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CONOSCERE L'AMBIENTE PER DIFENDERLO - Cesvot

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Conoscer l’Ambiente per difenderlo<br />

In collaborazione con:<br />

Centro D.E.Ambiente<br />

Didattica - Espressione - Ambiante<br />

Firenze<br />

<strong>CONOSCERE</strong><br />

L’AMBIENTE<br />

<strong>PER</strong> <strong>DIFENDERLO</strong><br />

Via De’ Martelli, 8 - 50129 Firenze<br />

Tel. 055 271731 - Fax 055 214720<br />

numero verde 800-005363<br />

Internet: www.cesvot.toscana.it<br />

e-mail: info@cesvot.toscana.it<br />

Centro D.E.Ambiente<br />

Borgo Pinti 42/r - 50121 Firenze<br />

Tel. e Fax 055 2342238<br />

Rielaborazione degli Atti<br />

del Corso di Formazione<br />

“Conoscere l’Ambiente per difenderlo”<br />

Firenze Settembre/Ottobre 2002


In collaborazione con<br />

ASSOCIAZIONE D.E.A.<br />

Didattica - Espressione – Ambiente<br />

di Firenze<br />

<strong>CONOSCERE</strong> L’AMBIENTE <strong>PER</strong> <strong>DIFENDERLO</strong><br />

Rielaborazione degli Atti del Corso di Formazione<br />

“Conoscere l’ambiente per difenderlo”<br />

Firenze Settembre Ottobre 2002


INDICE<br />

INTRODUZIONE E PRESENTAZIONE DEL CORSO<br />

Presentazione Centro Socio-culturale D.E.A. – Silvana Grippi - Presidente Associazione socio-culturale<br />

Didattica-Espressione-Ambiente<br />

Obiettivi e finalità del corso – Gigliola Caridi, Alessandro Regoli - Ufficio stampa DEApress<br />

Educazione ambientale come difesa della nostra sostenibilità – Davide Filippelli - Assessorato alle<br />

Politiche del Lavoro della Provincia di Firenze<br />

L’impegno dell’Assessorato all’Edilizia della Provincia di Firenze per la sostenibilità: più qualità nel costruire<br />

applicando la Bioarchitettura – Alberto di Cintio - Assessorato all’Edilizia della Provincia di Firenze<br />

I caratteri originari dei paesaggi e degli ambienti toscani si spiegano con la storia del territorio – Leonardo<br />

Rombai - Docente di Geografia Storica – Università degli Studi di Firenze<br />

Pag. 6<br />

Pag. 7<br />

Pag. 8<br />

Pag. 9<br />

Pag. 11<br />

GEOGRAFIA E AMBIENTE<br />

Leonardo Rombai - Associazione Italia Nostra – Ambiente, Storia e Paesaggio. Per il ‘riconoscimento’<br />

e l’interpretazione dei beni paesistici e architettonici odierni definitisi tra tempi antichi e contemporanei<br />

Silvana Grippi - Cultore di Geografia Ambientale – Didattica ambientale<br />

Pag. 26<br />

Pag. 60<br />

ENERGIA E MOBILITÀ SOSTENIBILI, BIOARCHITETTURA E BIOLUCE<br />

Fausto Ferruzza - Associazione Legambiente – Sostenibilità ed Energia<br />

Alessandro Margaglio - Coordinatore Progetto “BiciTrenoBici”– Mobilità sostenibile<br />

Piero Funis - Bioarchitettura - sez. Firenze – Bioarchitettura<br />

Francesco Ciulli - Giornalista del settore bioarchitettura – Bioluce<br />

Pag. 64<br />

Pag. 95<br />

Pag. 97<br />

Pag. 98<br />

ARPAT E INQUINAMENTO, PARTICOLATO ATMOSFERICO, AMIANTO<br />

Gabriele Fornaciai – ARPAT – ARPAT - Agenzia regionale per la protezione ambientale toscana<br />

Giovanni Pratesi - Ricercatore Università degli Studi di Firenze – Il particolato atmosferico<br />

Pier Luigi Parrini - Tecnico dell’Università degli Studi di Firenze – Amianto<br />

Pag. 100<br />

Pag. 103<br />

Pag. 105<br />

LA PROTEZIONE CIVILE, L’ASSOCIAZIONISMO AMBIENTALE<br />

Guido Tozzi - VAB – Vigilanza Antincendi Boschivi – V.A.B - Gli incendi boschivi: cause, tipologia<br />

intervento, effetti, legislazione<br />

Simone Secchi – Associazione VAS – Verdi Ambiente e Società - V.A.S. - Verdi Ambiente e Società<br />

Carlo Scoccianti Associazione - WWF – World Wide Fund – W.W.F. - World Wide Fund<br />

Pag. 108<br />

Pag. 124<br />

Pag. 126<br />

LEGISLAZIONE E COMUNICAZIONE<br />

Alessandra Valastro - Ricercatore Università degli Studi di Firenze – La tutela penale degli animali.<br />

Spunti di riflessione sul reato di maltrattamento<br />

Giulio Gori – Giornalista – Guerra, Informazione e Ambiente<br />

Pag. 128<br />

Pag. 133<br />

Stages formativi:<br />

Incontro n. 1 – L.D.A. - Laboratorio didattico-ambientale di Villa Demidoff<br />

Incontro n. 2 – Stagni di Focognano - Oasi del W.W.F.<br />

Pag. 140<br />

Pag. 142<br />

Relazione finale – Test di verifica a cura di Vanna Innocenti – Zoomedia<br />

Pag. 144


INTRODUZIONE E PRESENTAZIONE DEL CORSO


PRESENTAZIONE CENTRO SOCIO-CULTURALE D.E.A.<br />

Silvana Grippi- Presidente Associazione socio-culturale Didattica-Espressione-Ambiente<br />

Con questa presentazione vogliamo proporre una diversa visione geo-ambientale che non trascuri<br />

l’ecologia, questo corso nasce come proposta innovativa per affrontare in modo rigoroso<br />

e scientifico l’educazione ambientale nell’ambito del volontariato.<br />

A tal fine, l’Associazione Didattica Espressione Ambiente attraverso questo ambizioso progetto,<br />

ha invitato varie associazioni, professori universitari, studiosi e ricercatori, già operanti e<br />

impegnati nella valorizzazione della difesa ambientale a confrontarsi e a far conoscere il loro<br />

lavoro. La realizzazione si deve alla collaborazione attiva nello svolgimento del corso<br />

“Conoscere l’ambiente per difenderlo”, i cui risultati sono raccolti in questo prodotto finale<br />

con il quale è possibile ripercorrere e ricostruire - attraverso le relazioni - come poter intervenire<br />

nei confronti della difesa dell’ambiente.<br />

Siamo stati incoraggiati a fare questo corso di Educazione ambientale in collaborazione con il<br />

CESVOT per gli operatori delle associazioni di volontariato, non soltanto per fornire un censimento<br />

delle condizioni e delle risorse del volontariato ma soprattutto per informare, con l’obiettivo<br />

primario di presentare un’analisi attendibile delle condizioni attuali del micro e macro<br />

territorio - sul nostro ecosistema - per conoscerlo e per imparare a difenderlo.<br />

La nascita di una cultura ecologica si scontra necessariamente con le scelte politico-economiche<br />

quindi si è reso necessario trovare un punto d’incontro tra organizzazioni politiche, movimenti,<br />

associazioni, cittadini che tutti insieme possano contribuire alla nascita di una cultura a<br />

difesa dell’ambiente.<br />

Il nostro intento è quello di dare valore sociale alla previsione, educazione e prevenzione, evitando<br />

posizioni eccessivamente catastrofiche o eccessivamente ottimistiche, cercando di analizzare<br />

le problematiche connesse alla tutela ambientale in modo scientifico, avallato dalla partecipazione<br />

di tecnici, docenti universitari e di esperti che da molti anni spendono la loro opera<br />

con le campagne di difesa socio-ambientale. Consapevoli che solo partendo da dati reali si possono<br />

affrontare insieme gli interventi necessari alla realizzazione di un’ efficace tutela ambientale<br />

diamo quindi il nostro contributo attraverso questi atti.<br />

Ringraziamo tutti i partecipanti per aver contribuito alla realizzazione di questa esperienza<br />

didattica, per la preparazione di uno sviluppo sostenibile dell’ambiente<br />

6


OBIETTIVI E FINALITÀ DEL CORSO<br />

Gigliola Caridi, Alessandro Regoli - Ufficio stampa DEApress<br />

Il Centro socio-culturale D.E.A. è un’associazione no-profit, costituita nel 1987 con la finalità<br />

di promuovere ricerca e comunicazione - sia a livello culturale che sociale. Il suo acronimo sta<br />

per Didattica Espressione Ambiente e l’educazione ambientale ha una parte rilevante che racchiude<br />

in sé la formazione e l’informazione per sensibilizzare e partecipare in modo consapevole<br />

alle scelte per uno sviluppo sostenibile.<br />

Il corso di formazione “Conoscere l’Ambiente per difenderlo” nasce dall’esigenza di affrontare<br />

le problematiche ambientali ed è rivolto non solo al settore del volontariato ma a chiunque<br />

voglia operare nel volontariato e approfondire le conoscenze in materia di associazionismo<br />

ambientale.<br />

Due le linee guida del corso:<br />

- Mettere l’accento sul concetto di difesa dell’ambiente, con la richiesta di responsabilizzazione<br />

degli Enti, protagonisti e partecipi, integrati con il volontariato.<br />

- Creare una nuova consapevolezza, frutto di informazioni mirate e di nuove forme di conoscenza,<br />

per uno sviluppo sostenibile.<br />

Le finalità del corso sono importanti: il primo obiettivo sarà quello di mettere in relazione gli<br />

operatori e i tecnici che lavorano nel settore ambientale con coloro che si occupano da tempo<br />

come volontari dell’ambiente, lavoreremo per sviluppare conoscenze e creare campagne di<br />

informazione - soprattutto fra le nuove generazioni - per una maggiore tutela dell’ambiente.<br />

Il corso di trentasei ore, sarà suddiviso in incontri ai quali interverranno operatori del settore del<br />

volontariato e studiosi dei problemi Geo-ambientali (geografi, botanici, zoologi, chimici, architetti<br />

e altri). Il corso si svolgerà con lezioni in aula, esercitazioni, escursioni, stage finale ed è<br />

rivolto ad operatori volontari che vogliono approfondire le conoscenze e operare nell’associazionismo<br />

ambientale.<br />

I temi fondamentali affrontati durante tutto il corso saranno rivolti a come poter lavorare per<br />

migliorare il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, tra associazionismo e istituzioni , saranno partecipi<br />

di questa iniziativa le Associazioni di volontariato invitate: WWF sez. Toscana, Italia<br />

