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L'IMPRESA ITALIANA NELL'ECONOMIA GLOBALE - Cerved

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L’ IMPRESA <strong>ITALIANA</strong> NELL’ ECONOMIA <strong>GLOBALE</strong><br />

8<br />

Europa, riparti!<br />

Boris Biancheri<br />

L’Unione europea<br />

vecchia a 50 anni?<br />

Alberto Majocchi<br />

Un’agenda per il rilancio<br />

della crescita in Europa<br />

Luigi Caligaris<br />

Il modello Minerva<br />

per la difesa europea<br />

BIMESTRALE DI POLITICA ECONOMICA<br />

FEBBRAIO 2007


L’ IMPRESA <strong>ITALIANA</strong> NELL’ ECONOMIA <strong>GLOBALE</strong><br />

Bimestrale di politica economica<br />

n. 8 - Febbraio 2007<br />

Comitato scientifico<br />

Paolo Gnes<br />

PRESIDENTE<br />

Boris Biancheri<br />

Patrizio Bianchi<br />

Innocenzo Cipolletta<br />

Mario Deaglio<br />

Sergio Luciano<br />

Alberto Majocchi<br />

Giorgio Mulè<br />

Marco Onado<br />

Guido M. Rey<br />

Salvatore Rossi<br />

Franco Varetto<br />

Direttore Responsabile<br />

Alberto Mucci<br />

Segreteria di redazione Priscilla Bigioni<br />

Redazione<br />

Global Competition<br />

L’impresa italiana nell’economia globale<br />

Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma<br />

tel. 06-44110735 - fax 06-44110775<br />

email: globalcompetition@cerved.com<br />

sito: www.cerved.com<br />

Proprietario ed Editore<br />

<strong>Cerved</strong> Business Information SpA<br />

Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma<br />

Stampa<br />

Mondadori Printing SpA - Stabilimento grafico Verona<br />

Via Mondadori,15 - Verona<br />

Distribuzione<br />

Mondadori in abbinamento a Panorama Economy<br />

il 1° giovedì dei mesi pari<br />

Progetto grafico e impaginazione<br />

G&Z - Comunicazione integrata - Roma<br />

Le opinioni e i giudizi espressi negli articoli non<br />

impegnano la responsabilità di <strong>Cerved</strong> B.I. SpA<br />

Copyright 2005 <strong>Cerved</strong> B.I. SpA. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati<br />

Testata registrata al Tribunale di Roma al n. 409 del 19 ottobre 2005


‹ editoriale ›<br />

Chiarezza e coraggio, Signora Merkel<br />

Il 25 marzo 1957 la sottoscrizione del Trattato di Roma<br />

istituiva la Comunità Economica Europea (CEE) e iniziava<br />

formalmente, pur ridimensionandolo rispetto al disegno<br />

in cui si era inserito il Trattato istitutivo della CED poi non<br />

ratificato dal Parlamento francese, il processo di integrazione<br />

europea avviato sei anni prima con la costituzione<br />

della CECA.<br />

Nei cinquant’anni trascorsi da allora l’integrazione<br />

economica ha compiuto importanti progressi, grazie alla<br />

realizzazione della politica comune agricola, regionale,<br />

commerciale e della concorrenza,<br />

all’attuazione del mercato<br />

unico, all’adozione dell’euro,<br />

all’allargamento dei confini<br />

dell’Unione dai sei paesi fondatori<br />

agli attuali 27 membri. Molto<br />

tuttavia resta ancora da fare: il<br />

completamento del mercato<br />

unico dei servizi, la realizzazione<br />

di una effettiva capacità di governo<br />

dell’economia, l’attuazione<br />

del proposito – più volte enunciato ma mai organicamente<br />

intrapreso – di realizzare una politica comune della<br />

sicurezza (difesa, esteri, energia).<br />

Negli ultimi dieci anni la lunga fase di crescita che<br />

aveva accompagnato, in un contesto di crescente stabilità<br />

e di riduzione degli squilibri regionali, il processo di integrazione<br />

economica si è esaurita traducendosi – soprattutto<br />

nel nucleo originario dell’Unione – in una situazione<br />

di crescita rallentata, incapace di creare sufficiente occupazione.<br />

Ne è derivata una diffusa situazione di malessere<br />

e di preoccupazione che si è riflessa anche sulla fiducia<br />

nelle istituzioni comunitarie.<br />

Dobbiamo dunque celebrare il cinquantenario di<br />

quello storico evento con soddisfazione per gli importanti<br />

progressi realizzati, ma anche con piena consapevolezza<br />

delle difficoltà da superare e del forte impegno necessario<br />

per portare a compimento il progetto intrapreso.<br />

Il primo, fondamentale problema consiste nel raggiungere<br />

il consenso sulla meta da conseguire, riguardo alla<br />

quale due opposte concezioni dell’Europa si confrontano<br />

da sempre.<br />

Da un lato vi sono coloro che vedono nell’Europa<br />

‹ editoriale ›<br />

di Paolo Gnes<br />

sostanzialmente una zona di libero scambio, che riduce<br />

solo marginalmente la sovranità degli Stati nazionali e che<br />

può considerarsi ormai realizzata salvo il completamento<br />

della liberalizzazione dei mercati, in particolare dei servizi.<br />

In questa visione rientrano normalmente un orientamento<br />

favorevole alla prosecuzione fin d’ora dell’allargamento,<br />

un’ampia condivisione delle tesi neoliberiste in merito alla<br />

capacità del mercato di garantire la crescita e al limitato<br />

ruolo che conseguentemente deve svolgere la politica<br />

economica, la sostanziale accettazione dell’attuale assetto<br />

geopolitico imperniato sulla leadership USA e la fiducia<br />

nella NATO quale più efficiente sistema di difesa europea.<br />

All’estremo opposto si collocano quanti ritengono che<br />

per il benessere e la sicurezza degli europei il progetto di<br />

integrazione debba estendersi dall’ambito economico a<br />

quello politico e concludersi con la realizzazione di un<br />

governo federale in grado di gestire efficientemente e<br />

democraticamente l’economia e la sicurezza nel contesto<br />

del mercato globale e del confronto tra potenze continentali.<br />

Rientra normalmente in tale visione la convinzione che<br />

l’allargamento vada ripreso dopo il rafforzamento istituzionale,<br />

che l’efficienza dei mercati richieda l’azione regolatrice<br />

e all’occorrenza correttiva della politica economica, che<br />

la sicurezza vada perseguita rafforzando gli apparati di difesa<br />

mediante la loro integrazione e accrescendo l’autorevolezza<br />

dell’Europa nello scacchiere mondiale consentendole<br />

di parlare con una voce sola, pur nella continuità della<br />

solidarietà atlantica e della collaborazione nella NATO.<br />

Lo svolgimento del processo di integrazione è stato<br />

costantemente condizionato dalla ricerca di faticosi compromessi<br />

tra queste opposte concezioni dell’Europa.<br />

L’ultimo esempio è il Trattato costituzionale, che – nonostante<br />

i suoi limiti – rappresenta probabilmente il massimo<br />

di Europa politica oggi accettabile dai fautori dell’Europa<br />

libero mercato. La sua bocciatura da parte di due paesi<br />

fondatori va intesa come il rifiuto non tanto del progetto<br />

europeo di per sé, quanto della fisionomia che sta assumendo<br />

per le contraddizioni e i limiti derivanti dai predetti<br />

condizionamenti.<br />

Gli Stati membri hanno accettato le limitazioni alla propria<br />

sovranità derivanti dall’imponente corpo normativo<br />

comunitario via via approvato, ma non hanno delegato<br />

all’Unione le funzioni e i poteri necessari per una gestio-


‹ editoriale ›<br />

‹ editoriale ›<br />

ne dinamica ed efficiente di una politica economica<br />

comune. Dodici di loro hanno adottato l’euro e sottoscritto<br />

il Patto di stabilità, ma non hanno previsto una politica<br />

di bilancio dell’Unione. Si è creata in tal modo, o quasi,<br />

l’Europa del mercato unico e della stabilità monetaria –<br />

beni preziosi da preservare con cura – ma non l’Europa<br />

della crescita, né quella della sicurezza. In tale situazione<br />

l’Europa comunitaria può venire percepita – anche per la<br />

politica di allargamento perseguita – più come un ingranaggio<br />

del generale processo di globalizzazione che<br />

come un argine agli squilibri che esso comporta.<br />

Per poter rispondere alla domanda di benessere e di<br />

sicurezza dei suoi cittadini, per consentire loro di guardare<br />

al futuro con meno preoccupazione, l’Unione deve<br />

disporre di una effettiva capacità di governo dell’economia<br />

e della sicurezza. L’abbiamo sostenuto fin dal primo<br />

numero di Global Competition, esaminando in generale<br />

la globalizzazione e le sue implicazioni, e ne abbiamo trovato<br />

costante conferma in tutte le analisi svolte nei numeri<br />

successivi. Tale esigenza, chiaramente emersa anche<br />

nella Tavola rotonda tenuta presso il Parlamento europeo<br />

nel giugno scorso (riportata nel n. 5 della Rivista), è organicamente<br />

documentata nei tre saggi pubblicati in questo<br />

numero rispettivamente da Boris Biancheri (rafforzamento<br />

istituzionale), Alberto Majocchi (rilancio della crescita) e<br />

Luigi Caligaris (strategia per la difesa).<br />

Per far acquisire all’Unione questa capacità di governo<br />

la soluzione più efficiente e democratica è certamente<br />

quella federale, da realizzare gradualmente e pragmaticamente<br />

sulla base di una rigorosa applicazione del principio<br />

di sussidiarietà in modo da attribuire al governo federale<br />

solo le funzioni che è essenziale gestire a quel livello,<br />

come quelle sopra indicate. Tutte le rimanenti funzioni<br />

dovrebbero restare (o tornare) prerogativa degli Stati nazionali<br />

e degli Enti locali.<br />

Se il modello federale non ha potuto finora affermarsi è<br />

per la resistenza opposta dai difensori della sovranità nazionale<br />

e degli interessi ad essa collegati, assecondata dall’inerzia<br />

e dalla paura del nuovo delle masse. Ma vi ha contribuito<br />

anche l’atteggiamento di quanti, pur convinti della validità<br />

del modello, non l’hanno sostenuto apertamente e con<br />

determinazione, adeguandosi all’approccio comunitario.<br />

Per superare l’impasse occorre ora indicare chiaramen-<br />

te e coraggiosamente le mete da perseguire, dimostrarne<br />

i vantaggi e la fattibilità, coinvolgere nel dibattito non solo<br />

le élites, ma tutti i cittadini europei. Il consenso va ricercato<br />

con la necessità e l’efficienza della soluzione proposta,<br />

non con la minimizzazione e la mimetizzazione dei cambiamenti<br />

richiesti.<br />

La soluzione proposta potrebbe sembrare velleitaria,<br />

implicando il trasferimento all’Unione di importanti componenti<br />

della sovranità degli Stati nazionali. In realtà gli Stati<br />

membri scambierebbero componenti di una sovranità<br />

esclusiva ma in larga misura formale con componenti di<br />

una sovranità congiunta ma effettiva. Del resto la richiesta<br />

di questi trasferimenti di sovranità emerge chiaramente dai<br />

sondaggi di Eurobarometro (Ott. 2006), in base ai quali il<br />

68% degli intervistati chiede il trasferimento all’Unione<br />

della politica estera e il 75% della politica di difesa, dichiarandosi<br />

contrari rispettivamente solo il 21 e il 16 per cento.<br />

Sarebbe auspicabile che il rilancio del progetto europeo<br />

coinvolgesse tutti i 27 paesi membri dell’Unione. Ove<br />

qualcuno non fosse pronto, gli altri dovrebbero comunque<br />

procedere, lasciando naturalmente la porta aperta.<br />

I 12 paesi che hanno adottato l’euro hanno già fatto<br />

una scelta: per loro l’integrazione della politica economica<br />

e, di conseguenza, della politica estera e della sicurezza,<br />

non è un’opzione ma una necessità. Per questa ragione<br />

l’azione di rilancio del progetto europeo potrebbe partire<br />

dall’eurozona ed estendersi via via a tutti i paesi membri<br />

che chiederanno di farne parte, avendone i requisiti e<br />

accettandone le regole.<br />

Il cinquantenario della firma del Trattato di Roma cade<br />

nel semestre tedesco di presidenza dell’Unione. Questa<br />

circostanza ha suscitato grandi attese. Non le deluda,<br />

Signora Merkel. L’essere a capo del più importante stato<br />

membro dell’Unione e l’erede di una tradizione di grandi<br />

uomini di stato che molto hanno fatto per l’Europa, da<br />

Adenauer a Kohl, le dà l’autorità, ma anche la responsabilità,<br />

di fare il primo passo per il rilancio dell’Europa.<br />

Ritrovi lo slancio dei grandi momenti, rifiuti i compromessi<br />

e le ambiguità, vada oltre la pur importante ratifica del<br />

Trattato costituzionale e proponga con chiarezza e coraggio<br />

le scelte da effettuare per realizzare l’Europa di cui<br />

abbiamo bisogno.<br />

Paolo Gnes


sommario<br />

I L PROSSIMO NUMERO<br />

GIOVEDÌ 5 APRILE 2007<br />

Formazione e ricerca<br />

per rafforzare l’impresa<br />

articoli di Adriano Di Maio,<br />

Pasquale Pistorio,<br />

Innocenzo Cipolletta<br />

Europa, riparti!<br />

N. 8 - FEBBRAIO 2007<br />

Boris Biancheri<br />

L’Unione europea pag. 4<br />

vecchia a 50 anni?<br />

Alberto Majocchi<br />

Un’agenda per il rilancio pag. 11<br />

della crescita in Europa<br />

Luigi Caligaris<br />

Il modello Minerva pag. 18<br />

per la difesa europea<br />

Agenda Europa<br />

Dopo Bulgaria e Romania, pag. 27<br />

allargamento sospeso?<br />

Global Competition<br />

in numeri<br />

Lavorare tutti, pag. 29<br />

lavorare meglio<br />

Libri in vetrina pag. 31


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

4<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

L’UNIONE EUROPEA<br />

VECCHIA A 50 ANNI?<br />

Dopo aver disegnato lo scenario dell’Unione europea a 50 anni dal suo avvio,<br />

l’Autore si interroga su cosa fare per rilanciare l’Europa dopo i no<br />

di Francia e Olanda alla Costituzione. Temi fondamentali su cui bisognerà prendere<br />

delle decisioni: le nuove politiche (dall’energia alla difesa, dal welfare alla politica estera),<br />

i futuri allargamenti (in primis la Turchia), gli sviluppi istituzionali aperti a molteplici sbocchi,<br />

tra cui l’Europa a “geometria variabile”…<br />

Nel settecentesco Palazzo Clerici a Milano, sede<br />

dell’ISPI, si trova uno splendido affresco di<br />

Giambattista Tiepolo in cui l’artista rappresenta metaforicamente<br />

l’Europa come un campo di battaglia in cui elmi,<br />

spade, scudi e cavalli bardati simboleggiano il suo eterno<br />

stato di guerra. Un giovane di oggi stenterebbe a riconoscere<br />

il nostro continente in questo affresco perché difficilmente<br />

assocerebbe l’idea di guerra con quella dell’Europa<br />

(quanto meno per l’Europa occidentale).<br />

Eppure la pace nel continente<br />

europeo è una conquista<br />

recente, di poco più di 50 anni.<br />

Spetta principalmente all’Unione<br />

europea il merito di questo miracolo<br />

che ha messo in crisi l’idea stessa<br />

di ciclicità della storia che da<br />

Tucidide a Machiavelli, da Hobbes<br />

a Waltz ha caratterizzato il pensiero<br />

di molti storici, filosofi ecc. Sia che<br />

si tratti del trionfo del pensiero liberale<br />

che di una straordinaria deviazione<br />

dal corso della storia, sta di<br />

fatto che per decenni i paesi<br />

dell’Unione hanno potuto godere<br />

di pace e sviluppo.<br />

Non ci si può neanche limitare ad<br />

affermare che questa pace sia stata<br />

il frutto di un sistema bipolare e, di<br />

conseguenza, della presenza nel<br />

blocco occidentale di una potenza<br />

egemone (gli Stati Uniti) a cui è<br />

stata delegata la sicurezza degli<br />

europei. Dal 1989 a oggi la situazione<br />

non è certo cambiata, anzi sempre<br />

nuovi paesi europei considera-<br />

BORIS BIANCHERI<br />

È attualmente Presidente dell’Ansa (dal 1997),<br />

dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica<br />

Internazionale) e della Fieg (Federazione<br />

Italiana Editori Giornali). In carriera diplomatica<br />

dal 1956, ha prestato servizio in numerose<br />

capitali estere (fra le quali Tokyo, Londra e<br />

Washington) e in organismi internazionali, nonché<br />

al Ministero degli Affari Esteri (nel novembre<br />

1995 è nominato Segretario Generale).<br />

Autore di libri e di articoli, è oggi collaboratore<br />

de “La Stampa” e di periodici nazionali e internazionali.<br />

È autore di libri di saggistica<br />

(Accordare il mondo. La Diplomazia nell’età globale,<br />

Laterza, 1999) e di narrativa (L’Ambra del<br />

Baltico, Feltrinelli, 1994; Il Ritorno a Stomersee,<br />

Feltrinelli, 2002; Il quinto esilio, Feltrinelli,<br />

2006).<br />

1 Si veda T. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University Press, Boston, 1960.<br />

no l’adesione all’Unione una garanzia per assicurarsi un<br />

futuro di prosperità e pace. Le previsioni di chi – come l’esponente<br />

del realismo strategico, Thomas Schelling 1 –<br />

postulava il ritorno al conflitto in Europa dopo la fine del<br />

bipolarismo si sono avverate solo al di fuori dell’Unione<br />

europea (come testimonia la guerra nei Balcani).<br />

Eppure riconoscere all’Unione questo compito storico<br />

rischia inevitabilmente di farci cadere nel retorico, se non<br />

addirittura nello scontato, dato<br />

che esso non aiuta a capire cosa<br />

stia succedendo oggi. I giovani<br />

danno ormai la pace in Europa<br />

come un dato acquisito e ricordarglielo<br />

(cosa che comunque<br />

merita di esser fatta) difficilmente<br />

li renderà più europeisti. Sono<br />

altri i problemi che i giovani euro-<br />

pei avvertono oggi, primi fra tutti<br />

l’incertezza sul loro futuro e la<br />

chiara sensazione che il mondo<br />

sia sempre meno eurocentrico e<br />

che i grandi giochi del futuro<br />

saranno giocati sui tavoli degli<br />

altri. L’Unione europea sarà considerata<br />

utile solo nella misura in<br />

cui riuscirà a fornire risposte concrete<br />

a questi timori. Se non vi riuscisse,<br />

ci si potrebbe realisticamente<br />

aspettare non tanto la sua<br />

morte prematura (data comunque<br />

la profondità dei legami che<br />

uniscono i paesi membri), quanto<br />

piuttosto il suo “prepensionamento”,<br />

ovvero un perpetuarsi dello<br />

status quo che finirebbe per rele-


gare l’Unione al ruolo di grande burocrate.<br />

I segnali non sono certo incoraggianti. I no di Francia e<br />

Olanda al testo della Costituzione europea sono infatti sintomatici<br />

di una crisi profonda. Non ritengo che questa<br />

crisi possa essere sottovalutata prendendo ad esempio i<br />

momenti difficili che già nel passato hanno contraddistinto<br />

il processo di integrazione comunitaria. È vero che proprio<br />

a partire da essi l’Unione aveva trovato la forza di procedere<br />

verso una ulteriore integrazione (secondo una<br />

logica cara al neofunzionalismo), ma è altrettanto vero<br />

che la natura composita della crisi odierna rende difficile<br />

il paragone con il passato.<br />

La profondità e la natura composita di questa crisi ci<br />

spingono dunque a interrogarci sulle prospettive per il<br />

rilancio del progetto comunitario. Prospettive che passano<br />

anche attraverso la soluzione del problema costituzionale,<br />

ma che sarebbe un errore limitare ad esso.<br />

Molte speranze sono riposte sul semestre di Presidenza<br />

tedesco e sulla Dichiarazione che esso preparerà per celebrare<br />

il prossimo marzo nel vertice di Berlino il 50° anniversario<br />

dalla firma dei Trattati. Date però le difficoltà politiche<br />

ed economiche di oggi, il compito della Presidenza<br />

tedesca è tutt’altro che facile. Il rischio che la<br />

Dichiarazione si perda in parole altisonanti è obiettivamente<br />

alto. Sarebbe invece opportuno che si concentrasse<br />

su poche ma chiare azioni che l’Unione dovrà intraprendere<br />

nel futuro. Tutto ciò servirebbe per inviare ai cittadini<br />

un segnale non più rivolto al passato (come molte<br />

celebrazioni tendono a fare) ma verso il futuro.<br />

Bisognerebbe spiegare in parole semplici a cosa servirà<br />

l’Unione europea e quali strumenti (e quali politiche) utilizzerà.<br />

Alcune di queste risposte si trovano già all’interno<br />

della Costituzione europea e potranno essere salvate,<br />

altre implicheranno invece il coraggio di farsi promotori di<br />

nuove e più profonde proposte. La Costituzione non deve<br />

rappresentare un vincolo ma una opportunità, un testo<br />

che fornisce alcune risposte, che però non sempre possono<br />

essere adeguate al nuovo contesto europeo. Tutto ciò<br />

potrebbe concretamente tradursi in una separazione<br />

della prima parte della Costituzione (magari ulteriormente<br />

semplificata) dal resto del lungo testo, che invece formerebbe<br />

un Trattato a parte. Secondo altri sarebbe invece<br />

più appropriato procedere ad una operazione di<br />

“cherry-picking” attraverso la quale verrebbero salvate<br />

quelle parti della Costituzione ritenute più importanti. Tra<br />

queste va annoverato il nuovo meccanismo decisionale<br />

dell’Unione (decisamente più semplice e, soprattutto, efficiente)<br />

che sostituisce il complicatissimo meccanismo con<br />

triplice soglia (numero dei voti, numero dei paesi e percentuale<br />

della popolazione europea) identificato a Nizza<br />

nel 2000 per il calcolo della maggioranza in seno al<br />

Consiglio. Il nuovo sistema di calcolo della maggioranza<br />

(55% dei paesi membri e 65% della popolazione) dovrebbe<br />

essere applicato dal 2009 e permettere al Consiglio di<br />

decidere con più facilità (si pensi che la probabilità di<br />

approvazione di una proposta qualsiasi presentata al<br />

Consiglio in una Europa a 27 è di poco superiore al 2% 2 ).<br />

Ma nel caso in cui si salvasse solo questo meccanismo è<br />

facile aspettarsi la reazione contraria della Spagna e, probabilmente<br />

ancora di più, della Polonia che perderebbero<br />

buona parte dei vantaggi conseguiti mediante la riponderazione<br />

dei voti a Nizza. L’accordo sul testo della<br />

Costituzione era stato infatti possibile solo dopo che<br />

l’Europa era stata scossa dagli attacchi terroristici di<br />

Madrid, seguiti dal passaggio in Spagna dal governo<br />

Aznar a quello Zapatero. Inoltre l’accordo sui meccanismi<br />

decisionali rifletteva il consenso sull’intero testo costituzionale<br />

(che bilanciava richieste e posizioni diverse). Se si procederà<br />

ad estrapolare dalla Costituzione solo alcune parti<br />

è evidente che i termini del compromesso sull’intero testo<br />

potrebbero venire meno.<br />

A prescindere comunque dalle soluzioni che si cercherà<br />

di trovare in merito, è opportuno interrogarsi su ciò che<br />

la Costituzione prevede in maniera marginale o insufficiente<br />

e che invece dovrebbe rientrare nell’agenda europea<br />

del prossimo futuro. Si tratta di temi particolarmente<br />

importanti – e tra loro fortemente correlati – come quello<br />

delle nuove politiche e competenze dell’Unione, dei suoi<br />

futuri allargamenti, di un profondo ripensamento del suo<br />

assetto istituzionale.<br />

Le nuove politiche dell’Unione<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

