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Mi chiamo Edgar FreemanShort.pmd - ZONAcontemporanea.it

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santo giorno, e quando torni la sera a casa e finalmente smettono di fare<br />

caciara tu hai voglia soltanto di un po’ di silenzio.<br />

Non ci crederete, ma in tanti anni che abbiamo vissuto sotto lo stesso<br />

tetto non l’ho quasi mai sent<strong>it</strong>o parlare. Se non fosse stato il mar<strong>it</strong>o di mamma<br />

– e quindi per forza di cose avrebbe dovuto rispondere sì alla fatidica<br />

domanda in chiesa – avrei senza remore sospettato che fosse muto.<br />

«C’è la brina sul vetro, <strong>Edgar</strong>. E quindi?», mi chiese la mamma con la<br />

faccia con gli occhi allargati come quando ti mettono le gocce.<br />

«Quindi sciarpa e cappello», risposi io.<br />

Non mi cap<strong>it</strong>a spesso, ma mi piace quando azzecco le risposte.<br />

Quella mattina faceva un freddo becco, uno di quegli inverni che si gelavano<br />

le palle pure alle statue.<br />

Sarebbe durato per un altro mese buono.<br />

La Bugs Bunny Burney School distava quattro miglia e mezzo da casa<br />

nostra.<br />

Quasi cinque miglia se prendevamo la sopraelevata per During, più lunga<br />

ma meno trafficata.<br />

Ogni mattina in macchina mettevamo ai voti quale strada prendere e io<br />

votavo quasi sempre per la strada per During (più lunga di mezzo miglio, ma<br />

meno trafficata).<br />

Solo quando eravamo in r<strong>it</strong>ardo o mamma era nervosa non si votava,<br />

ingranava direttamente la marcia con la faccia scura – è incredibile come<br />

sia veloce alle volte passare dalla democrazia all’oligarchia -.<br />

L’oligarchia, mi ha spiegato una volta mio fratello, è quella forma di governo<br />

nella quale i gen<strong>it</strong>ori decidono senza sentire i pareri dei figli.<br />

Vi dicevo della Bugs Bunny Burney School.<br />

Io la <strong>chiamo</strong> come quei famosi cartoni, ma dentro non era come stare su<br />

una giostra.<br />

Era un enorme edificio nero allungato verso il bosco, con le finestre bianche<br />

e grandi, usate come bieco palliativo a guardare fuori.<br />

Ma fuori c’era solo un enorme parcheggio, che con due canestri e un<br />

po’di fantasia diventava un campo di basket.<br />

Ma io non sono stupido e sapevo che quello era il posto dove parcheggiare<br />

il pulmino e le macchine e le altre cose che si muovono, e quando la<br />

signora Bellet ci diceva «ragazzi, andiamo a farci una part<strong>it</strong>a?», io lo sapevo<br />

che andavamo nel parcheggio.<br />

Il mio primo giorno di scuola ero molto alberato.

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