Nostra, Legambiente, VerdiAmbienteSocietà, Bioarchitettura sez. Firenze, Gli Anelli Mancanti<br />

e tecnici dell’ambiente.<br />

7


EDUCAZIONE AMBIENTALE COME DIFESA DELLA NOSTRA SOSTENIBILITÀ<br />

Davide Filippelli - Assessore al Lavoro, Formazione Professionale, Politiche sociali della<br />

Provincia di Firenze<br />

Negli obiettivi fondamentali del nostro Assessorato, il problema dei rapporti territorio ed<br />

ambiente, è considerato prioritario: L’ambiente è una risorsa fondamentale, da difendere con<br />

tutte le nostre forze. La sua protezione, pur prevista come principio costituzionale, è diventata<br />

attuale purtroppo molto più tardi.<br />

La necessità di uno sviluppo sostenibile, che permetta ai nostri figli di vivere in un mondo perlomeno<br />

non peggiore del nostro, si è imposta come un dovere imprescindibile, quando ci si è<br />

resi conto degli orrori che la società industriale e consumistica è riuscita a realizzare. In altre<br />

parole, si è preso atto che la difesa dell’ambiente non è più una semplice passione, ma è l’urgente<br />

richiamo per la nostra sopravvivenza. Che fare allora?<br />

Bisognerà impegnarsi affinché ogni passaggio, ogni momento, ogni azione della nostra vita<br />

diventino un modo e una ragione per portare una goccia d’acqua in difesa della nostra salute,<br />

del nostro benessere e investimento del nostro futuro. E che siano d’esempio per tutti.<br />

Oggi quest’esempio diventa cruciale: di fronte a istituzioni che hanno difficoltà a mettere in pratica<br />

i propri principi, che persino stentano nell’offrire ai cittadini gli strumenti necessari per una<br />

raccolta dei rifiuti differenziata, per fare un esempio, l’impegno di chi vuole diffondere le conoscenze<br />

e le sensibilità necessarie per la difesa dell’ambiente va doppiamente apprezzato.<br />

Vi è una responsabilità particolare degli amministratori degli Enti locali dell’Area fiorentina:<br />

quello di perseverare e mantenere un ambiente particolarmente pregiato, ricco di cultura e di<br />

storia. E’ una responsabilità che gli amministratori devono sentire nell’esercizio delle funzioni,<br />

ma anche nell’impegno a trasferire ai cittadini e in particolare ai giovani il senso di un grande<br />

privilegio di vivere in un ambiente costruito dall’opera dell’uomo che deve essere mantenuto e<br />

rispettato.<br />

La presenza di un volontariato attivo e impegnato nell’educazione ambientale è il segno che<br />

negli amministratori locali è viva la sensibilità per sostenere e valorizzare il ricco patrimonio<br />

ambientale che la natura e l’opera dell’uomo ci consegna.<br />

Un valore importante è la comunicazione giusta. Insegnare ai giovani nelle scuole il rispetto<br />

dell’ambiente è cosa che ormai si è affermata da tempo; cercare di formare volontari specializzati<br />

nella protezione del territorio è invece un fatto nuovissimo: questo è uno dei più bei regali<br />

che potessimo farci. Grazie<br />

8


L’IMPEGNO DELL’ASSESSORATO ALL’EDILIZIA DELLA PROVINCIA DI<br />

FIRENZE <strong>PER</strong> LA SOSTENIBILITÀ: PIÙ QUALITÀ NEL COSTRUIRE<br />

APPLICANDO LA BIOARCHITETTURA<br />

Alberto Di Cintio – Assessore al Patrimonio, Edilizia, Gestione Scuola Didattica Ambientale<br />

e CEDIP<br />

Il concetto di edilizia sostenibile è da tempo entrato negli obiettivi prioritari dell’Assessorato<br />

all’Edilizia della Provincia di Firenze: iniziative, corsi, aggiornamento professionale per i propri<br />

tecnici, hanno contribuito a determinare una positiva consapevolezza ecologica, percepita<br />

come presupposto imprescindibile per una progettazione architettonica corretta e legittimata<br />

dalla nuova etica della sostenibilità.<br />

Per questo importante obbiettivo programmatico l’Assessorato si è impegnato in un grande<br />

lavoro che ha coinvolto più fronti.<br />

All’interno dell’Assessorato si è provveduto a formare i propri tecnici e operatori con due corsi<br />

a carattere nazionale, organizzati con la collaborazione dell’Istituto Nazionale di<br />

Bioarchitettura diretto dall’Architetto Ugo Sasso nel biennio 2001 – 2002. Il programma delle<br />

lezioni era rivolto a ingegneri, architetti, geometri, medici, biologi, fisici, chimici, agronomi,<br />

forestali, laureati e laureandi, oltre che tecnici, ricercatori universitari e professionisti e in genere<br />

a tutti quanti operano nei settori della gestione del territorio, della costruzione e della riqualificazione<br />

dell’ambiente.<br />

E’infatti nostro prioritario interesse rivolgerci in particolar modo ai tecnici degli Enti locali perché<br />

siano in grado di operare in questo settore ed introducano nuovi concetti del costruire e del<br />

fare urbanistica nel loro lavoro, ponendo la pubblica amministrazione all’avanguardia in questo<br />

campo. Ma altresì è importante attivare i corsi come quello odierno per operatori pubblici e privati<br />

che operano in campo ambientale per approfondire le conoscenze e far crescere le sensibilità<br />

operative per la salvaguardia dell’ecosistema.<br />

L’Assessorato si è poi impegnato in un programma di comunicazione che lo vede promotore<br />

della Conferenza Nazionale di Bioarchitettura , un appuntamento che si rinnoverà ogni anno e<br />

che è arrivato quest’anno alla terza edizione, dove si fa il bilancio della situazione della bioarchitettura<br />

in Italia. Il Convegno di quest’anno ha fatto, infatti, il punto su di un tema di scottante<br />

attualità: la carenza legislativa in questa materia e la necessità di far fronte a questo vuoto con<br />

proposte organiche e puntuali. A questo proposito sono intervenuti Amministratori e funzionari<br />

delle varie realtà regionali esponendo le loro esperienze e confrontandosi con una realtà sempre<br />

più articolata da cui scaturisce la necessità di norme e regole precise.<br />

A questo proposito l’Assessorato ha presentato il proprio Prezziario Edile, la cui redazione è<br />

stata affidata a un gruppo di tecnici, esperti, professionisti operanti nell’ambito dell’Istituto<br />

Nazionale di Bioarchitettura . Per la prima volta in Italia un Ente pubblico ha, infatti, deciso di<br />

dotarsi di uno strumento immediatamente operativo in ambito ecologico, completando il proprio<br />

Prezziario Edile in maniera tale da affiancare ad ogni materiale ed ogni tecnologia ivi prevista,<br />

un’alternativa “più ecologica”. Non dunque proposte astratte, ma l’individuazione di una<br />

gamma di possibilità più attente all’ambiente ed alla salute dei cittadini che siano effettivamente<br />

praticabili. Spetterà poi al tecnico operare di volta in volta le scelte più opportune e convenienti<br />

in funzione del luogo, delle richieste progettuali, delle maestranze, del budget, ponendosi non<br />

nell’ottica di sperimentazioni spinte e dai risultati poco controllabili, ma attuando una introduzione<br />

graduale, prudente effettiva , nella pratica corrente di cantiere. Una serie di piccole azioni<br />

capaci, l’una accanto all’altra, di trasformare la realtà e diffondere ad ampio raggio, attraverso<br />

la “metabolizzazione” del cambiamento, una nuova qualità ecologica.<br />

9


Un altro passo importante nell’approfondimento di questa tematica e stato quello di coinvolgere<br />

l’Università per quello che concerne la ricerca. Si è stipulato, infatti, un Documento d’intenti<br />

fra l’Assessorato all’Edilizia della Provincia di Firenze e la Facoltà di Architettura<br />

dell’Università degli Studi di Firenze. Tale Documento prevede, infatti, la costruzione di uno<br />

stretto rapporto di collaborazione al fine di attivare progetti e realizzare congiuntamente programmi<br />

sui temi dell’architettura e dell’edilizia e della bioarchitettura in particolare.<br />

L’Assessorato ha inoltre promosso e sostenuto altri importanti Protocolli d’Intesa con oggetto<br />

lo sviluppo della Bioarchitettura con i Comuni del Chianti e del Mugello.<br />

Da segnalare inoltre la promozione di due importanti ricerche: una affidata all’Università di<br />

Firenze per lo studio di un modello abitativo temporaneo, cioè per la realizzazione di nuovi<br />

sistemi edilizi modulari facilmente assemblabili e smontabili, riciclabili, compatibili con l’ambiente,<br />

che permettano di superare il vecchio e ormai inadeguato sistema dei container prefabbricati;<br />

l’altra assegnata a due professionisti esterni e riguardante la redazione di un progetto<br />

pilota a livello regionale per la riqualificazione, riconversione e nuova progettazione degli spazi<br />

aperti e verdi delle scuole superiori.<br />

Sul fronte più operativo possiamo registrare altre importanti iniziative messe in atto da questo<br />

Assessorato: prima fra tutte una riforma del servizio energia sugli immobili di competenza<br />

della Provincia . Alcuni dati che possano far riflettere : la Provincia spende per riscaldamento<br />

poco meno di 5 miliardi l’anno delle vecchie lire. Il piano economico finanziario quinquennale<br />

prevede un risparmio graduale variabile del 5% circa fino alla fine del prossimo anno e poi nell’ultima<br />

stagione 2004/5 del 7% circa. Ciò sarà possibile grazie a vari procedimenti che prevedono<br />

il controllo installando un sistema telematico di controllo e di gestione degli impianti oltre<br />

ad interventi strutturali negli edifici. Si trasformeranno , inoltre le centrali termiche attualmente<br />

alimentate a gasolio, in previsione dell’uso del biodiesel (un combustibile di olio vegetale).<br />

E poi le cosiddette energie rinnovabili. Il solare e il fotovoltaico entreranno nelle scuole.<br />

L’Amministrazione Provinciale si è impegnata infatti, a rendere obbligatorio l’inserimento dei<br />

moduli fotovoltaici nella redazione dei progetti di edifici di nuova costruzione che la Provincia<br />

intende realizzare, cominciando ad installarli negli istituti di Figline e di Scandicci, oltre ad attivare<br />

impianti solari a Empoli e Borgo S. Lorenzo.<br />

Sulla salubrità degli edifici. A seguito di un importante convegno sul Radon organizzato<br />

dall’Assessorato si sono sviluppate, inoltre, delle importanti sinergie che hanno portato ad<br />

un’indagine, la prima in Italia, sulla misura della concentrazione di Radon negli istituti scolastici<br />

di competenza provinciale. Recenti studi epidemiologici hanno posto in evidenza il rischio<br />

legato al Radon, gas radioattivo naturale i cui prodotti di decadimento emettendo radiazioni producono<br />

danni alle cellule bronco-polmonari costituendo la seconda causa di tumore polmonare.<br />

