VeneziaMusicaedintorni 48 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia
VeneziaMusicaedintorni 48 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia
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Note medievali: alla ghironda,<br />
Maria De Toni<br />
(Belluno, Colle Santa Lucia.<br />
Foto di Mariano Beltrame).
2<br />
Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. <strong>48</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
In copertina: L’Opera Gala<br />
del Prefestival «Lo spirito della musica di <strong>Venezia</strong>»<br />
organizzato dalla Fondazione Teatro La Fenice<br />
(foto di Michele Crosera).<br />
Questo numero è stato realizzato<br />
grazie alla collaborazione di Luca Ronconi,<br />
Luigi Laselva, Andrea Estero, Andrea Porcheddu,<br />
Fortunato Ortombina, Emanuela Caldirola,<br />
Maria Stefanoni, Elena Casadoro, Adriana Vianello,<br />
Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Cecilia Dolcetti,<br />
Silvia Carrer, Lorenza Cossutta, Laura Corazzol,<br />
Maria Rita Cerilli, Alexia Boro,<br />
Andrea Benesso, Cristina Savi, Clizia Benedettelli<br />
<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni<br />
Anno ix – n. <strong>48</strong> – settembre /ottobre 2012<br />
Reg. Tribunale di <strong>Venezia</strong> n. 1496 del 19 / 10 / 2004<br />
Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004<br />
ISSN 1971-8241<br />
Direttore editoriale: Giuliano Segre<br />
Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano<br />
Direttore responsabile: Leonardo Mello<br />
Caporedattore: Ilaria Pellanda<br />
Art director: Luca Colferai<br />
Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,<br />
Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,<br />
Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti<br />
Segreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni<br />
Redazione e uffici: Dorsoduro 3<strong>48</strong>8/U – 30123 <strong>Venezia</strong><br />
tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939<br />
e-mail: l.mello@euterpevenezia.it<br />
i.pellanda@euterpevenezia.it<br />
web: www.euterpevenezia.it<br />
<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni è stata fondata<br />
da Luciano Pasotto nel 2004<br />
Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),<br />
Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis,<br />
Ignazio Musu, Giampaolo Vianello<br />
Editore: <strong>Euterpe</strong> <strong>Venezia</strong> s.r.l.<br />
<strong>Euterpe</strong> <strong>Venezia</strong> è una società strumentale<br />
della Fondazione di <strong>Venezia</strong> che si occupa dello studio, della<br />
produzione e della gestione di processi e interventi formativi,<br />
di ricerca e di presenza nel campo delle arti<br />
e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite<br />
alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo<br />
e alle discipline a esse correlate<br />
Presidente: Gianpaolo Fortunati<br />
Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo<br />
Consiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino<br />
La Fondazione di <strong>Venezia</strong> è presieduta da Giuliano Segre<br />
Consiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini,<br />
Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati,<br />
Riccardo Calimani, Carlo Carraro,<br />
Antonio Foscari, Anna Laura Geschmay Mevorach,<br />
Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza,<br />
Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo<br />
Stampa: Tipografia Crivellari 1918<br />
Via Trieste 1, Silea (Tv)<br />
Raccolta pubblicitaria:<br />
Luciana Cicogna<br />
347 6176193 – lucianacicogna@libero.it<br />
Nicoletta Echer<br />
3<strong>48</strong> 3945295 – nicoletta.echer@fastwebnet.it<br />
Tiratura: 3000 copie<br />
Uscita bimestrale
Editoriale<br />
Due maestri indiscussi e internazionalmente<br />
riconosciuti come Luca Ronconi e Pierre Boulez<br />
caratterizzano le due nuove edizioni della Biennale<br />
Teatro e Musica: con il Leone d’oro alla carriera<br />
l’ente veneziano ha voluto sottolineare la centralità di<br />
queste due figure nel panorama teatrale e musicale contemporaneo.<br />
E di Biennale torniamo come sempre a parlare anche<br />
noi in questo periodo dell’anno, fondendo in un unico<br />
focus il laboratorio estivo ideato da Álex Rigola per le arti<br />
sceniche e il festival musicale diretto da Ivan Fedele, che avrà<br />
invece luogo in ottobre. L’ideale contiguità tra i diversi comparti<br />
delle cosiddette performing arts è dunque ribadita anche<br />
in questo numero, che riunisce uno sguardo retrospettivo<br />
dedicato al cantiere teatrale agostano e una prospettiva<br />
futura, quella musicale, di cui cerchiamo di fornire alcuni<br />
strumenti interpretativi attraverso dei «ritratti» significativi,<br />
a partire proprio da quello di Boulez, firmato da Paolo<br />
Petazzi.<br />
In realtà la visione progettuale della Biennale, secondo gli<br />
obiettivi portati avanti dal suo presidente Paolo Baratta, si<br />
è in questi<br />
ultimi tempiparzialmentemodificata,rivolgendo<br />
attenzione<br />
prioritaria<br />
ai nuovi talenti,giovani<br />
già artisticamentestrutturati<br />
che giungono<br />
in laguna<br />
a inc<br />
o n t r a r e<br />
a f f er m ati<br />
maîtres del<br />
panorama<br />
scenico internazionale.<br />
Questo<br />
approccio<br />
formativo<br />
– che vede<br />
addirittura<br />
un «mostro<br />
sacro»<br />
come Luca<br />
Ronconi<br />
svolgere un laboratorio pratico insieme a giovani attori e registi<br />
– si riverbera anche nel cantiere editoriale gestito per il<br />
secondo anno, sempre all’interno della Biennale Teatro, da<br />
Andrea Porcheddu, che raccoglie sei ragazzi da tempo ormai<br />
occupati nella comunicazione online dei più rilevanti eventi<br />
nazionali nei settori delle arti dal vivo. A loro lasciamo dunque<br />
il campo per una narrazione articolata di quanto si è sviluppato<br />
all’interno dei molti luoghi prescelti per far interagire<br />
gli artisti con la città d’acqua. L’interesse per le nuove pro-<br />
Luca Ronconi a <strong>Venezia</strong> (foto di Luigi Laselva).<br />
di Leonardo Mello<br />
poste è d’altro canto uno degli aspetti più interessanti della<br />
nuova edizione del festival musicale, dove – a fianco di grandi<br />
nomi del presente e del passato più prossimo – sono previste<br />
numerose prime assolute di autori generazionalmente<br />
giovanissimi, ascoltati e selezionati dal direttore artistico girando<br />
l’Europa in lungo e in largo.<br />
Ma lungi dall’essere un numero «estivo», questo quarantottesimo<br />
si distingue per la varietà della sua offerta. Insieme<br />
ai grandi nomi della musica leggera e cantautoriale – pregevole<br />
in questo senso il ritratto di Leonard Cohen che ci regala<br />
Giò Alajmo – andiamo ad approfondire l’arte filmica di<br />
Francesco Rosi, la pittura di Giuseppe Capogrossi, i seminari<br />
fotografici dei Tre Oci, per citare solo alcuni degli articoli<br />
presenti. L’idea è – pur volendo restare un bimestrale saldamente<br />
incentrato sulle arti performative – quella di allargare<br />
gli orizzonti cercando di creare un racconto complessivo<br />
dell’offerta culturale del nostro territorio, che si presenta ricca<br />
e articolata nonostante soffino preoccupanti venti di crisi.<br />
E per una volta sconfiniamo anche in un terreno a noi normalmente<br />
limitrofo, dando spazio al Festival della Politica<br />
organizzato a Mestre dalla Fondazione Gianni Pellicani, che<br />
tra i molti appuntamenti vede anche la partecipazione del<br />
Presidente della Repubblica: l’importanza di quest’iniziativa<br />
– che coinvolge, tra le altre, personalità del calibro di Gustavo<br />
Zagrebelsky, Corrado Augias, Stefano Rodotà, Massi-<br />
mo Cacciari, Ilvo Diamanti, Massimo Donà, Ernesto Galli<br />
della Loggia, Massimo Giannini, Angelo Panebianco, Paola<br />
Concia, Dacia Maraini ed Emanuele Macaluso – giustifica<br />
l’interesse anche da parte di una rivista di settore come la nostra.<br />
Perché politica e cultura, in un ideale mondo da costruire,<br />
vanno sempre di pari passo, nutrendosi l’una dell’altra.<br />
Continua infine la parentesi dedicata a Mario Bortolotto,<br />
con altri due preziosi interventi che delineano aspetti sempre<br />
nuovi di questo grande musicologo e intellettuale. Pagine<br />
forse di nicchia, che però possono essere, ci auspichiamo,<br />
un interessante spunto d’analisi per tutti i nostri lettori. ◼<br />
3
4<br />
sommario<br />
3 Editoriale<br />
7 Il Leone d’oro al magistero di Luca Ronconi<br />
8 Sei giovani critici raccontano la Biennale Teatro 2012<br />
8 Un laboratorio di critica alla Biennale<br />
di Andrea Porcheddu<br />
focus on<br />
9 «Questa sera si recita a soggetto»: il lavoro sul testo ai tempi della performance<br />
Focus sul laboratorio di Luca Ronconi<br />
di Rossella Menna<br />
10 To show the time: per una immaginazione del corpo<br />
Intorno al laboratorio di Gabriela Carrizo / Peeping Tom<br />
di Matteo Antonaci<br />
11 Dai «barrios» di Buenos Aires alla Biennale di <strong>Venezia</strong>:<br />
il teatro di Claudio Tolcachir<br />
di Giada Russo<br />
12 Quattro gruppi in residenza alla Biennale 2012<br />
Dai laboratori 2010-2011 alla presentazione di progetti autonomi<br />
di Elena Conti<br />
13 Un campus d’agosto fra incontro e condivisione<br />
Il progetto di Álex Rigola per un cantiere che lavori tutto l’anno<br />
di Roberta Ferraresi<br />
15 La formazione continua: una riflessione sulla Biennale Teatro<br />
di Andrea Pocosgnich<br />
16 Rafael Spregelburd secondo Luca Ronconi<br />
a cura di Oliviero Ponte di Pino<br />
20 «+Extreme-», il primo Festival di Ivan Fedele<br />
a cura di Leonardo Mello<br />
22 Pierre Boulez<br />
di Paolo Petazzi<br />
26 John Cage<br />
di Mario Messinis<br />
28 L’importanza del pubblico come interlocutore<br />
Una conversazione con Yotam Haber, direttore artistico del mata<br />
a cura di Federico Capitoni<br />
30 «L’occasione fa il ladro» di Rossini secondo Betta Brusa<br />
a cura di Arianna Silvestrini<br />
31 Alle Sale Apollinee un omaggio a Gino Gorini<br />
di Mario Messinis<br />
32 Una performance in Piazza per chiudere il Prefestival<br />
La Fenice fa un bilancio della nuova manifestazione estiva<br />
di Leonardo Mello<br />
34 Al Festival Monteverdi-Vivaldi due «stromenti venetiani» dimenticati<br />
di Alberto Castelli<br />
opera<br />
concerti<br />
7-29<br />
Le Biennali Teatro e Musica:<br />
grandi maestri e molti giovani<br />
nelle rassegne<br />
di Álex Rigola e Ivan Fedele<br />
16-19<br />
Luca Ronconi analizza<br />
il teatro di Rafael Spregelburd<br />
in tre interviste<br />
di Oliviero Ponte di Pino<br />
32<br />
30
35 Ancora concerti per il Venetian Centre for Baroque Music<br />
di Alberto Castelli<br />
36 Ad Aldo Ciccolini il Premio «Rubinstein» 2012<br />
di Vitale Fano<br />
37 «Una vita nella musica» 2012<br />
di Ilaria Pellanda<br />
38 Il Festival Galuppi compie diciott’anni<br />
di Ilaria Pellanda<br />
39 Un nuovo autunno in musica per Palazzetto Bru Zane<br />
di Andrea Oddone Martin<br />
40 «L’ape musicale» degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
di Paolo Cattelan<br />
41 I «Concerti della domenica» dei Solisti Veneti<br />
di Leonardo Mello<br />
42 Il «Pierrot Lunaire» di Schönberg incanta Padova<br />
di Filippo Juvarra<br />
43 Leonard Cohen in una parola: «Hallelujah»<br />
di Giò Alajmo<br />
44 I Radiohead approdano a Villa Manin<br />
Atteso a Udine il concerto della band di Thom Yorke<br />
di Giuliano Gargano<br />
45 Nina Zilli, l’anima soul della musica italiana<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
46 Vinicio Capossela al Teatro Verde per Live in Venice<br />
Si conclude un’estate di grandi artisti a San Giorgio<br />
di Ilaria Pellanda<br />
<strong>48</strong> Slash: un nuovo progetto e un po’ di Guns N’ Roses<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
49 Herbie Hancock in piano solo<br />
di Guido Michelone<br />
50 «E noi faremo come la Russia…»<br />
La canzone comunista<br />
di Gualtiero Bertelli<br />
52 Giuseppe Capogrossi secondo Luca Massimo Barbero<br />
a cura di Ilaria Pellanda<br />
55 A Ca’ Rezzonico l’opera grafica dei Tiepolo<br />
di Eva Rico<br />
56 Un ritratto di Francesco Rosi, Leone d’oro alla carriera 2012<br />
di Roberto Pugliese<br />
58 «Se ti abbraccio non aver paura», storia di un padre e un figlio<br />
di Mariano Beltrame<br />
l’altra musica<br />
arte<br />
cinema<br />
letteratura<br />
45<br />
52<br />
55<br />
56-57<br />
43<br />
Un ritratto di Francesco Rosi<br />
firmato da Roberto Pugliese<br />
sommario 5
6<br />
sommario<br />
58 Una conversazione con Fulvio Ervas<br />
a cura di Mariano Beltrame<br />
59 Nuovi workshop ai Tre Oci<br />
di Ilaria Pellanda<br />
60 <strong>Venezia</strong> tra salvaguardia e contemporaneità<br />
Una conversazione con Renata Codello<br />
a cura di Leonardo Mello<br />
62 Le «Voci Fuori Campo» della Fondazione Pellicani<br />
Giorgio Napolitano ospite d’onore del Festival della Politica<br />
di Nicola Pellicani<br />
64 «Musiche Culture Identità»<br />
Il congresso della Società Internazionale di Musicologia a Roma<br />
di Emanuele Senici<br />
66 Alla Cini un convegno su Luigi Squarzina<br />
di Leonardo Mello<br />
67 Il provetto stregone<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
di Jacopo Pellegrini<br />
69 Bortolotto l’oscuro<br />
di Gian Paolo Minardi<br />
72 L’anima del Lied<br />
di Alberto Caprioli<br />
76 Le recensioni<br />
di Giuseppina La Face Bianconi<br />
77 Palchi e gironi per i cantautori italiani<br />
di Ilaria Pellanda<br />
77 Emma Dante e la sua Biancaneve<br />
di Ilaria Pellanda<br />
78 «L’attore civile» di Paola Bigatto e Renata Molinari<br />
di Leonardo Mello<br />
78 «Scritto dentro», un libro bellissimo<br />
di Leonardo Mello<br />
79 Il pop-rap dei giovanissimi Rockit & Gugly<br />
di Leonardo Mello<br />
79 Il «Sunrise» del Masabumi Kikuchi trio<br />
di Giovanni Greto<br />
fotografia<br />
in vetrina<br />
in vetrina – Mario Bortolotto<br />
carta canta libri / dischi<br />
I nuovi workshop<br />
fotografici ai Tre Oci<br />
60-61<br />
78<br />
Renata Codello<br />
parla di <strong>Venezia</strong><br />
e del suo immenso<br />
patrimonio artistico<br />
59<br />
62-63<br />
Giorgio Napolitano<br />
al Festival della Politica<br />
della Fondazione Pellicani
Il Leone d’oro<br />
al magistero<br />
di Luca Ronconi<br />
Il 6 agosto scorso, presso la Sala delle Colonne di<br />
Ca’ Giustinian, Paolo Baratta e Álex Rigola – rispettivamentepresidente<br />
della Biennale<br />
di <strong>Venezia</strong><br />
e direttore artistico<br />
del settore<br />
Teatro – hanno<br />
consegnato a<br />
Luca Ronconi<br />
(che ha condotto<br />
uno dei laboratoriprevisti<br />
per quest’edizionedella<br />
Biennale Teatro)<br />
il Leone<br />
d’oro alla carriera.<br />
A seguire,<br />
lo stesso Ronconi<br />
è stato protagonista<br />
di una<br />
chiacchierata<br />
sul suo lungo<br />
percorso artistico,condotta<br />
da Gianfranco<br />
Capitta. Ecco<br />
la motivazione<br />
che ha accompagnato<br />
la<br />
cerimonia di<br />
premiazione:<br />
«Riconosciuto<br />
in tutto il<br />
mondo come<br />
uno dei massimirappresentanti<br />
del teatro<br />
di regia, che ha<br />
attraversato dagli<br />
anni sessanta<br />
con passionesperimentale<br />
misurandosi<br />
con spazi e tempiinconsueti,<br />
Luca Ronconi<br />
è stato autore<br />
di grandi narrazioniteatrali,<br />
dall’Orlando<br />
Furioso a Gli ultimi giorni dell’umanità e Infinities, da Pirandello<br />
e Gadda a Dostoevskij e Nabokov, ma ha anche sa-<br />
In alto: Luca Ronconi Leone d'oro (foto di Luigi Laselva).<br />
A destra: la consegna del premio con Paolo Baratta e Álex Rigola.<br />
A sinistra: un momento della conversazione<br />
tra Luca Ronconi e Gianfranco Capitta<br />
(Courtesy La Biennale di <strong>Venezia</strong> — foto di G. Zucchiati).<br />
puto generosamente e costantemente guardare alla trasmissione<br />
dei saperi tra generazioni, facendosi guida per tanti giovani<br />
allievi. Il rinnovamento del linguaggio scenico operato<br />
da Ronconi ha lasciato un’impronta anche nel campo della<br />
lirica, dove il regista ha affrontato i grandi autori classici<br />
– Mozart, Verdi, Rossini – insieme a compositori meno frequentati<br />
del periodo barocco e ai contemporanei.<br />
Alla testa delle maggiori istituzioni teatrali italiane, a partire<br />
dalla Biennale stessa, di cui ha diretto i Settori Teatro e<br />
Musica in anni di radicali cambiamenti – tra il 1975 e il ’77<br />
– e poi direttore artistico dei Teatri Stabili di Torino, Roma<br />
e Milano, Ronconi ha sempre curato direttamente le attività<br />
delle accademie di teatro a questi annesse. Nel 2002 ha coronato<br />
la sua vocazione pedagogica fondando il Centro Teatrale<br />
di Santacristina a Gubbio, dedicato all’alta formazione<br />
di attori professionisti». ◼<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
focus on 7
8<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
Sei giovani critici<br />
raccontano<br />
la Biennale Teatro 2012<br />
Quest’edizione della Biennale Teatro,<br />
diretta per la seconda volta da Álex Rigola, è stata<br />
caratterizzata da una forte dimensione laboratoriale,<br />
che ha riunito – come si potrà leggere<br />
negli articoli che seguono – maestri e artisti<br />
di generazioni e poetiche diverse.<br />
Sono state inoltre presentate quattro «Residenze», vale a<br />
dire lavori, più o meno compiuti, realizzati dai partecipanti<br />
alla Biennale negli scorsi due anni. In questi sette giorni d’agosto,<br />
nei quali i protagonisti sono stati i circa centocinquanta<br />
giovani attori coinvolti, è stata attiva anche una redazione,<br />
coordinata da Andrea Porcheddu e composta da sei altrettanto<br />
giovani critici teatrali attivi nel web. A loro – dopo<br />
l’introduzione dello stesso Porcheddu – abbiamo chiesto di<br />
raccontare quello che hanno visto (e che non poteva, ovviamente,<br />
essere tutto) e di esprimere anche qualche valutazione<br />
conclusiva. (l.m.)<br />
Un laboratorio<br />
di critica<br />
alla Biennale<br />
introduzione di Andrea Porcheddu<br />
Siamo tornati, anche quest’anno, nelle belle sale<br />
di Ca’ Giustinian: uno spazio, all’interno della sede<br />
della Biennale, dedicato alla critica teatrale. Un laboratorio<br />
dedicato alla scrittura critica, per dare corpo e anima a<br />
una esperienza che si ripete sistematicamente ormai da quasi<br />
cinque anni.<br />
Picchiano le dita sui tasti dei sette pc della «redazione»:<br />
sono tutti al lavoro, giovani e giovanissimi, seri e motivati.<br />
Preparano gli articoli dopo aver seguito i laboratori, gli incontri,<br />
dopo aver fatto interviste e incontri. La Biennale Teatro<br />
ha voluto aprire i propri spazi formativi anche alla pratica<br />
critica: è opera meritoria, non vi è dubbio. E per quest’anno<br />
sono stati selezionati sei critici di provenienza (geografica<br />
e redazionale) diversa.<br />
Ci siamo trovati, quotidianamente, a discutere, analizzare,<br />
commentare. Abbiamo fatto tarda la notte, con un bicchiere<br />
di vino, a sviscerare temi emersi durante la visione dei workshop<br />
tenuti dai Maestri internazionali che hanno animato<br />
l’edizione 2012 della Biennale Teatro. Abbiamo fatto interviste<br />
ai partecipanti, incontri (anche informali: con Oliviero<br />
Ponte di Pino, Anna Maria Monteverdi, Leonardo Mello,<br />
Fausto Paravidino e Iris Fusetti), abbiamo ascoltato i Maestri<br />
e osservato i loro metodi di insegnamento.<br />
Abbiamo voluto e cercato il dialogo con i laboratoristi che<br />
erano (e sono) il vero fulcro di questo enorme campus veneziano:<br />
attori e attrici provenienti da mezza Europa per ascoltare<br />
le lezioni di Donnellan e Ormerod, di Tolcachir e Carrizo,<br />
di LaBute e Ronconi. Maestri che certo hanno depositato<br />
schegge di memorie future nell’immaginario dei giovani<br />
allievi.<br />
Per quel che ci riguarda, abbiamo cercato di spingere l’acce-<br />
leratore sul dubbio e sulla domanda, proponendoci come osservatori<br />
attenti, ma aperti, disponibili. Un approccio verso<br />
la ricerca e lo studio, per fare di un laboratorio di critica un<br />
momento non solo di testimonianza e racconto, ma anche<br />
– e soprattutto – di riflessione. Come per gli altri laboratori<br />
della Biennale, abbiamo avuto poco tempo per affinare le<br />
armi e calibrare una proposta: nonostante ciò, siamo riusciti<br />
a tener fede allo spirito degli Open Doors, e siamo «usciti»<br />
quotidianamente, sul sito della Biennale Teatro e sui rispettivi<br />
siti/blog coinvolti nella iniziativa. E mi piace, allora,<br />
citare e ringraziare i partecipanti a questo laboratorio critico:<br />
Matteo Antonaci, di artribune.it; Roberta Ferraresi, di<br />
doppiozero.com; Giada Russo, di ateatro.it; Elena Conti, di<br />
iltamburodikattrin.com; Rossella Menna di rumorscena.<br />
com e Andrea Pocosgnich di teatroecritica.net (e chi scrive,<br />
di myword.it, a coordinare il lavoro). Un gruppo che rispecchia,<br />
tra l’altro, e ben rappresenta, la grande vivacità della critica<br />
italiana on line.<br />
Come sempre accade in questi casi, ci sono voluti un paio<br />
di giorni per trovare un ritmo e uno stile comune (o quanto<br />
meno condiviso), ma poi la «redazione» ha iniziato a lavorare.<br />
L’esperienza «critica» della Biennale nasce, va però ricordato,<br />
da un contesto ampio, ossia dalla volontà di fare di<br />
questa attività una sorta di investigazione continua: indugiare,<br />
senza stancarsi, nel dubbio, nel cavillo. Nel «perché»: come<br />
fanno i bambini irriverenti che vogliono sempre sapere<br />
tutto. Dunque, già negli anni di direzione di Maurizio Scaparro<br />
abbiamo aperto il laboratorio Biennale a studenti delle<br />
Università di <strong>Venezia</strong>. Poi con Álex Rigola abbiamo in qualche<br />
modo alzato il tiro pensando a una sorta di masterclass<br />
per giovani critici già attivi sul web. Gli obiettivi, con Rigola,<br />
erano infatti da subito molteplici e di grande respiro. Intanto<br />
mettere a confronto – diretto, immediato, feroce – i maestri<br />
della scena con i giovani critici. Credo sia sempre un privilegio,<br />
per un critico, entrare nella fucina di un artista, vederne<br />
il momento creativo, coglierne le dinamiche inventive<br />
o di crisi. Questo è di grande valore per chi deve fare dell’osservazione<br />
partecipata il proprio mestiere. Non solo: si trattava,<br />
poi, di rompere delle barriere di linguaggio. La giovane<br />
critica italiana è spesso legata (a ragione o a torto) al piccolo<br />
mondo del giovane teatro di ricerca. Dunque un’apertura internazionale,<br />
fatta di lingue, prospettive, aspettative diverse,<br />
non poteva che far crescere la nostra critica.<br />
Perché è ormai chiaro quanto sia necessario un bagaglio di<br />
consapevolezze sempre più articolate – musica, opera, cinema,<br />
arti visive, danza, fumetto, politica, scienza, economia,<br />
attualità e molto altro – per tener dietro al teatro fatto e visto,<br />
e per superare un diffuso impressionismo di molta critica<br />
italiana. Poi c’è quella parola, su cui riflettere sempre: deontologia.<br />
Esiste una deontologia professionale del critico?<br />
Una onestà intellettuale nel rapportarsi alla scena? Il mestiere<br />
di critico si declina ormai (e non potrebbe essere altrimenti)<br />
in mille rivoli: consulenze, direzioni artistiche, traduzioni,<br />
drammaturgie. Come mantenere una propria dignità, indipendenza,<br />
franchezza e freschezza di giudizio?<br />
Penso dunque che la nuova generazione di critici che si sta<br />
affacciando alla scena nazionale abbia molte possibilità per<br />
disegnare nuove aperture, nuove tendenze, nuovi codici di<br />
comportamento, facendo tesoro degli errori del passato. Oggi<br />
mi pare che il profilo ideale del nuovo critico teatrale debba<br />
contenere una buona dose di capacità creative (se si vuole<br />
vivere di questo non-mestiere) ma anche una capacità relazionale<br />
e di gioco di squadra che spesso in passato è mancata.<br />
Anche per questo trovo molto interessante e utile che un’istituzione<br />
come la Biennale Teatro si preoccupi, oltre che di<br />
formare attori, attrici e registi, anche di aiutare la nuova critica<br />
italiana a formarsi. ◼
«Questa sera si recita<br />
a soggetto»: il lavoro sul testo<br />
ai tempi della performance<br />
Focus sul laboratorio<br />
di Luca Ronconi<br />
di Rossella Menna*<br />
Si frantuma, alla Biennale teatro di <strong>Venezia</strong>, declinata<br />
nel 2012 in forma di laboratorio, il classico binomio<br />
tradizione/innovazione. Nel campus lagunare<br />
saltano le caselle: si applaude al Leone d’oro a Luca Ronconi,<br />
si inneggia al lavoro sui personaggi dell’argentino Claudio<br />
Tolcachir, si assiste entusiasti alle proposte dell’iper-performativa<br />
compagnia Peeping Tom. Nessun criterio predefinito<br />
di giudizio, sguardi allenati alla varietà: fila tutto troppo<br />
liscio.<br />
Poi si entra nel laboratorio di regia guidato da Luca Ronconi,<br />
e, per fortuna, le contraddizioni tra i due termini della<br />
contrapposizione si mettono in fila sul proscenio offrendo<br />
spunti di discussione. Coinvolto in un’insolita formula laboratoriale,<br />
Ronconi affida a quattro giovani registi un compito<br />
gravoso: il lavoro su un testo classico. Armati di un gruppo<br />
d’attori ciascuno, di una copia di Questa sera si recita a soggetto<br />
di Pirandello e di qualche lezione seminariale del maestro,<br />
i registi si ritrovano, a loro volta, alla guida di un workshop<br />
per attori.<br />
Alla serata di Open Doors si scoprono le carte: tre su quattro<br />
hanno lavorato sul frammento finale della commedia,<br />
sulla parte del testo in cui la metateatralità della pièce si dissolve<br />
in univocità finzionale e gli attori decidono di ribellarsi<br />
al loro regista per preparare, in completa autogestione, la scena<br />
madre, il litigio finale tra Verri e Mommina.<br />
Stesso tessuto verbale per tre variazioni sul mito completamente<br />
diverse.<br />
Licia Lanera, annunciata con qualche espediente la cornice<br />
metateatrale, si concentra sul dramma di Mommina, sulla<br />
sua condizione di donna violentata dal marito nella propria<br />
vitalità. La scena in cui la prima attrice viene truccata per il<br />
finale si trasforma in una macabra seduta di vivisezione in<br />
Al lavoro con Luca Ronconi (foto di Luigi Laselva).<br />
cui la giovane donna, immobilizzata su un tavolo anatomico,<br />
viene imbruttita, denudata e rivestita, spogliata della giovinezza<br />
e ornata del vuoto pallore di moglie infelice. La regista<br />
sfrutta tutti gli strumenti del mestiere: immerge la scena<br />
in una luce spettrale, recupera qualche oggetto di scena,<br />
azzarda un brano di Vinicio Capossela, S.S. Dei Naufragati,<br />
sulla bella immagine di un drappo nero che accoglie l’amplesso<br />
tra Verri e Mommina, metafora visiva di un bozzolo<br />
che fatica a schiudersi.<br />
Nella stanza accanto, Luca Micheletti inverte l’ordine dei<br />
fattori, lavorando sulla stessa porzione di testo ma col fine di<br />
ribaltarne gli equilibri, per immettere, cioè, nelle ultime battute<br />
della commedia, la stessa dose di doppiezza contenuta<br />
nella prima parte.<br />
Cogliendo l’opportunità per ragionare su tutto Pirandello,<br />
Micheletti riflette sull’intera trilogia del teatro nel teatro,<br />
sul concetto di Maschere Nude e di Uno Nessuno e Centomila.<br />
Così, al doppio inteso come contrapposizione tra attore e<br />
personaggio, aggiunge un secondo livello di doppiezza inerente<br />
il duplice volto dell’individuo comune<br />
e un terzo livello che oppone attore e spettatore.<br />
In scena, due coppie di Verri e Mommina<br />
e due pubblici. Due blocchi che si spiano a<br />
vicenda, come in uno specchio in cui l’originale<br />
e l’immagine riflessa si osservano senza<br />
distinguere la propria natura di verità o di finzione.<br />
I quattro attori agiscono specularmente.<br />
Realtà e finzione non sono più discernibili:<br />
di chi sono i corpi che si agitano imbarazzati<br />
sulla scena? Degli attori della compagnia<br />
di Hinkfuss che interpretano Mommina e<br />
Verri? Degli attori di Micheletti che interpretano<br />
gli attori di Hinkfuss? Sono i personaggi<br />
stessi? I piani si sovrappongono e si incastrano<br />
sottopelle: restano imbrigliati in un<br />
sistema macchinoso e non si esplicitano mai<br />
mentre parla con chiarezza, per controparte,<br />
il linguaggio dei segni teatrali, che attraverso<br />
luci fredde e toni recitativi grotteschi, calca<br />
con forza il regime della finzione.<br />
Fattori invertiti, si diceva, ma stesso risultato<br />
per Lanera e Micheletti: disegno registico<br />
tangibile per una performance finita, coerente, che non si arrischia<br />
fuori dal recinto delle partiture fissate.<br />
Chiude la triade il giovanissimo Rocco Schira, che si allontana<br />
poco dall’originale testuale, limitandosi a costruire un<br />
contenitore metateatrale di secondo grado che apre e chiude<br />
la pièce. La sua regia poggia per lo più su un disegno dello<br />
spazio di matrice noir. Sala completamente oscurata e illuminazione<br />
a luci led per un lavoro dominato dai toni espressionisti<br />
ed esasperati delle attrici.<br />
Tutt’altra storia per Claudio Autelli che rinuncia alla performance<br />
chiusa e sperimenta fino all’ultimo momento. Tema<br />
della ricerca: dinamiche reali della recita a soggetto. Lo<br />
scopo è quello di mettere in gioco l’identità stessa di attore,<br />
intesa come equilibrio precario ma necessario tra la natura<br />
quotidiana e la struttura narrativa in cui muoversi. Autelli<br />
libera i suoi attori nello spazio scenico chiedendo a ciascuno<br />
di far esplodere la propria attitudine attoriale in relazione<br />
al proprio personaggio. Gli interpreti divengono quindi<br />
parte di un gioco al massacro creato per smontare a vista<br />
il meccanismo teatrale. Nella visione di Autelli i personaggi<br />
del dramma non perseguono alcun principio comune, si dimenano<br />
in una situazione assurda in cui ciascuno insegue un<br />
proprio progetto di recita a soggetto dal momento che, per<br />
paradosso, il soggetto, la trama, sono proprio gli elementi che<br />
vengono a mancare nel testo. Così il melodramma imma-<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
focus on 9
10<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
ginato dalla prima attrice inciampa e cade sull’idea di recita<br />
a soggetto del primo attore, producendo un annientamento<br />
di entrambi gli obiettivi. A interessare il regista sono proprio<br />
urti violenti di questo tipo, le interruzioni delle dinamiche<br />
in atto tra i partecipanti al gioco, l’esplosione delle relazioni.<br />
Rischia e paga pegno, Autelli. Laddove<br />
viene meno il disegno registico predefinito,<br />
emerge con più evidenza lo sforzo di attori<br />
disabituati alla parola, che pure è visibile in<br />
tutte e quattro le presentazioni.<br />
In giro per le sale dell’ex cotonificio di Santa<br />
Marta si percepisce la difficoltà degli interpreti<br />
del dover reggere la parola, del riempirla,<br />
del doverla agganciare all’azione. Gli attori,<br />
a onor del vero quasi tutti bravi professionisti,<br />
si difendono come possono da un lavoro,<br />
per cui sembrano poco attrezzati, sul testo<br />
e sui personaggi: capita che il tono si fiacchi e<br />
che il ritmo cali intrappolato in un corpo irrigidito,<br />
oppure che si reagisca tentando la via<br />
della recitazione impostata.<br />
Evidentemente, i lavori in cui la regia ha assunto<br />
un ruolo predominante hanno retto<br />
meglio l’urto del pubblico. Regia uno. Teatro<br />
d’attore zero.<br />
Più interessante, però, in un laboratorio, osservare<br />
lo sforzo di un regista che tesse la trama<br />
giorno per giorno solo sulle abilità degli<br />
attori stessi, che la più facile riuscita di lavori finiti (o quasi)<br />
fondati su progetti di regia prescritti. ◼<br />
*rumor(s)cena.com<br />
To show the time:<br />
per una immaginazione<br />
del corpo<br />
Intorno al laboratorio<br />
di Gabriela Carrizo / Peeping Tom<br />
di Matteo Antonaci*<br />
Lo spazio interno di una casa, delle pareti di legno<br />
verdi consumate dal tempo, una libreria semivuota,<br />
poltrone antiche, libri gettati a terra accanto ad un<br />
letto ai cui piedi una donna canta tendendo volto e braccia<br />
verso un anziano, probabilmente malato. Qui un ragazzo ed<br />
una ragazza danzano, senza mai allontanare i loro volti, indissolubilmente<br />
uniti dalle labbra, mentre tra le mani tengono<br />
stretta una bambina. All’esterno della scena, dai vetri<br />
delle finestre, un uomo anziano, come un guardone, spia<br />
questa situazione familiare e porta nell’intimità sentimentale<br />
dell’azione scenica un tempo esterno; strania il rapporto<br />
amoroso, inquieta, taglia con la lama del surrealismo la realtà<br />
perfettamente ricostruita. Questa celebre sequenza tratta<br />
da Le Salon potrebbe essere assunta come un marchio della<br />
compagnia Peeping Tom, distillato di quel mood emozionale<br />
e di quel fare scenico che caratterizza non solo tutta la produzione<br />
artistica ma anche il lavoro laboratoriale che Gabriela<br />
Carrizo, uno dei membri fondanti del gruppo, ha svolto durante<br />
la Biennale 2012.<br />
Trasferitasi a Parigi dall’Argentina, formatasi con Alain<br />
Platel e Jan Lauwers, la Carrizo fonda il collettivo Peeping<br />
Tom insieme a Frank Chartier principalmente per la volontà<br />
ed il desiderio di raccontare storie e costruire personaggi.<br />
Ogni entità posta in scena appare come sviscerata dall’intimità<br />
di ogni singolo componente del gruppo e presentata allo<br />
spettatore attraverso nuove modalità di rappresentazione<br />
scenica capaci di rompere ogni confine tra le varie discipline<br />
e di rifiutare qualsiasi tipo di categorizzazione.<br />
Improntato totalmente sulle orme della Postmodern Dance,<br />
a tratti reazionario, il lavoro del collettivo coniuga clownerie,<br />
contact, teatro e cinema concentrandosi in particolare<br />
su una determinata concezione del tempo e della tecnica di<br />
montaggio ad esso sottesa. Caratterizzandosi principalmente<br />
attraverso le differenti qualità di movimento e di relazione<br />
tra corpo/scenografia, i personaggi si inseriscono, infatti, in<br />
un flusso di immagini determinato da tecniche di montaggio<br />
e di editing dall’impronta cinematografica. Le strutture<br />
classiche della narrazione sono ricondotte a una dimensione<br />
prettamente contemporanea attraverso la spazializzazione<br />
del codice cinematografico, lì dove «spazializzare il codice<br />
cinematografico» significa agire sul tempo della performance<br />
e modellare rapporti temporali attraverso la materia<br />
spaziale offerta dalla scena. Se, attraverso la scenografia e l’illusione<br />
ottica è possibile costruire dinamiche vicine a quelle<br />
del campo/fuoricampo o del campo/controcampo, il lavoro<br />
sul montaggio e sul movimento corporeo dei «danzattori»<br />
permette di costruire dinamiche di rallenty o di accelerazione,<br />
zoom e panoramiche. Dichiara a proposito del montaggio<br />
la Carrizo: «Il montaggio si potrebbe suddividere in due<br />
fasi. Una prima fase consiste nel verificare i momenti fondamentali<br />
di transizione all’interno della narrazione, come nel<br />
cinema, quando si sposta una cinepresa da un’inquadratura<br />
ad un’altra. La seconda fase, invece, consiste nel giocare con<br />
la struttura dello spettacolo, con il tempo e con i personaggi.<br />
Pensiamo alla tecnica dello zoom: in teatro tale tecnica non<br />
esiste, ma possiamo riprodurre un dispositivo simile attraverso<br />
l’utilizzo del movimento: dilatiamo il tempo dell’azione<br />
come per avvicinarla allo sguardo. Al contrario, se vogliamo<br />
allontanarla, l’acceleriamo. Alteriamo il tempo per donare<br />
all’azione nuovi significati».<br />
Mostrare il tempo. Sembra questo uno dei principali fini di<br />
Peeping Tom: lasciare che il corpo trattenga non solo il pensiero<br />
ma anche quelle dimensioni cronotopiche in cui esso<br />
Il laboratorio di Gabriela Carrizo<br />
alla Fondazione Cini (foto di Elena Conti).
si estende; dunque, offrire allo spettatore non l’azione tout<br />
court, ma le possibilità di azione che scaturiscono quando<br />
il corpo si immobilizza (come un frame quando si mette in<br />
pausa una videocassetta) e il caso e la mente seguono immaginarie<br />
sequenze filmiche in cui ciò che accade è carica erotica,<br />
desiderio, volontà di azione e mai mero accadimento.<br />
Ed è con tale attitudine che Gabriela Carrizo accoglie gli<br />
allievi del suo laboratorio. Ogni singolo partecipante è chiamato<br />
a ragionare autonomamente su un tema<br />
o su una condizione in cui il proprio corpo si<br />
trovi immerso, a spogliarsi del proprio essere<br />
attore o danzatore, ad abbandonare ogni forma<br />
di teatralità per scoprire un tempo intimo,<br />
coerente con il proprio spazio interiore.<br />
Questo spazio, creato dalla mente, deve allora<br />
mostrarsi attraverso il movimento corporeo.<br />
Improvvisazioni collettive su scene costruite<br />
al contrario, o su movimenti rallentati<br />
in atmosfere temporali astratte, sono stimoli<br />
attraverso i quali plasmare «un’immaginazione<br />
del corpo». Quell’universo in cui,<br />
attraverso il movimento, ogni singola interiorità<br />
diviene narrazione e ogni minuscola<br />
contrazione muscolare il disegno di un tempo<br />
nel quale lo sguardo precipita un po’ meravigliato<br />
ed un po’ inquieto, un po’ innamorato<br />
e un po’ solo.<br />
Il conclusivo Open Doors attraverso il quale<br />
la Carrizo mostra il suo laboratorio agli<br />
spettatori della Biennale appare allora come<br />
un momento di apertura su un tempo esistente<br />
solo nello spazio laboratoriale; un tempo fragile perché<br />
privo di fini (e di fine), perché privo di spettacolarità. Infine,<br />
un tempo in cui quel celebre bacio tratto da Le Salon e<br />
riproposto dagli allievi, sembra riattualizzarsi e recuperare<br />
vita, donando al marchio di fabbrica di questa compagnia<br />
una nuova intimità. ◼<br />
*artribune.com / teatroecritica.net<br />
Dai «barrios»<br />
di Buenos Aires<br />
alla Biennale di <strong>Venezia</strong>:<br />
il teatro di Claudio Tolcachir<br />
di Giada Russo*<br />
Negli ultimi anni, la vivacità del panorama<br />
artistico argentino ha cominciato a incuriosire i teatri<br />
europei, tanto che alcuni nomi come Bartís, Veronese,<br />
Spregelburd, Tolcachir sono ormai noti agli spettatori<br />
del vecchio continente.<br />
Questa crescente apertura testimonia un diffuso bisogno –<br />
nel mare magnum della «ipercontemporaneità» nostrana –<br />
di ritornare agli elementi fondanti del fare teatrale: i personaggi,<br />
le storie, i luoghi.<br />
Claudio Tolcachir, argentino di Buenos Aires, classe 1975,<br />
è una delle figure di spicco dell’ultima generazione di teatristas<br />
appartenenti al circuito indipendente della metropoli rioplatense.<br />
Un artista a tutto tondo che recita, scrive, dirige,<br />
insegna e coordina il proprio gruppo teatrale, Timbre 4, fon-<br />
Una sessione con Claudio Tolcachir<br />
alla Fondazione Cini (foto di Giada Russo).<br />
dato nel 1998 e divenuto un importante punto di riferimento<br />
della scena culturale della città.<br />
Proprio nel 2001, anno della crisi economica argentina, il<br />
giovane regista trova una casa per la sua compagnia, il Teatro-Escuela<br />
Timbre 5 che comprende due spazi – in Avenida<br />
Boedo 640 e in Avenida México 3554 – situati all’interno<br />
del medesimo stabile, nel quartiere operaio di Buenos Aires.<br />
Il teatro indipendente ha disegnato una nuova mappa te-<br />
atrale, parallela a quella ufficiale e commerciale di Corrientes,<br />
che si dipana tra sobborghi, strade di periferia, case chorizo,<br />
appartamenti, ex depositi: Timbre 4 è uno dei tanti spazi<br />
di questa città invisibile. Già dal nome, che riproduce il<br />
numero del campanello, dichiara la propria condizione indipendente<br />
e alternativa.<br />
Dai barrios della Buenos Aires off, Tolcachir ottiene la consacrazione<br />
del pubblico europeo al Festival d’Automne nel<br />
2010 con la pièce La omisión de la familia Coleman, primo<br />
quadro di una trilogia sulla famiglia e sulla società. Applaudito<br />
in più di venti Paesi, il giovane artista argentino arriva in<br />
Italia nel 2008 a Vie Festival Scena Contemporanea di Modena<br />
e, passando per il Piccolo di Milano e il Mercadante di<br />
Napoli, approda quest’anno alla Biennale di <strong>Venezia</strong> con un<br />
laboratorio rivolto a venticinque giovani attori.<br />
Per sei giorni, la Sala degli Arazzi della Fondazione Cini,<br />
sull’isola di San Giorgio, delimita uno spazio di libertà appartato,<br />
strappato a una calda e caotica <strong>Venezia</strong>.<br />
Nella fucina di Claudio Tolcachir la parola d’ordine è gioco:<br />
vanità e competizione restano fuori dalla porta, insieme<br />
con le scarpe dei partecipanti. E le regole del gioco sono<br />
non giudicarsi e non giudicare, coerentemente con il metodo<br />
del maestro, che non esprime sentenze né dispensa ricette<br />
di teatro.<br />
Nel tempo sospeso del laboratorio si impara a mettersi e<br />
togliersi maschere a comando e a fare persino la parodia di<br />
se stessi, pregi e difetti. La prima fase di lavoro si concentra<br />
sull’ascolto del proprio corpo, che conserva tutte le necessità<br />
dell’azione. Dalla mattina al pomeriggio si assiste a un cambiamento<br />
di rotta: il gioco puro lascia il passo all’esercizio del<br />
pensiero, che per Tolcachir deve essere un «pensiero visibile».<br />
Esiste sempre un surplus dietro le parole e i silenzi, e l’obiettivo<br />
dell’attore deve essere quello di mostrarlo attraverso<br />
uno sguardo o un gesto. Tolcachir si sofferma su uno dei fondamenti<br />
del lavoro dell’attore: la costruzione del personaggio.<br />
Gli allievi vengono invitati a vestire i panni di una per-<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
focus on 11
12<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
sona incontrata per caso tra le calli veneziane per darne dimostrazione<br />
nel piccolo bar dell’isola durante la pausa pranzo;<br />
l’idea è quella di una sorta di teatro invisibile, che scardina<br />
il senso della rappresentazione per restringere sempre più<br />
i confini fra teatro e vita. Una volta rientrati in sala, il regista<br />
sottopone gli attori a una serie di domande per conoscere<br />
meglio i personaggi, ovvero le «nuove persone che il giorno<br />
prima non aveva visto».<br />
Nell’arco di appena una settimana la sala di Tolcachir è già<br />
casa. Quello di conoscersi e identificarsi come gruppo è stato<br />
il primo obiettivo raggiunto: dentro la fucina dell’artista<br />
porteño, come tra i banchi di scuola, il gioco quotidiano comincia<br />
dall’appello collettivo, dove vince chi per primo riconosce<br />
l’altro.<br />
Tolcachir ha fatto una scelta coraggiosa e, per l’Open Door<br />
conclusivo della Biennale, ha abbandonato le microdrammaturgie<br />
nate durante il laboratorio e ha deciso di mettere<br />
in scena cinque situazioni (di teatro e di vita) ambientate<br />
idealmente in cinque luoghi diversi: una camera ardente,<br />
un treno, una barca, una strada di periferia, la sala d’attesa<br />
di un medico. Ad abitarli, i personaggi su cui gli attori hanno<br />
lavorato nei giorni precedenti: prostitute, vagabondi, uomini<br />
d’affari, scrittori, collegiali impaurite, travestiti in cerca<br />
d’amore, e chi più ne ha più ne metta. Gli spettatori entrano<br />
quasi di soppiatto a spiare le loro azioni. Non succede nulla.<br />
Dopo qualche minuto finalmente i personaggi entrano in<br />
relazione tra di loro, ma comunicano solo attraverso sguardi,<br />
piccoli gesti e poche parole, per lo più sussurrate: nessuna<br />
storia, almeno per chi non raccoglie la sfida ad andare oltre,<br />
per carpire quello che gli attori vorrebbero dirsi ma non si dicono.<br />
Se si supera questo primo ostacolo invisibile, prodotto<br />
da secoli di convenzioni (nel teatro e nella vita) e si dà libero<br />
sfogo all’immaginazione, il gioco è fatto: lo spettatore, libero<br />
di muoversi tra un angolo e l’altro della sala, può inventare<br />
storie infinite e diventare autore di uno spettacolo che<br />
nessun altro ha mai visto. Le dinamiche degli spettatori diventano<br />
interessanti quanto quelle della scena: i loro bisbigli<br />
all’orecchio, tra sguardi di stizza o di complicità, costituiscono<br />
parte integrante dello<br />
spettacolo.<br />
Se oggi anche il «nuovo»<br />
ha ormai alle spalle<br />
una lunga tradizione,<br />
questo esito teatrale non<br />
può dirsi del tutto inedito;<br />
eppure risulta affatto<br />
originale per un<br />
pubblico che non è ancora<br />
pronto a rinunciare<br />
alle proprie abitudini,<br />
e con difficoltà si adegua<br />
a una modalità di partecipazione<br />
che non gli appartiene.<br />
Il tema che accomuna<br />
le diverse situazioni<br />
è l’attesa. I personaggi<br />
aspettano – chi il<br />
proprio turno dal medico,<br />
chi l’arrivo dopo un<br />
lungo viaggio, altri che<br />
la notte passi in fretta –<br />
e ingannano il tempo vivendo;<br />
gli spettatori, dal<br />
canto loro, attendono<br />
che accada qualcosa che<br />
li distolga, almeno per un’ora, dalla realtà della vita (e dalla<br />
finzione del teatro).<br />
Tolcachir mette in scena una riflessione sul tempo che ha<br />
raccolto la lezione di Beckett e non si nasconde dietro falsi<br />
intellettualismi, ma si ciba di vita vera.<br />
E il suo lavoro sembra raccogliere, a più di mezzo secolo di<br />
distanza, il senso delle parole con cui Peter Brook commentava<br />
The Connection del Living Theatre, augurandosi che,<br />
a partire dalla sfida radicale alle convenzioni contenuta in<br />
quello spettacolo, il pubblico teatrale sarebbe stato in grado,<br />
nei decenni a venire, «di guardare persone normali, in uno<br />
stato normale, con interesse».<br />
Era il 1959, ma la profezia sembra stentare ad avverarsi, almeno<br />
per il momento. ◼<br />
*ateatro.it<br />
Quattro gruppi in residenza<br />
alla Biennale 2012<br />
Dai laboratori 2010-2011<br />
alla presentazione<br />
di progetti autonomi<br />
di Elena Conti*<br />
Quando si abita un luogo si sente presto il desiderio<br />
di visitare quegli spazi che, nel corso dell’epoca<br />
moderna, sono stati privatizzati, chiusi alla<br />
comunità. Questo vale in particolar modo per<br />
una città come <strong>Venezia</strong>, rinomata per lo splendore dei suoi<br />
palazzi e giardini, pochi dei quali, purtroppo, visitabili. I 7<br />
Peccati, i micro-show che riflettevano sul peccato contemporaneo<br />
ad opera di sette registi internazionali, presentati lo<br />
scorso anno alla Biennale Teatro, hanno offerto l’occasione<br />
di assistere alla presentazione pubblica dell’esito laboratoriale<br />
in spazi bellissimi, non frequentemente aperti al pubblico<br />
e non intesi come sale teatrali. Non è stata questa certamen-<br />
Gli esiti delle quattro Residenze della Biennale, dall’alto in senso orario:<br />
Qui-es-tu? Tu-me-tu (es), Propaganda, Swimming B e Pocilga.