L’introduzione dell’Euro e l’attribuzione in capo ad un<br />

unico soggetto – la Banca Centrale Europea – della politica<br />

monetaria dovrebbe spingere i paesi dell’Eurozona<br />

verso cicli economici sostanzialmente simili.<br />

Eppure guardando alla situazione europea dal 2003 a<br />

oggi non si può non scorgere la presenza di differenti cicli<br />

congiunturali e, quindi, di diverse esigenze da parte dei<br />

singoli paesi. L’applicazione dei criteri di Maastricht e la<br />

perdita della politica monetaria hanno indubbiamente<br />

diminuito i campi d’azione dei governi nazionali e, di conseguenza,<br />

la loro capacità di intervenire in chiave anticiclica<br />

3 . Appare dunque sempre più opportuno un coordinamento<br />

delle politiche economiche dei vari paesi che non<br />

si riduca al rispetto dei semplici vincoli del Trattato di<br />

Maastricht ma si spinga fino ad includere le politiche fiscali,<br />

le politiche industriali e quelle di welfare.<br />

L’obiettivo non è cancellare lo Stato ma coordinare la<br />

sua azione con quella degli altri paesi membri per far sì<br />

che l’Euro possa esprimere al massimo il proprio potenziale.<br />

In tal modo si potrebbero inoltre correggere anche<br />

eventuali cicli congiunturali (nazionali ma eventualmente<br />

2 Si veda Baldwin, Berglöf, Gavazzi, Wisgrén, Quale Europa. Usi e abusi del Trattato di Nizza, Università Bocconi Editore, Milano, gennaio 2002.<br />

3 Si veda D. Schwarzer, Tensioni nell’Eurozona: quali riforme?, in ISPI Policy Brief, Milano, settembre 2006 (www.ispionline.it)<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

5


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

6<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

anche subnazionali) attraverso opportuni meccanismi di<br />

compensazione da gestire a livello comunitario. Per non<br />

parlare di quanto rimane ancora da fare per il completamento<br />

del mercato unico (dai servizi ai vincoli di varia<br />

natura alla libera concorrenza in Europa).<br />

Tra le tante politiche che meriterebbero attenzione spicca<br />

però per la sua scottante attualità la politica energetica<br />

comune. Non solo la querelle russo-ucraina dello scorso<br />

gennaio sul gas naturale che ha messo a rischio le forniture<br />

russe a diversi paesi europei, tra cui l’Italia, ma anche<br />

il caso Enel-Suez (che ha peraltro dimostrato il carattere<br />

strategico attribuito dai paesi al tema energetico) hanno<br />

attratto l’attenzione dei media e dei cittadini europei.<br />

L’Unione vive il paradosso di essere nata negli anni ‘50<br />

a partire dalla comune esigenza di gestire le risorse energetiche<br />

(con la CECA nel 1951 e l’Euratom nel 1957) ma<br />

di non essere stata successivamente in grado di appropriarsi<br />

di concrete competenze in merito 4 . Tutto ciò in<br />

quanto il carbone ha cessato da decenni di essere la risorse<br />

energetica più importante del continente ed i paesi<br />

europei si sono divisi sulla opportunità del ricorso al<br />

nucleare. Ma il motivo principale è sicuramente rappresentato<br />

dalla enorme importanza che nel consumo energetico<br />

europeo hanno assunto altre risorse fossili (petrolio<br />

e gas) la cui gestione è stata considerata da buona parte<br />

degli stati membri una questione di interesse nazionale.<br />

Per tali motivi il Trattato Cee non individua in capo<br />

all’Unione alcuna competenza in campo energetico rendendo<br />

di fatto impossibile l’implementazione a livello<br />

comunitario di adeguate politiche. In Trattati più recenti<br />

(Maastricht nel 1992 e Amsterdam nel 1997) si era cercato<br />

di gettare le basi per una embrionale forma di politica<br />

energetica comune, ma i tentativi fallirono già in fase<br />

negoziale. L’intervento dell’Unione in tale ambito è stato<br />

reso possibile solo in via “residuale” dall’art. 308 Tce<br />

secondo il quale “quando un’azione della Comunità risulti<br />

necessaria per raggiungere, nel funzionamento del<br />

mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza<br />

che il (...) trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal<br />

uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su<br />

proposta della Commissione e dopo aver consultato il<br />

Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso”.<br />

Quindi solo ricorrendo a tale articolo è stato possibile definire<br />

alcune politiche in materia energetica soprattutto nell’ambito<br />

della politica della concorrenza, di quella<br />

ambientale, del mandato per la creazione del mercato<br />

unico europeo e dell’azione esterna della Comunità.<br />

La Costituzione europea permette di fare qualche passo<br />

avanti, includendo l’energia tra le materie per le quali<br />

l’Unione ha una concorrenza concorrente con quella<br />

degli Stati membri e identifica anche gli ambiti di una possibile<br />

politica comune (funzionamento del mercato dell’e-<br />

nergia, sicurezza dell’approvvigionamento, risparmio<br />

energetico, efficienza energetica e sviluppo di energie<br />

nuove e rinnovabili). I no francese e olandese al testo della<br />

Costituzione europea hanno però reso incerta la sorte di<br />

questa prima forma di politica energetica comune, tanto<br />

che da più parti si sottolinea l’importanza di includere tale<br />

politica in una eventuale azione di “cherry-picking”.<br />

Sarebbe comunque opportuno andare oltre il dettato<br />

costituzionale (peraltro alquanto generico) e prevedere<br />

con chiarezza i contorni e i limiti della futura politica energetica<br />

comune. La presidenza tedesca dell’Unione ha<br />

incluso questo tema tra quelli all’ordine del giorno dei<br />

prossimi Consigli.<br />

L’auspicio è che si proceda con un approccio multilivello<br />

che individui la migliore relazione possibile tra le competenze<br />

e i livelli di governo. Ciascuno di questi livelli<br />

dovrebbe infatti essere chiamato a svolgere compiti specifici<br />

sulla base del principio di sussidiarietà che assegna<br />

precisi poteri all’Unione solo quando i livelli più bassi di<br />

governo non possono ottenere risultati migliori. In molti<br />

casi è del tutto evidente il vantaggio di un’ azione comunitaria.<br />

Si pensi, ad esempio, ai rapporti con i grandi fornitori<br />

extra-europei oggi gestiti bilateralmente dai singoli<br />

paesi europei.<br />

Se si applicasse un approccio simile a quello delle politiche<br />

commerciali per le quali l’Unione europea parla con<br />

una sola voce (quella della Commissione), si avrebbe un<br />

potere negoziale di gran lunga maggiore. Ciò è tanto più<br />

importante se si considera il rischio di un eventuale cartello<br />

per il mercato del gas costruito sulla falsariga dell’Opec<br />

per il mercato petrolifero. Gli accordi in via di definizione<br />

tra la russa Gazprom e l’algerina Sonatrach (i maggiori fornitori<br />

di diversi paesi europei) rendono quanto mai urgente<br />

l’avvio di una forte iniziativa europea.<br />

Un altro campo in cui l’intervento dell’Unione necessita<br />

un salto qualitativo è quello della politica estera e di<br />

difesa. Al riguardo vale la pena di ricordare che i dati<br />

Eurobarometro indicano con chiarezza che non è esatta<br />

l’affermazione secondo cui i cittadini europei vogliono<br />

meno Europa. Questo vale quando viene percepito un<br />

eccesso di regolamentazione da parte delle Istituzioni di<br />

Bruxelles, ma non vale in altri campi, tra cui quello della<br />

sicurezza. D’altra parte dalla fine della guerra fredda<br />

circa 4 milioni di persone hanno perso la vita a causa<br />

delle guerre (di cui il 90% circa rappresentato da civili) e<br />

oltre 18 milioni hanno dovuto abbandonare le proprie<br />

abitazioni.<br />

L’insicurezza sia alle porte dei paesi membri (conflitto nei<br />

Balcani) che in luoghi più lontani (dal Medio Oriente fino<br />

a Timor Est e all’Afghanistan) impone un ripensamento<br />

del ruolo dell’Unione europea. Il tema è già stato affrontato<br />

da tempo in termini soprattutto di capacità<br />

4 Si veda M. Vaccani e A. Villafranca, La politica energetica comune. Il paradosso europeo, in ISPI Policy Brief, Milano, ottobre 2006 (www.ispionline.it).


dell’Unione di intervenire con prontezza nelle aree di<br />

instabilità. Gli accordi Berlin Plus hanno precisato le<br />

modalità di interazione tra l’UE e la NATO e si sono sommati<br />

ad iniziative che mirano, tra l’altro, alla creazione di<br />

“battlegroups” europei impiegabili con grande celerità 5 .<br />

Tuttavia il problema non può esaurirsi nella predisposizione<br />

di una efficace forza militare, in quanto richiede<br />

anzitutto la definizione di una precisa politica estera<br />

comune. È inutile disporre di un esercito efficiente, ben<br />

addestrato ed equipaggiato se prima non si è in grado di<br />

decidere quando e perché impiegarlo. Il problema risiede<br />

dunque prioritariamente nelle competenze attribuite<br />

all’Unione nel campo della politica estera e nei relativi<br />

meccanismi decisionali. Il ricorso al consenso rende infatti<br />

quanto mai difficile l’azione comunitaria. Malgrado l’unità<br />

di intenti nel recente conflitto israelo-libanese o nella<br />

questione del Congo, non ci si può infatti dimenticare<br />

delle profonde divisioni all’interno dell’Unione in un caso<br />

particolarmente delicato come quello dell’attacco all’Iraq.<br />

Anche in questo ambito la Costituzione europea permette<br />

alcuni miglioramenti, che non appaiono tuttavia<br />

sufficienti. Va accolta senza dubbio con favore l’idea del<br />

Ministro degli Esteri, così come la proposta che questi<br />

possa rappresentare la posizione dei paesi membri nel<br />

Consiglio di Sicurezza dell’ONU se l’Unione ha già raggiunto<br />

un accordo in merito. Il problema è che difficilmente<br />

tale Ministro potrà concretamente giocare un<br />

ruolo di primo piano a livello internazionale se l’Unione è<br />

ostaggio del no anche di un solo paese membro.<br />

Anche per la politica estera comune è dunque essenziale<br />

interrogarsi su come gli sviluppi istituzionali dell’Unione<br />

possano condurre a risultati migliori, sia per una Unione<br />

a 27 che per una Unione ancora più allargata.<br />

I futuri allargamenti<br />

Un tema su cui tanto è già stato detto e scritto ma per<br />

il quale permangono sostanziali divergenze è quello dell’allargamento.<br />

Romania e Bulgaria hanno appena aderito<br />

all’Unione portando a 27 il numero dei paesi membri.<br />

Croazia, Macedonia e Turchia hanno lo status di paesi<br />

candidati, anche se le date definitive per la loro adesione<br />

non sono state fissate. Recentemente Barroso si è limitato<br />

a segnalare che dopo l’allargamento si dovrà attendere<br />

almeno fino al 2009 per dar luogo ad ulteriori allargamenti.<br />

È evidente l’intento di aspettare la fine del cosiddetto<br />

“periodo di riflessione” e verificare dunque cosa ne<br />

sarà della Costituzione europea, prima di procedere ad<br />

ulteriori allargamenti.<br />

Altri paesi sono dei potenziali candidati dell’Unione,<br />

come l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la<br />

Serbia (malgrado la questione ancora irrisolta del Kosovo).<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Altri ancora (come l’Ucraina) chiedono con forza di poter<br />

aderire in futuro all’Unione, anche se al momento le probabilità<br />

appaino piuttosto scarse. In generale non v’è<br />

dubbio che i vantaggi derivanti dagli ulteriori allargamenti<br />

siano notevoli sia sul piano economico che su quello<br />

politico-strategico.<br />

Va però ricordato che non tutti gli allargamenti sono<br />

uguali e che l’Unione presenta rigidità e vincoli che già<br />

oggi con 27 paesi membri inficiano l’efficienza delle sue<br />

Istituzioni. Così come nell’allargamento del 2004 la<br />

Polonia ha avuto un peso specifico decisamente maggiore<br />

rispetto agli altri nove paesi, allo stesso modo nei futuri<br />

allargamenti la questione turca rappresenta la sfida<br />

maggiore. Il rischio – da evitare – è che i dubbi e le difficoltà<br />

legate all’adesione turca possano avere ripercussioni<br />

negative anche sulle candidature avanzate dagli altri<br />

paesi.<br />

Data dunque la peculiarità e la diversa dimensione dell’adesione<br />

turca, è bene soffermarsi sul tema.<br />

L'avvio dei negoziati di adesione presuppone il riconoscimento<br />

– in primis da parte delle istituzioni comunitarie<br />

– dei tanti e profondi vantaggi legati all'ingresso della<br />

Turchia.<br />

Come sopra ricordato, motivazioni di vario tipo, ma<br />

principalmente di carattere geopolitico, spingono infatti<br />

verso l'ulteriore ampliamento dell'Unione. La logica è piuttosto<br />

semplice: si vuole avvicinare la Turchia all’Unione nel<br />

timore che diversamente questa possa rivolgersi ai suoi<br />

vicini e veda crescere le istanze degli estremisti. Questo<br />

ragionamento, che ha il pregio della semplicità e della<br />

chiarezza, nasconde però una clamorosa debolezza<br />

dell’Unione europea, ovvero la sua annosa incapacità di<br />

avere una vera politica estera comune.<br />

Difendere i propri confini annettendo o conquistando il<br />

vicino scomodo è infatti una caratteristica tipica delle<br />

grandi potenze del passato, dalle “poleis” greche<br />

all’Impero romano, dall’Impero asburgico all’Unione sovietica.<br />

L’Unione europea non è però un Impero, ma è<br />

costretta a ricorrere a questa logica “imperiale” per far<br />

fronte ad una politica estera comune resa inefficace e<br />

impossibile da governare dalla ferrea regola del consenso.<br />

Prevedere per la Turchia la sola ipotesi della piena adesione<br />

(per quanto condivisibile essa sia) deriva però, implicitamente,<br />

dal riconoscimento che la UE non è in grado<br />

di usure i mezzi di una vera politica estera ed è quindi<br />

costretta a sopperire a tale mancanza con un continuo<br />

ampliamento dei propri confini.<br />

Ma anche a prescindere da queste considerazioni di<br />

carattere strategico, è opportuno valutare l’impatto che<br />

l’adesione turca potrebbe avere sull’opinione pubblica,<br />

sull'attuale architettura istituzionale dell'Unione e sulle sue<br />

dinamiche politiche.<br />

5 Nel 2004 è stato fissato l’Headline Goal 2010 che prevede la creazione di 13 battlegroups (ciascuno di circa 1.500 unità) dispiegabili in 15 giorni e<br />

pronti a sostenere uno sforzo operativo per circa 30 giorni. Sempre nel 2004 è stata inoltre creata la European Defence Agency con il compito di<br />

migliorare le capacità dell’Unione nel campo della gestione delle crisi e promuovere la cooperazione e la ricerca nell’ambito dell’industria militare europea.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

7


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

8<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

La questione dell’identità dell’Unione rappresenta una<br />

delle motivazioni dietro l’attuale crisi del progetto comunitario.<br />

Per quanto sbagliata possa essere, non si può infatti<br />

negare l’esistenza in molti cittadini europei (evidenziata da<br />

diversi sondaggi) di una percezione negativa sugli allargamenti<br />

e, in particolare, sulla questione turca. In Francia,<br />

come in altri paesi, si intende percorrere la strada del referendum<br />

per decidere sull'adesione di nuovi paesi.<br />

Sul piano economico, d’altra parte, non è un caso che<br />

in sede di negoziazione sulle prospettive finanziarie 2007-<br />

2013 molti dei paesi dell’Europa a 15 abbiano chiesto di<br />

ridurre i contributi nazionali al bilancio comunitario<br />

temendo gli effetti di un meccanismo redistributivo comunitario<br />

che porterà ad un tendenziale (anche se controllato)<br />

spostamento di fondi verso i nuovi paesi membri (che<br />

presentano un reddito medio notevolmente più basso).<br />

Vanno inoltre segnalati altri elementi che spingono<br />

verso una grande cautela. Tra questi il più rilevante riguarda<br />

probabilmente il numero di abitanti della Turchia e l’effetto<br />

che esso potrà avere sulla rappresentanza della<br />

Turchia nelle Istituzioni comunitarie. Si ricordi infatti che<br />

mentre in Germania il tasso di crescita annuo della popolazione<br />

è dello 0,1%, tale trend è pari all'1,2% per la<br />

Turchia. Se a ciò si aggiunge anche la dinamica del tasso<br />

di mortalità (10 morti per mille abitanti in Germania, contro<br />

6 morti per mille abitanti in Turchia), è lecito attendersi<br />

che entro 10 anni (il periodo minimo previsto per l’adesione)<br />

la Turchia avrà una popolazione superiore a quella<br />

della Germania, che attualmente conta circa 82 milioni di<br />

abitanti (dati Encarta, 2006). L’adesione di uno Stato<br />

come la Turchia che si avvia dunque ad essere il più popoloso<br />

dell’Unione, non potrà che avere enormi ripercussioni<br />

sulle Istituzioni comunitarie e, in particolare, sul<br />

Consiglio e sul Parlamento europeo.<br />

Per quanto concerne il Consiglio va ricordato che il<br />

sistema a maggioranza qualificata previsto dalla<br />

Costituzione europea attribuisce un grande valore al peso<br />

demografico dei paesi escludendo dal calcolo il numero<br />

dei voti in Consiglio di ciascun paese (che solo parzialmente<br />

rifletteva tale variabile). Malgrado non sia possibile<br />

sapere quale sarà la sorte della Costituzione, abbiamo già<br />

segnalato sopra che l’attuale bassa efficienza decisionale<br />

del Consiglio spinge verso il salvataggio di tale nuovo<br />

meccanismo (forse con qualche ulteriore lieve aggiustamento).<br />

Tutto ciò si tradurrebbe in una posizione di grande forza<br />

per la Turchia che, almeno dal punto di vista matematico,<br />

potrebbe addirittura avere più potere della Germania (è<br />

ovvio che sul piano politico la situazione sarebbe invece<br />

molto più complicata e quindi meno scontata in termini<br />

di rapporti di potere). Una situazione del genere potrebbe<br />

presentarsi anche al Parlamento europeo. I trend<br />

demografici sopra ricordati renderebbero la Turchia il<br />

6 Schema suggerito dal Prof. Wolfgang Wessels dell’Università di Colonia.<br />

paese con il maggior numero di seggi.<br />

È inoltre difficile valutare a priori l’impatto che l’adesione<br />

turca potrebbe esercitare sul sistema partitico europeo.<br />

Oltre alla difficoltà che i partiti turchi potrebbero riscontrare<br />

nell’inserirsi all’interno degli odierni gruppi parlamentari,<br />

andrebbe aggiunta la loro probabile titubanza a sostenere<br />

temi scottanti ma cari al Parlamento europeo, come<br />

la parità dei diritti tra uomo e donna, la ricerca genetica,<br />

l’omosessualità ecc. Con ciò non si intende in alcun modo<br />

esprimere un giudizio sulla “bontà” o meno di queste<br />

posizioni rispetto a posizioni alternative, ma limitarsi a<br />

constatare che attraverso l’ampia eco che questi temi<br />

hanno presso i mass media e il pubblico in generale il<br />

Parlamento è riuscito ad acquisire negli anni un peso crescente<br />

rispetto alle altre Istituzioni comunitarie. Si ricordino<br />

ad esempio le critiche (poi tradottesi in effettive bocciature)<br />

espresse dal Parlamento europeo relative ad alcuni<br />

dei Commissari proposti dagli Stati membri, proprio<br />

facendo leva sulle opinioni espresse su questi temi. Ci si<br />

potrebbe dunque attendere un diverso atteggiamento<br />

del Parlamento europeo che potrebbe tradursi anche in<br />

una alterazione dei rapporti di forza inter-istituzionali.<br />

Nel segnalare questi problemi non intendo in alcun<br />

modo – è bene sottolinearlo – affermare che l’adesione<br />

della Turchia non vada appoggiata. Per evitare però che i<br />

grandi vantaggi politici ed economici legati a tale adesione<br />

siano offuscati, bisogna capire in quale Unione europea<br />

l’adesione della Turchia avrà luogo. Non ci si può<br />

infatti limitare a chiedere alla Turchia di prepararsi all’adesione<br />

rispettando appieno i criteri di Copenhagen.<br />

Bisogna al contempo preparare l’Unione ad accogliere un<br />

paese importante come la Turchia.<br />

In definitiva è bene pensare a degli sviluppi istituzionali<br />

che non si limitino agli aggiustamenti (seppur importanti)<br />

previsti dalla Costituzione europea ma siano in grado di<br />

affrontare le grandi sfide del futuro, sia in termini di nuove<br />

politiche che in termini di nuovi allargamenti.<br />

Gli sviluppi istituzionali<br />

La domanda a cui anzitutto andrebbe data risposta<br />

riguarda le diverse strategie che l’Unione può seguire per<br />

la sua futura evoluzione (o involuzione). Volendo adottare<br />

uno schema quanto più completo che permetta di racchiudere<br />

le varie opzioni possibili 6 , si può anzitutto procedere<br />

attraverso la demarcazione di due direttrici (si veda Fig.1).<br />

La prima riguarda il livello di integrazione dell’Unione e<br />

prevede un ventaglio di possibilità che spaziano dalla<br />

disintegrazione (facendo dunque un passo indietro rispetto<br />

all’attuale Trattato di Nizza) alla ratifica del Trattato<br />

Costituzione, fino all’ipotetica scrittura di una piena<br />

Costituzione (PC) che porti alla creazione di uno Stato<br />

federale.


