonato con Motian fin dal 1990. Dapprima in un trio,<br />

«Tethered Moon», completato<br />

da Gary Peacock<br />

– cinque dischi, a partire<br />

da quello di esordio First<br />

Meeting. Poi nel Paul Motian<br />

trio 2000 + Two con<br />

Chris Potter, Greg Osby e<br />

Mat Manieri, un organico<br />

che licenziò due dischi<br />

dal vivo nel 2007 e 2008,<br />

fino a quest’ultimo trio<br />

formatosi nel 2009 e che<br />

avrebbe potuto indubbiamente<br />

continuare a scri-<br />

vere pagine significative<br />

nel segno dell’improvvisazione.<br />

Sunrise, uscito<br />

quest’anno, è il terzo album<br />

registrato da Motian<br />

nel 2009 per l’etichetta tedesca<br />

ecm Records, prece-<br />

di Giovanni Greto<br />

Masabumi Kikuchi trio,<br />

Sunrise,<br />

ecm Records, 2012<br />

Masabumi Kikuchi, piano;<br />

Thomas Morgan, contrabbasso;<br />

Paul Motian, batteria.<br />

duto da Lost in a Dream del Paul Motian trio, registrato dal<br />

vivo al Village Vanguard e uscito nel 2010 e Live at Birdland,<br />

con Lee Konitz, Charlie Haden e Brad Mehldau, uscito nel<br />

2011. Un anno fecondo, dunque, il 2009, per un musicista che<br />

a settantott’anni (era nato il 25 marzo del 1931) continuava<br />

a suonare con un timbro cristallino e caldo, in maniera raffinata,<br />

lucida e stimolante, che lo caratterizza sin dal momento<br />

della sua apparizione, breve purtroppo (dal 1959 al 1961), nel<br />

forse, più bel trio «piano-basso-batteria» della storia del jazz:<br />

quello con Bill Evans (piano) e Scott LaFaro (contrabbasso),<br />

scomparso in un incidente d’auto il 6 luglio 1961.<br />

Anche se è suddiviso in dieci tracce, Sunrise, di fatto, è una<br />

lunga suite che si sviluppa secondo nuove possibilità improvvisative<br />

per un ensemble, come afferma il pianista nelle note di<br />

presentazione. Il disco è registrato magnificamente, una consuetudine<br />

che ha reso celebre per la qualità del suono l’etichetta<br />

bavarese. Fin dal primo frammento, «Ballad I», avvertiamo<br />

nel fraseggio del trio la grande importanza data al silenzio,<br />

evitando cascate di note che possano appesantire. Si crea<br />

in tal modo un’attesa, un’aspettativa per un qualcosa che si realizza<br />

nella maniera più appropriata. Kikuchi inizia a sondare<br />

il terreno con piccoli tocchi, Morgan lo asseconda con estrema<br />

attenzione, Motian interviene come per commentare e lo<br />

fa sapientemente, sia con le spazzole, sia con le bacchette, dando<br />

molta importanza ai piatti sospesi (una traccia è stata intitolata<br />

proprio «Sticks and Cymbals», «bacchette e piatti»).<br />

Il tocco e il modo di percuotere lo rendono immediatamente<br />

riconoscibile al primo ascolto, come soltanto avviene quando<br />

a suonare è un maestro dello strumento. ◼<br />

carta canta — dischi 79


80<br />

<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni<br />

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Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. <strong>48</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

• Giò Alajmo (p. 43)<br />

Critico musicale<br />

• Matteo Antonaci (pp. 10-11)<br />

Critico teatrale (arttribune.com;<br />

teatroecritica.net)<br />

• Gualtiero Bertelli (pp. 50-51)<br />

Cantautore<br />

• Federico Capitoni (pp. 28-29)<br />

Critico musicale<br />

• Alberto Caprioli (pp. 72-75)<br />

Compositore<br />

• Alberto Castelli (p. 34 e p. 35)<br />

Musicologo<br />

• Paolo Cattelan (p. 40-41)<br />

Musicologo<br />

Presidente degli Amici<br />

della Musica di <strong>Venezia</strong><br />

• Elena Conti (pp.12-13)<br />

Critico teatrale<br />

(iltamburodikattrin.com)<br />

• Vitale Fano (p. 36)<br />

Musicologo (Università di Padova)<br />

• Roberta Ferraresi (pp. 13-15)<br />

Critico teatrale<br />

(iltamburodikattrin.com;<br />

doppiozero.com)<br />

Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

la critica oggi<br />

(parte quarta)<br />

Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

Eresia della felicità a <strong>Venezia</strong><br />

La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice<br />

la critica oggi<br />

(parte terza)<br />

Le collaborazioni di questo numero<br />

• Giuliano Gargano (p. 27)<br />

Giornalista<br />

• Tommaso Gastaldi (p. 45 e p. <strong>48</strong>)<br />

Giornalista freelance<br />

• Giovanni Greto (p. 79)<br />

Critico musicale – Musicista<br />

• Filippo Juvarra (p. 42)<br />

Direttore artistico<br />

degli Amici della Musica di Padova<br />

• Giuseppina La Face Bianconi (p. 76)<br />

Università di Bologna<br />

• Andrea Oddone Martin (p. 39)<br />

Critico musicale<br />

• Rossella Menna (pp. 9-10)<br />

Critico teatrale (rumor(s)cena.com)<br />

• Mario Messinis (pp. 26-27 e p. 31)<br />

Critico musicale<br />

• Guido Michelone (p. 49)<br />

Università Cattolica<br />

del Sacro Cuore di Milano –<br />

Conservatorio di Musica<br />

«Antonio Vivaldi» di Alessandria –<br />

Critico musicale<br />

• Gian Paolo Minardi (pp. 69-71)<br />

Critico musicale<br />

Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

la critica oggi<br />

(parte seconda)<br />

Anno IX - gennaio / febbraio 2012 - n. 44 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />

la «lou salomé»<br />

di giuseppe sinopoli<br />

gli artisti<br />

e la critica<br />

• Jacopo Pellegrini (p. 68)<br />

Critico musicale<br />

• Nicola Pellicani (pp. 62-63)<br />

Segretario<br />

della Fondazione Gianni Pellicani<br />

• Paolo Petazzi (pp. 22-25)<br />

Critico musicale – Docente di Storia<br />

della Musica al Conservatorio<br />

«Giuseppe Verdi» di Milano<br />

• Andrea Pocosgnich (p. 15)<br />

Critico teatrale (teatroecritica.net)<br />

• Oliviero Ponte di Pino (pp. 16-19)<br />

Critico teatrale<br />

• Andrea Porcheddu (p. 8)<br />

Critico teatrale<br />

• Roberto Pugliese (pp. 56-57)<br />

Critico cinematografico<br />

• Eva Rico (p. 55)<br />

Storica dell’arte<br />

• Giada Russo (pp. 11-12)<br />

Critico teatrale (ateatro.it)<br />

• Emanuele Senici (pp. 64-65)<br />

Università «La Sapienza» di Roma<br />

• Arianna Silvestrini (p. 30)<br />

Giornalista freelance<br />

Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241

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