te l’unica peculiarità del lavoro, ma piace ricordare l’importanza<br />
di quell’esperienza. A segnare un’apertura e uno sviluppo<br />
di quel momento di incontro, Álex Rigola ha offerto<br />
quest’anno a quattro gruppi la possibilità di presentare un<br />
progetto autonomo a cui lavorare nel corso di una residenza<br />
artistica a <strong>Venezia</strong> (dal 4 al 10 agosto 2012). Il fil rouge che lega<br />
queste formazioni alle esperienze laboratoriali delle passate<br />
edizioni, risiede nella partecipazione dei componenti ai<br />
workshop tenuti da Jan Lauwers, Romeo Castellucci, Rodrigo<br />
García e Thomas Ostermeier nel 2010 e 2011.<br />
«Il nostro gruppo non si è ancora formalizzato in una compagnia<br />
– racconta John Romão in un’intervista a cura di<br />
Matteo Antonaci – non avevamo mai lavorato insieme prima<br />
d’ora. Il laboratorio di Romeo Castellucci ci ha permesso<br />
di conoscerci e di creare legami di reciproca ammirazione».<br />
La decisione di Rigola di accostare le Residenze ai Laboratori,<br />
ha posto l’attenzione sulla ricerca teatrale di nuove<br />
formazioni, sul lavoro di artisti che, come John Romão, assieme<br />
a Georgina Oliva, Piera Formenti e Damiano Ottavio<br />
Bigi, hanno deciso di intraprendere e condividere un percorso<br />
per affinità di interessi e di poetica. Pocilga è il progetto su<br />
cui si è concentrato il collettivo; gli spazi del Teatro Junghans<br />
hanno accolto un primo avvicinamento scenico a Porcile di<br />
Pasolini, in una riflessione focalizzata sul corpo umano e sul<br />
corpo animale quali oggetti «di desiderio “invertito” – come<br />
scrive Romão – e cause di scandalo all’interno di un gruppo<br />
sociale. Un giovane, invece di amare il corpo umano, lo divora;<br />
un altro, invece di mangiare il corpo del maiale, lo ama. Si<br />
tratta di corpi trasgressori che il potere vuole cancellare e nascondere.<br />
È questa la principale linea drammaturgica di cui<br />
voglio occuparmi».<br />
Sempre al Teatro Junghans, la compagnia Divano Occidentale<br />
Orientale, già costituita da Giuseppe Bonifati nel<br />
2010 e impegnata lo scorso anno nel laboratorio condotto<br />
da Rodrigo García, ha sviluppato Qui-es-tu? Tu-me-tu (es),<br />
una performance nata dall’idea di un televisore che genera<br />
interferenze. «In scena – racconta Bonifati – una casalinga<br />
ha un rapporto sessuale con un televisore dal quale sembrano<br />
nascere due figure, Y e Z. Le due entità non si conoscono ma<br />
stabiliscono lentamente un dialogo fino a quando una violenza<br />
domestica non crea un cortocircuito imprevisto. Non<br />
sono interessato ad una critica massmediale – continua il regista<br />
– voglio mettere in scena un incubo nel quale i personaggi<br />
non sono che entità astratte».<br />
Accanto a queste esperienze, altre due formazioni hanno<br />
lavorato negli splendidi saloni del Conservatorio Benedetto<br />
Marcello: sono The Moors of Venice, il gruppo creatosi<br />
all’interno del laboratorio di Thomas Ostermeier, ora alle<br />
prese con Propaganda, la prima parte di The Revolution<br />
Project, e l’ensemble costituito da Carlota Ferrer, Nicolas<br />
Wan Park, Francesca Tasini e Emmanuelle Moreau, impegnato<br />
in Swimming B, una rilettura di alcuni monodrammi<br />
di Beckett.<br />
La possibilità di seguire parte delle prove degli artisti presenti<br />
al Conservatorio, ha distolto dalla congettura che legava<br />
e restringeva il percorso di questi professionisti al nome<br />
del regista del laboratorio, come alla ricerca di segni distintivi<br />
di un «superficiale» passaggio di testimone da maestro<br />
ad allievo, ponendo piuttosto in evidenza la sperimentazione<br />
apportata da questi giovani autori al contemporaneo panorama<br />
performativo. Ognuno di loro ha potuto organizzare<br />
a proprio modo le giornate di lavoro: così se The Moors of<br />
Venice, il gruppo guidato da Fèlix Pons, nel corso delle prime<br />
prove si è approcciato alla messinscena di Propaganda –<br />
un interessante studio sull’eta, l’organizzazione terroristica<br />
basca – in maniera più consueta, per giungere in seguito<br />
a un capovolgimento totale della costruzione drammaturgi-<br />
ca, la modalità perseguita nella creazione di Swimming B ha<br />
mantenuto costante l’idea di work-in-progress trasmessa alla<br />
formazione dall’esperienza fatta precedentemente con Jan<br />
Lauwers, ma modellata sulle specificità dei singoli. «Tutto il<br />
gruppo che ha lavorato con il maestro a <strong>Venezia</strong> – racconta<br />
Carlota Ferrer – è rimasto influenzato dal suo linguaggio. La<br />
modalità che seguiamo nella creazione si avvicina al suo modo<br />
di lavorare: un continuo work-in-progress che si basa sulle<br />
proposte differenti degli attori».<br />
A chiusura del periodo di residenza, i progetti sono stati<br />
presentati al pubblico in Open Doors volti a fornire agli artisti<br />
un riscontro sulla ricerca intrapresa in questa breve esperienza.<br />
Osservare la pluralità di linguaggi – pur trattandosi<br />
ancora di piccoli frammenti – portata in scena da questi ensemble<br />
multinazionali, fa riflettere sulle difficoltà che si possono<br />
incontrare all’inizio di un percorso (come la disponibilità<br />
di uno spazio), e porta a riconoscere l’opportunità che la<br />
direzione artistica di Álex Rigola ha offerto a questi gruppi.<br />
Ora si può guardare al futuro, a una maturazione del lavoro,<br />
come racconta Ferrer, che nello sviluppo della performance<br />
vorrebbe coinvolgere un drammaturgo; o come dimostra<br />
The Moors of Venice, il cui pensiero va a InSIGHT?, il secondo<br />
step della trilogia dedicato all’aspra realtà siriana, che verrà<br />
presentato a settembre a Monaco di Baviera. ◼<br />
*iltamburodikattrin.com<br />
Un campus d’agosto<br />
fra incontro e condivisione<br />
Il progetto di Álex Rigola<br />
per un cantiere<br />
che lavori tutto l’anno di Roberta Ferraresi*<br />
Álex Rigola, fra i rappresentanti di quella nuova<br />
possente generazione della regia europea che – ne abbiamo<br />
visto qualche esito proprio nelle ultime sue Biennali<br />
– continua a scuotere i palcoscenici e a reinventare il linguaggio<br />
teatrale, è al secondo mandato come direttore del festival<br />
lagunare. Qui, con l’intenzione di fare di <strong>Venezia</strong> un campus<br />
internazionale delle arti sceniche, sta sperimentando una<br />
curiosa formula di direzione, capace di intrecciare la logica laboratoriale<br />
con il momento della messinscena. Cominciamo<br />
l’intervista ponendo le domande che, lungo tutta la settimana,<br />
abbiamo rivolto agli allievi dei workshop, per proseguire<br />
poi verso le idee e le spinte che da questo campus, ormai alla fine,<br />
portano già verso gli orizzonti del festival 2013.<br />
La prima domanda che abbiamo posto ai laboratoristi è:<br />
qual è lo spettacolo che le ha cambiato la vita?<br />
I sette rami del fiume Ota di Lepage, Shopping & Fucking di<br />
Ostermeier, Je suis sang di Jan Fabre… che altro? Mi è piaciuto<br />
molto uno degli spettacoli che abbiamo portato in Biennale<br />
l’anno scorso: Isabella’s Room di Jan Lauwers. Poi tutti<br />
i Dostoevskij di Castorf... Fra i più recenti c’è la versione<br />
del Maestro e Margherita di Simon McBurney. I lavori di Sidi<br />
Larbi, un artista che vorrei portare a <strong>Venezia</strong>. Poi Sasha<br />
Waltz, Pina Bausch…Gli spettacoli che mi hanno cambiato<br />
sono così tanti che potrebbero non finire mai!<br />
La seconda domanda riguarda direttamente i laboratori di<br />
questa Biennale: fra «costi e ricavi», chiediamo di fare un bilancio<br />
dell’edizione 2012.<br />
Cos’ho guadagnato? Sicuramente la felicità. Ad esem-<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
focus on 13
14<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
pio i due Open Doors dell’ultima sera (dai laboratori di Gabriela<br />
Carrizo e Claudio Tolcachir, ndr) mi hanno reso molto<br />
felice: non tanto perché quello che hanno mostrato fosse<br />
bello o interessante – in effetti lo era – ma per il rapporto<br />
che hanno mantenuto con il percorso di lavoro che si è sviluppato<br />
in questi giorni. Perché abbiamo voluto presentare<br />
degli Open Doors alla fine dei workshop? Certo non per vedere<br />
degli spettacoli: queste dimostrazioni non erano come<br />
i 7 peccati, la serie di micro-show itinerante che ha concluso<br />
la Biennale 2011; piuttosto rappresentano, per gli altri allievi<br />
dei laboratori, la possibilità di conoscere altri modi di lavorare<br />
e pensare il teatro. Così mi chiedo: cosa succederebbe<br />
se, per un giorno alla settimana, potessimo<br />
cambiare i nostri maestri e provare qualcosa<br />
di totalmente diverso? Credo potrebbe<br />
essere un’esperienza fondante: una specie di<br />
«pausa» dal proprio lavoro, in cui il cervello<br />
si sposta per andare a incontrare un altro percorso<br />
e poi, il giorno successivo, torna rinnovato<br />
dal maestro e dal teatro che ha scelto. Mi<br />
pare che l’esperienza dell’ultima serata abbia<br />
saputo raccontare davvero molto bene quello<br />
che ho provato a fare qui con il Laboratorio di<br />
arti sceniche della Biennale.<br />
L’ultima domanda che abbiamo posto in<br />
questi giorni agli allievi dei laboratori: che senso<br />
ha, secondo lei, fare teatro in questi tempi di<br />
crisi?<br />
…che sia troppo tardi per iniziare una nuova<br />
carriera?! (ride) Ora tutto è peggiorato, ma<br />
non penso di essere cambiato molto rispetto<br />
a due anni fa, sono sempre ugualmente critico.<br />
Credo che, facendo regia, il mio lavoro<br />
possa essere quello di indagare – anche se solo<br />
parzialmente – la psicologia umana e di vedere<br />
un po’ come va il mondo. Non ho soluzioni: non sono<br />
uno statista, un economista o un filosofo, posso solo raccontare<br />
quello che mi accade intorno ogni giorno.<br />
Tuttavia, mi è capitato spesso di pormi questa domanda e,<br />
pur credendo che non ci sia una risposta precisa o necessaria,<br />
sono giunto alla conclusione che facciamo teatro per sapere<br />
qualcosa in più su noi stessi. Penso sia questo il senso ultimo<br />
dell’arte scenica, anche dal punto di vista degli spettatori:<br />
andiamo a teatro per conoscere qualcosa in più sull’essere<br />
umano. Ma perché vogliamo sapere così tanto, e sempre di<br />
più, su noi stessi? Forse questa è la vera domanda.<br />
Una Biennale all’insegna del laboratorio: il progetto, avviato<br />
nel 2010, quest’anno si condensa in un’unica settimana e richiama<br />
a <strong>Venezia</strong> più di centocinquanta fra maestri e allievi…<br />
Per me il laboratorio non è un luogo di lezione, ma di «simmetria».<br />
Deve essere un posto in cui il maestro sperimenta<br />
qualcosa e gli allievi lo seguono, possono vedere come lavora:<br />
ma deve essere innanzitutto anche un’occasione per il<br />
maestro stesso, un momento che serva profondamente anche<br />
a lui, ossia uno spazio per mettersi alla prova. Il laboratorio,<br />
dunque, non può seguire una direzione univoca – una<br />
trasmissione di sapere dal maestro agli allievi – ma diventare<br />
una occasione di condivisione di esperienze.<br />
Veniamo alla presenza dei maestri: nelle passate stagioni si<br />
poteva individuare un legame empatico, quasi generazionale,<br />
fra gli artisti invitati in Biennale. Quest’anno la proposta<br />
è «esplosa»: c’è un grande maestro come Ronconi e un regista<br />
come Donnellan; si trovano la drammaturgia, il teatro-danza<br />
e l’esperienza di un autore-regista come Claudio Tolcachir…<br />
Qual è il criterio, l’interesse, che muove verso queste persone?<br />
Il percorso di selezione – quest’anno, ma anche nelle edizioni<br />
precedenti e future – è un processo complesso. Ma non<br />
esiste una teoria, come ad esempio lavorare con artisti che appartengono<br />
a una stessa generazione. Quella del 2011 si può<br />
dire sia stata una pura casualità; anche se è vero che le coincidenze<br />
non esistono e si potrebbe pensare che, trattandosi di<br />
artisti tutti miei coetanei, sono persone il cui lavoro mi piace<br />
molto e da cui ho imparato tantissimo, innanzitutto come<br />
spettatore.<br />
Che relazione lega gli artisti coinvolti nel 2012? Ognuno<br />
è qui con il proprio percorso, con il proprio lavoro e un’estetica<br />
specifica. Il punto, piuttosto, è un altro: un progetto laboratoriale<br />
è profondamente diverso da un festival – e noi,<br />
in questi tre anni, ci stiamo muovendo fra entrambe queste<br />
polarità. Workshop e spettacolo sono elementi strettamente<br />
legati, per me è un punto molto importante. Non si viene<br />
a <strong>Venezia</strong> soltanto a seguire delle lezioni o a vedere delle messinscene;<br />
si viene alla Biennale piuttosto per un campus estivo<br />
dove il tratto determinante è la condivisione di esperienza<br />
a tutti i livelli. Qui si può incontrare il lavoro di un maestro<br />
e gli allievi possono seguirne i processi di sperimentazione.<br />
Ma la trasmissione di sapere funziona anche fra i singoli<br />
partecipanti dei laboratori, fra allievi attori e registi... Siamo<br />
tutte persone a cui piace il teatro e che vogliono imparare<br />
qualcosa in più: è per questo che ci ritroviamo tutti insieme<br />
per una settimana.<br />
Come si rapporta questo progetto legato alla dimensione laboratoriale<br />
e della ricerca con uno spazio istituzionale come<br />
quello della Biennale di <strong>Venezia</strong>?<br />
Devo dire che qui c’è una grande libertà artistica. La Biennale<br />
è un luogo in cui si può provare a realizzare quello che si<br />
desidera artisticamente. Ogni volta che ho raccontato le mie<br />
idee e i miei progetti sono sempre stati accolti con interesse e<br />
curiosità: non dappertutto esiste tale disponibilità nei confronti<br />
della direzione che un artista intende proporre.<br />
In particolare, per quanto riguarda i percorsi laboratoriali,<br />
è stata proprio la Biennale a stimolare un approccio del genere:<br />
l’idea non è soltanto mia. Ad esempio Ismael Ivo, direttore<br />
del Settore Danza, ha attivato un percorso formativo lungo<br />
cinque mesi. Ora c’è il nostro, con il teatro; e a fine ottobre<br />
ci sarà Musica. Sono progetti formativi che si dipanano<br />
quasi per tutto l’anno. E questa è un’idea fortemente sostenuta<br />
dal Presidente Baratta: il termine «Biennale College»<br />
è suo. Ciò significa che ci siamo incontrati su di uno stesso<br />
Álex Rigola.
cammino: le nostre ricerche si uniscono nella volontà di abitare<br />
questa «città della conoscenza», dove abbiamo la fortuna<br />
di trovarci. Proseguendo su questa linea, la Biennale Teatro<br />
potrà diventare una sorta di «Cambridge dell’arte scenica».<br />
Sembrerà una definizione eccessiva ma, guardandosi<br />
un po’ intorno, ci si rende conto che al giorno d’oggi, in teatro,<br />
non c’è nessuno che stia lavorando a qualcosa di simile. ◼<br />
*iltamburodikattrin.com / doppiozero.com<br />
La formazione continua:<br />
una riflessione<br />
sulla Biennale Teatro<br />
di Andrea Pocosgnich *<br />
Il termine «condivisione» appare più volte nelle<br />
risposte date da Álex Rigola a Roberta Ferraresi nell’intervista<br />
che compare proprio in queste pagine. Ed è in effetti<br />
questo il senso ultimo del progetto formativo ideato dal<br />
regista catalano sin dalla prima edizione del<br />
2010. Il tiro è andato modificandosi di anno<br />
in anno, con in mezzo un festival direttamente<br />
connesso al precedente periodo formativo.<br />
Se nella prima edizione i laboratori cominciavano<br />
in ottobre e terminavano in primavera<br />
inoltrata, questa Biennale ha invece visto concentrarsi<br />
tutte le classi in meno di dieci giorni<br />
permettendo uno scambio osmotico di esperienze<br />
non solo tra i partecipanti, ma anche<br />
tra i maestri, mantenendo comunque intatta<br />
la durata di ogni workshop. È stato curioso<br />
osservare l’affermato Declan Donnellan interloquire<br />
con l’astro nascente del teatro argentino<br />
Claudio Tolcachir del quale fu maestro<br />
in un laboratorio tenuto a Buenos Aires<br />
alcuni anni fa; oppure vedere l’americano<br />
Neil LaBute incrociare il suo particolarissimo<br />
percorso (regista teatrale, drammaturgo,<br />
filmaker) con quello del teatro europeo, distante<br />
per metodo e funzione sociale.<br />
La «Cambridge delle arti sceniche» – così<br />
tra speranza e ironia Rigola chiama il futuro<br />
del suo progetto formativo – ha visto, oltre ai<br />
tre maestri citati, il teatro-danza di Peeping Tom (alle prese<br />
con un lavoro spietato, ma anche allegro e ironico, sul corpo<br />
degli allievi) e il Leone d’oro alla carriera Luca Ronconi con<br />
le sue lezioni su Pirandello che immediatamente divenivano<br />
seminari sull’arte teatrale. Personalità che vanno a comporre<br />
un mosaico eterogeneo e complesso della scena contemporanea<br />
e in parte anche interpreti di una vocazione – per lo più<br />
assente in Italia – che caparbiamente lega tradizione, ricerca<br />
e commerciabilità dell’opera.<br />
Un campus delle arti sceniche, inevitabilmente, è anche<br />
una comunità. Il che comporta una condivisione non solo<br />
degli spazi e dei tempi laboratoriali, il prima e il dopo si mescolano:<br />
la sveglia in ostello, la colazione prima del vaporetto,<br />
la cena, le passeggiate per le fondamenta, lo studio in notturna.<br />
Nel segno di questa condivisione si costruiscono le basi<br />
di un vero e proprio campus. Per ora rimane l’idea, romantica<br />
e affascinante, che deve vedersela con la consueta scarsi-<br />
Alcuni partecipanti ai laboratori (foto di Giada Russo).<br />
tà di risorse economiche. È stato un assaggio. Come definire<br />
d’altronde dei laboratori che nella migliore delle possibilità<br />
hanno avuto una durata settimanale? Cosa si porteranno a<br />
casa gli allievi di LaBute dopo tre giorni di corso? La cura del<br />
gesto e la ricerca sul corpo drammaturgico di Gabriela Carrizo<br />
possono essere appresi con meno di una settimana di lavoro?<br />
È il segno dei tempi, certo: anni in cui gli artisti debbono<br />
vivere in una condizione di formazione perenne, perché<br />
se il lavoro scarseggia bisogna sapersi adattare, fare tutto,<br />
anche impreziosire il curriculum con momenti formativi<br />
mordi e fuggi. La riuscita non è dunque misurabile proprio<br />
perché strettamente legata alle esperienze pregresse di ogni<br />
partecipante. Variegata d’altronde la platea di attori e performer,<br />
più di cento, che hanno risposto all’avviso pubblico<br />
della Biennale, anche grazie ai costi molto contenuti. Resiste<br />
come punto di riferimento principale l’accademia. Il percorso<br />
formativo di lunga durata sembra rimanere la prima tappa<br />
obbligata (quantomeno lo è per chi si è occupato di selezionare<br />
i curricula), ma anche per chi è già inserito nel mondo<br />
lavorativo l’appuntamento laboratoriale col grande maestro<br />
è d’obbligo. Non mancano però artisti che si stanno affermando<br />
tra le nuove generazioni – a seguire il workshop di<br />
Ronconi vi erano ad esempio Claudio Autelli e Licia Lanera,<br />
entrambi vincitori dell’ultima edizione del premio Nuo-<br />
ve Creatività eti, Luca Micheletti, Premio Ubu 2011, alcuni<br />
venivano invece da recenti esperienze nel cinema e nella<br />
televisione. Se escludiamo insomma quel senso di incontro<br />
e condivisione per concentrarci sulla risultante pedagogica<br />
(anche se è chiaro che mentre il primo può fare a meno della<br />
seconda non è vero il contrario) difficilmente riusciamo a tirare<br />
le somme del progetto di Rigola. A sentire i partecipanti,<br />
a parte lo spaesamento iniziale degli attori venuti per Ronconi<br />
che poi si sono trovati a lavorare in gran parte con giovani<br />
registi, l’esperienza ha portato i suoi frutti: artisti come<br />
Claudio Tolcachir e Gabriela Carrizo hanno avuto una presa<br />
immediata sui propri allievi stabilendo un rapporto empatico<br />
e di grande stima. Ma nel caso di una istituzione come la<br />
Biennale un campus estivo deve anche essere l’epicentro del<br />
dibattito artistico, luogo di eccellenza dove si misura il fermento<br />
della scena, punto nevralgico della città, realmente e<br />
per tutto l’anno, open door; l’alternativa è l’ennesimo fast-food<br />
del workshop teatrale. ◼<br />
*TeatroeCritica.net<br />
le biennali 2012 — teatro<br />
focus on 15
16<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro — appendice<br />
Rafael Spregelburd<br />
secondo<br />
Luca Ronconi<br />
a cura di Oliviero Ponte di Pino<br />
Rafael Spregelburd è uno degli autori più rappresentati<br />
in Europa. In Italia alla sua drammaturgia<br />
si è interessato nientemeno che Luca Ronconi,<br />
che nel 2011 ha allestito La modestia, e nel prossimo<br />
futuro metterà in scena Il panico, cioè due delle sette tessere<br />
che compongono l’Eptalogia di Hieronymus Bosch. Oliviero<br />
Ponte di Pino, esperto conoscitore di entrambi, ha seguito<br />
l’avvicinamento del maestro all’autore argentino nelle<br />
sue varie fasi, intervistando Ronconi prima del debutto della<br />
Modestia, e poi a «prima» avvenuta. A queste due conversazioni<br />
se ne aggiunge ora una terza, dedicata allo spettacolo<br />
che verrà e realizzata per <strong>Venezia</strong>Musica e dintorni. Cogliendo<br />
l’occasione del Leone d’oro alla carriera, pubblichiamo le<br />
tre interviste per offrire anche diacronicamente un’idea del<br />
lavoro e delle riflessioni che il grande regista ha svolto a partire<br />
dalle pièce del drammaturgo di Buenos Aires. (l.m.)<br />
«La modestia» 1:<br />
uno spettacolo infinito in un teatro in fuga<br />
Hai lavorato moltissimo sui classici, ma nella tua carriera<br />
non mancano le incursioni nella drammaturgia contemporanea.<br />
Anche se poi a volte pare quasi che la drammaturgia<br />
contemporanea non ti soddisfi del tutto, visto che spesso senti il bisogno<br />
di utilizzare testi non teatrali.<br />
Non è affatto vero che non mi interessa la drammaturgia contemporanea,<br />
e non solo in questi ultimissimi anni. Nel 1978, quando<br />
ho fatto Calderón, Pasolini era contemporaneissimo...<br />
…Wilcock, di cui nel 1971 hai portato in scena XX, pure...<br />
Anche Infinities era drammaturgia contemporanea. In realtà il<br />
termine «drammaturgia» mi pare troppo generico. Ci sono scrittori<br />
per il teatro contemporaneo, e ce ne sono sempre stati, che però<br />
non chiamerei «autori»: sono piuttosto fornitori di copioni, secondo<br />
le regole teatrali vigenti in quel momento. Altri scrittori per<br />
il teatro sono invece propriamente «autori»: possiedono un linguaggio<br />
particolare, hanno un modo singolare di organizzare i materiali<br />
teatrali: sono gli autori che mi interessano di più.<br />
Dunque è in primo luogo un problema di linguaggio.<br />
Certo. Prendi in esame gli «ultimissimi». Un autore come Jean-<br />
Luc Lagarce (di cui ho allestito Giusto la fine del mondo nel 2009)<br />
ha il suo linguaggio. Anche Botho Strauss, che ho messo in scena<br />
due volte (Besucher, 1989, e Itaca, 2007) ha una sua fisionomia, come<br />
Edward Bond, un altro autore che ho messo in scena due volte<br />
(Atti di guerra, 2006, e La compagnia degli uomini, 2011). D’altra<br />
parte, perché devo dire che non è un autore contemporaneo l’autore<br />
di Infinities, John Barrow? O Giorgio Ruffolo, di cui ho portato<br />
in scena Lo specchio del diavolo? È vero, hanno scritto due saggi, che<br />
però hanno avuto una forte resa teatrale...<br />
La forza del linguaggio si coglie già alla lettura, sulla pagina, oppure<br />
è necessario aspettare di vederla incarnarsi in scena, nella parola<br />
degli attori?<br />
Si vede subito, dalla pagina. Quando ho letto l’epistolario di Vittorio<br />
Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti,<br />
mi sono detto: «Questo lo posso benissimo fare», non tanto<br />
perché si tratta di testi scritti in prima persona, ma perché sono tre<br />
forme di linguaggio molto precise e diverse una dall’altra.<br />
Quando metti in scena un classico sei sempre molto consapevole di<br />
tutte le varie messinscene di quel testo. Nel caso di un testo contemporaneo,<br />
questo non è possibile.<br />
Infatti l’approccio è abbastanza diverso. Sui classici gioca molto<br />
la memoria che ne hai, le frequentazioni... Il lavoro su un testo contemporaneo<br />
mi piace molto e mi è sempre piaciuto, perché è sempre<br />
un lavoro di scoperta. Un testo contemporaneo lo puoi fare in vari<br />
modi. Per esempio, c’è chi va a vedere una commedia inglese al Fe-<br />
stival di Edimburgo, e poi la riproduce più o meno uguale in Italia,<br />
con gli opportuni accorgimenti. Un’operazione del genere non sarei<br />
capace di farla, per un motivo molto semplice: per me, a parte il<br />
linguaggio del testo, anche la lingua che parlano gli attori non è facilmente<br />
trasferibile in un’altra lingua. Ecco, mi interessa lavorare<br />
su testi contemporanei dove la scrittura presenta dei problemi. La<br />
stessa cosa sarebbe accaduta se fossi nato quarant’anni prima e mi<br />
fossi trovato a mettere in scena una commedia di Pirandello.<br />
Quando dici che il linguaggio pone dei problemi, che cosa intendi?<br />
Si tratta ogni volta di capire, non solo dal punto di vista drammaturgico,<br />
perché l’autore usa quella cadenza, quel ritmo, quel giro di<br />
frase... Insomma, non si tratta di leggere il testo come uno spartito<br />
che va in qualche modo ripercorso, e poi alla fine lo spettacolo viene<br />
fuori da solo. Si tratta invece di capire le ragioni che stanno dietro<br />
alle scelte dell’autore.<br />
Quindi si tratta di andare a vedere quello che c’è aldilà e sotto il testo.<br />
Ma questo lo fai anche con Pirandello e con Shakespeare...<br />
Il presupposto è cercare di entrare nella mente di chi ha fatto una<br />
cosa, e questo vale sia per i classici sia per i contemporanei...<br />
Arrivando a Rafael Spregelburd, che cosa ti ha interessato quando<br />
hai incontrato i suoi testi?<br />
Mi sono subito sentito un suo parente. Una volta mi hanno chiesto:<br />
«Qual è il tuo spettacolo ideale?». Io ho risposto, e risponderei<br />
ancora, che è uno spettacolo infinito in un teatro in fuga. Lo sguardo<br />
un tantino scettico che mi viene quando si parla di «profondità»,<br />
e la curiosità che mi si sveglia immediatamente quando si parla<br />
di “estensione”, li ritrovo perfettamente in Spregelburd. E poi, come<br />
gli ho detto quando l’ho incontrato, il motivo per cui mi piace il<br />
suo teatro è che mi sembra che scriva commedie che si fanno da sole.<br />
In che senso le commedie di Spregelburd «si fanno da sole»?<br />
Sono organismi che proliferano quasi indipendentemente<br />
dall’autore. Anche se poi in realtà l’autore c’è, ed è presente in ogni<br />
cerniera. Tuttavia i suoi testi ti danno questa impressione: tanto è<br />
vero che in parecchie commedie, compresa La modestia, hai l’impressione<br />
che l’autore non riesca a trovarne la fine. E non lo considero<br />
un difetto o una mancanza.<br />
Infatti Spregelburd è autore di testi molto lunghi, a puntate, che<br />
proliferano...<br />
E questo mi piace molto.<br />
Ma secondo te qual è il meccanismo generativo che porta a questa<br />
proliferazione infinita?<br />
Le mie sono solo illazioni, ma credo che nel caso di Spregelburd<br />
sia il frutto di un senso storico molto preciso, da una forte consapevolezza<br />
della contemporaneità – e con questo non voglio certo dire<br />
dell’attualità. È un senso delle simultaneità contemporanee. In varie<br />
occasioni mi sono trovato a fare degli spettacoli in cui c’era una<br />
sincronia strutturale, con diverse azioni che accadono simultaneamente.<br />
Spregelburd parla addirittura di «struttura frattale».<br />
Quindi ti ha interessato il lavoro sul tempo, sulla durata e sulla<br />
simultaneità...<br />
Nella sua drammaturgia si sentono anche le ascendenze della sua<br />
formazione matematica. E possiamo trovarci anche tantissimi antecedenti<br />
letterari, anche perché molto spesso la sua drammaturgia<br />
si rifà a topoi drammaturgici e narrativi molto riconoscibili.<br />
Ed è argentino come Borges... Tuttavia lo scheletro logico-matematico<br />
che sostiene la sua drammaturgia, e questo intreccio di citazioni<br />
colte, poi si contaminano con l’aspetto pop, perché c’è una grande capacità<br />
di usare i linguaggi contemporanei...<br />
È anche molto ludico...<br />
...e molto ironico: nella Modestia ci sono varie stratificazioni ironiche.<br />
Ma questo, forse, per un regista come te pone un ulteriore problema.<br />
Hai detto che, di fronte a un testo, vai a scavare quello che c’è dietro,<br />
o sotto. Di fronte a una scrittura di per sé così stratificata, che cosa<br />
puoi trovare?<br />
Devi giocare anche temporalmente, prima una cosa, poi l’altra,<br />
poi un’altra ancora, per ricostruire la stratificazione che c’è nel<br />
testo.<br />
Come ti poni di fronte ai meccanismi ironici della scrittura di<br />
Spregelburd?<br />
Nella Modestia ci sono anche elementi patetici...<br />
Tutta la vicenda russa lavora sul patetico...<br />
È straziante!<br />
Come i grandi romanzi russi dell’Ottocento... Ma con tutte queste<br />
suggestioni presenti nel testo, come riesci a richiudere il cerchio, a far<br />
quadrare l’aspetto logico di cui si parlava prima?<br />
E chi lo sa? Vedremo...
Anche perché, di fronte a un testo di questo genere, il lavoro con gli<br />
attori non può certo andare verso l’approfondimento psicologico, lo<br />
scavo nell’interiorità dei personaggi...<br />
Non avrebbe senso. L’idea stessa di identità individuale viene<br />
messa radicalmente in discussione. C’è un aspetto che mi piace<br />
molto della Modestia: questi personaggi – anzi, questi attori, perché<br />
c’è la condizione del personaggio e quella dell’attore... Ecco, quello<br />
che mi piace è che gli attori non dovrebbero mai sapere con precisione<br />
se stanno in una storia o nell’altra. Quella sensazione di essere<br />
sempre profughi, di vivere continuamente le vite degli altri, mi<br />
pare che sia una caratteristica dei personaggi di Spregelburd. Molte<br />
delle sue commedie – penso al Panico, alla Paranoia – sono «bilocate»:<br />
si svolgono in più posti, in due luoghi se non in quattro.<br />
Dunque emerge la sensazione di essere un po’ i fantasmi di altri:<br />
nella Modestia questa sensazione è fortissima, si usano gli attrezzi<br />
di altri, i personaggi si siedono dove altri si sono seduti, si sdraiano<br />
su letti che appartengono ad altri, perché sono nell’altra storia... È<br />
una cosa bella e interessante: la riflessione sul rapporto tra l’attore e<br />
il personaggio si moltiplica all’ennesima potenza.<br />
Su Spregelburd avevi un piano più ambizioso rispetto alla messinscena<br />
di un unico testo.<br />
Sarei partito quest’anno portando in scena io tre testi suoi, e poi in<br />
futuro mi sarebbe piaciuto allargare l’esperienza anche ad altri colleghi,<br />
per presentare tutti i sette testi della Eptalogia.<br />
Forse ci si riuscirà, con il tempo.<br />
Farò di tutto per riuscirci, perché mi pare che si tratti di un autore<br />
che merita di essere conosciuto. Molto teatro contemporaneo prende<br />
i suoi temi dal giornalismo, dall’attualità, dalla cronaca: a volte<br />
questo dà origine a testi belli, altre volte a testi meno belli, ma sempre<br />
un po’ precotti. Spregelburd è invece un autore che si è affidato<br />
a una percezione della contemporaneità che corrisponde al nostro<br />
tempo ma non è cronachistica, lavora sull’immaginario. Ho sempre<br />
pensato che in teatro un tema contemporaneo, se lo cali nelle<br />
forme e nelle strutture consuete (il personaggio, il dialogo, la trama,<br />
l’intervallo, eccetera), alla fine tanto contemporaneo non risulta.<br />
Gira e rigira, quei testi sembrano tutte commedie dell’Ottocento:<br />
quelle forme non riescono più a contenerci, non ci stiamo<br />
più dentro...<br />
Un altro aspetto che ti ha incuriosito è che questi testi non sono scritti<br />
da un letterato, ma da un uomo di teatro.<br />
Lo senti subito! Una battuta di Schiller o di Ibsen può essere recitata<br />
bene o recitata male, ma resta, ha una sua autonomia. Invece<br />
una battuta di Spregelburd pretende di essere recitata.<br />
Perché non è letteratura?<br />
È anche letteratura, e questo è il suo bello. Però va in due direzioni<br />
diverse: da una parte c’è un gioco letterario, e infatti il testo, se<br />
lo leggi, funziona benissimo; d’altra parte, però, se il gesto e la voce<br />
non se ne fanno carico, improvvisamente quel gioco sparisce e rischia<br />
di restare solo una lettera piatta. Tenendo presente che il gesto<br />
e la voce dell’attore apparentemente possono dare molto, ma possono<br />
anche togliere molto.<br />
Un altro aspetto che conferma la forza di questo testo è la precisione<br />
dei rapporti tra gli attori, tra i personaggi, tra gli spazi, tra i tempi...<br />
È una consapevolezza che un autore può raggiungere solo se è abituato<br />
a fare teatro, a muovere gli attori in scena.<br />
Del resto le didascalie che costellano il testo sono fatte sulla rappresentazione.<br />
Le ripropongo tutte, perché fanno parte del testo.<br />
A volte nel caso dei classici sei andato «contro» il testo. Nel caso di<br />
un autore contemporaneo si può fare? Ha senso farlo?<br />
È un po’ difficile. I classici ormai sono diventati una terra di nessuno.<br />
Però con un testo contemporaneo, invece, è possibile in qualche<br />
modo sbagliarsi, cadere in qualche equivoco, non capire.<br />
Stai facendo lavorare duramente gli attori. Anche perché non devono<br />
sbagliare...<br />
Non è facile. Devono capire bene perché ci sono quelle parole,<br />
perché quella parola ne chiama un’altra... La maggior parte degli<br />
attori ha sempre la tendenza alla psicologia, alla ricerca della verità.<br />
Con questo testo diventa molto difficile.<br />
A quel punto, però, se gli attori non si possono agganciare a questo,<br />
che cosa resta?<br />
Devono trovare qualcos’altro a cui agganciarsi. Per esempio, c’è<br />
una scena in cui un personaggio – quello che interpreta Fausto Russo<br />
Alesi – gioca a carte un gioco che non conosce e contemporaneamente<br />
tratta un affare. Potrebbe diventare una specie di cliché comico,<br />
ma in realtà viene molto meglio, ed è più divertente, se senti<br />
che l’attore si mette in una specie di bilocazione reale: può ascol-<br />
tare e giocare, controllando contemporaneamente due codici completamente<br />
diversi. È una facoltà che esiste, c’è qualcosa di reale, di<br />
fisiologico. Sono procedimenti mentali e cognitivi che possiamo seguire,<br />
una situazione in cui le parole ti vengono da sole e non devi<br />
andarle a cercare...<br />
Questo meccanismo è già presente nel testo?<br />
Sì, e l’attore deve eseguirlo. Questo non vuol dire che non ci deve<br />
mettere del suo: però può metterci qualcosa di suo solo dopo aver<br />
restituito quello che c’è nel testo: per l’appunto questo essere perennemente<br />
bilocati.<br />
La bilocazione è una qualità che attribuivi in senso generale alla<br />
drammaturgia di Spregelburd, e che si riflette anche nel lavoro<br />
dell’attore.<br />
La nostra tendenza «italiana» consiste nel recitare sempre per<br />
convincere l’altro. L’attore cerca di essere convincente, vuole avere<br />
ragione. Invece in questa commedia l’obiettivo è frastornare,<br />
deviare...<br />
Tutto questo sullo spettatore che effetto può o deve avere?<br />
Nel migliore dei casi, dovrebbe accadere quello che capita con certi<br />
film di Hitchcock, come Marnie o La finestra sul cortile: capisci<br />
che tutto quanto ha una regola, però fatichi un po’ a trovarne<br />
la chiave.<br />
Il pericolo è che la chiave venga fuori troppo facilmente?<br />
Oppure che non venga fuori affatto...<br />
L’altro aspetto interessante della drammaturgia di Spregelburd, come<br />
abbiamo visto, è che offre diversi livelli – e dunque chiavi – di lettura.<br />
C’è lo spettatore a livello – diciamo così – di telenovela, che viene<br />
catturato dalla trama, dalle vicissitudini dei vari personaggi. C’è<br />
lo spettatore in grado di decodificare i riferimenti più o meno colti, teatrali,<br />
letterari e cinematografici, e quindi si diverte ironicamente a<br />
smontare il meccanismo... Ma sotto c’è ancora qualcos’altro?<br />
Be’, qualche ambizione filosofica c’è. Vuole essere un teatro scientifico,<br />
in qualche modo.<br />
L’oggetto di questa scienza?<br />
La perdita d’identità è sicuramente un tema.<br />
(Milano, 16 maggio 2011)<br />
«La modestia» 2:<br />
un imbroglione con un senso etico fortissimo<br />
Nel corso delle prove, rispetto alla tua lettura del testo di Spregelburd<br />
e al progetto iniziale, quanto spazio è rimasto a te e<br />
agli attori per cambiare la tua visione della commedia e dello<br />
spettacolo?<br />
La prima cosa che ho detto agli attori, il primo giorno di prova – e<br />
a quel punto si sono quasi spaventati – è: «Guardate che io non sono<br />
per niente preparato. Non ho un progetto già fatto, ma credo di<br />
conoscere molto bene la commedia. Però non mi sono posto il problema<br />
di quello che ne deve venir fuori». Non è che mi capiti sempre<br />
di trovarmi in una situazione del genere, ma in questo caso ci ho<br />
voluto provare.<br />
Mentre di solito, quanto inizi a provare, hai già preparato la messinscena<br />
nei dettagli? Dalla caratterizzazione dei personaggi ai movimenti<br />
degli attori…<br />
No, questo non mi capita mai. In questo caso avevo in mente diverse<br />
ipotesi, diciamo tre o quattro possibilità di lettura del testo o<br />
di una determinata scena. Secondo me questo è un buon punto di<br />
partenza. In genere mi dico: «Be’, questa scena potrebbe essere così,<br />
ma potrebbe anche essere fatta in quest’altro modo». È una logica<br />
combinatoria: le commedie di Spregelburd sono costruite proprio<br />
così, ed è per questo che mi piacciono. Dunque penso che il mio fosse<br />
l’atteggiamento giusto per affrontare un testo come questo… Poi,<br />
come sempre, durante le prove sono arrivati momenti di difficoltà.<br />
E la difficoltà può essere risolta pensando: «Be’, forse questa cosa<br />
qui è quest’altra». […]<br />
Spregelburd lavora per citazioni, rimandi, frammenti, e per accumulo.<br />
Dunque è come se mettesse moltissime virgolette all’interno<br />
della sua scrittura drammaturgica. In genere, tu hai lavorato con gli<br />
attori proprio togliendo queste virgolette, chiedendo loro di prendere<br />
il testo alla lettera, battuta dopo battuta: «Siete in questa situazione,<br />
e dunque dover comportarvi di conseguenza».<br />
Ma contemporaneamente, quando gli attori sono in una delle due<br />
situazioni, diciamo nella vicenda russa, sono anche in quell’altra,<br />
quella sudamericana…<br />
Però introducendo questo gioco del teatro nel teatro, è come se aggiungessi<br />
altre virgolette.<br />
le biennali 2012 — teatro — appendice<br />
focus on 17
18<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — teatro — appendice<br />
C’è un’altra situazione di questo genere nel finale.<br />
Ti riferisci al crollo?<br />
No, ancora dopo. Tutta la confusione finale… Accade un po’ come<br />
in altre commedie di Spregelburd: sembra che l’autore non riesca<br />
a venire a capo di tutti i fili che ha tirato. E allora, per giustificare<br />
quello che è accaduto, arriva quel finale. Ma perché bisogna giustificarlo?<br />
Il finale è quello, e basta… Ma può essere utile anche tener<br />
presente che questo testo Spregelburd l’ha anche interpretato:<br />
faceva la parte di Terzov/San Javier, quindi la parte dell’autore. Io<br />
sono sicuro - è una mia illazione, ma puoi anche essere sicuro delle<br />
tue illazioni, anche sapendo che restano illazioni… - sono sicuro che<br />
Spregelburd, recitando quel testo e occupandosi anche della regia,<br />
fosse anche un po’ curioso di vedere quello che combinavano gli altri<br />
personaggi. La situazione del suo personaggio è quella di chi capita<br />
in una certa situazione, non sa bene che cosa stia succedendo ed<br />
è curioso di capire come potrà evolvere. È quasi una posizione autoriale:<br />
sembra un po’ un autore di fronte a un gruppo di personaggi<br />
liberi. Nella Modestia ci sono otto personaggi, quattro per ciascuna<br />
delle due situazioni, ma potrebbero anche essere dodici, perché c’è<br />
anche l’essere attore dei personaggi. Infatti nello spettacolo ci sono<br />
diversi momenti in cui questa chiave funziona benissimo. Tanto è<br />
vero che a un certo punto ho pensato che non fosse necessario fare<br />
dei passaggi così scanditi, bruschi, tra le due situazioni, quella «russa»<br />
e quella «sudamericana». Nei primi quadri è utile e giusto far<br />
capire che c’è un cambio di scena: si vedono anche mobili e oggetti<br />
che si spostano a vista, per indicare il cambio di situazione, perché<br />
in una pièce a chiave è necessario avvertire gli spettatori che esiste<br />
una chiave. Però, una volta che la chiave è stata enunciata, non è<br />
più necessario seguirla così rigidamente. Così nello spettacolo ci sono<br />
alcuni passaggi in cui i personaggi, all’inizio della scena successiva,<br />
parlano ancora come quelli della scena precedente. Addirittura<br />
in un’occasione, quando si passa alla scena «russa», uno dei personaggi<br />
parla ancora in una specie di spagnolo...<br />
E gli attori, che cosa hanno dato a te e ai loro personaggi nel corso<br />
delle prove?<br />
Il ritmo! Io posso dare loro soltanto delle indicazioni molto precise<br />
sulla battuta...<br />
Indicazioni sulle motivazioni e sulle intonazioni?<br />
Piuttosto indicazioni di movimento e di rapporto. Soprattutto<br />
di rapporto. Però il ritmo dello spettacolo è assolutamente merito<br />
loro. I quattro protagonisti della Modestia sono bravissimi per due<br />
motivi: in primo luogo fanno bene i loro personaggi, e poi hanno<br />
un affiatamento che un regista non può costruire. Non glielo può<br />
imporre. Ho insistito molto sul fatto che il testo è basato sui rapporti<br />
tra i personaggi: ma un personaggio non sa mai chi è l’altro, non<br />
lo deve mai sapere, perché la situazione deve sempre rimanere sospesa.<br />
Però più di questo non potevo dare.<br />
Dunque dagli attori sono arrivati il ritmo e il rapporto tra i<br />
personaggi...<br />
Il modo in cui sono riusciti ad affiatarsi. Abbiamo provato relativamente<br />
poco, ma al debutto di Spoleto sembrava che avessero provato<br />
per tre mesi...<br />
Invece, per quanto riguarda le intenzioni, ci sono state scene in cui tu<br />
avevi un problema e gli attori ti hanno tirato fuori dai guai?<br />
Direi di no...<br />
Insomma, mi pare di capire che hai lavorato quasi più a togliere<br />
agli attori le idee che potevano essersi fatte sul loro personaggio, i loro<br />
pregiudizi...<br />
Anche perché una qualità dei personaggi di Spregelburd che apprezzo<br />
è che nemmeno loro stessi si conoscono così bene. Uno dei<br />
motivi del fascino della Modestia, e in genere di tutte le commedie<br />
di Spregelburd, è che i personaggi hanno degli obiettivi sull’azione,<br />
sanno benissimo quello che devono fare in quel preciso momento,<br />
ma non hanno certezze sulla propria identità. È qui che la commedia<br />
diventa davvero interessante...<br />
Anche nel lavoro sugli attori...<br />
Perché nel lavoro sugli attori si riproduce il senso della commedia...<br />
Quello che deve fare ogni attore è soprattutto lasciarsi portare<br />
da questo meccanismo. Se l’attore gestisce troppo il personaggio, se<br />
si pone in maniera eccessiva il problema delle sue motivazioni, e se<br />
deve metterle in relazione alle motivazioni dell’altro personaggio,<br />
il meccanismo s’inceppa. Seguendo questa strada, ne uscirebbe una<br />
specie di commedia psicologica, che però non terrebbe più, perché<br />
in scena perderebbe tutto il suo ritmo. Per questo ho molto spinto<br />
sul versante della mobilità, verso una mobilità totale.<br />
Nei testi di Spregelburd c’è moltissima ironia, molte scene comiche.<br />
Anche nella tua messinscena della Modestia ci sono scene molto divertenti,<br />
ma alla fine dallo spettacolo emerge una visione assai più<br />
tragica dell’esistenza, anche rispetto ad altri allestimenti dei testi di<br />
Spregelburd...<br />
Però lo spettacolo è molto divertente!<br />
Ma anche profondamente tragico...<br />
Alla fine della Modestia, quello che ti resta, non tanto dalle singole<br />
battute ma dall’intera commedia, è che nessuno dei personaggi è<br />
più al proprio posto, nessuno si sente più al proprio posto da nessuna<br />
parte. E questo non è tragico?<br />
Può essere sia comico sia tragico...<br />
Può anche far ridere. Però a pensarci bene, e facendo riferimento<br />
anche alle nostre esperienze, non è più così divertente... Succede<br />
anche con Il panico, un altro tassello dell’Eptalogia sui sette vizi<br />
capitali di Spregelburd, che porterò in scena l’anno prossimo. La<br />
commedia ruota intorno a un morto circondato dai vivi, e come La<br />
modestia fa molto ridere. Però se fai attenzione ti accorgi che tutti i<br />
personaggi «vivi» sono degli spostati: il Terapeuta fa il dogsitter, la<br />
sensitiva Susana si «occupa di una bambina»... Tutti i personaggi<br />
fanno centomila cose insieme e devono di fatto essere dappertutto.<br />
Non riescono mai a essere concentrati su quello che stanno facendo<br />
in quel preciso momento, perché stanno già correndo da un’altra<br />
parte... L’unico personaggio che si sente al proprio posto è proprio<br />
Emilio, il morto intorno a cui ruota il testo: lui ha la serenità<br />
di chi è crepato, mentre gli altri sono in preda al panico causato da<br />
questa continua bilocazione. È una trovata che potresti incontrare<br />
in una pièce di Coward o di Priestley, quasi un gioco da commedia<br />
brillante. Invece in questo caso, siccome il riferimento è il cinema<br />
horror, il testo si colora di un’altra tinta.<br />
Quest’anno Rafael Spregelburd ha vinto per il secondo anno consecutivo<br />
il Premio Ubu per la migliore novità straniera, per Lucido.<br />
Ha mandato un messaggio di ringraziamento, nel quale ha sottolineato<br />
l’attenzione che ha oggi l’Italia per la sua drammaturgia, che<br />
è nata in un’Argentina profondamente segnata dalla crisi economica,<br />
proprio come l’Italia di questi ultimi anni. Questa sensazione di<br />
incertezza, questa necessità di arrabattarsi facendo più parti in commedia,<br />
questo sdoppiamento, è certamente un riflesso di questa crisi...<br />
Sotto sotto, però, c’è un altro aspetto, anche se non viene mai<br />
esplicitato. Nel teatro di Spregelburd c’è incertezza su tutto, ma<br />
non c’è alcuna incertezza sui valori fondamentali dell’esistenza: la<br />
lealtà, l’etica... I personaggi sono altrettanti imbroglioni, ma con un<br />
senso etico fortissimo.<br />
Ma come è possibile essere degli imbroglioni con un senso etico<br />
fortissimo?<br />
Sono imbroglioni che però sanno che cosa è il bene e che cosa è il<br />
male. In loro non c’è cinismo, e questo è molto piacevole. Anche artisticamente,<br />
nell’approccio di Spregelburd al teatro, accade la stessa<br />
cosa. La sapienza con cui sono costruite le sue commedie è certamente<br />
frutto di una straordinaria furbizia drammaturgica, però al<br />
loro interno c’è anche un elemento di saggezza. In questo senso, si<br />
può dire che Spregelburd, a differenza di tantissimo teatro contemporaneo,<br />
non la vuol dare a bere.<br />
Che cosa vuol dire che «non la vuol dare a bere»?<br />
Che non vuol farla franca, che è sincero nel momento in cui costruisce<br />
le sue finzioni.<br />
(Milano, 21 dicembre 2011)<br />
Una verità<br />
non immediatamente riconoscibile<br />
Conversazione estiva a proposito del «Panico»<br />
Come avevi promesso, la tua esplorazione dei testi di Rafael<br />
Spregelburd continua.<br />
Sì, anche se non ho mai detto che avrei portato in scena<br />
tutta l’Eptalogia di Hieronymus Bosch. In effetti il mio progetto era<br />
di mettere in scena tre testi su sette.<br />
Quindi stai lavorando sul Panico che andrà in scena a Milano… E<br />
qui a Santacristina il progetto di questa estate 2012 comprende un altro<br />
testo dell’Eptalogia…<br />
Sì, stiamo lavorando sull’Inappetenza, ma in questo caso la regia<br />
non la faccio io, se ne occupa Giorgio Sangati, che ha già fatto l’assistente<br />
nella Compagnia degli uomini di Bond. In ogni caso, io avevo<br />
pensato di occuparmi personalmente della regia di La modestia,<br />
Il panico e La paranoia.<br />
Perché la tua scelta è caduta su questi tre testi?<br />
Be’, non potendo fare tutti i sette testi, ho dovuto scegliere. Di
sponendo di tre sale diverse al Piccolo Teatro di Milano, mi sembravano<br />
tre testi giusti per questi tre spazi. Era previsto che La modestia<br />
si facesse il via Rovello, al Teatro Grassi, e così è stato. Il panico,<br />
che è un’opera dove non è così indispensabile uno spazio ristretto<br />
e piccolo, e che parla anche della morte, lo faremo allo Strehler. Per<br />
quanto riguarda La paranoia, per adesso non se ne parla, ma pensavo<br />
di farlo al Teatro Studio. Il mio sogno era di fare i tre spettacoli<br />
in contemporanea…<br />
…in una specie di festival Ronconi-Spregelburd…<br />
Ma è un progetto troppo ambizioso, soprattutto con i tempi che<br />
corrono.<br />
Uno dei motivi del tuo interesse per Il panico, dicevi, è che si tratta<br />
di un testo che parla anche della morte...<br />
In realtà parla della vita! Ma dal momento che poi si muore, nel testo<br />
c’è anche la morte. Però, tutto sommato, la situazione non è poi<br />
tanto differente da certi spunti di altri testi dell’Eptalogia. Dietro<br />
al fatto che nel Panico convivano vita e morte, non c’è niente di filosofico:<br />
la vita e la morte sono solo due territori, esattamente come<br />
nella Modestia Buenos Aires e Villa Opicina sono due territori, oppure<br />
come lo sono i due pianeti dove si svolge l’azione della Paranoia,<br />
oppure il video e il vissuto, sempre nella Paranoia. Sono tutti testi<br />
in cui la bilocazione delle figure è tematica (una bilocazione che<br />
per esempio nell’Inappetenza non c’è).<br />
Come in tutte le cose che scrive Spregelburd, l’incertezza dell’identità<br />
è sempre presente. Qui è chiaramente rappresentata nei due<br />
territori simultanei della vita e della morte. È un chiasmo, più che<br />
una bilancia, o una alternanza, tra i due poli, perché vita e morte sono<br />
presenti nelle due storie che vengono rappresentate. Una delle<br />
due vicende, quella che ruota intorno a un’eredità, potrebbe ricordare<br />
Non ti pago di Eduardo De Filippo: ma già il fatto che si tratti<br />
di un’eredità, significa che continua un rapporto tra chi è morto<br />
e chi resta. L’altra vicenda si svolge su un palcoscenico dove si prova<br />
un balletto, e poi si scopre che la coreografia è ispirata al Libro dei<br />
morti egizio…<br />
…che è proprio il libro che il personaggio che è morto, Emilio, stava<br />
leggendo.<br />
Quindi si tratta di una struttura circolare. Non per niente nel Panico<br />
c’è un personaggio come Emilio che è morto e circola tra i vivi,<br />
ma fino a un certo punto non sa di essere morto, e poi se ne rende<br />
conto… Insomma, non è certo Spirito allegro di Noel Coward!<br />
Uno degli aspetti interessanti della scrittura di Spregelburd, anche<br />
dal tuo punto di vista, è il gioco con le convenzioni teatrali…<br />
La drammaturgia di Spregelburd è estremamente intelligente. Il<br />
suo non è certo un teatro «alternativo»: al contrario, riesce a costruire<br />
una forma che è a mio avviso assolutamente aggiornata, in<br />
sintonia con la nostra percezione della contemporaneità, ma utilizzando<br />
delle forme eterne.<br />
A proposito di «alternativo», nel Panico Spregelburd si diverte a<br />
prendere in giro la nuova danza…<br />
Ma c’è sempre una grande leggerezza, non c’è niente di aggressivo<br />
o di acido. Ha un atteggiamento quasi cechoviano nel rapportarsi<br />
alla realtà: il suo è uno sguardo abbastanza clinico, estremamente<br />
oggettivo, anche quando affronta l’attualità. Per esempio nella<br />
Paranoia il tema di fondo è un concetto di creatività che ci impone<br />
di inventare, inventare e inventare storie, e di conseguenza provoca<br />
la bulimia dell’informazione che ci travolge. Sono temi drammaticamente<br />
attuali, ma vengono sempre trattati con leggerezza e<br />
competenza…<br />
E, come in Cechov, anche con una certa dose di ironia…<br />
È anche divertente, anche se sempre con intelligenza. La stessa<br />
Modestia – un testo forse meno divertente di altri, che infatti può<br />
irritare qualche spettatore – ti comincia a divertire quando capisci<br />
attraverso quali spiragli puoi accedere al divertimento. Se non accadesse<br />
così, se questo passaggio non fosse necessario, sarebbe solo<br />
roba precotta, barzellette già conosciute.<br />
Nel Panico ci sono anche scene che sembrano prese pari pari dalla<br />
farsa, per esempio quando la famiglia dei protagonisti si presenta in<br />
banca per risolvere la pratica dell’eredità…<br />
Sì, però Spregelburd in questo è molto bravo. Perché quella farsa<br />
è una apparenza dietro cui ci sono cose più serie: poi si scopre che<br />
il personaggio della funzionaria di banca – Cecilia Roviro, che fa<br />
molto ridere – è animato da un lutto. Anche Cecilia, come Lourdes,<br />
la vedova di Emilio, è una donna in lutto. Insomma, si ride di<br />
Nelle immagini: Luca Ronconi e Rafael Spregelburd.<br />
una cosa, e poi si scopre che anche quel divertimento è una vernice.<br />
L’inappetenza, su cui stiamo lavorando a Santacristina, è fondata<br />
proprio su questo meccanismo: Spregelburd lavora sulle possibilità<br />
di gioco con la percezione del pubblico. È un gioco senza sosta a mostrare<br />
e nascondere, anticipare e ritardare, come a dire che la percezione<br />
dell’immediatezza esiste, ma è ingannevole. In questo senso<br />
è interessantissimo il suo uso della temporalità sulla scena. A teatro<br />
siamo abituati un po’ rozzamente a una diacronia continua, ma già<br />
quando parliamo di una situazione «contemporanea», in qualche<br />
modo diciamo un’altra cosa.<br />
Per questo sono interessanti i meccanismi delle convenzioni che<br />
Spregelburd mette in atto e poi smonta in continuazione, perché costruisce<br />
sempre delle cornici che poi distrugge davanti allo spettatore…<br />
In questo ha una straordinaria abilità teatrale. Senza dimenticare<br />
la qualità letteraria: non è un romanziere, però nella sua scrittura<br />
non c’è mai nemmeno un briciolo di sciatteria, c’è invece un totale<br />
controllo della letteratura teatrale.<br />
Come nella Modestia, anche nel Panico Spregelburd si diverte a<br />
giocare con i generi, che sono un altro aspetto della convenzione: li<br />
mette in scena, li evoca, e poi li smonta in continuazione.<br />
C’è perfino l’horror, la casa stregata… Però questi riferimenti<br />
non devono prevaricare. Offrono al pubblico un cliché conoscitivo<br />
troppo forte per essere messo in primo piano. Secondo me è meglio<br />
che per chi vede lo spettacolo questi riferimenti restino una interrogazione:<br />
«È anche una parodia dell’horror?», «È un riferimento<br />
all’horror?», oppure: «Sembra un horror…» Non bisogna andare<br />
oltre a questo livello, altrimenti il genere diventa una sovrapposizione<br />
troppo esplicita – come rischia di accadere in altri testi,<br />
per esempio nella Paranoia.<br />
E questo non ti garba più di tanto… Un altro aspetto interessante riguarda<br />
il modo in cui gli attori devono costruire i personaggi, con una<br />
drammaturgia di questo tipo.<br />
Gli attori devono stare sempre anche da un’altra parte. In questo<br />
mi sembra di essere davvero molto vicino a Spregelburd: non dico<br />
suo fratello, ma certo suo parente. Perché questo essere sempre da<br />
un’altra parte, so benissimo che cos’è, quando faccio qualsiasi spettacolo:<br />
quel non sapere mai che cosa stai veramente facendo, se fai<br />
il personaggio o se non lo fai, eccetera eccetera. È una libertà condizionata,<br />
ma è pur sempre libertà: e questo è molto importante.<br />
Questo essere da due parti contemporaneamente è forse la condizione<br />
costitutiva dell’essere attore…<br />
Be’, questo è un po’ troppo! Purtroppo sulla figura dell’attore ci<br />
sono tante cappe ideologiche, da secoli, e poi cappe generazionali, e<br />
così diventa difficile dare definizioni come questa…<br />
Ma lavorare sui testi di Spregelburd non può essere utile proprio per<br />
smontare queste cappe ideologiche?<br />
Spregelburd lo reciti meglio se non sai bene fino in fondo chi sei.<br />
All’attore deve dunque restare un margine di inconsapevolezza?<br />
Sei sei un attore che regola il suo fare, il suo dire e il suo agire rispetto<br />
al pubblico solamente per ottenere un determinato effetto,<br />
con Spregelburd non fai sempre centro. Perché la ricerca dell’effetto<br />
è continuamente messa in discussione, già dal testo. Per esempio,<br />
spesso si sente dire: «Qui il pubblico non capisce». Ma il testo<br />
è costruito apposta perché il pubblico non capisca: perché capirà<br />
dopo… C’è la volontà di rimandare la comprensione del pubblico<br />
– e quindi, con la comprensione, anche l’accettazione di quello<br />
che vede. Qualche volta questo «dopo» implica un posticipare che<br />
è ancora interno alla commedia, ma a volte può anche essere esterno,<br />
come accade per esempio nella Modestia: per capire, ci devi pensare<br />
quando sei uscito.<br />
Quindi all’inconsapevolezza dell’attore corrisponde una inconsapevolezza<br />
da parte dello spettatore…<br />
Secondo me è molto interessante: nei testi di Spregelburd si avverte<br />
che tutto ha la sua ragione, e che tutto ha una sua verità. Ma<br />
di quale verità di tratti, questo non è immediatamente conoscibile.<br />
A un certo punto uno dei protagonisti del Panico dice: «In certe società<br />
organizzate intorno al capitalismo estremo ormai non dovremmo<br />
parlare dio pazzia, ma di mero adattamento». Siamo in piena<br />
attualità…<br />
Spregelburd è sempre molto attento all’attualità, ma è sempre altrettanto<br />
attento a riprendere lo spunto attuale per non lasciarlo a<br />
livello giornalistico, e per farlo diventare un fatto comunicativo teatrale.<br />