Figura 1<br />

PC=Piena Costituzione<br />

TCE=Trattato di Costituzione europea<br />

TUE=Trattato dell’Unione europea<br />

La seconda direttrice è invece rappresentata dalla<br />

dimensione dell’Unione, ovvero dal numero di paesi<br />

membri. In questo caso oltre all’ovvia possibilità di incrementare<br />

i paesi che aderiscono all’Unione, si ipotizza la<br />

riduzione del numero dei paesi membri. Ciò però va<br />

inteso non tanto come la recessione (o espulsione) di<br />

alcuni paesi dall’Unione – prospettiva invero poco probabile<br />

– quanto piuttosto come la volontà di alcuni<br />

paesi di preferire forme di cooperazione diverse da quelle<br />

in atto, sia all’interno che all’esterno dell’attuale quadro<br />

istituzionale europeo.<br />

Dalla combinazione di queste due direttrici è dunque<br />

possibile identificare quattro aree che delimitano le varie<br />

strategie disponibili. Il primo quadrante raggruppa le<br />

strategie dei più ottimisti che prevedono una situazione<br />

in cui verrà accresciuto ulteriormente il numero dei paesi<br />

membri, procedendo contestualmente ad una maggiore<br />

integrazione (dal miglioramento dei Trattati esistenti<br />

fino alla piena Costituzione). In particolare le strategie<br />

identificabili sono tre.<br />

La prima (a) può essere considerata come una sorta di<br />

“strategia comunitaria” che – portata all’estremo –<br />

potrebbe tradursi in una strategia federale. Secondo tale<br />

strategia bisognerà prima fare ulteriori passi verso l’integrazione<br />

comunitaria (con la conseguente revisione dell’assetto<br />

istituzionale e dei meccanismi decisionali) e solo<br />

in seguito procedere ad ulteriori allargamenti. La recente<br />

affermazione del Presidente Barroso il quale ha ribadito<br />

che dopo l’ingresso di Romania e Bulgaria non ci<br />

saranno altri allargamenti almeno fino al 2009 (termine<br />

entro il quale dovrebbe essere deciso il destino del<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Trattato costituzionale) sembra andare in questa direzione.<br />

Ovviamente rimane l’incognita della effettiva<br />

volontà e capacità degli Stati di seguire tale strategia.<br />

Già prima dell’allargamento del 2004 gli Stati avevano<br />

cercato di anteporre le questioni istituzionali a quella<br />

dell’adesione di nuovi membri attraverso il Trattato di<br />

Nizza ma, come già richiamato sopra, i risultati furono<br />

piuttosto modesti (soprattutto in termini di efficienza dei<br />

processi decisionali). La complessa situazione odierna<br />

non sembra invero presentare un clima migliore rispetto<br />

a quello del 2000 a Nizza.<br />

La seconda strategia (b) si riferisce al mantenimento<br />

dello status quo. In altri termini non sarà possibile<br />

migliorare i Trattati odierni anche se si procederà all’ingresso<br />

di nuovi paesi. Questa strategia “lineare” dell’allargamento<br />

non è certamente auspicabile in quanto<br />

potrebbe portare al blocco delle procedure decisionali<br />

(soprattutto in Consiglio). Essa sembra però ad alcuni tra<br />

le strategie più probabili se non si riusciranno a trovare<br />

delle contromisure ai no di Francia e Olanda e ad uscire<br />

dalla empasse costituzionale.<br />

La terza strategia (c) prevede invece il susseguirsi di<br />

piccoli passi verso una maggiore integrazione e l’ingresso<br />

di nuovi paesi. Non sembra però una via concretamente<br />

percorribile, non solo perché già l’Unione a 27<br />

necessita di significative riforme, ma anche perchè appare<br />

obiettivamente difficile poter prevedere un calendario<br />

che con precisione anteponga le riforme istituzionali<br />

all’ingresso di ciascun nuovo paese.<br />

La quarta strategia (d) coniuga flessibilità e maggiore<br />

cooperazione, prevedendo la possibilità di integrazioni<br />

differenziate e “opt-outs” in seno all’attuale quadro istituzionale.<br />

Il secondo quadrante mette in relazione l’allargamento<br />

dell’Unione (anche ben oltre i 30 membri) con un<br />

disimpegno dal lato dell’integrazione. Le strategie possibili<br />

in questo caso sono l’approccio intergovernativo (g),<br />

frutto di un circolo vizioso tra le due direttrici, e la cosiddetta<br />

Europa “à la carte” (i) in cui gruppi di Stati membri<br />

attuano una limitata cooperazione funzionale o settoriale.<br />

Questa posizione riflette le idee di chi auspica<br />

un’Unione che rappresenti una semplice area di libero<br />

scambio e che, alla luce di interessi prevalentemente<br />

economici, non dovrebbe dunque ostacolare l’ingresso<br />

di nuovi paesi.<br />

Nel terzo quadrante rientra invece la fattispecie del<br />

Direttorio (h) che si sostanzia in una cooperazione intergovernativa<br />

tra i grandi Stati membri (UE3, UE6 ecc.) al<br />

di fuori del quadro istituzionale dell’Unione, come già<br />

avvenuto in varie circostanze 7 . Malgrado si siano registrate<br />

in molti paesi perplessità sulla questione, non si<br />

può escludere – quanto meno in linea teorica – che esse<br />

7 Il primo caso fu probabilmente rappresentato dal summit tra Francia, Germania e Gran Bretagna svoltosi a Berlino il 20 settembre 2003 con l’obiettivo<br />

di trovare un accordo su temi chiave concernenti la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (dalla possibilità di procedere con “cooperazioni strutturate”<br />

alla razionalizzazione delle spese militari, fino alla identificazione di una vera “operational planning capacity europea”).<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

9


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

10<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

possano svolgere un ruolo positivo. Se i Direttori mirassero<br />

alla preparazione (anche al di fuori delle Istituzioni<br />

comunitarie) di una forte iniziativa da condividere successivamente<br />

con tutti gli altri paesi membri nelle opportune<br />

sedi istituzionali, potrebbero giocare un ruolo positivo.<br />

Rimane comunque il problema del carattere discriminatorio<br />

ravvisabile da parte dei paesi esclusi. Pur correndo il<br />

rischio di semplificare troppo, lo stesso asse franco-tedesco,<br />

che ha rappresentato la colonna portante della<br />

costruzione comunitaria, potrebbe essere inscritto all’interno<br />

di questa strategia.<br />

L’ultimo quadrante coinvolge invece un numero minore<br />

di paesi membri che scelgono di procedere verso una<br />

più profonda integrazione. In particolare si possono<br />

riscontrare due possibili strategie: lo “zoccolo duro” (e)<br />

rappresentato da un gruppo di paesi volenterosi e capaci<br />

(non necessariamente tutti parte della Ue, come nel caso<br />

del patto di Schengen) e la “geometria variabile” (f).<br />

Quest’ultima strategia presenta molte potenzialità e<br />

potrebbe adattarsi bene alla complessa situazione odierna.<br />

Essa postula la scelta di differenti gruppi di Stati membri<br />

di procedere con integrazioni settoriali parallele. Se<br />

tale cooperazione avvenisse nell’ambito del quadro istituzionale<br />

dell’Unione essa coinciderebbe con le “cooperazioni<br />

rafforzate”, già previste dai Trattati.<br />

Ma queste ultime forme di collaborazione non hanno<br />

registrato – e difficilmente potranno farlo nel futuro – un<br />

grande successo a causa delle rigidità previste per la loro<br />

creazione e per i limiti istituzionali che inevitabilmente essi<br />

presentano.<br />

Più interessanti potrebbero invece risultare forme di<br />

cooperazione rafforzata al di fuori del quadro istituzionale<br />

dell’Unione. Purchè esse non abbiano carattere discriminatorio<br />

(dovrebbero cioè permettere l’ingresso di qualsiasi<br />

paese membro decida di aderirivi), avrebbero il vantaggio<br />

di spingere per il superamento di alcune delle<br />

cause che stanno alla base della crisi dell’Unione. Dal<br />

punto di vista dell’efficienza dei processi decisionali si<br />

avrebbe una loro semplificazione grazie alla riduzione del<br />

numero dei decisori. I membri di tale gruppo potrebbero<br />

infatti accordarsi tra di loro (a maggioranza semplice o<br />

qualificata, con quorum comunque bassi) prima che le<br />

Istituzioni comunitarie debbano deliberare.<br />

In questo modo tali paesi esprimerebbero un voto unitario<br />

(e quindi di maggior peso) che renderebbe più semplice<br />

l’approvazione di una proposta, anche se i meccanismi<br />

decisionali attuali non subissero sostanziali modifiche.<br />

Questa soluzione non mira quindi a indebolire l’Unione<br />

europea, né tanto meno a creare dei gruppi di potere che<br />

“schiaccino” gli altri, proprio perché la non discriminazione<br />

sarebbe il suo principio fondante e la decisione su<br />

quando aderire sarebbe lasciata ai singoli paesi. Il potere<br />

che tale gruppo potrebbe assumere nel tempo fungerà<br />

ovviamente da stimolo per i paesi titubanti.<br />

Tale soluzione non risolverebbe ovviamente in via definitiva<br />

il problema dell’efficienza decisionale, ma permetterebbe<br />

un suo miglioramento senza che le “red lines” sulle<br />

nuove politiche comunitarie imposte da uno o pochi<br />

paesi possano renderlo impossibile. D’altra parte il processo<br />

di integrazione europea si è spinto così avanti che è<br />

obiettivamente difficile immaginare che tutti i 27 paesi<br />

membri siano disposti a compiere i prossimi passi. Ciò che<br />

infatti rimane ancora nelle mani dei paesi membri (dalle<br />

politiche fiscali e di welfare alla politica estera) rappresenta<br />

il contenuto minimo del soggetto statuale ed è dunque<br />

evidente che una loro totale condivisione implicherebbe<br />

“de facto” la creazione di uno stato federale. Ma data l’impossibilità<br />

di procedere in questa direzione con 27 o più<br />

paesi membri sembra inevitabile partire da un gruppo di<br />

paesi che condividano maggiori interessi (ad iniziare da<br />

quelli monetari) e in cui i cittadini hanno gradualmente<br />

ridotto la percezione della distanza (ovviamente non solo<br />

geografica) attraverso decenni di cooperazione.<br />

Rientrano in questa ottica coloro i quali sostengono che<br />

bisognerebbe iniziare dai sei paesi fondatori. Ma poiché<br />

questi ultimi figurano anche tra i paesi dell’Eurozona si<br />

potrebbero presentare varie argomentazioni di tipo economico-monetario<br />

che spingerebbero ad estendere sin<br />

dall’inizio il gruppo a tutti paesi dell’Eurozona. Il vero criterio<br />

discriminante dovrebbe essere la definizione di un<br />

pacchetto di politiche e di meccanismi decisionali sui quali<br />

andrà verificata la disponibilità di ciascun paese di accettarli<br />

subito, di accettarli in seguito, o non accettarli mai.<br />

Si tratta dunque di una scelta coraggiosa e politicamente<br />

molto delicata che andrebbe però fatta per coniugare<br />

l’esigenza di un’Unione europea sempre più grande e<br />

capace di acquisire un ruolo crescente a livello mondiale,<br />

con una governance europea più efficiente che non precluda<br />

l’ulteriore integrazione tra i paesi membri che lo<br />

desiderino.<br />

L’auspicio è dunque che alla crisi dell’Unione non si<br />

risponda con la retorica e con il mantenimento dello status<br />

quo ma con proposte concrete capaci di raggiungere<br />

pochi ma precisi risultati che rispondano ai timori e al<br />

bisogno di sicurezza (economica, energetica e militare)<br />

avvertito dai cittadini.<br />

Trovare una soluzione per la Costituzione europea rappresenta<br />

in questa ottica solo un primo passo che non<br />

può però esaurire la spinta riformatrice di cui l’Europa<br />

necessita. Le celebrazioni per il 50° Anniversario dovrebbero<br />

dunque servire per presentare un’Unione ancora<br />

giovane, che non dimentichi il proprio passato, ma che<br />

non si avviti su di esso e sappia invece trovare nuovi percorsi<br />

per aggiungere altri lustri alla propria vita.


UN’AGENDA PER IL RILANCIO<br />

DELLA CRESCITA IN EUROPA<br />

Acinquant’anni dalla firma del Trattato di Roma, che<br />

ha avviato il processo destinato a portare prima alla<br />

costruzione del mercato comune e, successivamente, al<br />

completamento del mercato interno e all’avvio<br />

dell’Unione monetaria, la crescita dell’Europa sembra<br />

essersi temporaneamente arrestata. A giudizio di alcuni<br />

commentatori questo andamento negativo è indicativo di<br />

un progressivo declino dell’Europa rispetto al resto del<br />

mondo, e in particolare rispetto agli Stati Uniti.<br />

In questo lavoro cercheremo quindi di analizzare le<br />

cause di questo andamento divergente dei tassi di crescita<br />

del Pil e della produttività in<br />

Europa e negli Stati Uniti per cercare<br />

di individuare i rimedi più<br />

opportuni per rilanciare la crescita<br />

in Europa. E, come primo passo<br />

per raggiungere qualche conclusione<br />

di policy, prenderemo in<br />

esame diverse interpretazioni delle<br />

cause del declino relativo<br />

dell’Europa che si possono ritrovare<br />

nella vasta letteratura che si è<br />

sviluppata su questo tema nel<br />

corso degli ultimi anni.<br />

In primo luogo, prenderemo<br />

in considerazione l’analisi di<br />

Blanchard 1 , che ritiene che<br />

l’Europa abbia scelto di destinare<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Presentate le diverse interpretazioni sulle cause del declino dell’Europa,<br />

l’Autore analizza le “cose da fare”: completare il processo di riforma istituzionale;<br />

riscrivere le modalità di finanziamento del bilancio comunitario per realizzare<br />

l’Agenda di Lisbona; completare il mercato interno; garantire una maggiore flessibilità<br />

sia al mercato dei prodotti sia al mercato del lavoro…<br />

Ma soprattutto occorre realizzare un governo effettivo dell’economia<br />

capace di superare le inefficienze in atto.<br />

1 O. Blanchard, The Economic Future of<br />

Europe, NBER Working Paper, n. 10310,<br />

2004.<br />

2 M. O’Mahoney, B. van Ark, EU Productivity<br />

and Competitiveness: An Industry<br />

Perspective. Can Europe Resume the<br />

Catching-up Process?, Brussels, 2003.<br />

ALBERTO MAJOCCHI<br />

È attualmente Presidente dell’ISAE (Istituto di<br />

Studi e Analisi Economica) dal marzo 2003.<br />

Professore Ordinario di Scienza delle Finanze<br />

nella Facoltà di Economia e Direttore del<br />

Dipartimento di Economia Pubblica e<br />

Territoriale. Ha lavorato e lavora come esperto<br />

di organismi internazionali, fra i quali l’Oecd di<br />

Parigi e la Commissione Europea di Bruxelles. È<br />

Direttore della Scuola in Gestione Integrata<br />

dell’Ambiente, Presidente del Centro Studi<br />

Comunità Europee e Presidente del Forum per<br />

lo Sviluppo Sostenibile nella Città di Pavia.<br />

gli incrementi di produttività ad aumentare il tempo libero<br />

anziché il prodotto; una seconda interpretazione 2 fa<br />

risalire il divario di produttività principalmente a tre settori,<br />

la vendita al dettaglio, all’ingrosso e i servizi finanziari,<br />

spiegando in particolare l’importanza della vendita al dettaglio<br />

con la mancata realizzazione in Europa dei big<br />

boxes che caratterizzano questo settore negli Stati Uniti;<br />

una terza invece riconduce la caduta della produttività<br />

alle riforme introdotte sul mercato del lavoro che, accrescendo<br />

la flessibilità su questo mercato, hanno indotto un<br />

trade-off fra crescita dell’occupazione e produttività 3 ; la<br />

più diffusa, infine, ripresa recentemente<br />

da Alesina e Giavazzi 4 , ma<br />

già presente nel Rapporto Sapir 5 ,<br />

imputa il declino dell’Europa alle<br />

rigidità che caratterizzano ancora<br />

in Europa sia il mercato dei prodotti<br />

che il mercato del lavoro.<br />

Dopo aver analizzato rapidamente<br />

il significato e i limiti di que-<br />

ste diverse interpretazioni delle<br />

cause del declino dell’Europa, ci<br />

proponiamo di mostrare il ruolo<br />

che devono giocare sia le riforme<br />

necessarie per portare al completamento<br />

del mercato interno nel<br />

3 S. De Nardis, Crescita e struttura produtti -<br />

va dell’Italia: un confronto con i principali<br />

paesi industriali, in Isae, Le previsioni per<br />

l’economia italiana, febbraio 2005.<br />

4 A. Alesina, F. Giavazzi, The Future of<br />

Europe: Reform or Decline, Mit Press,<br />

September 2006.<br />

5 An Agenda for a Growing Europe.<br />

Making the EU Economic System Deliver<br />

(Sapir Report), Brussels, luglio 2003.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

11


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

12<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

quadro di un’Unione già allargata – e in corso di ulteriore<br />

allargamento –, sia il rilancio delle misure di integrazione<br />

positiva attraverso un aumento adeguato delle risorse<br />

destinate alle spese per infrastrutture e per R&D e un rilancio<br />

di una politica macroeconomica attiva, capace di compensare<br />

i costi nel breve periodo di una politica di riforme;<br />

per concludere che questa evoluzione è resa difficile non<br />

solo dalla struttura e dalle modalità di finanziamento del<br />

bilancio comunitario, ma soprattutto dall’assenza di un’effettiva<br />

capacità di governo a livello europeo. In definitiva,<br />

se si vuole rilanciare la crescita in Europa è prima di tutto<br />

necessario portare a compimento il processo di riforma<br />

istituzionale – avviato, ma non concluso, con l’approvazione<br />

del progetto di Trattato costituzionale, oggi oggetto<br />

di un difficile processo di ratifica – e, in secondo luogo,<br />

avviare una riforma incisiva delle modalità di finanziamento<br />

e della composizione del bilancio, che renda possibile<br />

l’attivazione delle misure necessarie per una completa realizzazione<br />

dell’Agenda di Lisbona<br />

Il declino dell’Europa: la tesi di Blanchard<br />

Il segno più evidente del declino relativo dell’Europa nei<br />

confronti degli Stati Uniti è rappresentato dal fatto che,<br />

misurato a parità di potere d’acquisto, il Pil pro capite<br />

dell’Europa a 15 risulta pari nel 2005 a circa il 71% di<br />

quello americano (vedi Tab. 1).<br />

Tabella 1 - Evoluzione del Pil pro-capite in PPA<br />

US EU<br />

A 15 ITALIA<br />

1961-1970 100 68 63<br />

1971-1980 100 74 71<br />

1981-1990 100 74 75<br />

1991-2004 100 72 74<br />

1995-2004 100 71 73<br />

Fonte: Saltari e Travaglini<br />

Ma mentre nel 1995 questo divario era spiegato in<br />

larga misura dal grado di utilizzo della forza lavoro, nel<br />

2005 la minor produttività spiega circa un terzo di un<br />

divario salito al 30% 6 . Per spiegare queste divergenze si<br />

deve inoltre osservare che ancora nel primo quinquennio<br />

degli anni Novanta la crescita della produttività del lavoro<br />

(Pil per ora lavorata) è più elevata in Europa rispetto agli<br />

Stati Uniti – come è sempre stata in tutto il dopoguerra –,<br />

e nel 1995, fatta 100 la produttività oraria americana,<br />

quella dell’Italia era 106,4, quella tedesca 102,9 e quella<br />

francese quasi 120. Le tendenze della produttività del<br />

lavoro si sono invece invertite dopo il 1995, quando la<br />

dinamica del prodotto per addetto e per ora lavorata è<br />

andata rafforzandosi sensibilmente negli Stati Uniti, mentre<br />

ha rallentato in Germania e, in maggior misura, in<br />

Italia e ha avuto un’accelerazione più lenta di quella americana<br />

in Francia 7 . Nel complesso, per il periodo dal 1995<br />

al 2004 la crescita della produttività è superiore di quasi<br />

un punto negli Stati Uniti rispetto alla media dell’Europa a 15.<br />

La minor crescita del Pil pro capite in Europa non è più<br />

imputabile unicamente al divario nella crescita delle ore<br />

lavorate, come è avvenuto fino al 1995, ma è legata<br />

anche a una minore produttività. Non sembra quindi possibile<br />

spiegare la minor crescita europea soltanto con una<br />

diversa funzione di preferenza degli europei che, secondo<br />

Blanchard, avrebbero scelto in passato di rinunciare ad<br />

una quota di incremento del prodotto per conseguire<br />

una riduzione delle ore lavorate. In quale misura questa<br />

decisione di favorire la componente di “non lavoro”<br />

dipenda da libere scelte o sia stata influenzata dalle distorsioni<br />

che caratterizzano il mercato europeo (in particolare,<br />

elevata tassazione dei redditi da lavoro e rigidità del mercato<br />

del lavoro) è oggetto di dibattito in letteratura. Resta<br />

comunque il fatto che questa ipotesi di Blanchard non<br />

sembra sufficiente per spiegare il declino che si è manifestato<br />

in Europa dopo il 1995, quando il tasso di occupazione<br />

è cresciuto di più rispetto agli Stati Uniti, mentre<br />

parallelamente è scesa la produttività del lavoro.<br />

Il ruolo dei servizi<br />

Un contributo importante per spiegare l’origine dei<br />

diversi andamenti della produttività in Europa e negli Stati<br />

Uniti è stato fornito da uno studio recente di O’Mahoney<br />

e van Ark, che permette di ricostruire l’evoluzione della<br />

produttività in diversi settori industriali, suddivisi fra settori<br />

che producono ICT, che usano ICT e settori non-ICT.<br />

Secondo questo studio non vi è stata un’accelerazione<br />

della produttività nelle industrie americane che non sono<br />

classificate né come produttrici di ITC, né come utilizzatrici<br />

di ITC. Queste industrie sono anche al centro del problema<br />

europeo dato che hanno conseguito un rallentamento<br />

della produttività negli ultimi anni ‘90 superiore a<br />

quello che si è manifestata nell’industria europea nel suo<br />

complesso. Nelle industrie che producono ICT vi è stata<br />

un’accelerazione dell’1,9% annuo negli Stati Uniti a fronte<br />

di un 1,6% in Europa. La superiorità dell’industria americana<br />

si è invece manifestata con chiarezza nei settori che<br />

usano ICT, in particolare della vendita al dettaglio, dell’ingrosso<br />

e nel settore dei servizi finanziari.<br />

Secondo van Ark et al. 8 tutto il differenziale di crescita<br />

degli Stati Uniti rispetto all’Europa dalla seconda metà<br />

degli anni ’90 viene da questi tre settori, con il dettaglio<br />

6 C. Denis, K. Mc Morrow, W. Röger, R. Veugelers, The Lisbon Strategy and the EU’s Structural Productivity Problem, EC Economic Papers, n. 221,<br />

Brussels, February 2005, p. 9.<br />

7 Sulle differenze nei tassi di crescita della produttività nei diversi paesi membri dell’Unione europea cfr.: I. Dew-Becker, R. Gordon, The Slowdown<br />

in European Productivity Growth: A Tale of Tigers, Tortoises and Textbook Labor Economics, Cambridge, Ma, 20 luglio 2006.<br />

8 B. van Ark, R. Inklaar, R. McGuckin, Changing Gear: Productivity, ICT and Service Industries in Europe and the United States, in J. F. Christensen,<br />