Infine fra i tanti progetti biocompatibili attivati preme segnalare sicuramente il più rilevante: il<br />

progetto del nuovo Polo Scolastico di Empoli, 26.000 mc complessivi interamente progettati<br />

con le indicazioni della Bioarchitettura, che si pone come la più importante Scuola Superiore in<br />

Italia costruita in Bioedilizia.<br />

Qualche riflessione finale.<br />

Se l’edilizia e l’urbanistica degli ultimi decenni hanno evidenziato inadeguatezze preoccupanti<br />

sotto il profilo della salubrità fisica e sociale, il compito che tocca ora all’architettura del nuovo<br />

millennio è la riqualificazione dell’ambiente, la rivalutazione dei piccoli centri storici, il risanamento<br />

delle periferie . In concreto si deve guardare ad un vero e proprio “sistema” che non<br />

deve privilegiare solo gli aspetti estetici e formali dell’architettura , ma preoccuparsi altresì del<br />

risparmio delle risorse ambientali e soprattutto del benessere psicofisico degli utenti. Tale impo-<br />

10


stazione è diventata ormai una necessità viste le trasformazioni sociali ed organizzative in atto<br />

(informatizzazione della comunicazione e del lavoro, utilizzo del tempo libero, disequilibri<br />

demografici, lavoro a domicilio) stanno determinando la diversificazioni delle utenze e cambiando<br />

il modo stesso di abitare. Ecco perché nelle punte più avanzate della società europea si<br />

è sviluppata una nuova etica di intendere la qualità abitativa, in cui i concetti di risparmio energetico,<br />

di compatibilità biologica e sostenibilità ambientale stanno assumendo sempre una maggior<br />

rilevanza. Ci troviamo dunque di fronte a una vera e propria sfida del terzo millennio che<br />

non si può affrontare guardando nostalgicamente indietro e rifiutando la contemporaneità.<br />

11


I CARATTERI ORIGINARI DEI PAESAGGI E DEGLI AMBIENTI TOSCANI<br />

SI SPIEGANO SOPRATTUTTO CON LA STORIA DEL TERRITORIO<br />

Leonardo Rombai – Docente di Geografia Storica – Università degli Studi di Firenze<br />

Quella toscana, è la storia di una unitarietà paesistico-ambientale e culturale fatta di varianti, di<br />

un’identità sfaccettata, pur all’interno di fisionomie subregionali o campagne relativamente unitarie:<br />

come l’impervia e povera montagna appenninica e amiatina (che mai seppe nutrire un<br />

vero e proprio sistema urbano); come il maggiormente vocato sistema collinare-vallivo dell’interno<br />

(in ogni epoca ricco di città); e come la potenzialmente fertile e produttiva fronte collinare-pianeggiante<br />

della costa con l’arcipelago (dove però il fitto tessuto urbano dei tempi etruscoromani<br />

si atrofizzò definitivamente tra tardo-antico ed alto Medioevo, oppure durante la crisi<br />

trecentesca).<br />

Questa articolazione territoriale in tre sistemi subregionali, in “tre Toscane”, con gli innumerevoli<br />

microcosmi paesani e rurali che compongono ciascuna grande realtà paesistica (e con quelle<br />

aree che rifiutano di collocarsi quietamente nella triplice tipologia), non è frutto tanto dei fattori<br />

fisico-naturali, bensì di quelli umani in larghissima misura riconducibili all’azione delle<br />

città, che pure non possono non tenere conto dei caratteri, delle ‘vocazioni’ e dei condizionamenti<br />

fisico-naturali: essa è sostanzialmente da collegare ai processi storici dei secoli posteriori<br />

al Mille, quando, con l’affermarsi della civiltà comunale, emergono numerosi organismi urbani<br />

quasi tutti dislocati nella parte collinare e valliva della Toscana centro-settentrionale, solcata<br />

dalla più formidabile via di comunicazione naturale tra il mare e l’interno, l’Arno, e dalle principali<br />

arterie stradali costruite per i contatti commerciali con l’esterno e specialmente con<br />

l’Italia settentrionale. E’ il caso della Francigena (che fu anche la “porta” terrestre europea per<br />

Roma e il Mediterraneo orientale) e dei numerosi altri percorsi di valico per l’area padana/adriatica.<br />

Nella sempre più viva e popolosa “Toscana di mezzo”, si determinò presto un rapporto nuovo<br />

tra città e campagna: gradualmente, in un mondo che sino ad allora era dominato dall’autosussistenza<br />

e dal controllo feudale, si sostituì un’influenza urbana che diffondeva il senso del profitto<br />

e sconvolgeva l’organizzazione produttiva e sociale del territorio, con la disgregazione del<br />

sistema curtense – definitosi nell’età dell’alto Medioevo feudale – e delle correlate povere<br />

‘comunità di villaggio’, e con la costruzione – grazie alla diffusione dei capitali cittadini (accumulati<br />

con il commercio, la banca e l’artigianato o l’industria) sulla terra – di una diffusa proprietà<br />

borghese funzionale ad una nuova e più evoluta economia agricola di mercato.<br />

Con l’introduzione della mezzadria, in vari secoli si venne a creare una sempre più densa maglia<br />

di aziende poderali di piccole dimensioni, fittamente coltivate a seminativi arborati, in cui viveva<br />

(in case isolate) una larga quota della popolazione contadina.<br />

Tale subregione era caratterizzata da una vera e propria tricotomia insediativa: data in primo<br />

luogo dalle case poderali, e poi dagli agglomerati di piccola o media dimensione (castelli o borghi<br />

non fortificati), esercitanti funzioni di servizio amministrativo e di mercato, spesso abitati<br />

pure dalla piccola borghesia legata alle pubbliche funzioni e all’artigianato, oltre che da sottoproletari<br />

non inseriti stabilmente nel sistema mezzadrile e agrario (“pigionali”), e finalmente<br />

dalle città vere e proprie che, approfittando del loro potere politico, erano riuscite a stabilire con<br />

i contadi un equilibrio stabile e di lunga durata, grazie anche agli interventi di “buon governo”<br />

consistenti nella sistemazione di strade, corsi d’acqua e acquitrini, e nella dispersione nel territorio<br />

di alcuni settori dell’industria (essenzialmente quelle tessile e della paglia), creata e diretta<br />

dalle medesime.<br />

Invece, la montagna resta storicamente incardinata sull'accentramento insediativo (in castelli e<br />

12


villaggi anche piccoli, che rappresentano autentici 'microcosmi' di vita socio-culturale ed economica,<br />

grazie soprattutto agli interessi comuni in materia di gestione collettiva dei boschi e dei<br />

pascoli, talora anche dei castagneti e dei coltivi di proprietà comunale) della grande maggioranza<br />

della popolazione, sulla piccola proprietà spesso particellare e precaria diretto-coltivatrice<br />

e sul sistema agro-silvo-pastorale, di norma integrato dalle cospicue migrazioni stagionali<br />

(specialmente di pastori transumanti) verso le aree maremmane, e non di rado da occupazioni<br />

artigianali nei settori del legno e del ferro o degli altri metalli, della filatura e tessitura dei panni,<br />

delle attività estrattive (come il marmo nelle Apuane). Tali integrazioni sono state possibili grazie<br />

anche alle 'aperture' (e quindi alle possibilità di commercio) offerte dalle migrazioni stagionali<br />

dei montanini, e grazie anche alla presenza di innumerevoli vie di valico o di attraversamento<br />

colleganti le aree montane con quelle sottostanti toscane e padane.<br />

La struttura produttiva montana, fatta in genere di economie familiari precarie alla continua<br />

ricerca di sbocchi occupazionali e di risorse per la sopravvivenza, usava tradizionalmente, con<br />

le sue piccole aziende polimeriche, tutte le risorse stratificate dal fondovalle o dalle fasce inferiori<br />

fino ai crinali o alle fasce superiori: vale a dire, i terreni ridotti a coltivazione per le modeste<br />

produzioni di cereali, legumi e alberi da frutta (e dal primo Ottocento della patata), le piantagioni<br />

dei castagni, i boschi (quest'ultimi sfruttati più per il pascolo che per ricavarne legname<br />

da costruzione e da ardere o carbone), i prati-pascoli spesso ricavati artificialmente con il diboscamento,<br />

sempre con appezzamenti (in proprietà, in possesso enfiteutico o almeno con diritti<br />

d'uso) dispersi verticalmente nelle diverse zone altimetriche. Di sicuro, l'allevamento soprattutto<br />

ovino, praticato spesso per finalità di mercato nei boschi e nelle pasture anche comunali, e la<br />

coltivazione del castagno (vero albero del pane per la cronica carenza dei prodotti cerealicoli),<br />

in continuo sviluppo fino al XX secolo, costituivano i fondamenti economici delle 'piccole<br />

patrie' appenniniche e amiatine.<br />

Grazie all'uso integrato dei beni locali propri e collettivi, alla versatilità professionale e alla<br />

mobilità degli abitanti, e grazie pure alle forme di vita molto socializzate, almeno fino alla<br />

seconda metà del Settecento o all’inizio del secolo successivo, la 'società della montagna' era<br />

povera, ma non miserabile e bisognosa di assistenza pubblica, a differenza delle regioni della<br />

mezzadria e del latifondo, dove la miseria connotava il sempre più esteso ceto dei sottoproletari<br />

(i braccianti detti pigionali che non possedevano bene patrimoniale alcuno).<br />

Un po' ovunque fu grande, nell'età moderna, il controllo dei montanini sulle risorse locali, per<br />

la scarsa penetrazione dei capitali cittadini o principeschi nelle aree montane, effettuata quest’ultima<br />

per costituirvi grandi cascine, gestite a conduzione diretta o a mezzadria, per l'allevamento<br />

di bovini ed ovini (molte furono anche quelle di monasteri e abbazie locali, come lo Stale<br />

dei monaci di Settimo, di Montepiano, Moscheta, Vallombrosa, Camaldoli, Badia Prataglia,<br />

Badia Tedalda, ecc.), oppure per sfruttare in regime di monopolio le risorse forestali di pregio,<br />

come le abetine piantate o arricchite dai ricordati monasteri e abbazie e come quelle espropriate<br />

nel XIV secolo, per pubblica necessità, da Firenze e Siena (rispettivamente a Campigna tra<br />