◼<br />
(Santacristina, agosto 2012)<br />
le biennali 2012 — teatro — appendice<br />
focus on 19
20<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — musica<br />
«+Extreme-»,<br />
il primo Festival<br />
di Ivan Fedele a cura di Leonardo Mello<br />
Ivan Fedele è il nuovo direttore del settore Musica della<br />
Biennale, dopo i quattro anni di Luca Francesconi<br />
(2008-2011) e di Giorgio Battistelli (2004-2007). Gli<br />
chiediamo di raccontarci le linee guida di questa sua prima<br />
edizione, a partire dal titolo.<br />
Il titolo «+Extreme-» dà un’indicazione, parla appunto<br />
degli «estremi» presenti nella musica d’arte d’oggi. Nei<br />
miei viaggi degli ultimi anni mi sono reso conto che la giovane<br />
musica si orienta verso le regioni estreme del linguaggio,<br />
quelle che ho chiamato massimalismo o minimalismo:<br />
da una parte ho incontrato compositori il cui pensiero musicale<br />
si esprime attraverso un linguaggio estremamente complesso<br />
dal punto di vista concettuale, oppure estremamente<br />
d’impatto dal punto di vista sonoro, quindi con una compo-<br />
nente timbrica e fonica decisamente importanti. Dall’altra<br />
mi sono imbattuto in interessanti autori che adottano strategie<br />
diverse, il loro pensiero e la loro poetica hanno la necessità<br />
di esprimersi tramite un linguaggio musicale ridotto<br />
all’osso, partendo da un nucleo minimo di elementi, come<br />
per esempio due note che piano piano si distanziano l’una<br />
dall’altra creando battimento, e questo battimento da semplice<br />
fenomeno acustico diventa storia o racconto. Oppure<br />
un solo accordo, quindi un lessico estremamente ridotto che<br />
in realtà viene letto e osservato da più prospettive ma – come<br />
nel pezzo di Kirill Shirokov – è l’unica struttura linguistica<br />
presente in un brano, e le sue varianti, cioè le variazioni, sono<br />
soltanto di tipo temporale. O ancora il pezzo su un solo bit<br />
dell’americano Tristan Perich, con il quale arriviamo al massimo<br />
dell’economia espressiva. Ma se dietro c’è un’idea forte,<br />
anche questo atteggiamento ha una sua valenza e un suo<br />
valore. Così come, per fare un altro esempio, sul versante del<br />
massimalismo la corrente della saturation – di cui Raphaël<br />
Cendo e Franck Bedrossian sono i rappresentanti più in vista<br />
– affonda le radici in un pensiero molto profondo in senso<br />
storico, estetico o direi anche etico. Ci si potrebbe chiedere<br />
cosa vi sia in mezzo a questi due «estremi». Be’, sostanzial-<br />
1.<br />
mente nel mezzo stanno altre due tipologie di compositori:<br />
la prima è rappresentata da coloro che hanno una certa propensione<br />
al compendio, che cercano sempre delle coniugazioni<br />
o delle mediazioni creative degli opposti (e questo è un<br />
fatto interessante, di casi del genere nella storia della musica<br />
ne abbiamo avuti tantissimi). La seconda tipologia comprende<br />
chi si fa tentare da una sorta di manierismo di una nuova<br />
koiné, di un nuovo codice, e spesso scivola nell’accademismo<br />
del pezzo che «funziona» e «suona bene». Quel politically<br />
correct che non vuole disturbare nessuno e che pretende allo<br />
stesso tempo<br />
di svolgere un<br />
ruolo di punta<br />
dal punto di vista<br />
del linguaggio.<br />
Vorrei però<br />
fare una precisazione:<br />
il fenomeno<br />
che ho semplificato<br />
in due<br />
formule, massimalismo-minimalismo,<br />
non è<br />
solo attuale, ma<br />
è già presente,<br />
in modi diversi,<br />
nella musica<br />
del dopoguerra.<br />
Per esempio<br />
viene da pensare<br />
che il serialismo<br />
integrale sia una<br />
forma di massimalismo<br />
degli<br />
anni cinquanta,<br />
così come la<br />
musica di Morton<br />
Feldman –<br />
che comunque<br />
aveva frequentato<br />
Darmstadt<br />
– può in un certo<br />
modo cristallizzarsi<br />
in un’idea<br />
di «minimalismo»dove<br />
la funzione<br />
del tempo non<br />
è più narrativa<br />
ma espositiva,<br />
e ci porta in<br />
una dimensione<br />
più contemplativa<br />
dell’evento.<br />
2.<br />
3.<br />
E poi c’è John Cage, che riunisce in sé i due aspetti: se ascoltiamo<br />
i Freeman Études ci troviamo di fronte a una composizione<br />
di mirabolante virtuosismo, mentre se analizziamo il<br />
meccanismo compositivo di altri suoi pezzi, dal punto di vista<br />
concettuale non c’è quel furore della scrittura che invece<br />
si può ritrovare in un rappresentante della nuova complessità<br />
quale è Brian Ferneyhough. Gli anni novanta sono stati<br />
un po’ all’insegna del politically correct, cui accennavo prima,<br />
invece tra la fine del secolo scorso e quest’ultimo decen-<br />
1. Ivan Fedele.<br />
2. Raphaël Cendo (champdaction.be).<br />
3. Franck Bedrossian (lalettredumusicien.fr).
nio mi sembra che – seguendo quelli che sono dei riferimenti<br />
importanti di entrambe le tendenze – molti giovani abbiano<br />
fatto e continuino a fare esperienze coerenti con l’uno o l’altro<br />
tipo di atteggiamento. Non so se Alexander Khubeev conosca<br />
la saturation (probabilmente sì), ma in ogni caso il suo<br />
pezzo potrebbe essere stato scritto da un saturazionista. Non<br />
so quanto approfonditamente il ventenne Shirokov conosca<br />
Morton Feldman, però ne sembra in qualche modo il nipote.<br />
Con questo non voglio togliere nulla alla loro originalità, mi<br />
riferisco esclusivamente alla filiazione intellettuale.<br />
Come sono stati<br />
selezionati i<br />
brani, molti dei<br />
quali in prima<br />
italiana?<br />
È stato piuttostosemplice:<br />
tutti gli autori<br />
che ascolteremo<br />
durante il<br />
festival li avevo<br />
conosciuti precedentemente,<br />
durante i miei<br />
viaggi in occasione<br />
di concerti<br />
e masterclass.<br />
Altri pezzi li ho<br />
sentiti in festival<br />
e rassegne in cui<br />
ero presente come<br />
compositore<br />
oppure semplicemente<br />
come<br />
spettatore. Tutto<br />
il programma,<br />
come anche<br />
la tematica prescelta,<br />
proviene<br />
da un’esperienza<br />
personale.<br />
Com’è riuscito<br />
a organizzare<br />
un festival così<br />
articolato in<br />
tempi di crisi<br />
generalizzata?<br />
Ci sono due<br />
fattori molto<br />
importanti: il<br />
primo riguarda<br />
una nuova consapevolezzadegli<br />
artisti: in una<br />
situazione di difficoltà, non soltanto economica, ma anche<br />
sociale (si è persa del tutto l’idea di andare a un concerto per<br />
scoprire cose nuove, e c’è un’assenza grave di curiosità), il<br />
musicista ha compreso che deve cercare di esercitare la sua<br />
arte a condizioni diverse da quelle di qualche anno fa (a patto<br />
però che restino decorose). Da questo deriva un venirsi incontro<br />
reciproco, cercando da parte nostra di offrire un’accoglienza<br />
adeguata alla professionalità ma senza eccessi (anche<br />
se non credo che in passato vi fossero molti eccessi, alme-<br />
4. Morton Feldman (lastfm.it).<br />
5. Brian Ferneyhough.<br />
6. Tristan Perich.<br />
4.<br />
5.<br />
no nel campo della musica contemporanea…). Questa situazione<br />
si rivela anche un grande filtro, che fa capire chi veramente<br />
«sta sul pezzo» e chi invece preferisce trovare altre soluzioni.<br />
E devo dire che, in generale, ho avuto una buona risposta.<br />
Il secondo fattore ha a che fare con l’appeal internazionale<br />
della Biennale. La stima e la reputazione si creano<br />
con il tempo, e nei suoi più di settant’anni di vita la Biennale<br />
Musica ha, mediamente, lavorato molto bene, acquisendo<br />
sempre maggiore autorevolezza. Io farò di tutto per preservare<br />
e magari rafforzare quest’appeal. Mi sforzerò, attraverso<br />
le programmazioni, di far conoscere la vivacità della musica<br />
d’arte di oggi, a tutti i livelli. Quest’anno ho scelto un tema<br />
concettuale, che ha direttamente a che fare con il linguaggio,<br />
ma altri arriveranno in futuro, direi quasi che li ho già tutti<br />
in mente. Anzi, i temi che ho già individuato sono in numero<br />
eccedente rispetto agli anni che ho a disposizione. Ma,<br />
prendendo spunto proprio dalle difficoltà finanziarie, vorrei<br />
sottolineare un altro aspetto che considero cruciale: io penso<br />
che lo strumento-orchestra sinfonica non rappresenti più<br />
il pensiero della musica d’oggi in maniera adeguata. In primo<br />
luogo per motivi economici: per essere di buon livello,<br />
i concerti hanno bisogno di un certo numero di prove, e le<br />
prove costano. Per ridurre questi costi si prova sempre meno,<br />
6.<br />
con un conseguente, ovvio abbassamento della qualità. Va<br />
aggiunto che le composizioni contemporanee, anche quando<br />
non sono troppo impegnative dal punto di vista della scrittura,<br />
richiedono comunque molta concentrazione, perché non<br />
si tratta di musica di repertorio. E spesso le orchestre, quando<br />
si accingono a eseguire un pezzo contemporaneo, è la prima<br />
volta che lo studiano. In secondo luogo c’è la questione della<br />
competenza dello strumentista rispetto a un linguaggio<br />
che è in grande evoluzione, ma che non viene insegnato nelle<br />
scuole: ognuno si deve costruire da sé la propria esperienza<br />
e le proprie conoscenze. Se un musicista d’ensemble si focalizza<br />
su questo tipo di musica, prima di tutto significa che<br />
ha una grande passione per quel repertorio, e quindi che è disposto<br />
a studiarlo attentamente e con grande impegno. Ecco<br />
perché secondo me gli ensemble, anche allargati, sono il futuro<br />
della nostra musica. C’è poi un terzo fattore: la tecnologia<br />
– dall’amplificazione e dalla sonorizzazione all’intervento<br />
creativo dell’area elettronica – viene oggi regolarmente<br />
utilizzata. E questi sono strumenti che moltiplicano e danno<br />
spessore al colore e al timbro, oltre a fornire novità e varietà.<br />
Personalmente favorirò questa tendenza, preferendo in<br />
genere ensemble con appendici elettroniche alle orchestre. ◼<br />
le biennali 2012 — musica<br />
focus on 21
22<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — musica<br />
Pierre Boulez<br />
di Paolo Petazzi<br />
Il Leone d’oro alla carriera a Pierre Boulez fa<br />
onore a chi lo assegna più ancora che al maestro francese,<br />
un protagonista il cui rilievo storico è da tempo fuori<br />
discussione: le ragioni della scelta si impongono con<br />
tale evidenza che un bastian contrario potrebbe trovarla ovvia<br />
e tardiva usando gli stessi argomenti che la fanno apparire<br />
doverosa. Si dedicherebbe ad un esercizio<br />
sterile, tanto più che con questo Leone d’o-<br />
ro si ribadisce qualcosa che dovrebbe essere<br />
ovvio, ma oggi forse non lo è per tutti. Certo<br />
non è invecchiata la complessità e la straordinaria<br />
ricchezza della lezione di Boulez,<br />
nella attività del compositore e nel particolarissimo<br />
intreccio con quella di teorico e di<br />
direttore d’orchestra.<br />
Tenterò di ricordare in modo schematico<br />
qualche aspetto di un lungo cammino, che<br />
ha conosciuto percorsi non lineari e periodi<br />
di riflessione e silenzio, un cammino in cui<br />
Boulez ama sottolineare in primo luogo gli elementi di continuità:<br />
«Tutto il mio cammino ha perseguito la libertà momentanea<br />
in una disciplina generale». E ancora, in una intervista<br />
di molti anni fa: «... amo molto la dialettica tra l’or-<br />
dine e il caos, perché è una dialettica fisica della natura ed è<br />
una dialettica della mente. Ci sono momenti in cui la mente<br />
ama il disordine, ma essa non può sopportare il disordine<br />
molto a lungo e a partire da un certo momento se ne distacca.<br />
Viceversa se la mente ama l’ordine, non ama un ordine prevedibile.<br />
In una composizione bisogna navigare tra un minimo<br />
di ordine e un minimo di disordine, a costo di esplorare<br />
i territori estremi per un tempo limitato. Si può avere<br />
il caos, ma fino al momento che la mente se ne disinteressa<br />
e allora bisogna riportarlo a qualcosa che la mente possa afferrare.<br />
Questo problema non me lo ponevo affatto quando<br />
ero molto giovane, perché davo e ancora non ricevevo, mentre<br />
l’attività di interprete mi ha molto insegnato sul circuito<br />
dare-ricevere...».<br />
Il 6 ottobre<br />
Paolo Baratta e Ivan Fedele<br />
consegneranno<br />
a Pierre Boulez<br />
il Leone d’oro alla carriera.<br />
Con l’occasione presentiamo<br />
un dettagliato ritratto<br />
del compositore francese.<br />
Riflessioni come queste definiscono la poetica di Boulez<br />
oggi (da qualche decennio) e implicano un atteggiamento<br />
autocritico nei confronti di alcune partiture giovanili dove<br />
«la spinta di rinnovamento in senso radicale era così forte<br />
che non ci si preoccupava troppo della percezione». Quella<br />
spinta di rinnovamento aveva davvero chiarezza e forza<br />
d’urto sconvolgenti all’epoca in cui Boulez, ventenne, si affacciava<br />
sulla scena del mondo musicale imponendosi subito<br />
con straordinaria originalità. Nato a Montbrison (Loire) nel<br />
1925, compì studi matematici prima di dedicarsi completamente<br />
alla musica, fu allievo di Messiaen e<br />
fu tra i primi a prendere da Leibowitz lezio-<br />
ni sul metodo dodecafonico, in un momento<br />
in cui la grandezza di Schönberg, Berg e<br />
Webern non appariva affatto fuori discussione<br />
come oggi. Fra i grandi della sua generazione<br />
Boulez si mosse per primo sulla via<br />
che portò nel corso degli anni cinquanta ad<br />
un radicale sconvolgimento del linguaggio<br />
musicale. Aveva vent’anni quando compose<br />
Notations (raccolta di brevi pagine pianistiche<br />
che in parte sono diventate il punto<br />
di partenza per grandi Notations orchestrali)<br />
dell’anno successivo sono la Sonatine (1946) per flauto<br />
e pianoforte e la Prima Sonata per pianoforte, del 19<strong>48</strong><br />
la Seconda Sonata e allo stesso periodo appartengono i primi<br />
grandi incontri con la poesia di René Char nelle cantate<br />
Le Visage nuptial (che<br />
conoscerà la versione<br />
definitiva soltanto<br />
nel 1989) e Le Soleil<br />
des Eaux (versione<br />
definitiva 1965).<br />
Tra gli antecedenti<br />
di questa originalissima<br />
esplosione creativa<br />
si possono citare<br />
Messiaen (per le sue<br />
ricerche sul ritmo e<br />
per il suo interesse per<br />
le tradizioni musicali<br />
orientali), lo Stravinsky<br />
più inventivo dal<br />
punto di vista ritmico,<br />
e soprattutto Debussy<br />
e Webern, uniti<br />
in una singolare costellazione(impensabile<br />
prima di Boulez).<br />
L’amore per Webern<br />
non comportava l’imitazione<br />
del grande<br />
viennese: basterebbe<br />
a dimostrarlo il sensualismo sonoro raffinatamente filtrato<br />
che emerge dalle cantate su testo di Char. E forti suggestioni<br />
schönberghiane sono riconoscibili nella lucida e furiosa<br />
violenza del gesto espressivo della II Sonata. Lasciandosi alle<br />
spalle la tecnica dodecafonica classica Boulez non rispetta<br />
l’integrità della serie, ma la usa liberamente come fonte di<br />
cellule da sottoporre a serrata elaborazione. Di grande complessità<br />
inoltre è la sua ricerca sul ritmo, organizzato secondo<br />
una nuova tecnica di costante trasformazione di brevi cellule.<br />
Fin dalle prime opere Boulez mette in discussione le tradizionali<br />
categorie di tema, melodia, armonia.<br />
Le opere immediatamente successive sono rimaste famose<br />
Pierre Boulez (foto di Catherine Panchout/Corbis).
per l’austero rigore e il radicalismo iconoclasta: dopo la geniale<br />
tensione inventiva del Livre pour quatuor (19<strong>48</strong>-1949)<br />
Polyphonie X è divenuta un mito, perché Boulez ne ha ritirato<br />
la partitura, dichiarandosi insoddisfatto della realizzazione<br />
strumentale. Del primo libro delle Structures per due pianoforti<br />
(1951) Boulez disse: «Si trattava per me di una prova,<br />
di ciò che si chiama il dubbio cartesiano, rimettere tutto<br />
in discussione, far tabula rasa di ogni eredità e ricominciare<br />
da zero per vedere come si può ricostruire la scrittura sulla<br />
base di un fenomeno che ha annullato la invenzione individuale».<br />
La sua immagine è stata a lungo fin<br />
troppo caratterizzata, agli occhi di molti,<br />
dal radicalismo del primo libro delle Structures,<br />
e Boulez ebbe a sottolineare i limiti<br />
di quella esperienza: «Il primo libro delle<br />
Structures mi ha occupato per due mesi della<br />
mia esistenza: non è tutta la mia esistenza.<br />
Era quello che io chiamo grado zero della<br />
scrittura, dove cercavo la base di un nuovo<br />
linguaggio e in un certo modo un anonimato<br />
(per questo ho preso come punto di<br />
partenza un materiale non mio, un materiale<br />
di Messiaen). Il radicalismo ha qualcosa<br />
di seducente proprio perché è riduttivo,<br />
ed è molto facile parlarne. […] La prima delle<br />
Structures, quella analizzata da tutti, mi<br />
ha preso soltanto una notte: mi sono messo<br />
al lavoro nel pomeriggio e la mattina dopo<br />
era finita; perché erano elementi di linguaggio<br />
assolutamente ridotti, e la scrittura<br />
era quasi come la scrittura automatica dei<br />
surrealisti. Immediatamente dopo il primo<br />
libro delle Structures ho composto il pezzo<br />
del Marteau sans maître per voce e flauto,<br />
che è assolutamente melodico, perché man<br />
mano che procedevo nelle Structures ho riflettuto<br />
al problema di come arrivare alla libertà<br />
di decisioni momentanee all’interno<br />
di una disciplina costrittiva sulla lunga misura.<br />
Tutto il mio percorso (e in ciò credo<br />
sia giustificato) è consistito nel poter dare<br />
la libertà del momento in rapporto ad una<br />
disciplina generale; dunque poter procedere<br />
senza essere prevedibile.»<br />
La svolta immediatamente successiva è<br />
dunque il recupero dell’invenzione individuale,<br />
o meglio, la definizione di una polarità,<br />
di una dialettica tra un’organizzazione<br />
di grande rigore e lo spazio concesso a liberi<br />
interventi della fantasia del compositore.<br />
Nacque allora uno dei capolavori più<br />
noti di Boulez, Le marteau sans maître (finito<br />
nel 1954) su tre poesie tratte dall’omonima<br />
raccolta di Char. Fu il terzo (e ultimo)<br />
incontro con la poesia di Char, e stimolò<br />
Boulez ad approfondire una originale indagine<br />
sul rapporto parola-musica, sull’idea<br />
della poesia come «centro e assenza» del corpo sonoro. Nel<br />
primo dei quattro brani vocali la poesia è cantata senza interruzione<br />
(e la parte della voce si intreccia con quella del flauto),<br />
nei seguenti mutano i rapporti voce-strumenti, nell’ultimo<br />
il testo viene intonato una volta e poi scompare, diventa<br />
«assente» perché la voce non pronuncia più parole e si pone<br />
al livello degli strumenti. Le marteau sans maître si collo-<br />
In alto: René Char.<br />
Sotto: Stéphane Mallarmé in un ritratto di Edouard Manet.<br />
ca sotto il segno delle qualità che Boulez dichiarava di amare<br />
in Char, la concentrazione, la violenza, la purezza. L’organico<br />
strumentale, atipico, ricerca punti di contatto con timbri<br />
esotici, con la sonorità dei gamelan giavanesi, piegandosi,<br />
senza indulgere al pittoresco, a variegate e austere seduzioni<br />
timbriche: vi sono momenti di assorta dolcezza, profili di<br />
nitida lucentezza, dissolvenze, pulviscoli baluginanti e scintillanti,<br />
accanto a scatti violenti, di incandescente purezza.<br />
Dopo il congedo da Char con le brevi poesie «surrealiste»<br />
del Marteau, un altro dei poeti prediletti da Boulez emer-<br />
ge come punto di riferimento nella sua ricerca compositiva:<br />
Mallarmé. A Mallarmé si lega un vasto ciclo che ha un rilievo<br />
centrale nell’opera di Boulez, Pli selon pli (1957-1962, oggetto<br />
di revisioni fino al 1989). Convergenze di poetica si riconoscono<br />
anche in altre opere del compositore, come la Terza<br />
Sonata (1957); ma il ciclo comincia con le prime due Improvisations<br />
sur Mallarmé (1957) alle quali tra il 1959 e il 1962<br />
si aggiunsero la terza, Don e Tombeau a formare l’opera dove<br />
«piega dopo piega» si delinea un «ritratto di Mallarmé».<br />
Nel corso degli anni sessanta e settanta il catalogo di<br />
le biennali 2012 — musica<br />
focus on 23
24<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — musica<br />
Boulez si arricchì di opere di grande rilievo, da Figures-Doubles-Prismes<br />
(1963) a Éclat-Multiples (1965-1970) a Rituel in<br />
memoriam Bruno Maderna (1974-1975). Il piacere del suono,<br />
l’invenzione timbrica fascinosa, e lo straordinario magistero<br />
della scrittura strumentale si affermano sempre all’interno<br />
di una grande complessità e di un nitido rigore strutturale.<br />
Il compositore si vale anche delle nuove esperienze da lui<br />
compiute intensificando l’attività direttoriale, iniziata nel<br />
1954 al tempo della fondazione del Domaine Musical a Parigi,<br />
e proseguita con impegno crescente dal 1958 (data del-<br />
la prima esperienza con una grande orchestra e dell’incarico<br />
di direttore dell’Orchestra della Radio di Baden-Baden).<br />
Boulez aveva cominciato a dirigere quasi per necessità, quando<br />
ben pochi (Bruno Maderna, Hans Rosbaud, Hermann<br />
Scherchen) sapevano e volevano eseguire la nuova musica;<br />
scoperse così straordinarie doti di interprete, arricchite dalla<br />
intelligenza e dalla acuminata penetrazione analitica del<br />
compositore con esiti rivelatori, mentre la esperienza direttoriale<br />
a sua volta fu posta al servizio della attività creativa.<br />
Nel 1969 Boulez assunse a Londra la direzione dell’Orche-<br />
stra della bbc, e nel 1971 succedette a Bernstein a capo della<br />
New York Philharmonic. Nel 1966 aveva diretto a Bayreuth<br />
il Parsifal e nel 1976 fu l’interprete del famoso Anello del Nibelungo<br />
del centenario, con la regia di Chéreau (ripreso poi<br />
per cinque anni). Nel 1979 rivelò a Parigi la Lulu di Berg per<br />
la prima volta con il terzo atto (completato da Cerha). Questi<br />
sono soltanto alcuni momenti fondamentali di una attività<br />
direttoriale che è continuata nelle sedi e con le orchestre<br />
più prestigiose, ma la cui fase più intensa ebbe a coincidere<br />
con un periodo di riflessione del compositore, e si legò ad<br />
una rimeditazione sul passato, sui maggiori<br />
protagonisti del Novecento storico<br />
e su autori come Wagner, Mahler,<br />
Berlioz, Schumann, fino a comprendere<br />
una parte molto ampia del repertorio.<br />
Soprattutto il rapporto con Wagner<br />
e Berg segna una svolta, anche per<br />
l’interprete: oggi Boulez ha registrato<br />
di nuovo il suo repertorio, in una prospettiva<br />
interpretativa più libera e flessibile,<br />
meno «oggettiva» rispetto al rigore<br />
degli esordi; ma sempre con straordinaria,<br />
rivelatrice acutezza analitica.<br />
Sulla propria attività direttoriale ebbe<br />
a dichiarare Boulez: «Ho cominciato<br />
per necessità, poi l’ho fatto per piacere...<br />
Le attività di compositore e direttore<br />
richiedono qualità completamente<br />
diverse. All’inizio ero molto a disagio,<br />
poi ho capito di averne bisogno, per<br />
molti motivi, in primo luogo apprendere,<br />
perché non si impara mai una partitura<br />
meglio che dirigendola. C’è la stessa<br />
differenza che passa fra guardare una<br />
carta geografica e fare un percorso a piedi.<br />
Si conosce un’opera fisicamente, e<br />
per me è molto importante. Inoltre ho<br />
potuto compensare le lacune dell’insegnamento<br />
che avevo ricevuto. Non c’era<br />
legame tra l’apprendimento teorico della<br />
scrittura musicale e la trascrizione reale.<br />
Per me era indispensabile ascoltare<br />
analiticamente una partitura e non l’avevo<br />
mai veramente fatto. Naturalmente<br />
si compensa con l’intuizione; ma c’è<br />
il rischio che una parte dell’utopia che<br />
è in un’idea non giunga a realizzazione.<br />
Dalla direzione ho imparato molto<br />
su come far passare l’utopia nella realizzazione,<br />
e ho smesso di dirigere regolarmente<br />
quando ho capito che non avevo<br />
più da imparare».<br />
Una nuova fase di riflessione iniziò<br />
con la nomina (nel 1975) a direttore<br />
dell’ircam (Institut de Recherche et<br />
de Coordination Acoustique/Musique)<br />
a Parigi. Circa sei anni di silenzio<br />
furono necessari a dominare le possibilità offerte dalle nuove<br />
tecnologie: a Donaueschingen il 18 ottobre 1981 Boulez<br />
presentò circa metà di Répons, e nel 1984 la partitura raggiunse<br />
la durata e la calibratissima forma attuale (poco più<br />
di quaranta minuti, ma non è esclusa una prosecuzione). L’esecuzione,<br />
oltre all’elettronica dal vivo, ha impegnato molte<br />
Sopra, a sinistra: Olivier Messiaen;<br />
a destra: Alban Berg e Arnold Schönberg.<br />
Sotto: l’ircam a Parigi.
volte l’Ensemble InterContemporain, lo straordinario complesso<br />
creato e all’inizio diretto da Boulez con solisti selezionatissimi<br />
per garantire alla musica contemporanea i massimi<br />
livelli interpretativi.<br />
Delle nuove tecnologie Boulez si serve come mezzo per trasformare<br />
il suono prodotto da strumenti dal vivo e per aprire<br />
nuove prospettive nell’uso dello spazio, mantenendo però<br />
una continuità senza fratture nella sua ricerca, nelle linee essenziali<br />
del suo pensiero. In Répons un gruppo di ventiquattro<br />
strumenti (otto archi, otto legni e otto ottoni) sta al centro<br />
della sala con il direttore; il pubblico si colloca tra l’orchestra<br />
centrale e i sei solisti che lo circondano e suonano<br />
due pianoforti, arpa, vibrafono, cimbalom, xilofono e glockenspiel,<br />
strumenti tutti che una volta prodotto il suono<br />
non possono tenerlo o modificarlo, come possono fare invece<br />
gli archi e i fiati. Si ripropone così in Répons una contrapposizione<br />
tra modi fondamentalmente diversi di produrre il<br />
suono che aveva già un rilievo essenziale ad esempio nel Boulez<br />
di Éclat-Multiples. Répons significa «responsori», un termine<br />
preso dal canto liturgico medievale solo per evocare vagamente<br />
l’idea di dialoghi tra solista e coro. I sei solisti sono<br />
collegati agli altoparlanti e alle macchine per l’elettronica<br />
dal vivo, che producono un caleidoscopico gioco di rifrazioni,<br />
frantumazioni, rispecchiamenti, prolungamenti e movimenti<br />
nello spazio, attraverso ritardi, moltiplicazioni del<br />
suono, traiettorie da un altoparlante all’altro.<br />
La tecnologia dell’ircam ha consentito di usare come dimensione<br />
compositiva la distribuzione del suono nello spazio<br />
anche nel Dialogue de l’ombre double (1982-1985), per<br />
clarinetto dal vivo e clarinetto «double» registrato, dove<br />
si alternano un musicista presente e uno «assente», il suo<br />
«doppio».<br />
Le successive esperienze di ricerca all’ircam sono confluite<br />
nella realizzazione del progetto di...explosante-fixe..., nato<br />
da un’idea del 1972 elaborata in diverse fasi, soprattutto<br />
tra il 1991 e il 1993, in<br />
una versione provvisoria<br />
che comprende le tre sezioni<br />
più ampie, fra le sette<br />
progettate, e due interludi.<br />
Vi sono tre flauti solisti<br />
(dei quali uno è collegato<br />
con un sistema informatico<br />
dell’ircam), intorno<br />
ai quali un gruppo di ventidue<br />
strumenti e l’elettronica<br />
creano una complessa<br />
varietà di piani sonori,<br />
di mutevoli sfondi, intrecci,<br />
dilatazioni. Boulez<br />
parla di una forma «a mosaico»,<br />
perché nasce dalla<br />
elaborazione di cellule indipendenti,<br />
che si ripresentano<br />
trasformate, ma riconoscibili,<br />
in frammentata<br />
successione, come i tasselli<br />
di un mosaico. Il pezzo<br />
rivela una straordinaria<br />
forza di seduzione, degna<br />
della suggestione visionaria<br />
del titolo (preso da una<br />
definizione della bellezza<br />
di Breton).<br />
Un materiale di una par-<br />
Pierre Boulez (sfcmp.org).<br />
te violinistica della versione originaria di ...explosante-fixe...<br />
è stato il punto di partenza, radicalmente rielaborato, per un<br />
breve pezzo violinistico del 1991, Anthèmes. Questo pezzo<br />
è stato ripensato e dilatato con i mezzi del live-electronics in<br />
Anthèmes 2 (1997).<br />
Un ritorno, dopo molti decenni, al pianoforte solo è segnato<br />
da Incises, composto nel 1994 usando alcuni materiali<br />
destinati a un lavoro per pianoforte e ensemble iniziato nel<br />
1989. Il progetto prese una forma completamente diversa:<br />
Boulez aveva in mente qualcosa per cui gli era indispensabile<br />
avere più di un pianoforte (ad esempio un gioco d’echi<br />
richiede uno strumento che abbia la velocità e il colore del<br />
pianoforte, e in una intervista il compositore ha ricordato i<br />
quattro pianoforti delle Noces di Stravinsky). Così è nato Sur<br />
Incises (1996/98), che va molto oltre il punto di partenza senza<br />
mai citarlo alla lettera. Appartiene al pensiero di Boulez<br />
l’arte del «dedurre», dove la deduzione non ha nulla di scolastico,<br />
perché comporta l’invenzione e la scoperta di svolgimenti<br />
imprevedibili. Sur Incises è composto per tre pianoforti,<br />
tre arpe, tre percussionisti: analizzando, per così dire, il<br />
suono pianistico di Incises, un triplo trio ne dilata nello spazio<br />
diversi aspetti attraverso le caratteristiche delle corde velocemente<br />
percosse del pianoforte, delle corde pizzicate delle<br />
arpe, dei metalli e dei legni percossi. Caratterizzano il pezzo<br />
gli indugi su ricchi arabeschi, su una fastosa ornamentazione,<br />
o su arcani giochi di risonanze, oppure gli scatti virtuosistici:<br />
un aspetto è anche una vera e propria gara tra i tre<br />
pianisti. Si crea un colore molto particolare con il continuo<br />
intreccio dei pianoforti e delle arpe e con i barbagli luminosi<br />
della percussione.<br />
La più recente partitura portata a termine da Pierre Boulez<br />
è la versione completa di Dérive 2 (1988-2006) per undici<br />
strumenti. Il pezzo fu iniziato nel 1988, quattro anni dopo<br />
il bellissimo Dérive 1, che non ha nulla in comune, salvo<br />
il fatto di «derivare» da un materiale in un certo senso<br />
occasionale. Dérive 2<br />
aveva raggiunto una durata<br />
di circa venticinque minuti<br />
nel 2002 (ed era stato<br />
allora registrato dallo stesso<br />
Boulez); ma poi è cresciuto<br />
ancora di circa venti<br />
minuti. Non è il solo lavoro<br />
di Boulez ad aver conosciuto<br />
una genesi complessa<br />
e stratificata, ma<br />
nel caso di Dérive 2 la natura<br />
stessa della concezione<br />
rende possibile la graduale<br />
crescita. Partendo<br />
da materiali «anonimi»<br />
(esempi musicali dei suoi<br />
corsi) e sottoponendoli a<br />
una complessa elaborazione,<br />
Boulez studia le possibilità<br />
di processi periodici,<br />
di combinazioni e «variazioni»<br />
dei materiali di<br />
partenza (le cui potenzialità<br />
sono esplorate in modo<br />
magistrale), di ritorni circolari<br />
di natura non semplicemente<br />
ripetitiva, anzi<br />
accortamente dissimulata,<br />
con esiti di straordinaria<br />
ricchezza fantastica e di<br />
grande freschezza. ◼<br />
le biennali 2012 — musica<br />
focus on 25
26<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — musica<br />
John Cage<br />
di Mario Messinis<br />
John Cage seguì le lezioni di Arnold Schönberg<br />
tra il 1935 e il 1937; era poco più che ventenne e partecipò<br />
a quell’insegnamento solo come udito-<br />
re. Dal compositore viennese apprese il rigore<br />
del pensiero, anche se seguì subito altri percorsi<br />
sperimentali fin dalla fine degli anni trenta.<br />
La percussione divenne il suo laboratorio compositivo<br />
con un arsenale strumentale imponente, anche<br />
con oggetti della quotidianità (l’influenza da<br />
lui riconosciuta di Duchamp). Assimila le tecniche<br />
che inglobano il rumore di Cowell e di Varèse: Ionisation<br />
è del 1931 e First Construction (in metal)<br />
di Cage, per cinque percussionisti e pianoforte, del<br />
1939. Nella decina di composizioni per percussione,<br />
circoscritte al quadriennio 1939-1943, si allontana<br />
spesso dalla corporeità materica del modello nella ardita<br />
esplorazione di una timbrica sommessa che sfiora il silenzio.<br />
In questi momenti umbratili e preinformali Cage supera<br />
certa ingenua ossessività ritmico-melodica che altrove affiora.<br />
Contestualmente inventa il cosiddetto «pianoforte preparato»:<br />
l’inserzione tra le corde di bulloni, viti, gomme, ecc.<br />
– con una complessa intavolatura dei materiali – nasce come<br />
mimesi e sostituzione della percussione. La distorsione delle<br />
altezze prefigura l’indeterminazione. Gli interventi aleatori<br />
nel processo compositivo Cage li aveva esperiti sin dalla giovinezza:<br />
le radio ci sono già nel coreografico Credo in Us (1941);<br />
la perdita del controllo della notazione, l’uso casuale dei giradischi<br />
accanto alle percussioni e al pianoforte con sordina figurano<br />
fin dal primo Imaginary Landscape (1939). Vorrebbe<br />
far costruire una macchina per fabbricare microcosmi intervallari,<br />
ma rifiuta l’avventura con le «macchine controllore»:<br />
«sono troppo stupide» amava ripetere. Dunque negli anni<br />
quaranta Cage si interessa, con analoghi metodi compositivi,<br />
alla elettroacustica, alle percussioni e al pianoforte preparato,<br />
alla ricerca del suono incognito.<br />
Si affaccia l’interesse per l’Oriente – la filosofia indiana, la<br />
saggezza cinese, il Buddhismo Zen – come perdita della soggettività:<br />
è un interesse che riguarda per lo più il pensiero, ma<br />
non il linguaggio (anche quando ricorre ad uno strumento<br />
giapponese, lo Sho, è sollecitato dalle peculiarità del timbro<br />
e non dall’orientalismo). C’è qualche allusione all’esotismo<br />
decorativo solo nella prima stagione compositiva, come nei<br />
celebrati e suggestivi Sonate e Interludi del ‘<strong>48</strong>. Sono tracce labili,<br />
destinate a sparire all’inizio degli anni cinquanta quando<br />
inizia il dialogo con Boulez, testimoniato da un eccezionale<br />
carteggio, risalente al quinquennio 1949-1954, recentemente<br />
pubblicato in italiano da Archinto, un’importante<br />
testimonianza teorica e tecnica. È indicativo che due ce-<br />
Con cinque brani<br />
in programma,<br />
John Cage<br />
è certamente<br />
uno dei protagonisti<br />
della Biennale.<br />
Il contributo<br />
di Mario Messinis<br />
ne delinea<br />
con la consueta precisione<br />
il percorso artistico.<br />
lebri studiosi bouleziani, nella prefazione e postfazione dello<br />
stesso volume, esprimano opinioni abbastanza diverse: Piancikowski<br />
privilegia Boulez e Nattiez Cage. Questa contraddizione,<br />
editorialmente stravagante, rispecchia divergenti criteri<br />
interpretativi. In un primo tempo Cage è stato influenzato<br />
dal più giovane Boulez, dopo la conoscenza della Seconda Sonata<br />
per pianoforte del ‘<strong>48</strong>. La svolta verso l’atema-<br />
tismo (in precedenza solo fuggevolmente adottato)<br />
e l’astrattismo, a mio parere, si deve alla suggestione<br />
di Boulez, nel biennio decisivo 1950-1951.<br />
Con il Concerto per pianoforte preparato e orchestra<br />
(imperturbabile, infinito), la Music of Changes<br />
per pianoforte, le Pastorali per pianoforte preparato,<br />
Cage abbandona definitivamente i lacerti<br />
esotici. Le scelte radicali dimostrano la tangenziale<br />
vicinanza alla scuola di Darmstadt e al postwebernismo<br />
anche se Cage non ha mai adottato la serialità<br />
integrale. In Music of Changes coniuga le geometrie<br />
analitiche della scrittura con l’apertura al<br />
caso. È indicativo però che i principi strutturali prevalgano<br />
sugli aspetti aleatori. Molto originale è il rapporto tra suono<br />
e silenzio in un’inedita impaginazione spaziale. Cage dilata i<br />
1. 2. 3.<br />
bagliori di Webern: i silenzi sono musicali al pari del suono:<br />
il suono del silenzio. D’altronde non è un caso che solo qualche<br />
mese dopo la composizione di questo brano, Cage inventi<br />
il suo lavoro più provocatorio e «silenzioso», 4’ e 33”: il pianista<br />
non suona per quattro minuti e mezzo e lascia percepire al<br />
pubblico soltanto le voci ambientali. In Imaginary Landscape<br />
n. 4 ricorre a 24 esecutori per 12 radio. È curioso del paesaggio<br />
sonoro (dichiara che «avrebbe voluto amplificare gli alberi e<br />
gli arbusti»), con l’osservazione delle voci della natura, nella<br />
convinzione sperimentale che tutto è musica, secondo il principio<br />
dadaista che tutto può essere estetico.<br />
Prevede, prima di Schaeffer, la musica concreta; è il profeta<br />
della musica elettronica prima di Stockhausen con Imaginary<br />
Landscape n.5 per nastro magnetico. In questo periodo<br />
le scelte di Cage si muovono in più direzioni tra indeterminazione<br />
e determinazione. L’interesse per il caso – il caso è «l’ignoto»<br />
– è sollecitato dal ricorso al libro cinese degli oracoli,<br />
con il lancio di monete che impone il flusso compositivo: un<br />
modo per sfuggire alla predeterminazione e all’automatismo<br />
dell’edificio costruttivo. È una critica al determinismo della<br />
scuola di Darmstadt. Il dialogo con Boulez comincia ad affievolirsi<br />
quanto maggiore diventa l’interesse per il caso. Qui il<br />
rapporto tra i due compositori si rovescia. Cage non subisce<br />
più le certezze di Boulez, ma tende ad incrinarle. D’altronde<br />
intorno alla metà degli anni cinquanta si estende l’influenza<br />
del musicista sugli ambienti di Darmstadt. La seconda ma-<br />
1. Mario Messinis e John Cage; 2. Anton Webern;<br />
3. Merce Cunningham in un ritratto di Annie Leibovitz (1997);<br />
4. Morton Feldman; 5. Franco Donatoni.
niera di Stockhausen sarebbe inconcepibile senza Cage, fino<br />
a Momente e all’estremismo aleatorio di Aus den sieben Tagen.<br />
Lo stesso Boulez della Terza Sonata per pianoforte risponde,<br />
senza dichiararlo, al collega statunitense, anche se di fatto la<br />
cosiddetta «alea controllata» è una normalizzazione delle<br />
operazioni casuali, un modo per aprire la porta alla flessibilità,<br />
senza rinnegare le norme del sistema. Nel ‘52 Cage crea,<br />
al Black Mountain College, il primo happening, la prima assoluta<br />
esperienza performativa. Era un insieme di musica, poesia,<br />
pittura e danza con al centro il coreografo Merce Cunningham,<br />
il pittore Robert Rauschenberg, il pianista David<br />
Tudor e naturalmente lo stesso Cage. Era la premessa a esperienze<br />
multimediali cariche di futuro, che attraverseranno<br />
per un quarantennio l’ansia sperimentale del musicista. Mi<br />
accadde di assistere allo «scandaloso» e sorprendente progetto<br />
promosso da Tito Gotti per le Feste musicali di Bologna,<br />
Alla ricerca del tempo perduto: un treno viaggiante tra varie<br />
stazioni ferroviarie con musicassette, televisori, strumenti<br />
ed esposizioni d’arte: Cage era gioiosamente impegnato nelle<br />
sue irriverenti esplorazioni ludiche. Recentemente Veniero<br />
Rizzardi e Giovanni Mancuso hanno ricostruito, al Conservatorio<br />
Benedetto Marcello di <strong>Venezia</strong>, una Lettura di Ca-<br />
4.<br />
ge della fine degli anni cinquanta, intercalata all’esecuzione<br />
di alcuni frammenti del Concerto per pianoforte e orchestra<br />
(all’origine il pianista era David Tudor). Ironia, umorismo,<br />
piacere del gioco: affiora la disinvoltura di un maestro che si<br />
occultava nel gesto teatrale.<br />
Nel ‘58 Cage per la prima volta è invitato a Darmstadt (precedentemente<br />
però si era affacciato come pianista e compositore<br />
al festival di Donaueschingen). Fu una rivoluzione, e<br />
la sua influenza mise in crisi per oltre un decennio la musica<br />
nuova, soprattutto in Germania e in Italia. L’opera che sconvolse<br />
il cenacolo internazionale dell’avanguardia è il Concerto<br />
per pianoforte e orchestra del ‘58, uno degli esempi estremi<br />
di apertura al caso e di coinvolgimento creativo dell’interprete<br />
(63 pagine con 84 tipi di notazione); qualche anno dopo<br />
il lunare John Tilbury suonava per la Biennale all’ingresso<br />
della Fenice, mentre l’orchestra era impegnata in ordine<br />
sparso nel foyer del teatro. L’ascolto del Concerto determinò<br />
tempestivamente l’intervento saggistico, Cage o della liberazione,<br />
di Heinz Klaus Metzger – il luciferino allievo di<br />
Adorno – che aveva già demolito la serialità «generalizzata»<br />
di Boulez. Lo stesso Berio fu interessato a quel saggio «storico»<br />
e lo fece tradurre nel 1959 per la sua rivista, gli Incontri<br />
Musicali. Metzger soggiogò gli avamposti della nuova musica<br />
anche sul piano teorico, come conferma il teologo, compositore<br />
e filosofo del caso, l’adorniano Dieter Schnebel. Ma<br />
fu un saggio arbitrario perché vedeva Cage attraverso la «negazione<br />
determinata». È un’interpretazione che successivamente<br />
è stata accolta dallo stesso Adorno e che è proliferata in<br />
Italia. Franco Evangelisti, Mario Bortolotto, Aldo Clementi<br />
e Franco Donatoni agivano nei circuiti del pensiero nega-<br />
5.<br />
tivo secondo la «cadaverica» retorica della fine della musica<br />
(Donatoni giunse a una temporanea afasia e alla rinuncia del<br />
comporre). In realtà Cage era un genio atarassico, totalmente<br />
estraneo al dibattito speculativo europeo; non credeva alla<br />
fine del linguaggio, ma all’allargamento interdisciplinare<br />
dell’esperienza creativa. L’adozione di scritture aleatorie divenne<br />
ecumenica (si pensi alle pittografie liberty di Bussotti).<br />
Il compositore europeo che comprese, senza sovrastrutture<br />
ideologiche, la lezione di Cage, anche per quanto riguarda<br />
la vocazione teatrale, fu Mauricio Kagel; Bruno Maderna lo<br />
ebbe presente soprattutto nell’apertura all’indeterminazione<br />
delle ultime opere.<br />
Dopo molte ricerche grafiche, nell’ultimo quindicennio<br />
Cage si riconvertì ai piaceri della notazione. I fluviali Freeman<br />
Etudes si appagano di un arido virtuosismo utopico nelle<br />
spettacolari acrobazie violinistiche. Negli spezzoni melodrammatici<br />
di Europeras, commissionate su suggerimento di<br />
Bertini e di Metzger, Cage intese conciliare la multimedialità<br />
con le esigenze di un teatro di tradizione, l’Opera di Francoforte.<br />
Come è noto, alcuni artisti furono vicini negli Stati<br />
Uniti a Cage, da Cunningham a Rauschenberg, ad allievi<br />
e sodali: Morton Feldman, Earle Brown, Christian Wolff.<br />
Marginale invece fu il rapporto con i minimalisti: l’orientalismo<br />
divulgativo di Terry Riley devastò l’ascetismo rituale di<br />
Cage; Steve Reich ne accolse alcuni processi iterativi e l’energia<br />
ritmica delle opere giovanili. Fondamentale fu il dialogo<br />
con Merce Cunningham. Entrambi hanno teorizzato l’indipendenza<br />
tra creazione coreografica e creazione musicale, ma<br />
l’autonomia della sperimentazione coincide con una perfetta<br />
armonia del pensiero.<br />
Mi sia consentito un ricordo personale. Cunningham amava<br />
molto <strong>Venezia</strong> e per questo gli proposi di dedicare una prima<br />
assoluta alla Fenice (ma il teatro bruciò un anno dopo e<br />
il balletto Interscape si svolse nel 2000 al Palafenice). Cunningham<br />
sembrò accettare, con la mitezza che condivideva<br />
con Cage, di coreografare un’opera di Feldman, ma poi pensò<br />
a 108, per altrettanti strumentisti, dell’amico scomparso<br />
da un decennio, iperbole del silenzio come filosofia della quiete.<br />
Autore della scenografia fu il prediletto Rauschenberg. Le<br />
operazioni casuali non implicavano la rinuncia alla scrittura.<br />
Negli ultimi lavori Cage prosciuga l’anarchia degli happening<br />
per vivere l’attrazione del vuoto. Non escludo sia stato<br />
suggestionato dalla sublime immobilizzazione del tempo di<br />
Feldman. 103, l’estrema monumentale composizione di largo<br />
organico presentata alla Biennale Musica nel 1993, un anno<br />
dopo la morte dell’autore, era associata a One, un film senza<br />
soggetto, fondamentalmente ideato, nelle linee guida, dal<br />
musicista. Dice Cage: «C’è luce ma non ci sono persone, né<br />
cose, né idee sulla ripetizione e sulla variazione. Si tratta di<br />
un’attività senza senso che tuttavia è comunicativa, come la<br />
luce stessa, che sfugge alla nostra comunicazione perché non<br />
ha nessun contenuto. Come ha affermato McLuhan, la luce è<br />
informazione pura senza alcun contenuto che limiti il suo potere<br />
trasformante e informativo». In questi tardi lavori si definisce<br />
il «terzo stile» dell’autore, tra appello metafisico e respiro<br />
cosmico. Trapelano assonanze con Scelsi e persino con<br />
l’ultimo Nono. Evidentemente certe idee circolavano e la scoperta<br />
e l’invenzione di Cage si irradiavano nelle trame della<br />
nuova musica.<br />
Cage è stato compreso, quando era attivo, più dai compositori<br />
che dai critici. Fedele D’Amico parlò di «ebetudine»<br />
(come di «Urpernacchie» a proposito di Boulez).<br />
Ma ciò fa parte di un’aneddotica definitivamente<br />
sommersa. In realtà Cage è stato il pensatore che più<br />
ha determinato la palingenesi di tante avanguardie. ◼<br />
(per gentile concessione di «classic voice» n. 160, settembre 2012) .<br />
le biennali 2012 — musica<br />
focus on 27
28<br />
focus on<br />
le biennali 2012 — musica<br />
L’importanza<br />
del pubblico<br />
come interlocutore<br />
Una conversazione<br />
con Yotam Haber,<br />
direttore artistico del mata<br />
a cura di Federico Capitoni<br />
Parlando con i giovani compositori d’oggi si<br />
viene spesso investiti dalla strana sensazione d’una<br />
esibizione – un po’ sospetta – di educazione, cortesia<br />
e rispetto. Ciò farebbe sembrare finiti i tempi del<br />
musicista ribelle, anticonformista a tutti<br />
i costi, che fa finta di rinnegare la tradi-<br />
zione e si lamenta del presente. Forse, più<br />
semplicemente e probabilmente, lo spirito<br />
di contraddizione è messo soltanto tra<br />
parentesi, nell’esercizio di una prudente<br />
epoché in attesa di momenti migliori (momenti<br />
che di solito coincidono col successo,<br />
raggiunto il quale un artista è convinto<br />
di potersi permettere qualsiasi gesto o affermazione).<br />
Fatto sta che conversare con<br />
Yotam Haber, classe 1977 quindi «giovane» in tutti i Paesi<br />
del mondo (figuriamoci da noi), concilia anche il più scettico<br />
e rassegnato con la speranza di un futuro rigoglioso e so-<br />
prattutto realistico per la composizione musicale. Nato in<br />
Olanda, ora newyorkese dopo l’infanzia passata in Israele<br />
e in Nigeria, Haber ha carriera e ambizioni di uno normale<br />
– bravo, studioso, sì, ma con i piedi per terra, e all’attività<br />
di compositore affianca quella di organizzatore musicale<br />
e di direttore artistico. Ascolteremo una sua composizione,<br />
Between Composure and Seduction, alla Biennale di <strong>Venezia</strong><br />
nel concerto del 9 ottobre intitolato New Russia/Old America,<br />
anche se, dice l’autore, «non ho capito perché mi abbiano<br />
messo lì, dato che non sono né un giovane russo né un vecchio<br />
americano». Il suo pezzo è tra i lavori di tre giovani russi<br />
e il capolavoro del minimalismo americano, In C di Ter-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Piccolo Arsenale<br />
9 ottobre, ore 18.00<br />
Between Composure and Seduction<br />
di Yotam Haber<br />
per violino, contrabbasso e percussioni<br />
(2009, 12’) prima esecuzione italiana<br />
ry Riley, forse c’è un’affinità, almeno nei termini della macrodistinzione<br />
tra massimalisti e minimalisti su cui il direttore<br />
artistico Ivan Fedele ha ragionato per questa edizione,<br />
ma come la maggior parte dei compositori, Haber fa fatica a<br />
collocarsi in una delle due categorie: «Io vengo da entrambi<br />
i mondi, perché a Milano ho studiato con Adriano Guarnieri<br />
che scrive una musica che sembra totalmente massimalista,<br />
molto piena, forte, ricca di note, quasi caotica, ma che<br />
poi, dopo un po’ che la si ascolta, rivela improvvisamente un<br />
luogo piatto, statico in cui ci si rende conto che gli strumenti<br />
fanno sempre la stessa cosa. Accade dopo venti, trenta minuti;<br />
è un paradosso bellissimo. D’altra parte poi ho studiato<br />
anche con i Bang on a Can, musicisti della scuola derivata<br />
direttamente da a Philip Glass e Steve Reich. Quindi direi<br />
che mescolare Guarnieri con l’ensemble americano potrebbe<br />
essere un risultato nuovo, di sintesi, che comunque impone<br />
una mia voce». Haber ha scritto la composizione, che verrà<br />
eseguita in prima italiana a <strong>Venezia</strong>, nel<br />
2008 a Roma, l’anno successivo alla vitto-<br />
ria del prestigioso Prix de Rome: «Mentre<br />
ero borsista all’Accademia americana,<br />
ho conosciuto l’architetto Peter Zumthor<br />
che era molto interessato alla musica contemporanea.<br />
Mi erano rimaste impresse<br />
alcune parole del suo libro Atmospheres,<br />
nome che viene tra l’altro da un titolo<br />
di un pezzo di Ligeti, con cui tentava di<br />
descrivere un posto effimero ove lui creava<br />
la sua architettura; “between composure and seduction”.<br />
Ho provato nel mio pezzo a trovare lo stesso posto, e a Zumthor<br />
stesso ho fatto scegliere l’organico degli strumenti per<br />
questo pezzo. Alla fine è un brano per tre soli musicisti: violinista,<br />
contrabbassista e percussionista. Quelli che ascoltano<br />
questo pezzo registrato talvolta non mi credono quando<br />
dico che ci sono solo tre strumenti; questa è la cosa di cui sono<br />
più fiero: senza amplificazione questo pezzo produce un<br />
suono enorme, volevo provare a creare un suono monolitico<br />
ma non un timbro semplice, e per me questa è la cosa essenziale<br />
dell’architettura di Zumthor che volevo esprimere:<br />
A sinistra: Kronos Quartet<br />
(foto di Zoran Orlic / kronosquartet.org).<br />
A destra: Steve Reich.
compostezza e seduzione». Coerentemente dunque, Haber<br />
cerca di coniugare minimalismo e massimalismo in un risultato<br />
in cui entrambi gli indirizzi possano essere rintracciabili<br />
pur non essendo definibile né in un modo né nell’altro.<br />
Del resto i sincretismi di cui la musica si nutre da tempo dovrebbero<br />
ormai aver superato la fase illusoria della contaminazione<br />
e quella seducente del crossover, giungendo a quella<br />
sintetica della novità. Più probabile è il raggiungimento<br />
del risultato se al solipsismo creativo si preferisce un’apertura<br />
alla musica degli altri (cosa che i compositori non sempre<br />
fanno). Haber non può fare a meno di ascoltare la musica dei<br />
giovani colleghi perché è attualmente direttore artistico di<br />
uno dei più importanti festival internazionali di musica contemporanea,<br />
il mata, che si svolge a New York da quindici<br />
anni e che ospita anche un concorso: «il mata è stato fondato<br />
nel 1996 da Philip Glass che ancora vive nell’East Village,<br />
accanto al cinema The Anthology in cui ha fatto il primo<br />
concerto dal titolo Music at the Anthology che gli dato il<br />
nome. Per tredici anni la sede è stata a Manhattan, ora è Brooklyn<br />
dove c’è la maggior parte di compositori e ascoltatori,<br />
è il nuovo «west village» in cui si riuniscono oggi artisti<br />
e poeti. «La nostra missione è di promuovere, commissionare<br />
e suonare la musica dei compositori giovani (meno di quarant’anni)<br />
di tutto il mondo. Quest’anno abbiamo ricevuto<br />
seicentocinquanta composizioni inedite da ogni parte del<br />
pianeta, il che spiega che ci sono tantissimi compositori che<br />
vogliono lavorare. Io da direttore artistico scelgo una giuria<br />
di quattro compositori importanti americani. Poi seleziono<br />
l’ensemble o l’orchestra che deve suonare il pezzo. Il festival è<br />
primaverile, ma quasi ogni mese facciamo un concerto nella<br />
serie “Interval” che è un’occasione anche per curatori esterni<br />
i quali possono proporre un’idea per un concerto. Ogni<br />
anno premiamo qualcuno e stavolta tocca al Kronos Quartet.<br />
Verranno premiati da Glass e Reich, due luminari della<br />
musica americana contemporanea che hanno sempre litigato:<br />
è bello vederli insieme ora che a settantacinque anni hanno<br />
messo da parte le inimicizie. Infine come mata non solo<br />
presentiamo pezzi, ma a tre o quattro compositori – quelli<br />
che riteniamo i migliori tra chi si presenta – ogni anno commissioniamo<br />
un pezzo nuovo. Io ho avuto una commissione<br />
Sopra: Philip Glass.<br />
A destra: Yotam Haber.<br />
da mata, è stato importantissimo, per i musicisti americani<br />
ha un peso rilevante».<br />
Haber crede molto nella musica contemporanea, e ne rivendica<br />
lo statuto di professione: «Io sono ottimista, trovo<br />
che le opportunità per i compositori non manchino. E non<br />
esiste solo New York, ma tante città che fino a dieci anni fa<br />
non offrivano chance. Il Texas per esempio oggi è un importante<br />
centro di musica moderna. Noi, come mata, siamo<br />
fieri di pagare gli autori e i musicisti, mentre è pieno di artisti<br />
che lavorano gratis. Trovo che ci sia una tradizione di direttori<br />
e orchestre che chiedono di scrivere musica solo per<br />
l’onore di ricevere un’esecuzione e noi siamo completamente<br />
contrari a questo mercato falso». Da questo<br />
punto di vista, cioè la pretesa del rispetto<br />
della musica, di chi la fa e di chi l’ascolta, Yotam<br />
Haber è intransigente: «Trovo che finalmente<br />
ci si muova verso la creazione di musica<br />
che abbia un’attrazione per il pubblico. Negli<br />
anni settanta Babbit scrisse un famoso articolo<br />
dal titolo Non mi interessa se ascolti, il<br />
messaggio era chiaro. Abbiamo avuto compositori<br />
che hanno creato dei muri: i seguaci del<br />
serialismo puro hanno contribuito a fondare<br />
un’accademia in grado di ignorare chiunque<br />
non seguisse quelle regole. Per fortuna oggi<br />
le cose sono cambiate, il compito è quello<br />
di coinvolgere il pubblico. È importante che<br />
i compositori tocchino gli spettatori. E i nuovi<br />
autori vogliono andare incontro alla gente:<br />
la musica è narrazione, non più un gioco intellettuale».<br />
E allora Yotam Haber che tipo<br />
di compositore ritiene di essere? «Ce ne sono<br />
due tipi: quelli definibili ricercatori e quelli<br />
che sono veri e propri musicisti. Sono entrambi<br />
importanti per l’evoluzione della musica<br />
contemporanea. Ma è un equilibrio molto<br />
delicato, perché alcuni di loro sono radicali. Ci sono posti<br />
in Europa e in America dove le accademie di ricerca si dedicano<br />
a trovare nuovi timbri, nuovi suoni, un nuovo vocabolario,<br />
ma niente di ciò che fanno è musica. In altri luoghi<br />
ci sono posti in cui i compositori non si interessano di chi li<br />
ha preceduti e creano musica in base a ciò che sentono di dover<br />
dire, senza che importi loro di ciò che è successo prima.<br />
Queste due estremità sono l’apice dell’Ego, poiché in tutti e<br />
due i casi il compositore pensa solo a sé, creando solo per sé,<br />
stando fuori dalla storia, senza pensare<br />
al pubblico, ai musicisti che devono<br />
suonare. L’avanguardia mi<br />
sembra proprio abbia pensato<br />
a una musica scritta per<br />
nessun altro che per se stessa;<br />
invece io scrivo per me<br />
ma anche per chi deve suonare:<br />
se il musicista non capisce<br />
ciò che ho scritto non<br />
c’è possibilità che il pubblico<br />
possa capire me. Lo so che<br />
nei posti accademici estremi<br />
l’idea di creare qualcosa per<br />
un pubblico è quasi un’idea<br />
eretica, ma io non sono d’accordo.<br />
Anche io cerco un vocabolario<br />
nuovo ma la mia responsabilità<br />
di compositore<br />
è che chi suona,<br />
come chi ascolta,<br />
mi capisca». ◼<br />
focus on 29
30<br />
opera<br />
«L’occasione<br />
fa il ladro» di Rossini<br />
secondo Betta Brusa<br />
a cura di Arianna Silvestrini<br />
Venerdì 12 ottobre al Teatro Malibran<br />
andrà in scena L’occasione fa il ladro di Gioacchino<br />
Rossini, opera scritta per <strong>Venezia</strong>, di cui si celebra<br />
quest’anno il bicentenario. Abbiamo incontrato<br />
Betta Brusa, che firma la regia della nuova messinscena.<br />
Quali sono le novità dell’allestimento e qual è la poetica<br />
dell’opera?<br />
Non si tratta di una semplice messinscena, ma di un progetto<br />
più ampio che cerca di mettere insieme molte componenti<br />
e che risponde a una proposta molto intelligente<br />
del sovrintendente Chiarot. Nel 2012 assistiamo<br />
a grandi cambiamenti in tutti i settori,<br />
compreso quello della lirica. Occorre quindi porsi<br />
delle domande. Mi sono chiesta quali siano le<br />
ragioni per cui autori dell’Ottocento come Rossini<br />
resistano ai grandi cambiamenti e quali siano<br />
i motivi per cui le loro opere ancora ci commuovono.<br />
La proposta di Chiarot mira all’invenzione<br />
e alla costruzione del futuro del teatro grazie<br />
al patrimonio operistico, a partire dalla constatazione<br />
che la lirica è il frutto dell’insegnamento<br />
tra maestro e allievo. Questo progetto si<br />
compone di diversi elementi, prima di tutto della<br />
collaborazione degli studenti dell’Accademia<br />
di Belle Arti, in particolare di venti studenti molto<br />
motivati e attenti; la mia assistente alla regia<br />
per quest’opera è una studentessa di Ca’ Foscari.<br />
Il secondo elemento del progetto è il materiale<br />
stesso dell’opera di Rossini. Le sue farse sono veri<br />
gioielli teatrali, voli dello spirito di grande raffinatezza e aristocraticità<br />
che non sfociano mai nella comicità e che mirano<br />
al sorriso più che al riso.<br />
L’allestimento sarà articolato in un percorso che comincia<br />
già all’esterno del teatro, proprio perché ogni luogo ha<br />
una sua ragion d’essere. Nella piazzetta di ingresso<br />
del Malibran il pubblico verrà accolto<br />
da una scritta luminosa di Giovan-<br />
ni Querini: «I libri sono un furto fatto<br />
alla legge del tempo». Il nostro furto<br />
sta nel ricorrere a questa partitura<br />
aristocratica che rubiamo al tempo<br />
e restituiamo a <strong>Venezia</strong>, città dalla<br />
quale, ai tempi di Rossini, la cultura<br />
si diffondeva in tutta Europa,<br />
anche per via delle numerosissime<br />
tipografie che c’erano allora. L’allestimento<br />
è un omaggio a <strong>Venezia</strong>,<br />
alla scrittura, alla biblioteca, ai libri<br />
e alla carta come strumento di tradizione,<br />
«furto» e trasmissione di<br />
un passato. All’entrata, nel foyer, si<br />
troveranno dei librettini, che il pubblico<br />
potrà «rubare» liberamente,<br />
che raccolgono tutti i progetti inviati<br />
dagli studenti in risposta all’intento di<br />
costituire una «bottega artigianale»<br />
di integrazione tra formazione e realizzazione<br />
scenico-musicale, come pro-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Malibran<br />
L’occasione fa il ladro<br />
di Gioacchino Rossini<br />
burletta per musica in un atto<br />
libretto<br />
Luigi Prividali<br />
maestro concertatore e direttore<br />
Matteo Beltrami<br />
regia<br />
Betta Brusa<br />
scene e costumi<br />
Laboratorio Accademia<br />
di Belle Arti di <strong>Venezia</strong><br />
Orchestra del Teatro La Fenice<br />
Orchestra del Conservatorio<br />
Benedetto Marcello di <strong>Venezia</strong><br />
posto da Chiarot. L’allestimento del foyer e dell’ingresso in<br />
sala è fatto con carte assorbenti, tutte le scene e i costumi saranno<br />
realizzati con la carta. La storia così esce dal libro della<br />
partitura: giunti gli spettatori in sala le figure prenderanno<br />
vita, i cantanti stessi si libereranno dalla pagina per entrare<br />
in scena, mentre sul palco, sullo sfondo, ci sarà la proiezione<br />
di una lettera di Rossini indirizzata alla madre. Una delle<br />
componenti di questo progetto è infatti anche il rapporto<br />
del figlio con la madre e l’insicurezza del primo Rossini.<br />
Ho cercato di insegnare ai ragazzi a non limitarsi alla costruzione<br />
dell’allestimento, ma di progettare una proposta<br />
più elevata, che coinvolga molti aspetti e in cui nulla è casuale.<br />
Trovo che nella nostra epoca ci sia un grande bisogno di<br />
fare rete, e forse questa può essere proprio la cifra di questo<br />
periodo storico così ricco di stimoli. La lirica può tornare a<br />
essere un punto di riferimento per le proposte culturali, perché<br />
la lirica da sempre è una costruzione e un lavoro che esige<br />
di sviluppare una rete.<br />
In questo senso l’opera può avvalersi delle nuove<br />
tecnologie?<br />
Non ne faremo più a meno, ma la vera rivoluzione<br />
sta nel nostro modo di pensare, non negli<br />
oggetti e nella tecnologia in sé, altrimenti saremo<br />
solo un’epoca di passaggio. La grande tragedia<br />
del nostro tempo consiste nel<br />
fatto che non si scrivono più opere<br />
contemporanee; invece è necessario<br />
salvaguardare la tradizione<br />
e commissionare nuovi lavori<br />
che aprano strade, poiché l’elemento<br />
fondamentale rimane<br />
il teatro e non la comunicazione<br />
o l’applicazione delle<br />
nuove tecnologie. Trovo che<br />
il teatro possa dare forma<br />
all’invisibile. Nella nostra<br />
rappresentazione non ci<br />
sarà niente di naturalistico<br />
né di realistico, nemmeno<br />
nella gestualità e<br />
nella recitazione. Troveremo<br />
un modo per<br />
unificare tutti questi<br />
elementi. ◼<br />
12, 16, 18 ottobre, ore 19.00<br />
14, 20 ottobre, ore 15.30 Bozzetti di Betta Brusa.