P. Maskell (eds.), The Industrial Dynamics of the New Digital Economy, Edward Elgar, 2003, pp. 56-99.


che contribuisce a spiegare il 55% del differenziale, l’ingrosso<br />

il 24% e i servizi finanziari il residuo 20% Questa<br />

performance del commercio al dettaglio e all’ingrosso<br />

negli Stati Uniti può essere spiegata da molti fattori, inclusi<br />

gli investimenti in ICT, ma in realtà sembra che il fattore<br />

esplicativo più importante possa essere individuato nella<br />

creazione di nuovi grandi centri commerciali, che hanno<br />

sostituito i vecchi impianti meno produttivi e che offrono<br />

una grande quantità di beni a prezzi estremamente bassi<br />

e utilizzano in modo intensivo sistemi di self-service.<br />

In conseguenza, mentre gli Stati Uniti hanno raggiunto<br />

un livello più elevato di efficienza nel settore delle vendite<br />

al dettaglio per motivi non connessi soltanto all’uso dei<br />

computers, in particolare grazie a investimenti fisici in un<br />

nuovo tipo di organizzazione produttiva fondata sull’utilizzo<br />

di big boxes, l’Europa è rimasta indietro perché per le<br />

imprese europee si presentano maggiori difficoltà nella<br />

realizzazione di questi grandi complessi di vendita al dettaglio,<br />

anche se sussistono notevoli differenze fra i diversi<br />

paesi europei. Molti fattori contribuiscono a spiegare questo<br />

fenomeno. Secondo Gordon, “gli europei provano<br />

orrore per le centinaia di miliardi che gli americani hanno<br />

speso per costruire nuove autostrade urbane e per l’uso<br />

di energia richiesto dalla dispersione della popolazione su<br />

immense aree metropolitane. Gli europei amano fare<br />

shopping in piccoli negozi di proprietà individuale nelle<br />

strade vivaci del centro storico e in aree pedonali e non<br />

apprezzano gli onnipresenti e tristi centri commerciali<br />

americani e le vendite al dettaglio che avvengono all’interno<br />

di big boxes” 9 .<br />

In realtà, la “rivoluzione Wal-Mart” si è realizzata negli<br />

Stati Uniti, e non in Europa, sia per specifiche caratteristiche<br />

dell’economia americana (ampi spazi, bassa densità<br />

della popolazione, assenza di centri storici e aree urbane<br />

da salvaguardare e con forte potere di attrazione di attività<br />

economiche), sia le per differenti priorità perseguite<br />

dalle politiche pubbliche (deregolamentazione, ampia<br />

flessibilità e mobilità del mercato del lavoro, sviluppo<br />

metropolitano basato sul trasporto privato anziché pubblico,<br />

costruzione di autostrade urbane, regolamenti locali<br />

volti a limitare le dimensioni dei fabbricati residenziali). In<br />

ogni caso, al di là delle differenze nel sistema di preferenze<br />

che caratterizzerebbero gli europei rispetto agli americani,<br />

questa tesi ha aperto la strada a una diversa spiegazione,<br />

che riconduce il ritardo dell’economia europea<br />

all’incapacità di portare a compimento le riforme necessarie<br />

per aprire alla concorrenza soprattutto il settore dei servizi.<br />

Il trade-off fra occupazione e produttività<br />

Al fine di mettere in luce i fattori che hanno contribuito<br />

alle diverse performance delle economie europee rispetto<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

agli Stati Uniti, De Nardis suddivide le variazioni del Pil per<br />

ora lavorata nei contributi forniti dal cambiamento dell’intensità<br />

di capitale e dalla dinamica della produttività totale<br />

dei fattori. Anche se quest’ultima ha subito a partire dal<br />

1995 una brusca frenata in Germania e soprattutto in<br />

Italia, resta comunque il fatto che una parte rilevante della<br />

differenza è da imputare a mutamenti nelle tecniche produttive<br />

europee – con una minore crescita del capitale<br />

rispetto al fattore lavoro –, presumibilmente indotti da<br />

variazioni nei prezzi relativi degli input. In sostanza, la<br />

moderazione salariale e le riforme del mercato del lavoro<br />

nell’area europea destinate a promuovere l’inserimento<br />

degli inattivi nell’attività produttive hanno favorito il ritorno<br />

a tecniche relativamente più intensive di lavoro 10 . Il<br />

successo di questa politica si è tradotto in un minor impiego,<br />

per unità di output, del capitale e degli altri input produttivi<br />

in rapporto al lavoro, con conseguenti effetti di<br />

freno sulla produttività del lavoro.<br />

Per quanto riguarda l’Italia, fino al 2001 la produttività<br />

oraria italiana continuava a collocarsi in prossimità di quella<br />

americana; essa è poi calata di ben otto punti rispetto<br />

agli Stati Uniti nel volgere di soli due anni.<br />

Contemporaneamente il tasso di occupazione rispetto alla<br />

popolazione complessiva è cresciuto in misura molto consistente,<br />

collocandosi nel 2003 a un valore pari a quasi il<br />

90% degli standard americani (leggermente meno della<br />

Germania, più della Francia). Gli opposti andamenti di<br />

queste due variabili sembrano suggerire che l’abbassamento<br />

della produttività oraria e per addetto possa essere<br />

spiegato dalla maggiore dinamica occupazionale.<br />

Questa ipotesi sembra essere suffragata da due considerazioni.<br />

In primo luogo, l’inclusione nel mercato del<br />

lavoro di individui prima disoccupati o del tutto inattivi,<br />

caratterizzati da un minor livello di efficienza e in settori a<br />

più bassa produttività – tipicamente forza di lavoro femminile<br />

nei servizi alla persona e alla famiglia – ha inciso<br />

negativamente sugli indicatori di produttività. In secondo<br />

luogo, è possibile che l’emersione di lavoro nero, a seguito<br />

dei provvedimenti di regolarizzazione, abbia avuto<br />

effetti immediati sulle statistiche dell’occupazione, mentre<br />

non si sono ancora completamente evidenziate le ripercussioni<br />

sui dati di produzione.<br />

In definitiva, se appare corretta l’ipotesi di una correlazione<br />

negativa fra occupazione e produttività del lavoro,<br />

per limitare gli effetti perversi sul prodotto per addetto<br />

derivanti dagli interventi che mirano ad accrescere i tassi<br />

di attività è quindi necessario perseguire politiche destinate<br />

ad accrescere la produttività totale dei fattori, a complemento<br />

delle riforme già avviate sul mercato del lavoro. A<br />

livello dell’intera economia, la produttività multifattoriale<br />

riflette l’efficienza del sistema produttivo nel suo insieme e<br />

risente delle capacità di innovazione disponibili, dei<br />

miglioramenti dell’organizzazione del lavoro e dell’attività<br />

9 R. Gordon, Why was Europe Left at the Station When America’s Productivity Locomotive Departed?, Cepr, 31 marzo 2004.<br />

10 Si veda, per l’Italia, la Tab. 2.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

13


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

14<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Tabella 2 – Italia: produttività, intensità fattoriali e prezzi<br />

relativi<br />

Variazione della produttività<br />

del lavoro<br />

Contributi alla variazione<br />

della produttività del lavoro<br />

2,6 -0,1 -2,6<br />

capitale/lavoro 0,7 0,4 -0,3<br />

servizi intermedi/lavoro 0,8 -0,2 -1,0<br />

produttività totale dei fattori 1,1 -0,3 -1,4<br />

Variazione nelle intensità fattoriali<br />

capitale/lavoro 2,5 1,5 -1,0<br />

servizi intermedi/lavoro<br />

Variazione nei prezzi<br />

relativi dei fattori<br />

4,4 -0,7 -5,1<br />

costo lavoro/costo capitale 1,6 0,8 -0,7<br />

costo lavoro/costo servizi intermedi<br />

Fonte: SDe Nardis<br />

1,8 -8,4 -10,2<br />

produttiva, delle esternalità del sistema. A questo fine<br />

andrebbero portare avanti con più decisione le politiche<br />

di liberalizzazione, di abbattimento delle posizioni di rendita<br />

e di ammodernamento del vasto settore dei servizi,<br />

tenendo tuttavia presente che esiste sempre un grado di<br />

trade-off anche fra miglioramento della produttività totale<br />

dei fattori e crescita occupazionale.<br />

Su un terreno analogo, un’altra spiegazione 11 del declino<br />

dell’economia europea si fonda su un’analisi del mercato<br />

del lavoro che mette in luce i mutamenti intervenuti<br />

nella domanda e offerta di lavoro, da cui sono scaturiti sia<br />

una crescita dell’occupazione che un rallentamento della<br />

produttività. Le riforme sul mercato del lavoro hanno<br />

infatti accresciuto la flessibilità, generando maggiore<br />

occupazione e favorendo una politica di moderazione<br />

salariale che, mantenendo la crescita del salario al di sotto<br />

di quella della produttività, ha indotto un mutamento<br />

nella distribuzione del reddito a favore dei profitti. A questo<br />

fattore si è aggiunto il fatto che a partire dagli anni ’90<br />

le economie europee hanno sperimentato una caduta<br />

del tasso di crescita del progresso tecnologico.<br />

La crescita dell’occupazione, a seguito della maggiore<br />

flessibilità sul mercato del lavoro, non è stata accompagnata<br />

da un aumento del reddito perché il rallentamento<br />

della produttività ha agito negativamente sulla domanda<br />

di lavoro. I maggiori profitti non si sono infatti tradotti in<br />

un aumento degli investimenti in misura tale da condurre<br />

ad una accelerazione dell’intensità di capitale e della<br />

produttività del lavoro. Il fattore esplicativo determinante<br />

è in questo caso la dinamica del progresso tecnologico,<br />

molto più accentuata negli Stati Uniti rispetto all’Europa,<br />

che sembra richiedere, a complemento delle politiche di<br />

riforme strutturali e al fine di generare una significativa<br />

inversione di tendenza, un notevole rafforzamento delle<br />

spese in R&D, così come previsto – ma questa previsione<br />

non si è purtroppo realizzata nei fatti – con l’Agenda di<br />

Lisbona.<br />

L’insufficienza delle riforme strutturali<br />

La tesi dominante spiega invece il ritardo nella crescita<br />

europea con l’incompletezza delle riforme nel settore del<br />

mercato dei prodotti e del mercato del lavoro. Questa tesi<br />

si trova già al centro dell’analisi svolta nel Rapporto Sapir,<br />

ed è stata recentemente rilanciata con grande vigore da<br />

Alesina e Giavazzi e rappresenta ormai un punto di vista<br />

talmente diffuso da apparire sostanzialmente incontestabile.<br />

La persistenza in seno all’Unione europea di una<br />

frammentazione del mercato dei servizi e dei mercati<br />

finanziari, da un lato, e soprattutto la reticenza da parte<br />

dei paesi più grandi della zona euro a liberalizzare i loro<br />

mercati del lavoro e dei prodotti sarebbero la causa dell’incapacità<br />

dell’Europa di conseguire al contempo il<br />

pieno impiego e la crescita della produttività che si sono<br />

invece manifestati negli Stati Uniti. Anche questa tesi, per<br />

quanto contenga evidentemente importanti elementi di<br />

verità, appare tuttavia inadeguata a spiegare in profondità<br />

i fenomeni in oggetto in quanto lascia intendere che<br />

in Europa non si sia fatto nulla su questo terreno e in pratica<br />

ipotizza che il problema della crescita possa ridursi<br />

sostanzialmente a una mancanza di volontà politica, che<br />

impedisce di portare a compimento il processo di liberalizzazione<br />

dei mercati. È un fattore che esiste, ma da solo<br />

non sembra rappresentare una spiegazione sufficiente.<br />

In realtà, le argomentazioni che sostengono la necessità<br />

di riforme strutturali che garantiscano una maggiore flessibilità<br />

sui mercati finanziari, dei beni e dei servizi, nonché<br />

sul mercato del lavoro, mostrano con chiarezza come<br />

queste riforme consentano un’allocazione più efficiente<br />

delle risorse e un’utilizzazione più intensiva dei fattori della<br />

produzione. Esse generano un sistema di incentivi efficaci<br />

a favore dell’innovazione, che a loro volta stimolano la<br />

crescita di lungo periodo. Al contempo, la flessibilità sul<br />

mercato del lavoro dovrebbe naturalmente favorire la<br />

riduzione della disoccupazione di lunga durata.<br />

Ma queste argomentazioni non tengono in considerazione<br />

due fattori importanti. Il primo è che non esiste in<br />

realtà una dicotomia, da un lato, fra la crescita di lungo<br />

periodo, che dipenderebbe esclusivamente dalle caratteristiche<br />

strutturali dell’economia e dalla natura dei mercati<br />

e, dall’altro lato, la politica macroeconomica, il cui obiettivo<br />

prioritario sarebbe soltanto quello di stabilizzare l’economia<br />

e ridurre l’impatto degli shock a breve e medio termine.<br />

Secondo l’opinione dominante la politica macroeconomica<br />

influenzerebbe la crescita soltanto indirettamente<br />

garantendo la stabilità dei prezzi e del tasso di<br />

cambio. L’ipotesi alternativa ritiene invece che la politica<br />

macroeconomica giochi un ruolo a sostegno della crescita<br />

anche nell’ipotesi che il mercato dei prodotti e del lavoro<br />

siano stati liberalizzati. Il secondo fattore è legato al<br />

fatto che le riforme strutturali hanno un costo politico<br />

11 E. Saltari, G. Travaglini, Le radici del declino economico. Occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio, Utet, Torino, 2006.


significativo, che può essere attenuato se vengono<br />

accompagnate da politiche macroeconomiche espansive<br />

– monetarie e fiscali – per finanziare il costo di queste riforme<br />

12 . Come è del tutto evidente, questo non è avvenuto<br />

in Europa nell’ultimo decennio, in cui si è manifestata la<br />

caduta della produttività e si è concretizzato un ritardo<br />

significativo nei tassi di crescita rispetto agli Stati Uniti.<br />

Un’agenda per il rilancio della crescita<br />

In letteratura vi è un consenso generalizzato sul fatto<br />

che, dato che l’Europa si è avvicinata alla frontiera tecnologica<br />

e non può più seguire un sentiero di sviluppo fondato<br />

sull’imitazione di innovazioni tecnologiche adottate<br />

nelle aree più avanzate del mondo, le spese in ricerca e<br />

sviluppo debbano essere fortemente incrementate. Ma<br />

questo non è avvenuto nell’ultimo decennio in cui i paesi<br />

dell’Europa a 15 hanno investito l’1,9% del Pil in R&D<br />

contro un 2,6% degli Stati Uniti. Questo incremento della<br />

spesa di per sé non è tuttavia sufficiente se non viene<br />

accompagnato da una serie di altre iniziative per la cui<br />

realizzazione il consenso è più difficile da conseguire.<br />

Un primo obiettivo riguarda il completamento del mercato<br />

interno, che oggi è messo in discussione a fronte dell’allargamento<br />

e della sfida che proviene dai paesi industrialmente<br />

emergenti. Il completamento del mercato<br />

interno deve riguardare prioritariamente due settori:<br />

- l’apertura del mercato dei servizi. Non è pensabile di<br />

escludere dal mercato unico un settore che rappresenta il<br />

70% del Pil europeo e in cui lo scarto di produttività rispetto<br />

agli Stati Uniti è più rilevante. L’integrazione è particolarmente<br />

importante per i servizi alle imprese, per cui le<br />

dimensioni del mercato condizionano gli investimenti in<br />

R&D, e quindi in innovazione. Per altri servizi, come i servizi<br />

alla persona che per loro natura si fondano sul vicinato<br />

e che possono essere forniti a distanza, l’integrazione è<br />

meno rilevante. Ma è certo che l’Europa non può rinunciare<br />

a questo fattore di promozione della produttività e<br />

della crescita;<br />

- il completamento dell’integrazione finanziaria. Questa<br />

è ancora largamente incompleta, anche all’interno della<br />

zona euro, per ragioni industriali, regolamentari e fiscali.<br />

Il paradosso più evidente in questo campo è che l’ostacolo<br />

maggiore, ossia l’esistenza di monete diverse, è stato<br />

superato con costi e sacrifici elevati, ma i benefici di questo<br />

sforzo risultano in larga misura vanificati dal nazionalismo<br />

finanziario e dalla concorrenza fra le autorità nazionali<br />

di regolamentazione.<br />

Un secondo obiettivo riguarda il rilancio dell’integrazione<br />

positiva. Si tratta in particolare di promuovere attive<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

politiche comuni in almeno tre settori:<br />

- investimenti in infrastrutture per legare fra di loro i<br />

diversi mercati, sia nel settore dei trasporti, sia nei settori<br />

industriali a rete (elettricità e altre fonti di energia, telecomunicazioni);<br />

- creazione di uno spazio europeo della ricerca e dell’insegnamento<br />

superiore. La creazione di un Consiglio<br />

Europeo della Ricerca, con il compito di finanziare progetti<br />

di ricerca sulla base di criteri di qualità scientifica, rappresenta<br />

certamente un importante passo in avanti. Il<br />

Consiglio dovrà agire senza tener conto di considerazioni<br />

di nazionalità dei progetti e dovrà evitare di orientare la<br />

ricerca in direzioni esclusive. Per quanto riguarda l’insegnamento,<br />

l’intervento comunitario dovrà manifestarsi<br />

soltanto a partire dal terzo ciclo, dove si manifesta l’interfaccia<br />

fra insegnamento e ricerca, per promuovere la<br />

creazione di un sistema europeo di università di élite,<br />

capaci di attrarre i migliori docenti e studenti da tutto il<br />

mondo. Questo obiettivo giustifica l’attribuzione di un<br />

finanziamento comunitario selettivo sulla base di criteri di<br />

eccellenza;<br />

- ripresa di politiche anti-cicliche attive. La politica economica<br />

deve accompagnare la realizzazione delle necessarie<br />

riforme strutturali, attenuandone i costi di breve<br />

periodo e riducendo i costi politici che ne rendono difficile<br />

il varo. Oggi l’Europa si confronta con una politica<br />

monetaria che mira unicamente alla stabilizzazione del<br />

livello dei prezzi, mentre la politica fiscale, che è condotta<br />

in misura pressoché assoluta a livello nazionale, si pone<br />

come obiettivo prioritario il rientro entro i limiti di indebitamento<br />

fissati dal Trattato di Maastricht e l’adeguamento<br />

alle prescrizioni del Patto di Stabilità. D’altra parte, a livello<br />

europeo l’unica competenza in materia di politica economica<br />

prevede il coordinamento delle misure nazionali e<br />

le dimensioni del bilancio comunitario – e la sua attuale<br />

rigidità – ne impediscono in ogni caso un uso attivo a fini<br />

di stabilizzazione.<br />

In definitiva, se si vogliono perseguire gli obiettivi fissati<br />

nell’Agenda di Lisbona, è necessario promuovere la realizzazione<br />

delle riforme strutturali a livello nazionale e, al contempo,<br />

accompagnarle con il completamento del mercato<br />

interno e con un rafforzamento delle politiche di integrazione<br />

positiva a livello europeo. Ma il conseguimento di<br />

questi obiettivi richiede altresì la disponibilità di maggiori<br />

risorse per integrare quelle di cui dispone attualmente il<br />

bilancio comunitario, anche attraverso l’utilizzo di strumenti<br />

di indebitamento emessi dall’Unione, e una riforma della<br />

struttura del bilancio per renderla più conforme al perseguimento<br />

degli obiettivi di Lisbona. Ma le recenti discussioni<br />

sulla definizione delle prospettive finanziarie 2007-2013<br />

hanno messo ancora una volta in evidenza la difficoltà di<br />

raggiungere entrambi questi obiettivi.<br />

12 Per un’analisi recente lungo queste linee si veda: P. Aghion, É. Cohen, J. Pisani-Ferry, Politique économique et croissance en Europe, Conseil<br />

d’analy se économique, La Documentation française, Paris, 2006.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

15


GLOBAL COMPETITION 7 - 2007<br />

16<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

La struttura del bilancio comunitario<br />

Nelle discussioni che hanno seguito la definizione delle<br />

prospettive finanziarie 2007-2013 l’accento è caduto principalmente<br />

su due temi: le dimensioni e la composizione<br />

del bilancio comunitario. La Commissione aveva proposto<br />

un limite delle risorse proprie fissato in misura pari<br />

all’1,24% del Pil europeo e una composizione che, pur<br />

prevedendo una contrazione della spesa agricola al 30%<br />

del totale, non lasciava sufficiente spazio alle nuove politiche.<br />

Questo approccio è stato criticato, da un lato, dai<br />

sei paesi che non intendevano superare un limite per il<br />

bilancio superiore all’1% del Pil, dall’altro dal governo di<br />

Blair che intendeva dare maggiore spazio alle misure previste<br />

dall’Agenda di Lisbona. In questa prospettiva si collocano<br />

le proposte del Rapporto Sapir che assumono che le<br />

dimensioni del bilancio non debbano superare l’1% del Pil<br />

comunitario e prevedono un parziale abbandono della<br />

politica agricola comune per fare spazio alle nuove politiche<br />

necessarie per conseguire gli obiettivi di Lisbona. In<br />

particolare, il 45% delle risorse dovrebbe essere assegnato<br />

alle spese per promuovere sviluppo e competitività e il<br />

40% alla convergenza delle economie dei paesi membri,<br />

lasciando soltanto un 15% alla spesa agricola. Nulla viene<br />

previsto in questo rapporto per il finanziamento della politica<br />

estera e della difesa e per le politiche destinate alla<br />

sicurezza interna e alla giustizia. Gros e Micossi 13 prevedono<br />

invece una completa rinazionalizzazione della spesa<br />

agricola in modo tale da lasciare maggiore spazio sia alle<br />

spese per lo sviluppo e la competitività – cui viene riservata<br />

una quota pari al 37,5% del totale –, sia alle spese per<br />

il secondo e il terzo pilastro, che nell’insieme verrebbero<br />

ad assorbire il 22,5% di un bilancio che comunque non<br />

dovrebbe superare nel complesso un ammontare pari<br />

all’1% del Pil europeo. Nell’ambito delle spese destinate a<br />

promuovere la crescita il 25% verrebbe assorbito dalla<br />

spesa per R&D, mentre risorse addizionali vengono previste<br />

per le infrastrutture e per l’istruzione superiore.<br />

Queste proposte, per quanto innovative rispetto allo<br />

status quo attuale, non consentono certamente di far<br />

fronte in misura adeguata alle necessità di espansione<br />

delle dimensioni del bilancio comunitario richieste sia dall’allargamento<br />

già realizzato nei confronti dell’Europa<br />

centro-orientale e di alcuni paesi mediterranei – con la<br />

prospettiva dell’ingresso di nuovi paesi, soprattutto nell’area<br />

dei Balcani –, sia dalla completa realizzazione delle<br />

politiche attive indispensabili per conseguire gli obiettivi<br />

di Lisbona. Ma è chiaro che, nell’attuale congiuntura politica,<br />

dopo i no francese e olandese alla ratifica del<br />

Trattato costituzionale, l’obiettivo di un allargamento<br />

delle dimensioni del bilancio comunitario appare di ben<br />

difficile realizzazione.<br />

Il finanziamento del bilancio comunitario<br />

Anche nell’ipotesi che le dimensioni complessive del<br />

bilancio rimangano invariate ad un livello intorno all’1%<br />

del Pil europeo, si pone comunque il problema di valutare<br />

le diverse forme alternative di prelievo che possono<br />

essere utilizzate per finanziare la spesa comunitaria, in<br />

particolare in sostituzione del contributo commisurato al<br />

Pil di ciascun paese membro che rappresenta oggi la<br />

forma principale di risorsa comunitaria. In questa prospettiva,<br />

e in analogia con quanto già avviene in Italia per<br />

quanto riguarda il finanziamento di Regioni ed Enti locali,<br />

appare opportuno valutare l'ipotesi di finanziare la<br />

spesa comunitaria con una nuova sovrimposta europea<br />

sulle imposte sul reddito prelevate dagli Stati membri,<br />

applicando un semplice meccanismo perequativo 14 .<br />

L'introduzione di questa sovrimposta comunitaria presuppone<br />

una riforma dell'attuale quarta risorsa, che ne<br />

accresce tuttavia in modo significativo gli effetti redistributivi<br />

e, in parte, di stabilizzazione. Il meccanismo proposto<br />

prevede che il gettito totale che deve essere prodotto da<br />

questa sovrimposta – definito, come già avviene per la<br />

quarta risorsa, come differenza residuale fra la spesa<br />

comunitaria e il gettito della altre risorse proprie – venga<br />

innanzitutto distribuito fra gli Stati membri sulla base della<br />

quota del Pil di ciascun paese sul Pil comunitario. Quindi,<br />

l'ammontare di risorse che ogni Stato membro deve versare<br />

al bilancio comunitario viene modificato applicando<br />

un coefficiente di progressività, calcolato sulla base del<br />

rapporto fra il reddito pro-capite di quel Paese ed il reddito<br />

medio pro-capite dell'intera Comunità. In questo modo<br />

i paesi più ricchi dovranno contribuire al bilancio comunitario<br />

in misura maggiore rispetto agli Stati economicamente<br />

meno sviluppati. Infine, ogni Stato membro dovrà<br />

imporre sui suoi cittadini la sovrimposta comunitaria sulla<br />

base della propria normativa che regola l'imposta sul reddito.<br />

Una volta definito l'ammontare complessivo di risorse<br />

che un determinato paese deve versare al bilancio comunitario,<br />

si può ipotizzare che, al fine di rendere più trasparente<br />

l’onere del finanziamento del bilancio comunitario,<br />

ogni Stato membro provveda a distribuire il carico tributario<br />

fra i suoi cittadini imponendo una sovrimposta che<br />

viene a gravare sull’imposta progressiva sul reddito, senza<br />

variarne la struttura. Naturalmente, l'applicazione di questa<br />

sovrimposta non modifica in alcun modo la forma<br />

della funzione dell'imposta progressiva adottata in ciascun<br />

paese, e quindi il grado di progressività definito sulla<br />

base della corrispondente funzione sociale del benessere.<br />

Dal punto di vista dell’efficacia della politica fiscale i vantaggi<br />

di un sistema di finanziamento del bilancio comunitario<br />

attraverso una sovrimposta alle imposte nazionali sul<br />

reddito possono essere sintetizzati in questi tre punti:<br />

13 D. Gros, S. Micossi, A Better Budget for the European Union, CEPS Policy Brief No. 64, February 2005.<br />

14 A. Majocchi, Dal rapporto MacDougall all’Uem: il ruolo della politica fiscale, in A. Majocchi, E. Gerelli, Unione economica e monetaria europea:<br />

politica fiscale e vincolo di bilancio, Franco Angeli, Milano, 1993.