Romagna e Casentino per la cittadina Opera di S. Maria del Fiore e a Piancastagnaio<br />

nell'Amiata per le fortificazioni ed opere pubbliche); la localizzazione dell'industria siderurgica<br />

statale in alcune vallate della Montagna Pistoiese, intorno alla metà del Cinquecento, aveva<br />

determinato pure l'esproprio dei boschi comunali circostanti perché potessero rifornire di legna<br />

e carbone quegli stabilimenti dal grande interesse politico-economico.<br />

Fu sicuramente l'alienazione degli ovunque vasti patrimoni (per lo più boschivi e pascolativi)<br />

del demanio statale e comunale e degli enti, realizzata nella seconda metà del Settecento, specialmente<br />

nella Montagna Pistoiese, dove interessò circa un terzo del territorio, a determinare,<br />

col tempo, la rottura irreparabile degli equilibri territoriali montanini. Essa infatti, mentre finì<br />

col proletarizzare gli strati meno abbienti che traevano la loro sussistenza principalmente dalla<br />

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fruizione dei "beni comuni" o dagli "usi civici" (anch'essi abrogati) esistenti sui beni privati,<br />

favorì non solo la borghesia cittadina ma anche quella montanina e non pochi possidenti (anche<br />

piccoli) locali. Da allora si formarono tante piccole proprietà diretto-coltivatrici accorpate e<br />

(almeno inizialmente, prima che le divisioni ereditarie comportassero la parcellizzazione aziendale)<br />

finalizzate alla sussistenza, non di rado dotate della casa contadina per la famiglia che poté<br />

trasferirvisi dal vicino paese; da allora, molte proprietà poterono organizzarsi sotto forma di<br />

aziende di mercato sia di ordine forestale (lo sfruttamento dei boschi fu ovunque intensissimo,<br />

dopo la legge liberistica del 1780 che abrogava tutti i vincoli applicati dai Medici nel XVI secolo),<br />

sia di ordine zootecnico (le cosiddette cascine dell'Appennino), in genere sotto forma di veri<br />

e propri poderi a mezzadria, ma con spiccato indirizzo silvo-pastorale, nelle fasce altimetriche<br />

superiori fino alle quote di 1000 metri ed oltre, e agro-silvo-pastorale incentrato sul castagneto<br />

e sull'allevamento in quelle inferiori: di regola con effetti negativi vistosi sugli equilibri idrogeologici<br />

locali che cominciarono ad essere corretti solo ad Ottocento inoltrato, grazie ai rimboschimenti<br />

effettuati dai granduchi nei comparti di Romagna-Casentino e Montagna Pistoiese,<br />

oppure da alcuni proprietari illuminati (come gli Antonini nella Montagna Pistoiese, i Ginori nel<br />

Monte Morello, gli Albizi tra Val di Sieve e Consuma, i Dapples a Grezzano, ecc.).<br />

Pur all'interno di un assetto largamente omogeneo, come quello poderale, la Toscana delle colture<br />

promiscue era caratterizzata da una varietà estrema di situazioni locali, riguardanti la forma<br />

(poderi accorpati o frazionati in più prese e pezzi di terra, anche distanti l'uno dall'altro), l'intensità<br />

colturale e l'estensione dell'azienda, a seconda dei caratteri geo-morfologico-climatici<br />

dell'ambiente, e più ancora della vicinanza alla città e alle principali vie di comunicazione, dell'impegno<br />

imprenditoriale dei proprietari e della presenza o meno dei sistemi di fattoria.<br />

Come dimostrano inequivocabilmente innumerevoli descrizioni catastali e mappe poderali dei<br />

secoli XVI-XIX, le unità minime erano costituite dai poderini o poderuzzi di 2-5 ettari che si<br />

mescolavano con aziende un po' più estese (quasi sempre però inferiori ai 10 ettari), sia all'interno<br />

delle cerchie urbane che negli immediati dintorni di Firenze e delle altre città, della pianura<br />

asciutta o delle aree basso-collinari suburbane di vecchia colonizzazione, emblematici<br />

esempi di ambiente produttivo "tutto domestico", cioè affatto privo di boschi e incolti, fittamente<br />

alberato, con le sue terre lavorative, vitate, olivate, gelsate e fruttate (e non di rado con<br />

diffuse colture ortofrutticole), lavorate per lo più a forza di vanga; in queste zone di particolare<br />

pregio paesistico e di peculiare funzione residenziale - fenomeno dimostrato dalla densa maglia<br />

insediativa e dal numero elevatissimo delle ville, oltre che dalla relativa frammentazione della<br />

proprietà fondiaria - il valore delle colture arboree e ortofrutticole, che si incardinavano su<br />

sistemazioni idraulico-agrarie razionali per lo più di tipo orizzontale (ciglionamenti nei terreni<br />

sedimentari sabbiosi-ghiaiosi e terrazzamenti in quelli petrosi strutturali), era sicuramente preponderante<br />

rispetto ai cereali e alla zootecnia, e i piccoli poderi potevano raccordarsi con continuità<br />

e buon profitto al vicino mercato cittadino.<br />

C'è da dire che ben più numerosi e spazialmente diffusi erano i poderi di dimensioni medie-piccole<br />

(5-10 ettari) e medie (in genere 10-20 ettari), sempre a seminativi arborati (in genere con<br />

filari più distanziati), ma non di rado con qualche campo a seminativi nudi o a prato che occupava<br />

i luoghi più umidi e con qualche pezzo di bosco che serviva a soddisfare le esigenze produttive<br />

e domestiche aziendali, sia delle pianure asciutte più distanti dalle città che delle aree<br />

basso-collinari - la vera terra di elezione della mezzadria - della Val di Pesa e della Val d'Elsa,<br />

del Chianti e degli archi collinari che circoscrivono il corso dell'Arno e dei suoi affluenti e le<br />

stesse conche intermontane (Mugello, Casentino, Valtiberina). Negli ambienti di media collina<br />

di queste ed altre aree, poi, i poderi assumevano dimensioni anche superiori ai 30 ettari per il<br />

ruolo sempre più importante rivestito dal bosco e dall'incolto a pastura fruiti in funzione del-<br />

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l'allevamento; in ogni caso, maggiore era il peso della cerealicoltura (coltivata in modo semiestensivo,<br />

come dimostrano i frequenti campi privi di alberature e di regola orientati secondo le<br />

linee di massima pendenza) nei confronti delle colture arboree.<br />

Moltissimi erano pure i poderoni (50-100 ettari e più) dai peculiari caratteri semi-estensivi o<br />

estensivi, e spesso ad indirizzo marcatamente zootecnico - e per questo detti significativamente<br />

cascine dell'Appennino - dell'alta collina e della bassa montagna apuana, garfagnina, pistoiese<br />

e pratese, del Monte Morello, del Mugello-Valdisieve, del Casentino e della Valtiberina, dove<br />

i boschi quercini decidui (più di rado di faggio), le selve dei castagni e gli incolti a pastura prevalevano<br />

nettamente sui coltivi, con tra quest'ultimi il seminativo nudo (di regola all'interno di<br />

avvicendamenti discontinui) dominante su quello arborato. Per certi aspetti analoghi erano i<br />

caratteri dei latifondi a mezzadria della Toscana collinare centro-meridionale detta disalberata,<br />

costituita dalle colline plioceniche a prevalente struttura argillosa della Valdera, del Volterrano<br />

e delle Crete Senesi e Valdorcia che, rispetto alla montagna, si caratterizzavano per una base<br />

esclusivamente cerealicolo-zootecnica scarsamente incardinata alle sistemazioni idraulicoagrarie,<br />

per la mancanza pressoché assoluta (dovuta ai connotati geopedologici) del castagneto<br />

e del bosco, e invece per la notevole rilevanza degli incolti a pastura e dei riposi.<br />

Tra gli altri tipi toscani, non vanno trascurati i connotati paesistici e, più in generale, i caratteri<br />

strutturali originali assunti dalle aziende poderali ubicate nelle umide pianure di tipo (almeno<br />

in parte) maremmano, sia del litorale pisano, apuano-versiliese e grossetano, sia soprattutto dei<br />

bacini già acquitrinosi interni di Valdichiana, Valdinievole e Bientina, di recente bonifica (o in<br />

via di definitivo risanamento dal paludismo), sia anche delle sezioni più depresse e più prossime<br />

all'Arno e a tanti altri corsi d'acqua, non ancora ben regimati, della stessa conca fiorentina<br />

e delle altre vallate interne: qui le aziende risultavano alquanto più estese rispetto a quelle situate<br />

nelle pianure asciutte (anche contigue) di antico appoderamento, e la maglia dell'alberata si<br />

presentava più semplificata e rarefatta e priva dell'olivo. In altri termini, qui erano i seminativi<br />

nudi e i prati permanenti (e quindi il patrimonio zootecnico) ad improntare decisamente gli ordinamenti<br />

produttivi che di frequente investivano anche aziende non appoderate.<br />

Di sicuro, dopo la graduale espansione avvenuta nei tempi comunali e tardo-medievali, è nell’età<br />

moderna, e soprattutto tra Sette e Ottocento, che la Toscana alberata, con i suoi poderi<br />

autonomi a mezzadria a conduzione familiare - fossero essi sciolti, oppure riuniti in piccoli tenimenti<br />

o padronelle aziendali, oppure concentrati in piccole e medie fattorie con relative case<br />

d'agenzia - era arrivata a coincidere, sostanzialmente, con tutto il sistema collinare e vallivo<br />

interno confluente sull'Arno. Specialmente le riforme lorenesi permisero alla proprietà fondiaria<br />

una libera partecipazione al mercato nazionale e internazionale, in un periodo di crescita<br />

della domanda e dei prezzi delle derrate, stante la "rivoluzione demografica" in atto.<br />

Di conseguenza, tra la metà del Settecento e quella dell'Ottocento, andarono assai avanti i processi<br />

dei diboscamenti/dissodamenti e delle sistemazioni idraulico-agrarie (a quelle tradizionali<br />

del cavalcapoggio e del girapoggio, del ciglionamento e del terrazzamento, si aggiunse la<br />

“spina” o “colmata di monte”), e di espansione e intensificazione delle coltivazioni, con particolare<br />

riguardo per quelle arboree tradizionali di pregio (vite e olivo) e per quelle di mercato<br />

collegate con la 'manifattura diffusa e invisibile' e con le 'pluriattività domestiche' (gelso, paglia,<br />

giaggiolo, tabacco) che rappresentavano (e continuarono a rappresentare, anche nella prima<br />

metà del Novecento) l'imbasamento industriale di un paese agricolo e rurale come la Toscanina.<br />

Assai più dei bacini interni - ove i processi della bonifica avevano operato in profondità fin dalla<br />

seconda metà del Cinquecento, con un nuovo speciale impulso a decorrere dagli anni '70 e '80<br />

del Settecento, insieme con il corollario della colonizzazione mezzadrile -, le Maremme di Pisa<br />

e Siena-Grosseto erano organizzate dal grande o grandissimo latifondo e contraddistinte da<br />

un'agricoltura a carattere decisamente estensivo, quale la cerealicoltura a lunghe vicende con-<br />