Alle Sale Apollinee<br />
un omaggio<br />
a Gino Gorini<br />
di Mario Messinis<br />
Gino Gorini, 1914-1991, era un grande pianista<br />
e un compositore ingiustamente misconosciuto.<br />
<strong>Venezia</strong>no, era stato allievo di Gino Tagliapietra,<br />
a sua volta allievo di Ferruccio Busoni, entrambi<br />
espressione di un gigantismo pianistico tardoromantico.<br />
Gorini non aveva molto a che vedere con questi maestri e<br />
predecessori. Era un artista neoclassico, legato per formazio-<br />
4. 5.<br />
3.<br />
ne a Gianfrancesco Malipiero, con cui studiò, poco piu che<br />
ventenne, alla fine degli anni trenta, al Conservatorio Benedetto<br />
Marcello e di cui eseguì l’intera opera pianistica. Dal<br />
compositore veneziano aveva appreso, nel rispetto dei testi,<br />
a contestare l’esibizionismo degli interpreti. Tutta la produzione<br />
strumentale del Novecento gli era famigliare, convinto<br />
che anche i classici dovevano essere riletti nel segno del-<br />
1. Gino Gorini e Sergio Lorenzi;<br />
2. Gianfrancesco Malipiero;<br />
3. Dmitri Sostakovic;<br />
4. Jakub Tchorzewski;<br />
5. Béla Bartók.<br />
2.<br />
la modernità. L’eccezionale allargamento dei repertori toccò<br />
anche l’intera produzione per due pianoforti e per pianoforte<br />
a quattro mani con la collaborazione prima di Sergio Lorenzi<br />
e poi di Eugenio Bagnoli.<br />
Si dedicò soprattutto tra gli Anni trenta e quaranta alla<br />
composizione. Questa attività è stata riscoperta e valorizzata<br />
da Giovanni Morelli quando il figlio del maestro, Claudio,<br />
donò alla Fondazione Cini il Fondo Gorini. Il grande studioso<br />
aveva già presentato alla Fondazione la Sonata per violino<br />
solo del 1947, scritta a ridosso della Sonata per violino<br />
solo di Bartók, e non meno ardita nella scrittura strumentale.<br />
Uno splendido concerto monografico di indediti e pagine<br />
rare, nel ventennale della morte appena trascorso, si è ascoltato<br />
lo scorso 25 luglio alle Sale Apollinee, nell’ambito del<br />
Festival estivo dedicato dalla Fenice alla Civilta Marciana.<br />
La giovanile Sonata per violoncello e pianoforte del 1938 e<br />
1.<br />
ancora legata all’apprendistato con Malipiero, ma solo qualche<br />
anno dopo Gorini rivela una conoscenza del dibattito<br />
culturale europeo, di Sostakovic e soprattutto di Bartók, dimostrando<br />
qualche affinità con il pensiero del primo Maderna,<br />
del quale era fraterno amico. La Sonata per viola e pianoforte<br />
del 1944 è tra le piu notevoli pagine cameristiche italiane<br />
del tempo: meriterebbe di circolare, al pari del contemporaneo<br />
Quintetto per pianoforte e archi, forse non meno interessante<br />
del celebre Quintetto di Sostakovic.<br />
Esecuzione impeccabile, guidata dal penetrante pianista<br />
polacco Jakub Tchorzewski, affiancato da un giovane e solido<br />
quartetto d’archi statunitense. ◼<br />
concerti<br />
31
32<br />
concerti<br />
Una performance<br />
in Piazza per chiudere<br />
il Prefestival<br />
La Fenice fa un bilancio<br />
della nuova manifestazione estiva<br />
di Leonardo Mello<br />
Con Cento Squilli, l’installazione-performance<br />
realizzata in piazza San Marco il 3 agosto, si è<br />
concluso il Prefestival «Lo spirito della musica di<br />
<strong>Venezia</strong>», ideato e organizzato dalla Fenice con<br />
la prospettiva di continuare e ingrandire l’iniziativa nei prossimi<br />
anni (cfr. vmed n. 47, p. 17). A partire da questo evento,<br />
Cristiano Chiarot e Fortunato Ortombina, rispettivamente<br />
sovrintendente e direttore artistico del Teatro, fanno un bilancio<br />
della manifestazione. «Con Cento Squilli – afferma il<br />
primo – abbiamo voluto sperimentare un altro modo di utilizzare<br />
la piazza, meno invasivo rispetto ai concerti del passato.<br />
Abbiamo considerato questo straordinario palcoscenico<br />
naturale dal punto di vista scenografico, immaginando<br />
la performance proprio in funzione di quello spazio». «Si<br />
è trattato di una sorta di installazione musicale – aggiunge<br />
Ortombina – durante la quale una cinquantina di ottoni<br />
hanno suonato in vari angoli della piazza, eseguendo musiche<br />
dei Gabrieli, che hanno reso la spazializzazione del suono<br />
un elemento imprescindibile, cui tutti i compositori moderni<br />
e contemporanei ricorrono. L’anima di questi cinquanta<br />
strumentisti sono gli ottoni della Fenice, che si stanno dedicando<br />
al recupero della musica della scuola marciana, non<br />
so perché rarissimamente eseguita in città, mentre a ogni angolo<br />
si sente suonare Vivaldi». Ideale conclusione dunque<br />
di un’iniziativa che ha visto il costituirsi di un’inedita collaborazione<br />
tra molti diversi enti cittadini, Cento Squilli – oltre<br />
alle musiche di Andrea e Giovanni Gabrieli – ha proposto<br />
anche la fanfara dell’Otello verdiano, «che ha un valore<br />
simbolico e di continuità nel tempo – continua il direttore<br />
artistico – perché proprio<br />
quell’opera sarà allestita<br />
l’anno prossimo a Palazzo<br />
Ducale. Per la giornata<br />
conclusiva del prossimo<br />
festival torneremo comunque<br />
a “prendere in prestito”<br />
la piazza, ma in un contesto<br />
diverso: la Fenice commissionerà<br />
un brano a un compositore<br />
contemporaneo,<br />
cui verrà chiesto di pensare<br />
il pezzo proprio per quello<br />
spazio, in un momento<br />
che dunque sarà unico e<br />
irripetibile».<br />
Passando a considerazioni<br />
più generali, il sovrintendente<br />
non nasconde la<br />
soddisfazione per il successo<br />
del Prefestival: «Abbiamo<br />
collaborato con diverse<br />
istituzioni, dalla basilica<br />
dei Frari alla Fondazione<br />
Cini, per fare solo i primi<br />
due nomi che mi vengono<br />
in mente. In questo periodo,<br />
funestato dalla crisi,<br />
è quasi obbligatorio fare<br />
squadra, costituire una<br />
rete con le moltissime associazioni<br />
che operano nel<br />
nostro territorio. Solo così<br />
sarà possibile sconfiggere<br />
le difficoltà e immaginare<br />
i festival dei prossimi anni.<br />
Ma già fin d’ora abbiamo<br />
voluto portare il nostro<br />
enorme patrimonio musicale<br />
in posti dove solitamente<br />
non è facile ascoltar-<br />
Sopra: l’omaggio<br />
a Sara Mingardo.<br />
In basso: un momento<br />
di Fenix.
lo, in linea, del resto, con la tradizione musicale veneziana,<br />
che storicamente nasce nei palazzi e nelle chiese. Quest’anno<br />
abbiamo raggiunto Burano e Mestre, in futuro dovremo<br />
coinvolgere ancora di più le isole, portando concerti a Pellestrina,<br />
a Sant’Erasmo, al Lido, senza dimenticare, ovviamente,<br />
l’importanza della città di terraferma, dove certamente<br />
torneremo. Tra i molti appuntamenti ricordo, per esempio,<br />
il Gala internazionale delle Accademie di danza, in cui nella<br />
cornice magica del Cortile di Palazzo Ducale protagonisti<br />
sono stati danzatori e coreografi giovanissimi, oppure le<br />
serate dedicate a grandi vocaliste come Sara Mingardo, all’apice<br />
della sua carriera, e Jessica Pratt, il cui repertorio abbiamo<br />
contribuito anche a noi a scoprire e valorizzare. E ancora<br />
vorrei ricordare i concerti dei vincitori del Premio <strong>Venezia</strong>,<br />
oppure gli altrettanto giovani e straordinari interpreti<br />
delle musiche di Gino Gorini. Insomma, pur essendo partiti<br />
con un certo ritardo siamo molto soddisfatti del risultato<br />
complessivo, anche sul versante della ricerca e della sperimentazione,<br />
come dimostra Fenix, il progetto multimediale<br />
di danza contemporanea che – grazie alla collaborazione con<br />
la Fondazione Bevilacqua La Masa – ha visto lavorare insie-<br />
Due eventi nel cortile di Palazzo Ducale: in alto a destra, l’Opera<br />
Gala; a sinistra il Gala internazionale delle Accademie di danza.<br />
A destra: Cento Squilli in piazza San Marco (tutte le foto sono di<br />
Michele Crosera).<br />
me un coreografo come Foofwa d’Imobilité e un artista concettuale<br />
come Stefano Arienti». Qualche valutazione merita<br />
anche il tipo di spettatori che questo Prefestival ha saputo<br />
raccogliere: «Abbiamo avuto un pubblico abbastanza diverso<br />
da quello delle nostre prime, composto solitamente da<br />
persone che provengono da tutto il mondo e che si muovono<br />
in funzione della singola opera, prenotando con grande anticipo<br />
il viaggio e l’albergo. Tra luglio e agosto invece, oltre ai<br />
tanti veneziani, anche molti turisti che si trovavano per caso<br />
a <strong>Venezia</strong> sono stati “catturati” dalla nostra variegata serie<br />
di offerte, dimostrando che pure in un periodo come quello<br />
estivo è possibile presentare proposte culturali di qualità».<br />
E per quanto riguarda il festival 2013? «L’anno prossimo<br />
– prosegue il sovrintendente – sarà presente anche l’opera, a<br />
cominciare dall’Otello a Palazzo Ducale, cui accennava poco<br />
prima il maestro Ortombina. Ma grande attenzione sarà rivolta<br />
al panorama contemporaneo, che, per motivi organizzativi,<br />
è stato un po’ sacrificato nel Prefestival. E vi sarà inoltre<br />
una riflessione ancora più articolata sul repertorio marciano.<br />
Cercheremo di intercettare un turismo colto e curioso,<br />
offrendogli la garanzia della qualità. Già con questa prima<br />
edizione, che pur è stata ridotta e ha avuto la funzione di<br />
un prologo, la Fenice ha sperimentato nuove possibilità di<br />
lavoro, affiancando quest’attività a quella normale per il nostro<br />
Teatro, che consiste nelle produzioni. E l’esito è stato decisamente<br />
confortante». ◼<br />
concerti<br />
33
34<br />
concerti<br />
Al Festival<br />
Monteverdi-Vivaldi<br />
due «stromenti<br />
venetiani» dimenticati<br />
di Alberto Castelli<br />
La convergenza tra i cartelloni del Festival<br />
Monteverdi-Vivaldi 2012 e del Pre-<br />
festival «Lo spirito della musica di<br />
<strong>Venezia</strong>» (cfr. vmed n. 47, p. 17 e pp.<br />
32-33 di questo numero) – convergenza nata<br />
da una sinergia di eccellenza, quella tra il Venetian<br />
Centre for Baroque Music e il Teatro<br />
La Fenice – torna a far risuonare la musica barocca<br />
veneziana alle Sale Apollinee del Gran<br />
Teatro veneziano.<br />
Dopo il successo del doppio appuntamento<br />
– 20 e 21 luglio appena trascorsi – dedicato<br />
alla Canzone da Battello e alla barcarola tra<br />
Sette e Novecento, con i concerti di inizio settembre<br />
il centro dell’attenzione si sposterà sul versante strumentale,<br />
con un’indagine a tutto tondo intorno a due stru-<br />
menti-principe nella <strong>Venezia</strong> tra Sei e Settecento, il cornetto<br />
e il violoncello, la cui fortuna fu successivamente oscurata<br />
dallo straripante successo della pratica e della letteratura<br />
violinistica.<br />
Il primo appuntamento sarà quello di lunedì 3 settembre<br />
alle 21.00, che vedrà il violoncellista Francesco Galligioni<br />
(già applaudito interprete, assieme all’ensemble L’Estravagante,<br />
del concerto svoltosi in Punta della Dogana lo scorso<br />
1 luglio), accompagnato dal violone di Paolo Zuccheri e<br />
dal clavicembalo di Roberto Loreggian, interpretare alcune<br />
tra le più belle sonate per violoncello e basso continuo di Antonio<br />
Vivaldi (da segnalare il cameo cembalistico di Loreggian,<br />
che la stessa sera proporrà il vivaldiano concerto op. 3<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Sale Apollinee<br />
del Teatro La Fenice<br />
3 settemre, ore 21.00<br />
6 settembre, ore 21.00<br />
12 settembre, ore 18.00<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Palazzo Pisani Moretta<br />
5 settembre, ore 21.00<br />
n. 3 nella versione per tastiera che ne fece Johann Sebastian<br />
Bach).<br />
Il concerto di giovedì 6 settembre, sempre alle 21.00, darà<br />
invece la possibilità al pubblico del Festival Monteverdi-<br />
Vivaldi di ascoltare Jean Tubery (sempre con Loreggian al<br />
continuo), considerato oggi il più grande virtuoso di cornetto<br />
al mondo. Il programma, dal suggestivo titolo «Il cornetto<br />
della Serenissima: uno “stromento veneziano” dimenticato»,<br />
riunirà in un’ampia antologia Canzoni, Sonate, Balli,<br />
Madrigali e Mottetti diminuiti di Girolamo Della Casa,<br />
Andrea e Giovanni Gabrieli, Giovanni Bassano, Giovanni<br />
Battista Riccio, Giovanni Battista Fontana, Giovanni Picchi<br />
e Biagio Marini. L’ascolto non sarà pura-<br />
mente musicale: per l’occasione, infatti, Tubery<br />
illustrerà ai presenti in sala le caratteristiche<br />
principali di uno strumento e di un repertorio<br />
che – perlomeno fino alla grande peste<br />
del 1630 – ebbero a <strong>Venezia</strong> un ruolo di primissimo<br />
piano.<br />
L’incontro di mercoledì 12 settembre, previsto<br />
per le 18.00, completerà il mini-cartellone<br />
barocco alla Fenice con l’incontro con Claudio<br />
Cavina, uno tra i più affermati specialisti<br />
della musica di Monteverdi e Cavalli che condividerà<br />
con il pubblico la propria esperienza<br />
di interprete del repertorio barocco veneziano.<br />
A margine degli appuntamenti strumentali alle Sale Apol-<br />
linee va ricordato il concerto di mercoledì 5 settembre alle<br />
21.00 a Palazzo Pisani Moretta con uno tra i giovani direttori<br />
emergenti per il repertorio barocco, Leonardo García-<br />
Alacórn (già sul podio della Fenice lo scorso autunno per<br />
Acis e Galatea di Händel), che accompagnerà il soprano Mariana<br />
Flores in una selezione di arie di Frescobaldi, Barbara<br />
Strozzi, Cavalli e Händel. (Info: www.vcbm.it; e-mail: contact@vcbm.it;<br />
tel. 041 5227325. Biglietti: concerti €10-20;<br />
incontro del 12/9 a ingresso gratuito). ◼<br />
A sinistra:Leonardo García-Alacórn.<br />
Al centro: Jean Tubery.<br />
A destra: Francesco Galligioni.
Ancora concerti<br />
per il Venetian Centre<br />
for Baroque Music<br />
sono i teatri di musica a dar principio<br />
con una pompa e splendore incredibile,<br />
«Primi<br />
punto non inferiore a quanto si pratica in diversi<br />
luoghi dalla magnificenza<br />
de’ principi, con questo solo divario che,<br />
dove questi lo fanno godere con generosità,<br />
in <strong>Venezia</strong> è fatto negozio […]».<br />
Le Memorie teatrali di <strong>Venezia</strong> di Cristoforo<br />
Ivanovich costituiscono una testimonianza<br />
preziosa della vita teatrale della città lagunare.<br />
All’altezza del 1681, anno in cui il canonico<br />
dalmata di San Marco dedicò l’opera<br />
ai fratelli Grimani, Claudio Monteverdi era<br />
scomparso da trentotto anni, Francesco Cavalli<br />
da un lustro, Antonio Sartorio da appena<br />
pochi mesi; ma il sistema-opera che ciascuno,<br />
pur a titolo diverso, aveva contribuito<br />
a istituire e alimentare – a partire dal fatidico<br />
Carnevale del 1637, che, con l’allestimento<br />
dell’Andromeda di Manelli e Ferrari al Teatro di San<br />
Cassiano, aveva segnato la nascita dell’opera in musica come<br />
impresa – godeva di ottima<br />
salute.<br />
Al vivido affresco del<br />
«trascorso istorico»<br />
dell’Ivanovich, il Festival<br />
Monteverdià-Vivaldi 2012<br />
«I Furori della gioventù»<br />
(cfr. p. 34) fornirà una puntuale<br />
corrispondenza musicale<br />
con gli ultimi tre concerti<br />
in cartellone, dedicati<br />
all’opera veneziana.<br />
A partire da venerdì 14<br />
settembre alla Punta della<br />
Dogana (ore 21.00), quando<br />
Les Musiciens du Paradis<br />
riporteranno alla luce<br />
In alto: l’Ensemble Scherzi Musicali<br />
(foto di Philip Van Ottegem).<br />
Sopra: l’Ensemble Gene Barocco.<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Punta della Dogana<br />
14 settembre, ore 21.00<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Sala degli specchi<br />
di Ca’ Zenobio<br />
15 settembre, ore 21.00<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Ca’ Zen<br />
16 settembre, ore 21.00<br />
alcune tra le più belle scene tratte da due Orfeo: la celebre<br />
partitura di Monteverdi del 1607 e quella assai meno praticata<br />
di Sartorio, tenuta a battesimo il 14 dicembre 1672 al<br />
Teatro San Salvatore a <strong>Venezia</strong>, che al perfetto equilibrio tra<br />
dramma e musica (sulla linea Monteverdi-Cavalli) somma<br />
una scrittura vocale che anticipa in larga misura lo stile virtuosistico<br />
dell’opera del Settecento. Il concerto è realizzato<br />
in collaborazione con la Fondazione François Pinault e<br />
con il Festival Les Promenades Musicales (Calvados – Basse<br />
Normandie).<br />
Sabato 15 settembre alle 21.00, la straordinaria cornice della<br />
Sala degli specchi di Ca’ Zenobio ospiterà<br />
il ritorno a <strong>Venezia</strong> (patrocinato dal Muziektheater<br />
Transparant di Anversa) dei gio-<br />
vani musicisti dell’Ensemble Scherzi Musicali,<br />
compagine che proprio al Collegio Armeno<br />
aveva inaugurato le attività del Venetian<br />
Centre for Baroque Music lo scorso anno.<br />
All’Ensemble belga diretto dall’eclettico<br />
Nicolas Achten (clavicembalista, tiorbista,<br />
liutista, arpista baritono e direttore, nato<br />
a Bruxelles nel 1985) il Festival Monteverdi-Vivaldi<br />
ha affidato il compito di ridare voce<br />
ai personaggi di alcune tra le più importanti<br />
opere di Cavalli: Didone (1641), Giasone<br />
(1649) e Calisto (1652), esempi insuperati<br />
del genio veneziano espresso nel neonato genere<br />
dell’opera «pubblica».<br />
Per il concerto finale di domenica 16 settembre, ospita-<br />
to, sempre alle 21.00,<br />
al piano nobile di Ca’<br />
Zen, il festival guarderà<br />
invece alle conseguenze<br />
settecentesche<br />
dell’opera di Monteverdi<br />
e Cavalli, dando<br />
carta bianca a Giuseppina<br />
Bridelli, vincitrice<br />
del primo premio al vi<br />
Concorso di Canto barocco<br />
di Vicenza. Insieme<br />
ai musicisti del Gene<br />
Barocco, già applauditi<br />
interpreti del concerto<br />
dello scorso 6 luglio<br />
a Palazzo Zorzi, il<br />
giovane mezzosoprano italiano canterà un programma interamente<br />
dedicato a Vivaldi. (Info: www.vcbm.it; email contact@vcbm.it;<br />
tel. 041 5227325. Biglietti: €10-20). (a.c.) ◼<br />
concerti<br />
35
36<br />
concerti<br />
Ad Aldo Ciccolini<br />
il Premio<br />
«Rubinstein» 2012<br />
di Vitale Fano<br />
Il prestigioso Premio «Una vita nella musica»,<br />
ideato dall’Associazione «Arthur Rubinstein presieduta<br />
da Bruno Tosi (cfr. pagina a fronte), giunge<br />
quest’anno alla sua trentaquattresima edizione, e sarà<br />
consegnato il 17 settembre, nella Sala Grande del Teatro La<br />
Fenice, al pianista italo-francese Aldo Ciccolini.<br />
Napoletano di nascita, attivo nelle sale da concerto di tutto<br />
il mondo fin dal 1941, anno in cui debutta sedicenne<br />
al San Carlo di Napoli, Ciccolini lascia l’Italia<br />
nel 1971 e si stabilisce a Parigi, diventando in seguito<br />
cittadino francese. È uno dei più grandi pianisti del<br />
Novecento e continua tutt’oggi la sua intensa attività<br />
concertistica, mostrando in ogni esibizione una profondità<br />
interpretativa e una sapienza musicale di straordinaria<br />
levatura.<br />
Nel corso di sette decenni di carriera, ha inciso più<br />
di cento dischi, consegnando alla storia della musica<br />
interpretazioni di grande nobiltà ed eleganza; basti<br />
ricordare le integrali pianistiche di Debussy, Ravel,<br />
Satie, delle sonate di Mozart e di Beethoven, i cicli<br />
completi delle Harmonies poétiques et réligieuses di<br />
Liszt, dei Concerti di Saint-Saëns o Iberia di Albeniz.<br />
La sua produzione discografica rivela il grande amore<br />
per la musica francese, ma c’è anche in lui l’interesse<br />
per autori meno frequentati (Alexis de Castillon, fra<br />
gli altri) e l’attenzione particolare nei confronti della<br />
musica italiana, così trascurata dai nostri connazionali<br />
da fargli maturare la convinzione che gli italiani<br />
siano i peggiori nemici della loro cultura. Ciccolini<br />
ha inciso quattro cd di musica pianistica di Mario<br />
Castelnuovo-Tedesco, il Concerto per pianoforte<br />
e orchestra di Ildebrando Pizzetti, la musica da camera<br />
di Achille Longo e il Quintetto di Guido Alberto<br />
Fano (eseguito anche al Teatro Goldoni di <strong>Venezia</strong><br />
nel 1997 in favore della ricostruzione del Teatro<br />
La Fenice).<br />
Dal 1972 ha insegnato per diciott’anni al Conservatorio<br />
di Parigi, e continua tutt’oggi a dedicarsi a giovani<br />
pianisti di talento che guida nel perfezionamento<br />
e nella ricerca della loro personalità artistica.<br />
Come interprete, sorprendono la fedeltà al testo, la<br />
nitidezza e la precisione che sembrano rifarsi all’insegnamento<br />
di Arturo Benedetti Michelangeli, pietra<br />
miliare del suo cammino artistico. «L’osservanza del<br />
testo non limita l’immaginazione. Anzi, più si rispetta<br />
il testo, più si è liberi. Sembra un paradosso ma è così»,<br />
afferma il pianista nel volumetto Roberto Piana<br />
incontra Aldo Ciccolini (Editoriale Documenta, Cargeghe,<br />
Sassari, 2010), da cui sono tratti i virgolettati che seguono.<br />
Per il pubblico veneziano, Ciccolini ha distillato dal suo<br />
vasto repertorio alcuni brani significativi di alcuni fra gli autori<br />
più amati: Mozart, Clementi, Debussy e Castelnuovo-<br />
Tedesco, quasi a voler suggerire che il giusto ossequio per il<br />
grande repertorio non deve annullare l’interesse per la «propria»<br />
musica. Del Genio di Salisburgo, il pianista sceglie la<br />
Fantasia K475 e la Sonata K457, nate a poca distanza l’una<br />
dall’altra ed entrambe pervase dalla stessa agitazione tragica.<br />
Pensando a Mozart, Ciccolini sostiene che «anche quando è<br />
drammatico, lo è come un bimbo», perché «aveva sempre la<br />
spontaneità dell’infanzia». Dell’amato e «misterioso» Debussy<br />
(«un enigma che ci accompagna tutta la vita»), propone<br />
tre Préludes, tratti dal secondo libro.<br />
Quanto agli autori italiani, la scelta ricade emblematicamente<br />
su Muzio Clementi, padre del pianoforte (fu concertista,<br />
compositore, didatta, editore e costruttore) e capostipite<br />
dei pianisti italiani. Sono arcinote le sue composizioni<br />
didattiche, mentre di rado si ascoltano in concerto le sue Sonate;<br />
l’op. 34 n. 2 è composizione ampia e ambiziosa, forse<br />
trascrizione di un lavoro orchestrale. Ancor meno si sente in<br />
concerto la musica di Castelnuovo-Tedesco, «meraviglioso<br />
compositore completamente ignorato», costretto dalle leggi<br />
razziali a emigrare negli Stati Uniti. La suite Piedigrotta<br />
1924, intrisa di folklore e napoletanità, rielabora materiali<br />
popolari in chiave moderna e sperimentale.<br />
Ciccolini manca da <strong>Venezia</strong> dal 2002, quando eseguì al Palafenice<br />
il Quarto Concerto di Beethoven diretto da Arnold<br />
Östman. L’iniziativa di Bruno Tosi pone quindi rimedio a<br />
un lungo periodo di disattenzione della città nei confronti di<br />
un grande maestro dalla profonda cultura e dallo spirito sagace:<br />
per lui il pianoforte è «come l’aria che si respira» e Beethoven<br />
è come Dio. Nel corso di un’intervista radiofonica<br />
ebbe infatti a dichiarare: «Se Dio non assomiglia a Beethoven…<br />
non m’interessa!». ◼<br />
Aldo Ciccolini (blog.lefigaro.fr).
«Una vita nella musica»<br />
fin dal 1979<br />
di Ilaria Pellanda<br />
Si svolgerà ancora una volta in Fenice, il 17<br />
settembre alle 19.00, la nuova edizione del Premio<br />
«Arthur Rubinstein – Una vita nella musica», che<br />
quest’anno giunge a festeggiare il suo<br />
xxxiv compleanno.<br />
Bruno Tosi, presidente dell’Associazione intitolata<br />
al celebre pianista, consegnerà il premio<br />
ad Aldo Ciccolini (cfr. p. 36), uno dei rari,<br />
grandi maestri del pianoforte che, a più di<br />
ottant’anni, continua a percorrere instancabilmente<br />
le strade della carriera mondiale, fedele a tutta una<br />
vita posta sotto il segno del movimento.<br />
La cerimonia di premiazione vedrà Ciccolini salire sul palco<br />
della Fenice – che fin dal 1979 ospita l’evento nato in collaborazione<br />
proprio con il Teatro veneziano – e raggiungere<br />
il suo pianoforte per un concerto dedicato in gran parte a<br />
Mozart, Castelnuovo Tedesco e a Scarlatti.<br />
«Questa nuova edizione 2012 segna per noi un importante<br />
traguardo», sottolinea Bruno Tosi. «Non è sempre facile,<br />
infatti, riuscire a portare avanti iniziative di questo tipo,<br />
mantenendo nel susseguirsi degli anni sempre un ottimo livello.<br />
Fin dal 1979, quando il Premio vide la sua prima, folgorante<br />
luce grazie alla presenza di Arthur Rubinstein a <strong>Venezia</strong>,<br />
abbiamo avuto la fortuna di poter contare sulla piena<br />
collaborazione del Teatro La Fenice, sodalizio durato nel<br />
tempo e che ancora oggi gode di ottima salute. Ci prepariamo<br />
inoltre a festeggiare un importante anniversario: anche<br />
se i miti non muoiono mai, in questo 2012 ricorrono infatti<br />
i trent’anni dalla scomparsa di Rubinstein, al quale dedicheremo<br />
più che un pensiero durante la cerimonia tributata<br />
a Ciccolini. Rubinstein – premiato a <strong>Venezia</strong> quando aveva<br />
novantré anni – è stato uno dei massimi virtuosi della tastiera,<br />
un uomo che ha girato tutti i continenti, riscuotendo<br />
trionfi davvero incredibili, incidendo centinaia di dischi…<br />
Insomma, un uomo record».<br />
Tosi ricorda poi alcune delle personalità alle quali è stato<br />
conferito il Premio «Una vita nella musica» nell’avvicendarsi<br />
delle edizioni: «Oltre ad Arthur Rubinstein, abbia-<br />
Sopra: Bruno Tosi (a sinistra) e Aldo Ciccolini<br />
in occasione del concerto del 28 dicembre 2011<br />
al Teatro alla Pergola di Firenze.<br />
A destra: Ciccolini al pianoforte.<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
17 settembre, ore 19.00<br />
mo avuto la fortuna e l’onore di incontrare Andrés Segovia,<br />
Karl Böhm, Mstislav Leopoldovich Rostropovich, Leonard<br />
Bernstein, Isaac Stern, Renzo Piano, Luca Ronconi, Carla<br />
Fracci, Raina Kabaivanska, Carlo Bergonzi, Daniel Barenboim<br />
e, l’anno scorso, Gidon Kremer (cfr. vmed n. 43, p. 36)<br />
– solo per citarne alcuni – tutti grandissimi nomi. Inoltre,<br />
vorrei sottolineare ancora una volta che il prestigio di questa<br />
iniziativa è derivato anche e soprattutto dall’aver avuto come<br />
primo ospite un maestro del calibro di Athur Rubinstein,<br />
che diede il la al Premio da un trampolino di<br />
lancio davvero importante. Conoscevo già il<br />
Maestro, e quell’anno, il 1979 appunto, andai<br />
a Parigi per incontrarlo nuovamente. Divenni<br />
quindi buon amico anche della moglie,<br />
che accettò di diventare Presidente onorario<br />
della mia iniziativa. Rubinstein amava <strong>Venezia</strong><br />
e, come un giorno mi disse, la amava come si poteva fare<br />
con una bella donna. Suonò in laguna decine di volte. Il primo<br />
concerto, curiosamente, non lo tenne alla Fenice bensì al<br />
Conservatorio “Benedetto Marcello”, che allora, come oggi,<br />
aveva una sala molto prestigiosa». ◼<br />
concerti<br />
37
38<br />
concerti<br />
Il Festival Galuppi<br />
compie diciott’anni<br />
di Ilaria Pellanda<br />
Tutti a <strong>Venezia</strong> conoscono il Festival Galuppi<br />
– I Luoghi di Baldassare, longeva realtà musicale<br />
volta alla riscoperta e la riproposta delle opere<br />
compositive di Baldassare Galuppi, figura di notevole<br />
rilievo ai suoi tempi, poi in parte oscurata<br />
dalla fama del concittadino Antonio Vivaldi.<br />
Quest’anno, nonostante la crisi economica che<br />
tartassa anche il nostro Paese, la rassegna veneziana<br />
si prepara a compiere la maggiore età: il 9<br />
settembre – data d’inaugurazione, che si svolgerà<br />
nella Sala Concerti del Conservatorio «Benedetto<br />
Marcello» di <strong>Venezia</strong> – soffierà le candeline di diciotto<br />
anni di attività, che l’hanno vista collezionare e mettere<br />
in atto proposte da parte di studiosi di tutta Europa<br />
con l’intento di portare alla luce non solo i repertori<br />
inediti di Galuppi ma anche quelli<br />
di altri musicisti.<br />
Fin dai suoi esordi il festival ha ideato<br />
percorsi che rendessero possibile<br />
associare le musiche ai luoghi,<br />
così da proporre una <strong>Venezia</strong><br />
inedita a chi non l’aveva<br />
ancora conosciuta dal e<br />
nel vivo, e una laguna da<br />
riscoprire per coloro che,<br />
cittadini, non avevano<br />
mai trovato l’occasione<br />
di osservarla, assieme<br />
al suo complesso<br />
di isole, con sguardo<br />
diverso.<br />
«I tagli alla cultura,<br />
ahimé, sono sempre<br />
più drastici e inesorabili»<br />
– lamenta<br />
giustamente Alessio<br />
Benedettelli, presidentedell’Associazione<br />
veneziana e direttore<br />
artistico del festival<br />
– «ma anche quest’anno<br />
abbiamo avuto il coraggio<br />
di buttare il cuore oltre la<br />
barricata e realizzare un nuovo<br />
cartellone. Gli anni trascorsi<br />
ci hanno regalato moltissime<br />
soddisfazioni, sia dal punto di vista<br />
della critica che da quello dell’affluenza<br />
di pubblico ai nostri concerti, nonostante<br />
ci siamo trovati a soffrire sempre più a<br />
causa della scure dei famigerati, e già citati, tagli. Di<br />
anno in anno abbiamo sempre cercato di essere propositivi,<br />
aprendo anche delle sottosezioni del festival: alludo ad esempio<br />
alla “Linea verde”, che, in collaborazione con la Fondazione<br />
“Santa Cecilia” di Portogruaro, ha offerto ai giovani la<br />
possibilità di esibirsi su un palcoscenico privilegiato com’è<br />
quello della città di <strong>Venezia</strong>, e magari di farlo la sera successiva<br />
al concerto di un grande artista di fama internazionale;<br />
abbiamo realizzato una sezione centrata sull’opera buffa,<br />
e poi ancora quella dedicata agli Oratori, ai Fondaci, ecc.<br />
Due anni fa abbiamo dato vita a un percorso che ha cominciato<br />
a esplorare la <strong>Venezia</strong> segreta e i suoi giardini, un itinerario<br />
che ha visto il proprio battesimo a Palazzo Minelli Spada,<br />
alla Madonna dell’Orto. Quest’anno andremo a scoprire<br />
lo splendido giardino di Palazzo Franchetti, angolo verde<br />
affacciato sul Canal Grande, ai piedi del Ponte dell’Accademia,<br />
dove, il 15 settembre, ospiteremo l’Ensemble patavino<br />
di ottoni I Similoro, diretto da Vincenzo Montemitro. Realizzeremo<br />
poi una collaborazione molto importante con Palazzetto<br />
Bru Zane che vedrà l’Ensemble Musagete presentare,<br />
il 16 settembre nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice,<br />
un programma dedicato ai Quintetti di Beethoven<br />
e Magnard. Facendo qualche passo in-<br />
dietro, l’inaugurazione del 9 settembre al «Be-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
dal 9 settembre nedetto Marcello» vedrà i Virtuosi Veneti im-<br />
al 30 ottobre pegnati in una serie di Concerti di Galuppi. La<br />
peculiarità della serata sarà quella di poter ascoltare<br />
alcuni fra coloro che, in anni diversi, sono<br />
stati allievi del Conservatorio veneziano. Quest’anno inizierà<br />
inoltre un nuovo ciclo, “Le voci sull’acqua”, che presenterà<br />
musiche corali di varia provenienza. Avremo il Coro<br />
Latomas, compagine tutta al femminile che<br />
Diana D’Alessio dirigerà ancora una volta<br />
nelle Sale Apollinee accompagnata<br />
dal Quartetto Leggio; vi sarà poi il<br />
Coro polifonico Amurianum, diretto<br />
da Franco Salvadori, che il<br />
22 settembre suonerà sull’Isola<br />
del Lazzaretto Nuovo<br />
“Il Teson Grande” per<br />
un concerto che, così come<br />
quello che si svolgerà<br />
a Palazzo Franchetti,<br />
sarà totalmente gratuito.<br />
E anche per quanto<br />
concerne l’evento<br />
inaugurale del 9, ai veneziani<br />
verrà data la<br />
possibilità di accedere<br />
in sala senza pagare.<br />
Sempre nell’ambito<br />
del progetto “Le<br />
voci sull’acqua”, l’ultimo<br />
coro in cartellone<br />
sarà quello dei Cantori<br />
<strong>Venezia</strong>ni, il 13 ottobre,<br />
che la D’Alessio<br />
dirigerà nel Salmo xxxvi<br />
di Benedetto Marcello. Sarà<br />
inoltre presente al festival<br />
l’Ensemble vocale De’ Caracci,<br />
che, diretto da Paolo Faldi<br />
alla Scuola Grande di San Rocco<br />
il 29 settembre, presenterà in prima<br />
mondiale un inedito di Galuppi: si<br />
tratta della Passione Secondo San Giovanni,<br />
alla quale seguirà lo Stabat Mater di Scarlatti.<br />
Il 30 settembre, nuovamente nelle Sale Apollinee,<br />
ospiteremo un’orchestra tutta formata da bambini: si<br />
tratta dei piccoli allievi del Conservatorio “Cesare Pollini”<br />
di Padova, detti i “Pollicini”, che presenteranno musiche di<br />
Brahms e Bizet; e il 3 ottobre si potranno ascoltare il violino<br />
di Dora Bratchkova e il pianoforte di Aldo Orvieto, i Russian<br />
Masters, in un concerto che avrà in programma musiche<br />
di Shostakovich, Stravinsky e Prokofiev». ◼<br />
Baldassare Galuppi tra il 1770 e il 1780.
Un nuovo autunno<br />
in musica<br />
per Palazzetto Bru Zane<br />
di Andrea Oddone Martin<br />
In tutte le epoche, parte della cultura non corrisponde<br />
allo spirito del proprio tempo ma, in un accesso<br />
nostalgico, sceglie e idealizza un<br />
passato rievocando eden sociali e<br />
miti originari. Invero particolari periodi<br />
della storia sono stati determinati da tale<br />
atteggiamento, dal quale si sono potuti<br />
ricavare i principali percorsi di pensiero.<br />
Ad esempio il Neoclassicismo, ma ugualmente<br />
l’attenzione che il Romanticismo dedica all’antichità<br />
ne sono un esempio manifesto. Il primo festival della stagione<br />
2012-2013 di Palazzetto Bru Zane, organizzato dal<br />
Centro della Musica Romantica Francese e intitolato «Antichità,<br />
Mitologia e Romanticismo», riprende questa tematica<br />
all’interno del<br />
repertorio particolarmentesconosciuto<br />
del romanticismo<br />
musicale<br />
francese, delineando<br />
una serie di interessantiproposte,<br />
tra settembre<br />
e novembre, che si<br />
terranno a <strong>Venezia</strong><br />
e nel mondo.<br />
«Uno dei concerti<br />
che riteniamo<br />
più importanti»,<br />
afferma Florence<br />
Alibert, direttore<br />
generale del<br />
Centro veneziano,<br />
«è l’Atys di Niccolò<br />
Piccinni. Sarà<br />
in prima esecuzione<br />
il 23 settembre<br />
alle 17.00 alla<br />
Scuola Grande San<br />
Giovanni Evangelista<br />
di <strong>Venezia</strong><br />
e il giorno dopo al<br />
Théâtre des Bouffes<br />
du Nord di Parigi. Il capolavoro di Piccinni sarà proposto<br />
in una forma tipica per le esecuzioni ottocentesche, e cioè in<br />
riduzione per strumentisti e alcuni cantanti, quasi una versione<br />
cameristica. Un altro concerto importante è quello<br />
che si svolgerà il 22 settembre alle 20.00, sempre nella Scuola<br />
Grande di San Giovanni Evangelista, che vedrà la mezzosoprano<br />
Jennifer Borghi, oramai una nostra affezionata, affronatare<br />
un repertorio di arie di vari autori romantici dedicate<br />
alle figure tradizionali dell’antichità; da segnalare, la prima<br />
esecuzione moderna di Phèdre, scritta da Jean-Baptiste<br />
Lemoyne. Tra i vari artisti che collaborano costantemente<br />
con noi, anche il giovane pianista Wilhelm Latchoumia, che<br />
il 13 ottobre alle 20.00, questa volta al Palazzetto Bru Zane,<br />
Un concerto a Palazzetto Bru Zane (foto di Michele Crosera).<br />
<strong>Venezia</strong><br />
dal 6 settembre all’11 dicembre<br />
(per informazioni: www.bru-zane.com)<br />
eseguirà una serie di trascrizioni di Richard Wagner realizzate<br />
da compositori dell’Ottocento, dando così inizio alle<br />
celebrazioni in onore del compositore tedesco programmate<br />
durante la stagione. Assolutamente inedito sarà il ciclo di<br />
conferenze che si svolgeranno durante questa nuova stagione,<br />
e la prima, condotta da Carlo Montanaro il 20 novembre<br />
alle 18.00 a Palazzetto, sarà dedicata alla riproduzione musicale<br />
nell’Ottocento e analizzerà i metodi di diffusione della<br />
musica dell’epoca attraverso mezzi meccanici, prima dell’avvento<br />
del fonografo. Adriana Guarnieri, l’11 dicembre alle<br />
18.00 sempre al Bru Zane, tratterà gli argomenti della conferenza<br />
successiva, intitolata a «Berlioz e<br />
Liszt come critici musicali». È nostro in-<br />
tento, attraverso questo ciclo di incontri,<br />
non fermarsi a considerare esclusivamente<br />
il prodotto musicale romantico ma comprendere<br />
anche le qualità della contemporaneità<br />
ottocentesca nei suoi aspetti collaterali.<br />
Questi saranno i primi due appuntamenti del cartellone<br />
autunnale. Daremo il la anche a un programma pedagogico,<br />
che coinvolgerà le scuole elementari della città per dare<br />
ai più giovani la possibilità di assistere alle prove dei concerti.<br />
I programmi delle esecuzioni saranno quelli più adatti a<br />
un pubblico infantile, che avvicineremo maggiormente alla<br />
musica attraverso alcuni laboratori introduttivi».<br />
Oltre che alla realizzazione dei festival concertistici, il vostro<br />
Centro è impegnato nell’ambito della ricerca e dell’editoria.<br />
Sono previste delle novità in questo settore?<br />
Ci sono delle novità dal punto di vista internazionale, nel<br />
senso che cercheremo di far conoscere anche all’estero, attraverso<br />
l’organizzazione di alcuni festival, la diffusione del lavoro<br />
scientifico che svolgiamo a <strong>Venezia</strong>. Il primo evento si<br />
svolgerà a Parigi nel giugno 2013: l’idea che lo anima è appunto<br />
quella di creare un ponte con l’attività veneziana. Dopo<br />
l’esperienza parigina, abbiamo in animo di sviluppare<br />
questo tipo manifestazioni anche in altre città europee, che<br />
potranno così diventare un’interessante vetrina per le attività<br />
scientifiche del Bru Zane. ◼<br />
concerti<br />
39
40<br />
concerti<br />
«L’ape musicale»<br />
degli Amici<br />
della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
di Paolo Cattelan*<br />
Su invito della azienda Rigoni di Asiago abbiamo<br />
progettato un percorso musicale sul tema delle<br />
api e del miele che sarà eseguito alle Sale Apollinee<br />
della Fenice il prossimo 29 settembre. In un primo<br />
momento avevamo pensato di riprendere puntualmente Lorenzo<br />
Da Ponte cui spetta il merito di aver inventato questo<br />
titolo, L’ape musicale, alludendo al poeta impresario che crea<br />
un’opera dal «nettare» di altre opere. Tuttavia proprio andando<br />
qua e là, di musica in musica come di fiore in fiore secondo<br />
il metodo di Da Ponte, abbiamo scoperto che non solo<br />
c’era la possibilità di mettere insieme delle belle partiture, ma<br />
anche di affrontare il tema con una diversa profondità d’approccio<br />
guidati nella ricerca proprio dall’ape e dal suo rapporto<br />
ancestrale con l’uomo. Vorremmo citare quanto scherzosamente<br />
Andrea Rigoni ci ha detto in un incontro preliminare:<br />
«Con l’ape vogliamo entrare nel mito». E così è stato davvero<br />
nel momento in cui ci siamo messi a seguire le situazioni<br />
operistiche più forti, dove l’ape entra in campo come fattore<br />
simbolico decisivo della dinamica storica.<br />
Una di queste opere è senz’altro l’atto di Aristeo che Cristoph<br />
Willibald Gluck mette in musica su libretto di Giuseppe<br />
Pezzana per lo sposalizio di Ferdinando di Borbone e di Maria<br />
Amalia d’Asburgo a Parma nel 1769. Aristeo è, per il mondo<br />
greco, il semidio dell’apicultura e il suo mito ci è stato tramandato,<br />
insieme a quello di Orfeo, nel Quarto libro delle<br />
Georgiche di Virgilio cui s’ispira molto fedelmente il libretto<br />
di Pezzana per Gluck. Nell’Aristeo del compositore vi sono<br />
alcune gemme come l’Aria virtuosistica «Nocchier che in<br />
mezzo all’onde» oppure l’Aria «Cessate fuggite» con violino<br />
e violoncello concertanti. Ma vi è persino il racconto, sviluppato<br />
in forme recitative, del rituale della Bugonia (letteralmente<br />
«genesi dal bue») che si credeva portasse le api a nascere<br />
spontaneamente dalle carcasse di animali sacrificati, secondo<br />
un processo in cui gli antichi vedevano riflessa l’immagine<br />
dell’anima che si distacca dal corpo materiale.<br />
Ancora più sorprendente è il rilievo che si ottiene da una rapida<br />
ricognizione su un altro titolo di grande importanza per<br />
la mitica presenza delle api. Cominciamo dal dire che molti<br />
sono i compositori che hanno messo in musica la storia di<br />
Sansone e Dalila, ma che uno solo è quello che lavora anche<br />
ad un altro episodio della vicenda biblica dell’eroe ebreo che<br />
bisogna rapidamente ricordare ancor prima di nominare il<br />
compositore. L’episodio è dunque quello del leone che Sansone<br />
avrebbe squarciato a mani nude mentre andava in Timnata<br />
a prendere per moglie una donna filistea. Al suo ritorno<br />
a casa Sansone vide che nella carcassa del leone<br />
le api avevano fatto un favo ch’egli<br />
prese cibandosi del miele. Quindi rielaborò<br />
tutto quanto gli era accaduto<br />
in forma di enigma e lo pose<br />
ai Filistei durante il banchetto di<br />
nozze. Esiste un chiaro legame tra il leone<br />
di Sansone e i tori di Aristeo, un legame<br />
adombrato nella storia stessa dei Filistei,<br />
il popolo di origine egea che diede nome alla<br />
Palestina e che fu alleato degli ebrei prima di<br />
diventarne mortale nemico. Occorre a questo<br />
punto fare un po’ di chiarezza sul nome del<br />
compositore italiano che sente talmente il fascino di Sansone<br />
dal derivarne una specie di trilogia tragica (Sansone in Tamnata,<br />
Sansone in Gaza, La caduta del tempio di Dagone): si<br />
tratta di Francesco Basily (o Basili, anche Basilj nelle fonti coeve)<br />
e la sua opera andò in scena al teatro San Carlo di Napoli<br />
nel 1824 con un grande cantante nel ruolo di cartello: Luigi<br />
Lablache. Vale sottolineare la qualità della musica di Basily,<br />
scolpita in modo che non poco richiama alla mente Verdi da<br />
una posizione storica però nettamente anticipe. Basily era nato<br />
nel 1767 a Loreto, solo undici anni dopo Mozart, da una famiglia<br />
di musicisti originaria dell’Umbria e prevalentemente<br />
attiva a Loreto. Francesco aveva appreso lo stile osservato<br />
da Giovanni Battista Borghi e Giuseppe Jannacconi a Roma<br />
e nel corso della sua carriera fu maestro di cappella a Foligno,<br />
Macerata, Loreto e quindi alla Cappella Giulia in Roma.<br />
Compose moltissima musica sacra, strumentale e da camera<br />
ed ebbe importanti incarichi al Conservatorio di Milano,<br />
ma anche all’Accademia di Berlino. Non disdegnò l’opera<br />
e, a giudicare dal Sansone, la sua produzione non mancherà<br />
di essere riscoperta in un prossimo futuro. Per la cronaca la<br />
sua conoscenza di Verdi si lega ad un fatto preciso: mentre<br />
quest’ultimo si presentava per essere ammesso al Conservatorio<br />
di Milano, Basily presiedeva la commissione che<br />
lo bocciò: colpito sul vivo, molti anni dopo<br />
Verdi rifiuterà di dare il proprio nome<br />
al conservatorio di Milano, come lui<br />
stesso ebbe a dire «Non mi hanno voluto<br />
da giovane, non mi avranno da vecchio».<br />
Francesco Basily muore a Roma<br />
nel 1850, chissà se il prossimo anno<br />
verdiano porterà qualcosa anche<br />
per lui…<br />
L’ultima stazione è Debora, che<br />
in ebraico significa proprio<br />
«ape». A Debora che nel<br />
mondo Egeo era Melissa, si<br />
ricollegano tutte le altre storie:<br />
Aristeo, la Bugonia, Sansone…<br />
Debora ha avuto alcune ricorrenze importanti nella Storia<br />
della musica, prima fra tutte Händel (1733). L’azione sacra<br />
per musica di Pietro Alessandro Guglielmi su libretto di Carlo<br />
Sernicola intitolata Debora e Sisara andò invece in scena al<br />
Teatro San Carlo di Napoli nel 1788. Fu un successo memorabile.<br />
Una grande virtuosa, Brigida Banti Giorgi, gareggiò<br />
con gli strumenti nel ruolo dell’unica donna che la Bibbia ricordi<br />
tra i Giudici d’Israele, la donna che portò il suo popolo<br />
(e gli alleati Filistei) a sconfiggere il re di Canaan.<br />
Protagonisti del volo dell’ape musicale al Teatro La Fenice<br />
saranno il soprano Susanna Armani, il mezzosoprano Silvia<br />
Regazzo, il basso-baritono Devis Fugolo, il violoncellista Simone<br />
Tieppo, il pianista Bruno Volpato: un gruppo di solisti<br />
di raffinati interessi culturali vicino alle attività di ricerca degli<br />
Amici della Musica di <strong>Venezia</strong>. ◼<br />
*Presidente degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
Debito a Gioachino Rossini<br />
L’attività degli Amici della Musica<br />
di <strong>Venezia</strong> in provincia<br />
Un’intensa attività si preannuncia per la stagione<br />
d’autunno degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong>. Tra<br />
settembre e ottobre si inaugura il ciclo di concerti dedicato a<br />
Rossini nel cxx anniversario della nascita.<br />
Il progetto, che rientra nella programmazione Reteventi<br />
2012 della Provincia di <strong>Venezia</strong>, si avvale anche della colla-
orazione dei Comuni di Scorzé, Salzano, Noale, San Donà,<br />
Concordia Sagittaria, Cavallino-Treporti, Santa Maria di Sala,<br />
Chioggia e di alcuni enti privati come il Lions Club di Noale,<br />
il Rotary club «Noale dei Tempesta», l’Associazione Lirico-Musicale<br />
Clodiense.<br />
Concordia Sagittaria – Cattedrale<br />
14 settembre – ore 20.45<br />
Noale – Duomo<br />
20 settembre, ore 20,45<br />
Cavallino – Chiesa di S. Maria Elisabetta<br />
19 ottobre, ore 20,45<br />
Petite Messe Solennelle<br />
per soli, coro, pianoforte e harmonium<br />
Salzano – Filanda Romanin-Jacur<br />
6 ottobre, ore 20.45<br />
San Donà – Auditorium Comunale<br />
12 ottobre, ore 20.45<br />
Chioggia – Auditorium San Nicolò<br />
31 ottobre, ore 20.45<br />
Tornare a Babilonia<br />
per soprano, mezzosoprano e pianoforte<br />
con interventi di Carlo Borghesan<br />
Santa Maria di Sala – Villa Farsetti<br />
23 ottobre, ore 20.45<br />
Scorzé – Villa Soranzo-Conestabile<br />
27 ottobre, ore 20.45<br />
Il cioccolatte osmazonico<br />
per soprano, pianoforte<br />
con interventi di Carlo Borghesan<br />
Il percorso nasce dall’importante contributo<br />
di Carlo Borghesan, erede dello<br />
speziale veneziano Giuseppe Ancilllo che<br />
nel libro <strong>Venezia</strong>ni e <strong>Venezia</strong> di ieri e l’altro ieri<br />
(Ibiskos editrice, Empoli, 2002) racconta della lunga amicizia<br />
di Ancillo con Rossini e dell’ambiente culturale ruotante<br />
intorno alla farmacia «All’insegna della Vecchia e del Cedro<br />
imperiale» in Campo San Luca a due passi dalla Fenice che<br />
il pesarese frequentava in occasione del debutto delle sue opere,<br />
dalle prime farse al Teatro San Moisé fino a Semiramide al<br />
Teatro La Fenice. Tre sono i programmi di concerto circuitati<br />
nelle varie sedi (cfr. gli appuntamenti qui a fianco): «Tornare<br />
a Babilonia», «Petite Messe Solennelle» e «Il cioccolatte<br />
osmazonico». Nel gergo degli impresari ottocenteschi «Tornare<br />
a Babiblionia» significava allestire Semiramide (regina<br />
di Babiblonia) con le sorella Barbara e Carlotta Marchisio celebri<br />
cantanti che Rossini volle anche alla première della Petite<br />
Messe Solennelle.<br />
E «Il cioccolatte osmazonico»? Fu un brevetto dello Spicier<br />
Giuseppe Ancillo, che doveva provvedere a tutti i malanni<br />
di Rossini, provocati dai suoi ben noti peccati di gola,<br />
mentre quest’ultimo, ospite in casa sua, scriveva la Semiramide.<br />
Nel corso dello spettacolo musicale, tra un’aria<br />
e l’altra, sarà possibile degustare alcuni piatti rossiniani<br />
e finalmente scoprire insieme misteriose ricette. Interpreti<br />
principali sono il soprano Susanna Armani, il mezzosoprano<br />
Silvia Regazzo, il tenore Matteo Mezzaro, il basso<br />
Devis Fugolo, il pianista Bruno Volpato e il Coro Polifonico<br />
da camera San Filippo Neri diretto da Ubaldo Composta.<br />
Per informazioni: www.amicimusicavenezia.it;<br />
info@amicimusicavenezia.it ◼<br />
Caricatura di Gioachino Rossini.<br />
A fronte: Lucas Cranach il Vecchio, Sansone e il leone<br />
(1520, in alto) e Cupido e un favo (1537, in basso).<br />
I «Concerti<br />
della domenica»<br />
dei Solisti Veneti<br />
Sono trascorsi quarantacinque anni da<br />
quando, nell’ottobre 1967, I Solisti Veneti diretti da<br />
Claudio Scimone hanno creato la formula, nata a Padova<br />
e divenuta ormai tradizionale, dei «Concerti<br />
della domenica». Questi appuntamenti, che si svolgono tuttora<br />
la domenica mattina alle 11 a prezzi molto ridotti, avevano<br />
e hanno ancora lo scopo di raggiungere un pubblico<br />
nuovo che raduni, oltre agli appassionati dei concerti serali, i<br />
giovani e tutti coloro che per diversi motivi non amano uscire<br />
di casa la sera, come le persone anziane e le famiglie con<br />
bambini (cui sono dedicati molti programmi speciali).<br />
Per il ciclo del 2012 – che si svolgerà nell’Auditorium<br />
«Pollini» di Padova nelle domeniche di ottobre e novembre,<br />
sempre alle ore 11 – I Solisti Veneti hanno preparato<br />
un programma ricco e articolato. Il concerto inaugurale avrà<br />
luogo domenica 7 ottobre e sarà intitolato «Per grandi e piccini»<br />
con la presenza – accanto all’ensemble diretto da Scimone<br />
– di Cecilia Gasdia nel ruolo di voce recitante in Pierino<br />
e il lupo di Prokofiev. La Gasdia interpreterà anche due<br />
pagine di Rossini, il Duetto dei gatti e La chanson du bébé.<br />
Il programma (e con esso il ciclo) verrà aperto dal Corsaro,<br />
un’opera di Riccardo Drigo (1846-1930), compositore padovano<br />
tuttora celebre in Russia per aver diretto le «prime»<br />
dei più famosi balletti di Čajkovskij.<br />
Domenica 14 ottobre sarà di scena Corrado Augias, che<br />
terrà una conversazione su «Raccontare Verdi» in preparazione<br />
del bicentenario verdiano del 2013. I programmi successivi<br />
della rassegna comprenderanno – tra le molte altre<br />
proposte – il tradizionale omaggio al massimo genio veneto,<br />
Antonio Vivaldi, con l’Opera Quarta «La Stravaganza».<br />
Di particolare richiamo ed interesse sarà poi l’appuntamento<br />
dedicato ai walzer viennesi di Johann Strauss nelle<br />
trascrizioni effettuate per una manifestazione benefica da<br />
Schönberg, Berg e Webern, integrato da walzer di Beethoven,<br />
Schubert e Chopin. Per informazioni: www. solistiveneti.it.<br />
(l.m.) ◼<br />
Il primo «Concerto della domenica» dei Solisti Veneti.<br />
concerti<br />
41
42<br />
concerti<br />
Il «Pierrot Lunaire»<br />
di Schönberg<br />
incanta Padova di Filippo Juvarra<br />
È<br />
il 16 ottobre 1912: alla Choralionsaal di Berlino<br />
avviene la prima esecuzione del Pierrot Lunaire<br />
di Arnold Schönberg. L’autore dirige<br />
un complesso strumentale composto da<br />
H.W. de Fries (flauto), K. Essberger (clarinetto), J.<br />
Maliniak (violino e viola), H. Kindler (violoncello),<br />
E. Steuermann (pianoforte). La voce è quella<br />
della cantante e attrice Albertine Zehme (aveva<br />
sposato a Lipsia l’avvocato Felix Zehme), che,<br />
in costume da Pierrot, è accompagnata dal gruppo<br />
strumentale diretto da Schönberg che si trova invece dietro<br />
un paravento.<br />
Era stata la stessa Zehme a commissionare a Schönberg<br />
una riduzione in musica del Pierrot Lunaire del poeta belga<br />
A. Giraud, nella traduzione in tedesco di O.E. Hartleben.<br />
Schönberg trovò la cosa molto stimolante, come annotò nel<br />
suo diario: «Si va senz’altro incontro a una nuova espressione.<br />
I suoni diventano qui una espressione addirittura animale<br />
di moti sensuali e spirituali».<br />
L’entusiasmo di Alberatine fu notevole e così scrisse al maestro:<br />
«Lei trasporta in musica tutti gli ideali della mia fantasia<br />
artistica».<br />
A Berlino la prima esecuzione ebbe un successo incondizionato<br />
(non sarà così poi a Vienna e a Praga). Era presente<br />
anche Stravinsky, che scriverà: «Di una cosa mi ricordo con<br />
grande esattezza: la sostanza strumentale del Pierrot Lunaire<br />
mi impressionò moltissimo. Con “strumentale” io intendevo<br />
allora non solo la strumentazione di questa musica ma la<br />
struttura contrappuntistica e polifonica complessiva di questo<br />
stupefacente capolavoro».<br />
Esattamente cento anni dopo, il 16 ottobre 2012 all’Auditorium<br />
«Cesare Pollini», gli Amici della musica di Padova<br />
riproporranno il Pierrot Lunaire affidandone l’esecuzione al<br />
Divertimento Ensemble diretto da Sandro Gorli, e alla voce<br />
di Alda Caiello.<br />
Si tratta del secondo concerto della stagione 2012-2013 organizzata<br />
dall’associazione padovana, che si aprirà il 3 ottobre<br />
con un concerto della Petite Bande di Sigiswald Kuijken<br />
(in programma le quattro Suites per orchestra e il Concerto<br />
brandeburghese n. 5 di Johann Sebastian Bach) dedicato<br />
al ricordo di Gustav Leonhardt, clavicembalista e direttore<br />
Padova<br />
Auditorium<br />
«Cesare Pollini»<br />
16 ottobre, ore 20.30<br />
d’orchestra olandese più vote presente all’interno delle stagioni<br />
musicale degli Amici della musica di Padova.<br />
Ma la proposta del Pierrot Lunaire rimanda anche a un’altra<br />
data importante per Padova: quella del 4 aprile 1924,<br />
giorno in cui Schönberg lo diresse nell’ambito dei concerti<br />
della «Bartolomeo Cristofori», la società nata nel 1921<br />
in stretto collegamento con l’istituto musicale «Cesare Pollini».<br />
Schönberg guidò un complesso formato da membri<br />
del Quartetto Pro Arte di Bruxelles (che in apertura di programma<br />
esegue il Concerto di Alfredo Casella) e da L. Fleury<br />
(flauto), H. Delacroix (clarinetto), E. Steuermann<br />
(pianoforte). La voce era quella dell’attri-<br />
ce Erika Wagner (una star dello Schauspielhaus<br />
di Vienna), che, sposatasi poi con il direttore d’orchestra<br />
F. Stiedry, inciderà in America nel 1951<br />
il Pierrot – sempre diretto da Schönberg – per la<br />
Columbia.<br />
Il concerto di Padova del ’24 fu una delle tappe<br />
della tournée italiana del Pierrot Lunaire promossa da<br />
Alfredo Casella con la Corporazione delle Nuove Musiche,<br />
che Casella aveva fondato assieme a Malipiero e D’Annunzio,<br />
nel 1924, a Roma. La tournée costituì un momento<br />
fondamentale per l’apprezzamento in Italia della musica di<br />
Schönberg, che, in occasione di un concerto a Firenze, ebbe<br />
l’occasione, e l’onore, di avere in sala e poi di conoscere Giacomo<br />
Puccini. Nel programma di sala preparato per la tournée<br />
(con note anche di Vittorio Rieti, che accostò il Pierrot<br />
alla Sagra di Stravinsky)<br />
Casella<br />
scrisse: «Il lavoro<br />
illustre e singolare<br />
che la Corporazione<br />
delle<br />
Nuove Musiche<br />
ha l’alto onore di<br />
far conoscere per<br />
prima agli italiani,<br />
attraverso le<br />
dieci esecuzioni<br />
di Roma, Napoli,<br />
Firenze, <strong>Venezia</strong>,<br />
Padova, Torino<br />
e Milano e<br />
sotto la direzione<br />
dell’autore, va<br />
considerato con somma, acuta attenzione. Esso costituisce<br />
senza dubbio una delle più audaci “tappe” della moderna storia<br />
musicale, nella quale assume un’importanza paragonabile<br />
a quella dell’avvento del cubismo nella pittura o della teoria<br />
della relatività nella scienza».<br />
Recensendo nella «Provincia di Padova» del 5-6 aprile<br />
1924 il concerto, Renzo Lorenzoni, pianista padovano allievo<br />
di Cesare Pollini, animatore della «Bartolomeo Cristofori»<br />
e docente all’Istituto Musicale, parlò di «un concerto di<br />
raro e magnifico interesse», e scrisse che «la Corporazione<br />
delle Nuove musiche che si è assunta l’elevato e difficile compito<br />
di portare alla conoscenza del pubblico italiano una delle<br />
opere più potentemente originali e demolitrici uscite dalla<br />
moderna musicalità quale il Pierrot Lunaire di Schönberg,<br />
può andare orgogliosa dei risultati del suo fervore di iniziativa<br />
e orgogliose possono pure andarne quelle società di concerto<br />
che hanno voluto offrire ai loro soci questo singolarissimo<br />
componimento di battaglia che è anche, rispetto alla coscienza<br />
del suo autore, un atto profondo di fede». ◼<br />
A sinistra: locandina della prima esecuzione del Pierrot Lunaire;<br />
a destra: Arnold Schönberg.