- trasparenza dell'imposta: i cittadini sarebbero consapevoli<br />

del carico fiscale legato al finanziamento della spesa<br />

comunitaria. Questo elemento diventa rilevante se in prospettiva<br />

la dimensione del bilancio è destinata a crescere<br />

in misura significativa;<br />

- effetti redistributivi: questo tipo di imposizione ha effetti<br />

redistributivi positivi fra le diverse aree della Comunità<br />

caratterizzate da livelli non omogenei di sviluppo economico<br />

e può quindi rappresentare un primo passo verso<br />

l'introduzione di un sistema effettivo di Finanzausgleich,<br />

che è d'altra parte inevitabile nella misura in cui la<br />

Comunità evolve verso un'Unione a vocazione federale;<br />

- effetti di stabilizzazione: un prelievo commisurato al<br />

reddito rafforza le caratteristiche di stabilizzazione automatica<br />

del bilancio. Naturalmente la misura degli effetti di<br />

stabilizzazione dipende in modo rilevante, oltre che dall'ammontare<br />

del gettito complessivo, anche da alcune<br />

caratteristiche tecniche del prelievo, che tendano a ridurre<br />

lo sfasamento temporale fra variazioni del reddito e<br />

variazioni dell'imposta. Infine, un vantaggio ulteriore di<br />

questa proposta consiste nel fatto che essa non presuppone<br />

una preventiva armonizzazione della legislazione esistente<br />

in tema di imposizione personale sul reddito.<br />

Conclusioni<br />

In questo lavoro sono emerse alcune ipotesi per interpretare<br />

il declino dell’Europa e per definire un’agenda per<br />

il rilancio della crescita:<br />

- l’Europa deve oggi fronteggiare con crescente difficoltà<br />

la competizione non solo con gli Stati Uniti, ma<br />

anche con le economie dei paesi emergenti, e nel corso<br />

dell’ultimo decennio ha visto ridursi il tasso di crescita<br />

della produttività con effetti negativi sulla competitività<br />

della propria economia;<br />

- è opinione diffusa che in Europa sia necessario portare<br />

avanti con maggior decisione le riforme per garantire<br />

una maggiore flessibilità sia al mercato dei prodotti, sia al<br />

mercato del lavoro. Al contempo, occorre rafforzare la<br />

spesa in infrastrutture e per R&D al fine di integrare maggiormente<br />

il mercato interno e spostare l’economia verso<br />

la frontiera tecnologica con un tasso di innovazione più<br />

rapido sia nel settore industriale, sia in quello dei servizi;<br />

- il processo di attuazione delle riforme dovrebbe essere<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

accompagnato da politiche macroeconomiche espansive<br />

per consentire di far fronte ai costi legati all’attuazione<br />

delle riforme.<br />

Sulla base di queste considerazioni, che appaiono largamente<br />

condivise, appare con estrema chiarezza la necessità<br />

di avviare finalmente a realizzazione l’Agenda di<br />

Lisbona e la riforma del bilancio comunitario, la cui struttura<br />

dovrebbe riflettere le nuove priorità definite nel<br />

Consiglio europeo di Lisbona. È un fatto invece che<br />

Lisbona non avanza, come è stato illustrato con grande<br />

evidenza dal rapporto Kok 15 , e le riforme proposte dalla<br />

Commissione per facilitarne la realizzazione sono in realtà<br />

ben lontane dal favorire il raggiungimento di questo<br />

obiettivo.<br />

Le giustificazioni del fallimento di Lisbona vanno quindi<br />

cercate in altra direzione e sono state illustrate con chiarezza<br />

in un recente lavoro di Collignon 16 , che mette in evidenza<br />

la natura di bene pubblico degli obiettivi definiti<br />

nell’Agenda di Lisbona. In questo caso, gli Stati membri<br />

hanno convenienza ad agire come free riders per sfruttare<br />

i benefici delle riforme e delle iniziative portate avanti<br />

dagli altri paesi senza pagarne il costo. Anche se una soluzione<br />

cooperativa sarebbe in grado di portare maggiori<br />

benefici a tutti i paesi che prendono parte all’accordo, la<br />

strategia dominante è quella non-cooperativa che non<br />

consente di avanzare lungo la strada che porta alla realizzazione<br />

degli obiettivi fissati.<br />

Per questa ragione, se si vuole realizzare sul serio un<br />

effettivo rilancio dell’economia europea occorre passare<br />

da un sistema di governance without government a un<br />

sistema di governance of a government, ossia alla creazione<br />

di un governo effettivo dell’economia capace di<br />

superare le inefficienze del metodo aperto di coordinamento<br />

previsto a Lisbona e consolidato nei suoi elementi<br />

di debolezza dalla decisione del Consiglio europeo del<br />

22-23 marzo 2005.<br />

Ma di questa esigenza non sembra che esista consapevolezza<br />

nella classe politica europea, che non appare<br />

neppure in grado di portare a compimento il processo di<br />

ratifica di un Trattato costituzionale che, su questo terreno,<br />

aveva comunque realizzato passi in avanti del tutto<br />

insufficienti a garantire una capacità di governo adeguata<br />

per promuovere un effettivo rilancio dell’economia<br />

europea.<br />

15 Facing the Challenge. The Lisbon Strategy for Growth and Employment (Kok Report), Brussels, November 2004.<br />

16 S. Collignon, The Lisbon Strategy, Macroeconomic Stability and the Dilemma of Governance with Governments, gennaio 2006<br />

(www.StefanCollignon.de).<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

17


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

18<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

IL MODELLO MINERVA<br />

PER LA DIFESA EUROPEA<br />

L’ Autore esamina, con ampia documentazione, lo stato di salute<br />

della sicurezza/difesa europea e fornisce il quadro delle spese in questo settore<br />

in Europa e negli Stati Uniti. L’UE non potrà essere una superpotenza sul piano militare,<br />

ma proporsi come Superpotenza imperfetta con le carte in regola in politica ed economia<br />

e una ragionevole capacità militare. Occorre da subito aumentare l’interoperabilità,<br />

che è capacità di forze e sistemi di scambiare servizi e prestazioni fra loro,<br />

riducendo gli oneri e massimizzando le potenzialità individuali e collettive<br />

ed accrescere il livello d’integrazione industriale.<br />

Adar retta ai sondaggi, la sicurezza –difesa europea<br />

scoppia di salute. Conta infatti sul sostegno del<br />

78% degli europei mentre quello per l’Unione europea<br />

(UE) è sceso al 46% 1 e quello per la NATO, da cui<br />

l’Europa dipende per la sua sicurezza, al 59% 2 .<br />

Anche la macchina organizzativa pare in moto. Negli<br />

ultimi anni, l’UE ha sfornato un Concetto Strategico, ha<br />

dotato il suo Alto Rappresentante per la Politica Estera e<br />

di Sicurezza di un Comitato Politico e di Sicurezza (PSC) e<br />

di un Comitato Militare (EUMC) e ha creato l’Agenzia<br />

Europea per la Difesa (European Defence Agency - EDA)<br />

per europeizzare l’industria e creare<br />

un Mercato Co-mune della<br />

Difesa.<br />

Inoltre, come se volesse ribattere<br />

a chi sosteneva che non sono i<br />

Comitati a servirle ma le capacità<br />

militari, l’UE ha programmato le<br />

proprie con il progetto Headline<br />

Goal 2010, sulla falsariga del Joint<br />

vision 2010 americano.<br />

Tuttavia, il semplice fatto che il<br />

Pentagono da tempo operi con il<br />

suo Joint Vision 2020 indica il ritardo<br />

dell’UE al suo confronto, tanto<br />

più significativo perché esso dedica<br />

ampio spazio alle operazioni multinazionali<br />

nelle quali l’UE sta compiendo<br />

i suoi primi e timidi passi.<br />

Confrontare un passato di aspet-<br />

1 Eurobarometro n. 64, 2004.<br />

2 William Pfaff, International Herald Tribune,<br />

3 Francia, Gran Bretagna, Italia e Benelux.<br />

LUIGI CALIGARIS<br />

Docente di strategia alla Scuola di Guerra<br />

dell’Esercito italiano. È commentatore freelance<br />

di problemi militari, geo-politici e strategici.<br />

Ufficiale dell’esercito dal 1953 (Accademia<br />

Militare di Modena), è salito progressivamente<br />

di grado fino a generale. Si dimette nel 1982<br />

(Capo Ufficio Politica Militare). Si dedica quindi<br />

a tenere conferenze, in Italia e all’estero, e collabora<br />

con quotidiani e periodici, fra cui “la<br />

Repubblica”, “Corriere della Sera” e con Rai<br />

TG1. Parlamentare europeo dal 1994 al 1999.<br />

tative deluse con quanto si sta ora facendo aiuta a comprendere<br />

se la sicurezza /difesa europea abbia migliori<br />

chance di riuscire.<br />

Difesa comune Europea. I primi, titubanti, passi<br />

A guerra finita, il momento è propizio per un Concerto<br />

Europeo e per una difesa comune dall’Unione Sovietica.<br />

Si era consapevoli, ieri più di oggi, che nessun paese da<br />

solo può affrontare i complessi problemi della sicurezza.<br />

Nel marzo 1948 nasce l’Unione Europea Occidentale 3<br />

e, nell’aprile 1949, la NATO 4 .<br />

Nell’ottobre 1950 la Francia propone<br />

la difesa comune europea 5 .<br />

Nel 1952, in maggio, a Parigi si<br />

firma il Trattato per la Comunità<br />

Europea di Difesa (CED). Giubilo<br />

dei federalisti. Sennonché, il 30<br />

agosto 1954, l’Assemblea francese<br />

non lo ratifica. Mentre gli euro-<br />

pei si bloccano, la NATO procede<br />

a passi da gigante sotto la protezione<br />

americana che comprende<br />

la dissuasione nucleare.<br />

Sulla riluttanza a dare corso alla<br />

difesa comune pesano sia il rifiuto<br />

di alcuni paesi a rinunciare all’uso<br />

della forza, alta prerogativa degli<br />

4 Stati Uniti, Benelux, Canadà, Danimarca,<br />

Francia, Germania, Gran Bretagna,<br />

Islanda, Italia, Norvegia, Portogallo.<br />

5 La prima proposta di un esercito europeo,<br />

respinta dal Consiglio Atlantico, l’ha avanzata<br />

l’Italia nel maggio 1948.


stati sovrani, sia il loro timore che essa possa aprire la strada<br />

a un Europa federale, decretando la fine dello Stato<br />

Nazione. Quello che gli Stati temevano, i federalisti volevano<br />

e ciò li ha spinti a lottare per la comune difesa europea;<br />

al loro fianco, statisti che contavano su una difesa<br />

comune per porre fine alle guerre fratricide in Europa.<br />

Di evitare che, caduta la CED, scompaia ogni interesse<br />

per la difesa europea, si incarica l’Unione Europea<br />

Occidentale (UEO) di mantenere vivo il problema. L’UEO,<br />

placebo istituzionale che associa ambizioni politiche all’inazione<br />

in campo militare, intesse una fitta rete di accordi.<br />

In quegli anni, per diffidenza americana e apatia europea,<br />

la difesa comune segna il passo e cade nel vuoto<br />

anche l’invito di Kennedy a costruire una “colonna europea”<br />

nella NATO.<br />

Nel 1956, gli Stati Uniti boicottano la spedizione franco-britannica<br />

al Canale di Suez. La Francia, risentita per la<br />

loro arroganza e per l’acquiescenza della Gran Bretagna,<br />

si fa paladina della causa europea. Nel 1957, firma 6 a<br />

Roma l’accordo per il Mercato Comune e, dotatasi di una<br />

forza nucleare (Force de Frappe), esce nel 1966 dalla difesa<br />

Integrata della NATO. Nazionalismo ed europeismo<br />

coabiteranno da allora nelle scelte francesi.<br />

Nel suo gioco, la Francia ha un poker d’assi. È membro<br />

del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è fra i “beati possidentes”<br />

dell’arma “nucleare”, ha fondato la CEE e ne ha tenuta<br />

fuori, fino al 1973, la Gran Bretagna, l’unica a poterle<br />

tenere testa. Se avesse offerto alla difesa europea la copertura<br />

della Force de Frappe, difficilmente le sarebbe stata<br />

negata una carismatica leadership.<br />

In seguito, per imporsi comunque sulla scena europea,<br />

essa immaginerà un Direttorio a due con la Germania,<br />

che coniugava fedeltà a Stati Uniti e NATO con una<br />

buona dose di europeismo. Con la Gran Bretagna, cui<br />

rimprovera il filo atlantismo, intrattiene saltuari rapporti, e<br />

trascura l’Italia che con i temi militari accusa disagio.<br />

Tale europeismo di vertice, segnato da una miriade di<br />

conferenze, summit e parate militari, mentre contribuisce<br />

all’intesa fra Bonn e Parigi, distrae attenzione e risorse<br />

dalla difesa europea che accumulerà solo successi d’immagine.<br />

Per la difesa europea, nulla accade fino alla<br />

caduta del Muro.<br />

Le incertezze del post Guerra Fredda e la sindrome<br />

Kosovo<br />

Anni ‘90, fine del confronto fra i Blocchi, e l’Europa, a<br />

lungo assopita dall’immobilismo strategico, di fronte ai<br />

nuovi scenari rivela preoccupanti vuoti di capacità militare.<br />

Nel 1991, nel Golfo Persico scoppia una guerra di transizione<br />

in cui fa ingresso impetuosa la strategia associata<br />

all’alta tecnologia (hightech strategy). Con l’eccezione dei<br />

6 Con Germania,Benelux.<br />

7 La Gran Bretagna aveva sostenuto pro forma l’UEO, quale accorgimento per boicottare la difesa europea.<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

britannici che combattono in forze, gli europei partecipano<br />

con difficoltà e in modo poco più che simbolico.<br />

A fine anno, l’Unione Europea, che a Maastricht ha rimpiazzato<br />

la Comunità Europea, si attribuisce una politica<br />

estera e di sicurezza comune (PESC), quale secondo pilastro<br />

della costruzione unitaria. Il discorso sulla difesa<br />

comune europea riprende sotto forma di sicurezza e difesa<br />

( PESC/PESD).<br />

Tuttavia, all’iniziativa non segue l’impegno. Quattro<br />

anni dopo, a soccorrere le forze europee in terra bosniaca<br />

sotto la bandiera dell’ONU saranno gli americani, sotto<br />

bandiera NATO ma dietro ansiosa richiesta d’aiuto di<br />

paesi europei. A guerra finita, americani ed europei nella<br />

NATO inaugurano le operazioni multinazionali in sostegno<br />

della pace.<br />

Anziché trarre stimolo dalla terribile crisi per colmare le<br />

pesanti lacune di capacità militare in un’ottica multinazionale,<br />

gli europei si cullano in un tran tran a basso rischio<br />

gratificato da un consenso senza precedenti. Più inerte di<br />

loro, l’UEO che persevera nelle sue distrazioni politiche e<br />

diplomatiche.<br />

Cinque anni dopo, emergenza Kosovo. Stesso copione.<br />

Guerra ad alta tecnologia, condotta prevalentemente<br />

dagli americani sotto bandiera NATO, a cui fanno seguito<br />

le operazioni in sostegno della pace.<br />

Afflitti dalla sindrome Kosovo, che per la seconda volta<br />

denuncia le debolezze europee, gli europei decidono di<br />

fare qualcosa. Scompare senza destare rimpianti l’UEO 7 e<br />

assume il suo ruolo l’UE. A dare il “la” provvede l’intesa<br />

francobritannica.<br />

Dall’11 settembre a oggi. Qualcosa si muove in<br />

Europa<br />

2001, guerra in Afghanistan, l’Europa solidarizza con gli<br />

Stati Uniti sul piano politico ma centellina il contributo<br />

militare sul campo. Il suo intervento non è comunque<br />

richiesto poiché gli Stati Uniti, rinunciando a una coalizione<br />

imponente, optano per l’agile trinomio alte tecnologie -<br />

forze speciali - forze locali. Il successo fulmineo li convince<br />

della bontà della scelta e della scarsa utilità degli alleati<br />

europei.<br />

A guerra finita, forze europee affluiscono in Afghanistan<br />

per la pacificazione del territorio. In seguito, passeranno<br />

alla NATO; l’UE non se la sente. Si conferma, con una<br />

pragmatica e contingente divisione dei ruoli, la partecipazione<br />

degli europei alle operazioni a “bassa intensità” dei<br />

dopoguerra lasciando agli americani quelle ad “alta intensità”<br />

della guerra.<br />

2003, invasione dell’Iraq. La strategia americana ricalca<br />

quella della guerra del Golfo con meno soldati e più tecnologie.<br />

Le potenze europee si dividono; Francia e<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

19


GLOBAL COMPETITION 7 - 2006<br />

20<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Germania sul fronte del no, la Gran Bretagna su quello<br />

del sì, l’Italia su quello del ni, poi convertito nel sì nel<br />

dopoguerra. Chi, nella NATO o nell’UE; ha sostenuto a<br />

spada tratta le “coalizioni di volenterosi” come soluzioni<br />

per ogni collaborazione militare prende atto dell’estrema<br />

difficoltà di crearle in assenza di un convincente interesse<br />

comune.<br />

Gli Stati Uniti deducono che, in scenari imprevisti, le<br />

alleanze permanenti e le coalizioni dei volenterosi vadano<br />

rimpiazzate da coalizioni ad hoc formate all’occorrenza<br />

con chi sia disponibile e utile per una data operazione<br />

(coalition defined by the mission). Il giudizio, che suona<br />

condanna per NATO ed UE così come sono, è per<br />

entrambe anche implicito invito a rivedere i cliché sulla<br />

condivisione dei rischi e responsabilità in un contesto<br />

internazionale conflittuale, variegato e dinamico.<br />

Nel generale ripensamento, si comprende come siano<br />

nocive e sterili la polemica fra la NATO e l’UE, l’antiamericanismo<br />

europeo e il rifiuto degli Stati Uniti a una chiara<br />

divisione dei ruoli. Si fa strada la convinzione che la risposta<br />

migliore per europei e americani stia nell’individuare<br />

interessi comuni e nel distribuire in modo responsabile ed<br />

equilibrato le competenze, assicurando più forte e autorevole<br />

presenza europea nella NATO e, in specifiche aree,<br />

più responsabilità per l’UE. Con qualche ritocco e quarant’anni<br />

di ritardo, torna di moda il kennediano pilastro<br />

europeo. Seppure non sia ascrivibile all’UE come tale, l’impegno<br />

in Libano dei paesi europei è un primo e timido<br />

passo in questa direzione.<br />

Per ora, comunque, americani ed europei contrattano<br />

passo per passo la loro collaborazione. Le divergenze al<br />

Summit NATO di Riga del novembre 2006 fra Stati Uniti e<br />

paesi europei a proposito dell’assunzione da parte degli<br />

europei di impegni ad alto rischio nel sud Afghanistan ne<br />

sono la conseguenza. Se la NATO piange, l’UE non ride,<br />

consapevole di potere intervenire da sola solo nelle operazioni<br />

meno rischiose e più semplici.<br />

Dal 2004, sarà nuovamente la Francia a rilanciare la<br />

sicurezza/difesa europea quando, superato il dissidio con<br />

la Gran Bretagna sulla guerra in Iraq, l’inviterà a unirsi a<br />

lei e alla Germania, convertendo il Direttorio a due nell’attuale,<br />

meno enfatico e più pragmatico, triumvirato.<br />

L’Italia, il cui contributo alle operazioni multinazionali è<br />

noto e apprezzato, non ne è partecipe.<br />

L’allargamento e la sicurezza europea<br />

Dagli anni ‘90, l’allargamento dell’UE si fa pressante<br />

tant’è che, mentre la CEE in 28 anni (1958-1986) ha<br />

accolto solo cinque Stati oltre ai sei fondatori, negli ultimi<br />

12 anni, (1995-2007), l’UE ne accetta diciotto. In media,<br />

uno all’anno.<br />

La sicurezza è dall’UE trattata allora in non cale tanto è<br />

vero che nel 1995 sono tre paesi neutrali (Austria,<br />

Finlandia, Svezia) a inaugurare il nuovo corso. Viene<br />

ignorato il monito di Machiavelli 8 “poca la prudenza di<br />

chi... non sapendo, né potendo difendere sé medesimo<br />

vuole difendere altrui”. Tuttavia, poiché alla voce<br />

Sicurezza l’UE può solo scrivere omissis, sarà la NATO a<br />

farsene carico. Le due procedono assieme, ma non sempre<br />

d’accordo.<br />

L’UE non si cura d’accertare come i candidati vogliano<br />

contribuire alla sicurezza comune e così poi si scopre che,<br />

fra di loro, pochi possono fare la loro parte, alcuni potendo<br />

non vogliono, molti danno un apporto simbolico, altri<br />

sono un aggravio. E molti riconoscono la NATO e non<br />

l’UE come tutrice della sicurezza/difesa europea.<br />

All’UE poco importa, inoltre, dell’andamento dei propri<br />

confini e quindi del proprio assetto geo-politico, tanto è<br />

vero che, dopo avere accolti i paesi neutrali 9 , dopo l’ingresso<br />

nel 2007 di Romania e Bulgaria, comprenderà al<br />

proprio interno anche i Balcani, non quali paesi membri<br />

ma come isole d’instabilità 10 . Nel prendere in esame altre<br />

eventuali eccezioni alla sua periferia, se ne dovranno<br />

vagliare gli effetti per la sicurezza/difesa comune. La geopolitica,<br />

infatti, insegna che la periferia, quando vuole,<br />

può condizionare la sicurezza del centro; tesi che ha<br />

generato in Russia la sindrome d’accerchiamento e negli<br />

Stati Uniti ha promosso la strategia del contenimento.<br />

Inoltre, poiché gli Stati Uniti desiderano che la NATO sia<br />

strumento di respiro globale e auspicano che essa estenda<br />

la sua influenza in tal senso, potrebbero sollecitare sia<br />

la Nato sia l’UE, in sintonia con l’accordo fra loro per gli<br />

allargamenti, ad accettare candidature assai poco europee<br />

e tali da complicarne il problema della sicurezza/difesa<br />

comune.<br />

Data l’incapacità dell’UE di provvedere alla<br />

sicurezza/difesa di un area in crescita, paradossalmente<br />

un’ Europa più grande e ambiziosa dipenderà sempre di<br />

più dalla NATO ossia dagli Stati Uniti. Macchiavelli docet.<br />

Capacità militari. Raffronto fra europei e americani<br />

Gli europei hanno, rispetto agli americani, un enorme<br />

gap di capacità militare da colmare. Fino a che non sarà ridimensionato.<br />

ne soffriranno sia la NATO sia l’UE in quanto le<br />

forze europee su cui entrambe contano sono in definitiva le<br />

stesse. Lo slogan virtuoso “separabili ma non separate”, riferito<br />

alle forze assegnate alla NATO e UE, significa che non<br />

ce ne sono a sufficienza per dare a ciascuna le sue.<br />

8 Niccolò Machiavelli, il Principe e le Deche, Classici Italiani, vol. XVII, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1930, pag. 302.<br />

9 Durante la guerra in Kosovo l’Austria negò alla NATO il sorvolo. È vero però che i paesi neutrali hanno partecipato alle missioni in sostegno della<br />

pace in Kosovo.<br />

10 Che sia un problema lo dimostra, nel Summit di Riga del 29 novembre 2006, la decisione di estendere alla Serbia alla Bosnia-Erzegovina una<br />

special partneship della NATO.


