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rIL SECONDO<br />
Il secondo ristorante ha il citofono. «Perché il citofono?» dice<br />
Manuel. Non lo so. Immagino che qualcuno, come in una casa<br />
dove si aspettano ospiti, si dia una ripassata ai capelli, alla divisa,<br />
e nasconda sotto al tappeto ciò che non vuole che si veda. Ma<br />
sicuramente sbaglio.<br />
Dentro, infatti, è tutto a posto. Comincio a guardarmi intorno, siamo<br />
sempre quattro gatti, tutte famiglie. E ad un’attenta osservazione<br />
si nota perfettamente che la donna sta chiedendo la ricetta al<br />
cameriere come se ci fosse il pimpante tizio del TG che intervista<br />
lo chef. E che l’uomo sta imprecando sulle parole (fraintese) di<br />
Berlusconi e sulla rata di Equitalia che lascerà nel conto.<br />
Stavolta, oltre alle posate d’argento, c’è la musica di sottofondo,<br />
Chopin, e le poltrone imbottite al posto delle sedie. Al tavolo arriva<br />
non una persona, ma due, magre magre.<br />
Una per il cibo, l’altra per i vini. A Manuel piace far scorpacciate di<br />
capesante?<br />
«Certo che le abbiamo, com’è scritto sulla lista» precisa il cameriere<br />
in guanti bianchi.<br />
Ovviamente sulla lista non c’è scritto un bel nulla. Ci sono solo<br />
lunghi nomi stranieri, sconosciuti, mai sentiti, non si capisce niente.<br />
Ti senti abbastanza a disagio a rispondere. E ti affidi: «Capesante<br />
per il bimbo».<br />
Mezzora di attesa, gliene portano due. Due! Due capesante su un<br />
piatto grandissimo vuoto con sopra un disegno. E il disegno è fatto<br />
con salsa di mandarino.<br />
«Era meglio il pesce coi funghi», sussurra Manuel.<br />
Duecentocinquanta euro di conto. Simona chiosa: «Lo fai apposta».<br />
Pure. Manuel non ha mangiato nulla. Adesso, oltre a conoscere<br />
tutta la storia del branzino, odia Chopin. E se la piglia con me:<br />
«Cos’è lo spread?»<br />
«Meglio che tu non lo sappia».<br />
IL TERZO<br />
Comincio a capire come funziona in questi posti. I piatti non sono<br />
mai abbondanti perché tanto oggi sono tutti a dieta. Pure chi<br />
li prepara e li serve. Però te li colorano. E tu non paghi più per<br />
mangiare, ma per i colori, la lezione che ti fanno e sa dio che altro.<br />
Paghi tutto, la recita, il servizio, le posate. Il cibo è una roba in più,<br />
un accessorio. Quasi un fastidio. Tanto che te ne vai con una fame<br />
della madonna. Ma, fa notare Simona, non è che si può fare un<br />
bilancio su due ristoranti.<br />
Già. Due sono ancora pochi per rovinarsi.<br />
Il terzo ristorante ha così il citofono, le posate d’argento, le poltrone<br />
imbottite, la musica.<br />
Al tavolo arrivano in tre: uno per primi e secondi, uno per i vini, uno<br />
solo per i dolci.<br />
Intorno a me solo donne che prendono appunti sulle ricette,<br />
bambini infuriati e mariti disperati che giocano a freccette con la<br />
faccia dell’ex premier.<br />
Manuel può scegliere tra risotto all’aceto balsamico, spiedini di<br />
prugne e prosciutto. E comincia a diventare seriamente nervoso:<br />
«Quella roba te la mangi te. Non c’hai le patatine?»<br />
No. L’alternativa, spiega il cameriere in livrea, è un tempura di<br />
gamberi e verdure in pastella leggera.<br />
E lui, che sta imparando a non fidarsi, fa gli occhi piccoli piccoli:<br />
«Cioè?»<br />