Leonard Cohen<br />
in una parola:<br />
«Hallelujah»<br />
Una stagione della musica sta certamente<br />
finendo, quella che negli anni sessanta<br />
e successivi aveva legato la canzone popolare<br />
a idee, poesia, creatività, impegno, un modo<br />
per allargare la mente con pochi versi, qualche melodia,<br />
nuovi suoni e strumenti e la voglia di cambiare il mondo.<br />
Oggi la canzone sembra tornata sulla strada del puro intrattenimento,<br />
la musica si costruisce in laboratorio, le macchine<br />
replicano figure ritmiche e armoniche standard e si consuma<br />
tutto piuttosto velocemente, senza soffermarsi sulla qualità,<br />
né della produzione<br />
musicale né dei suoni.<br />
Non si va troppo per il<br />
sottile. I reality producono<br />
successi improvvisi<br />
quanto effimeri, dalle<br />
voci urlate troppo uguali<br />
fra loro, la tv e le radio<br />
non osano uscire dal tranquillo<br />
trantran del già<br />
noto, continuando a replicare<br />
presenze di personaggi<br />
decotti, antichi,<br />
ma che garantiscono<br />
non tanto i facili ascolti<br />
quanto la tranquillità di<br />
chi guarda e che può sentirsi<br />
rassicurato da nomi<br />
fin troppo conosciuti.<br />
E così mentre i giovanissimi<br />
consumano mp3 come<br />
Cocacola, scaricano<br />
Pulcino Pio e danzano lo<br />
stesso ritmo meccanico<br />
riciclato con qualche coretto<br />
in più, quel che resta<br />
della generazione degli<br />
anni sessanta continua a<br />
rivolgersi alla musica della<br />
propria epoca, finché l’età non ha il sopravvento sulla vita.<br />
Leonard Cohen è uno dei punti fermi di questa generazione.<br />
Cohen è stato tra i primi a cambiare la prospettiva della<br />
canzone moderna. Non più solo futile intrattenimento ma<br />
un piano più elevato di comunicazione. Come Bob Dylan,<br />
il cantautore canadese ha trasformato in canzone la poesia.<br />
Rubo al regista e scrittore Roberto Andò una citazione: ogni<br />
vera rivoluzione politica comincia dal linguaggio, e la poesia<br />
anche se non fa accadere niente – come diceva Auden – è la<br />
lingua in cui far coincidere la passione e la verità.<br />
Se Prèvert con «Les feuilles mortes» aveva mostrato come<br />
fondere canzone e poesia, la generazione dei Cohen, dei<br />
Dylan, usa la canzone e la poesia per raccontare passione e<br />
verità. La lingua canzone cambia, smette di essere «canzonetta»,<br />
intrattenimento anche se ne usa spesso<br />
gli stilemi. E diventa una forma di divulga-<br />
zione popolare di visioni immagini sentimen-<br />
Leonard Cohen (leonardcohen.com).<br />
di Giò Alajmo<br />
Verona – Arena<br />
24 settembre, ore 20.30<br />
ti non banali, non scontati, non scritti per soddisfare i palati<br />
ma per trasferire all’esterno il proprio mondo interiore.<br />
La canzone non è poesia. Lo sappiamo. Ma la poesia nasce<br />
dalla musica e talvolta vi ritorna. La funzione della poesia di<br />
un tempo nella nostra era è stata spesso presa dalla Canzone.<br />
Cohen è un poeta, è un cantante.<br />
A settantasette anni (il 21 settembre) Leonard Cohen<br />
può permettersi di scrivere un nuovo album Old Ideas...<br />
e vederlo considerare tra i migliori del 2012. Può permettersi<br />
di dire «no, grazie» all’offerta di una laurea honoris<br />
causa da parte dell’antica Università di Gent in Belgio<br />
(«Grazie, molto carini ma non è necessario»), può<br />
permettersi di tornare ancora una volta in Italia per vedere<br />
se l’effetto splendido della sua voce bassa e dei suoi versi<br />
può vestire anche l’Arena di Verona, dove si esibirà il<br />
24 settembre, con il solito cappello, la solita folta band.<br />
Il poeta che scoprì la canzone grazie a Judy Collins se n’è<br />
innamorato al punto da non riuscire a smettere: «Scrivo in<br />
continuazione. E man mano che le canzoni cominciano ad<br />
aggregarsi, io non faccio altro che continuare a scrivere. Vorrei<br />
essere una di quelle persone che scrivono canzoni velocemente.<br />
Ma non lo sono. Così mi ci vuole un sacco di tempo<br />
per scoprire cosa sia una canzone», ha raccontato a «The<br />
Athlantic».<br />
Il piacere di bere un buon vino nel bicchiere giusto alla<br />
giusta temperatura e in buona compagnia è forse la metafora<br />
migliore per tradurre un suo concerto. Per fortuna<br />
la sua generazione, quella della parola che diverte facendoti<br />
pensare, è ancora attiva a dispetto del tempo che passa.<br />
Una volta Cohen scrisse: «Vorrei dire tutto ciò che c’è<br />
da dire in una sola parola. Odio quanto possa<br />
succedere tra l’inizio e la fine di una frase».<br />
Ma c’è una parola che raccoglie tutto, il titolo<br />
di una sua canzone fra le più famose: «Hallelujah!»<br />
◼<br />
l’altra musica 43
44<br />
l’altra musica<br />
I Radiohead approdano<br />
a Villa Manin<br />
Atteso a Udine il concerto<br />
della band di Thom Yorke<br />
È<br />
uno dei gruppi più antisistema in circolazione.<br />
Poco amanti delle luci della ribalta, dei meccanismi<br />
del mondo delle major musicali, delle ovvietà. Sono<br />
stati tra i più bravi a dare voce al malessere esistenziale<br />
della generazione cresciuta tra gli anni<br />
novanta e il primo decennio del duemila. Sono<br />
quelli che hanno raccolto la rabbia degli ultimi<br />
punk, che hanno salvato ciò che c’era da salvare<br />
del grunge, e che oggi si riaffacciano sulla scena<br />
musicale in un’epoca che sembra fatta apposta<br />
di Giuliano Gargano<br />
per fare crescere di nuovo la pianta del malessere e della disillusione.<br />
I Radiohead, gruppo inglese nato a cavallo tra la fine<br />
degli anni ottanta e l’inizio dei novanta e formato da Thom<br />
Yorke, Jonny Greenwood, Ed O’Brien, Colin Greenwood e<br />
Phil Selway, muove con relativa facilità i primi passi. Già alla<br />
fine del 1991 la Emi mette la band sotto contratto. Le prime<br />
prove non sono però esaltanti, fino al settembre del 1992,<br />
quando viene pubblicato il singolo Creep. È un successo planetario,<br />
che esplode per primo negli Stati Uniti e poi rimbalza<br />
nel Vecchio Continente (all’inizio la radio inglese bbc1<br />
aveva deciso di non trasmetterla, perché ritenuta troppo deprimente).<br />
È l’inno di una generazione disperata, perduta,<br />
indolente, che non vede un futuro davanti a sé. La canzone<br />
diventa croce e delizia dei Radiohead: il brano più richiesto,<br />
l’esibizione che non può mancare durante i concerti. L’idiosincrasia<br />
del quintetto inglese per il successo facile e per l’isteria<br />
collettiva provocata da quella canzone li spinge a non<br />
eseguirla più nei loro concerti. Una decisione che perdura,<br />
Codroipo (Ud)<br />
Villa Manin<br />
26 settembre, ore 21.30<br />
con rarissime eccezioni, ancora oggi. In verità né l’album che<br />
contiene «Creep», Pablo Honey, né il successivo, The Bends,<br />
riscuotono lo stesso successo di quella sola canzone. La<br />
pressione sul gruppo è molto forte, e anche l’idea che si possa<br />
trattare di una one-hit-band complica le cose. Tutte le difficoltà<br />
e le perplessità vengono spazzate dalla pubblicazione<br />
di Ok Computer (1997), forse la loro opera migliore. Disco<br />
onirico, visionario, psichedelico, proiettato – già dal titolo<br />
– in un futuro fantascientifico pregno di alienazione e paranoia.<br />
Il sentimento anti-commerciale è alimentato dalla scelta<br />
– in opposizione all’etichetta discografica – del singolo<br />
da estrarre, la suite «Paranoid Android», lunga sette minuti.<br />
Ma sono soprattutto «Karma Police» e «No Surprises»<br />
a consacrare i Radiohead. La vena malinconica del gruppo è<br />
ai massimi livelli, i testi e le melodie sono intrisi<br />
di spleen di baudelariana memoria. L’intero al-<br />
bum è una summa dei temi cari alla band inglese,<br />
e a distanza di anni mantiene inalterata la sua<br />
ipnotica bellezza. Seguono anni di sperimentazione,<br />
in coerenza con il disprezzo del successo<br />
facile. Kid A (2000)<br />
e Amnesiac (2001) rappresentano<br />
le due facce<br />
di una stessa medaglia.<br />
Il primo è una raccolta<br />
di idee musicali, nelle<br />
quali quasi sparisce l’apporto<br />
umano (la voce di<br />
Thom Yorke è fortemente<br />
campionata e distorta),<br />
il secondo recupera<br />
invece l’aspetto melodico<br />
e cantato. Si arriva<br />
al 2003 e a Hail To The<br />
Thief, che segna un ritorno<br />
a sonorità già sperimentate<br />
in Ok Computer.<br />
L’album del 2007 –<br />
In Rainbows – resta negli<br />
annali soprattutto<br />
per le modalità di distribuzione:<br />
i Radiohead<br />
decidono di metterlo<br />
in vendita on-line. Il<br />
prezzo? Lo decidono gli<br />
acquirenti. Abile mossa<br />
pubblicitaria o reale voglia<br />
di andare controcorrente?<br />
La risposta la conoscono<br />
solo loro, visto che non sono mai stati diffusi i dati<br />
sugli incassi. Siamo ai giorni nostri. Gli Stati Uniti e tutto<br />
il mondo vivono ancora sotto l’ombra dell’attentato dell’11<br />
settembre 2001. Il primo decennio del nuovo millennio vive<br />
sotto questa cappa opprimente. E in due virulente tornate,<br />
la crisi economica tocca tutto l’Occidente. Terreno fertile<br />
per i Radiohead, che avrebbero l’occasione di insistere sulla<br />
precarietà di quest’epoca. Ma The King of Limbs (2011)<br />
spiazza ancora: disco compatto (trentasette minuti) e complesso,<br />
sembra destinato a restringere ulteriormente lo spazio<br />
dedicato alle concessioni commerciali. La scelta alternativa<br />
dei Radiohead, sempre più spinta verso la sperimentazione e<br />
la fruizione di nicchia, se da una parte li allontana inesorabilmente<br />
dal grande pubblico, dall’altra li proietta in una dimensione<br />
che supera l’ambito prettamente musicale e li rende<br />
testimoni del nostro tempo. ◼<br />
Radiohead, prove prima di un concerto (radiohead.com).
Nina Zilli, l’anima soul<br />
della musica italiana<br />
In un mercato discografico dominato da una<br />
parte da dinosauri che continuano imperterriti a vendere<br />
sempre gli stessi dischi ormai da tempi immemori<br />
e dall’altra da artisti usciti e costruiti dai talent show,<br />
che di solito durano una stagione o poco più, la presenza di<br />
Nina Zilli è la conferma che ancora si può riuscire a conquistare<br />
un proprio pubblico facendo un percorso<br />
artistico canonico, fatto di studi, esperienze la-<br />
vorative diverse e tanta gavetta. Sacrifici che ha<br />
imparato a fare sin da piccola, spedita a dieci anni<br />
da una mamma coraggiosa e lungimirante a<br />
studiare l’inglese in Irlanda. Lasciata la provincia<br />
piacentina dove era nata, si ritrova a vivere<br />
con una coppia di arzilli signori a Killala, piccola città del<br />
freddo nord ovest. Sarà un caso ma lì il primo film che vede<br />
è The Commitments!, la geniale pellicola di Alan Parker che<br />
narra le vicende della nascita di un gruppo soul in una Dublino<br />
divisa tra il profondo legame con la tradizione musicale<br />
dei Chieftains o dei Dubliners e il rock dei Thin Lizzy o<br />
degli U2. Tornata in Italia giusto il tempo di finire le scuole<br />
superiori, comincia un viaggio di due anni tra le capitali<br />
della musica americana, Chicago e New York, dove prende<br />
contatto con la cultura jazz e soul, che forma in maniera<br />
forte i suoi gusti musicali. La parte tecnica la apprende attraverso<br />
studi di pianoforte, che abbandona poco prima del<br />
diploma, e di canto lirico, che lascia per un’evidente maggior<br />
attrazione per altri generi. Inizia così la sua attività nel<br />
mondo dello spettacolo, non direttamente come cantante<br />
ma bensì come vee-jay per mtv. Il debutto discografico avviene<br />
nel 2001 con il gruppo Chiara e Gli Scuri, con il quale<br />
abbraccia uno dei generi che maggiormente ama, il rockste-<br />
Nina Zilli.<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
Verona<br />
Teatro Romano<br />
7 settembre, ore 20.30<br />
ady: si tratta di un genere musicale di provenienza giamaicana,<br />
nato ancor prima del reggae come versione rallentata dello<br />
Ska. Collabora con artisti legati alla scena filo-giamaicana<br />
come Africa Unite e Franziska, con i quali intraprende un<br />
tour europeo. Se però finora è per tutti ancora Maria Chiara<br />
Fraschetta, diventerà ben presto Nina Zilli, concentrando<br />
in questo nome d’arte una delle sue cantanti preferite, Nina<br />
Simone, e il cognome da nubile di sua madre. L’omonimo<br />
ep di sei brani, fra i quali una cover in italiano di un successo<br />
delle Supremes («You Can’t Hurry Love», che nella versione<br />
italiana diventa «L’amore verrà»), definisce il suono e<br />
l’immagine della cantautrice piacentina, che mescola il soul<br />
degli anni cinquanta e sessanta a un’eleganza melodica italiana<br />
che guarda molto a Mina (tanto da venire<br />
soprannominata Mina Zilli) e si esprime visi-<br />
vamente con una profonda sensualità e un gusto<br />
per l’immagine immerso nel vintage. La canzone<br />
che la fa notare è «50mila», brano nostalgicamente<br />
sixties, registrato con Giuliano Palma:<br />
il regista Fernan Ozpetek, sempre molto attento<br />
nella scelta delle colonne sonore dei suoi lavori, si innamora<br />
del brano e lo sceglie per il film Mine Vaganti del 2010. Il primo<br />
disco, Sempre Lontano, porta Nina al suo primo Festival<br />
di Sanremo con «L’uomo che amava le donne», che le vale<br />
il Premio della Critica e della Sala stampa. Da qui in poi sarà<br />
un lungo susseguirsi di concerti in tutta Italia, premi e partecipazioni<br />
a manifestazioni nazionali di rilievo, come il concerto<br />
del primo maggio del 2010. Nel 2012 è pronta a pubblicare<br />
un nuovo disco dal titolo L’amore è Femmina, non<br />
prima però di partecipare nuovamente a Sanremo con «Per<br />
sempre», un lento che prende spunto dalla tradizione musicale<br />
italiana degli anni sessanta, soprattutto per le atmosfere<br />
sonore che richiamano ancora una volta Mina. «L’amore<br />
è femmina tour» è partito lo scorso aprile e continua ormai<br />
da mesi a girare per tutta Italia: passerà al Teatro Romano di<br />
Verona il 7 settembre nell’ambito di «Venerazioni», festival<br />
musicale tutto al femminile, che ospiterà anche Sarah Jane<br />
Morris, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, e Giorgia, che si<br />
esibirà all’Arena. E chissà che un giorno in Arena non ci sia<br />
spazio anche per Nina Zilli. ◼<br />
l’altra musica 45
46<br />
l’altra musica<br />
Vinicio Capossela<br />
al Teatro Verde<br />
per Live in Venice<br />
Si conclude un’estate<br />
di grandi artisti a San Giorgio<br />
qualche anno eravamo alla ricerca del luogo migliore per accoglierli.<br />
Del Teatro Verde avevamo avuto notizie anche da<br />
Fran Tomasi, e abbiamo così deciso di inviare una lettera di<br />
presentazione della nostra agenzia alla Fondazione Giorgio<br />
Cini, nella quale abbiamo trovato un interlocutore curioso<br />
e disponibile. Il programma di luglio ha avuto una gestazione<br />
piuttosto veloce, che s’è svolta tra aprile e maggio con l’intenzione<br />
di dare alla luce un progetto pilota che ci consentisse<br />
di mettere a fuoco alcune questioni, non da ultima la bontà<br />
del luogo scelto. Da più parti ci erano infatti giunte voci<br />
che descrivevano il Teatro Verde come un posto bellissimo<br />
ma un po’ isolato. La cautela è stata molta, e alla fine abbiamo<br />
però potuto constatare che se le proposte sono interessanti<br />
e ben curate il buon risultato è garantito. Per accogliere<br />
al meglio il nostro pubblico, abbiamo anche pensato all’allestimento<br />
di un’area relax dotata<br />
di servizio di ristorazione dove po-<br />
di Ilaria Pellanda<br />
grande attesa per l’arrivo in laguna di<br />
Vinicio Capossela, che il 7 settembre presenterà<br />
le sue «Bal- C’è<br />
late nella barena.<br />
Ombre, oriente e caìgo», progetto<br />
speciale che il noto cantautore<br />
e polistrumentista italiano – nato<br />
in Germania da genitori di ori-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Verde<br />
(Isola di San Giorgio Maggiore)<br />
gine irpina – dedicherà alla Vene-<br />
7 settembre, ore 21.00<br />
zia porta d’oriente, città magica «Ballate nella barena. Ombre, oriente e caìgo»<br />
e specchiante dove le suggestioni<br />
dell’altrove trasfigurano nelle ombre<br />
e nei veli del «caìgo» (che in<br />
veneziano sta a indicare la nebbia).<br />
Si tratta del quarto concerto –<br />
dopo i tre che si sono svolti lo scorso<br />
luglio – che la<br />
Vinicio Capossela voce, piano, chitarra<br />
Alessandro Stefana chitarre, banjo, armonio<br />
Vincenzo Vasi theremin, campionatori, voce<br />
Dimitri Sillato violino<br />
Glauco Zuppiroli contrabbasso<br />
Ponderosa Music<br />
& Arts di Titti<br />
Santini, in collaborazione<br />
con<br />
la Fondazione<br />
Giorgio Cini, ha<br />
in programma<br />
per la prima edizione<br />
di L.i.Ve.<br />
(Live in Venice),<br />
rassegna di<br />
eventi in musica<br />
ambientati nella<br />
cornice unica<br />
e suggestiva del<br />
Teatro Verde,<br />
nel cuore dell’Isola<br />
di San Giorgio<br />
Maggiore.<br />
«La Ponderosa<br />
è specializzata<br />
nella progettazione<br />
e organizzazione<br />
di rassegne<br />
e concerti<br />
di musica jazz,<br />
world music e<br />
musica d’autoreinternazionale»,<br />
ci ha spiegato<br />
Santini, «e<br />
anche per questo<br />
abbiamo pensato<br />
che <strong>Venezia</strong><br />
fosse la cornice<br />
1. 2.<br />
ideale per i nostri<br />
eventi. Da<br />
3.<br />
ter attendere l’inizio dei concerti<br />
fra le note di alcuni dj-set. Gli appuntamenti<br />
di luglio, per i quali<br />
abbiamo riscontrato molta curiosità<br />
e interesse non solo da parte<br />
dei veneziani ma anche dei turisti,<br />
hanno voluto mettere assieme tre<br />
tipi di pubblici diversi, per cercare<br />
così di capire che tipo di attrattiva<br />
avrebbe potuto esercitare l’isola<br />
veneziana. L’ultimo dei tre concerti,<br />
quello dei Blonde Redhead,
ha visto coinvolto un pubblico più giovane rispetto a quello<br />
presente alla data di Ludovico Einaudi e Paolo Fresu e a quella<br />
di Rufus Wainwright. Le risposte ai tre eventi sono state<br />
tutte positive».<br />
La prima parte della rassegna L.i.Ve. si è dunque aperta il<br />
18 luglio con il concerto di Ludovico Einaudi e Paolo Fresu,<br />
appuntamento che, a cinque anni di distanza dalla prima<br />
estemporanea e applauditissima apparizione all’Audito-<br />
rium di Roma (era l’aprile<br />
del 2006), ha proposto ancora<br />
una volta il connubio<br />
tra questi due protagonisti<br />
della nostra musica, che al<br />
Verde hanno fatto il tutto<br />
esaurito.<br />
Anche la serata dedicata<br />
a Rufus Wainwright il<br />
20 dello stesso mese – unica<br />
data italiana – ha potuto<br />
contare su un notevole<br />
afflusso di spettatori, accorsi<br />
ad ascoltare le note del<br />
suo settimo album in studio,<br />
Out of the Game, lavoro<br />
prodotto da Mark Ronson,<br />
conosciuto per le sue<br />
collaborazioni con artisti<br />
del calibro di Amy Winehouse,<br />
Adele e Christina<br />
Aguilera. I risultati di<br />
quest’ultimo album portano<br />
a una musica più accessibile<br />
rispetto a precedenti<br />
produzioni della carriera<br />
di Wainwright, mantenendo<br />
comunque inalterato il<br />
suo spiccato senso narrativo<br />
e ironico.<br />
Il 21 luglio è stata la volta<br />
dei Blonde Redhead, attesissimi<br />
dal pubblico più<br />
giovane, come ci ha confermato<br />
poche righe fa lo stesso<br />
Santini. Penny Sparkle,<br />
ultimo cd in studio, propone<br />
un’ulteriore inversione<br />
sonora nel loro già intricato<br />
percorso artistico, una<br />
sorta di chiusura di quel<br />
cerchio tracciato a partire<br />
da Misery Is a Butterfly (sesto<br />
album della band, pubblicato<br />
nel 2004) e consistente<br />
nell’oramai definitivo<br />
assestamento del gruppo<br />
americano su sonorità<br />
di un pop elettronico liquido ed etereo.<br />
L’appuntamento è ora con la seconda parte della rassegna,<br />
che il 7 settembre – così si scriveva in apertura di articolo –<br />
vedrà approdare Vinicio Capossela nelle magiche atmosfere<br />
4.<br />
1. Teatro Verde (Isola di San Giorgio Maggiore, <strong>Venezia</strong>);<br />
2. Rufus Wainwright (rufuswainwright.com);<br />
3. Blonde Redhead (blonde-redhead.com).<br />
4. Vinicio Capossela in concerto (viniciocapossela.it);<br />
5. Stefano Bollani (foto di Riccardo Sgualdini);<br />
6. Paolo Fresu (paolofresu.it).<br />
del Teatro Verde: nell’anfiteatro che più accoglie le istanze<br />
della laguna, di fronte ai terreni tabulari delle barene che ora<br />
appaiono e ora scompaiono, Capossela allestirà il suo ennesimo<br />
incanto. Un programma di ballate e canzoni, madrigali<br />
di porto e di bàcaro, distillati di melodie ottomane, armene,<br />
bizantine; e poi ancora la morna e i bolero riportati dalla<br />
risacca, gli inni dei marinai del grande mare salato. Durante<br />
la Mostra del Cinema (dal 29 agosto all’8 settembre, cfr.<br />
5. 6.<br />
vmed n. 47, pp. 60-61) verrà inoltre presentato il docu-film<br />
di Andrea Segre (il cui lungometraggio Io sono Li, presentato<br />
alla scorsa edizione del festival veneziano dedicato alla<br />
settima arte, continua a ricevere importanti riconoscimenti<br />
ed è stato scelto tra i tre finalisti del Premio lux del Parlamento<br />
Europeo), pellicola prodotta da Jole Film che narrerà<br />
il viaggio di Vinicio in una Grecia martoriata dalla crisi<br />
economica mondiale e alla quale Capossela ha dedicato il<br />
suo Rebetiko Gymnastas, disco che, uscito lo scorso giugno,<br />
è più di un omaggio a quella terra che «ha donato al mondo<br />
la civiltà». ◼<br />
l’altra musica 47
<strong>48</strong><br />
l’altra musica<br />
Slash:<br />
un nuovo progetto<br />
e un po’<br />
di Guns N’ Roses<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
Qualche anno fa, nella sua autobiografia, ha<br />
candidamente ammesso di averlo rubato. Non<br />
per un impulso clepto-maniacale ma solo perché<br />
gli sembrava perfetto per<br />
quello che aveva in mente. In<br />
un negozio qualsiasi di Los Angeles, l’ha visto<br />
addosso a un manichino, l’ha sfilato ed è<br />
uscito. Da quel giorno, con quel cilindro alla<br />
Mandrake e i riccioli neri a nascondergli il viso,<br />
è diventato Slash, il chitarrista più famoso<br />
degli anni novanta, il guitar hero che ha suonato<br />
con Lenny Kravitz, Iggy Pop e Michael Jackson, tanto<br />
per citarne qualcuno, lui che con un gruppo chiamato The<br />
Cospirators, guidato dal cantante Gibson Les Paul, è diventato<br />
protagonista di un vendutissimo videogioco. Oggi si<br />
presenta con Myles Kennedy alla voce in un tour<br />
mondiale che toccherà Padova il 26 ottobre.<br />
Con questa formazione ha da poco pubblicato<br />
anche l’album Apocalyptic love:<br />
tredici pezzi di puro hard rock che poco<br />
si allontanano da quel suono che lo<br />
ha portato a un livello di celebrità planetaria<br />
con i Guns N’ Roses. Non si può<br />
scindere Slash dalla band che ha segnato<br />
in maniera così decisa la storia della<br />
musica, dei concerti e dell’industria<br />
discografica tra la fine<br />
degli anni ottanta e la metà<br />
degli anni novanta. L’arrivo<br />
di Saul Hudson (questo il<br />
suo vero nome) nei Guns N’<br />
Roses passa attraverso una<br />
breve permanenza nei Road<br />
Crew di Steven Adler,<br />
con i quali aveva militato<br />
anche il bassista Duff<br />
McKagan. Come spesso<br />
accade in questi casi,<br />
per una fortuita serie<br />
di coincidenze nel giro<br />
di pochi mesi si ritrovano<br />
a suonare con Izzy<br />
Stradlin e Axl Roses,<br />
il fondatore dei Guns<br />
N’ Roses. Messi sotto<br />
contratto da una<br />
casa discografica e<br />
con un produttore<br />
di livello, nel 1987<br />
viene alla luce Appetite<br />
for Destruction<br />
e inizia così la<br />
velocissima ascesa<br />
dei Guns N’ Roses<br />
nell’olimpo del<br />
rock. Sono gli an-<br />
Padova<br />
Gran Teatro Geox<br />
26 ottobre, ore 21.00<br />
ni in cui il successo è decretato dai passaggi video su mtv, e<br />
l’immagine del gruppo passa attraverso i video di Welcome<br />
to the Jungle, Paradise City e Sweet Child O’Mine. I Guns N’<br />
Roses diventano il nutrimento musicale delle trasgressioni<br />
adolescenziali di quegli anni. L’anno successivo esce G N’ R<br />
Lies, disco che contiene materiale di poca qualità, scritto precedentemente<br />
al primo album, fatta eccezione per la ballata<br />
acustica «Patience». L’apice arriva nel 1991 con l’uscita di<br />
Use Your Illusion i e ii, due dischi venduti separatamente ma<br />
uniti dai contenuti e dalla grafica di copertina: il numero di<br />
copie vendute è enorme, anche grazie a una promozione che<br />
investe fiumi di denaro. Il video November Rain, con i suoi<br />
otto minuti conditi da un lunghissimo assolo, ancora oggi<br />
rimane uno dei più costosi della storia. L’estenuante «Use<br />
Your Illusion Tour» durò ben tre anni, toccando<br />
ogni angolo del globo a dimostrazione<br />
della popolarità che i Guns avevano raggiun-<br />
to in quegli anni. Terminata la tournée, inizia<br />
anche l’inesorabile declino: i continui problemi<br />
dei vari membri con l’eroina e l’alcol e<br />
le innumerevoli intemperanze di Axl avevano<br />
minato il già fragile equilibrio all’interno del<br />
gruppo. La pubblicazione dell’album di cover The Spaghetti<br />
Incident segna la fine dell’epopea dei Guns N’ Roses, benché<br />
negli anni a venire Axl Roses abbia provato più volte a rimettere<br />
insieme la band con altri musicisti.<br />
Slash è ora libero di seguire i propri<br />
progetti musicali: il primo a nascere<br />
è il gruppo Slash’s Snakepit, con<br />
cui pubblica due album: It’s Five<br />
O’Clock Somewhere del ’95<br />
e Ain’t Life Grand del 2000.<br />
Poi è la volta dei Velvet Revolver,<br />
in cui convogliano parte<br />
dei Guns e che per iniziare incidono<br />
una cover di «Money» dei<br />
Pink Floyd: con loro Slash pubblica<br />
l’album Libertad, nel 2007.<br />
Londinese di nascita ma cresciuto a Los<br />
Angeles, si è guadagnato il denaro per la<br />
sua prima chitarra partecipando e vincendo<br />
numerose gare di bmx, ma c’è da dire<br />
che ha bazzicato l’ambiente dello<br />
show business sin da piccolo: il padre<br />
era un grafico e aveva disegnato<br />
copertine di dischi per artisti come<br />
Neil Young e Joni Mitchell, mentre<br />
la madre era una delle stiliste preferite<br />
da David Bowie. Capitava<br />
a volte che Pamela<br />
Courson, modella e<br />
amica della madre,<br />
facesse da babysitter<br />
al piccolo Saul.<br />
Pamela, Pam, era<br />
la compagna di un<br />
certo di Jim Morrison<br />
e fu proprio lei a<br />
trovare il Re Lucertola<br />
morto nella vasca<br />
da bagno del loro<br />
appartamento di<br />
Parigi il 3 luglio del<br />
1971. Ma questa è<br />
un’altra storia. ◼<br />
Slash (slashonline.com).
Herbie Hancock<br />
in piano solo<br />
di Guido Michelone<br />
Sarà forse un’occasione irripetibile poter<br />
ascoltare, il 23 ottobre al Teatro Comunale Giuseppe<br />
Verdi di Pordenone, il pianista Herbie<br />
Hancock, in solo e dal vivo: il gran-<br />
dissimo jazzman, settantaduenne chicagoano,<br />
da annoverare nel Pantheon del sound afroamericano,<br />
è solito cimentarsi alla tastiera da circa<br />
mezzo secolo in qua, passando dallo Steinway<br />
grancoda ai marchingegni elettronici, privilegiando<br />
soprattutto i piccoli ensembles, dal duo<br />
al sestetto.<br />
Negli ultimi tempi, poi, ogni concerto di Hancock è l’occasione<br />
per ascoltare quel jazz neomoderno (ma anche postmoderno,<br />
come egli stesso contribuisce a divulgarlo fin dagli<br />
anni ottanta) che lo vede protagonista accanto ai più bei<br />
nomi dello scenario artistico-musicale.<br />
A comprendere<br />
il valore di Herbie compositore,<br />
a soli ventidue anni, è<br />
anzitutto il cubano Mongo<br />
Santamaria, che popolarizza<br />
in tutto il mondo il brano<br />
«Watermelon Man»,<br />
un ballabile esempio di souljazz;<br />
altrettanto farà il regista<br />
Michelangelo Antonioni,<br />
che, un lustro dopo, gli<br />
affida la colonna sonora (ancora<br />
soul-jazz) di Blow Up,<br />
film-culto di un’intera generazione<br />
e simbolo della<br />
swingin’ London.<br />
Ma a valorizzarne il genio<br />
pianistico è il divino Miles<br />
Davis, che lo vuole nel suo<br />
quintetto accanto a Wayne<br />
Shorter, Ron Carter, Tony<br />
Williams, dal 1964 al 1969,<br />
in quella che resta la formazione<br />
più compatta, prolifica,<br />
inventiva non solo del geniale<br />
trombettista ma forse<br />
dell’intera storia dei piccoli<br />
gruppi. Negli anni di Davis,<br />
Hancock ha pure la chance<br />
di firmare da solista album<br />
sopraffini come Mayden<br />
Voyage e Speak Like a Child,<br />
che lo consacrano jazzista assai<br />
originale, in grado di assimilare<br />
e fondere il modale,<br />
il free e l’hard-bop con sicura<br />
padronanza ed elegante<br />
sperimentalismo, che rimarranno<br />
un po’ le due costanti<br />
del suo linguaggio stilistico,<br />
non senza però qualche<br />
strizzatina d’occhio allo<br />
show business (fedele, in<br />
Herbie Hancock.<br />
Pordenone<br />
Teatro Comunale<br />
Giuseppe Verdi<br />
23 ottobre, ore 20.30<br />
questo, a tutta la storia del jazz prima del bebop).<br />
Con la svolta rock di Miles, anche Herbie si adegua, non solo<br />
formando band che portano spesso i nomi degli album incisi<br />
(Mwandishi e Head Hunters) per un jazz elettrico funkeggiante,<br />
ma arrivando persino a scalare le classifiche del<br />
pop con «Rockit», vera e propria hit contenuta nell’album<br />
Future Shock, dall’accattivante ritmo techno accompagnato<br />
da un fortunatissimo videoclip ipertecnologico. In Hancock<br />
la qualità maggiore resta però quella imprevedibile<br />
di stupire ogni volta il pubblico, ragion per<br />
cui mentre tutti si aspettano il bis nel pop, ecco<br />
l’artista ribadire la vena di jazzista puro, peraltro<br />
già anticipata dal progetto di The v.s.o.p. Quintet,<br />
in pratica il gruppo modale di Davis senza<br />
Miles, all’epoca gravemente malato.<br />
Herbie insomma, allineandosi a giovani come<br />
Wynton Marsalis, riprende la bella forma del modernjazz,<br />
sia pur aggiornandola continuamente, ad esempio accettando<br />
il «gioco», come ai tempi del ragtime, di una sfida<br />
a due, fra lui e Chick Corea, altro eccellente pianista davisiano.<br />
E a proiettare ulteriormente Hancock nell’Olimpo musicale<br />
c’è anche il cinema:<br />
la colonna sonora che firma<br />
per il lungometraggio<br />
Round Midnight di Bertrand<br />
Tavernier è un affettuoso<br />
omaggio al Blue Note<br />
Style e all’aureo mainstream<br />
che venti-trent’anni<br />
prima mette d’accordo<br />
tutti, dal revival al pre-free.<br />
Ecco quindi la musica di<br />
Hancock scorrere piacevolmente<br />
tra sempre nuovi<br />
progetti – Village Life con<br />
l’africano Foday Musa Suso<br />
è world music in netto<br />
anticipo – che mantengono<br />
una sorta di vivace dialettica<br />
tra passato e presente,<br />
attualità e futuro, ricerca<br />
e tradizione, come si<br />
evince dall’ascolto dei dischi<br />
dell’ultimo ventennio,<br />
The New Standards,<br />
Gershwin World, Future 2<br />
Future e Directions in Music,<br />
benché i più riusciti siano<br />
da un lato 1+1, negli<br />
intensi duetti con Shorter,<br />
e dall’altro River: The Joni<br />
Letters, un sincero tributo<br />
alla cantautrice Joni<br />
Mitchell. Dice Hancock:<br />
«È utopia pensare che un<br />
problema sparisca? No: è<br />
utopia pensare che sparisca<br />
senza il nostro impegno.<br />
Ci sono un sacco di cose<br />
che dobbiamo sviluppare:<br />
la compassione, il coraggio,<br />
la saggezza. E il senso di responsabilità.<br />
Ma la parola<br />
che racchiude tutto questo<br />
è: umanità. Bisogna essere<br />
più umani. Più veri». ◼<br />
l’altra musica 49
50<br />
l’altra musica<br />
«E noi faremo<br />
come la Russia…»<br />
La canzone comunista<br />
di Gualtiero Bertelli<br />
Affrontando l’ultimo dei grandi repertori<br />
della canzone politica in Italia, quello comunista,<br />
viene spontaneo chiedersi: «Ma quanto “fastidio”<br />
potevano dare queste canzoni a un potere che di<br />
fatto gestiva tutto con la selezione dell’elettorato, con il controllo<br />
di ogni fonte di produzione, con l’esercito sempre all’erta.<br />
Come potevano far breccia su un popolo tenuto nell’ignoranza<br />
da un sistema agrario e capitalistico tra i più arretrati<br />
d’Europa e dalla connivenza della Chiesa?»<br />
Nel 1963 Michele L. Straniero e Sergio Liberovici furono<br />
denunciati assieme all’editore Einaudi per aver pubblicato un<br />
libro di Canti della Nuova Resistenza Spagnola, cioè canti nati<br />
in clandestinità durante il lungo periodo della dittatura franchista.<br />
L’accusa: offesa a capo di Stato straniero. Il feroce dittatore<br />
Franco! Nel 1964 poi lo stesso Straniero fu denunciato<br />
per aver cantato al festival di Spoleto una strofa «proibita»<br />
del canto «Gorizia» nato nelle trincee della prima guerra<br />
mondiale. Offesa alle forze armate! Entrambi i casi, dopo<br />
anni, si risolsero in altrettante assoluzioni, ma ci confermano<br />
che anche in un’Italia percorsa dal miracolo economico, ai<br />
primi passi tra i Paesi democratici, la canzone politica, con il<br />
suo linguaggio semplice e diretto, faceva paura. Eppure tutti<br />
gli organi d’informazione, escluso qualche giornale, suonavano<br />
all’unisono il canto del potere.<br />
«Ignoranti, senza scuole, / calpestati dai padron / eravam<br />
la plebe della terra / in risaia come in una prigion.<br />
/ … / Ma i nemici hanno armi / di menzogna<br />
e corruzion: / han giornali, cinema e la<br />
radio / che difendono i profitti dei padron. /<br />
Ma noi donne è un gran faro / che c’illumina<br />
il cammin…»<br />
Così cantavano le mondine all’inizio degli<br />
anni cinquanta; la Repubblica Italiana, nata<br />
dalle ceneri del fascismo, faceva fatica a rispettare<br />
la Costituzione che si era data, ricorrendo<br />
spesso a metodi largamente sperimentati dal<br />
vecchio regime per mettere a tacere il dissenso.<br />
Sono di quegli anni le grandi lotte per il lavoro<br />
e per la riforma agraria che insanguinarono le<br />
piazze e le contrade del nostro Paese.<br />
«Sul muro di casa mia / una pece nera non<br />
vuole sparir. / Scrive la traccia sicura / di un grido strozzato<br />
che non sa morire. / Con mano ferma decisa / è scolpito da<br />
anni padrone assassino, / la tua forza è l’inganno / la Breda ci<br />
insegna che deve finir».<br />
Nel 1954 l’occupazione della fabbrica Breda di Portomarghera<br />
diede vita a una serie di scontri che culminarono in una<br />
manifestazione durante la quale la polizia sparò sul corteo degli<br />
operai ferendone uno in maniera molto grave. Gli operai si<br />
riversarono in piazza San Marco, guidati dal sindaco comunista<br />
Gianquinto, che reggeva la camicia insanguinata del ferito,<br />
e dai principali dirigenti dei partiti della sinistra. Nella nostra<br />
città la memoria di quei fatti ha scavato un solco indelebile.<br />
Con i versi sopra riportati l’ho ricordata vent’anni dopo:<br />
la scritta nera era ancora ben leggibile su un muro della Giudecca:<br />
l’hanno definitivamente cancellata i restauri di questi<br />
ultimi anni.<br />
«Che cosa fa quel Mario Scelba / con la sua celere questura /<br />
ma i comunisti non han paura / difenderanno la libertà /…».<br />
Il ministro degli Interni Scelba fu il simbolo di questo periodo<br />
di violenza e repressione. Il battaglione Celere da lui istituito<br />
fu attore principale di numerosi scontri, ma la manovra<br />
certamente più diretta e, dal suo punto di vista, più efficace fu<br />
l’allontanamento degli iscritti alla cgil da tutti i luoghi che<br />
potessero avere un qualche interesse strategico per quella che<br />
fu denominata «guerra fredda». Sempre a <strong>Venezia</strong> duecento<br />
«arsenalotti» furono repentinamente licenziati; tra que-<br />
1. 2. 3. 4.<br />
sti anche mio padre. Fu riconosciuta la persecuzione politica<br />
vent’anni dopo.<br />
Se tutto ciò accadeva nella Repubblica fondata sul lavoro, è<br />
facile intuire quale fosse il clima nel momento in cui il fascismo<br />
stava prendendo il potere e nasceva il Partito Comunista<br />
d’Italia.<br />
«Fascisti e comunisti giocavano a scopone / ma vinsero i fascisti<br />
con l’asso di bastone…».<br />
«Sapete chi ha incendiato la camera del lavoro?<br />
/ Chiedetelo ai fascisti ve lo diranno<br />
loro…»<br />
Non fa neanche tempo a nascere il Partito<br />
Comunista che lo scontro con i fascisti diventa<br />
diretto e totale, non solo nelle canzoni.<br />
Il legame con il canto anarchico e socialista risulta<br />
subito evidente, ma il linguaggio è più diretto<br />
e la prospettiva rivoluzionaria sempre più<br />
spesso evocata. Inoltre, man mano che il potere<br />
fascista si rafforza e il quadro internazionale<br />
si chiarisce, la scelta di campo filo-sovietica si<br />
fa più esplicita e viene sempre più spesso invocata<br />
nei canti.