Le differenze di capacità combattive fra americani ed<br />

europei sono altissime seppure i numeri non lo dimostrino.<br />

L’Europa prevale numericamente sugli Stati Uniti<br />

quanto a forze disponibili 11 , 2.500.000 soldati contro<br />

1.500.000, ha più carri armati, poco di meno in navi e<br />

aerei. È invece molto inferiore quanto a forze impiegabili<br />

in combattimento, in capacità operativa delle flotte e delle<br />

forze aeronautiche, nei moltiplicatori di forze 12 , nella<br />

mobilità strategica, nelle operazioni oltremare, nella proiezione<br />

di potenza. Il divario cresce esponenzialmente nelle<br />

operazioni ad “alta intensità ”, cioè di guerra, che impongono<br />

prestazioni, consumi e perdite immensamente superiori<br />

oggi inaccessibili alla maggior parte degli europei.<br />

In rari settori alcuni europei eccellono, l’industria è<br />

abbastanza competitiva anche sul piano dell’innovazione,<br />

ma il sistema militare europeo come tale difetta perché<br />

sistema non è. Se il distacco aumentasse fra americani ed<br />

europei sarebbe problematico cooperare, riducendosi l’interesse<br />

americano per la collaborazione euratlantica e<br />

perciò per la NATO.<br />

Come traguardo per l’Europa in capacità militari, sono<br />

fuori scala gli Stati Uniti che, con globali interessi strategici,<br />

da sessant’anni dedicano, con grandi capacità manageriali,<br />

imponenti risorse al loro strumento militare. È più<br />

razionale che l’Europa si doti delle potenzialità necessarie<br />

per assolvere i compiti conseguenti dal Trattato di<br />

Petersberg del 1992 che definisce i contorni ed i limiti di<br />

operazioni esclusivamente europee 13 .<br />

Restano da stabilire i termini della collaborazione fra<br />

europei e americani e fra gli stessi europei. Alcuni ipotizzano<br />

che gli europei si occupino dei dopoguerra devolvendo<br />

agli americani la guerra. E’ cosa attuata più volte<br />

ma ove si sancisse tale divisione dei ruoli, essa esigerebbe<br />

una chiara intesa sugli aspetti politici e militari dell’operazione.<br />

Chi poi propende per questa soluzione sperando<br />

di cavarsela con poco deve tenere conto che, Iraq e<br />

Afghanistan docent, il dopoguerra può essere impegnativo<br />

quanto e più della guerra.<br />

Infine, per quanto riguarda la PESC/PESD, i paesi europei<br />

trarrebbero beneficio se fosse l’UE a rappresentarli nel<br />

trattare con gli americani anziché affidarsi, come ora<br />

avviene, a molteplici, asimmetrici e spesso discordanti<br />

canali bilaterali.<br />

La spesa per la difesa, europea o dei paesi europei?<br />

È consuetudine in Europa attribuire la colpa per le lacune<br />

europee in campo militare all’esiguità dei bilanci della<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

difesa europei. Ma è un paradosso commisurare le spese<br />

per la difesa non all’ipotizzata minaccia ma ai bilanci dei<br />

propri alleati. In un epoca in cui le minacce sono poco<br />

prevedibili è più ragionevole ispirarsi alla propria domanda<br />

di sicurezza, agli interessi da tutelare e al proprio ruolo<br />

internazionale, nella consapevolezza dei propri limiti. Per<br />

capirsi, l’UE non potrà es-sere una Superpotenza anche<br />

sul piano militare ma solo proporsi di essere una superpotenza<br />

imperfetta, con le carte in regola in politica ed economia<br />

e una ragionevole capacità militare.<br />

La diseconomia del comparto europeo della difesa non<br />

è un mistero tanto è vero che mentre la somma dei bilanci<br />

della difesa dei paesi europei è pari, in dollari, al 41%<br />

di quello americano il ritorno in capacità militare si aggira<br />

sul 10%.<br />

L’enorme deficit è stato tollerato durante la Guerra<br />

Fredda, nella consapevolezza che la potenza militare<br />

americana avrebbe provveduto a colmarlo ma non si può<br />

non dubitare che gli Stati Uniti vogliano farlo a tempo<br />

indeterminato.<br />

Altre percorribili strade per migliorare l’assetto europeo<br />

nella sicurezza/difesa sono: aumentare gli investimenti,<br />

razionalizzare la spesa in chiave europea, individuare fonti<br />

di finanziamento esterne al bilancio della difesa. È innanzitutto<br />

da escludere come significativa tendenza l’aumento<br />

spontaneo dei bilanci della difesa europei; anzi in alcuni<br />

paesi, fra i quali l’Italia, si è in forte controtendenza.<br />

Una ulteriore possibilità, praticata da alcuni, è il finanziamento<br />

extrabilancio di alcuni programmi.<br />

Peraltro, per avere un impatto sull’insieme europeo,<br />

eventuali aumenti dovrebbero essere assicurati concordemente<br />

da tutti i paesi europei 14 e non applicati solo dai più<br />

virtuosi fra loro.<br />

Fra le ipotesi degne d’attenzione quali eventuali parametri<br />

di una linea comune per l’UE: l’impegno a non ridurre<br />

oltre un certo livello i bilanci della difesa, il devolverne<br />

una quota percentuale non inferiore a una media<br />

europea alle spese di investimento e gestione, la creazione<br />

d’un fondo comune per voci di spesa che premiano gli<br />

impegni comuni 15 , la definizione di un tetto minimo di<br />

forze operative per ogni paese, la cessione al bilancio<br />

della difesa di una quota degli incassi derivanti dalla<br />

dismissione di materiali o infrastrutture militari, trade offs<br />

dall’export di armi e materiali. Soluzioni di cui si dovrebbe<br />

appurare la fattibilità politica in ambito europeo.<br />

Quanto a razionalizzare la spesa, sul banco degli imputati<br />

ci sono sia la crescente spesa per il personale che sottrae<br />

risorse all’investimento e alla gestione sia l’esplosione<br />

11 Dati del 2004 presi dal The Military Balance 2006, International Institute for Strategic Studies, Londra.<br />

12 Le maggiori lacune sono nei cosiddetti moltiplicatori di potenza, quali: intelligence/sorveglianza/ricognizione/, alte tecnologie di armi<br />

e sensori, stealthiness (invisibilità), ecc.<br />

13 Secondo Petersberg, le forze europee “potranno svolgere, oltre alle missioni previste dall’art. V del Trattato di Wa-shington e di Bruxelles..:<br />

missioni: umanitarie o sgombero profughi; mantenimento della pace; di combattimento per la gestione delle crisi ivi comprese operazioni”.<br />

per ristabilire la pace.<br />

14 I membri della NATO nella seconda metà degli anni ‘70 si impegnarono ad aumentare del 3% in termini reali il proprio bilancio della difesa.<br />

15 Lo ha fatto la NATO con i fondi comuni per le Infrastrutture e la costituzione di una comune unità di sorveglianza aerea AWACS.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

21


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

22<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

dei costi delle nuove tecnologie 16 . Secondo apprezzamenti<br />

di massima, in un bilancio della difesa equilibrato la percentuale<br />

di spesa per il personale non dovrebbe eccedere<br />

il 40%, lasciando un 60% da ripartire fra le altre due<br />

aree. Alcuni paesi, in testa l’Italia, devolvono al personale<br />

oltre il 70%, Le possibili cure sarebbero un drastico taglio<br />

del personale, disaggregare dal bilancio della Difesa le<br />

spese del personale per finanziarle separatamente o un<br />

Figura 1 - Bilanci difesa paesi europei, 2004<br />

dati in milioni di dollari USA<br />

60.000<br />

50.000<br />

40.000<br />

30.000<br />

20.000<br />

10.000<br />

-<br />

tagli di<br />

bilancio<br />

2006<br />

Italia<br />

Francia<br />

Germania<br />

Regno Unito<br />

Spagna<br />

Portogallo<br />

Turchia<br />

Olanda<br />

Belgio<br />

Polonia<br />

Grecia<br />

Romania<br />

improbabile consistente aumento del bilancio della difesa.<br />

Ridurre le truppe di terra che sono più ricche di personale<br />

(manpower intensive) è quanto ha fatto, con la sua<br />

Rivoluzione nelle Questioni Militari, il Pentagono, che<br />

però non è più riuscito a fare fronte agli impegni e oggi<br />

sta reclutando altri 100,000 soldati risparmiando sui programmi<br />

di altissima tecnologia 17 . Quanto all’aumento del<br />

bilancio, pare più praticabile per quei paesi che non vogliano<br />

essere il fanalino di coda della Sicurezza/difesa<br />

europea e pagarne lo scotto in termini di autorevolezza.<br />

Ultima possibilità, in ambito nazionale od europeo, è<br />

disaggregare i costi del personale e finanziarli separatamente.<br />

Quanto ai costi esponenzialmente crescenti delle tecnologie,<br />

l’unico modo per contenerli è limitare la propria<br />

domanda con una sobria definizione delle esigenze. È<br />

noto come la passione di Rumsfeld per le alte tecnologie<br />

lo abbia indotto a concedere finanziamenti ingenti a programmi<br />

avveniristici di armi e robot che, dopo anni di sperimentazione,<br />

hanno fallito. Quando le spese sono eccessive<br />

e non giustificate da chiare esigenze operative e strategiche<br />

si dovrebbe pronunciare il duro verdetto“ unaffordable!”,<br />

non ce lo possiamo permettere 18 .<br />

Ridurre questo e aumentare quello non può essere<br />

comunque fatto a capriccio in una contesa fra forze armate<br />

o paesi ma deve tenere conto delle esigenze strategiche<br />

della Nazione e dell’UE, e dei loro obblighi nel contesto<br />

europeo, atlantico e internazionale. Le scelte dovreb-<br />

bero assicurare alta competitività militare, tecnologica ed<br />

economica, evitare duplicazioni e garantire alle forze<br />

capacità combattiva.<br />

La via più promettente per contribuire al successo della<br />

sicurezza/difesa europea potrebbe essere l’adozione, sottoscritta<br />

da tutti gli Stati, di rigorosi e comuni parametri,<br />

alcuni dei quali sono stati prima indicati, in analogia con<br />

quanto fatto per l’Unione Monetaria Europea.<br />

Una possibilità di mantenere la spesa entro ragionevoli<br />

limiti è per l’UE il contenere le proprie ambizioni politicostrategiche<br />

entro ragionevoli limiti, evitando la tentazione<br />

di duplicare la NATO di fare concorrenza agli Stati Uniti sul<br />

piano globale, di intervenire in forze in scenari ad alta<br />

intensità. A giudicare dagli impegni finora assolti dall’UE,<br />

è lecito desumere che si stia muovendo in questa direzione.<br />

Definire in qualità e quantità gli investimenti per la sicurezza/difesa<br />

europea in rapporto ai prevedibili impegni è<br />

estremamente difficile ma è anche imprescindibile obbligo<br />

per assicurare il successo della sicurezza/difesa europea.<br />

L’attuale strategia dell’UE<br />

Nel 2004, l’UE ha dato alle stampe il suo concetto strategico,<br />

scelta difficile per un’ istituzione neofita nel campo<br />

della sicurezza. Il documento divaga più o meno su tutto,<br />

sulle “minacce di fondo”, sulle aree di crisi e conflittualità<br />

regionali, sul terrorismo e la criminalità organizzata, sulla<br />

proliferazione nucleare.<br />

Traspira in esso il desiderio di fare dell’Europa un “attore<br />

globale” assieme alla consapevolezza di non esserlo sul<br />

piano militare. Si auspica un multilateralismo conciliatorio<br />

e ipotizza di condurre, con proprie forze mobili e interoperabili,<br />

“più operazioni contemporaneamente” guardandosi<br />

bene dal definirne le dimensioni e i contorni strategici.<br />

Di più non si può tuttavia pretendere in un’ UE in cui<br />

convivono stati dalla cultura militare agli antipodi e dalle<br />

Figura 2 - Bilanci difesa paesi europei, 2004<br />

spesa rispetto al PIL, %<br />

16 Si valuta nei termini del 3% al 5% superiore al tasso d’inflazione. Avi Kober, Does the Iraq war reflect a phase change in warfare, Defense<br />

and security analysis, n. 2 giugno, 2005, Centre for International and security studies, Henley on Thames,G.B.,pag.131.<br />

17 The New York Times, Unmanned warfare: US military aims. Robot towards the battlefield, data non nota, forse autunno 2006.<br />

18 Report, The defence industrial strategy, an analysis of industry responses, RUSI, Londra, autunno 2006, pag. 26.<br />

3,00%<br />

2,50%<br />

2,00%<br />

1,50%<br />

1,00%<br />

0,50%<br />

0,00%<br />

tagli di<br />

bilancio<br />

2006<br />

Italia<br />

Francia<br />

Germania<br />

Regno Unito<br />

Spagna<br />

Portogallo<br />

Turchia<br />

Olanda<br />

Belgio<br />

Polonia<br />

Grecia<br />

Romania


potenzialità assai diverse. Pensa globalmente e agisci<br />

localmente (think globally act locally) è quanto oggi può<br />

proporsi l’UE alternando su scala globale “politiche morbide”<br />

(soft policies) a interventi mirati, in linea con politiche<br />

dure (hard policies).<br />

Quanto agli interventi militari, pur non escludendo nel<br />

medio termine un lusinghiero aumento delle potenzialità<br />

europee, è innegabile che in un contesto strategico ad<br />

alta intensità l’unica soluzione sia la partecipazione a coalizioni<br />

guidate dagli Stati Uniti. Nel breve periodo,<br />

l’Europa può farsi carico di interventi a “bassa intensità”,<br />

come in Bosnia ove figura sotto bandiera UE o come ora<br />

in Libano dove paesi europei collaborano sotto quella<br />

dell’ONU.<br />

Poiché l’impegno politico e il carico operativo crescono<br />

esponenzialmente con l’aumentare della distanza e dell’intensità<br />

degli impegni, ambizioni strategiche globali esigono<br />

una proiezione di potenza globale, che l’Europa<br />

non ha possibilità d’acquisire 19 .<br />

Pare perciò logico contenere le ambizioni europee nei<br />

limiti di un contesto regionale, tale da comprendere oltre<br />

all’Europa altre aree come il cosiddetto Medio Oriente<br />

allargato (Greater Middle East) dall’Africa centro-settentrionale<br />

all’Iran. Oltre a ciò restano comunque gli impegni<br />

umanitari, che non hanno frontiere, e quelli strategici<br />

assunti in ambito NATO. Il contesto euratlantico, infatti,<br />

può estendere il proprio intervento anche a scenari al di<br />

fuori della portata europea.<br />

Le indicazioni del Concetto Strategico riducono comunque<br />

le probabilità che gli apparati militari dei paesi europei<br />

vadano per proprio conto accontentandosi di sporadiche<br />

collaborazioni “europee”, Dopo sessant’anni di retorica,<br />

l’inversione di corso è palese.<br />

L’interoperabilità e i suoi legami con la multinazionalità<br />

Più che portarsi alla pari quanto a capacità militari con<br />

gli americani, è ragionevole aumentare l’interoperabilità,<br />

che è capacità di forze e sistemi di scambiare servizi e prestazioni<br />

fra loro, riducendo gli oneri e massimizzando le<br />

potenzialità individuali e comuni.<br />

L’interoperabilità ha diversi livelli e campi d’azione 20 .<br />

Nella forma più semplice consente a forze di diverse<br />

nazioni, dotate di armi e materiali diversi, di scambiare<br />

servizi (es: rifornimento carburanti, munizioni, assistenza,<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

ecc.), combinare prestazioni (es: intelligence, azioni di<br />

manovra e di fuoco) e comunicare, evitando che ogni<br />

forza nazionale dipenda troppo dal proprio sistema con riflessi<br />

pesanti sulla capacità operativa comune.<br />

L’interoperabilità più evoluta ha, nel contesto della<br />

network oriented defense 21 che ha rivoluzionato il sistema<br />

militare americano, un catalizzatore evoluto nel sistema<br />

net-centric C4ISF (comando, controllo, coordinamento,<br />

computer, sorveglianza, ricognizione) che connette, in un<br />

comune network, decisori, operatori, fonti d’informazione,<br />

sistemi d’arma, valorizzandone le prestazioni nella<br />

manovra,negli attacchi di precisione, nella protezione 22 .<br />

Come soluzione è meno efficace della standardizzazione<br />

23 (stesso aereo, nave, cannone) ma quest’ultima come<br />

traguardo generalizzato 24 è praticabile solo all’interno di<br />

uno Stato. In un contesto multinazionale essa interessa<br />

solo quei settori che sono oggetto di collaborazioni specifiche.<br />

Nel campo dell’approvvigionamento, la tendenza<br />

generale è stata finora l’opposta come dimostra la grande<br />

varietà di piattaforme navali, terrestri ed aeree che esibisce<br />

oggi l’Europa.<br />

Un caso di standardizzazione che ha portato enormi<br />

benefici alla interoperabilità nella NATO è l’uso dell’inglese<br />

come lingua ufficiale, premessa per una cultura militare<br />

e una dottrina militare comuni 25 . Analoga scelta va<br />

compiuta per la sicurezza/difesa europea perché coerente<br />

con la tendenza crescente a impegni multinazionali in<br />

chiave europea. Seppure l’uso di una lingua comune sia<br />

solo l’inizio è un sine qua non.<br />

Oltre agli evidenti vantaggi sul piano militare l’interoperabilità<br />

offre un contributo prezioso all’europeizzazione<br />

coinvolgendo in più modi gli apparati e i loro istituti di formazione<br />

e gli istituti civili che con essi collaborano .<br />

Obiettivo con ricadute interessanti anche sul piano politico<br />

e culturale in quanto forze di paesi europei altamente<br />

interoperabili sono più disponibili a divenire forze europee,<br />

contribuendo a promuovere l’europeismo della<br />

società civile che con esse collabora 26 .<br />

L’esigenza dell’interoperabilità si è poco avvertita durante<br />

la Guerra Fredda 27 quando erano poche e selettive le<br />

occasioni d’incontro fra gli eserciti dei paesi europei.<br />

Dopo, con il crescendo delle operazioni multinazionali, è<br />

divenuta altissima priorità con un interesse proporzionale<br />

alle difficoltà, ai rischi e alla distanza delle operazioni. In<br />

operazioni in sostegno della pace (PSO) prossime<br />

all’Europa e a basso rischio, come quelle in Bosnia e<br />

19 Solo la Gran Bretagna è collaudata nella condotta di operazioni ad alta intensità con due guerre in Iraq al proprio attivo. Segue a distanza<br />

la Francia che chiude la categoria.<br />

20 Fra i quali: organizzazione a livello strategico e tattico, aspetti tecnici, logistici.<br />

21 Alla lettera, “sistema di difesa orientato da una rete di telecomunicazioni”.<br />

22 Ericsson, White Paper, C4ISR for Network Oriented defense, October 2006, pagg. 3-27.<br />

23 SPRU, Standardisation systems in the defence industries of the European Union and the United States, Executive summary, settembre 1999,<br />

pagg. 3-7.<br />

24 La NATO l’ha promossa per alcune aree e a questo si deve la discreta interoperabilità fra i paesi membri.<br />

25 La redazione in inglese degli accordi di standardizzazione ne agevola la consultazione e l’uso.<br />

26 La promozione dell’interoperabilità, sia pure in proporzioni minori e in forma più semplice, è in corso dopo l’11 settembre presso le forze<br />

dell’ordine e fra non molto interesserà anche la loro cooperazione con le forze armate.<br />

27 Ha interessato soprattutto aree strategiche quali i vettori nucleari, gli aerei AWACS, i sommergibili.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