«È una pastella di farina cotta in maniera particolare» ammicca il<br />
cameriere.<br />
Manuel mi guarda confuso e gliela faccio breve: «Fritto misto. Solo<br />
che costa di più».<br />
Allora il cameriere, un po’ imbarazzato, annuisce: «Sì, più o meno<br />
fritto misto».<br />
Ha ragione lui, più o meno. Anzi, meno: tre gamberi, quattro verdure<br />
e una salsa di soia.<br />
Il tutto servito su un grosso piatto adagiato sopra ad un altro piatto<br />
ancora più grosso. Intorno, rametti e disegni realizzati con salse.<br />
Per il dolce si scopre che il terzo cameriere altri non è che<br />
l’ennesimo chef, un ungherese appositamente scelto e venuto<br />
in Italia unicamente per preparare dessert. E “scomodatosi” dalle<br />
cucine, ci fanno cortesemente notare, solo per illustrarci la pietanza.<br />
«Vedi che culo», dice Simona, non sapendo che gli dovremo pagare<br />
anche quello. E’ il più magro di tutti. Sciorina la solita manfrina di<br />
nomi stranieri lunghissimi, una storia della lavorazione del cioccolato<br />
e l’importanza della freschezza del cibo.<br />
Poi, tre quarti d’ora di attesa, e ci porta un budino. Coi suoi bei<br />
disegni, i suoi rametti, va bene. Cacao biologico, crema lavorata va<br />
bene. Ci avranno lavorato mesi per studiare gli ornamenti, i rametti,<br />
i disegni va bene.<br />
Ma è comunque uno semplice, unico, molle, striminzito budino. Solo<br />
che costa un’iradiddio.<br />
Manuel è nero: «E questi rametti, almeno, li mangio?»<br />
Il cameriere scuote la testa spazientito: «Ma no, ma dai, ma è la<br />
decorazione!»<br />
Già, perché lo scemo è il bambino.<br />
Il conto sale a trecento euro (il cardiologo che ha salvato la pelle<br />
a mio padre, 280 la visita), per mezzo chilo di roba divisa in primo,<br />
secondo e dolce per quattro persone. Manuel, naturalmente, non<br />
ha mangiato nulla. In compenso si è dato alcune risposte di alta<br />
sociologia applicata: «Oh, più i piatti sono grossi, meno cibo c’è<br />
sopra».<br />
«Già»<br />
«Cos’è lo spread?»<br />
«Ma che cazzo ne so».<br />
IL QUARTO<br />
Simona tentenna ma non cede. Il massacro economico si sta<br />
compiendo. E allora, suicidiamoci. Il quarto ristorante è il massimo<br />
del mercato: citofono, poltrona, musica, posate d’argento. E i<br />
camerieri nemmeno si contano più. Sono ovunque, grossi come<br />
bodyguard in divisa, petto in fuori, sguardo serio, mani dietro al culo,<br />
nemmeno dovessero custodire una cassa di uranio impoverito.<br />
Chissà, magari è nel menù.<br />
Versano l’acqua, mettono il pane.<br />
Simona beve. E uno, che sta alle sue spalle, versa nuovamente. Poi<br />
rientra nei ranghi, stile robot. E aspetta, come un condor, che la<br />
preda beva ancora.<br />
Manuel prende un panino, e una mano che sbuca dalle retrovie gli<br />
riempie subito la cesta. Allora, scende dalla sedia e mi si avvicina<br />
all’orecchio: «Oh, papà, fai finta di niente, ma ci sono quattro tizi<br />
fermi dietro di noi. Hanno paura che rubo la forchetta?»<br />
«No, - lo rassicuro – hanno paura che scappiamo quando ci portano<br />
il conto».<br />
Manco a farlo apposta arriva un quinto cameriere, per le ordinazioni.<br />
E lui ha anche il compito di osannarci lo chef. Anzi, guai a chiamarlo<br />
così, perché si offende. «Il Maestro consiglierebbe…».<br />