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nessa con l'allevamento brado stanziale e con il sistema armentizio transumante, che si appoggiava,<br />

oltre che sui terreni agrari a riposo, componente generalmente minoritaria, sulle macchie<br />

per lo più cedue e sugli incolti (zone umide comprese) sfruttabili come pasture. Dopo i primi<br />

interventi medicei dalla metà del Cinquecento in poi, l'avanzata della bonifica lorenese (con le<br />

operazioni di natura stradale e idroviaria, le alienazioni fondiarie, l'abolizione degli usi civici e<br />

del compascuo, ecc.) e della colonizzazione agricola contribuirono a trasformare, talora profondamente,<br />

gli elementari connotati paesistici e aziendali, indirizzandoli – seppure gradualmente<br />

– verso stadi più maturi e complessi.<br />

In definitiva - se nel vasto arco collinare dell'Antiappennino circoscrivente, a sud dell'Arno, le<br />

cimose costiere maremmane, i coltivi di frequente arborati in campicelli recintati o “chiuse”<br />

costituivano ristrette "isole" o corone intorno ai radi e compatti castelli o villaggi rurali che<br />

ospitavano pressoché tutta la popolazione residente nel territorio, difendendo gli insediamenti<br />

dal vasto "mare verde" dei boschi -, larga parte della Maremma Grossetana continuava a rappresentare<br />

un autentico "deserto umano", animato solo da pochi casali (centri direttivi dei latifondi<br />

che ospitavano alcuni salariati fissi e più numerosi braccianti stagionali) e soprattutto da<br />

ricoveri temporanei degli avventizi che stagionalmente scendevano in gran numero dal lontano<br />

Appennino e in minor misura dal prossimo Antiappennino, come pastori, boscaioli, carbonai,<br />

vetturali, giornalieri agricoli, operai della bonifica, artigiani, imprenditori e faccendieri, pinottolai,<br />

ecc. Pochi erano i poderi (tutti di costruzione moderna) nelle esigue aree bonificate; la<br />

colonizzazione fu infatti un processo che incontrò molte difficoltà, almeno fino alla seconda<br />

metà dell'Ottocento o addirittura all’inizio del Novecento, anche per il persistere di un flagello<br />

storico quale la malaria.<br />

Il fatto è che nella Maremma Pisana e Grossetana - a causa rispettivamente della decadenza di<br />

Pisa dopo la battaglia della Meloria (1284) e della cruenta conquista senese della Toscana meridionale<br />

(XIV secolo) - si erano innescati processi regressivi che, col tempo, avrebbero portato<br />

al generale disordine idrografico, all'estendersi degli acquitrini e della malaria nelle pianure<br />

sempre più abbandonate dall'uomo (con arretramento delle coltivazioni di autoconsumo e degli<br />

insediamenti nelle colline specialmente interne, ove gli scarsi abitanti continuarono a vivere<br />

poveramente fruendo di un’organizzazione peculiarmente comunitaria incentrata sui beni collettivi<br />

o sugli usi civici su quelli privati), e specialmente alla diffusione un po' dappertutto del<br />

latifondo pastorale, controllato da grandi famiglie ed enti ecclesiastici, pii laicali e cavallereschi<br />

di Firenze, Pisa e Siena.<br />

Per di più, fin dal 1353-1419, Siena aveva imposto su buona parte della Maremma Grossetana<br />

il rovinoso (per la realtà locale) ma lucroso (per le casse statali) monopolio della Dogana dei<br />

Paschi, con affitto di tutte le risorse pabulari esistenti (in boschi, incolti e campi coltivati dopo<br />

il raccolto dei cereali) ai pastori transumanti che sciamavano un po' da tutti i settori<br />

dell'Appennino centro-settentrionale. Questa anacronistica servitù (eliminata solo nel 1778)<br />

finiva per rafforzare il legame di complementarietà economica e socio-culturale che (attraverso<br />

le migrazioni invernali, nelle basse terre, di tanti montanari) univa le due periferie della<br />

Toscana: l'Appennino e la Maremma appunto, al di là e al di sopra della Toscana di mezzo incardinata<br />

sulla mezzadria poderale.<br />

Questa lunga fase regressiva - comune alle regioni mediterranee del latifondo, caratterizzate<br />

dall'assenza di vivaci organismi urbani e di intraprendenti gruppi borghesi - non si era chiusa<br />

neppure con il passaggio dello Stato di Pisa (1406) e dello Stato di Siena (1555-59) a Firenze e<br />

poi ai Medici; e, anzi, si può dire che tali arcaici caratteri paesistici e tale anacronistica organizzazione<br />

territoriale erano destinati a mantenersi costanti fino almeno alla seconda metà del<br />

XVIII secolo e alle riforme lorenesi, a causa del disinteresse esemplare della proprietà cittadina<br />

e all'incoerenza e insufficienza delle politiche governative per essa elaborate, volte soprat-<br />

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tutto all’organizzazione di analoghe forme di sfruttamento ‘coloniale’ delle altre risorse locali<br />

(come i minerali e il sale, il legname e la pesca).<br />

Analoghi erano i caratteri del territorio costiero a nord del Serchio che, ancora negli anni '30<br />

dell'Ottocento, il geografo Emanuele Repetti denominava Maremme di Lucca (la Versilia di<br />

Viareggio) e di Massa (il litorale apuano). In effetti, anche queste "province" e quella intermedia<br />

del Pietrasantino (o Versilia di Firenze), fra tempi medievali e contemporanei, furono contrassegnate<br />

dal disordine idraulico e dalla costellazione degli acquitrini con il consueto satellite<br />

storico della malaria e dal sistema degli incolti e dei boschi, in gran parte di proprietà comunale<br />

(utilizzati per la caccia e la pesca, il pascolo e le semine saltuarie dagli abitanti dei retrostanti<br />

rilievi apuani o di Pietrasanta), dal deserto insediativo e demografico: scarso o non durevole<br />

fu il successo arriso ai tentativi di bonifica attivati dai Cybo, dai Medici e da Lucca nei<br />

secoli XVI-XVII, come pure a quelli di colonizzazione, con concessione livellaria o in affitto<br />

perpetuo di piccoli appezzamenti di terra, perseguiti soprattutto dalla Repubblica di Lucca e dai<br />

Cybo. Semmai, mancava qui quella concentrazione fondiaria nelle mani di proprietari forestieri<br />

assenteisti che dava corpo all'organizzazione latifondistica della Toscana a sud del Serchio: al<br />

riguardo, si deve ricordare come eccezionale il caso del latifondo di Migliarino, costituito dai<br />

fiorentini Salviati tra Viareggio e l'Arno a partire dal XVI secolo.<br />

Nelle Maremme di Pisa e Siena, i granduchi Medici, soprattutto a partire dalla metà del<br />

Cinquecento, si limitarono a intraprendere operazioni assai parziali di bonifica nella pianura tra<br />

Pisa e Livorno e tra l'Arno e il Serchio, ove acquisirono (spesso mediante esproprio dei beni<br />

comunali) numerosi latifondi, sia in quell'area, che più a sud nella Maremma di Pisa e di Siena:<br />

questi vastissimi patrimoni granducali maremmani - così come quelli dei vescovi di Pisa, di<br />

Populonia-Massa e di Grosseto, o come quelli degli enti assistenziali e cavallereschi e più ancora<br />

della grande aristocrazia cittadina (anche di matrice feudale, come i Della Gherardesca, proprietari<br />

di tutta la comunità di Castagneto) di Pisa, Firenze e Siena, gratificata di numerosi titoli<br />

feudali con ampie possessioni e con anacronistiche giurisdizioni sulle derelitte comunità - per<br />

tutta l'età moderna vennero sempre gestiti come autentici latifondi.<br />

In genere su questi latifondi - gestiti, da casali anche fortificati dislocati come sentinelle in campagne<br />

peraltro desertificate, oppure da castelli collinari non di rado privatizzati e ridotti a "case<br />

di fattoria", quasi sempre da affittuari speculatori che garantivano alla proprietà una rendita<br />

sicura senza rischi imprenditoriali di sorta, con la collaborazione di un ridotto numero di salariati<br />

fissi specializzati nelle pratiche cerealicole e pastorali e di braccianti stagionali generici<br />

assunti al tempo delle grandi faccende agricole - gravavano diritti di uso civico di semina,<br />

pascolo e legnatico da parte delle semispopolate comunità maremmane. Quest’ultime potevano<br />

disporre di sempre minori beni collettivi, a causa delle usurpazioni praticate dai potenti o delle<br />

vendite obbligate dei medesimi, da cui traevano invariabilmente vantaggio grandi personaggi<br />

ed enti cittadini.<br />

Analoghi all'area grossetana furono i connotati dell'organizzazione territoriale (come grosso<br />

modo gli svolgimenti storici che li determinarono) che contrassegnarono la piccola Maremma<br />

Piombinese, un frammento di quella Pisana che, fra il 1399 e il congresso di Vienna, costituì un<br />

principato autonomo sotto gli Appiano, i Ludovisi e i Boncompagni-Ludovisi: costoro, come i<br />

Medici, espropriarono gran parte delle terre e zone umide comunali, limitandosi a sfruttarle in<br />

forma seminaturale, con regime di monopolio su terratici, pascoli, boschi e risorse ittiche, o<br />

provvidero a rivenderle a grandi latifondisti come i Desideri a Populonia-Poggio all'Agnello e<br />

i Franceschi a Vignale-Riotorto e a Scarlino. E similmente arretrato risultò l'assetto paesisticoagrario<br />

dei Presidios di Orbetello, il piccolo possedimento coloniale comprensivo anche di<br />

Talamone e dell'Argentario che, nel 1555, la Spagna si ritagliò nell'antico Stato Senese per<br />

ragioni prettamente geo-politiche e militari (e destinato a rimanere autonomo fino al 1801, con<br />

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passaggio nel corso del XVIII secolo prima all'Austria e poi al Regno di Napoli); semmai, qui<br />

i latifondi regi e quello Expeco y Vera di Tricosto-Burano lasciarono uno spazio maggiore ai<br />

beni terrieri e lacustri comunali e alle corone di proprietà particellare tenute a coltivazioni intensive<br />

(vigneti, alberi da frutta tra cui gli agrumi, e ortaggi) dagli abitanti dei piccoli centri, non<br />

di rado provenienti dal Napoletano, dalla Spagna e da altri paesi dominati dagli Asburgo.<br />

Forme paesistiche e strutture socio-economiche abbastanza simili a quelle della montagna erano<br />

state riprodotte anche nei microcosmi insulari dell'Arcipelago Toscano, dove le popolazioni, per<br />

lo più compattamente organizzate in piccoli centri murati e in villaggi aperti mantenenti forti<br />

legami comunitari, e ancora più mobili di quelle alpine e appenniniche, si erano (grazie alle<br />

ricolonizzazioni dei tempi moderni) saldamente inserite nell'economia e nella cultura mediterranea,<br />

con le pratiche della pesca, del contrabbando e del commercio delle eccedenze locali<br />