Questo si verificò già all’indomani della vittoria<br />
dei Soviet.<br />
Sempre le mondine, punta di diamante del<br />
movimento bracciantile, nel 1921, a conclusione<br />
della lunga battaglia per le otto ore,<br />
cantavano:<br />
«Se otto ore vi sembran poche / provate voi<br />
a lavorar / e proverete la differenza / di lavorare<br />
e di comandar. / E noi faremo come la Russia<br />
/ chi non lavora non mangerà /e quei vigliacchi<br />
di quei signori / dovranno loro lavorar».<br />
Speranze come quelle evocate dal canto compariranno per<br />
molti anni nell’innodia comunista, almeno fino a quando il<br />
pci non incomincerà a prendere le distanze da Mosca.<br />
La minaccia bolscevica nelle mani della propaganda fascista<br />
diventa un’efficace arma di propaganda, e le canzoni, spesso<br />
tratte dall’avanspettacolo o dalle riviste, danno voce a que-<br />
sta propaganda. Nel ‘28 per esempio si attribuisce al bolscevismo<br />
ogni aspirazione delle donne alla loro emancipazione:<br />
«Il bolscevismo la donna l’applica / ma vuol mangiar, vestir,<br />
goder / e lavorar non ne vuol saper / Il bacio che ti dà ben caro<br />
fa pagar / tutto per essa e niente a te / questo è l’effetto che<br />
fa il soviet».<br />
Quando poi i nostri esuli politici incominceranno a riparare<br />
all’estero, in particolare in Francia, ancora la canzone di regime<br />
ne darà un’immagine fosca e terrorizzante:<br />
«Lungi dal confini consacrati / fuori usciti e rinnegati /<br />
stanno benon. / Parlano, complottano adunati, / con i piani<br />
preparati / d’insurrezion. / E s’addorme ognun come un<br />
eroe / sopra il motto della Liberté. / Sogna / l’Italia messa<br />
alla vergogna, /il Quirinale conquistato / col drappo rosso<br />
inalberato...».<br />
Dall’altra parte gli antifascisti che dopo le leggi speciali vengono<br />
incarcerati o condannati al confino, fanno sentire come<br />
possono la loro voce:<br />
«Mi avete incatenato e non fa niente / vostro mestiere è fare<br />
gli aguzzin, / mi avete bastonato crudelmente / siete pagati a<br />
fare gli assassin. / Son comunista e questo lo sapete / ed il mio<br />
cuore è pien di ribellion / ma voi sbagliate se credete coi martìri<br />
di fiaccar / questa mia fede di rivoluzione».<br />
Come il fascismo si consolida al potere, voci come questa diventano<br />
più flebili e clandestine, la protesta sotterranea, ricorrendo<br />
spesso alla parodia di canzoni in voga, come abbiamo<br />
visto parlando di Spartacus Picenus. È il modo attraverso<br />
il quale si riesce a far circolare le idee, le parole d’ordine, utiliz-<br />
1. Michele L. Straniero; 2. Pietro Nenni; 3. Palmiro Togliatti; 4.<br />
Giobatta Gianquinto; 5. Alcide De Gasperi; 6. Benito Mussolini;<br />
7. Mario Scelba (fondazionegiannipellicani.it).<br />
zando spesso più l’ironia che l’invettiva, poiché<br />
il fascismo ai tempi di Starace era sì feroce,<br />
ma nello stesso tempo ridicolo e grottesco.<br />
«Quando bandiera rossa se cantava / co<br />
trenta franchi al mese se magnava / adesso<br />
che se canta giovinessa / se va in leto co la<br />
debolessa…».<br />
«Quando vedrai Petacci in bicicletta / vuol<br />
dire che Benito l’è in bolletta / … / quando<br />
vedrai brillar la stella rossa / vuol dire che Benito<br />
è nella fossa».<br />
«Benito, Benito, / ti n’à ciavà puito / ti n’à calà la paga / ti<br />
n’à cressuo l’afito».<br />
Canti come questi godevano anche di una notevole diffusione,<br />
almeno nelle regioni del nord, tant’è che ne esistono versioni<br />
analoghe in dialetti diversi.<br />
Il primo bersaglio, dopo la liberazione e all’indomani della<br />
5. 6.<br />
fine dei governi di unità nazionale, è il nuovo partito di potere,<br />
la Democrazia Cristiana, e i suoi principali rappresentanti:<br />
«Con De Gasperi alla testa / non si mangia la minestra /<br />
noi vogliamo un altro capo / che mantenga l’unità. / E con de<br />
Gasperi non si va – e non si va / l’è contro noi lavorator – lavorator<br />
/ vogliam Togliatti / Nenni i capi del lavor. / … / E De<br />
Gasperi in pignata / e Stalin al ghi fa fuoco / e Togliatti tasta<br />
il brodo / se l’è zevat o salà».<br />
Dopo questo periodo eroico, che arriva fino ai primi anni<br />
sessanta, la canzone politica prende un nuovo impulso grazie<br />
al lavoro di ricercatori e autori che sono stati spesso argomento<br />
di altri articoli su questa rivista.<br />
Nelle raccolte di canti che sono state realizzate da allora sino<br />
a oggi le nostre canzoni sono state spesso riportate come<br />
«canti comunisti». Faccio fatica a inquadrare come tale, per<br />
esempio, «Nina ti te ricordi», però è vero che la maggior parte<br />
di noi militava in gruppi e partiti della sinistra oppure se<br />
ne sentiva parte ideologicamente. Ma le canzoni hanno incominciato<br />
a respirare un’aria di libertà ideale che ci ha permesso<br />
di percorrere itinerari diversi e diversificati, anche perché<br />
ben diversa e diversificata è diventata negli anni la «sinistra»<br />
a cui ci siamo riferiti.<br />
La diffusione della canzone sociale avvenuta negli anni settanta<br />
ha prodotto decine di gruppi musicali e Canzonieri che<br />
hanno ripreso e riproposto questi repertori, che hanno composto<br />
nuove canzoni, spesso legate a situazioni di lotta nelle<br />
fabbriche, nei campi, nella scuola, nella società.<br />
«Alle sbarre qui di Reggio / ogni giorno si sta peggio / i<br />
bambini mezzi nudi / hanno un prato di rifiuti / l’immondizia<br />
per giocare / l’epatite per morire / qui la gente ha la rabbia /<br />
di chi cresce in una gabbia» (Canzoniere delle Lame 1971) ◼<br />
7.<br />
l’altra musica 51
52<br />
arte<br />
Giuseppe Capogrossi<br />
secondo<br />
Luca Massimo Barbero<br />
a cura di Ilaria Pellanda<br />
La Collezione Peggy Guggenheim si prepara<br />
a rendere omaggio a Giuseppe Capogrossi (1900-<br />
1972), uno dei protagonisti assoluti della scena artistica<br />
del secondo dopoguerra, il<br />
cui segno inconfondibile, così come il ge-<br />
sto di Lucio Fontana e la materia di Alberto<br />
Burri, ha lasciato una traccia indelebile<br />
nella storia dell’arte italiana del xx secolo.<br />
Sarà Luca Massimo Barbero, curatore associato<br />
della Collezione veneziana, ad avere<br />
preziosa cura di una mostra che porta avanti<br />
la linea d’indagine perseguita attraverso le recenti perso-<br />
nali dedicate ad Adolph Gottlieb, Lucio Fontana, William<br />
Baziotes, Jackson Pollock, Germaine Richier e Richard Pousette-Dart,<br />
e incentrata sull’emblematica generazione d’artisti<br />
internazionali il cui linguaggio pittorico nasce e matura<br />
negli anni del collezionismo di Peggy.<br />
Capogrossi. Una retrospettiva, realizzata in collaborazione<br />
con la Fondazione Archivio Capogrossi di Roma, intende<br />
ripercorrere l’iter artistico del maestro romano portando in<br />
scena oltre settanta opere: partendo dagli esordi figurativi<br />
degli anni trenta, contraddistinti da una pittura tonale densa<br />
di contenuti originali che si snoda durante il periodo della<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Collezione Peggy Guggenheim<br />
dal 29 settembre 2012<br />
al 10 febbraio 2013<br />
Scuola Romana, si arriva, attraverso un breve momento cosiddetto<br />
neocubista, alla produzione astratta degli anni cinquanta<br />
e sessanta, con le grandi tele dominate dalla formasegno<br />
che, coniugandosi in infinite composizioni, giunge a<br />
costruire lo spazio del quadro, rappresentazione simbolica di<br />
una interiore organizzazione spaziale. Le opere di Capogrossi<br />
sono dominate da quell’innovativo «alfabeto» che ha reso<br />
celebre l’artista, e in esse si fa sempre più chiara l’importanza<br />
del segno che caratterizza in modo assolutamente personale<br />
la sua ricerca.<br />
Di tutto questo, e di molto altro ancora, ci parla Luca Massimo<br />
Barbero, che abbiamo incontrato in una torrida mattina<br />
di agosto.<br />
«In questa esposizione è innanzitutto<br />
ravvisabile una sorta di continuità con<br />
un certo tipo di “studio” che vado perseguendo<br />
da un po’ di tempo e che si concentra,<br />
nel mio lavoro con la Collezione Peggy<br />
Guggenheim, nella volontà di far scoprire<br />
al pubblico, non solo nazionale ma anche<br />
internazionale, i protagonisti del nostro<br />
dopoguerra, forse uno degli aspetti che maggiormente<br />
mi colpisce della storia dell’arte protocontemporanea. Do-<br />
po Fontana e insieme a Burri – anche se quest’ultimo non lo<br />
abbiamo ancora celebrato con una vera e propria antologica<br />
– Capogrossi è il terzo grande protagonista del dopoguerra<br />
italiano; e se Fontana è il gesto e Burri la materia, Capogrossi<br />
è sicuramente il segno. Si tratta di un autore con il quale<br />
tutti pensiamo d’avere grande confidenza, perché il suo sim-<br />
Alcune opere di Giuseppe Capogrossi.<br />
A sinistra, Superficie 210 (1957, olio su tela, 206.4 x 160 cm<br />
Solomon R. Guggenheim Museum, New York).<br />
A destra, Superficie 137 (1955, olio su tela, cm 195 x 160<br />
collezione privata, courtesy Galleria Tega, Milano).
olo è così famoso da essere immediatamente riconoscibile.<br />
In realtà è un pensiero che si basa su fondamenta tutt’altro<br />
che solide: non sono state realizzate molte esposizioni dedicate<br />
a questo artista romano, e una monografia come quella<br />
che presenteremo in occasione dell’esposizione che si aprirà<br />
il 29 settembre – che, fra le altre cose, darà alla luce ben<br />
undici saggi – non viene stampata da trenta o quarant’anni.<br />
Una mostra anche di studio, dunque, che ben rappresenta<br />
una delle peculiarità delle esposizioni da me curate.<br />
Da dove provengono le opere? Ci saranno solo lavori su tela o<br />
anche su carta?<br />
La maggioranza delle opere scelte saranno su tela, ma ce ne<br />
sarà anche qualcuna su carta. Sarà esposta la grandiosa tela<br />
acquisita nel 1958 dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim<br />
di New York, Superficie 210 (1957), avremo quadri che<br />
vennero presentati durante le Biennali di <strong>Venezia</strong> e ci sarà un<br />
lavoro del ’33 che non torna in Italia da quella data e che arriverà<br />
dal Centre Pompidou di Parigi; poi ancora dipinti da<br />
Roma, da Rovereto e da quasi tutti i musei italiani più importanti.<br />
La mostra ha una peculiarità che sorprenderà molto,<br />
in quanto prenderà il via da alcune opere figurative degli<br />
anni trenta: spesso dimentichiamo che, in quel periodo, Capogrossi<br />
fu uno dei fondatori – con Corrado Cagli, EmanueleCavalli<br />
e pochi altri<br />
– della Scuola<br />
Romana,<br />
e proprio per<br />
questo le prime<br />
stanze sarannodedicate<br />
alla ricerca<br />
svolta su<br />
tela in quegli<br />
anni. Vi sarà<br />
poi una sezione<br />
ancora più<br />
sorprendente<br />
dal punto di<br />
vista filologico,<br />
quella che<br />
narrerà il passaggio,<br />
fra il<br />
1946-’47 e il<br />
’50, dal figurativo<br />
al cosiddetto<br />
non<br />
figurativo. La<br />
mostra, che esporrà anche il grande arazzo che il maestro eseguì<br />
per il transatlantico Michelangelo (si trovava nella parete<br />
di prua del soggiorno di quello che fu l’ultimo transatlantico<br />
costruito per la Società Italiana. La nave rimase in servizio<br />
per soli dieci anni, dal 1965 al 1975, prima di essere posta in<br />
disarmo per via delle ormai insostenibili perdite economiche<br />
del servizio passeggeri, ndr), sarà suggellata da un video inedito<br />
– realizzato con Zenit e della durata di quindici minuti<br />
– che racconterà la storia del famoso segno di Capogrossi, di<br />
questo «elemento», come lui lo chiamava.<br />
In molti lo chiamano «la forchetta»…<br />
In realtà Capogrossi ha sempre sostenuto che non significasse<br />
quasi nulla e soffriva molto dell’oggettivazione di un<br />
A sinistra, Il Temporale (1933, olio su tela, 108 x 90 cm<br />
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna).<br />
A destra, Sole di Mezzanotte (1952, olio e tempera su tela , 98,5 x<br />
66 cm Collezione Maramotti, Reggio Emilia);<br />
(tutte le immagini: © Giuseppe Capogrossi, by SIAE 2012).<br />
elemento che lui considerava invece come qualcosa di sospeso,<br />
astratto e quasi metafisico. A mio parere si tratta di un elemento<br />
dotato di una forza originale e straordinaria che, in<br />
un qualche modo, nelle composizioni di Capogrossi va a determinare<br />
lo spazio: un elemento quindi tutt’altro che grafico<br />
e decorativo ma, piuttosto, strutturale, dalla forza quasi<br />
morale. Capogrossi parlava addirittura del bisogno di realizzare,<br />
in un momento come quello del passaggio immediato<br />
dal secondo dopoguerra, qualcosa che fosse in grado di rimuovere<br />
l’idea di semplice realismo.<br />
Che dialogo viene a instaurarsi tra le opere in mostra?<br />
L’allestimento è molto semplice e avrà una parte iniziale<br />
che dagli anni trenta arriverà alla metà dei quaranta: si tratta<br />
di una sezione di galleggiamento, una zona particolarmente<br />
scura dove i quadri verranno illuminati in una sorta di sospensione<br />
buia del tempo. Poi esploderà il caso-Capogrossi<br />
legato all’astrazione e tutto diverrà chiaro, bianco, contemporaneo,<br />
salvo ogni tanto incontrare delle pareti blu, quel-<br />
lo stesso colore che nel ’54 la Biennale utilizzò per presentare<br />
le nuove opere nella prima sala che Capogrossi ebbe per i<br />
suoi lavori astratti. La volontà è quella di provare a capire come<br />
l’artista già nel figurativo cercasse di lavorare a uno spazio<br />
molto ricco e però quasi bidimensionale, a un’idea di prospettiva<br />
diversa che non tralasciava un certo tipo di rapporto<br />
con la geometria. Verrà poi raccontato il viaggio a Vienna<br />
degli anni quaranta, lo studio delle finestre, che in realtà sono<br />
delle persiane e che narreranno delle cose molto curiose.<br />
Insomma, abbiamo costruito un filo rosso che permetterà di<br />
scorgere in che modo quest’uomo leggesse la natura, la realtà.<br />
Come dicevo, è da tantissimi anni che non si rivede «fisicamente»<br />
Capogrossi, un pittore molto raro e tuttavia forse<br />
il più noto all’estero, fra gli italiani, negli anni cinquanta<br />
e sessanta. Essere riusciti a radunare così tante opere rende<br />
quest’occasione davvero unica. ◼<br />
arte 53
IL RIDOTTO<br />
d i <strong>Venezia</strong><br />
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quello che gli altri non scrivono lo scriviamo noi<br />
Pubblicato da «I Antichi» Editori - <strong>Venezia</strong><br />
Registrazione presso il Tribunale di <strong>Venezia</strong> 172/10 n. 3 del 29 gennaio 2010<br />
c.f. p.i. 03631220278
A Ca’ Rezzonico<br />
l’opera grafica<br />
dei Tiepolo<br />
Con «Tiepolo Nero. Opera grafica e matrici incise»<br />
arrivano in laguna, dopo essere state esposte<br />
al m.a.x.museo di Chiasso e all’Istituto<br />
nazionale per la Grafica di Roma, le<br />
incisioni dei Tiepolo: i Capricci e gli Scherzi di fantasia<br />
di Giambattista e la serie della Fuga in Egitto del<br />
figlio Giandomenico. Ma soprattutto, per la prima<br />
volta esposte al pubblico, alcune delle matrici in rame<br />
che le hanno generate, restaurate dalla massima<br />
autorità italiana in materia: il citato Istituto nazionale per la<br />
Grafica di Roma.<br />
L’interpretazione delle trentacinque acqueforti di Giambattista<br />
Tiepolo, divise nelle due celebri serie note come Capricci<br />
e Scherzi di fantasia, ha occupato diverse generazioni di<br />
critici, eruditi e studiosi dell’arte: vi si ritrovano infatti maghi,<br />
satiri, soldati, astrologhi, filosofi, giovani uomini e donne<br />
e, immancabile, pulcinella, inseriti in paesaggi con piramidi<br />
e are decorate con mascheroni e bucrani, popolati da cani,<br />
asini, scimmie, capre, gufi e serpenti, teschi e ossa, e dove<br />
addirittura la morte in persona concede udienza. Giambattista,<br />
molto richiesto dai grandi dell’epoca per la decorazione<br />
delle loro sfarzose residenze con enormi e coloratissimi<br />
affreschi celebrativi della propria condizione e delle proprie<br />
gesta, realizza in privato queste incisioni, che non erano<br />
destinate al mercato. In tali opere, di evidente perizia tecnica<br />
e stilistica, Tiepolo esprime al massimo la sua sconfinata<br />
Uno Scherzo di Giambattista Tiepolo<br />
e una scena della Fuga in Egitto del figlio Giandomenico.<br />
di Eva Rico<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Ca’ Rezzonico<br />
fino al 14 ottobre<br />
creatività, il suo carattere stravagante e anche la sua immensa<br />
erudizione. Questi lavori, di enorme attualità, rispecchiano<br />
le inquietudini dell’uomo del suo tempo, in un momento<br />
nel quale l’Illuminismo e la ragione convivono con la stregoneria<br />
e la magia. Fu il figlio Giandomenico a pubblicare per<br />
la prima volta l’opera incisoria del padre dopo la sua scomparsa,<br />
e già nel titolarla ci diede la chiave di lettura: Giambattista,<br />
facendo uso della sua incredibile immaginazione,<br />
riunisce i bizzarri protagonisti delle sue incisioni in maniera<br />
appunto capricciosa, scherzosa, fantasiosa. Osservando le<br />
opere in mostra emergono elementi ricorrenti come<br />
il fascino dell’inesplicabile e del misterioso, un’in-<br />
tima riflessione sul declino, un continuo riferimento<br />
alla morte, e anche la volontà di esprimere al massimo<br />
la propria creatività in opposizione all’accademismo<br />
e lontano della retorica autocelebrativa della<br />
decorazione di palazzi, ville e chiese.<br />
Nella deliziosa serie della Fuga in Egitto poi, se da un lato<br />
ancora una volta Giandomenico dimostra la sua bravura<br />
come disegnatore anche nella difficile arte dell’incisione,<br />
dall’altro si distingue per la delicatezza con cui rappresenta<br />
la Sacra Famiglia: una giovane Madonna che appare sempre<br />
serena e addirittura sorridente, sostenendo amorosamente<br />
il bambino fra le braccia ma dedicando anche teneri sguardi<br />
allo sposo, metre Giuseppe fa strada girando continuamente<br />
gli occhi per assicurarsi di avere lasciato indietro il pericolo<br />
o che gli amati moglie e figlio lo seguano, aiutati e accuditi<br />
da solleciti angeli.<br />
Ma l’incredibile maestria e inventiva dei Tiepolo si vede<br />
soprattutto nelle matrici in rame da poco restaurate: sono<br />
immagini spesso direttamente concepite e incise sulla lastra,<br />
dove con grande abilità le figure vengono modulate con segni<br />
lievi e producono sorprendenti effetti di chiaroscuro e di<br />
profondità, dosando saggiamente le morsure dell’acido o facendo<br />
più fitto il disegno per catturare maggiore quantità di<br />
inchiostro. Oltre ad alcuni esempi delle lastre che danno origine<br />
alle Fantasie e agli Scherzi già menzionati, si possono<br />
gustare la deliziosa Adorazione dei maghi di Tiepolo padre e<br />
un’interessantissima serie di lastre con studi di teste portati<br />
a termine dal figlio Giandomenico.<br />
La possibilità di confrontare le matrici in rame con le acqueforti<br />
costituisce una rara e imperdibile occasione di approfondire<br />
lo studio della parte meno nota della produzione<br />
artistica dei Tiepolo. La mostra, nata dalla collaborazione<br />
delle diverse istituzioni già ricordate in apertura, è stata curata<br />
da Lionello Puppi e Nicoletta Ossanna Cavadini, che firmano<br />
anche il catalogo edito da Mazzotta. ◼<br />
arte 55
56<br />
cinema<br />
Un ritratto<br />
di Francesco Rosi,<br />
Leone d’oro<br />
alla carriera 2012<br />
di Roberto Pugliese<br />
Il cinema di Francesco Rosi, Leone alla carriera<br />
della Biennale alla lxix Mostra di <strong>Venezia</strong> quasi mezzo<br />
secolo esatto dopo il Leone d’oro vinto con Le mani<br />
sulla città, appartiene ad una stagione e ad un’epoca<br />
culturali e storiche che, benché ci appaiano oggi remotissime,<br />
quasi arcaiche, fanno invece parte della nostra contemporaneità:<br />
anzi, la sostanziano, la innervano e le conferiscono<br />
un valore altrimenti destinato a disperdersi nei volatili<br />
fluidi dell’effimero o nella volgare precarietà del nostro<br />
presente.<br />
Era quello che si chiamava «cinema di impegno civile»,<br />
con una ridondanza che oggi muove al sorriso: quasi potesse<br />
esistere una forma di «impegno incivile» o una qualsiasi<br />
forma di civiltà fondata sul disimpegno. Sia chiaro: esiste<br />
fortunatamente anche ai nostri giorni, trasmessa nelle forme<br />
più varie, una vena di cinema italiano diversamente «engagé»,<br />
battagliero, di denuncia, di documentazione, di indignazione:<br />
o sub specie docu-satirica (Videocracy, Draquila)<br />
o di docudrama ben più duro (Diaz) o di fiction grottesca<br />
(Il divo) o di ricostruzione storica non convenzionale (L’uomo<br />
che verrà), per non citare che alcuni titoli. Ma il cinema<br />
di questo gentiluomo napoletano d’altri tempi, colto e raffinato,<br />
popolare senza mai essere populista, ha occupato l’intera<br />
seconda metà del Novecento con caratteristiche del tutto<br />
proprie e irripetibili: in testa a tutte, l’invenzione di quel<br />
particolare genere chiamato «film-inchiesta», a cominciare<br />
da Salvatore Giuliano del 1962, che – lungi dal rifarsi a<br />
cascami neorealisti – coniugava un approccio documentale,<br />
cronachistico, investigativo su fatti e aspetti tra i più scabrosi<br />
e scottanti dell’Italia di quegli anni con una ricostruzione<br />
romanzesca, squisitamente narrativa e avvincente, fondata<br />
sull’utilizzo strepitoso ed efficacissimo di grandi atto-<br />
ri, italiani e stranieri, da Rod Steiger a Frank Wolff, da Alberto<br />
Sordi a Josè Suarez da Lino Ventura a – soprattutto<br />
– Gianmaria Volonté, che diventerà di fatto l’attore-feticcio<br />
delle «drammatizzazioni» di Rosi, metamorfizzandosi<br />
da autentico, incredibile camaleonte in una serie di ruoli reali<br />
o immaginari (Enrico Mattei, Lucky Luciano, il tenente<br />
Ottolenghi di Uomini contro, il Cristof Bedoya di Cronaca di<br />
una morte annunciata) che divengono specchi e maschere di<br />
altrettante narrazioni incise sanguinosamente nella storia.<br />
Una formula, quella del film-inchiesta, con la quale Rosi<br />
anticipa di parecchio le pulsioni ribellistiche del cinema<br />
militante postsessantottino dei Bellocchio, Faenza, Taviani,<br />
Samperi, Cavani, peraltro rimanendo costantemente fedele<br />
ad un rigore linguistico e narrativo che non esclude affatto,<br />
anzi, la chiarissima scelta di campo civile e ideologica<br />
del regista, ma nemmeno vuol rinunciare alle potenzialità<br />
drammaturgiche del racconto cinematografico, persuaso<br />
al contrario che proprio in queste trovi ancora maggior linfa<br />
e forza la voce insopprimibile della denuncia e della battaglia<br />
delle idee.<br />
In realtà nel cinema del regista partenopeo è costante una<br />
meditazione analitica più vasta e profonda sulla Storia come<br />
palcoscenico spesso crudele della condizione umana e delle<br />
sue contraddizioni, non solo sociali e politiche ma anche<br />
psicologiche ed esistenziali, ravvisabile sin dalle prime esperienze<br />
come sceneggiatore per il maestro Luchino Visconti<br />
(La terra trema, Senso); essa permette a Rosi di espandere<br />
la propria ricerca narrativa anche in altre direzioni, oltre<br />
a quella del film-inchiesta e del docu-drama, spesso e volentieri<br />
appoggiandosi a testi letterari fondativi del Novecento,<br />
ma in ogni caso essenziali alla riflessione storica del regista,<br />
come nel caso di La tregua di Primo Levi, progetto già<br />
accarezzato nei primi anni ottanta ma poi sospeso per il suicidio<br />
dello scrittore e portato a termine solo nel ’97 (rimane<br />
il suo ultimo film), o di Cronaca di una morte annunciata<br />
(1987) di Gabriel García Marquez, o di Cadaveri eccellenti<br />
(1976) di Leonardo Sciascia, o ancora di Cristo si è fermato<br />
a Eboli (1979) di Carlo Levi. Inoltre, l’irrefrenabile curiosità<br />
intellettuale dell’autore lo ha portato più di una volta verso<br />
digressioni stilistiche e di genere apparentemente di difficile<br />
decifrazione o in conflitto con l’anima più rigorosa e severa<br />
della sua opera, come nel caso della fiaba all-star C’era<br />
una volta (1967), con Sofia Loren e Omar Sharif, girata qua-
si provocatoriamente proprio alla vigilia del rovente Sessantotto<br />
o, nell’84, di un colorito e ipernaturalistico adattamento<br />
della Carmen di Bizet, con Julia Migenes-Johnson, Placido<br />
Domingo e Ruggero Raimondi.<br />
Si evincono bene da questi dati la complessità e la ricchezza<br />
della personalità di Francesco Rosi e il valore, la potenza<br />
rappresentativa del suo cinema e del suo modo di incidere<br />
nella realtà e nelle sue varie raffigurazioni, anche spettacolari.<br />
Non va infatti mai dimenticato che Rosi è anche, forse<br />
soprattutto, un formidabile uomo di spettacolo in senso il<br />
più ampio possibile: dal teatro di prosa all’opera lirica, dalla<br />
fiction al documentario, ogni forma di messinscena lo attrae<br />
e lo stimola. Pertanto, l’efficacia documentale, sociale e<br />
ideale del suo cinema non prescinde – al contrario – dall’impianto<br />
narrativo ma vi si integra, utilizzando stilemi di vari<br />
generi (gangster movie, melodramma, commedia, noir, film<br />
di guerra, film-opera) alla ricerca persistente di un contatto<br />
quanto più possibile immediato con il pubblico.<br />
Francesco Rosi è infatti un cineasta «popolare», quando<br />
la parola non equivaleva ancora ad un insulto, ed è nello<br />
stesso tempo un cineasta di élite, selettivo, dal linguaggio,<br />
dal lessico non sempre facilmente accessibili, e dallo sguardo<br />
spesso profetico. Quasi mezzo secolo prima di Gomorra,<br />
scende con il suo esordio da regista in proprio La sfida (1958)<br />
nei vicoli della nativa Napoli per raccontare con durezza e<br />
asciuttezza ma anche con immensa umanità, grazie alla penna<br />
della grande e spesso a lui vicina (così come Tonino Guerra)<br />
Suso Cecchi d’Amico, una storia di camorra, di amicizia<br />
e di famiglia. E l’anno dopo, con I magliari, aspra tragicommedia<br />
su malavita e immigrazione, è tra i pochissimi a cercare<br />
con successo di sfruttare al massimo le (esilissime) doti di<br />
Alberto Sordi come attore drammatico. Ma è con Salvatore<br />
Giuliano e Le mani sulla città (1962 e ’63) che Rosi declina<br />
perentoriamente le generalità del proprio cinema di denuncia<br />
e di ricerca, iniziando a chiamare con nome e cognome<br />
alcune delle più inquietanti zone d’ombra della nostra storia<br />
recente: il primo, con una geniale struttura a flashback, rievoca<br />
la vicenda del bandito separatista siciliano autore della<br />
strage di lavoratori di Portella della Ginestra, della sua morte<br />
violenta nel 1950 e delle collusioni già vivissime fra mafia<br />
e ambienti reazionari; il secondo, forte di una drammaturgia<br />
ferrigna, squadrata, semidocumentaristica, affonda il bisturi<br />
nello scandalo della speculazione edilizia e nell’abbraccio<br />
mortale tra malaffare, apparati dello Stato e malavita. Le<br />
apparenti digressioni di Il momento della verità (1965), girato<br />
in Spagna e storia di un contadino che per sfuggire alla<br />
miseria affronta il destino dell’arena, e del già citato C’era<br />
una volta, prelude al trittico-Volonté<br />
Uomini contro,<br />
Il caso Mattei (Palma d’oro<br />
a Cannes nel ’72) e Lucky<br />
Luciano: sorta di Orizzonti<br />
di gloria italiano il primo,<br />
da Un anno sull’Altipiano di<br />
Emilio Lussu, straziante ancorché<br />
un po’ enfatico anatema<br />
pacifista, ritratti in piedi<br />
gli altri due di un antieroe<br />
dell’imprenditoria italiana e<br />
di un gangster sui generis, entrambi<br />
con fortissimo spirito<br />
d’indagine sui retroscena,<br />
i misteri e le aree oscure dei<br />
rapporti fra potere, finanza e<br />
politica. Se Cadaveri eccellenti<br />
cala ancora una volta l’argomento<br />
mafioso in una tipica<br />
atmosfera sciasciana da incubo<br />
insolubile e kafkiano, Cristo<br />
si è fermato a Eboli e il successivo<br />
Tre fratelli (1981) dimostrano<br />
una nuova fase creativa<br />
del regista, più intima e<br />
personale, memorialistica e<br />
lirica, letteraria e pacata ma,<br />
come attesta la già ricordata<br />
trasposizione marqueziana<br />
dell’87, non meno intransigente.<br />
Dimenticare Palermo,<br />
del ’90, robusto film di mafia<br />
aggiornato ai tempi, con Jim<br />
Belushi, Vittorio Gassman, è<br />
una nuova imperiosa dimostrazione<br />
di vitalità così come, dopo Diario napoletano, amaro<br />
e disilluso ritorno documentaristico nella realtà napoletana<br />
a trent’anni da Le mani sulla città, lo è ancor di più La tregua<br />
(1997), in cui le pagine implacabili di Primo Levi si decantano<br />
in un racconto intriso di sfumature e sottigliezze,<br />
dove l’atrocità dell’argomento non conosce né la retorica né<br />
gli stereotipi di tanto coevo cinema sulla Shoah.<br />
In tutto questo percorso, coerente e di straordinaria compattezza<br />
pur nella diversità dei risultati, il faro ispiratore di<br />
Rosi è sempre rimasto quello dell’approfondimento, della<br />
perlustrazione, dell’indagine pubblica e privata. Un maestro<br />
di cinema e di coscienza civile, in sintesi, per il quale «il<br />
momento della verità» non è mai sterile esercizio memorialistico<br />
o passato da archiviare, ma irrinunciabile viatico per<br />
un futuro migliore. ◼<br />
cinema 57
58<br />
letteratura<br />
«Se ti abbraccio<br />
non aver paura»,<br />
storia di un padre<br />
e un figlio<br />
di Mariano Beltrame<br />
Si dice che gli scrittori cerchino storie. Ogni<br />
tanto le storie li scovano. In entrambi i casi bisogna<br />
scriverle. Possibilmente bene.<br />
Se ti abbraccio non aver paura racconta una storia<br />
vera: il viaggio che un padre, Franco, compie nell’estate del<br />
2010 con un figlio. Sbarcano a Miami, partendo da Treviso,<br />
affittano una Harley Davidson e tagliano gli usa da costa a<br />
costa. Poi saltano in Messico, attraversano il Centro America<br />
e finiscono ad Arraial d’Ajuda, in Brasile.<br />
La solita vacanza? Sì, se Andrea, figlio di Franco, sedici anni,<br />
non fosse un ragazzo autistico. Allora è, come minimo,<br />
una vacanza complicata. O forse non è una vacanza. Forse<br />
c’è qualcosa di più.<br />
L’autismo viene spesso descritto come mancanza di relazione<br />
con gli altri, comportamenti stereotipati, scarsa autonomia<br />
personale. Portare in viaggio un ragazzo autistico implica<br />
imprevedibilità, difficoltà di gestione, grandi sforzi di<br />
comunicazione.<br />
Una gran fatica, per decine e decine di migliaia di chilometri.<br />
Perché, allora, un simile sforzo? Per dimostrare che cosa?<br />
Il romanzo ci racconta di un padre che, contro il parere di<br />
medici e amici, decide di partire, di far vedere un po’ di mondo<br />
al figlio autistico, convinto che questo abbia un effetto<br />
«curativo» superiore al tenerlo in qualche stanza, oppure<br />
sulla spiaggia di Jesolo. E in questo «cibarsi del mondo»,<br />
questo cambiare continuamente sfondo, si produce un’incredibile<br />
intimità tra padre e figlio, si rafforza un legame: affrontare<br />
assieme mille intoppi, e superarli, produce l’effetto<br />
positivo di essere capaci di agire e non subire.<br />
Ecco, il romanzo contiene il resoconto degli sforzi di adattamento<br />
a una situazione complessa, l’amore che il padre deve<br />
mettere in campo per stare, ogni giorno, a contatto con<br />
la mente autistica. Nell’era della comunicazione, l’autismo<br />
rappresenta una sfida: significa difficoltà di interpretare desideri,<br />
emozioni, le poche parole e confrontarsi con la ripetitività<br />
delle azioni, nella scelta del cibo, nei riti quotidiani.<br />
È un mondo fatti di colori, un periodo rosso e poi uno verde;<br />
di suoni in sottofondo, musica sempre e ovunque, talvolta<br />
ad alto volume e altre volte appena sussurrata; di acqua<br />
che scorre, come nei fiumi, o acqua in cui immergersi, come<br />
nei laghi, o di onde oceaniche dove lasciarsi cullare, per ore<br />
e ore. Senza sosta.<br />
La storia arriva all’autore quasi per caso. Il padre, Franco,<br />
tornato dal viaggio sente di dover raccontare l’esperienza e<br />
cerca qualcuno che lo aiuti. Racconterà allo scrittore, per undici<br />
mesi, i suoi ricordi di viaggio, le emozioni, le riflessioni.<br />
L’autore raccoglie ogni dettaglio e per un altro anno lavora<br />
pazientemente alla composizione del romanzo. Scritto<br />
in prima persona, diventando il padre narrativo di Andrea.<br />
Perché questo romanzo è anche una storia di padri. Ce<br />
n’è bisogno. ◼<br />
Una conversazione<br />
con Fulvio Ervas<br />
Quali sono state le motivazioni del padre per questo<br />
viaggio: raccontare un’avventura speciale, far conoscere<br />
di più l’autismo, dare una lezione di vita a tutti<br />
i genitori?<br />
Franco potrebbe averlo fatto per tutte queste cose messe<br />
assieme, perché sono connesse: per mettere nero su bianco<br />
un’esperienza personale molto forte; perché voleva che suo figlio<br />
uscisse da quella «terra di nessuno», come dicono molti<br />
genitori di figli autistici; perché i genitori che non vivono<br />
una relazione così complessa potessero vedere. O forse niente<br />
di tutto questo, perché potrebbero essere solo ipotesi razionali<br />
che facciamo noi. Forse solo un bisogno di libertà, istintivo,<br />
potente, che non si ferma nemmeno davanti all’autismo<br />
e, anzi, lo sfida. Ogni tanto, fuori dagli schemi, si respira.<br />
È stato difficile misurarsi con una storia vera come questa? E<br />
cosa pensa di aver detto, nel libro, ad Andrea?<br />
Misurarsi con un pezzo di vita vera, diretta, vestirla con le<br />
parole della narrazione è stata una grande esperienza. Ci sono<br />
stati molti momenti del viaggio che mi hanno colpito ed<br />
emozionato, anche divertito, perché si sorride spesso nel racconto.<br />
Nonostante la malattia, il viaggio non è stato un salto<br />
nel buio: piuttosto una sequenza di voli che puntavano verso<br />
il cielo. Ed è stato un viaggio anche per me, fatto di tante tappe<br />
personali: la mia genitorialità, il mio lavoro di insegnante,<br />
le esperienze con studenti complicati, anche autistici. Raccontare<br />
la storia di Franco e Andrea è stato mettersi in un incrocio<br />
dove confluivano strade provenienti da lontano. Andrea<br />
è pieno di sfumature, alle volte davvero sottili: quando<br />
affiorano le emozioni è come assistere al cambiamento di forma<br />
delle nuvole. Quello che ho potuto dirgli, sta tutto nel libro:<br />
Andrea, la vita è «un po’ sì».<br />
Qual è la chimica della sua vita e della sua scrittura?<br />
Zucchero come preferenza alimentare, orto come sfondo<br />
visivo, niente fumo, molto movimento, ironia, guardare<br />
avanti e vedere la vita come un flusso, un metrò dove si sale e<br />
si scende, lasciando il posto a qualcuno senza averlo sporcato<br />
e la scrittura è una pagina bianca, nessun progetto, solo invenzione<br />
improvvisa, una mattina silenziosa, un paio di cani<br />
che gironzolano pigramente e poi la sensazione di un’onda<br />
che prende le singole parole e le trascina lontano. Ecco, la<br />
scrittura è un’onda con la schiuma.<br />
Sta già pensando al suo prossimo libro?<br />
Se riesco a prendere fiato, un’avventura dell’ispettore Stucky<br />
in Dalmazia. Forse… (m.b.) ◼<br />
Fulvio Ervas (caligola.it).
Nuovi workshop<br />
ai Tre Oci<br />
di Ilaria Pellanda<br />
Nella suggestiva cornice della Casa dei Tre<br />
Oci – splendida testimonianza dell’architettura<br />
veneziana di inizio Novecento che sorge sull’isola<br />
della Giudecca, al centro del bacino di San<br />
Marco, in una zona di eccezionale interesse storico, artistico<br />
e monumentale – si svolgerà in autunno la seconda serie di<br />
alcuni workshop dedicati alla fotografia.<br />
Il disegno fa parte di un progetto siglato tra la Fondazione<br />
di <strong>Venezia</strong>, la sua società strumentale Polymnia (proprietaria<br />
della splendida Casa progettata nel 1910 dal pittore Mario<br />
De Maria), Civita Tre Venezie e la Fondazione Forma in<br />
collaborazione con Veneto Banca.<br />
Le proposte formative promosse ai Tre Oci sono da considerarsi<br />
parte integrante di un progetto culturale ed espositivo<br />
più ampio e fortemente legato allo stretto rapporto fra<br />
arte e immagine, che immerge gli studenti che decidono di<br />
prendere parte a queste iniziative in un vero e proprio laboratorio<br />
di idee.<br />
«La Casa dei Tre Oci si candida a essere un punto di riferimento<br />
a <strong>Venezia</strong> e in Italia per quanto riguarda il tema<br />
delle arti visive e della contemporaneità», sottolinea Denis<br />
Curti, direttore scientifico della Casa veneziana. «Abbiamo<br />
quindi deciso di realizzare un progetto che da una parte desse<br />
spazio alle esposizioni vere e proprie – l’inaugurazione è<br />
avvenuta con la mostra di Elliott Erwitt Personal Best (cfr.<br />
vmed n. 46, pp. 60-61) – e dall’altra a tutta una serie di attività<br />
di studio del linguaggio visivo esplorato secondo molteplici<br />
declinazioni. Nel caso dei due workshop realizzati prima<br />
dell’estate e di quelli che avranno luogo in autunno, ci si<br />
è concentrati sul linguaggio fotografico».<br />
Il primo laboratorio, intitolato «Nudo in Laguna» e volto<br />
alla scoperta della bellezza femminile, è stato condotto da<br />
Settimio Benedusi, uno dei più importanti fotografi di moda,<br />
che ha guidato un gruppo di appassionati in un percorso<br />
progettuale sul tema dell’estetica.<br />
Il workshop «Storia della Fotografia» s’è invece svolto in<br />
un ciclo di quattro incontri durante i quali Italo Zannier ha<br />
tracciato un racconto per immagini sulla storia della fotografia,<br />
appunto, dall’Ottocento ai giorni nostri. La narrazione<br />
è stata integrata con l’analisi e l’illustrazione di alcuni volumi<br />
– che fanno parte della collezione della Fondazione di<br />
Alcuni momenti del workshop «Nudo in laguna»<br />
condotto ai Tre Oci da Settimio Benedusi<br />
lo scorso marzo (foto di Silvia Pasquetto).<br />
<strong>Venezia</strong> – in un dialogo costante che Zannier ha tenuto con<br />
gli iscritti per far loro conoscere e comprendere gli sviluppi e<br />
l’evoluzione dell’arte fotografica.<br />
Dopo la pausa estiva, con l’arrivo dell’autunno ricomincerà<br />
anche l’attività laboratoriale. A cavallo tra i mesi di settembre<br />
e novembre, infatti, prenderanno il via altri tre workshop,<br />
il primo dei quali, intitolato a «Fotografia e Cinema»,<br />
sarà condotto dalla regista Marina Spada e dal fotografo<br />
Cesare Cicardini, che si dedicheranno ai nuovi linguaggi<br />
della tecnologia contemporanea, tra immagini still e motion.<br />
«Mi sembrava molto interessante amalgamare il lavoro di<br />
questa regista con quello di Cicardini» – continua Curti –<br />
«senza dimenticare che nel suo penultimo film, Come l’ombra<br />
(2007, ndr), la Spada aveva chiesto la consulenza di Gabriele<br />
Basilico per realizzare i punti macchina, le inquadrature<br />
fisse, ancora una volta a ribadire il suo grande interesse<br />
nei confronti della fotografia».<br />
Sarà quindi la volta di Francesco Jodice e del suo «After<br />
The West. Fotografie e urbanesimo sul finire dell’Occidente».<br />
Dagli scontri di Teheran a quelli siriani, passando per<br />
le «rivolte dei gelsomini», il ruolo delle immagini sarà analizzato<br />
in relazione a nuovi e drammatici scenari, tra un paesaggio<br />
urbano-umano modificato e la rinascita del regime<br />
del visibile.<br />
«Figlio del grande maestro Mimmo Jodice, Francesco<br />
svolgerà una riflessione sul tema della contemporaneità che<br />
si declinerà attraverso un’indagine quasi poliziesca sul territorio:<br />
un ricercare che farà dello strumento fotografico non<br />
un mero congegno visivo che cattura ciò che l’occhio vede,<br />
ma piuttosto un mezzo che mette in scena la realtà cercando<br />
di recuperare tutti i linguaggi e tutte le mediazioni possibili<br />
con l’arte contemporanea».<br />
L’ultimo appuntamento è quello con «L’oggetto fotografico»<br />
di Alberto Prandi per una due giorni che consentirà ai<br />
partecipanti di acquisire confidenza con i metodi di identificazione<br />
dei procedimenti fotografici e la loro puntuale storicizzazione,<br />
interrogandosi sul consistente patrimonio di<br />
scatti accumulato nel tempo e sulla necessità di far partecipare<br />
all’opera d’arte materiali evocativi per i loro riferimenti<br />
temporali.<br />
«Il terzo workshop – conclude Curti – vuole ribadire il<br />
rapporto con il territorio: la Casa dei Tre Oci viene a tessere<br />
un rapporto con le Università veneziane cercandone la complicità<br />
e mettendo a disposizione i suoi spazi per svolgere alcuni<br />
corsi e per ospitare gli studenti. Questo è solo l’inizio di<br />
un programma che si svolgerà con queste modalità anche nel<br />
prossimo futuro: continueremo a realizzare mostre di fotografia<br />
ma anche workshop e incontri con i protagonisti della<br />
contemporaneità, che non è assolutamente detto apparterranno<br />
al mondo della fotografia in maniera esclusiva». ◼<br />
fotografia 59
60<br />
in vetrina<br />
<strong>Venezia</strong> tra salvaguardia<br />
e contemporaneità<br />
Una conversazione<br />
con Renata Codello<br />
a cura di Leonardo Mello<br />
Pur nel caldo afoso di questo agosto Renata Codello, Soprintendente<br />
per i Beni Architettonici e Paesaggistici<br />
di <strong>Venezia</strong> e Laguna, accetta gentilmente di rispondere<br />
a qualche domanda<br />
sulla nostra città,<br />
dal punto di vista artistico e<br />
culturale ma non solo.<br />
Prima di tutto vorrei chiederle<br />
qual è lo stato generale<br />
del patrimonio artistico veneziano,<br />
e quali sono, secondo<br />
lei, gli interventi prioritari<br />
da effettuare.<br />
Direi buono. I colleghi<br />
di Firenze e Roma ci fanno<br />
i complimenti soprattutto<br />
considerando l’altissimo<br />
numero di visitatori<br />
della città dove tutto è storico.<br />
I turisti ormai arrivano<br />
ovunque e quindi anche<br />
i problemi della tutela cambiano<br />
di scala. Con una<br />
battuta: tutto è prioritario<br />
a <strong>Venezia</strong>. Intendo dire che<br />
l’approccio conservativo è<br />
una modalità di pensare e<br />
di agire: talvolta restaurare<br />
un portone in legno è importante<br />
quasi quanto l’intera<br />
facciata di un palazzo.<br />
Comunque, basta confrontare<br />
le campagne fotografiche<br />
degli anni settanta e ottanta<br />
per vedere quanto sia<br />
migliorata la città. Per altro<br />
verso, non si fa mai abbastanza:<br />
la straordinaria<br />
bellezza dei luoghi contrasta<br />
con tutto ciò che è sciatto<br />
e degradato.<br />
Quali sono, a suo parere,<br />
gli esempi più riusciti di architettura<br />
contemporanea<br />
realizzati a <strong>Venezia</strong> in questi<br />
ultimi anni?<br />
Tengo a sottolineare che a<br />
<strong>Venezia</strong> ci sono molti esempi<br />
di architettura contemporanea:<br />
la città storica per<br />
eccellenza è un luogo ideale per la nuova architettura. I progetti<br />
più riusciti sono quelli che dialogano con la storia, ma<br />
non rinunciano a esprimere il pensiero progettuale di oggi:<br />
l’ampliamento del cimitero monumentale di David Chipperfield,<br />
la biblioteca della Manica Lunga alla Fondazione<br />
Cini di Michele De Lucchi, la punta della Dogana di Tadao<br />
Ando, l’ampliamento delle Gallerie dell’Accademia di Tobia<br />
Scarpa. Talvolta, le nuove architetture hanno bisogno di un<br />
po’ di tempo per integrarsi ma, in generale, il livello è molto<br />
più alto che in altre città.<br />
Nello specifico, e sempre parlando di architettura contemporanea,<br />
come si è strutturato il progetto di ampliamento<br />
delle Gallerie dell’Accademia, e quali sono state le fasi più<br />
importanti?<br />
Il complesso della Carità, che ospita le Gallerie, riunisce<br />
l’architettura tre-quattrocentesca della chiesa e della Scuola<br />
della Carità, uno straordinario edificio di Palladio, e una<br />
lunga manica ottocentesca realizzata da Francesco Lazzari.<br />
Occorreva conservare le fabbriche esistenti, rigenerare gli<br />
spazi deturpati dagli usi passati, realizzare sistemi impian-<br />
tistici molto avanzati e, al contempo, mantenere l’aura dei<br />
luoghi e offrirla ai nuovi visitatori. Un percorso lungo, minuzioso,<br />
in cui Tobia Scarpa ha disegnato migliaia di detta-<br />
Ampliamento delle Gallerie dell’Accademia: un disegno<br />
di Tobia Scarpa e il rendering dello spazio espositivo nell’ala Selva<br />
(soprintendenza.venezia.beniculturali.it).
gli che, come le tessere di un mosaico, sono tutte uniche nel<br />
concorrere alla qualità del progetto. Anche le soluzioni tecnologiche<br />
come la climatizzazione o il sistema di illuminazione<br />
degli ambienti e delle opere d’arte sono stati molto importanti.<br />
Alla fine il Museo avrà dodicimila metri quadrati<br />
di superficie, poco più degli Uffizi, realizzati con grande perizia<br />
esecutiva.<br />
In un’intervista di qualche tempo fa, lei diceva che a beneficiare<br />
dei flussi turistici sono soltanto alcune categorie, e continuava<br />
affermando che una<br />
tassa d’ingresso indistinta<br />
e per tutti non le sembrava<br />
una soluzione adeguata.<br />
Come si dovrebbe affrontare<br />
dunque il problema della<br />
sostenibilità di questi flussi?<br />
L’art. 9 della Costituzione<br />
dice che la Repubblica<br />
tutela il paesaggio e il patrimonio<br />
storico e artistico<br />
della Nazione. Tutti i<br />
cittadini ne fruiscono ma,<br />
appunto, è un patrimonio,<br />
un bene comune. Se alcuni<br />
lo usano come fonte di<br />
guadagno, devono trovare<br />
– più di altri – i modi per<br />
contribuire a mantenerlo<br />
disponibile per tutti. Troppo<br />
spesso si dimentica che<br />
il patrimonio storico non<br />
è una risorsa inesauribile,<br />
che la città si usura, si deteriora<br />
e non si può restaurare<br />
all’infinito. Per quanto<br />
riguarda i flussi turistici, il<br />
problema è molto complicato,<br />
mi piacerebbe che venisse<br />
affrontato sul serio e<br />
senza pregiudiziali.<br />
Spesso si sente dire dai visitatori,<br />
non senza ragione,<br />
che <strong>Venezia</strong> e i suoi abitanti<br />
non sono molto accoglienti<br />
e ospitali (a cominciare dai<br />
trasporti pubblici, sovraffollati<br />
e carissimi). D’altro<br />
canto i residenti vivono talvolta<br />
situazioni di oggettivo<br />
disagio. Pensa che si possa<br />
trovare un modo per coniugare le esigenze di chi viene a scoprire<br />
la città e quelle di chi la vive quotidianamente?<br />
Penso di sì ma, anche in questo caso, andrebbero superati<br />
molti luoghi comuni. <strong>Venezia</strong>ni sono i cittadini<br />
che hanno scelto di abitare qui, che amano<br />
e rispettano la città. L’iscrizione o meno<br />
all’anagrafe non è un parametro significativo.<br />
Va introdotto il concetto di «abitante equivalente»<br />
che vive in città almeno cinque giorni<br />
alla settimana anche se non ha la residenza.<br />
Per altro verso, se il disagio degli abitanti,<br />
a fronte del gran numero di turisti è reale,<br />
dobbiamo pensare che <strong>Venezia</strong> è come una<br />
In alto: la Punta della Dogana. Sopra: la Manica<br />
Lunga della Fondazione Cini (cini.it).<br />
A destra: la facciata delle Gallerie dell’Accademia.<br />
metropoli «giornaliera» e, quindi, lavorare su modelli diversi<br />
di sostegno a tutti gli abitanti. Trovo giusto che il prezzo<br />
del biglietto turistico sia alto. Per tanta bellezza, dovrebbe<br />
esserlo ancora di più.<br />
Data la situazione di crisi generalizzata, e la conseguente<br />
scarsità di finanziamenti pubblici, qual è secondo lei il modo<br />
migliore per attrarre fondi privati da destinare alla salvaguardia<br />
del nostro patrimonio?<br />
La condivisione delle responsabilità. Lo Stato non può<br />
pensare di mantenere questo sterminato patrimonio, deve<br />
condividere con i privati l’impegno della sua conservazione<br />
ma non solo a parole. Si dovrebbero sperimentare modalità<br />
diverse di collaborazione, valutandone<br />
poi i risultati e, alcuni,<br />
ci sono già. Un complesso sistema<br />
di norme allontana qualche<br />
buona intenzione dei privati,<br />
ma questi ultimi sono spesso<br />
improvvisati. L’attività di salvaguardia<br />
è un lavoro serio, culturale,<br />
scientifico e tecnico; soprattutto<br />
non è fatta dagli articoli<br />
dei giornali. Gli operatori<br />
delle soprintendenze restano<br />
sempre i più competenti in questi<br />
settori. ◼<br />
in vetrina 61
62<br />
in vetrina<br />
Le «Voci<br />
Fuori Campo»<br />
della Fondazione<br />
Pellicani<br />
Giorgio Napolitano ospite d’onore<br />
del Festival della Politica<br />
di Nicola Pellicani*<br />
La presenza del Presidente della Repubblica<br />
Giorgio Napolitano al Festival della Politica, in<br />
programma a Mestre dal 5 all’8 settembre tra piazza<br />
Ferretto e piazzetta Pellicani, costituisce il momento<br />
più alto di una manifestazione concepita per riportare<br />
l’attenzione sul pensiero politico, sul ruolo e<br />
sull’importanza strategica della politica nella società<br />
contemporanea. In una fase così complessa<br />
caratterizzata da un clima di preoccupante disaffezione<br />
per la politica e più in generale di sfiducia<br />
nei confronti dei partiti e delle istituzioni, il Festival,<br />
alla sua seconda edizione, intende contribuire<br />
a ritrovare il bandolo della matassa della Buona Politica e<br />
in questo senso la figura del Presidente, per il ruolo e il prestigio<br />
internazionale che ha saputo ritagliarsi in questi anni,<br />
rappresenta il punto di riferimento più significativo da cui<br />
ripartire. L’intervento del Presidente sarà il filo conduttore<br />
del Festival, la lezione permetterà di riordinare le parole della<br />
politica dando loro un senso e una gerarchia. Sarà un contributo<br />
determinante per riannodare i fili, partendo da concetti<br />
fondamentali come giustizia, libertà, equità.<br />
Tutti temi che saranno poi al centro degli incontri e dei dialoghi<br />
in programma durante il Festival che vuol essere un antidoto<br />
all’antipolitica dilagante.<br />
Per una volta non saranno politici a parlare di politica: la<br />
Fondazione Pellicani ha chiamato a raccolta filosofi, scrit-<br />
Mestre<br />
vari luoghi<br />
5-8 settembre<br />
tori, giuristi, giornalisti e politologi per aiutarci a capire il<br />
presente e a immaginare il futuro. Un concentrato di personalità<br />
di altissimo livello che non ha eguali in questo momento<br />
in Italia. Accanto a Massimo Cacciari, presidente della<br />
Fondazione Pellicani, che fin dall’inizio ha creduto fermamente<br />
in questo progetto, interverranno tra gli altri Gustavo<br />
Zagrebelsky, Dacia Maraini, Stefano Rodotà, Angelo<br />
Panebianco, Massimo Giannini, Corrado Augias, Massimo<br />
Donà, Ilvo Diamanti, Silvia Avallone e altri ancora. Un<br />
significato particolare assume la presenza delle donne. Tutte<br />
le giornate del Festival saranno aperte da appuntamenti al<br />
femminile. Come ha evidenziato Cacciari «il pensiero delle<br />
donne, oggi poco presenti nella politica, permetterà di gettare<br />
uno sguardo disincantato sull’oggi offrendo suggestioni<br />
importanti per costruire un futuro rinnovato». Particolarmente<br />
significativo è poi il laboratorio didattico rivolto<br />
agli studenti delle scuole superiori, animato da alcuni docenti<br />
del liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre, che sarà attivo<br />
nel corso del Festival a villa Settembrini (sede<br />
della Fondazione Pellicani). Gli studenti la mattina<br />
avranno l’opportunità di prepararsi agli incon-<br />
tri della giornata incontrando alcuni dei relatori.<br />
La Fondazione ha fortemente voluto una sezione<br />
dedicata ai ragazzi nella convinzione che è fondamentale<br />
cercare di avvicinare i giovani alla politica.<br />
Solamente se i giovani iniziano a occuparsi di politica e a studiare<br />
la politica, avremo la possibilità di favorire un ricambio<br />
della classe dirigente, un tema non più rinviabile. Non a caso<br />
questo sarà uno degli argomenti affrontati durante il Festival.<br />
Proprio Cacciari, assieme a Emanuele<br />
Macaluso e al giovane studioso<br />
Alessandro Aresu, parlerà di «Parricidio<br />
e Infanticidio».<br />
«In politica», ha ricordato Cacciari,<br />
«i figli devono uccidere i padri<br />
per prendere il loro posto, altrimenti<br />
non c’è vero ricambio di classe dirigente.<br />
In realtà continua a non avvenire,<br />
semmai in Italia abbiamo assistito<br />
a fratricidi». Seguendo la metafora<br />
i figli dagli anni sessanta in poi si sono<br />
eliminati tra di loro. Un tema particolarmente<br />
caldo in questo periodo, a<br />
pochi mesi dalle elezioni politiche. La<br />
carne al fuoco sul braciere della politica<br />
è molta, ma tutto ruoterà attorno<br />
al discorso del Presidente della Repubblica<br />
dal titolo «Le nuove mappe della<br />
politica in Italia e in Europa». È probabile<br />
che l’intervento del 6 settembre<br />
al Teatro Toniolo di fatto detterà<br />
l’agenda politica d’autunno che si preannuncia<br />
alquanto complicata. Già in<br />
un’altra occasione Napolitano, ospite<br />
della Fondazione Pellicani, pronunciò<br />
un discorso molto importante, in occasione<br />
della celebrazione del sessantesimo<br />
anniversario della Costituzione, organizzato a Palazzo<br />
Ducale a <strong>Venezia</strong>. In quell’occasione lanciò un messaggio<br />
molto forte alle forze politiche per riformare in senso federalista<br />
la seconda parte della Carta.<br />
Con la visita del 6 settembre è la quarta volta che il Presidente<br />
Giorgio Napolitano partecipa a un’iniziativa della<br />
Fondazione Pellicani. Fu Napolitano a inaugurare la Fondazione<br />
Pellicani il 27 marzo 2007, tornò il 18 settembre<br />
2008 per il convegno a Palazzo Ducale e venne poi il 2 settembre<br />
2010 a inaugurare piazzetta Pellicani. Il 6 settembre
sarà di nuovo con noi. L’ennesima testimonianza dell’affetto,<br />
dell’amicizia e della stima che legava Napolitano a Gianni<br />
Pellicani, che sono sempre stati politicamente molto vicini,<br />
anche nei momenti più difficili.<br />
Ma è merito della Fondazione se per la prima volta nella<br />
storia della Repubblica un Presidente interviene a Mestre per<br />
un convegno pubblico. Per la Fondazione Pellicani è motivo<br />
di grande orgoglio riuscire a contribuire in modo così significativo<br />
alla crescita socio-culturale della città.<br />
Troppe volte si è detto che Mestre è una città senza identità<br />
e priva di storia. Un dibattito che non ci ha mai appassionato,<br />
noi ci limitiamo a lavorare con l’obiettivo di far crescere<br />
Mestre, nella convinzione che momenti come questi aiutino<br />
a essere più città.<br />
La Fondazione ha fortemente voluto quest’evento a Mestre,<br />
una città che in questi anni ha conosciuto una stagione<br />
di grandi trasformazioni. In passato, pur stravolta nella<br />
sua forma e nella sua identità, si è trovata di colpo nel vivo<br />
del Novecento diventando protagonista di una storia straordinaria<br />
fatta di industrializzazione, di urbanizzazione, di<br />
migrazione e di conflitti sociali, in cui la politica ha svolto<br />
un ruolo fondamentale. Oggi tra mille contraddizioni questa<br />
storia continua ed è particolarmente significativo che da<br />
Mestre parta un’iniziativa per un confronto politico di ampio<br />
respiro basato sulle idee.<br />
Fin dall’inizio delle nostre attività Mestre è stata al centro<br />
delle iniziative che abbiamo sviluppato con l’obiettivo di<br />
portare l’attenzione su un’area urbana che svolge un ruolo<br />
fondamentale all’interno di quella Città Metropolitana di<br />
cui recentemente si è ripreso a parlare, anche sotto il profilo<br />
istituzionale. Il Festival è infatti parte di una programma-<br />
zione culturale che dura dodici mesi all’anno e si focalizza su<br />
tre filoni principali. «Idee per Mestre», che si concretizza in<br />
convegni, studi, seminari e sono state date alle stampe diverse<br />
pubblicazioni. Qual è la struttura economica e sociale della<br />
città in cui viviamo? Chi sono i suoi residenti? Quali ruoli<br />
svolgono Mestre e <strong>Venezia</strong> all’interno dell’area vasta? Quali<br />
le opportunità di sviluppo? Queste alcune delle domande<br />
Sopra e a fronte: alcuni momenti<br />
dell'edizione 2011 di Voci fuori campo.<br />
In alto: Giorgio Napolitano ospite della Fondazione Pellicani.<br />
alle quali «Idee per Mestre» cerca di rispondere, attraverso<br />
ricerche mirate, ponendosi l’obiettivo di agire come catalizzatore<br />
delle forze intellettuali cittadine per portare riflessioni<br />
approfondite sulla città stessa. Un filone quindi dedicato<br />
alle politiche urbane, agli intrecci e agli interventi rivolti al<br />
perseguimento dell’efficienza e di misure ispirate a innalzare<br />
la qualità della vita dei cittadini.<br />
Altro filone è la «Grande Politica e il Futuro dell’Italia»<br />
che quest’anno arriva alla sesta edizione, una serie di incontri<br />
che rappresentano un momento di riflessione, fuori da stere-<br />
otipi e luoghi comuni, sui grandi temi della<br />
politica italiana e internazionale. Ad oggi<br />
sono intervenuti relatori quali Giuliano<br />
Amato, Lucio Caracciolo, Piero Ignazi,<br />
Renzo Guolo, Antonio Martino e Ilvo<br />
Diamanti, Giorgio Ruffolo, Alberto Melloni,<br />
Guido Bodrato, Rino Formica, Rosy<br />
Bindi, Claudio Petruccioli e molti altri.<br />
Il terzo strumento è l’Atlante storico<br />
politico veneziano pensato per orientarsi<br />
in cinquant’anni di storia politico-amministrativa<br />
ed econonica che hanno mutato<br />
profondamente il territorio veneziano,<br />
non solo dal punto di vista urbanistico,<br />
ma anche nella sua composizione sociale,<br />
nelle popolazioni che lo abitano, nei<br />
modi e nelle forme politiche che ha espresso.<br />
Il lavoro in corso è strutturato in diversi<br />
punti, si avvale sia di fonti archivistiche<br />
che orali e si svolge in collaborazione<br />
con diversi enti ed istituzioni. Oltre a diverse<br />
pubblicazioni ha dato vita al progetto<br />
«Archivi della politica e dell’impresa<br />
del Novecento veneziano», un’iniziativa<br />
innovativa per la realtà veneziana, poiché per la prima volta<br />
vede impegnate entità istituzionalmente diverse a sostegno<br />
dell’amministrazione pubblica in un comune sforzo di<br />
raccolta, conservazione e valorizzazione di fondi archivistici<br />
novecenteschi a rischio di dispersione. Ad oggi il materiale<br />
inventariato e consultabile dal sito «Archivi della politica<br />
e dell’impresa del Novecento veneziano» è costituito da oltre<br />
25.000 documenti inventariati tra foto, libri, lettere, lucidi<br />
e altro materiale inedito. ◼<br />
* Segretario della Fondazione Gianni Pellicani<br />
in vetrina 63
64<br />
in vetrina<br />
«Musiche<br />
Culture Identità»<br />
Il congresso<br />
della Società Internazionale<br />
di Musicologia a Roma<br />
di Emanuele Senici<br />
La diciannovesima edizione del congresso della<br />
Società Internazionale di Musicologia, che si<br />
svolge ogni cinque anni, ha avuto luogo dall’1 al 7<br />
luglio all’Auditorium Parco della Musica di Roma.<br />
Organizzata dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in<br />
collaborazione con le tre università romane La Sapienza, Tor<br />
Vergata e Roma Tre, ha visto la presenza di più di seicento relatori,<br />
che, oltre alle sedute del convegno, hanno preso parte<br />
a varie altre attività, come concerti e visite guidate ai luoghi<br />
musicalmente più rilevanti di Roma e dintorni.<br />
La maggior parte dei congressi della sim svoltisi negli ultimi<br />
decenni ha avuto un tema generale: quello proposto dal<br />
comitato scientifico dell’edizione romana, presieduto da Fabrizio<br />
Della Seta, è stato «Musiche Culture Identità» (come<br />
utile termine di confronto si pensi che il congresso precedente,<br />
svoltosi a Zurigo nel 2007, era stato intitolato «Passaggi»).<br />
Si tratta più che altro di un punto d’orientamento<br />
utile a chi propone tavole rotonde e study sessions (ogni congresso<br />
ne prevede diverse di entrambe le tipologie), mentre<br />
le sedute di relazioni libere, assemblate dal comitato scientifico<br />
stesso dopo la selezione delle proposte ricevute, sono<br />
meno vincolate al tema generale. Al termine dei lavori l’impressione<br />
è stata però che l’identità sia una delle questioni al<br />
contempo più interessanti e più calde tra quelle che animano<br />
il dibattito musicologico oggi (è bene chiarire che in questo<br />
contesto «musicologia» è termine che serve da ombrello<br />
per tutte le attività di ricerca sulla musica, dalla musicologia<br />
storica all’etnomusicologia, dalla filosofia della musica<br />
all’organologia, dall’iconografia musicale<br />
alla psicologia della musica, e così<br />
via). In un certo senso sarebbe strano<br />
il contrario, dal momento che<br />
la musicologia, come ogni attività<br />
intellettuale, riflette la cultura<br />
in cui essa si trova immersa,<br />
seppur spesso in modo indiretto;<br />
e mi pare fuor di dubbio<br />
che l’identità sia una delle<br />
categorie fondanti della cultura,<br />
nonché della società, della<br />
politica e dell’ideologia del mondo<br />
contemporaneo – una delle ragioni,<br />
immagino, per cui il comitato<br />
scientifico l’ha proposta come<br />
tema del congresso –.<br />
Igor Stravinsky<br />
n un disegno<br />
di Pablo Picasso<br />
(31 dicembre 1920).<br />
Un’altra benemerita tradizione di questi convegni vuole<br />
che al centro della giornata inaugurale si collochino due relazioni<br />
plenarie presentate da non-musicologi, che riflettono<br />
sul tema generale da punti di vista esterni alla disciplina.<br />
Non sempre queste occasioni funzionano: ricordo per esempio<br />
una lezioncina superficiale del matematico Roger Penrose<br />
a Londra nel 1997, che sembrò ancora più striminzita per<br />
essere appaiata a una profonda riflessione filosofica su opera<br />
ed esecuzione del compianto Bernard Williams. A Roma,<br />
invece, le conferenze della filosofa statunitense Martha<br />
C. Nussbaum e dell’antropologo italiano Francesco Remotti<br />
hanno offerto spunti di riflessione molto stimolanti sulla<br />
questione dell’identità. Nussbaum ha indagato il ruolo della<br />
musica e della danza nel progetto filosofico ed educativo<br />
di Rabindranath Tagore, sottolineando la portata sovversiva<br />
di queste attività all’interno di una «religione dell’umanità»<br />
costituzionalmente anti-identitaria. Remotti ha invece<br />
offerto una critica articolata ed eloquentissima del concetto<br />
stesso di identità, seguita da un appassionato plaidoyer per<br />
la categoria della somiglianza, secondo lui molto più adatta a<br />
navigare il difficilissimo contesto sociale, politico e ideologico<br />
in cui ci troviamo a vivere.<br />
Le parole di Nussbaum e Remotti hanno risuonato per tutta<br />
la settimana seguente, offrendo prospettive generali assai<br />
stimolanti da cui contemplare sedute dedicate a temi apparentemente<br />
così diversi come le tavole rotonde su «Costruzione<br />
e decostruzione dell’identità nella musica dell’Asia<br />
orientale dagli anni sessanta», «Sguardi dal di fuori sull’identità<br />
musicale italiana», «Modelli cognitivi nelle attività<br />
musicali», «Musica e visualità», «Identità europea e condizione<br />
periferica nella musica iberica antica» e «Identità<br />
musicale e cultura dell’identità in Italia nel Quattro-Cinquecento»,<br />
oppure le study session su «Papi, cardinali e musica,<br />
1450-1630», «La trasmissione della conoscenza musicale:<br />
costruire una cittadinanza europea», «Prospettive interdiciplinari<br />
sulla musica, la cultura e l’identità brasiliane»,<br />
«Immagine-suono-struttura e l’esperienza audiovisiva»,<br />
«Com’era veneziana l’opera veneziana nel Seicento?»<br />
e «Questioni di identità stilistica e di disseminazione europea<br />
nella Scuola delle Nazioni di Tartini», per citare solo<br />
Gioacchino Rossini<br />
(dipinto anonimo<br />
prima metà Ottocento).