E io, alla parola “Maestro” inizio a sudare. Lo immagino avvolto<br />
nei fumi di arrosto di banana al sugo, sospeso nell’aria a dividersi<br />
mazzette della mia grana. E a inventare ricette che quel dannato<br />
signore del TG prima o poi mi rifilerà in televisione, costringendomi<br />
a girare per settimane intere nei centri commerciali di mezza Italia<br />
alla ricerca di forfora di scorpione della Nuova Caledonia o di erbe<br />
magiche di Asterix il Gallico.<br />
Perché intanto passa un’ora piena. Un’ora a mangiare pane e<br />
grissini coi quattro energumeni alle spalle. Che non è una roba<br />
facile. Ma pure per loro, credo. È ormai pacifico che si tratta<br />
dell’ennesima arma di distrazione di massa dalla portata che sta per<br />
arrivare. Un’altra portata dal nome nuovo, sconosciuto, dal sapore<br />
bizzarro, ignoto, incomprensibile.<br />
Intorno vedo donne che picchiettano le dita sul tavolo e uomini<br />
ossuti, provati fisicamente dall’attesa del cibo e dall’ansia<br />
dell’addition, avvolta in pelle nera. Devono aver fatto il mio stesso<br />
lungo, debitorio giro, avuto i miei stessi incubi al tg e subito la<br />
stessa (fraintesissima) frase di Berlusconi sulle code al ristorante.<br />
Poi arrivano finalmente i piatti, i più grandi di tutti. Sopra, ci sono<br />
70 grammi di pasta ammucchiata. Fredda. Con dentro qualcosa<br />
simile a fragole. «Troppo sforzo, Maestro», sfugge a Simona che<br />
odia darmi ragione.<br />
Intorno ramoscelli, disegni, bacche e bucce scolpite. Tutte, va da sé,<br />
come sempre, assolutamente immangiabili.<br />
Ma Manuel stavolta taglia corto: «Andiamo a farci una pizza».<br />
Lo bacio. E lui ne approfitta: «Cos’è lo spread?»<br />
Ed è stato allora che ho realizzato.<br />
E senza entrare troppo in discorsi filosofici ed economici, ho deciso<br />
di spiegarglielo, con un esempio da non rivelare mai a nessuno.<br />
Perché in una società che fa dell’estetica la propria ragione di<br />
esistenza, passerebbe sicuramente da ignorante: «Se tu non sai<br />
più cosa stai mangiando e come si chiama ciò che stai mangiando,<br />
se non ne riconosci più nemmeno il nome e il sapore, ciò che ha un<br />
valore di dieci può diventare di valore ipotetico mille. La differenza<br />
tra i due valori si chiama spread».<br />
«Cioè?»<br />
«Fregatura. E infatti non abbiamo più un euro».<br />
Ora, so bene che molti opineranno che questa mia teoria sullo<br />
spread e i ristoranti è basata unicamente sull’esperienza dei miei<br />
personalissimi pranzi. Ma siccome anche il figlio è mio, gli racconto<br />
quello che mi pare. Anzi, me lo porto pure dove mi pare. Il mese<br />
scorso, esasperati dalla crisi, siamo infatti emigrati in Sud America.<br />
Li ho portati sugli altopiani della Bolivia. Carico di entusiasmo sono<br />
entrato in un ristorante e finalmente, dopo mesi di disgrazie, ho<br />
ordinato soddisfatto il piatto che mi ha devastato la vita: «Dicono<br />
che facciate le uova con la polvere di amaranto che sono la fine del<br />
mondo! Me ne porti sei!»<br />
Il cameriere mi ha guarda. Sorride. Poi mi fa: «Cosa cazzo è la<br />
polvere di amaranto?»<br />
Edoardo Montolli è romanziere e direttore della colonna<br />
Yahoopolis di Alberti Editori - illustrazioni di Blozz<br />
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