23


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

24<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Figura 3 - La diseconomia del comparto della difesa<br />

europea, 2004<br />

Somma dei bilanci in difesa e rendimenti dei paesi<br />

europei rispetto agli USA (numeri indice, USA=100)<br />

100<br />

Spesa in difesa Rendimenti<br />

41<br />

USA Paesi<br />

Europei<br />

100<br />

USA Paesi<br />

Europei<br />

Fonte: elaborazioni su dati tratti provenienti da varie fonti.<br />

Kosovo 28 , ogni forza nazionale ha potuto operare quasi<br />

fosse un’ isola militare nazionale; in operazioni più complesse<br />

e rischiose sarebbe assai sconsigliabile,<br />

L’Unione europea intende promuovere altri due aspetti<br />

delle operazioni multinazionali. Il primo è la “schierabilità”<br />

(deployability), che riguarda la capacità delle forze europee<br />

di schierarsi e operare in tempi brevi, anche a grandi<br />

distanze; l’ultimo è la capacità di sostenere a lungo il peso<br />

d’un operazione (sustainability). Se vengono giocate con<br />

perizia l’interoperability, la deployability, la sustainability<br />

diverrà meno velleitaria la pretesa dell’Unione europea di<br />

essere, anche sul piano militare, un attore globale di qualche<br />

importanza.<br />

Dal software politico all’hardware militare<br />

Dare vita allo strumento militare europeo è impresa<br />

improba anche perché deve piacere a ventisette Stati ciascuno<br />

con una sua idea sul prodotto e sul suo uso e tutti,<br />

chi più chi meno, preoccupati che il sogno della sicurezza<br />

europea procuri danno alla NATO, che è collaudata certezza.<br />

Inoltre, l’UE per imporsi non dispone di leadership<br />

istituzionale ma ha finora seguito gli impulsi del carismatico<br />

Triumvirato di Francia, Germania e Gran Bretagna.<br />

A evitare il muro contro muro in sede politica, si è invertito<br />

il processo di formazione iniziandolo non già dal contenzioso<br />

politico ma dalla creazione dello strumento militare,<br />

nella speranza che, create forze europee pronte all’uso,<br />

l’UE sia disposta a impiegarle.<br />

Un primo passo viene fatto nel 1999 dopo che la guerra<br />

nel Kosovo mette a nudo le carenze militari europee. A<br />

10<br />

dicembre l’UE annuncia la creazione della Forza Europea<br />

di Reazione Rapida (ERRF) di 60.000 uomini per impegni<br />

tipo Petersberg 29 della durata di un anno. Gli europei<br />

fanno a gara nell’offrire all’UE più soldati di quanti ne<br />

abbiano ignorando che, con operazioni della durata di<br />

un anno con cambio di truppe ogni quattro mesi, il<br />

numero di soldati occorrenti si triplica a 180-200.000.<br />

Impegno fuori portata per gli europei, già sovraimpegnati<br />

(overstretched). Nel 2004, avendo constatato che<br />

poche delle 55 vulnerabilità riscontrate sono state colmate,<br />

si proroga al 2010 l’entrata in campo dell’ERRF.<br />

Importa inoltre capire che, all’emergenza, l’ERRF sarebbe<br />

raramente impiegabile in toto a causa delle defezioni<br />

politiche. Se la si fosse mobilitata per il dopoguerra iracheno<br />

molti paesi, fra cui Francia e Germania, avrebbero<br />

detto di no dimezzandone la consistenza. Ogni volta la<br />

partecipazione è una scommessa da vincere.<br />

Anche per questo, su spinta di Blair e Chirac,l’UE affianca<br />

alla ERRF la costituzione di 13 gruppi di combattimento<br />

(battlegroup – BG), ciascuno di 1500 uomini, interforze,<br />

interoperabile, con sostegno logistico e di fuoco, per<br />

impieghi mirati di breve durata (30-120 giorni). Ogni<br />

paese partecipa come può e come vuole secondo tre<br />

opzioni: con un BG nazionale, partecipando a uno multinazionale<br />

o con contributi specializzati di nicchia.<br />

Il modo di affrontare il problema questa volta persuade.<br />

Diversamente da quando le forze d’intervento europee<br />

erano fumose invenzioni di pochi, per i BG si emanano<br />

direttive precise e vengono stabiliti controlli dai vertici UE<br />

(top down) che riceveranno input dal basso (bottom up).<br />

Inoltre i BG oltre che strumenti operativi sono anche fonte<br />

di ammaestramenti per la preparazione di robusti corpi di<br />

spedizione multinazionali e interforze. Il complesso programma<br />

prevede il vaglio della capacità operativa, l’enfasi<br />

sulla interoperabilità e il monitoraggio dell’European<br />

Defence Agency (EDA) per contribuire ad aumentarne le<br />

capacità.<br />

Se con l’ERRF si è esagerato in grandezza, qui è il caso<br />

opposto. E la causa è soprattutto politica, Oggi l’UE non<br />

può che sperare, ogni volta che vara qualcosa o se ne<br />

chieda l’impiego, che gli Stati rispettino gli accordi.<br />

Cosa dubbia tanto più che il Summit dell’UEO di<br />

Petersberg del 1992 precisa che “la decisione se partecipare<br />

spetta alle singole nazioni in linea con le rispettive<br />

costituzioni”. Una via d’uscita è contare sui BG mononazionali<br />

30 , a spese però della multinazionalità che è il fiore<br />

all’occhiello dell’iniziativa.<br />

Le nazioni europee approntano inoltre divisioni, brigate<br />

per compiti più impegnativi, demandando alle nazioni<br />

militarmente più forti (Francia, Gran Bretagna e, più avanti,<br />

Germania e Italia) la predisposizione di una intelaiatura<br />

28 Nella fase di guerra in Kosovo, l’interoperabilità nelle operazioni aeree è stata alta.<br />

29 Francois Heisbourg, Europe’s strategic ambitions, the limits of ambiguity. Survival, The international Institute for Strategic Studies, Londra, estate<br />

2000. pagg. 6-7. Secondo lui, interpretando i compiti di Petersberg in eccesso, l’UE potrebbe condurre persino guerre tipo Corea e del Golfo.<br />

30 Quali quelli di Francia,Gran Bretagna, Italia e Spagna.


di comando e di organizzazione (framework provider) cui<br />

affidare le operazioni 31 . Ma non solo di cose terrestri si tratta.<br />

Tra i traguardi sono infatti previsti per il 2008 un<br />

comando di aerotrasporto strategico e la disponibilità di<br />

una portaerei.<br />

Va ricordato che oltre agli impegni europei, i paesi europei<br />

hanno anche obblighi con la NATO e con la sua Forza<br />

di reazione (NATO Reaction Force – NRF) di 20.000 uomini<br />

per operazioni ad “alta intensità”. Si giustifica un ragionevole<br />

dubbio sulla possibilità di soddisfare così tante<br />

diverse esigenze, magari contemporanee, al servizio di<br />

questo o quel committente, in un groviglio di scenari, di<br />

ruoli e di forze.<br />

Difesa e Industria: la via americana e le tendenze<br />

europee<br />

L’approvvigionamento ha per i paesi europei tre fonti<br />

alternative: nazionale, fra paesi europei, americana. Non<br />

investe solo l’interesse delle forze armate di dotarsi di armi<br />

e materiali all’altezza ma anche altre dimensioni della sicurezza:<br />

politica, tecnologica, economica e industriale. Se<br />

gestito in chiave europea contribuirebbe non poco, l’aveva<br />

compreso Altiero Spinelli, alla causa della sicurezza/difesa<br />

comune. Nello scambio fra Stati Uniti ed<br />

Europa, si parla ancora di “US dominance”. Ma non serve<br />

compiangersi, i motivi di questo squilibrio sono soprattutto<br />

in Europa.<br />

I paesi europei, chi più chi meno, producono piattaforme<br />

(navi, aerei, carri armati) in ambito nazionale o di consorzi<br />

multinazionali.<br />

La produzione è di qualità ma, a causa della scarsa economia<br />

di scala dovuta alla riduzione delle forze alla fine<br />

della Guerra Fredda, è cresciuto il suo costo. Gli Stati<br />

Uniti, le cui imponenti forze sono unico cliente per l’industria<br />

e dispongono di un colossale bilancio della difesa,<br />

godono rispetto ai paesi europei dei vantaggi di unicità<br />

d’indirizzo e di gestione omogenea dei cospicui fondi e di<br />

una favorevole economia di scala assicurata dalle imponenti<br />

commesse ottenute sia per la consistente domanda<br />

interna sia per il notevole volume dell’export.<br />

Gli Stati Uniti, inoltre, quale unico attore Stato a impostare<br />

e gestire la sicurezza possono anticipare l’evoluzione<br />

del sistema di difesa rispetto agli europei, Con decenni di<br />

anticipo sugli europei assicurano il prolungamento della<br />

vita operativa delle loro piattaforme e sistemi d’arma con<br />

la predisposizione di aggiornamenti (upgrading). Gli<br />

europei li imitano con congruo ritardo 32 .<br />

Ad accrescere le potenzialità del sistema di approvvigionamento<br />

americano ha contribuito la network oriented<br />

defense. I vari sistemi (sensori, sistemi d’arma ecc.) sono<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

in rete fra loro secondo un’architettura di sistema 33 che li<br />

ha liberati da vincoli di spazio, tempo, posizione, concentrazione<br />

e consistenza delle forze consentendo combinazioni<br />

d’impiego che ne ottimizzano le prestazioni.<br />

Ogni sistema ha un suo ciclo vita e viene individualmente<br />

aggiornato e ciò costringe l’industria e il suo cliente<br />

militare a una maggiore continuità e a una diversificazione<br />

dei rapporti. Associato a questo modello di approvvigionamento<br />

gli americani assicurano un imponente<br />

supporto logistico che prolunga il ciclo vita di ogni piattaforma,<br />

sistema e quindi sistema dei sistemi.<br />

Alcuni paesi europei stanno allineandosi alle tendenze<br />

americane, ma la capacità innovativa associata agli enormi<br />

stanziamenti in Ricerca e Sviluppo (RD) tipici del sistema<br />

americano preoccupa le industrie dei paesi europei,<br />

come dimostra l’aumento dei contatti bilaterali fra loro e<br />

quelle americane e il crescente consolidamento delle<br />

maggiori realtà europee.<br />

Tale clima può indurre gli europei ad appoggiarsi all’industria<br />

americana, soprattutto per i materiali più sofisticati<br />

e quelli impiegati in scenari ad alta intensità, anche per<br />

poter contare sul loro formidabile dispositivo logistico e<br />

operativo.<br />

Altro fattore d’inferiorità è la citata ricerca, dove gli europei<br />

spendono il 20% degli americani ma realizzano il 10%<br />

a causa della dispersione dei fondi in tanti rivoli nazionali<br />

per iniziative non di rado assai simili.<br />

Ferve in alcuni paesi europei un dibattito fra Difesa e<br />

Industria, non privo di reciproche accuse e inviti a fare<br />

meglio, sulle modifiche da apportare all’attuale sistema di<br />

approvvigionamenti al fine di conciliare le esigenze dei<br />

clienti militari (end user) con quelle dell’industria senza<br />

richiedere investimenti massicci oltre che improbabili ai<br />

rispettivi paesi. È sempre più difficile pensare a una politica<br />

industriale nazionale.<br />

La riduzione della domanda interna costringe alla collaborazione<br />

esterna e il comparto industriale può essere<br />

tentato ad evolvere più in base a criteri finanziari che non<br />

per ottimizzare la produzione.<br />

Si può rimediare dando una dimensione sopranazionale<br />

all’industria per la difesa. Oggi l’UE non ha alcun potere<br />

organico e le industrie nazionali, ingrandite da acquisizioni<br />

e fusioni, sono sovradimensionate rispetto al cliente<br />

nazionale. Il cliente militare perde contrattualità e rischia<br />

di farsi imporre dall’industria i suoi prodotti 34 . Pare logico<br />

che a ciò si ponga rimedio integrando in chiave europea<br />

i legami fra le industrie europee anche per equilibrare il<br />

rapporto con gli americani.<br />

Gli argomenti a favore di una Politica Industriale<br />

Europea per la Difesa sono molti, tocca all’EDA non deludere<br />

le aspettative.<br />

31 Gli imperatori Gallieno, Aureliano e Diocleziano hanno gestito nel III secolo d.C. una struttura analoga, il Comitatus.<br />

32 Il “midlife improvement” è oggi diffusamente praticato in Italia.<br />

33 Quali quelli di Francia,Gran Bretagna, Italia e Spagna.<br />

34 K. Hirman, R. Hillmanm S. Pleisch, Building net-centric applications over service oriented architectures, Department of Computer<br />

Science, Cornell University, New York, 2002, pagg. 4-10.<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

25


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

26<br />

‹ Europa, riparti! ›<br />

Europa: né Marte né Venere. Semmai, Minerva<br />

L’indigenza della sicurezza/difesa europea non si può<br />

addebitare al vuoto d’attenzione politica. Tuttavia, la<br />

copiosa attività promozionale in questo campo la si può<br />

addebitare non tanto alla voglia di armare l’Europa quanto<br />

al tentativo di fare leva su un tema di alto valore simbolico<br />

per sostenere altre cause: per avvicinare fra loro<br />

Francia e Germania, per conquistare alla causa europea<br />

la Gran Bretagna, per opporre agli Stati Uniti un fronte<br />

comune, per frenare l’invadenza della NATO, per proporre<br />

all’Europa stati candidati a guidarla. ecc,<br />

Privata per decenni di un impegno serio. La<br />

sicurezza/difesa europea ha accumulato un gap militare<br />

colmabile solo con impensabili sacrifici in altri settori. Ma<br />

se dovrà lasciare agli Stati Uniti il ruolo di Marte e le starà<br />

stretto quello di Venere 35 , potrà almeno indossare elmo e<br />

panni di Minerva saggia e guerriera, abile nel coniugare<br />

le soft policies con le hard policies.<br />

Non si può ancora negare all’Europa quel braccio militare<br />

che ne accrescerebbe l’autorevolezza, accreditandola<br />

come polo nel contesto multipolare e stabilendo maggiore<br />

equilibrio nel rapporto euro-atlantico. La sindrome<br />

Kosovo ha motivato il presente attivismo, ma per una svol-<br />

ta significativa non basta. Una sicurezza/difesa comune<br />

non darà all’integrazione europea quell’impulso risolutivo<br />

che si era, forse ingenuamente, attribuito alla Comunità<br />

Europea di Difesa ma potrà servire a ridurre le differenze<br />

europee contribuendo a europeizzare l’Europa.<br />

Resta il dubbio se siano possibili riforme tanto difficili in<br />

assenza di una leadership europea. Le credenziali migliori<br />

le avrebbero Francia e Gran Bretagna se rinunciassero<br />

a favore dell’UE al proprio seggio al Consiglio di Sicurezza<br />

dell’ONU, assicurassero un deterrente nucleare<br />

all’Europa 36 e integrassero le loro forze di proiezione.<br />

Poiché non lo faranno non resta che candidare la triade<br />

Francia, Gran Bretagna, Germania 37 che potrebbe anche<br />

divenire un quartetto se l’Italia trovasse il coraggio di<br />

esporsi su questi per lei non facili temi.<br />

La sicurezza/difesa europea è in corso d’opera ma “un<br />

buon sistema istituzionale non basta a superare differenze<br />

profonde. Si deve costruire un interesse comune”<br />

(Jacques Delors, Le Monde, 24 marzo 1996). Oggi, dopo<br />

tante false partenze, la sicurezza/difesa europea, che è<br />

parte essenziale dell’interesse comune, si è messa in<br />

moto. Tocca al resto, così come “l’intendenza” di<br />

Napoleone 38 , seguirla.<br />

35 Robert Kagan, Paradiso e potere, Mondadori, 2003, pag. 58.<br />

36 Robert Kagan, op.cit., 2003, pag. 58. Nel 1998 la Gran Bretagna avrebbe proposto il proprio deterrente nucleare alla difesa europea.<br />

37 Con il Libro Bianco 2006 ha annunciato una ambiziosa riforma del suo strumento militare.<br />

38 Napoleone diceva che, una volta lanciati i suoi battaglioni, l’intendenza (ossia il sostegno logistico) non poteva non seguirli<br />

(l’intendance suivra).


AGENDA EUROPA<br />

DOPO BULGARIA E ROMANIA,<br />

ALLARGAMENTO SOSPESO?<br />

Ulteriori ingressi presuppongono un rafforzamento istituzionale che porti a un<br />

effettivo governo europeo a cura di Guido Romano<br />

Lo scorso 26 settembre la Commissione Europea ha<br />

approvato l’ingresso di Romania e Bulgaria nell’Unione<br />

europea, a partire dal primo gennaio 2007. La<br />

Commissione ha deciso di non esercitare il diritto di<br />

ritardare di un anno l’entrata dei due paesi nel club<br />

europeo, nonostante una serie di aree in cui le riforme<br />

realizzate sono ancora ritenute insoddisfacenti dalla<br />

stessa Commissione. Il via libera è stato così accompagnato<br />

da un meccanismo di verifica dei progressi compiuti<br />

nelle aree critiche nei prossimi tre anni. Inoltre,<br />

come per i paesi dell’Est già nell’Unione, i vecchi membri<br />

potranno limitare l’ingresso nei loro Stati dei lavoratori<br />

rumeni e bulgari per un periodo di sette anni.<br />

I due nuovi paesi membri crescono molto rapidamente,<br />

in un contesto macroeconomico di accresciuta stabilità.<br />

Tra il 2002 e il 2005 il Pil bulgaro è aumentato a una<br />

media del 5,2%, quello rumeno del 5,8% (contro la<br />

media dell’1,9% dell’UE 25). In Romania continua il processo<br />

di disinflazione, che ha portato il tasso di variazione<br />

dei prezzi al consumo al 9,1% nel 2005 (era superiore<br />

al 45% nel 2000); in Bulgaria l’inflazione è più bassa,<br />

ma i prezzi sono cresciuti considerevolmente nel corso<br />

del 2006 portando l’inflazione oltre l’8% (era del 5% nel<br />

2005). I bilanci pubblici non destano preoccupazioni: il<br />

rapporto tra debito e prodotto interno lordo è in<br />

costante calo in entrambi i paesi e si attesta al di sotto<br />

dei 30 punti percentuali nel caso della Bulgaria e intorno<br />

ai 15 punti nel caso della Romania. Il commercio<br />

Pil pro-capite<br />

corretto per la PPP, numeri indice<br />

100,0 100,0<br />

34,7<br />

Fonte: Eurosat<br />

32,1<br />

Costo del lavoro<br />

numeri indice (Ue25=100)<br />

8,3 6,8<br />

internazionale ha accelerato negli ultimi anni e il processo<br />

di integrazione con le economie europee procede<br />

a ritmi spediti. L’Ue allargata è il principale mercato<br />

di sbocco (assorbe il 70% delle esportazioni rumene e il<br />

57% di quelle bulgare) e il mercato da cui proviene il<br />

maggior flusso di importazioni (il 63% di quelle rumene<br />

e il 49% di quelle bulgare). Nonostante la rapida crescita<br />

degli ultimi anni, i livelli di vita sono ancora molto<br />

lontani rispetto agli standard europei: il Pil procapite è<br />

solo il 32,1% della media europea nel caso della<br />

Bulgaria e del 34,7% nel caso della Romania. Secondo<br />

i dati dell’Eurostat, nel 2004 il costo del lavoro orario<br />

bulgaro era di appena il 7% rispetto alla media europea<br />

e quello rumeno dell’8%.<br />

I cittadini europei sono informati poco e male sugli allargamenti<br />

recenti e futuri dell’Unione e sembrano seriamente<br />

preoccupati delle conseguenze economiche che<br />

ne possono derivare. Secondo un recente sondaggio<br />

dell’Eurobarometro, solo il 23% degli europei conosce il<br />

numero esatto dei membri dell’Unione (25 al momento<br />

delle interviste, il 52% pensava fossero di meno). Agli<br />

intervistati è stato chiesto di fare il nome dei paesi candidati<br />

all’ingresso nella Ue: solo il 29% ha nominato la<br />

Romania e solo il 25% la Bulgaria. Gli europei avrebbero<br />

preferito l’ingresso nell’Unione di paesi come Svizzera,<br />

Norvegia e Islanda in cui gli standard di vita sono paragonabili<br />

a quelli dei paesi più ricchi. Da quando nel<br />

maggio del 2004 l’Ue ha accolto i dieci nuovi membri, il<br />

favore dell’opinione pubblica verso ulteriori allargamenti<br />

è in continuo calo. Nell’ultima rilevazione<br />

dell’Eurbarometro, solo 45 cittadini su 100 sono favorevoli<br />

ad un ulteriore ampliamento dei confini dell’Unione.<br />

Il sostegno a futuri allargamenti è maggiore nei nuovi<br />

paesi membri, ma il calo è generalizzato a vecchi e nuovi<br />

Stati. In particolare, gli abitanti di Austria e Germania<br />

(paesi che hanno rapporti commerciali molto stretti con<br />

l’Europa Orientale) sono i meno entusiasti all’idea di<br />

un’UE più allargata: solo il 27% degli Austriaci e il 28%<br />

dei Tedeschi si dice favorevole a un ulteriore ampliamento<br />

dell’Unione. Gli europei non sono però del tutto contrari<br />

all’idea di altri allargamenti: in un altro sondaggio,<br />

il 72% si dice d’accordo, purchè il processo non sia trop-<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

27


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

28<br />

AGENDA EUROPA<br />

po rapido. Secondo un recente rapporto della<br />

Commissione, l’allargamento dell’Unione è un successo,<br />

perché avrebbe favorito un forte sviluppo economico tra<br />

i nuovi paesi senza produrre effetti negativi sui vecchi<br />

membri. Tra i cittadini europei sembrano però prevalere<br />

le paure sui costi economici e sociali: il 75% pensa che<br />

l’allargamento produca un trasferimento di posti di lavoro<br />

in paesi dove i salari sono minori, il 73% teme l’ingresso<br />

di forza lavoro dai nuovi paesi membri, il 62% un<br />

innalzamento della criminalità.<br />

L’ingresso di Romania e Bulgaria è il quinto allargamento<br />

dell’Unione e non sarà l’ultimo episodio nella storia di<br />

continua espansione dei confini dell’ UE. Nell’ottobre del<br />

2005, l’Unione ha avviato i negoziati per l’adesione<br />

di Turchia e Croazia e a dicembre del 2005 ha riconosciuto<br />

alla Macedonia lo status di paese candidato all’ingresso<br />

nell’Unione europea. Inoltre, ha avviato il Processo di<br />

associazione e di stabilizzazione con i paesi dei Balcani<br />

occidentali, che può precludere all’entrata nella Ue<br />

anche di Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e<br />

Serbia. Dopo l’ingresso di Romania e Bulgaria, si sono<br />

moltiplicate le voci a favore di un rallentamento nel processo<br />

di allargamento. Espressioni come ‘capacità di<br />

assorbimento’ e ‘fatica da allargamento’ sono sempre più<br />

in voga a Bruxelles e riflettono la consapevolezza che gli<br />

ingranaggi istituzionali non sono adeguati a supportare<br />

altri ingressi. Il presidente della Commissione Barroso ha<br />

avvertito che, finché non saranno realizzate riforme istituzionali,<br />

nessun nuovo paese sarà ammesso<br />

nell’Unione. Nel frattempo la Croazia, paese impegnato<br />

in un notevole sforzo per riformare e adeguare le sue istituzioni,<br />

si dice pronta ad entrare nell’Unione europea<br />

entro il 2009 e chiede a Bruxelles di definire con precisione<br />

condizioni e tempi del suo ingresso. Tuttavia, sono le<br />

stesse regole europee a impedire nuovi allargamenti<br />

prima di procedere a riforme istituzionali: il Trattato di<br />

Nizza, ancora in vigore a causa dell’impasse seguito alla<br />

bocciatura della Costituzione Europea in Francia e<br />

Olanda, impone un adeguamento dei meccanismi di<br />

governo nel caso in cui l’ UE superi i 27 paesi membri. Il<br />

cancelliere tedesco Angela Merkel ha promesso un impegno<br />

molto forte da parte della presidenza di turno tede-<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