alcuni esempi da entrambe le tipologie. I titoli delle sedute<br />
di relazioni libere erano spesso più tradizionali: si andava<br />
da «Monodia medievale» a «Polifonia medievale e rinascimentale»,<br />
da «Opera italiana nel Settecento» a «Rossini»,<br />
da «Lo stile classico e Beethoven, ieri e oggi» a «Donizetti<br />
e Verdi», da «Musica tedesca dell’Ottocento” a «Wagner<br />
e l’opera nazionale ottocentesca”, da «Stravinsky e la musica<br />
francese del Novecento» a «Musica nel periodo sovietico»;<br />
ma non sono mancate sedute più insolite, come «Colonialismo»,<br />
«Esoticismi», «Diaspore», «Popular music»,<br />
«Identità ebraica e musica dell’esilio», «Cantanti e canti»,<br />
«Donne e uomini», nonché varie occasioni in cui le identità<br />
geografiche erano al centro dell’attenzione, come «Prospettive<br />
sull’Asia», «Tra Spagna e Nuova Spagna dal Cinque<br />
al Settecento», «L’Ungheria e i compositori ungheresi<br />
dell’Otto-Novecento», «America Latina» (tre sedute),<br />
«La Turchia e la penisola balcanica», «Gli USA nei secoli<br />
xix e xx», e così via.<br />
Lunghe discussioni con amici e colleghi durante le animatissime<br />
giornate del congresso hanno fatto emergere come<br />
le proposte di Nussbaum e Remotti abbiano profeticamente<br />
anticipato gli atteggiamenti critici o comunque interlocutòri<br />
di molti tra i relatori verso la categoria dell’identità, di<br />
cui al presente non pare si possa fare a meno, ma che oscura<br />
e confonde almeno tanto quanto illumina e chiarisce, soprattutto<br />
in un campo costituzionalmente fluido e cangiante<br />
come quello musicale. Come ha spiegato Benjamin Walton,<br />
per esempio, nella Calcutta della prima metà dell’Ottocento<br />
l’opera italiana era imbricata in una rete di somiglianze<br />
(per dirla con Remotti) che rimandano non solo all’Italia,<br />
ma anche a Londra e al teatro musicale in lingua inglese,<br />
nonché al rapporto tra genere femminile e rappresentazione<br />
scenico-musicale nel contesto della cultura bengalese<br />
del tempo. In modo non dissimile, nella colonna sonora che<br />
Miklos Rozsa scrisse per Ben Hur nel 1959 Stephan Prock ha<br />
rintracciato una complicata negoziazione delle relazioni, potenzialmente<br />
pericolose per la cultura del tempo, tra masco-<br />
Ludwig van Beethoven<br />
ritratto da W. J. Mähler<br />
nel 1804<br />
linità, omosocialità e identità religiosa che stanno al centro<br />
del film, aiutando a risolvere alcuni punti di tensione lasciati<br />
in parte aperti dalla componente visiva.<br />
Più sopra ho detto come la musicologia rifletta la cultura in<br />
cui essa si trova immersa, anche se indirettamente. Allo stesso<br />
tempo, però, la musicologia non sta al di fuori della cultura,<br />
ma ne fa parte come qualsiasi altra attività umana, e<br />
quindi contribuisce a questa stessa cultura. In questo senso,<br />
il congresso romano può aver dato un contributo al dibattito<br />
sempre più vivo sui significati e gli usi dell’identità all’interno<br />
della società contemporanea – significati e usi che, non<br />
dimentichiamolo, si esplicano in molte questioni scottanti<br />
del presente, dall’immigrazione al matrimonio tra coppie<br />
dello stesso sesso, e dalla violenza domestica sulle donne alle<br />
rivendicazioni territoriali da parte di vari stati contro altri –.<br />
C’è però anche un altro modo in cui il convegno romano<br />
può aver contribuito non solo alla discussione sulle identità,<br />
ma anche alla pratica di esse, per così dire. Il congresso quinquennale<br />
della sim è di gran lunga il più autenticamente globale<br />
tra le occasioni di portata simile nel panorama musicologico<br />
internazionale (molto di più, per esempio, dei convegni<br />
annuali della American Musicological Society o della<br />
Society for Ethnomusicology, che gli si possono avvicinare<br />
per numero di partecipanti «passivi», anche se il numero<br />
delle relazioni è inferiore). Per moltissimi tra noi, questa<br />
è l’unica occasione in cui incontrare colleghi di paesi lontani<br />
non solo geograficamente (notevole a Roma il numero<br />
di congressisti dall’America Latina e dall’Asia Orientale,<br />
per esempio), ma anche per tradizioni intellettuali e orientamenti<br />
della ricerca. Ascoltare una relazione diversa per contenuto,<br />
forma e stile da quelle che sentiamo di solito ci invita<br />
a riflettere in modo nuovo sulle nostre identità intellettuali<br />
e disciplinari, che spesso riteniamo, imperialisticamente,<br />
la pietra del paragone. Può persino accadere di fermarsi<br />
un attimo a pensare sull’uso troppo spesso irriflesso di aggettivi<br />
quali il «nostre» della frase precedente: «nostre»<br />
di chi? Voglio dunque, in conclusione, sottolineare l’importanza<br />
di un’occasione che ci ha<br />
portato ha ripensare la categoria<br />
dell’identità non solo<br />
nella musica che studiamo,<br />
ma anche nella<br />
nostra pratica intellettuale<br />
e quindi culturale<br />
e sociale. In questo<br />
senso mi pare assai significativo<br />
che il prossimo<br />
congresso si svolgerà,<br />
nel 2017, a Tokio,<br />
fuori dall’Europa<br />
per la prima volta dal<br />
1977: sarà un’occasione preziosa<br />
per continuare da un<br />
punto di vista anche geograficamente<br />
molto diverso la riflessione<br />
sull’identità e la musica<br />
avviata quest’anno a Roma. ◼<br />
Gaetano<br />
Donizetti<br />
(autocaricatura<br />
del 1843).<br />
in vetrina 65
66<br />
in vetrina<br />
Alla Cini un convegno<br />
su Luigi Squarzina<br />
Dal 4 al 6 ottobre 2012 nelle sale della Fondazione<br />
Giorgio Cini si svolge il convegno di studi<br />
dedicato alla figura artistica e all’opera del regista<br />
e drammaturgo italiano Luigi Squarzina (18<br />
febbraio 1922 – 8 ottobre 2010).<br />
Inserito nell’ambito delle iniziative collegate alla donazione<br />
che Squarzina ha voluto fare della propria Biblioteca al<br />
Centro Studi per la Ricerca documentale sul Teatro e il Melodramma<br />
europeo, il convegno, a cura di Maria Ida Biggi,<br />
è organizzato in collaborazione con l’Accademia Nazionale<br />
dei Lincei di Roma e con l’Alto Patronato del Presidente<br />
della Repubblica. Questa manifestazione vuole anche ricordare<br />
il maestro in occasione del secondo anniversario della<br />
scomparsa.<br />
Le tre giornate sono articolate in sessioni, ognuna delle<br />
quali contiene riflessioni e approfondimenti storico-critici,<br />
interventi di giovani studiosi e testimonianze di artisti collaboratori<br />
del maestro, affrontando le tematiche legate al-<br />
la sua attività di studioso e saggista, organizzatore culturale<br />
e direttore di teatri stabili, drammaturgo e regista teatrale<br />
di prosa e di lirica. L’importanza storica del personaggio è<br />
testimoniata dalla partecipazione dei numerosi e autorevoli<br />
relatori quali Carmelo Alberti, Roberto Alonge, Giovanni<br />
Agostinucci, Franca Angelini, Katia Angioletti, Anna Barsotti,<br />
Maria Ida Biggi, Francesca Bisutti, Lina Bolzoni, Paolo<br />
Bosisio, Eugenio Buonaccorsi, Roberto Cuppone, Masolino<br />
d’Amico, Guido Davico Bonino, Marco De Marinis, Siro<br />
Ferrone, Ilaria Gariboldi, Maurizio Giammusso, Maria Grazia<br />
Gregori, Camilla Guaita, Gerardo Guccini, Ginette Herry,<br />
Isabella Innamorati, Giuseppe Liotta, Stefano Locatelli,<br />
Claudio Longhi, Lorenzo Mango, Federica Mazzocchi, Nadia<br />
Palazzo, Matteo Paoletti, Giacomo Pedini, Franco Perrelli,<br />
Paolo Puppa, Alberto Quadrio Curzio, Elena Randi,<br />
Renzo Tian, Alessandro Tinterri, Roberto Tessari, Franco<br />
Vazzoler, Piermario Vescovo, Claudio Vicentini e Marianna<br />
Zannoni.<br />
Al termine di ogni giornata, a partire dalle 17.30, sono previsti<br />
incontri aperti al grande pubblico. Giovedì 4 ottobre,<br />
alle ore 17,30, si presenterà il volume degli Annali della Fondazione<br />
Istituto Gramsci di Roma intitolato Luigi Squarzi-<br />
na. Il teatro e la storia dedicato ai suoi scritti. In questa occasione<br />
saranno presenti il presidente della Fondazione Istituto<br />
Gramsci Giuseppe Vacca e il curatore del volume Elio<br />
Testoni. Nella stessa serata, l’attore Omero Antonutti leggerà<br />
un pezzo tratto dal dramma di Squarzina Cinque giorni<br />
al porto.<br />
Venerdì 5 ottobre, dalle ore 17.30 alle 22, si svolgerà una serata<br />
con testimonianze e letture degli attori Giorgio Albertazzi,<br />
Erika Blanc, Benedetta Buccellato, Massimo Foschi,<br />
Franco Graziosi, Gabriele Lavia, Lucilla Morlacchi e Tullio<br />
Solenghi con brani tratti da testi drammaturgici e saggi di<br />
Squarzina come L’esposizione universale, Siamo momentaneamente<br />
assenti, I cinque sensi, Tre quarti di luna, Il gioco dei<br />
potenti, Rosa Luxenburg, 8 settembre. Inoltre è previsto l’ascolto<br />
di estratti inediti della registrazione audio dell’Amleto,<br />
interpretato da Vittorio Gassman e diretto con Squarzina<br />
nel 1952, recentemente ritrovato negli archivi di Radio Rai.<br />
Per questa occasione, Paola Gassman e Ugo Pagliai leggeranno<br />
alcune lettere che Vittorio Gassman e Luigi Squarzina si<br />
sono scambiati durante la preparazione di questo spettacolo<br />
e brani dal carteggio Silvio d’Amico – Vittorio Gassman<br />
a proposito della messinscena dell’Amleto.<br />
Il convegno ha ottenuto la Media partnership di Rai Radio<br />
3 e Rai Teche, permettendo così di offrire al pubblico una se-<br />
lezione di registrazioni audio e video di cui Squarzina è stato<br />
autore, traduttore, organizzatore, interprete e regista. Grazie<br />
a ciò, è possibile ascoltare le registrazioni dei radiodrammi e<br />
delle interviste da lui rilasciate alla radio e visionare i video<br />
di alcuni suoi spettacoli in una sala appositamente allestita a<br />
fianco del luogo in cui si terrà il convegno e aperta al pubblico<br />
da lunedì 1 ottobre 2012.<br />
Sabato alle 17.30 è organizzata la tavola rotonda conclusiva<br />
con le testimonianze di Paolo Baratta, Maricla Boggio, Cristiano<br />
Chiarot, Matteo d’Amico, Gianfranco Padovani, Ottavia<br />
Piccolo, Pier Luigi Pizzi, Carlo Quartucci, Luca Ronconi,<br />
Giuliano Scabia, Marco Sciaccaluga, Gianrico Tedeschi<br />
e Lamberto Trezzini. Gli attori Paola Cannoni e Giancarlo<br />
Zanetti leggeranno brani dalla Romagnola e dal Tartufo<br />
.<br />
Il convegno ha il sostegno del Dipartimento di Filosofia e<br />
Beni Culturali dell’Università di Ca’ Foscari, della Fondazione<br />
Teatro La Fenice, del Comune di Lugo e della Regione<br />
del Veneto. (l.m.) ◼<br />
Luigi Squarzina.<br />
La biblioteca del regista alla Fondazione Cini.
Il provetto stregone<br />
Mario Bortolotto<br />
e le vie della musicologia (3)<br />
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini<br />
Il periplo attorno a «Capo Bortolotto» (passaggio<br />
irto di perigli, infido persino, se, quando credi di<br />
aver finalmente afferrato il bandolo del discorso, una<br />
svolta improvvisa, un cambio di rotta verso un’espressione<br />
sibillina bastano a rimettere tutto in discussione, a precipitare<br />
in nuovi labirinti di senso: si veda, e si ammiri, la nota<br />
13 dello scritto di Alberto Caprioli, vero e proprio tour de<br />
force ermeneutico, in virtù del quale anche un comune «lettore<br />
ingenuo» quale lo scrivente è alfine messo nella condizione<br />
di toccare con mano l’intricatissimo congegno di allusioni<br />
e citazioni, dirette e indirette, che può annidarsi in<br />
un qualsiasi enunciato del nostro magmatico prosatore: l’esempio<br />
prescelto è l’explicit d’Introduzione<br />
al Lied romantico), questo<br />
periplo giunge finalmente a lambire<br />
la produzione libraria accumulata,<br />
in cinquant’anni precisi di attività<br />
(1962-2012, ma suoi saggi e articoli<br />
erano cominciati ad apparire un<br />
paio di anni avanti), da un insaziabile<br />
desiderio di conoscenza.<br />
Caprioli, compositore ben noto e<br />
forte studioso di letteratura comparata<br />
(in particolare esplora il rapporto<br />
poesia-musica), interroga per<br />
l’appunto il testo d’esordio, apprezzato<br />
a suo tempo da Fedele d’Amico<br />
e da Giorgio Vigolo (che, non si<br />
dimentichi, era anche poeta in proprio,<br />
e non dei trascurabili), e rileva<br />
come esso sia costituito da «una serie<br />
di microstorie dei Lieder e dei loro<br />
autori», una collana di monografie<br />
(Bortolotto non è davvero un seguace<br />
di Croce, eppure il ritratto a<br />
tutto tondo di singoli autori o opere<br />
è una sua «specialità»: si pensi a<br />
Fase seconda, a Consacrazione della casa, a Dopo una battaglia,<br />
a Est dell’Oriente) all’apparenza indipendenti, ma concepite<br />
secondo un piano unitario, a partire cioè da un’idea<br />
centrale, di solito racchiusa nel capitolo o nelle pagine iniziali<br />
e soggetta a sviluppo e dimostrazione. Libri di un musicista,<br />
quelli di Bortolotto, sostiene Caprioli: punto di vista<br />
già espresso da Stefano Catucci nel saggio comparso sul numero<br />
scorso di «<strong>Venezia</strong> musica e dintorni», e che dalla veste<br />
professionale di chi ora lo riprende e lo fa suo, invoglia a<br />
guardare sotto una luce diversa le rampogne, anche asperrime,<br />
e gli elogi indirizzati al Nostro da nomi illustri: Berio,<br />
Nono, Vlad da un lato, Boulez, Clementi, Donatoni, Pablo<br />
dall’altro. Insomma, schermaglie tra «consanguinei», gente<br />
fatta della stessa pasta.<br />
Il contributo del musicista bolognese, che, secondo un tipico<br />
(e spavaldo) processo di rispecchiamento nella materia<br />
trattata, concede qualcosa allo stile per «illuminazioni»<br />
di Bortolotto, individua nel Lied romantico una quantità<br />
di presagi e anticipazioni critiche invero sorprendente, isti-<br />
Mario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).<br />
tuendo confronti e paralleli con la più recente comparatistica<br />
e musicologia internazionale. Dal canto suo, invece, Gian<br />
Paolo Minardi da Parma<br />
(90 km appena, ma è<br />
un altro mondo) affronta<br />
Wagner l’oscuro (2003)<br />
in una prospettiva prettamente<br />
italiana. Criterio<br />
nient’affatto opinabile,<br />
trattandosi della prima<br />
monografia complessiva<br />
dedicata al compositore<br />
tedesco da un autore<br />
italiano dai tempi di<br />
Torchi (1890: ovviamente<br />
non tengo conto dei lavori<br />
divulgativi – Celli,<br />
Mila, Tedeschi – o dei tomi<br />
a firma Borrelli, Pannain,<br />
Rinaldi). In questo<br />
senso offre un inte-<br />
resse specifico la lettura<br />
di Tristano, mio Tristano.<br />
Gli scrittori italiani<br />
e il caso Wagner (1988),<br />
il sapientissimo studio di<br />
Adriana Guarnieri, ricordato<br />
anche da Minardi. Il<br />
nome di Bortolotto vi figura<br />
in rapporto ora ai<br />
«“ritorni” antiwagneriani<br />
al quadrato» (p. 347)<br />
della neoavanguardia (il<br />
Gruppo ’63, Arbasino in<br />
primis), dei quali condivide<br />
l’orrore per il «wagnerismo»<br />
idolatrico, per i<br />
«bidelli del Walhalla» 1 ,<br />
ora all’«indirizzo formalistico<br />
o polemicamente<br />
pragmatico, volto a considerare la produzione wagneriana<br />
preliminarmente in quanto “musica”» (p. 356), impo-<br />
Il provetto stregone 67
68<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
stosi negli anni settanta e ottanta: l’«affermazione della musica»<br />
su cui insiste molto anche Minardi.<br />
Ma questo indirizzo<br />
non è caratteristico del<br />
solo scenario italiano,<br />
lo si ritrova anche nella<br />
musicologia mitteleuropea,<br />
in particolare<br />
nei contributi epocali<br />
di Carl Dahlhaus. È degno<br />
di nota il fatto che i<br />
due, il tedesco e l’italiano,<br />
si accostino a Wagner<br />
quasi in contemporanea,<br />
questo con la traduzione<br />
e la cura del saggio<br />
di Adorno (uscito nel<br />
1966 per i tipi di Einaudi),<br />
quello con le indagini<br />
che condurranno, nel<br />
1971, alla fioritura pressoché<br />
simultanea della<br />
Wagners Konzeption des<br />
musikalischen Dramas<br />
e dei Richard Wagners<br />
Musikdramen 2 : entrambi<br />
partono da un retroterrafilosofico-ideologico<br />
molto solido e specifico<br />
(l’interesse per la<br />
Nuova musica che si riverbera<br />
anche in scelte<br />
lessicali riconoscibili;<br />
il riferimento costante<br />
ad Adorno, specie in<br />
funzione antagonistica)<br />
3 , entrambi nutrono<br />
un certo qual sospetto<br />
intorno alla solidità<br />
dell’impalcatura teorica<br />
wagneriana, entrambi<br />
rimarcano che nel<br />
Wort-Ton-Drama «il testo,<br />
il poema, non diversamente<br />
dalla musica,<br />
è inteso da Wagner come<br />
un mezzo del dramma,<br />
non come la sua essenza»<br />
(Dahlhaus, Wagners<br />
Konzeption des<br />
musikalischen Dramas,<br />
p. 15: anche Bortolotto<br />
affronta l’argomento nel<br />
capitolo iniziale di Wagner<br />
l’oscuro, «Temperamento<br />
e teoresi», pp.<br />
13-58), ma poi – come si<br />
diceva – si concentrano<br />
sulla dimensione musicale,<br />
privilegiando la microforma,<br />
singole componenti<br />
del discorso o<br />
momenti delimitati, rispetto<br />
alla lunga gittata,<br />
all’impianto globale di un atto o di un Drama 4 .<br />
Ora, si potrebbe pensare, date alla mano, che Bortolotto<br />
sia in debito con Dahlhaus (il cui nome in Wagner l’oscu-<br />
ro compare tre volte, a pari merito con Diether de la Motte<br />
ed Ernest Newman, una in meno di Robert Donington,<br />
mentre Egon Voss e Jean-Jacques Nattiez 5 si fermano a quota<br />
uno: più frequenti le citazioni degli ammirati Boulez,<br />
Confalonieri e Lévi-Strauss); in realtà, la loro quête wagneriana<br />
procede parallela e indipendente. L’immagine di Wagner,<br />
essenzialmente desunta da Nietzsche, quale dissoluzione<br />
della Romantik e scaturigine del «negativo» novecentesco,<br />
in Bortolotto è già del tutto definita quando le monografie<br />
di Dahlhaus vedono la luce in italiano; anzi, è proprio in<br />
quell’immagine ch’è dato distinguere il timbro inconfondibile<br />
della sua voce tra le mille e mille che formano il coro della<br />
critica wagneriana. (j.p.) ◼<br />
1. Per ricorrere a un titolo ben noto di Beniamino Dal Fabbro (1954):<br />
non a caso la Guarnieri per la letteratura degli anni sessanta parla di<br />
«ritorni» antiwagneriani, giacché essi si ritrovano «a fianco della<br />
tradizione letteraria antiwagneriana neoclassica tuttora operante» (il<br />
rondismo di Montale), laddove le origini di questa ripulsa rimontano<br />
indietro sino a D’Annunzio, al suo progetto di «mito mediterraneo»<br />
alternativo a quello «nordico» di Wagner (Il fuoco, 1900).<br />
2. Tradotti anche in italiano, l’uno da Maria Cristina Donnini Maccio<br />
per Discanto, Fiesole (FI) 1983 («Contrappunti», 17), l’altro da Lo-<br />
renzo Bianconi (anche curatore) per Marsilio, <strong>Venezia</strong> 1984 («Musica<br />
critica»).<br />
3. A partire dagli anni settanta, Bortolotto gli affiancherà il prediletto<br />
Nietzsche: «Ben pochi casi conosce la storia della musica in cui un<br />
manuale di estetica , o anzi una formulazione di poetica, sia di tanto<br />
più brillante di quelle che già erano […] le composizioni da esso ispirate,<br />
o con esso simbiotiche. Pensiamo soltanto al Caso Wagner»: Mario<br />
Bortolotto, Cocteau e il marinaio, in Id., Corrispondenze, Adelphi, Milano<br />
2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 263-68: 263. Si veda anche<br />
Friedrich Nietzsche, Scritti su Wagner, trad. it. di Sossio Giametta e<br />
Ferruccio Masini, con un saggio di Mario Bortolotto, Adelphi, Milano<br />
1979 («Piccola biblioteca», 80), la cui introduzione, Altra aurora,<br />
graziosamente resa più accessibile ai comuni mortali da pochi ma capitali<br />
interventi, è poi confluita in Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi,<br />
Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42), pp. 140-196. Tutta sua anche<br />
la propensione per il mito e il sapere iniziatico, verificabile nella parte<br />
introduttiva dei capitoli sul Ring, su Tristan, e, in modo speciale, su<br />
Parsifal.<br />
4. Tema a cui ha invece prestato particolare attenzione la scuola angloamericana,<br />
da Anthony Newcomb e Carolyn Abbate in avanti. Per<br />
Dahlhaus e Bortolotto la questione viene forse data per risolta (termine<br />
da intendersi anche e soprattutto in senso etimologico) nel flusso<br />
continuo e onnicomprensivo della rete leitmotivica.<br />
5. Con le ricerche del quale non mancano punti di tangenza, con ogni<br />
probabilità del tutto casuali, ma non per questo meno sintomatici.<br />
Sopra: Carl Dahlhaus.
Bortolotto l’oscuro<br />
Il mio primo incontro con Wagner l’oscuro<br />
(Adelphi, Milano 2003) è avvenuto quasi in concomitanza<br />
con una bella proposta dei Meistersinger al Maggio<br />
musicale fiorentino 2004, il che mi ha naturalmente<br />
guidato a iniziare la lettura dal capitolo dedicato a quest’opera:<br />
a incorniciarlo, un titolo sottilmente allusivo, «La città,<br />
il profumo». Ed è stata subito coinvolgente occasione<br />
per ritarare lo strumento<br />
che convenzionalmente,<br />
e non poco<br />
passivamente, viene<br />
spesso applicato<br />
a quest’opera, nata a<br />
fianco del Tristan, durante<br />
l’ampia interruzione<br />
apertasi lungo il<br />
defatigante cammino<br />
creativo del Ring<br />
– «un’opera tra parentesi»,<br />
come scriveva<br />
l’autore a Cosima;<br />
per modificare, dunque,<br />
quelle misure che<br />
sembrano sovente costringerla<br />
entro una<br />
proiezione retrospettiva,<br />
quella di un Wagner<br />
che si rifugia nel<br />
passato, nel contrappunto,<br />
nella positività<br />
operosa di personaggi<br />
riconoscibili 1 , piuttosto che avventurarsi in altre ben più avvolgenti,<br />
non poco sibilline, spire.<br />
Aggiustare il tiro rispetto alla semplificazione è per Bortolotto<br />
fin troppo scontato; gli basta ricordare (p. 347) il chiarimento<br />
di Nietzsche: «Chi rimane sorpreso dalla vicinanza<br />
del Tristan coi Meistersinger, non ha capito, in un punto<br />
importantissimo, la vita e la natura di tutti i Tedeschi veramente<br />
grandi: non sa su quale terreno soltanto può crescere<br />
quella gaiezza propriamente ed unicamente tedesca di Lutero,<br />
Beethoven e di Wagner». Per poi innescare tutte le sue<br />
qualità introspettive nello sciogliere i nodi insiti nello stesso<br />
stacco del soggetto, non più innervato nel mitico o nel leggendario,<br />
ma arroccato alla storia ancora palpitante di una<br />
città: ecco quindi rinsaldata l’unità che ricomprende l’intera<br />
vicenda wagneriana. Di questa, infatti, i Meistersinger sono<br />
solo un altro aspetto, avvinti da una segreta continuità,<br />
oltre che dalla contiguità cronologica, con il Tristan, come a<br />
ribadire la profonda unità di questa «paradossale dilogia»<br />
(p. 353), dove la chiarezza dell’una, anche quella lunare della<br />
notte di San Giovanni, sembra fugare i più inquieti spiriti<br />
della notte che attraversano la partitura gemella. L’acutezza<br />
di Bortolotto è oltremodo penetrante nel leggere in filigrana<br />
i sottili intrichi di questo nodo: se, com’egli dice, i Meistersinger<br />
«enunciano la regola» (p. 341), nondimeno affiora<br />
insinuante «la volontà del nuovo», espressione che sembra<br />
attivare le segrete consonanze baudelairiane, e con esse<br />
lo spettro della «distruzione della lingua», spettro che fin<br />
dai suoi inizi critici ha accompagnato la sensibilità del Nostro.<br />
Centrale, in tale intreccio di tensioni opposte, è la figu-<br />
A destra: Richard Wagner.<br />
di Gian Paolo Minardi<br />
ra di Sachs, il cui profilo l’autore disegna con quella ricchezza<br />
e, pure, con quell’ambiguità di tocchi che smussa, confondendone<br />
le tensioni, certi tratti troppo netti, così da coglierne<br />
la complessità: «Lo sguardo di Sachs, – scrive Bortolotto<br />
– di lui solo, ha doppio orizzonte, l’eccezione e la regola, il<br />
nuovo e il bello» (p. 343). Può sembrare quasi un autoritratto<br />
di Wagner, trascinato da quel «demone dalla vertiginosa<br />
energia trascinatrice» (p. 344) che è il Wahn, il senso illusorio,<br />
sottile follia, che nella sua mobilità insinuante si apre alle<br />
più insospettate riverberazioni musicali: fino alla decantazione<br />
suprema del Quintetto, «musica assoluta: o almeno,<br />
[…] quanto in Wagner più le si accosta» (p. 352).<br />
Il Wahn come traccia sotterranea che delimita e insieme<br />
unisce le due opere, Tristan e Meistersinger; irradiato attraverso<br />
vari poli, esso trasmette il senso più recondito di un<br />
pensiero che nutre la musica, quasi sollecitando inafferrabili<br />
presentimenti. Bortolotto, con la sua sensibilità da rabdomante,<br />
sorretta dal dominio di letture sconfinate e dalla capacità<br />
di riattivarle entro prospettive attuali, segnala alcuni<br />
indizi preziosi, luci penetranti, utili a orientarci, seppur come<br />
sprazzi fugaci dell’inconscio, entro la fascinosa, non di<br />
rado disarmante, oscurità. È quanto, appunto,<br />
va attraversando l’animo di Sachs, quel suo<br />
modo di praticare il ruolo di «maestro»,<br />
consapevole che il rispetto della regola<br />
non può non divenire proiezione<br />
di nuove situazioni, di nuovi sentimenti.<br />
Motivo centrale dell’opera,<br />
questo, attestato dalla diversità<br />
delle reazioni: «Hanslick<br />
perse il controllo: “se i Meistersinger<br />
diventassero regola, sarebbe<br />
la fine di tutta la musica”;<br />
Nietzsche non si entusiasmò. Ma<br />
Brahms li predilesse, avendo vissuto<br />
quel dilemma come una spina<br />
nella carne» (p. 346).<br />
Allo stesso modo, proprio attraverso<br />
questo percorso sotterraneo, Bortolotto<br />
rivolge altrettanta attenzione<br />
a Beckmesser, liberandolo dalle insistite<br />
ristrettezze di certi tratti grotteschi<br />
appartenenti a un consunto<br />
oleografismo, al quale pure sottrae<br />
gli altri Maestri, per ritrovare<br />
più profonde radici di quell’inclinazione comica<br />
che, non va dimenticato, aveva rappresentato l’originario,<br />
benché tutto da decodificare, obiettivo di Wagner; di là dalla<br />
superficie, dunque, è l’humus diversamente fermentante<br />
che opera, quella «gaiezza propriamente ed unicamente tedesca»<br />
colta da Nietzsche, il quale, pur non entusiasta, aveva<br />
compreso il tessuto più segreto entro cui le varie tematiche,<br />
come in un contrappunto arioso eppur necessario, vanno<br />
intersecandosi. Persino il tema, più perigliosamente esposto,<br />
dello spirito patrio: «queste cose – aveva detto il filosofo<br />
– debbono venir intese artisticamente, non dogmaticamente.<br />
Anche il nazionalismo tedesco fa parte di ciò».<br />
Il Wahn, dunque, come chiave per penetrare l’oscuro, nella<br />
sofferta consapevolezza di Sachs (in questo davvero un doppio<br />
di Wagner) che carattere dominante della poesia è la dimensione<br />
onirica. Quella che, infine, troverà nell’estremo cimento<br />
poetico di Walter la forza fecondante dell’amore: non<br />
più il «malvagio spettro della notte», chiarisce Bortolotto a<br />
riscontro di Tristan, «ma illuminazione benigna» (p. 351).<br />
«Illuminazione benigna» e «follia d’amore» sono i termini<br />
per rilevare le differenze tra le due opere contigue: diverse<br />
ma non contrastanti, sembra pensare Bortolotto, il<br />
Il provetto stregone 69
70<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
quale, nel rimarcare l’«unità di stile», scorge in questa vicinanza<br />
un momento nodale di quella stretta tra stile e linguaggio<br />
che prefigura le strade della modernità: fino a quel<br />
«punto di bruciante identità» realizzato da Anton von Webern<br />
(pp. 334-335).<br />
Il mio approccio al libro, partendo dai Meistersinger, è stato<br />
un repentino precipitare in medias res, cosicché ancor<br />
più sollecitante è risultato poi il risalire alle origini di questo<br />
straordinario viaggio entro l’«oscuro». Con una guida<br />
tanto avvincente quanto impegnativa: scherzosamente,<br />
si potrebbe parafrasare: «Bortolotto l’oscuro». Ma nel<br />
senso ch’egli ci consente di entrare nell’oscurità wagneriana,<br />
svelandocene i tratti che da quelle tenebre vanno via via<br />
definendosi, superando le contraddizioni più apparenti per<br />
stabilire una nuova complicità. La stessa cosa, insomma,<br />
che Bortolotto aveva fatto in Dopo una battaglia, ricreando<br />
una prospettiva inattesa della Francia dopo Sédan, o in Est<br />
dell’Oriente, dove ci aveva introdotto nei più riposti scenari<br />
della musica russa. Con Wagner Bortolotto ci rende partecipi<br />
di quel mondo fatto, com’egli dice, di «quasi inafferrabili<br />
fugacità, nebule intangibili, fibrillazioni tessutarie, collisioni<br />
cromatiche, microcosmi sfumanti in un magmatico habitat<br />
sinfonico» (pp. 183-184). Terreno oltremodo<br />
provocante per il Nostro, nel<br />
contrasto tra questo avventuroso universo<br />
linguistico e immaginario e la<br />
statura umana del mistificatore. Un<br />
contrasto irrisolvibile: «Impossibile<br />
affatto sarebbe procedere a districare<br />
nell’amalgama psichico, e verbale, di<br />
sincerità, mendacio, estetismo, egoismo,<br />
posa, generosità sconfinata» (p.<br />
22). E tuttavia il gioco è avvincente, e<br />
infiniti sono i labirinti attraverso cui<br />
Bortolotto ci guida, con le sue imprevedibili<br />
vividezze, le scorciatoie inaspettate<br />
quanto rivelatrici.<br />
Un viaggio, del resto, lungo il quale<br />
Bortolotto aveva già accompagnato<br />
il lettore nella prefazione<br />
all’edizione italiana del saggio di<br />
Adorno 2 , laddove sospingeva lo<br />
sguardo verso regioni più arcane,<br />
inesplorate – «il discorso su<br />
Schönberg si deve di necessità inserire<br />
nella prospettiva del Versuch» 3 , – sul<br />
filo di quella ambivalenza che troverà pure riverbero nel pensiero<br />
di Fedele d’Amico per giustificare come «tutto, dopo<br />
Wagner, diventa problema» in quanto «eterna resta l’ambiguità<br />
fra la tensione nichilista dell’inestirpabile eresiarca<br />
e la bronzea concretezza delle figure che ne son messe in moto»<br />
4 . Bortolotto sembra andare ancora oltre nel creare aspettative<br />
di lunghissima gittata, conseguenza del «negativo»,<br />
pur non celando la disillusione nella scettica chiusa: «Gli<br />
orologi della musica senza aggettivazione, arrestatisi simpateticamente<br />
nel febbraio 1883, il giorno 13 (in obbedienza<br />
al numero vitale del musicista) sul frammento Liebe-Tragik<br />
di Palazzo Vendramin, segnano adesso, meccanici ossimori,<br />
l’ora delle serenate» 5 .<br />
Un Wagner diverso, appunto, non riportabile entro linee<br />
definite, neppure rassicuranti, a considerare l’enorme sfrido<br />
che dall’imponente impresa è andato determinandosi. Anche<br />
questo fa parte dell’effetto Wagner, di quel gorgo avvitato<br />
dalla sua concezione musicale e, più ancora, dal suo linguaggio<br />
votato alla dissoluzione: la musica, come intuito da<br />
Schopenhauer e da Nietzsche, quale «arte del tramonto»,<br />
a disegnare l’arcata discendente in fondo alla quale, «ulti-<br />
ma tappa del sublime romantico» – scriveva Bortolotto nella<br />
prefazione al saggio di Adorno su Wagner – è «il Kitsch» 6 .<br />
Aloni fumosi quelli emanati da questo termine; quel fumo<br />
che costituiva la ragion d’essere degli adepti («Il wagnerismo<br />
[…] un rituale asiatico, baudelairianamente “impregné<br />
d’odeurs”»: p. 16), i Wagnerianer e, nella diramata idolatria<br />
francese, i Wagnerites, fino all’eccitazione di un Catulle<br />
Mendès il quale esclamava «Christ, Berlioz et Wagner, divins!»<br />
(p. 15). Un terreno in cui Bortolotto brucia tutta la<br />
sua sagacia, con una circolarità di movenze capace di mettere<br />
a frutto la banalità del gossip attraverso iperboli accecanti,<br />
che partendo dalle situazioni del divenire quotidiano ci pongono<br />
di fronte a snodi essenziali, facendoci intendere il senso<br />
ineludibile di un lascito. Lascito che va depurato, comprensibilmente,<br />
dalle incrostazioni sedimentate sul personaggio<br />
Wagner, pur esse però significative, come pure dalle infinite<br />
complicazioni innescate dal suo rapporto coi contemporanei,<br />
e con Liszt in particolare. Al quale non esitava a confessare<br />
«come musicista mi sento tale da far pietà» – pendant<br />
al giudizio impregnato di sufficienza sul futuro suocero:<br />
«non è che un musicista!».<br />
Una presenza, quella dell’ungherese, che nelle pagine di<br />
Bortolotto rivive non tanto in termini<br />
di rivendicazione quanto<br />
piuttosto innestata nel<br />
comune parametro dell’«inattualità».Molte,<br />
infatti, sono le situazionimusicali<br />
di Liszt che possono<br />
considerarsi incunaboli<br />
di Wagner; la più<br />
nota, la melodia dalle Campane<br />
del duomo di Strasburgo,<br />
che ritroviamo nel Parsifal<br />
quale motivo che accompagna<br />
il corteo funebre di Titurel<br />
(e che poi, simbolicamente, Liszt<br />
riprenderà nel tardo Am Grabe<br />
Richard Wagners per pianoforte).<br />
Bortolotto è chiarissimo nello<br />
sfatare la nebbia: «La distanza da<br />
Liszt è radicale, nonostante l’affinità<br />
apparente: l’atteggiamento di Wagner<br />
punta sull’estensione del principio<br />
tonale, laddove Liszt indaga plaghe<br />
ignote con attenzione meramente acustica, sperimentale<br />
nettamente» (p. 428). Più che il bilancio dei crediti, in parte<br />
riconosciuti da Wagner, in particolare quelli verso i poemi<br />
sinfonici, nonostante la sua iniziale sfiducia nella musica a<br />
programma (mentre risulterà insensibile, se non disgustato,<br />
dalle estreme pagine sperimentali, a tal punto ritenute frutto<br />
di uno squilibrio da chiamarne l’autore «re Lear»), emerge<br />
la comunanza di una particolare tensione formale nel gestire<br />
il rapporto con la parola. Tensione che per Wagner vede<br />
la sua naturale proiezione nel modo di concepire il tempo,<br />
miticamente, come uno scorrere circolare entro cui affiorano<br />
e agiscono, quali presenze riconoscibili, i temi, non organismi<br />
compiuti in sé, nella loro fisionomia grafica, avverte<br />
Bortolotto, bensì puro dato temporale, proprio come l’intermittence<br />
proustiana. Puntualissimo il rimbalzo attraverso<br />
la figura del «barone di Charlus, perno della Recherche; ove<br />
svolge insieme pratica di delucidazione e d’arbitraggio, e soffre<br />
passione sacrificale. Al pari di Wotan, non occupa trop-<br />
A sinistra: Friedrich Wilhelm Nietzsche.<br />
A destra: Arthur Schopenhauer.