(vino, pescato, sale, ecc.) e del ferro o del granito all’Elba (e in minor grado al Giglio), con le<br />

quali erano solite integrare sia le mediocri risorse agricole (comunque intensivamente utilizzate<br />

a colture anche specializzate) e sia gli stipendi generosamente versati dagli Stati preunitari<br />

per mantenervi solidi presìdi, al fine di controllare militarmente e politicamente nodi di traffico<br />

marittimo di rilevante importanza strategica.<br />

I governi unitari, con la smobilitazione militare, la repressione del contrabbando e la crisi della<br />

navigazione di cabotaggio, e spesso con la localizzazione di colonie penali, infersero un colpo<br />

mortale a queste ‘piccole patrie’ insulari/marittime, come dimostra il crescente movimento<br />

migratorio che era destinato a decimare la popolazione e a destrutturare molti microcosmi fino<br />

alla massiva ‘valorizzazione’ turistica – una vera e propria colonizzazione diretta dall’esterno,<br />

particolarmente pregiudizievole nei riguardi degli equilibri paesistico-ambientali e socio-culturali<br />

delle comunità insulari – della seconda metà del XX secolo.<br />

E' sicuro che il podere a mezzadria e la fattoria (in tutto o in parte appoderata) hanno avuto, in<br />

una regione dalle tante e ricche città come la Toscana, le più tipiche e concrete espressioni.<br />

Mentre però il podere a mezzadria risulta già largamente diffuso nei secoli XIII e XIV o almeno<br />

all'inizio del XV, la genesi della fattoria - nel senso di una organizzazione economico-territoriale<br />

centralizzata prima sul piano amministrativo e poi su quello produttivo, che si impone<br />

sempre più decisamente alle singole aziende poderali, alle origini pressoché indipendenti per<br />

quanto riguarda la gestione, oltreché agli altri possessi condotti direttamente con lavoro salariato<br />

o con rapporti indiretti di produzione come ad esempio l'affitto, il terratico e la compartecipazione<br />

- non si può far risalire oltre il secolo XV; è nell'ultima parte di questo secolo che si<br />

registrano i primi esempi isolati, a iniziare da quelli concernenti i patrimoni dell’Ospedale di<br />

Santa Maria della Scala di Siena (soprattutto nelle Crete e Val d’Orcia) e dei Medici (nel<br />

Mugello e nella pianura ad ovest di Firenze), mentre nel secolo XVI la casistica si allarga ai<br />

patrimoni di enti ospedalieri, cavallereschi ed ecclesiastici e di grandi famiglie cittadine, ubicati<br />

anche in altre aree della Toscana.<br />

Alla base del processo di formazione di questa impresa sta una strategia di acquisizione di terre,<br />

con concentrazione degli interventi in una sola area o in più aree anche distanti tra loro, al fine<br />

di pervenire all'aggregazione e all'accorpamento dei vari appezzamenti in una efficiente unità<br />

poderale o in più unità poderali contigue. La formazione di un certo numero di poderi, non<br />

necessariamente confinanti tra di loro ma comunque distribuiti in una stessa area, fu la premessa<br />

necessaria per la determinazione di una struttura unificatrice sul piano amministrativo rappresentato<br />

dal casamento di fattoria.<br />

In effetti, prima dei tempi rinascimentali, non solo non si è rinvenuta una contabilità d'impresa<br />

riconoscibile come quella tipica dell'azienda fattoria, ma gli stessi documenti di natura patrimoniale<br />

parlano sempre di casa da signore, da padrone o da hoste, palazzo, villa: tutti termini<br />

che stanno ad indicare residenze padronali di campagna spesso turrite, in genere contigue ad<br />

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uno o più poderi di proprietà e corredate di servizi quali il giardino o ‘prato’ e il parco o salvatico<br />

boschivo di specie soprattutto sempreverdi introdotte artificialmente (leccio e alloro, agrifoglio<br />

e pino), la ragnaia o il paretaio o l'uccellare per la caccia, talora il vivaio o peschiera e la<br />

cappella; in altri termini, tali complessi (che già tra XIII e XIV secolo costituivano una rete fittissima<br />

intorno a Firenze, come ricorda Giovanni Villani nella sua celebre Cronica, con annotazioni<br />

sostanzialmente riprese da Gregorio Dati e Benedetto Dei nel XV secolo) stanno ad indicare<br />

funzioni strettamente residenziali anziché economiche. Solo successivamente, molti di essi<br />

diventeranno centri di amministrazione e organizzazione della produzione di poderi a mezzadria<br />

e di terre gestite ad economia o con altri rapporti di compartecipazione, mentre tanti altri<br />

saranno ‘declassati’ (per effetto del processo di ricomposizione fondiaria delle terre in un numero<br />

sempre minore di proprietari) addirittura a case coloniche.<br />

Non mancano, comunque, in Toscana, esempi facenti riferimento a rapporti di produzione prettamente<br />

capitalistici, come dimostrano le cascine costruite, a decorrere dal tardo Quattrocento<br />

e soprattutto dal primo Cinquecento, dai Medici nella pianura umida ad occidente di Firenze<br />

(Cascine dell'Isola e di Tavola-Poggio a Caiano), oppure in altri ambienti di recente bonifica,<br />

come la Valdinievole (Altopascio), il Valdarno di Sotto (Cascine di Bientina, Buti e Vicopisano)<br />

e la pianura pisana (Cascine di Coltano e S. Rossore), così come dai Salviati (a Migliarino-<br />

Vecchiano e nella piana tra Campi Bisenzio e Prato); tutte queste imprese furono mutuate dal<br />

modello padano e peculiarmente specializzate nella coltivazione, a conto diretto con operai<br />

salariati, del grano e più ancora del riso e delle foraggere in funzione dell'allevamento razionale<br />

di bovini da carne e da latte e anche di cavalli di pregio. E' significativo che tali aziende prettamente<br />

di mercato - dotate di adeguate strutture edilizie centralizzate, talora monumentali e<br />

disposte a corte chiusa come a Tavola, per ospitare il personale e per trasformare e conservare<br />

i prodotti (stalle e fienili, burraie e caciaie, magazzini e brillatoi per il riso, molini, ecc.) - non<br />

abbiano avuto molta fortuna, e che col tempo siano state riconvertite (almeno parzialmente) a<br />

fattorie appoderate, con il corollario delle colture promiscue secondo i dettami del classico rapporto<br />

mezzadrile.<br />

La crescita demografica e lo sviluppo dei mercati cittadini, interagendo con le crisi ricorrenti<br />

del sistema finanziario e commerciale toscano nel processo di ristrutturazione del mercato internazionale<br />

a seguito della scoperta del "mondo nuovo", fecero sicuramente da stimolo all'investimento<br />

fondiario e agrario e alla stessa riorganizzazione - secondo il sistema di fattoria - dell'agricoltura<br />

toscana in rapporto abbastanza stretto con i mercati cittadini. In effetti, il sistema<br />

di fattoria consentì di superare, a vantaggio del proprietario che preferiva la coltivazione di prodotti<br />

commerciali, meglio se di pregio, il tradizionale contrasto esistente fin dalle origini con il<br />

mezzadro che, invece, prediligeva le colture necessarie al raggiungimento della sua sussistenza<br />

fisica, peraltro non sempre possibile quando il podere era situato in terre marginali, di scarsa<br />

fertilità o di difficile lavorazione.<br />

In altri termini, pur rimanendo invariati il modo di produzione e le tecniche, tuttavia l'impianto<br />

della fattoria nei secoli XV-XVI, rispondendo a metodi di amministrazione tipicamente mercanteschi,<br />

garantì alla mezzadria di riprendere con decisione l'espansione agricola, grazie agli<br />

investimenti di capitali fissi in bonifiche e dissodamenti, in sistemazioni idraulico-agrarie di<br />

colle e di piano, in nuove coltivazioni (specialmente arboree, come principalmente le viti, e poi<br />

gli olivi e i gelsi e anche la paglia, le più richieste dal mercato) e in fabbricati (locali adibiti alla<br />

conservazione e trasformazione dei prodotti, come granai, magazzini, cantine, orciaie, tinaie,<br />

molini, frantoi, caciaie e burraie), oltre che di capitali circolanti in bestiami e "scorte morte", e<br />

grazie anche allo sfruttamento sempre più intenso del sopralavoro colonico, forse il fattore più<br />

potente che spiega la fortuna plurisecolare di questo sistema mediterraneo.<br />

Un processo solo in una certa misura analogo a quello in atto nella Toscana fiorentina e senese<br />

19


si verificò nella Lucchesia dove, soprattutto dalla seconda metà del Cinquecento in poi - in corrispondenza<br />

al generale decadimento economico e specialmente alla crisi della manifattura tessile<br />

e ai disastri delle grandi compagnie bancarie e mercantili di Lucca - molte energie finanziarie<br />

rifluirono dalla borghesia e dagli enti pubblici cittadini verso la terra.<br />

Contemporaneamente all'avanzata dei dissodamenti e al miglioramento delle coltivazioni, si<br />

assiste così alla moltiplicazione dei casini di caccia e delle ville, con il consueto corollario ornamentale<br />

degli oratori e dei parchi e giardini. Ma queste strutture residenziali sempre più monumentali<br />

solo raramente vennero organizzate in fattorie con gestione centralizzata 'alla fiorentina',<br />

pur costituendo il tessuto connettivo del nuovo sistema agrario a colture promiscue, incentrato<br />

su una rete sempre più fitta di piccole e piccolissime aziende familiari, concesse in gran<br />

parte a livello o enfiteusi (spesso con patti ad meliorandum) e solo in minima parte a mezzadria.<br />

L'altra specificità della Lucchesia è data dalla presenza di case contadine spesso plurime<br />

(dalla tipica forma a corte aperta o chiusa, con gli edifici disposti cioè in un sol corpo, oppure<br />

a due, a tre ed anche a quattro ali intorno ad un cortile interno dotato di aia e pozzo) che, col<br />

tempo, come nella Padania, tenderanno a riunirsi in piccoli aggregati o addirittura in veri e propri<br />

paesi nella piana di Lucca.<br />

Nella Lucchesia, il ruolo della fattoria rimase modesto anche nella fase di grande trasformazione<br />

del sistema agrario che si aprì con l'anno 1799, quando l'antica Repubblica entrò nell'orbita<br />

napoleonica. Ancora nella seconda metà del XVIII secolo, la realtà agraria lucchese risultava,<br />

infatti, vistosamente arretrata, a causa del ruolo preponderante rivestito dalla proprietà assenteista.<br />