Supporto per l’allargamento<br />

% di intervistati favorevoli all’allargamento<br />

EU 15<br />

Nuovi stati membri<br />

2001 2002 2003 2004 2005 2006<br />

Fonte: Eurobarometro Fonte: Eurobarometro<br />

sca, con l’obiettivo di dare una Costituzione all’Europa<br />

entro il 2009. Tuttavia, il recente ricorso di molti paesi ai<br />

referendum per ratificare trattati e accordi europei è un<br />

precedente importante e può costituire uno scoglio<br />

insormontabile per le ambizioni tedesche. In passato, le<br />

decisioni sull’integrazione avvenivano in camera caritatis,<br />

tra esponenti politici che presumevano di rappresentare<br />

le aspirazioni europeiste dei loro elettori e firmavano<br />

(all’unanimità) i trattati europei. Questa forma di integrazione<br />

oggi è molto difficile perché, con 27 membri, è<br />

aumentato il numero dei soggetti che devono raggiungere<br />

l’unanimità. Ottenuto l’accordo, è sufficiente la bocciatura<br />

da parte dell’elettorato di uno dei paesi firmatari<br />

per mettere in crisi l’intero processo.<br />

Sono diverse le proposte sul tavolo per sbrogliare la<br />

matassa istituzionale seguita alla bocciatura della<br />

Costituzione. Il francese Sarkozy ha lanciato l’idea di un<br />

nocciolo duro dei sei maggiori paesi, intorno al quale<br />

dovrebbe muoversi tutta l’Unione europea. Altri hanno<br />

proposto di emendare parti della Costituzione e di<br />

approvare solo le modifiche istituzionali necessarie per<br />

far funzionare la UE. È probabile che l’integrazione europea<br />

procederà in modo diverso rispetto al passato,<br />

senza la firma di nuovi di accordi formali. Esempi di ‘cooperazione<br />

rafforzata’ e di ‘geometria variabile’, in cui un<br />

gruppo di paesi approfondisce la collaborazione in particolari<br />

materie, sono già sotto i nostri occhi: non tutti i<br />

paesi fanno parte di Eurolandia; Francia, Germania e<br />

Regno Unito hanno stretto un’alleanza sulla difesa e<br />

(insieme a Solana, rappresentante per la UE) hanno<br />

negoziato il programma nucleare iraniano; sette paesi<br />

(Austria, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Francia,<br />

Germania e Spagna) hanno firmato il Trattato di Prüm,<br />

un accordo di collaborazione in tema di sicurezza; in<br />

Libano sono presenti le forze armate di tredici paesi<br />

dell’Unione. Secondo il CER, un think tank europeo, il<br />

crescente uso di soluzioni di geometria variabile agevolerà<br />

la collaborazione in particolari aree con paesi europei<br />

che non sono parte dell’Unione (ad esempio nell’energia<br />

con i paesi dei Balcani). Questo renderà più labili<br />

i confini della UE e la distinzione tra paesi membri e<br />

paesi non membri diverrà meno netta.<br />

83 82<br />

76<br />

76<br />

Supporto per l’ingresso di nuovi paesi<br />

% di intervistati favorevoli all’ingresso di potenziali entranti<br />

72 70<br />

67<br />

64<br />

EU 15<br />

45<br />

41<br />

Nuovi stati membri<br />

57<br />

53 51 50 50<br />

39<br />

39<br />

38<br />

36<br />

40<br />

32<br />

38<br />

29<br />

Svizzera<br />

Norvegia<br />

Islanda<br />

Croazia<br />

Bulgaria<br />

Romania<br />

Macedonia<br />

Bosnia Erz.<br />

Ucraina<br />

Serbia<br />

Albania<br />

Turchia


LAVORARE TUTTI,<br />

LAVORARE MEGLIO<br />

Le statistiche mostrano che l’insufficiente impiego del fattore lavoro, concentrato<br />

in alcuni segmenti del mercato, è recentemente accompagnato da una deludente<br />

performance della produttività a cura di Guido Romano<br />

Secondo le statistiche dell’Ocse, l’Italia condivide con<br />

Francia e Germania un problema di insufficiente impiego<br />

del fattore lavoro. Negli Stati Uniti, ogni cittadino di età<br />

compresa tra i 15 e i 64 anni lavora in media circa 1.290<br />

ore all’anno, contro le 1.030 ore lavorate in media degli<br />

italiani, le 956 dei francesi e le 940 dei tedeschi.<br />

La situazione, apparentemente simile a quella tedesca e<br />

francese, è invece radicalmente diversa considerando<br />

separatamente la percentuale di occupati sulle persone<br />

in età da lavoro e le ore lavorate da chi è occupato. Gli<br />

occupati italiani lavorano in media poco meno degli<br />

americani (1.791 ore all’anno contro 1.804) e molto più<br />

rispetto a francesi (1.535) e tedeschi (1.435). Il divario<br />

rispetto agli Usa deriva da una bassa quota di occupati<br />

tra le persone in età da lavoro: il tasso di occupazione in<br />

Italia è di poco superiore al 57%, ben lontano non solo<br />

rispetto ai livelli dei paesi anglosassoni o del Giappone,<br />

ma anche rispetto ai nostri partner continentali.<br />

Il problema di bassa occupazione è particolarmente<br />

pronunciato in alcuni segmenti del mercato del lavoro.<br />

Solo il 31% di chi ha un’età compresa tra i 55 e i 64<br />

anni ha un impiego; la percentuale è del 41% in<br />

Francia, del 45% in Germania, del 57% nel Regno<br />

Unito, del 61% negli Stati Uniti e del 64% in Giappone.<br />

Notevole rimane il ritardo nell’occupazione femminile:<br />

nonostante la rapida crescita del tasso di occupazione<br />

(tra il 1994 e il 2005 è cresciuto di 10 punti, passando<br />

dal 35% al 45%), i livelli sono ancora molto distanti<br />

rispetto alla media europea (58% dell’UE 15).<br />

L’insufficiente impiego del fattore lavoro si accompagna<br />

a dinamiche demografiche che da tempo non favoriscono<br />

la crescita dell’economia italiana. Tra il 1985 e il<br />

2005, secondo i dati delle Nazioni Unite, la popolazione<br />

in età da lavoro (15-64 anni) è rimasta ferma in<br />

Italia, mentre è aumentata a ritmi dell’1,4% all’anno<br />

negli Stati Uniti e dello 0,5% nell’Unione Europea a 15.<br />

Le proiezioni per il futuro non sono più incoraggianti:<br />

tra il 2005 e il 2025 la popolazione italiana in età da<br />

lavoro diminuirà a ritmi dello 0,7%, nell’Unione europea<br />

a ritmi dello 0,2%; viceversa negli Stati Uniti la<br />

ORE LAVORATE SU POPOLAZIONE 15-64 ANNI<br />

1.290<br />

1.230 1.214<br />

72,6%<br />

GLOBAL COMPETITION IN NUMERI<br />

1.030<br />

TASSO DI OCCUPAZIONE<br />

71,5%<br />

69,3%<br />

65,5%<br />

62,3%<br />

ORE LAVORATE PER OCCUPATO<br />

1.804 1.791 1.775<br />

1.672<br />

956 940<br />

USA Giappone UK Italia Francia Germania<br />

1.535<br />

57,5%<br />

UK USA Giappone Germania Francia Italia<br />

1.435<br />

USA Italia Giappone UK Francia Germania<br />

Fonte: elaborazioni su dati Ocse, Employment<br />

Outlook 2006. I dati si riferiscono al 2005<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

29


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

30<br />

popolazione continuerà ad aumentare, anche se a ritmi<br />

minori rispetto al passato.<br />

L’insufficiente impiego del fattore lavoro, un problema<br />

storico che l’economia italiana sta lentamente correggendo,<br />

è recentemente accompagnato dall’emergere di un<br />

problema di deludente performance della produttività.<br />

Nel corso dell’ultimo decennio si è invertita la storica<br />

tendenza che aveva permesso al nostro paese di raggiungere<br />

e superare i livelli di produttività degli Stati<br />

Uniti, misurati in termini di Pil per ora lavorata.<br />

Un diffuso ed efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione<br />

e della comunicazione nel tessuto produttivo<br />

americano ha prodotto un’eccezionale accelerazione<br />

della produttività statunitense. La produttività italiana<br />

ha invece rallentato, non solo rispetto agli Stati<br />

Uniti, ma anche rispetto ai paesi europei: in termini di<br />

Pil per ora lavorata, tra il 1995 e il 2005, l’Italia ha perso<br />

circa 18 punti di produttività nei confronti degli Usa<br />

(passando dal 110% all’92% della produttività Usa) e<br />

10 nei confronti dell’UE a 15 (dal 111% al 101%).<br />

L’Italia gode di vantaggi di costo rispetto agli altri grandi<br />

paesi avanzati. Nel 2004, il costo orario del lavoro<br />

per gli addetti dell’industria manifatturiera italiana era<br />

pari all’88% rispetto a quello degli addetti statunitensi e<br />

a circa il 63% rispetto agli addetti tedeschi. Il cuneo<br />

fiscale è inferiore rispetto a Germania e Francia ma sensibilmente<br />

superiore rispetto agli altri paesi avanzati.<br />

Mentre il cuneo contributivo a carico del lavoratore e il<br />

cuneo tributario rientrano nella media, il cuneo contributivo<br />

a carico delle imprese, del 46% rispetto alla retribuzione<br />

netta di un operaio, appare abbastanza alto,<br />

inferiore solo rispetto a quello francese.<br />

66,8<br />

63,9<br />

TASSO DI OCCUPAZIONE (2005)<br />

65,6<br />

60,8<br />

Donne<br />

59,6<br />

56,8<br />

58,1<br />

45,5<br />

Fonte: Ocse, Employment Outlook 2006<br />

56,9<br />

55-64 anni<br />

40,7<br />

45,3<br />

UK USA Germania Giap. Francia Italia<br />

31,4<br />

UK USA Germania Giap. Francia Italia<br />

COSTO DEL LAVORO ORARIO NEI PAESI AVANZATI<br />

Industria manifatturiera, numeri indice (2004) (USA=100)<br />

140<br />

Germania<br />

117<br />

107 103<br />

100 100 95<br />

UE 15 UK Francia USA Australia Giap. Italia<br />

Fonte: US Department of Labour, Bureau of Labour Statistics<br />

102,9<br />

35<br />

35<br />

32,9<br />

PRODUTTIVITÀ DELL’ITALIA<br />

RISPETTO A USA E UE<br />

Pil per h lavorata, indici (USA=100 Ue 15=100)<br />

120<br />

110<br />

100<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

1968 1973 1978 1983 1988 1993 1998 2003<br />

Fonte: Elaborazioni su dati Groningen<br />

Growth Development Center<br />

CUNEO FISCALE<br />

In % della retribuzione netta di un operaio (2004)<br />

90<br />

53,5<br />

18,6<br />

17,9<br />

84,3<br />

45,8<br />

12,7<br />

25,8<br />

Germania Francia Italia UK USA Australia Giap. Irlanda<br />

Fonte: Centro Studi Confindustria<br />

45,4 42<br />

13,1 10,1<br />

11,3 10,1<br />

21<br />

21,6<br />

40<br />

7,9<br />

32,1<br />

VS<br />

VS<br />

36,3<br />

15,2<br />

14<br />

7,1<br />

88<br />

cuneo contributivo<br />

(imprese)<br />

cuneo contributivo<br />

(lavoratore)<br />

cuneo tributario<br />

31,3<br />

12,7<br />

6<br />

12,6


Libri in vetrina a cura di Gianfranco Fabi<br />

“Europa, una pazienza<br />

attiva”<br />

Tommaso Padoa Schioppa -<br />

Ed. Rizzoli - Milano - 2006 -<br />

pagg. 182 - € 16,50.<br />

L’Italia ha sempre avuto un<br />

ruolo di prima fila nella costruzione<br />

dell’unità europea. Pur<br />

se con momenti di maggiore o<br />

minore entusiasmo, pur con<br />

periodi di freddezza politica<br />

che si sono alternati ad iniziative<br />

anche coraggiose, l’Italia ha<br />

saputo mantenere negli anni<br />

una propensione aperta all’europeismo. E questo è vero<br />

non solo perché il nostro paese ha saputo giocare fin dall’inizio<br />

del dopoguerra sia la carta atlantica, sia quella europea<br />

per uscire dall’isolamento dopo il fascismo e la sconfitta,<br />

ma anche perché l’Europa è stata un costante punto di<br />

riferimento che ha sempre suscitato un vasto consenso di<br />

fondo che periodicamente si è trasformato in un disincantato<br />

scetticismo. E come con l’avvio nel ’57 del mercato<br />

comune con i Trattati di Roma, così per l’aggancio all’euro<br />

fin dal primo giorno la dimensione europea è stata un<br />

grande sogno, un valore profondo, ma anche una fastidiosa<br />

incombenza, una struttura burocratica da guardare<br />

con malcelata diffidenza. È da questa prospettiva che<br />

nasce la malinconia di cui parla Tommaso Padoa-<br />

Schioppa, una prospettiva in cui gli italiani spiccano per essere<br />

molto europeisti e poco europei.<br />

“Per fare bene in Europa – afferma l’attuale ministro<br />

dell’Economia che è stato il primo italiano membro del<br />

Comitato esecutivo della Banca centrale europea – ci servono<br />

le stesse cose di cui abbiamo più acuto bisogno in<br />

patria: senso dello Stato; solide strutture sociali, economiche<br />

e amministrative; legalità; mercato; democrazia; riconoscimento<br />

del merito”. C’è quindi una consonanza tra i<br />

problemi nazionali e quelli europei, c’è quasi uno sviluppo<br />

ciclico che fa seguire la passione per l’unità alle tentazioni<br />

particolaristiche sia all’interno, sia a livello continentale.<br />

Con molto realismo ecco allora l’esigenza di affidarsi ad<br />

una “pazienza attiva” nella convinzione che il cammino<br />

dell’Europa ha bisogno di contare su un saggio equilibrio<br />

tra le decisioni della politica e le convinzioni dei cittadini,<br />

convinzioni che fortunatamente si esprimono nelle forme<br />

della democrazia e nella dimensione del mercato.<br />

“Unione europea: governance e regolamentazione”<br />

Istituto per gli Studi di Politica Internazionale - a cura di<br />

Francesco Passatelli - Ed. il Mulino - Bologna - 2006 - pagg.<br />

300 - € 23.<br />

È indubbio che con la svolta del secolo la dimensione<br />

europea si sia scontrata con un paradosso: nel momento<br />

dei suoi maggiori successi (come possono essere considerati<br />

l’allargamento e la moneta unica) il “no” nei referendum<br />

francese e olandese sulla nuova Costituzione hanno<br />

avuto l’effetto di un secchio di acqua gelida che ha ridestato<br />

sopite tensioni e nascoste amarezze. Non si può dimenticare<br />

che mentre l’Europa faceva i suoi difficili e ambiziosi<br />

passi lo scenario esterno mutava profondamente: il crollo<br />

dell’impero sovietico, l’irruzione<br />

sui mercati della Cina e<br />

dell’India, la politica militare<br />

americana con la guerra in<br />

Iraq sono stati alcuni dei cambiamenti<br />

di fondo che hanno<br />

imposto all’Europa di far risaltare<br />

meglio la propria politica<br />

e la propria identità. Salvo poi<br />

scoprire che il Vecchio continente<br />

aveva più di un problema<br />

rispetto a una politica e<br />

una identità ben definite.<br />

È in questa prospettiva che si<br />

inseriscono le riflessioni degli<br />

esperti raccolti dall’Istituto per<br />

gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) attorno al tema<br />

della governance in un volume curato da Francesco<br />

Passarelli, docente di politica economia all’Università<br />

Bocconi e attento osservatore della complessa evoluzione<br />

della problematica europea. Ne emerge un lavoro di analisi<br />

che non si ferma alle tradizionali problematiche politiche<br />

sugli assetti strutturali delle diverse organizzazioni<br />

europee, ma sviluppa la tematica più profonda di<br />

un’Europa a democrazia incompiuta perché non ha ancora<br />

saputo tradurre in pratica i meccanismi del consenso e<br />

della maggioranza. In questo modo anche approfondendo<br />

i casi dei sistemi finanziari e delle telecomunicazioni<br />

emerge come proprio dai meccanismi di governance,<br />

frammentari e tarati sui tempi lunghi, l’Europa trovi alcuni<br />

tra i suoi ostacoli più rilevanti in quello che tuttavia resta tra<br />

gli obiettivi condivisi almeno a parole: diventare, come<br />

indicato nell’agenda di Lisbona, una delle aree più avanzate<br />

e competitive del mondo.<br />

“L’integrazione economica europea - 1947-2006”<br />

Francesca Fauri - Ed. il Mulino - Bologna - 2006 - Pagg. 300<br />

- € 15,50.<br />

“Questa Europa della malinconia, o fragile come spesso è<br />

definita in questi tempi, ha comunque operato conquiste<br />

importanti, fatto passi da gigante sulla strada dell’unificazione,<br />

allargato i confini e<br />

soprattutto garantito, dopo<br />

secoli di guerre tra i Paesi<br />

europei, cinquant’anni di<br />

pace”. È questo il giudizio<br />

conclusivo del viaggio lungo i<br />

primi sessant’anni dell’unità<br />

europea di Francesca Fauri,<br />

docente di Storia economica<br />

dell’Europa contemporanea<br />

all’Università di Bologna, in<br />

un libro che costituisce una<br />

delle più esaurienti, anche se<br />

necessariamente sintetica,<br />

analisi di come il filo conduttore<br />

dell’economia abbia condizionato, ma nello stesso<br />

tempo salvato, il cammino dell’unificazione del Vecchio continente.<br />

Pur senza dimenticare la prospettiva politica, che<br />

anzi costituisce una continua pietra di paragone per giudi-<br />

GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

31


GLOBAL COMPETITION 8 - 2007<br />

32<br />

care l’evoluzione complessiva, il libro si pone come obiettivo<br />

quello di rivalutare l’approccio “funzionalistico”, in fondo la<br />

visione pragmatica, spesso invece considerato un ripiego di<br />

fronte alle difficoltà di far avanzare un concreto e coerente<br />

progetto federale. Secondo i funzionalisti “se gli Stati integravano<br />

anche solo un settore delle loro economie, pressioni<br />

tecniche li avrebbero condotti poi a integrare un altro settore,<br />

e così via fino all’unificazione federale”. Se è vero che il<br />

cammino si è svolto effettivamente lungo questa modalità<br />

(anche se una vera unificazione federale è ancora allo stato<br />

embrionale) non si può tuttavia non notare come il processo<br />

si sia svolto non tanto per automatismi interni progressivi,<br />

quanto per una serie di decisioni ambiziose, ultima quella<br />

della moneta unica, che hanno permesso di superare le<br />

tentazioni protezionistiche e nazionalistiche. Quello che non<br />

va dimenticato, e l’analisi di Francesca Fauri lo sottolinea in<br />

più occasioni, è l’enorme potenziale che il mercato prima, la<br />

moneta poi, la politica economica e fiscale quando si realizzeranno,<br />

hanno fatto e faranno emergere per dare sostanza<br />

alla crescita anche sociale dell’Europa. Guardare alla storia<br />

può allora diventare estremamente utile: perché le incertezze<br />

e le difficoltà del futuro possono acquistare una nuova<br />

dimensione guardando alle battaglie vinte nel più recente<br />

passato.<br />

“Free world - America, Europa e il futuro<br />

dell’Occidente”<br />

Timothy Garton Ash - Ed. Mondadori - Milano - 2006 -<br />

pagg. 292 - € 10,40.<br />

“La cosa principale è rifiutare la sensazione di essere impotenti”.<br />

Così Timothy Garton Ash lancia il suo messaggio di<br />

necessaria volontà di fronte al palese arenarsi di uno dei<br />

compiti storici dell’Occidente,<br />

quello di estendere<br />

la libertà e la democrazia<br />

rispettando fino in<br />

fondo i principi e i comportamenti<br />

della libertà e della<br />

democrazia. Garton Ash,<br />

politologo e direttore<br />

dell'European Studies Centre<br />

al St. Antony College di<br />

Oxford, offre con questo<br />

libro (Free World - America,<br />

Europa e il futuro dell'Occidente)<br />

un punto di vista<br />

che risponde a tre diversi<br />

stimoli: è innanzitutto britannico, cioè appartiene al più<br />

“americano” tra i paesi europei; è poi profondamente e<br />

strutturalmente democratico, un appassionato cantore<br />

del mondo libero; ha infine un approccio globale con la<br />

capacità di cogliere i riflessi dei grandi mutamenti internazionali.<br />

Quello che emerge è allora un profondo e sentito richiamo<br />

all’Occidente perché riscopra nella sua tradizione e<br />

nei suoi valori la capacità di proporre una visione unica e<br />

costruttiva di libertà. Fino a quindici anni fa la contrapposizione<br />

con il blocco sovietico garantiva all’Occidente una<br />

chiarezza di visibilità, ma costituiva anche un alibi per la<br />

necessità di mantenere entro i propri confini la dimensio-<br />

ne del mondo libero. Ora si devono fare i conti con una<br />

politica dell’intervento militare che, se ha avuto una sua<br />

logica e un innegabile successo nei Balcani, si è trasformata<br />

in un disastro politico e umanitario in Iraq.<br />

C’è quindi la necessità di ripensare a quello che Garton<br />

Ash chiama un “nuovo ordine internazionale della<br />

libertà”. Un cammino difficile che passa tuttavia attraverso<br />

la trasformazione dell’immigrazione in un fattore di dialogo,<br />

una logica più costruttiva e aperta di aiuti allo sviluppo,<br />

una maggiore apertura agli scambi internazionali. Si<br />

potrebbe parlare di strada della collaborazione rispetto a<br />

quella della contrapposizione. Anche perché pure al proprio<br />

interno l’Occidente ha perso troppe occasioni negli<br />

ultimi anni per non dividersi.<br />

“Globalizzazione o barbarie<br />

- Piccolo manuale contro<br />

i protezionismi”<br />

Pascal Salin - Ed. Rubbettino<br />

(con Leonardo Facco) - Soveria<br />

Mannelli - 2006 - pagg. 110 - € 8.<br />

“Spero che questo saggio serva<br />

ad aprire gli occhi e le orecchie<br />

di qualche lettore in buona<br />

fede. Il nemico dell’imprenditore<br />

che crea ricchezza non è il<br />

concorrente di un altro paese, il<br />

quale si appropria di una rendita<br />

di posizione, ma è quasi sempre<br />

un legislatore del proprio o di un altro Paese”. Così il<br />

finanziere Rudi Bogni scrive nell’introduzione del libro di<br />

Pascal Salin (“Globalizzazione o barbarie – Piccolo manuale<br />

contro i protezionismi”), un libro che affronta con la dote<br />

della sintesi, il pregio della chiarezza e il merito di un sano<br />

pragmatismo il tema di fondo della risposta da dare di<br />

fronte agli effetti della globalizzazione.<br />

Il pregio di Salin, professore di economia all’Università<br />

Paris-Douphine e in passato presidente della Mont Pelerin<br />

Society, sta nel fatto di andare oltre le tradizionali analisi<br />

economiche, che sottolineano il prevalere dei vantaggi<br />

nella progressiva apertura dei mercati tradizionali, per mettere<br />

in luce come dietro alle tentazioni del protezionismo ci<br />

siano nella maggior parte dei casi solamente gli interessi di<br />

breve periodo dei politici preoccupati solo di aumentare, o<br />

comunque consolidare, il proprio consenso elettorale.<br />

E in fondo il significato del libro lo si può trovare sintetizzato<br />

in una nota a piè di pagina nell’ultimo capitolo: “si<br />

confonde spesso la regolazione con la regolamentazione.<br />

Ora la prima non implica assolutamente la seconda”. E<br />

infatti se è vero che il mercato ha bisogno di regole per<br />

poter funzionare, per mettere tutti gli operatori sullo stesso<br />

piano, per lasciare che la concorrenza si sviluppi valorizzando<br />

le potenzialità dei singoli operatori, è altrettanto<br />

vero che troppo spesso le regole che i Governi varano<br />

costituiscono limitazioni alla libertà degli scambi, misure di<br />

protezione di singole categorie e di singoli interessi, interventi<br />

per difendere le rendite e i privilegi esistenti. Con un<br />

elemento in più da non dimenticare: frenare la libera iniziativa<br />

e il dinamismo dei mercati costituisce inevitabilmente<br />

anche un intervento contro la stessa dignità della persona.

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