po spazio nella generale economia» (p. 278). Ma questa peculiarità<br />
dei temi wagneriani, elementi di un cosmo in divenire<br />
(e non albero genealogico), di quella melodia infinita<br />
che lungi dall’essere isolata e ridefinita come forma chiusa –<br />
secondo una consuetudine pratica cui aderì per convenienza<br />
lo stesso Wagner – trova una sua ragion d’essere proprio<br />
nel suo vivere nel tempo, e quindi nel suo continuo trasformarsi,<br />
in quel suo cangiare quasi biologico che dalla nascita<br />
giunge all’estinzione, questa peculiarità dei temi, dicevo, è<br />
un tratto che, come suggerisce Bortolotto, può ritrovarsi anche<br />
«nella genesi della Comédie humaine e, in scala minore,<br />
nei Rougon-Macquart o, fra gli scrittori moderni, nelle complesse<br />
parentele diramantesi nella saga di Yoknapatawpha,<br />
in Faulkner» (p. 41).<br />
E proprio il parametro della «inattualità», nel rendere più<br />
segnatamente sensibile il rapporto di Liszt con Wagner, si allarga<br />
in maniera oltremodo significativa nel reclamare una<br />
più incidente considerazione del musicista ungherese. Lo si<br />
coglie nella sicura evidenza impressa al profilo del musicista<br />
magiaro-franco-tedesco nel bellissimo saggio Liszt o la coscienza<br />
romantica 7 , dal quale la visione si allarga verso orizzonti<br />
inattesi. Indubbio, dice Bortolotto, il riconoscere la<br />
grandezza di Liszt per la complessità ch’egli è andato diramando<br />
su vari fronti, dalla tecnica alla concezione formale,<br />
al gusto, ma ciò che più «allarma» è lo sperimentalismo<br />
e l’eterofonia, quest’ultima in particolare, «un modo di modernità<br />
schiacciante, un’espressione radicale di décadence».<br />
E proprio nel grembo indistinto in cui tali elementi si muovono,<br />
sovrapponendosi talora a più rassicuranti linee guida,<br />
si cela il senso più occulto, più istigante anche, dell’eredità<br />
lisztiana; fino a pensare che si stia «riscoprendo in lui la profezia<br />
di lontani approdi informali» 8 .<br />
Anche per Liszt, come per Wagner, il cammino di Bortolotto<br />
si muove sempre seguendo le ragioni della musica,<br />
esplorate nelle possibili declinazioni delle tante virtualità, a<br />
garantire un’autenticità dai rischi di ogni possibile contaminazione<br />
letteraria o agiografica. In altre parole, egli si sottrae<br />
ben consapevolmente alle insidie del wagnerismo, pur da lui<br />
osservato con quella lunghezza di sguardo, non poco cinica<br />
anche, che lo protegge da ogni «infezione». Una voce per<br />
questo ben sbalzata sul fondale di una tradizione come la nostra,<br />
in cui il wagnerismo si è innervato come termine di confronto<br />
in un ben diversificato tessuto di cultura. Un quadro<br />
che Adriana Guarnieri ha ampiamente ricomposto nel già citato<br />
Tristano, mio Tristano, prezioso gioco d’intarsi, ricchissimo<br />
variegato mosaico tra le cui tessere il «caso Wagner»<br />
si insinua come sottile provocazione, specchio riflettente anche<br />
di più segreti disagi.<br />
Wagner l’oscuro nasce da un confronto inesausto di Bortolotto<br />
con l’opera wagneriana, benché talora scandito in maniera<br />
occasionale: alcuni capitoli sono infatti ripresi da saggi<br />
apparsi in varie occasioni, programmi di sala, presentazioni;<br />
contingenze poi ricomposte attraverso la naturale progressione<br />
cronologica. Ma è soprattutto il filo che va snodandosi<br />
da questo viaggio gremito e avventuroso ad assicurare l’organicità<br />
del percorso, un filo che affiora sempre più significativamente<br />
da un cammino a senso unico, indirizzato all’affermazione<br />
della musica; dopo aver preso le mosse dall’imperioso<br />
statuto teorico del Wort-Ton-Drama, Bortolotto mostra<br />
come le «azioni della musica» vadano facendosi sempre<br />
più «visibili». La vistosa parentesi aperta da Wagner durante<br />
l’Atto II del Sigfrido, con la composizione del Tristan e<br />
dei Meistersinger, segna un trapasso sensibile. Tanti i segnali<br />
di questa presa di coscienza; sintomatica un’annotazione<br />
di Cosima nel suo diario, l’11 febbraio 1872, in cui viene ri-<br />
A destra: Franz Liszt.<br />
ferito un pensiero di Wagner, in quel periodo intento a correggere<br />
le bozze di Oper und Drama: «So quello che là dentro<br />
non conviene a Nietzsche, è ciò che è spiaciuto a Kossak,<br />
e che solleva Schopenhauer contro di me: è quanto dico del<br />
Verbo: in quel tempo non ero ancora capace di dire che era la<br />
musica ad aver dato origine al dramma, e tuttavia, interiormente,<br />
lo sapevo». Ancora Cosima, sei anni dopo, nel 1878,<br />
riferisce di un Wagner irato per una questione di «costumi<br />
e trucco», che si sfogava dicendo, dopo «aver creato l’orchestra<br />
invisibile», di voler «inventare il teatro invisibile». La<br />
questione, come ben si sa, è complessa e tanti sono gli aspetti<br />
contradditori su cui gli studiosi hanno dibattuto. Bortolotto<br />
la gestisce con la consueta sottigliezza; il che non gli<br />
impedisce di far l’occhiolino all’amato Stravinskij: «Là dove<br />
può sembrare che l’assunto ideologico vacilli – scrive, –<br />
interviene il “golfo mistico”: che mai come ora avanza pretese<br />
legittime per la tronfia designazione» (p. 282). Pretese<br />
che il nostro amico, altrettanto puntiglioso nel frugare entro<br />
gli angoli più riposti del disordinato magazzino<br />
da cui Wagner attinge i materiali per le sue ricreazioni<br />
poetiche, individua con acutezza<br />
fulminante, osservando attraverso la lente<br />
del suo penetrante microscopio ogni<br />
minimo passaggio, quasi che, nel chiudere<br />
quel cerchio da cui sono partite le<br />
diramazioni più imprevedibili, si sentisse<br />
sospinto dalle parole del musicista<br />
ormai vecchio, che sentiva Bach<br />
«come la radice delle parole. I rapporti<br />
di quest’opera con ogni altra musica<br />
sono quelli del sanscrito con le altre<br />
lingue». E quindi dar l’impressione<br />
di accondiscendere all’idea che Wagner,<br />
terminato il Parsifal, sognasse<br />
di lasciare il teatro, «dimostrarsi<br />
un musicista vero, fuori dalle lusinghe<br />
dell’azione scenica». Ma subito<br />
se ne ritrae, consapevole che in questo<br />
modo si uscirebbe «dal continente<br />
Wagner» per addentrarsi «nello<br />
scialbo territorio delle supposizioni»<br />
(p. 36). Ossia per entrare in<br />
un’altra dimensione di oscurità. ◼<br />
note<br />
1. Significativo il pensiero di Enrico De Angelis espresso nel saggio I<br />
maestri cantori. Lettura di un’«opera» pubblicato nel Numero unico del<br />
49° Maggio musicale fiorentino 1986, a cura di Mauro Conti, Alberto<br />
Paloscia, Annalena Aranguren, Ente autonomo del Teatro Comunale di<br />
Firenze, Firenze 1986, pp. 129-41, e così riassunto da Adriana Guarnieri<br />
Corazzol in Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso Wagner,<br />
il Mulino, Bologna 1988 («Saggi», 347), p. 361: «ha […] suggerito quale<br />
dimensione wagneriana più autentica (più moderna, novecentista appunto)<br />
quella comico-“moderata” (liberatoria ma non eversiva) dei Maestri<br />
Cantori; proponendo quale cifra privilegiata di questo “dramma satiresco”<br />
la parodia dell’opera tradizionale e sottolineandone quindi significativamente<br />
i caratteri ‘neoclassici’ (prestiti, citazioni, inversioni di<br />
senso, autocitazioni ironiche, effetti a sorpresa, ecc.)».<br />
2. Mario Bortolotto, Prefazione (1966), in Theodor Wiesengrund<br />
Adorno, Wagner (1952), prefazione e cura di Mario Bortolotto, Einaudi,<br />
Torino 2008 («Piccola biblioteca Einaudi», 414); prima ed. it. in Id.,<br />
Wagner – Mahler. Due studi, Einaudi, Torino 1966 («Saggi», 376).<br />
3. Ivi, p. XXIII.<br />
4. Fedele d’Amico, Il dio Wagner (1983), in Id., Tutte le cronache musicali.<br />
«L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la<br />
collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho,<br />
prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, III (1979-1989),<br />
pp. 1989-1993: 1993.<br />
5. Bortolotto, Prefazione, in Adorno, Wagner cit., pp. XXIII-XXIV.<br />
6. Ivi, pp. XXII-XXIII.<br />
7. Scritto nel 1970, è ora confluito in Bortolotto, Corrispondenze,<br />
Adelphi, Milano 2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 88-101.<br />
8. Le due citazioni si leggono ivi, rispettivamente alle pp. 100 e 101.<br />
Il provetto stregone 71
72<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
L’anima del Lied<br />
di Alberto Caprioli<br />
I<br />
libri di Mario Bortolotto non sono soltanto libri<br />
da leggere, sono anche libri da ascoltare, perché parlano.<br />
Come nel caso del magistrale trattato sul Lied romantico<br />
apparso in due edizioni e in varie ristampe tra<br />
il 1962 e oggi, che il suo autore intitola con falsa modestia Introduzione,<br />
e che, al momento della sua riedizione nel 1984,<br />
giudica, addirittura, «impolverato profilo»: Sternenstaub,<br />
diremmo noi piuttosto, quella polvere di stelle che per gli<br />
astrofisici indica il prodotto di novae e supernovae, che il Nostro<br />
ritrasforma da sostantivi di nuovo in aggettivi.<br />
Essendo musicisti, ci si accorge che sono libri scritti da una<br />
mente in continuo dialogo con il proprio orecchio di musicista;<br />
libri che parlano una lingua che alterna ai continui riferimenti<br />
filosofici, artistici, letterari, finanche antropologici,<br />
una verifica incessante sul campo, sul tavolo talora spoglio,<br />
talora straordinariamente adorno di un’anatomia dei pensieri<br />
e dei sentimenti oltre che delle forme, delle attitudini<br />
superficiali e delle strutture profonde.<br />
Chi fosse abituato a confrontarsi con i saggi della maggior<br />
parte dei musicologi, dopo aver letto le prime due pagine di<br />
Introduzione al Lied romantico, comincerebbe a sfogliare<br />
questo, come tanti altri libri di Bortolotto, ricercandone i<br />
capitoli, i paragrafi, l’indice dei nomi; dimenticando che<br />
un’«introduzione» è appunto come un’ouverture, dove i<br />
temi o i Leitmotive dei personaggi si presentano a raccontarli,<br />
a difenderli, talvolta a rimpiangerli, ancor prima dei personaggi<br />
stessi. Ma in questo caso non si tratta di un’ouverture<br />
o di una sinfonia in stile italiano, bensì di una pièce sinfonica<br />
per grande orchestra, una Symphonische Dichtung generatrice<br />
di idee, così come la potrebbe concepire in musica un<br />
Richard Strauss (una lunga frase poematico-sinfonica accompagnata<br />
da una miriade iridescente e incessante di contrappunti<br />
intellettuali, di fermate reali, che fungono da perno<br />
per digressioni continue, ma segretamente e astutamente<br />
organizzate), dove l’ossimoro<br />
con il camerismo del Lied<br />
è artificio volontario<br />
e rende ragione della<br />
inimmaginabile<br />
portata di quella<br />
che si potrebbe<br />
chiamare una<br />
paginetta di<br />
Schubert, di<br />
Schumann<br />
o di Wolf.<br />
Di questa<br />
apparentemente<br />
infinita<br />
Erlösung<br />
d e l l a<br />
forma rimane<br />
la<br />
lucidità<br />
Novalis.<br />
dei timbri, la riconoscibilità degli accenti, la pregnanza delle<br />
dramatis personae, chiamate in causa nella loro chiara contestualità<br />
da manuale di alta geografia delle idee; la distillata<br />
sapienza della citazione appropriata, che non è mai, neppure<br />
nei casi e nei generi più intricati e sibillini, jeu de mots fine a se<br />
stesso, ma diviene viva carne e sangue pulsante del corpo del<br />
testo e dei suoi tessuti:<br />
con trame e orditi talvolta<br />
paralleli o trasversali<br />
che, se non esistono in<br />
natura, vengono creati<br />
da Bortolotto in preziosi<br />
artifici di autentica ars<br />
retorica: un invito al lettore<br />
a divenire l’interlocutore<br />
e l’artefice di uno<br />
scambio continuo.<br />
Bortolotto, da viennese<br />
(oltre che francese) di<br />
origine, prima ancora<br />
che di adozione, esordisce,<br />
inaspettatamente,<br />
con una disamina degli<br />
aspetti contraddittori di<br />
quello che chiama «il<br />
fondamento proibito»<br />
della storiografia tedesca<br />
del Lied, partendo<br />
dalle origini linguistiche<br />
e musicali del termine,<br />
dalla sua pretesa derivazione<br />
antica, germanica e<br />
popolare, con le conseguenti interpretazioni storiografiche,<br />
che oggi gli storici definirebbero sous surveillance.<br />
E in questa introduzione all’introduzione, che si salda al<br />
resto del trattato con l’accelerando proprio delle Einleitungen<br />
delle sinfonie schumanniane, già compaiono scaglie cristalline<br />
di metalli rari, di quelli che erano ancora da scoprire<br />
al tempo dell’alchimia, nel quale certa musicologia italiana<br />
giaceva allora wie eingeschlummert. Un esempio per tutti<br />
(non credevo ai miei occhi quando ho visto, nell’edizione<br />
del 1962, esattamente le stesse parole dell’edizione 1984: in<br />
quel caso nulla era stato aggiunto): quando nella prima pagina<br />
l’autore parla di Stilkritik, in un contesto che, se all’inizio<br />
degli anni sessanta poteva apparire connesso alle discipline<br />
artistiche e all’archeologia, è oggi invece inderogabilmente<br />
legato al suo côté storico-antropologico, non fa altro che<br />
anticipare di quarant’anni, con una fulminante intuizione,<br />
uno dei temi à la page dell’odierna semiotica, tanto da essere<br />
inserito tra i fili conduttori dell’XI Convegno internazionale<br />
della Deutsche Gesellschaft für Semiotik del 2005, intitolato<br />
per l’appunto Stil als Zeichen. Funktionen – Brüche<br />
– Inszenierungen (Stile come segno. Funzioni – trasgressioni –<br />
messinscene), ove un’intera sezione presenta una ricerca della<br />
cattedra di letteratura comparata e comunicazioni (Lehrstuhl<br />
für Vergleichende Literaturwissenschaft und Medienforschung)<br />
dell’Università europea Viadrina di Francoforte<br />
sull’Oder, intitolata per l’appunto Critica stilistica storica e<br />
antropologia. E la sensazione che si tratti di un presagio, di<br />
un’«illuminazione», si concretizza una trentina di pagine<br />
più avanti (per l’esattezza alla p. 32 dell’edizione Piccola<br />
biblioteca Adelphi, p. 31 della prima edizione nella Piccola<br />
biblioteca Ricordi), dove tra gli autori menzionati, al seguito<br />
di Theodor Wiesengrund Adorno, compare Claude Lévi-<br />
Strauss, sette anni prima che Luciano Berio ne utilizzasse i<br />
testi in Sinfonia (1968-1969). Di Lévi-Strauss, oltre ai Tristes<br />
tropiques del 1955 e all’Anthropologie structurale del ’58, si
intuisce che Bortolotto aveva in certo senso prefigurato non<br />
solo alcune pagine del primo scritto appartenente alla tetralogia<br />
dei Mythologiques, Le cru et le cuit, apparso due anni<br />
dopo il Lied romantico, nel 1964, ma anche quelle di Regarder<br />
écouter lire, pubblicato a trent’anni di distanza, nel 1993,<br />
laddove Lévi-Strauss (a proposito di Wagner), dialogando<br />
con un interlocutore d’eccezione quale Michel Leiris (dietro<br />
cui sta in realtà la figura del comune amico René Leibowitz),<br />
da un lato gli rimprovera di occuparsi del testo e non della<br />
musica, dall’altro afferma provocatoriamente che la verità<br />
della storia è nel mito e non viceversa. Ma quella che sembra<br />
una provocazione, Mario Bortolotto lo intravedeva già negli<br />
ormai lontani primi anni sessanta, perde la sua efficacia se la<br />
si legge nel contesto della tradizione dialettica occidentale,<br />
in particolar modo riguardo alle arti. Non solo nelle arti e<br />
nella musica, ma persino nella critica letteraria è ormai un<br />
dato acquisito quanto il mito influenzi in vario modo e a vari<br />
livelli la storiografia. Se Le Goff e Foucault avessero recensito<br />
il libro di Bortolotto avrebbero visto in questo capitolo<br />
introduttivo un parallelo con le allora vivissime polemiche<br />
contro l’antropocentrismo e contro il concetto di storia globale.<br />
Seguendo questo pensiero apparentemente sghembo,<br />
e utilizzando termini forse impropri, direi che Bortolotto,<br />
con il suo trattato, offre una precisa testimonianza di come<br />
fosse ormai risibile, all’epoca della nouvelle histoire, scrivere<br />
una storia del Lied, ma fosse invece necessario affrontare i<br />
problemi posti da una serie di microstorie dei Lieder e dei<br />
loro autori.<br />
E, cosa che rende il libro incredibilmente attuale, gli autori<br />
del passato sono messi in costante dialogo con gli autori del<br />
presente o del passato prossimo. Non vi è pagina dove non<br />
si parta da Bach per giungere a Thomas Mann, da Pfitzner,<br />
Claudel e Stockhausen indietro a Venanzio Fortunato e al<br />
Medioevo tedesco, indagato questa volta per nulla en passant<br />
da una mezza dozzina di pagine per poter leggere le quali<br />
non basta passare un pomeriggio in biblioteca.<br />
Cosa che altrove è richiesta più gradatamente, quando ci si<br />
immerge nelle medias res degli autori a noi più noti, sempre<br />
posti in relazione con l’oggi della musica, della letteratura,<br />
della storia delle idee. Per esempio, quando si parte dalla coscienza<br />
che con la deutsche Romantik è «intervenuta di riflesso,<br />
anche nella musica tedesca, una reale frattura. Dopo i<br />
nuovi ideali religiosi della Nona («Über Sternen»), parallelo<br />
esatto alle Reden über die Religion di Schleiermacher e alla<br />
Christenheit oder Europa di Novalis (per tacere di infiniti<br />
altri apporti), è impensabile una ulteriore variazione» 1 . In<br />
Italia bisognerà attendere gli stessi ventidue anni che separano<br />
la prima dalla seconda edizione dell’Introduzione al Lied<br />
romantico, perché uno studioso quale Luigi Magnani riprenda<br />
il tema del Beethoven lettore di Omero e della Gräkomanie<br />
viennese 2 ; un libro nel quale, peraltro inspiegabilmente,<br />
Novalis non è nemmeno citato, e Schleiermacher una volta<br />
soltanto, quale traduttore della Repubblica di Platone nell’edizione<br />
posseduta da Beethoven.<br />
Novalis, invece, in Bortolotto ritorna puntualmente in<br />
antitesi con le formulazioni di Lukács, introducendo così il<br />
concetto di popolo cui il Lied si ispira, e occupando tre delle<br />
trentaquattro pagine introduttive, sulle quasi duecento pagine<br />
del libro:<br />
Il popolo è inteso […], come ci dice un frammento di Novalis, come<br />
un’idea, idea che riassume in sé una vicenda oscura di sofferenza: la miseria<br />
tedesca marxiana, che il Lukács ha preso a tema centrale del suo schizzo.<br />
Ma a questo punto Novalis interviene: «Si dovrebbe essere orgogliosi<br />
del dolore. Ogni dolore è un ricordo del nostro alto rango. Le malattie<br />
distinguono l’uomo dagli animali e dalle piante. L’uomo è nato a soffrire.<br />
Tanto più misero, tanto più sensibile alla morale e alla religione. [...]<br />
Sempre più trionfanti diventeranno la religione e la moralità, queste basi<br />
del nostro essere». E qui non solo si nega ogni possibilità di redenzione<br />
sociale, ma si proscrive perfino la volontà di saltarne fuori. È necessario,<br />
è doveroso accettare quello stato di cose, perché da esso nasce la salvezza<br />
dell’esperienza basilare, concepita sempre più come unitaria: esteticoreligiosa.<br />
(p. 37; qui e più avanti si cita sempre dall’ed. 1984)<br />
Novalis che teorizza quindi l’accettazione della condizione<br />
umana, la celebrazione dell’amore (di quell’intesa sociale destinata<br />
a divenire la Christenheit-Europa [cristianità-Europa]<br />
del celebre saggio) «e anzitutto [del]la patria tedesca del<br />
nuovo nazionalismo – séguita Bortolotto; – a costituirsi, si<br />
vorrebbe dire, quasi come corpo mistico». Come nei migliori<br />
testi filosofici è qui esemplificato quel «profondo iato» tra<br />
la nascente Romantik, erede degli Stürmer und Dränger, e<br />
l’Illuminismo e la stessa Weimarer Klassik. Invano abbiamo<br />
cercato qualcosa di più vicino all’anima di Schubert di quelle<br />
parole novalisiane citate da Bortolotto: «“Il Lessing vedeva<br />
troppo acutamente e perdeva per questo il sentimento<br />
dell’oscura totalità, la visione magica degli oggetti, nel loro<br />
insieme, nella molteplicità delle luci e delle ombre”. La storia<br />
tedesca, presente tutta nell’istante poetico, nel sogno dell’anima<br />
bella, è una storia ideale eterna: onde nei più radicali<br />
non si parlerà neppure di un ritorno all’evo medio, ma di una<br />
presenza in atto» (p. 38).<br />
Qui si vede la capacità di far germinare il pensiero: non possiamo<br />
non aggiungere oggi, con il conforto del fondamentale<br />
saggio su Wagner 3 , che qui sta tutto il problema della non<br />
autenticità, o quanto meno del non romanticismo, del Lipsiense<br />
e del suo neogotico, opposto al romanticismo, a quella<br />
sorta di grande Liederkreis con cori, più simile al Faust e<br />
al Manfred, che è per esempio la Genoveva di Schumann,<br />
criticata da Wagner, perché non compresa, né da parte sua<br />
in alcun modo comprensibile. «In ogni caso, l’accettazione<br />
dell’attualità “alienata” è il punto di partenza. Essa diviene,<br />
in Beethoven e in Schubert, Wonne der Wehmut, Lob der<br />
Thränen: voluttà della pena, elogio delle lacrime. Schiude<br />
infatti l’unica salvezza: la “immaginazione” in cui consiste<br />
“il più gran bene”» (Ibid.).<br />
Un ulteriore elemento che emerge<br />
nel corso dell’analisi, anche<br />
particolareggiata, di molti<br />
Lieder, indagati dal punto<br />
di vista melodico, armonico,<br />
formale, o da<br />
quello del rapporto<br />
testo-musica,<br />
è il confronto fra<br />
le diverse versioni<br />
musicali di uno stesso<br />
testo letterario: è il<br />
caso della goethiana<br />
Mignon («Kennst du<br />
das Land»: Beethoven,<br />
1810; Schubert,<br />
1815; Schumann,<br />
1849; Wolf, 1888).<br />
Quasi venti pagine<br />
(pp. 42-60), fitte di<br />
concetti che anti-<br />
Franz Schubert.<br />
Il provetto stregone 73
74<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
cipano una nutrita serie di studi di musicologia comparata<br />
da parte di più giovani leve della critica (pensiamo al saggio<br />
schubertiano di Giuseppina La Face Bianconi) 4 . Ma di esse<br />
non si può non citare quella che, se non ne è affatto la conclusione<br />
(in quanto invece di chiudere strade ne apre di nuove),<br />
ne è, in certo modo, il paradigma critico:<br />
Il confronto fra le quattro versioni del Lied, favorito dall’identità del<br />
testo, conclude a una verificazione fondamentale: la tendenza al comportamento<br />
organico, unitario: alla canzone durchkomponierte. [...] Ove la<br />
dissoluzione dello schema, della forma presupposta risulti impossibile,<br />
come nel nostro caso, il compositore riforma dall’interno le strutture<br />
accettate, arrivandosi con Wolf a mutarle integralmente: la variazione<br />
annulla la ripetizione; e niente rimane dell’antica strofe unitaria, sotto la<br />
quale si arrivò a segnare fino a sei testi sovrapposti 5 . Dopo questa rinnovata<br />
vocalità, affiancata dalle affini elaborazioni di Mahler, il Lied non<br />
può che eliminare gli ultimi elementi della sussunzione popolare, e quella<br />
sorta di musica al quadrato ante litteram rovesciarsi nelle depressioni morali<br />
e nelle assorte veggenze della Wienerschule. (pp. 59-60)<br />
E qui, di nuovo, come non vedere un apoftegma patrum nella<br />
definizione che segue: «Le sillabazioni iniziatiche di Webern<br />
portano il Lied a schivare ogni ricerca di salvezza per<br />
ascoltare la verità del suono-simbolo, nel silenzio dell’uomo<br />
interiore». Questa volta è Hölderlin e con lui i suoi migliori<br />
interpreti novecenteschi, da George a Heidegger. Ma eccolo<br />
citato, Hölderlin, quarantasette pagine più avanti (p. 107),<br />
con i Götter Griechenlands, insieme al Leopardi dell’Inno ai<br />
Patriarchi, incomprensibile a chi non ne ricordi il sottotitolo<br />
(De’ principii del genere umano).<br />
Le settantacinque pagine (pp. 35-109) dedicate a Schubert<br />
(che hanno per accompagnatori Mozart, Tomášek, Beethoven,<br />
Zelter, ma anche Schiller, Goethe, Lessing, Winckelmann,<br />
Novalis, Schlegel, Kierkegaard, e, quali paratesti,<br />
tra gli altri Nietzsche, Marx, Lukács) si concludono con un<br />
tramonto del compositore viennese dalle omeriche «dita<br />
di rosa», che prelude all’alba di Schumann, forse mai così a<br />
fondo, e così «germanicamente» compreso, se non da John<br />
Daverio 6 :<br />
Il pensiero idealista, fermamente radicato sui temi dell’umanesimo,<br />
chiarendo la responsabilità tutta umana della storia, parve determinare<br />
in quegli anni, come è stato notato, una seconda perdita del Paradiso. Da<br />
ogni parte d’Europa, Foscolo, Leopardi, Hölderlin, Blake, Keats, Coleridge,<br />
Platen, Nerval, e finanche, in termini di esulcerata ironia, l’amato<br />
Heine, sembrano insegnare agli uomini, nella consolazione del canto, a<br />
dischiudere nuove attualità edeniche. Il candidissimo Schubert, uomo di<br />
poca filosofia, poco dovette saperne: ma intuì quella necessità di ritorno,<br />
che riporta la favola umana a condizioni di primordio. (p. 108)<br />
Chi ha letto lo Schumann delle prime pagine dei Tagebücher<br />
7 lo sente già palpitare in queste parole. Bastano<br />
infatti meno pagine (solo ventotto, contro le settantacinque<br />
dedicate a Schubert) per giungere a un epilogo più da Eusebio<br />
che da Magister Rarus: «La conclusione di Schumann è<br />
[...] uno stupito accecato fissare le ragioni che la ragione non<br />
conosce: proprio attraverso il contatto immediato con la materiale<br />
tangibilità degli oggetti». Gli stessi echi schumanniani<br />
dell’infanzia sono qui accostati alla bella definizione di<br />
Adorno riguardo al «sempre vano tentativo degli uomini di<br />
nominare le cose stesse» (p. 136).<br />
Il terzo capitolo, dedicato a Mendelssohn e a Löwe, consta<br />
di sole sei pagine (pp. 137-142), divertentissime, dove la<br />
materia passa «dalla natura trascendentale del Gesang der<br />
Geister schubertiano alle canzoni da Touring Club, per le<br />
escursioni educative della media borghesia (la “malvagia”<br />
borghesia di Adorno), tra la religiosità sublime o la tenerezza<br />
della lirica amorosa, e le zuppe, le gelatine di tante graziose<br />
raccolte tutt’oggi pubblicate» (p. 142).<br />
Quasi nessuno – neppure conoscendo intimamente il<br />
Brahms dell’opus 33, le quindici romanze composte tra il<br />
1861 e il 1868 a Münster am Stein, dove il compositore aveva<br />
steso i primi abbozzi, poi abbandonati, della Prima Sinfonia,<br />
e dove si trovava in compagnia di Clara Schumann e dei figli<br />
di lei: quell’opus 33 i cui testi erano stati tratti dal romanzo<br />
della bella Magelone, in Italia quasi ignoto: Liebesgeschichte<br />
der schönen Magelone und des Grafen Peter von Provence,<br />
– quasi nessuno, dicevo, penserebbe di paragonare la prosa<br />
brahmsiana a quella di Tieck (p. 1<strong>48</strong>). E varrebbe la pena di<br />
discutere con Mario Bortolotto se, oltre beninteso al celebre<br />
articolo di Schönberg (nel 1962 non ancora così celebre)<br />
da lui citato, Brahms the Progressive 8 , avesse ragione anche<br />
quel critico contemporaneo di Brahms oggi ingiustamente<br />
dimenticato, che titolava all’inizio del Novecento uno dei<br />
capitoli conclusivi della sua bella epitome sulla storia musicale<br />
(allora) contemporanea «Der Klassizismus. Johannes<br />
Brahms» 9 . Come non pensare, oggi, alla rilettura «classica»<br />
che ne ha dato di recente l’ormai celebre raccolta saggistica<br />
di Giorgio Pestelli, che ridiscute, tra le altre, anche<br />
le tesi contraddittorie di Walter Niemann? 10 Nemmeno al<br />
caustico Ladislao Mittner – che definiva la Rapsodia per<br />
contralto, coro e orchestra di Brahms anziché il suo «Canto<br />
di Fidanzamento», come il compositore aveva scritto a Clara<br />
Schumann, «il canto della sua incapacità di fidanzarsi», 11 –<br />
sarebbe venuto in mente di stabilire un’equivalenza tra il preteso<br />
paganesimo di Brahms e quello di Chesterton (le celebri<br />
pagine sull’ateismo del Manalive vestito di verde). E a pochi,<br />
prima di leggere Bortolotto (mentre a posteriori appare<br />
chiarissimo), risulta chiaro come questo preteso paganesimo<br />
sia da identificare piuttosto con una religiosità à la Schleiermacher:<br />
quel «senso e gusto dell’infinito» (il celebre passo<br />
del teologo di Breslavia citato da Thomas Mann nel Doktor<br />
Faustus: «Sinn und Geschmack für das Unendliche»), che<br />
è l’«essenza del fenomeno religioso» (p. 152).<br />
Su Wagner, tre pristine rose: tante sono le pagine (154-<br />
Robert Schumann.
1. Mario Bortolotto, Introduzione al Lied romantico,<br />
Adelphi, Milano 19842 («Piccola Biblioteca»,<br />
165), p. 13.<br />
2. Luigi Magnani, Beethoven lettore di Omero, Einaudi,<br />
Torino 1984 («Saggi», 668).<br />
3. Mario Bortolotto, Wagner l’oscuro, Adelphi,<br />
Milano 2003 («Saggi. Nuova serie», 42).<br />
4. Giuseppina La Face Bianconi, La casa del mugnaio.<br />
Ascolto e interpretazione della Schöne Müllerin,<br />
Olschki, Firenze 2003 («Historiae musicae<br />
cultores», 102).<br />
5. Si pensi a Mahler, Quarta Sinfonia, lo stupefacente<br />
Finale (Sehr behaglich «Das himmlische<br />
Leben») su quell’algido testo del Wunderhorn:<br />
nient’altro che una serie di variazioni.<br />
6. John Daverio, Robert Schumann: Herald of a<br />
“New Poetic Age”, Oxford University Press, Oxford-New<br />
York et al. 1997; Id., Crossing Paths:<br />
Schubert, Schumann and Brahms, Oxford University<br />
Press, Oxford-New York et al. 2002.<br />
7. Robert Schumann, Tagebücher, 3 voll., hrsg.<br />
von Georg Eismann und Gerd Nauhaus, VEB,<br />
Leipzig 1971-1087.<br />
8. Arnold Schönberg, Brahms the Progressive<br />
(1933-1947), in Id., Style and Idea, Philosophical<br />
Library, New York 1950; trad. it. di Maria<br />
Giovanna Moretti e Luigi Pestalozza, Brahms il<br />
progressivo, in Id., Stile e Idea, con un saggio introduttivo<br />
e a cura di Luigi Pestalozza, prefazione di<br />
Luigi Rognoni, Rusconi e Paolazzi, Milano 1960<br />
(«Le poetiche»); rist. Feltrinelli, Milano 1975<br />
(«I fatti e le idee», 293).<br />
9. «Der Klassizismus. Johannes Brahms und<br />
seine Nachfolge» è il titolo dell’Erstes Buch nel<br />
volume di Walter Niemann intitolato Die Musik<br />
der Gegenwart und der letzten Vergangenheit<br />
bis zu den Romantikern, Klassizisten und Neudeutschen,<br />
Schuster & Loeffler, Berlin [1913]<br />
1921 13-17 , pp. 32-60.<br />
156) dedicate<br />
a l l ’a u t o r e<br />
del Tristano<br />
nell’Introduzione<br />
al Lied romantico.<br />
Volgendo<br />
al contrarioquell’aforisma<br />
di<br />
Oscar Wilde<br />
secondo il<br />
quale dietro<br />
ogni cosa buffa<br />
va ricercata<br />
una verità nascosta,<br />
pare<br />
quasi che<br />
dietro le<br />
Richard Wagner.<br />
10. Giorgio Pestelli, Canti del destino. Studi su<br />
Brahms, Einaudi, Torino 2000 («Saggi», 833),<br />
in particolare il paragrafo 9 del cap. V, «Diritto<br />
degli artisti agli anacronismi», pp. 174-177 (dove<br />
si fa riferimento a Niemann, Brahms, Schuster &<br />
Loeffler, Berlin 1920).<br />
11. Ladislao Mittner, «Brahms ovvero un ultimo<br />
saluto all’Ottocento», in Id., Storia della letteratura<br />
tedesca, vol. 3, Dal realismo alla sperimentazione<br />
(1820-1970), Einaudi, Torino [1968] 1971 2 ,<br />
tomo I (Dal Biedermeier al fine secolo (1820-<br />
1890)), pp. 8<strong>48</strong>-849.<br />
12. A partire dalle prime biografie degli amici<br />
(Ernst Décsey e Heinrich Werner) e dal moltiplicarsi<br />
di testimonianze ed epistolari inediti (più di<br />
venti dal 1903, anno della morte di Wolf, al 1962,<br />
anno di pubblicazione del libro di Bortolotto),<br />
senza contare ben quattro studi di taglio psicopatologico,<br />
bisognerà attendere gli stessi anni<br />
sessanta, perché veda la luce uno studio organico<br />
sull’opera liederistica del compositore viennese<br />
(Eric Sams, The Songs of Hugo Wolf, Foreword by<br />
Gerald Moore, Methuen, London 1961, aggiornato<br />
nel 1983 per Eulemburg, London, e tradotto<br />
in italiano da Erik Battaglia per Analogon, Asti<br />
2011, quale numero 9 della collana «Le opere<br />
di Eric Sams»). Dei circa cento titoli apparsi dal<br />
1903 al 1962, quattordici sono biografie più e<br />
meno romanzate, dieci sono tesi di laurea; mentre<br />
solo una dozzina sono brevi studi critici sui Lieder,<br />
di cui pochi hanno lasciato traccia nei lavori<br />
sopra citati di Eric Sams e in quelli più recenti e<br />
approfonditi della maggiore studiosa di Wolf,<br />
Susan Youens (Hugo Wolf. The Vocal Music, Princeton<br />
University Press, Princeton 1992, e Hugo<br />
Wolf and His Mörike Songs, Cambridge University<br />
Press, Cambridge 2000, rist. 2006).<br />
13. La metafora è giocata su un termine che a noi<br />
non può non suonare lisztiano: «In Strauss po-<br />
acute definizioni che lo studioso friulano dà del Lied del secondo<br />
Ottocento, nel quale «la preoccupazione conoscitiva<br />
finisce nella soddisfazione artigianale» destinata a «divenire<br />
indagine di se stesso, poesia della poesia, o analisi del<br />
fare poetico» (p. 160), si celi un’ironica risposta agli strali di<br />
Léon Daudet e del suo Le stupide XIX e siècle (1922).<br />
La personalità di Hugo Wolf, non mi riferisco soltanto alla<br />
puntuale analisi del suo Nachtzauber su testo di Eichendorff<br />
(pp. 184-186), incontra per la prima volta in Italia un interprete<br />
degno di tal nome; e pure in ambito germanico, dove<br />
al più si era fatto del facile biografismo legato alle sue amare<br />
vicende umane, non molto era stato scritto che fosse realmente<br />
degno di essere conosciuto. 12 E la meravigliosa scoperta,<br />
che non è mera trouvaille, dell’inaspettata considerazione<br />
di Ravel per il grande viennese (p. 190), non appare poi così<br />
insospettabile, se si pensa a cosa rappresenti per il Novecento<br />
un capolavoro-enigma qual è La valse.<br />
All’amato Strauss, sei pagine (198-203): ma bastano a far<br />
cantare con nuovissimi accenti i Vier letzte Lieder, e non<br />
soltanto; solo due a Pfitzner (pp. 204-205), morto nel 1949,<br />
fedele «a un passato indimenticabile, sepolto ormai come<br />
ricordo o sedimento nell’anima del provincialismo tedesco»:<br />
così si conclude la parabola del Lied romantico, con<br />
un asintoto verso le zone dell’incognita negativa, quella del<br />
feroce antagonista del preteso futurismo musicale teorizzato<br />
da Ferruccio Busoni.<br />
E quando, infine, nell’explicit, Liszt sembra passar la mano<br />
a Sainte-Beuve 13 («La nuova schiatta del Lied, la mutata,<br />
è […] troppo vibrante di passione moderna per trovar luogo<br />
idoneo “dans cette étude du déclin”»), fieri delle parole<br />
espresse su di noi da Mario Bortolotto, viviamo nella speranza<br />
che il futuro ci riserbi, magari fra un secolo, alla scuola ideale<br />
del suo pensiero inimitabile, un nuovo sublime interprete<br />
dei nostri rinnovati canti. ◼<br />
stremi titoli, che parlano di settembre, di sonno e<br />
occaso, ci inducono, nella commozione dell’estinguersi,<br />
a considerare gli ultimi passi anche possibilità<br />
di consolation: così Liszt sembra passar la<br />
mano a Sainte-Beuve» (p. 205). In realtà è Bortolotto<br />
che rilegge Sainte-Beuve facendogli «passar<br />
la mano» da Strauss a Liszt e, ripercorrendo il passaggio<br />
riprodotto, ci si accorge che si tratta di una<br />
citazione quanto mai ellittica: non è Bortolotto a<br />
creare la lisztiana consolation, ch’è già presente in<br />
Sainte-Beuve (in un brano da lui non riportato);<br />
egli si limita solo a sottolinearla nel suo testo con<br />
un lieve tratto di penna, che il tipografo non può<br />
che tradurre in corsivo. Il passo è tratto dal Livre<br />
sixième di Port-Royal, intitolato Le Port-Royal<br />
finissant: «La fin de la vie est toujours triste. Estce<br />
une tristesse de plus, n’est-ce pas plutôt une<br />
consolation [sottolineatura nostra], de sentir que<br />
l’on s’en va avec tout un ordre de choses, et que ce<br />
qu’on affectionnait le plus dans la vie, ce qui nous<br />
y rattachait le plus étroitement, nous a précédé ou<br />
nous accompagne dans la mort? Le fait est qu’en<br />
tout genre Boileau [-Despréaux, Nicolas, 1636-<br />
1711] estimait son siècle fini et très-fini quand il<br />
mourut. Ce n’était plus ce qui s’appelle le siècle<br />
ni le temps qui l’occupait, il pensait à l’Éternité.<br />
Véritable chrétien, honnête homme exemplaire,<br />
il était trop essentiellement poëte [...] pour n’être<br />
pas traité ici comme l’un des nôtres, pour n’avoir<br />
pas une place exacte dans cette étude du déclin»<br />
(C[harles].-A[ugustin]. [de] Sainte-Beuve, Port-<br />
Royal, Renduel-Hachette, Paris 1840-1859; la<br />
citazione è stata controllata sul quinto dei sette<br />
tomi che formano la troisième édition, Hachette,<br />
Paris 1867, p. 520); le due versioni delle Consolations<br />
(Six penseés poétiques) lisztiane erano apparse<br />
per i tipi di Breitkopf & Härtel: nel 1844-19<strong>48</strong><br />
la prima, nel 1849–1850 la seconda...<br />
Il provetto stregone 75
76<br />
carta canta — libri<br />
Le recensioni<br />
di Giuseppina La Face Bianconi<br />
Di Ellen Rosand, che insegna storia della musica<br />
alla Yale, i cultori dell’opera veneziana del Seicento<br />
apprezzano l’imponente monografia Opera<br />
in 17th-Century Venice: the Creation of a Genre<br />
(1991; è in cantiere una traduzione italiana). In questi anni<br />
la studiosa statunitense ha continuato a dissodare il campo:<br />
ha promosso l’edizione critica delle opere di Francesco<br />
Cavalli (Kassel, Bärenreiter, 2012); e nel 2007 ha pubblicato<br />
una monografia su Le ultime opere di Monteverdi, uscita ora<br />
da Ricordi in un’edizione italiana attentamente curata da Federico<br />
Lazzaro. Il sottotitolo dell’ampio lavoro (Trilogia veneziana)<br />
implica una tesi. Per quanto diversi, Il ritorno d’Ulisse<br />
in patria (1640), Le nozze d’Enea con Lavinia (1641) e<br />
L’incoronazione di Poppea (1643) costituirebbero un trittico<br />
su un «programma» implicito: glorificare le mitiche origini<br />
di <strong>Venezia</strong>. Per gli intellettuali del Seicento la Serenissima discende<br />
idealmente dall’antica Troia. Ora, proprio ai poemi<br />
omerici rimanda la vicenda del rimpatrio d’Ulisse nel dramma<br />
stilato da Giacomo Badoaro. Fuggito da Troia, Enea approda<br />
nel Lazio per fondarvi una nuova civiltà dai fulgidi destini,<br />
Roma: è questo il tema delle Nozze d’Enea (dramma di<br />
cui rimane il libretto, attribuibile al lucchese Michelangelo<br />
Torcigliani, non però la musica di Monteverdi). A sua volta<br />
la Repubblica veneta si concepisce come erede legittima della<br />
Roma repubblicana, opposta al degrado morale e politico<br />
della Roma imperiale:<br />
nell’èra<br />
di Paolo Sarpi<br />
e dell’Interdetto,<br />
attingere dagli<br />
Annali di Tacito<br />
lo spettacolo<br />
della tirannide<br />
neroniana<br />
equivaleva a celebrare,<br />
per contrasto,<br />
la sovranità<br />
e la libertà<br />
di <strong>Venezia</strong>.<br />
È il caso dell’acre,<br />
beffarda tramadell’Incoronazione<br />
di Poppea<br />
di Busenello,<br />
fondata sugli<br />
amori scellerati di Nerone, la criminale sete di vendetta<br />
d’Ottavia e l’agguato omicida di Ottone ai danni dell’eroina.<br />
La tesi, affascinante, è argomentata da Rosand su molti<br />
piani – storia delle idee, critica delle fonti, analisi stilistica,<br />
drammaturgia – e va attentamente considerata. Certo,<br />
l’ideologia «negativa» del terzo dramma stride con quella<br />
«positiva» dei primi due: il che ha suscitato lo scetticismo di<br />
qualche recensore. Ma nessun amante del teatro monteverdiano<br />
può fare a meno di confrontarsi con una monografia<br />
così generosa di sapienza e acume critico.<br />
Carlo Piccardi è uno dei musicologi e operatori<br />
musicali di spicco nella Confederazione Elvetica. Autore di<br />
numerosi saggi, in particolare sulla musica per la radio e il cinema,<br />
per decenni ha lavorato come direttore della rete culturale<br />
della Radiotelevisione Svizzera italiana. Ricordi e lim<br />
pubblicano ora un corposo volume sui Maestri viennesi, che<br />
Ellen Rosand,<br />
Le ultime opere di Monteverdi. Trilogia veneziana,<br />
edizione italiana a cura di Federico Lazzaro,<br />
San Giuliano Milanese, Universal Music Publishing Ricordi,<br />
2012, xix-440 pp., isbn 978-88-7592-905-3, euro 28,00.<br />
Carlo Piccardi,<br />
Maestri viennesi.<br />
Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. Verso e oltre,<br />
San Giuliano Milanese, Universal Music Publishing Ricordi –<br />
Libreria Musicale Italiana, 2012 («Le Sfere», 53),<br />
vii-744 pp., isbn 978-88-7592-895-7, euro 32,00.<br />
Arnold Schönberg,<br />
Il pensiero musicale,<br />
a cura di Francesco Finocchiaro,<br />
Roma, Casa editrice Astrolabio – Ubaldini, 2012 («Adagio»),<br />
339 pp., isbn 978-88-340-1602-2, euro 32,00.<br />
tratta i quattro sommi, Haydn Mozart Beethoven Schubert,<br />
col contorno di parecchi «minori». Si narra qui la nascita e<br />
lo sviluppo di una fulgida civiltà musicale nella Vienna tra fine<br />
Sette e fine Ottocento. La capitale asburgica metabolizza<br />
le esperienze musicali del passato e ne crea di nuove: i quattro<br />
grandi compositori non sono riconducibili sic et simpliciter<br />
a un’astratta «viennesità» (solo Schubert era nativo), ma<br />
tutti si alimentarono della cultura offerta dalla città sul Danubio,<br />
così ricca di incroci colti e popolari. Il saggio di Piccardi<br />
è seducente, accattivante alla lettura, utile al musicologo<br />
come allo studente: ottimo lavoro, da salutare con gaudio.<br />
Si deve a un giovane studioso di Schönberg, Francesco<br />
Finocchiaro, un’impresa ragguardevole: l’edizione bilingue<br />
del trattato che, nelle intenzioni del capostipite della<br />
Scuola di Vienna, avrebbe dovuto compendiare il senso del<br />
«pensiero musicale» e della «logica, tecnica e arte» in cui<br />
esso si manifesta. La stesura fu avviata nel 1923; ma il lavoro<br />
rimase incompiuto. Negli anni novanta ne fu fatta una discutibile<br />
edizione inglese; ora Finocchiaro, in collaborazione<br />
con l’Istituto Schönberg di Vienna, offre integro l’originale<br />
tedesco e vi appone un’accuratissima traduzione italiana,<br />
che è nel contempo un prezioso commento. Un documento<br />
intellettuale e critico di primaria importanza. ◼
Palchi e gironi<br />
per i cantautori italiani<br />
È<br />
uscito lo scorso aprile, per i tipi di effequ,<br />
il primo volume che relega all’Inferno, non lascia<br />
certo deserto il Purgatorio e fa assurgere al Paradiso<br />
ben cinquant’anni di cantautorato italiano.<br />
Il coraggioso autore che s’è cimentato nell’impresa è Guido<br />
Michelone, che ha dato alla luce una sorta di commedia<br />
alla Dante Alighieri, con tanto di palchi e gironi.<br />
E proprio come l’Alighieri allora, accompagnato nella sua<br />
Divina commedia<br />
da Virgilio e Beatrice,<br />
così oggi un<br />
nuovo e scanzonato<br />
– è proprio<br />
il caso di dirlo –<br />
scrittore, Lazslo<br />
Kovacs (alter ego<br />
dell’autore), accompagnato<br />
dal<br />
poeta Cecco Angiolieri<br />
e dalla signorina<br />
Francis<br />
Nudella, si inoltra<br />
in una surreale<br />
fiera composta<br />
proprio da Inferno,<br />
Purgatorio e<br />
Paradiso. La abitano<br />
i cantautori<br />
italiani, appun-<br />
to, accomodati<br />
fra cerchi, gironi e<br />
cornici, a seconda<br />
del contributo discograficofornito<br />
alla storia della<br />
di Ilaria Pellanda<br />
guido michelone,<br />
La commedia dei cantautori italiani.<br />
Inferno – Purgatorio – Paradiso,<br />
effequ editore, Orbetello, 2012,<br />
pp. 240, 14 euro.<br />
canzone d’autore nel Belpaese della musica. Un gioco divertente<br />
dove Michelone racconta, tra fiction e saggistica, mezzo<br />
secolo di voci e volti, caratteri e pensieri, da Domenico<br />
Modugno e Fred Buscaglione a Francesco Guccini e Fabrizio<br />
De André (tutti e quattro in Paradiso), da Luigi Tenco (anche<br />
lui nel più celestiale dei cerchi) a Jovanotti, Vasco Rossi,<br />
Claudio Baglioni (relegati all’Inferno) e molti altri ancora,<br />
svelando pregi e difetti di novantanove personaggi tratteggiati<br />
con humor, ironia e teatralità.<br />
«Questo libro è un gioco della memoria su pensieri e parole<br />
– si legge nella premessa di Andrea de Antonio –, su nomi<br />
e cognomi, su canzoni e cantautori. È anche un gioco “sulla”<br />
memoria del passato e del presente, gioco esercitato attraverso<br />
i ricordi, le sensazioni, i ragionamenti, le idee che suscitano<br />
alcuni pezzi e i loro interpreti (sovente essi stessi autori).<br />
Non è un’altra storia della musica leggera nazionale, perché<br />
già molte ne esistono e si correrebbe il rischio di non dire<br />
nulla di speciale, al momento. Questo libro è piuttosto il<br />
tentativo di coniugare Marcel Proust (che diceva che la canzone<br />
– e non solo la musica più “seria” come quella classica,<br />
ad esempio – si ricorda e si ama di più grazie all’immediatezza<br />
del messaggio, ndr), Dante Alighieri e i giochi a premi che<br />
sono andati assai di moda nell’Italietta televisiva di questi<br />
ultimi cinquant’anni, forse non a caso in parallelo ai successi<br />
della cosiddetta “canzone d’autore”». ◼<br />
Emma Dante<br />
e la sua Biancaneve<br />
reale. La regina è nella sua stanza<br />
da letto davanti allo specchio. Si spoglia. Si<br />
«Palazzo<br />
toglie il rossetto facendo le smorfie. Si ammira.<br />
Si guarda di profilo, davanti, di dietro. Lo<br />
specchio la imita in tutto e per tutto».<br />
Comincia così la rilettura che la drammaturga e regista siciliana<br />
Emma Dante fa della favola di Biancaneve nel suo Gli<br />
alti e bassi di Biancaneve, pubblicato la scorsa primavera per<br />
i tipi della Tartaruga, illustrato ancora una volta da Maria<br />
Cristina Costa, che già aveva lavorato con la Dante al libro<br />
Anastasia, Genoveffa e Cenerentola (cfr. vmed n. 41, p. 86),<br />
e divenuto anche uno spettacolo cupo e colorato, divertente<br />
e profondo (presentato lo scorso 9 agosto all’interno del cartellone<br />
dell’Operaestate Festival).<br />
Vi è poi subito il famoso scambio tra la regina – curiosa<br />
di sapere chi sia la più bella del reame – e il suo specchio:<br />
«Dimmìllo ora, forza!», dice la sovrana.<br />
E lo specchio: «Sei bella, bellissima, favolosa, attraente, eccitante,<br />
sexy, meravigliosa, appetitosa, burrosa, voluttuosa,<br />
con le mani lunghe e affusolate ca putissi suonare la settima<br />
di Beethoven… coi capelli ricci e voluminosi, chilometri di<br />
capelli… il culetto sodo, ‘u pigghiassi a muzzicuni stu culu!<br />
La pancia piatta, ‘a<br />
vita stritta, la bocca<br />
rossa, carnosa,<br />
gli occhi grandi…!<br />
E che muscoli che<br />
hai? Miss Olimpia<br />
2012, la forza della<br />
natura in persona!<br />
Sii ‘a megghiu<br />
di tutto il reame!».<br />
Emma Da nte<br />
continua dunque<br />
il suo viaggio nel<br />
mondo delle fiabe<br />
con una nuova interpretazionevisionaria<br />
e crudele,<br />
dove l’alto si fa basso<br />
e il basso si fa alto.<br />
La regina rap-<br />
Emma Dante,<br />
Gli alti e bassi di Biancaneve,<br />
illustrazioni di Maria Cristina Costa,<br />
Milano, La Tartaruga edizioni, 2012,<br />
pp. <strong>48</strong>, 18,00 euro.<br />
presenta l’«alto», il pericolo di un’esaltazione del proprio io<br />
che rende malvagi e chiusi. La sovrana interroga lo specchio,<br />
Biancaneve il suo cuore, e l’invidia che tormenta la matrigna<br />
è tale da farle desiderare di uccidere la rivale. Quando, con un<br />
incantesimo, decide di trasformarsi in una vecchia per offrire<br />
alla giovane la mela avvelenata, eccola diventare altissima,<br />
per poi ricevere però una punizione esemplare che le farà perdere<br />
la memoria e che non le permetterà di ricordare la formula<br />
dell’antidoto. Tutto è sproporzionato, come le cose che<br />
vedono i bambini. C’è uno specchio che riflette sogni e paure,<br />
azioni malvagie e fughe verso la libertà. E un mondo dove<br />
anche i mostri insegnano a crescere.<br />
E se la matrigna rappresenta il rischio dell’esuberanza del<br />
proprio sé, saranno invece i nanetti – «piccoli» minatori<br />
che hanno perso le gambe durante un’esplosione – a costringere<br />
Biancaneve ad abbassare lo sguardo e a essere umile.<br />
Il lieto fine comunque non manca: Biancaneve viene risvegliata<br />
dal suo sogno incantato da un bel principe. E tutti ballano<br />
dalla felicità. (i.p.) ◼<br />
carta canta — libri 77
78<br />
carta canta — libri<br />
«L’attore civile»<br />
di Paola Bigatto<br />
e Renata Molinari<br />
La vita di un teatro e della sua scuola, ma anche<br />
della sua città, in un periodo cruciale della loro<br />
esistenza: così si potrebbe definire, molto riduttivamente,<br />
L’attore civile. Una riflessione tra teatro e storia<br />
attraverso un secolo di eventi all’Accademia dei Filodrammatici<br />
di Milano di Paola Bigatto e Renata M. Molinari. Così,<br />
affrontando i diversi capitoli, sempre intitolati a un tipo di<br />
attore («giacobino», «patriota», «professionista», «sensitivo»<br />
e «vate»), ecco che, nel 1796, si assiste alla nascita<br />
dei Filodrammatici ad opera della Società Patriottica milanese,<br />
e in quel contesto si inserisce anche la recita della Virginia<br />
alfieriana alla presenza addirittura di Napoleone. Diversi<br />
anni dopo, nel 1862, a Unità appena conseguita, incontriamo<br />
Garibaldi in platea per vedere La sposa senza saperlo di<br />
Giulio Genoino. In epoca postrisorgimentale poi si passa –<br />
per citare solo alcune stazioni di questo articolato percorso –<br />
dalla scoperta teatrale di Dante operata da Ernesto Rossi alle<br />
riflessioni sulla «suggestione<br />
scenica» di Giuseppe Giacosa<br />
all’arrivo, nel 1923, di Eleonora<br />
Duse a inaugurare la sede rinnovata<br />
per la seconda volta. Ma<br />
il segreto che rende piacevolissima,<br />
anzi emozionante la lettura<br />
sta nella forma in cui questo pregevole<br />
volume è stato concepito:<br />
esso è infatti costruito con criteri<br />
eminentemente drammaturgici,<br />
come spiega con la consueta<br />
chiarezza Renata M. Molinari<br />
nel suo Prologo (pp. 7-8):<br />
L’attore civile «si presenta strutturalmente<br />
come un’anomalia e<br />
metodologicamente è un azzar-<br />
Paola Bigatto<br />
e Renata M. Molinari,<br />
L’attore civile.<br />
Una riflessione tra teatro e storia<br />
attraverso un secolo di eventi<br />
all’Accademia dei Filodrammatici<br />
di Milano,<br />
Titivillus, Corazzano (pi),<br />
pp. 200, euro 16.<br />
di Leonardo Mello<br />
do: non è un saggio storico, né<br />
teorico, e nemmeno la cronaca<br />
di un evento o di un’istituzione<br />
teatrale; è pensato come un tracciato<br />
drammaturgico. […] Il libro<br />
racconta possibili spettacoli<br />
o eventi spettacolari che potrebbero<br />
prendere vita a partire dalle<br />
cronache e dalle fasi di crescita<br />
di una comunità teatrale impe-<br />
gnata nella costante definizione e indagine del suo fare. Questa<br />
comunità teatrale è l’Accademia dei Filodrammatici, vista<br />
soprattutto in alcuni particolari momenti di incontro con<br />
le vicende civili, politiche e artistiche della sua città: Milano.<br />
Una Milano raccontata attraverso i suoi teatri – attraverso alcune<br />
serate in un suo teatro: una città osservata nell’intreccio<br />
fra vicende civili e diverse forme dell’arte drammatica e<br />
delle riflessioni ad essa legate. Il tutto con un’attenzione sempre<br />
vigile al fare dell’attore, a quella particolare responsabilità<br />
del dire che egli declina sulle diverse scene della vita artistica<br />
e civile. Nell’avvicinarci e nel presentare momenti particolari<br />
di quella relazione attiva fra un’accademia e la sua città,<br />
gli accadimenti storici diventano tappe di un possibile itinerario<br />
nella pedagogia teatrale». ◼<br />
«Scritto dentro»,<br />
un libro bellissimo<br />
il prato dove è più alto, perché<br />
cresce sul mio cane sotterrato, la macchia di<br />
«Bagno<br />
trifoglio implosa nella conca, l’edera nella<br />
spelonca celeste della civetta, le mille costellazioni<br />
di gramigna. Ma anche dove è rado, arido, secco, dove<br />
non c’è speranza eppure aspetto, bagno ancora, e il geroglifico<br />
da sciogliere è solo lo strato delle orme e delle anatre.<br />
E anche la terra nuda<br />
rinfresco, i sassi del<br />
viale, le traversine che<br />
diventano scure come<br />
l’odore dei treni passati.<br />
E allora lavo anche<br />
questo corpo estraneo,<br />
la testa che sprigiona<br />
un vapore di pensieri,<br />
i piedi quadrati nel<br />
fango, gli occhi lasciati<br />
cadere, la gamba più<br />
lunga del passo. Quella<br />
matta che sente il tempo,<br />
che butta in parte,<br />
sghemba asta a matita.<br />
Quella che è buona soltanto<br />
a tremare. Eppure<br />
un tempo, insieme<br />
all’altra e a un pugno<br />
di idee, teneva su un<br />
Fernando Marchiori,<br />
Scritto dentro,<br />
Poiesis, Alberobello (Ba) 2012,<br />
pp. 110, euro 15.<br />
uomo»: queste le parole<br />
che concludono il<br />
primo tempo di Scritto<br />
dentro, il bellissimo libro<br />
di Fernando Mar-<br />
chiori, scrittore oltre che critico teatrale e studioso tra i più<br />
seri e illuminati. Edito dalla pugliese Poiesis nella pregevole<br />
collana «Le rive dei narratori», il volume descrive attraverso<br />
molte stazioni l’isolamento in cui Saetta, un Filottete dei<br />
nostri tempi, si è rinchiuso dopo un tragico avvenimento dei<br />
difficili anni settanta, in cui resta ucciso un suo compagno<br />
di lotta. Neottolemo assume in questo caso i panni di una ragazza,<br />
Moira, figlia del grande amore di Saetta, che lo induce<br />
con l’inganno e poi – presa dal rimorso – con la forza della<br />
persuasione a testimoniare al processo per scagionare amici<br />
d’un tempo chiamati in causa da uno dei molti pentiti, amici<br />
che l’hanno abbandonato alla solitudine della sua esistenza,<br />
in cui gli unici dialoghi il protagonista li instaura con piante<br />
e animali del suo giardino. Il frammento prescelto, nella<br />
sua ovvia parzialità, offre comunque già un saggio potente<br />
dell’universo in cui si muove questo uomo stanco e malato,<br />
che come lo sfortunato eroe sofocleo si ritira in un mondo<br />
«altro», dove dimenticare le tracce dolorose del proprio passato.<br />
Ma al di là del tema, che riprende in modo inedito e affascinante<br />
un argomento scottante della nostra storia recente,<br />
quello che incanta è la scrittura, magmatica eppure controllata,<br />
impetuosa e discreta, poetica e teatrale (credo si potrebbe<br />
con facilità trarne un tesissimo e appassionante monologo,<br />
dato che alcune parti sembrano naturali didascalie<br />
a un testo sempre perfetto): una lingua di «dentro», che associa<br />
vissuto individuale e vicende patrie, dove però si incontrano<br />
elementi universali, che ciascun lettore di oggi può facilmente<br />
fare e sentire propri. Un libro da leggere assolutamente,<br />
e tutto d’un fiato. (l.m.) ◼
Il pop-rap<br />
dei giovanissimi<br />
Rockit & Gugly<br />
di Leonardo Mello<br />
La creatività giovanile, nelle sue molte sfaccettature,<br />
era uno dei pensieri ricorrenti di Giovanni<br />
Morelli, il quale più volte, anche con noi di <strong>Venezia</strong>Musica,<br />
aveva ribadito l’importanza di monitorare<br />
le realtà sommerse, la «musica fatta in casa», come l’aveva<br />
definita lui stesso. E un interessante esempio di questa<br />
tendenza lo offre un originale duo, Rockit & Gugly, nato un<br />
paio di anni fa e composto, come suggerisce il nome stesso,<br />
da Guglielmo Manfrin e Rocco Camatti, rispettivamente di<br />
diciotto e ventun<br />
anni. Questi due<br />
ragazzi mescolano,<br />
in un assemblaggio<br />
ritmico<br />
assai intrigante,<br />
sonorità pop melodiche<br />
e cadenze<br />
rap. Il loro sodalizio,<br />
nato dalla frequentazione<br />
dello<br />
stesso liceo, ha dato<br />
luogo a un cd<br />
autoprodotto, Reset,<br />
che mette insieme<br />
due modalità<br />
espressive differenti,<br />
appunto<br />
il pop e il rap, trovando<br />
però un ottimo<br />
punto d’incontro tra le parole cadenzate dei testi (scritti<br />
da Rocco) e le linee dolci dei ritornelli (composti invece da<br />
Guglielmo). Le canzoni parlano un po’ di tutto, ma sono tra<br />
loro legate da una sorta di filo rosso che diventa anche, in un<br />
certo senso, un flusso narrativo. Così – per citare solo alcune<br />
tracce – si passa da «This Is Italy», dove viene descritto, nelle<br />
sue usanze e costumi, il Belpaese, a «Sideshow», in cui invece<br />
vengono messe in evidenza criticamente le disfunzioni<br />
e le magagne tipicamente nostrane. Ma c’è spazio anche per i<br />
sogni, con la bella «Dreams», e per una concezione più semplice<br />
e umana della vita, invocata in «Reset», che dà il nome<br />
al disco, senza dimenticare il poetico e impegnativo affondo<br />
sulla tragedia dell’Olocausto, evocata in «Fateless», di cui è<br />
stato anche costruito un video utilizzando spezzoni dei più<br />
importanti lungometraggi che hanno trattato l’argomento.<br />
Il processo compositivo dei brani vede prima l’invenzione<br />
delle basi musicali – opera di Guglielmo e creati al computer<br />
grazie al programma Logic Pro 9 – cui poi vengono aggiunte<br />
da Rocco le parole, sempre in lingua inglese. Se spesso si parte<br />
da un giro di chitarra, come ci racconta lo stesso Manfrin,<br />
poi tutto passa per il supporto elettronico: si tratta di musica<br />
di buon livello, costruita e registrata in casa con strumentazioni<br />
professionali, che varrebbe la pena fosse valorizzata e<br />
resa pubblica, tralasciando – com’è invece costume tutto italico<br />
– la diffidenza verso generi considerati, a torto, «minori».<br />
In realtà, attraverso le atmosfere sonore e le parole, ci si<br />
addentra con crescente entusiasmo all’interno del pensiero,<br />
per forza di cose contemporaneo, di due giovanissimi e promettenti<br />
musicisti. ◼<br />
Il «Sunrise» del<br />
Masabumi Kikuchi trio<br />
Un disco delizioso, tenero, malinconico, pieno<br />
di vitalità. Eppure, nell’ascoltarlo, non c’è modo<br />
di togliersi di dosso un velo di tristezza, pensando<br />
che non si potrà più sentire il fraseggio melodico,<br />
ritmico, ineguagliabilmente fantasioso e inventivo di Paul<br />
Motian, il quale, a due anni dalla registrazione se ne sarebbe<br />
andato all’improvviso – aveva suonato dal vivo fino a due<br />
mesi prima – lasciando artisti come Kikuchi dolorosamente<br />
sbigottiti. È dunque un disco postumo Sunrise, «il sorgere<br />
del sole», del settantatreenne pianista giapponese, che già<br />
aveva suonato con Motian fin dal 1990. Dapprima in un trio,<br />
«Tethered Moon», completato<br />
da Gary Peacock<br />
– cinque dischi, a partire<br />
da quello di esordio First<br />
Meeting. Poi nel Paul Motian<br />
trio 2000 + Two con<br />
Chris Potter, Greg Osby e<br />
Mat Manieri, un organico<br />
che licenziò due dischi<br />
dal vivo nel 2007 e 2008,<br />
fino a quest’ultimo trio<br />
formatosi nel 2009 e che<br />
avrebbe potuto indubbiamente<br />
continuare a scri-<br />
vere pagine significative<br />
nel segno dell’improvvisazione.<br />
Sunrise, uscito<br />
quest’anno, è il terzo album<br />
registrato da Motian<br />
nel 2009 per l’etichetta tedesca<br />
ecm Records, prece-<br />
di Giovanni Greto<br />
Masabumi Kikuchi trio,<br />
Sunrise,<br />
ecm Records, 2012<br />
Masabumi Kikuchi, piano;<br />
Thomas Morgan, contrabbasso;<br />
Paul Motian, batteria.<br />
duto da Lost in a Dream del Paul Motian trio, registrato dal<br />
vivo al Village Vanguard e uscito nel 2010 e Live at Birdland,<br />
con Lee Konitz, Charlie Haden e Brad Mehldau, uscito nel<br />
2011. Un anno fecondo, dunque, il 2009, per un musicista che<br />
a settantott’anni (era nato il 25 marzo del 1931) continuava<br />
a suonare con un timbro cristallino e caldo, in maniera raffinata,<br />
lucida e stimolante, che lo caratterizza sin dal momento<br />
della sua apparizione, breve purtroppo (dal 1959 al 1961), nel<br />
forse, più bel trio «piano-basso-batteria» della storia del jazz:<br />
quello con Bill Evans (piano) e Scott LaFaro (contrabbasso),<br />
scomparso in un incidente d’auto il 6 luglio 1961.<br />
Anche se è suddiviso in dieci tracce, Sunrise, di fatto, è una<br />
lunga suite che si sviluppa secondo nuove possibilità improvvisative<br />
per un ensemble, come afferma il pianista nelle note di<br />
presentazione. Il disco è registrato magnificamente, una consuetudine<br />
che ha reso celebre per la qualità del suono l’etichetta<br />
bavarese. Fin dal primo frammento, «Ballad I», avvertiamo<br />
nel fraseggio del trio la grande importanza data al silenzio,<br />
evitando cascate di note che possano appesantire. Si crea<br />
in tal modo un’attesa, un’aspettativa per un qualcosa che si realizza<br />
nella maniera più appropriata. Kikuchi inizia a sondare<br />
il terreno con piccoli tocchi, Morgan lo asseconda con estrema<br />
attenzione, Motian interviene come per commentare e lo<br />
fa sapientemente, sia con le spazzole, sia con le bacchette, dando<br />
molta importanza ai piatti sospesi (una traccia è stata intitolata<br />
proprio «Sticks and Cymbals», «bacchette e piatti»).<br />
Il tocco e il modo di percuotere lo rendono immediatamente<br />
riconoscibile al primo ascolto, come soltanto avviene quando<br />
a suonare è un maestro dello strumento. ◼<br />
carta canta — dischi 79
80<br />
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Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. <strong>48</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
• Giò Alajmo (p. 43)<br />
Critico musicale<br />
• Matteo Antonaci (pp. 10-11)<br />
Critico teatrale (arttribune.com;<br />
teatroecritica.net)<br />
• Gualtiero Bertelli (pp. 50-51)<br />
Cantautore<br />
• Federico Capitoni (pp. 28-29)<br />
Critico musicale<br />
• Alberto Caprioli (pp. 72-75)<br />
Compositore<br />
• Alberto Castelli (p. 34 e p. 35)<br />
Musicologo<br />
• Paolo Cattelan (p. 40-41)<br />
Musicologo<br />
Presidente degli Amici<br />
della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
• Elena Conti (pp.12-13)<br />
Critico teatrale<br />
(iltamburodikattrin.com)<br />
• Vitale Fano (p. 36)<br />
Musicologo (Università di Padova)<br />
• Roberta Ferraresi (pp. 13-15)<br />
Critico teatrale<br />
(iltamburodikattrin.com;<br />
doppiozero.com)<br />
Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
la critica oggi<br />
(parte quarta)<br />
Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
Eresia della felicità a <strong>Venezia</strong><br />
La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice<br />
la critica oggi<br />
(parte terza)<br />
Le collaborazioni di questo numero<br />
• Giuliano Gargano (p. 27)<br />
Giornalista<br />
• Tommaso Gastaldi (p. 45 e p. <strong>48</strong>)<br />
Giornalista freelance<br />
• Giovanni Greto (p. 79)<br />
Critico musicale – Musicista<br />
• Filippo Juvarra (p. 42)<br />
Direttore artistico<br />
degli Amici della Musica di Padova<br />
• Giuseppina La Face Bianconi (p. 76)<br />
Università di Bologna<br />
• Andrea Oddone Martin (p. 39)<br />
Critico musicale<br />
• Rossella Menna (pp. 9-10)<br />
Critico teatrale (rumor(s)cena.com)<br />
• Mario Messinis (pp. 26-27 e p. 31)<br />
Critico musicale<br />
• Guido Michelone (p. 49)<br />
Università Cattolica<br />
del Sacro Cuore di Milano –<br />
Conservatorio di Musica<br />
«Antonio Vivaldi» di Alessandria –<br />
Critico musicale<br />
• Gian Paolo Minardi (pp. 69-71)<br />
Critico musicale<br />
Anno IX - marzo / aprile 2012 - n. 45 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
la critica oggi<br />
(parte seconda)<br />
Anno IX - gennaio / febbraio 2012 - n. 44 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
la «lou salomé»<br />
di giuseppe sinopoli<br />
gli artisti<br />
e la critica<br />
• Jacopo Pellegrini (p. 68)<br />
Critico musicale<br />
• Nicola Pellicani (pp. 62-63)<br />
Segretario<br />
della Fondazione Gianni Pellicani<br />
• Paolo Petazzi (pp. 22-25)<br />
Critico musicale – Docente di Storia<br />
della Musica al Conservatorio<br />
«Giuseppe Verdi» di Milano<br />
• Andrea Pocosgnich (p. 15)<br />
Critico teatrale (teatroecritica.net)<br />
• Oliviero Ponte di Pino (pp. 16-19)<br />
Critico teatrale<br />
• Andrea Porcheddu (p. 8)<br />
Critico teatrale<br />
• Roberto Pugliese (pp. 56-57)<br />
Critico cinematografico<br />
• Eva Rico (p. 55)<br />
Storica dell’arte<br />
• Giada Russo (pp. 11-12)<br />
Critico teatrale (ateatro.it)<br />
• Emanuele Senici (pp. 64-65)<br />
Università «La Sapienza» di Roma<br />
• Arianna Silvestrini (p. 30)<br />
Giornalista freelance<br />
Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241