Circa metà delle terre che costituivano lo stato lucchese erano di proprietà della chiesa e<br />

molte altre erano vincolate a fidecommisso. Gran parte delle terre erano condotte ancora con il<br />

sistema del livello enfiteutico (e solo in parte minima con la mezzadria) da piccole imprese contadine<br />

che non disponevano dei capitali sufficienti a introdurre migliorie, per cui si può capire<br />

il perché di una inerzia e di una stasi economica e demografica. La situazione dei fondi per quasi<br />

i due terzi in proprietà inalienabile tra la chiesa e la nobiltà, le leggi proibenti ogni commercio<br />

esterno delle biade e che scoraggiavano di aumentarle, l'obbligo di ammassare l'eccedenza dei<br />

raccolti nei “magazzini dell'abbondanza”, la pessima condizione delle strade, la situazione idrografica<br />

non ancora assestata, costituiscono motivi di preoccupazione e di disagio per la classe<br />

degli agricoltori.<br />

Ai governi francesi si deve l'emanazione di leggi destinate ad incidere in profondità sulle strutture<br />

fondiarie ed agrarie lucchesi: nel 1799 furono aboliti i fidecommessi e nel 1801 resi perpetui<br />

i livelli sui beni ecclesiastici; nel 1807 vennero soppressi molti enti e i loro beni alienati.<br />

Grazie a questi provvedimenti, moltissimi coltivatori poterono diventare proprietari o possessori<br />

livellari perpetui; la maglia aziendale (incentrata sulle corti) si infittì vistosamente (nel<br />

1840 un abitante su tre fu censito come "possidente terriero e livellario") e la piana di Lucca -<br />

caso anomalo in una Toscana non montana dominata dalla fattoria - assunse la fisionomia di un<br />

giardino dalla proprietà frammentata, diviso in tanti piccoli appezzamenti regolari delimitati da<br />

scoli e filari alberati con viti, intensivamente coltivati da famiglie numerose di coltivatori diretti.<br />

Il processo di sviluppo del sistema di fattoria in Toscana andò avanti con intensità nel corso<br />

dell'Ottocento, quando il dibattito tecnico-agronomico in corso e l'esempio pratico di conduzione<br />

aziendale moderna fornito da alcuni grandi proprietari (imprenditori e agronomi insieme)<br />

e dallo stesso granduca Leopoldo II di Lorena nelle sue tenute private furono di stimolo all'ulteriore<br />

perfezionamento della mezzadria. In quasi tutte le fattorie che inviarono prodotti e<br />

bestiami alle esposizioni e alle fiere agrarie che si tennero a partire dagli anni '50, oppure che<br />

mandarono resoconti delle nuove applicazioni alla stampa specializzata (come gli "Atti<br />

dell'Accademia dei Georgofili" e il "Giornale Agrario Toscano"), troviamo esemplificati, nella<br />

20


pratica, i dettami dell'agricoltura miglioratrice a lungo predicati dai Georgofili e da personalità<br />

culturali e imprenditoriali di spicco come Cosimo Ridolfi nella sua fattoria di Meleto in Val<br />

d'Elsa.<br />

Naturalmente queste innovazioni toccarono vari aspetti della coltura promiscua propria della<br />

mezzadria, senza peraltro alterarla se non in alcune sperimentazioni di breve durata delle monocolture<br />

e della conduzione diretta - secondo i modelli padano ed europeo - condotte dallo stesso<br />

Ridolfi a Meleto, dal marchese Bartolommei nella fattoria delle Case in Valdinievole e da<br />

altri imprenditori illuminati. Certo è che in moltissime fattorie mezzadrili, già prima della metà<br />

del secolo, vennero eliminati i riposi a favore delle colture da rinnovo e in molte altre si arrivò<br />

ad introdurre la rotazione quadriennale che permise vistosi incrementi della produzione foraggera,<br />

con notevole conseguente crescita del patrimonio bovino e del rendimento dei cereali;<br />

contemporaneamente, si assisteva al ridimensionamento degli allevamenti ovini e degli incolti<br />

utilizzati come pasture.<br />

La mezzadria poderale e il sistema di fattoria su quella incentrato - tra i sempre più frequenti<br />

cambiamenti di proprietà che penalizzarono i demani statale e comunale, gli enti pubblici<br />

sopravvissuti agli espropri delle età lorenese e napoleonica e la stessa grande aristocrazia cittadina<br />

a vantaggio dei ceti borghesi, anche campagnoli - guadagnarono ulteriore terreno nella<br />

seconda parte dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento non solo nelle pianure umide<br />

dell’interno e nei sistemi pianeggianti/collinari della costa, ma anche negli ambienti montani.<br />

Riguardo ai processi di modernizzazione, spinte molteplici sono documentate in merito alla diffusione,<br />

nella rotazione, delle colture da rinnovo e da foraggio in luogo del riposo, alla generale<br />

intensificazione del seminativo arborato e, al suo interno, al ruolo sempre maggiore esercitato<br />

in alcune aree (Chianti, zone di Montalcino, Montalbano e Montepulciano) dalla vite, così<br />

come (nel Pesciatino, Pietrasantino, Monte Pisano, Lucchesia) dall'olivo, oppure un po' ovunque<br />

dal gelso e dalla paglia e nelle pianure irrigue (non solo dei dintorni di Firenze, ma anche<br />

di Prato e Pistoia, Pescia e San Giovanni Valdarno/Montevarchi) delle primizie ortofrutticole;<br />

dall'avanzata delle sistemazioni orizzontali nelle colline che contornano Firenze e in quelle<br />

della Val d'Elsa, del Chianti, della Val d'Orcia. Non pare trascurabile la capacità del sistema<br />

agrario mezzadrile di collegarsi con le attività proprie della protoindustria rurale, come quelle<br />

dell'intreccio della paglia, della filatura e tessitura di lana, lino, canapa e seta; della produzione,<br />

trasformazione e commercializzazione di vino, olio e giaggiolo.<br />

La colonizzazione dell'area del latifondo (Maremme di Pisa e Grosseto) decorre a partire dalla<br />

metà del Settecento, da quando cioè la bonifica apparve non più rinviabile anche per la ripresa<br />

demografica in atto. In pochi anni, e specialmente nell'età della Restaurazione, la 'guerra' alle<br />

acque, con colmate e canalizzazioni, assunse ritmi incalzanti non solo in Valdichiana, nei bacini<br />

di Bientina e Fucecchio, nella Versilia/Apuania e nella pianura pisana a nord e a sud<br />

dell'Arno, ma anche nelle Maremme di Pisa e Grosseto, a Pian del Lago e negli altri bacini<br />

minori del Senese. Pressoché ovunque, i provvedimenti idraulici si accompagnarono alla lotta<br />

contro il latifondo e alla riunione alla proprietà del suolo degli usi di pascolo e legnatico. Nella<br />

Toscana a sud del Serchio, occorre attendere, comunque, il XIX secolo o addirittura i primi<br />

decenni del XX secolo perché tali politiche favorissero la formazione o l'irrobustimento di una<br />

nuova grande e media proprietà borghese non di rado campagnola, già residente, o di nuovo<br />

insediamento con provenienza dall'Appennino, e in minor misura della piccola proprietà diretto-coltivatrice,<br />

attivando altresì i primi elementi di modernizzazione nel sistema agrario e più<br />

in generale nell'organizzazione territoriale.<br />

Di sicuro, alla fine degli anni '30 di quest'ultimo secolo, delle 5666 fattorie censite nell'Italia<br />

centrale, ben 4125 erano dislocate in Toscana (soprattutto nella parte centro-meridionale della<br />

regione): esse coprivano il 40,9% della superficie agraria e forestale e riunivano oltre 70.000<br />

21


poderi. E' da considerare che, negli anni '30 e '40 del secolo precedente, si calcolava esistessero<br />

tra 50.000 e 60.000 poderi di grandezza estremamente variabile da area ad area e anche all'interno<br />

di una stessa zona agraria.<br />

Soltanto il 29,7% delle fattorie toscane appaiono totalmente appoderate; d'altra parte, la mezzadria<br />

investe il 60,8% della superficie agrario-forestale. Ovunque (ma specialmente nelle grandi<br />

aziende, con in testa il Grossetano e il Pisano, ove mezzadria e conduzione con salariati praticamente<br />

si equivalgono) si verifica la prevalenza delle terre a mano padronale o in economia,<br />

spesso rappresentate da bosco o da pascolo, più raramente da seminativo e da colture legnose<br />

agrarie gestiti con salariati; tuttavia, il rapporto di salariato interessa solo il 38,7% della superficie<br />

agrario-forestale.<br />

Prevalgono nettamente i poderi di dimensioni piccole e medie (i primi numerosissimi nelle province<br />

di Massa Carrara, Lucca e Pistoia le più interessate alle coltivazioni intensive orto-florovivaistiche,<br />

i secondi soprattutto in quelle di Firenze e Arezzo); i poderi di taglia grande e grandissima<br />

sono una prerogativa essenzialmente della Toscana meridionale (province di Livorno,<br />

Pisa, Siena e soprattutto Grosseto). Mediamente il podere risulta avere una superficie di 18 ettari,<br />

ma oscilla tra i 6 del Lucchese e i 68 del Grossetano: qui le numerose unità colturali di grande<br />

ampiezza oltre ai seminativi presentano pure vasti boschi e pasture. In genere, le unità più<br />

estese interessano, oltre alle aree maremmane a seminativi estensivi, gli ambienti montani (ove<br />

è pure notevole l'incidenza del bosco e del pascolo) e quelle meno estese le aree collinari, le più<br />

improntate dalle coltivazioni intensive (seminativi arborati con vite e olivo).<br />

Se la mezzadria costituisce il rapporto fondamentale nell'ambito della fattoria, essa non manca<br />

di caratterizzare profondamente il sistema agrario toscano anche al di fuori della fattoria, grazie<br />

ai numerosi poderi indipendenti, viventi di vita propria che prevalgono nella Toscana nordoccidentale<br />

e orientale.<br />

Tra Otto e Novecento, all’interno di non poche grandi fattorie si registrano le prime significative<br />

innovazioni che guardano con coerenza al mercato, come l'impianto dei primi vigneti specializzati<br />

disposti su pendii collinari terrazzati (specialmente in grandi aziende chiantigiane<br />

come quelle di Uzzano, di Meleto e di Brolio) o rimodellati dalle efficaci e belle sistemazioni<br />

a spina; il potenziamento dell’allevamento razionale dei bovini da latte; l’inserimento negli<br />

avvicendamenti di coltivazioni industriali come le foraggere, la barbabietola da zucchero e il<br />

tabacco.<br />

Tutti adeguamenti che non potevano impedire la crisi improvvisa e la disgregazione rapida del<br />

sistema nell’immediato ultimo dopoguerra, allorché la mezzadria si rivela inadeguata a garantire<br />

quei diritti (politici, sociali e culturali, prima ancora che economici) che la democrazia e la<br />

modernizzazione stavano diffondendo nelle campagne e soprattutto nelle città di un Paese che<br />

stava imboccando la pur lenta e difficoltosa strada dell’integrazione europea.<br />

In conclusione, va detto che il riconoscimento - ad opera di quei settori della comunità accademica<br />

(specialmente dall'urbanistica e dalle scienze della terra e della natura, troppo spesso aduse<br />

a considerare la ricerca paesistico-ambientale come "feudo invalicabile"), e più ancora delle<br />

forze politico-sociali-culturali che ancora non credono all'originalità delle riflessioni e degli<br />

studi applicativi della ricerca geografica/storico-ambientale e territoriale, peraltro spesso poco<br />

o punto noti al di fuori di queste discipline e campi d’indagine - della validità scientifica del<br />

metodo di ricerca e del lavoro specifico dipende strettamente proprio dalla costruzione di un<br />

sapere 'utile e utilizzabile', e quindi anche dalle capacità e implicazioni progettuali: in altri termini,<br />

dal grado di utilizzazione pratica dei risultati, come contributo originale e concreto alla<br />

messa a fuoco e alla risoluzione dei principali nodi problematici correlati alle pratiche di gestione-fruizione-recupero<br />

dei quadri paesistici tradizionali: trattasi, nella Toscana ‘aperta’, di “un<br />

archivio” complesso per dirla con Gambi, un autentico paesaggio-mosaico spazialmente diffe-<br />

22


enziato (si pensi ai numerosi tipi e varianti di case coloniche e di ville fattorie, di sistemazioni<br />

idraulico-agrarie e di forme campestri, di alberature alle prode di campi e di strade o di corsi<br />

d’acqua, ecc.), che è riscontrabile non solo all’interno delle tre ‘grandi’ subregioni alle quali<br />

abbiamo fatto riferimento e dei loro ‘sottomultipli’ (o ‘unità di paesaggio’) che forse è possibile<br />

disegnare, sia pure con difficoltà, ma anche e soprattutto nel contesto delle unità amministrative<br />

(la maglia comunale, per altro in genere costituita da territori che comprendono risorse<br />

ambientali disformi come quelli ricavabili dall’abbinamento piano-colle-monte) e delle stesse<br />

unità produttive di base (le fattorie, anch’esse non di rado abbraccianti ambienti naturali differenziati),<br />

per effetto vuoi delle determinanti fisico-naturali (sostanzialmente i caratteri morfologici,<br />

geopedologici e climatici), e vuoi delle pratiche sociali di costruzione e riorganizzazione<br />

formale e funzionale manifestatesi nell’arco di parecchi secoli, con gli atti di nuova costruzione/trasformazione/distruzione.<br />

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GEOGRAFIA E AMBIENTE


AMBIENTE, STORIA E PAESAGGIO. <strong>PER</strong> IL ‘RICONOSCIMENTO’ E L’IN-<br />

TERPRETAZIONE DEI BENI PAESISTICI E ARCHITETTONICI ODIERNI<br />

DEFINITISI TRA TEMPI ANTICHI E CONTEMPORANEI*<br />

Leonardo Rombai - Associazione Italia Nostra<br />

Il mosaico ambientale italiano<br />

Lo studioso che oggi – più o meno come nel passato – vuole provvedere ad una ‘regionalizzazione’<br />

dell’ambiente italiano peninsulare e insulare, che è circoscritto da quelle nette linee di<br />

demarcazione (che non hanno mai costituito vere e proprie ‘barriere’ per l’uomo), di ordine fisico-naturale,<br />

che sono rappresentate dalla catena orografica alpina e dal mare Mediterraneo, non<br />

può non rifarsi alla tradizionale classificazione della geografia (Touring Club Italiano, 1957).<br />

Questa è stata accolta di recente pure da Lucio Gambi, che scompartisce la realtà ambientale<br />

italiana in quattro grandi “inquadramenti”, o unità di contenuto paesistico, che – pur con tutte<br />

le altre specificità di portata locale (come i coni vulcanici, le conche crateriche, gli ambienti<br />

tufacei) (Federici, 2000, pp. 24-25) – emergono dal coesistere e dal congiungersi in una medesima<br />

area di fenomeni dovuti a elementi diversi come il clima e la vegetazione, la morfologia e<br />

la idrografia”.<br />

E’ il caso dell’ambiente “della regione alpina”, dell’ambiente “della vasta pianura usualmente<br />

chiamata padana (il Po ne è solo il maggior fiume, ma diverse zone si riferiscono a bacini idrografici<br />

indipendenti)”, dell’ambiente “montano che forma l’asse del rilievo peninsulare e invade<br />

qualche cacumine nella Sicilia nord-orientale”, dell’ambiente “peninsulare e insulare subtropicale”<br />

(Gambi, 1972, p. 7; v. pure Federici, 2000).<br />

E’ poi scontato che ciascuna di tali ‘regioni’ fisico-naturali possa scindersi anche in due o più<br />

grandi ‘forme paesistiche’, e a sua volta ciascuna forma possa abbracciare molti ‘tipi di paesaggio’.<br />

In una sua classica opera del 1963 dedicata alle molteplici forme dei paesaggi italiani, un altro<br />

geografo, Aldo Sestini, integrando i fattori geomorfologici con quelli climatici e vegetazionali,<br />

ma considerando pure i fattori antropogeografici (comprensivi della storicità degli usi consolidati<br />

del territorio), arriva addirittura a distinguere e descrivere in dettaglio rispettivamente 9<br />

grandi ‘forme’ e 99 ‘tipi di paesaggio’ (Sestini, 1963).<br />

Tra l'altro, Sestini, con la sua ben nota classificazione, ha il merito di aver offerto un contributo<br />

concreto al problema del riconoscimento di unità territoriali o ‘di paesaggio’ significative,<br />

pratica oggi divenuta centrale nella riflessione delle discipline del territorio svolta con finalità<br />

di pianificazione ambientale, paesistica e urbanistica.<br />

In tale contesto, di recente, Albano Marcarini, pur con la premessa che “il paesaggio sfugge a<br />

precise catalogazioni, a ogni tentativo di scomposizione e sintesi”, ha proposto un elenco di 76<br />

tipi “in cui la componente umana e la sedimentazione storica hanno prodotto sul palinsesto<br />

naturale un’armonia di forme e strutture generalmente condivisa, meritevole di conservazione<br />

e trasmissibilità”. L’elenco è consapevolmente incompleto, ma in generale costituisce un contributo<br />

apprezzabile al ‘riconoscimento’ del mosaico delle piccole specificità paesistiche italiane,<br />

molte delle quali abbisognano di urgenti interventi di restauro e riqualificazione, pena il<br />

rischio pressoché sicuro di una più o meno prossima dissoluzione.<br />

Tra queste realtà, spiccano le “fasce delle riviere liguri” (con la rete dei muretti a secco per trattenere<br />

il prezioso suolo agrario di colline precipiti), “il paesaggio vetero-industriale delle valli<br />

fluviali di pianura” specialmente dell’alta Padania, i resti sempre meno evidenti delle “centuriazioni<br />

romane” e delle “piantate padane”, “delle selve castanili” appenniniche e delle ‘sugge-<br />

26


stioni’ archeologiche e storiche della Campagna Romana, come anche delle masserie pugliesi e<br />

del latifondo estensivo della Sicilia interna e del pastoralismo della Barbagia o dei ‘campi chiusi’<br />

(tanche) degli altipiani sardi, delle sistemazioni orizzontali delle colline toscane e delle colture<br />

promiscue di tanti settori dell’Italia centrale, delle strade minori di scavalcamento<br />

dell’Appennino e dei ‘tratturi’ pastorali tracciati tra l’Abruzzo e il Molise e il Tavoliere della<br />

Puglia, con i relativi manufatti funzionali alla sosta e al ristoro/ricovero (Marcarini, 2000, pp.<br />

254-275).<br />

I paesaggi umanizzati ereditati dalla storia<br />

Il “paradosso italiano” è quello “di un paese geologicamente e geograficamente giovane, ma<br />

storicamente antico, modificato a livello superficiale dalla storia molto di più che dalle forze<br />

della natura” (Galasso, 2000, p. 38). “L’Italia è il paese più ‘costruito’ d’Europa: dalla pianura<br />

padana per secoli sommersa dalle acque, ai litorali della Sicilia, un tempo infestati dalla malaria.<br />

Esso è stato sottoposto, nel corso di [circa tre] millenni, a un’opera colossale di plasmazione<br />

e di adattamento che ha coinvolto più civiltà. Dai Greci agli Etruschi, dai Romani ai monaci<br />

benedettini, dagli Stati preunitari sino ai governi repubblicani di questo dopoguerra, un’opera<br />

ininterrotta di bonifiche ha adattato l’habitat naturale ai bisogni di abitabilità delle popolazioni<br />

e alle pressioni dello sviluppo” (Bevilacqua, 2000, p. 111; v. pure Mainardi, 1998, pp. 1-<br />

13).<br />

Va detto, infatti, che le forme e i tipi ambientali italiani appaiono – oggi come ieri – assai differenziati<br />

non solo per le loro matrici fisico-naturali, ma anche per il diverso modo o grado con<br />

cui l’ambiente è stato incorporato nella storia (Bonapace, 1977; Turri, 1990).<br />

Infatti, l’atteggiamento dei gruppi umani socialmente organizzati verso l’ambiente non si esprime<br />

tanto “in una mera e supina adeguazione a quelle condizioni o a quei ritmi che si mostrano<br />

di riconoscimento più agevole, perché sono oggetti ambientali di fondo […], ma si esplica in<br />

una considerazione e in una liberazione di quelle virtualità ambientali che un esame visivo o<br />

una investigazione in superficie o anche la congrua nozione di qualche canone basilare (come<br />

la rotazione delle stagioni e della vegetazione) non riescono a cogliere; e che invece bisogna<br />

ricavare con opera di vera esplorazione ed estrazione, e riplasmare con arte, mediante uno studio<br />

che implica scienza più progredita e dotazione di strumenti evoluti” (Gambi, 1972, p. 27).<br />

Se l’ambiente “è divenuto, in una parola, realtà umana”, in considerazione dei suoi “valori<br />

messi in atto”, tale realtà umana si presenta ai nostri occhi con forme e caratteri assai variegati,<br />

in “conseguenza di una grande articolazione di decorsi storici”. L’ambiente si è plasmato e<br />

si plasmerà “secondo le strutture – ordine economico, giuridico, scientifico – che ogni comunità<br />

umana si è data da quando poté uscire dal chiuso impianto sussistenziale, scuotere la cristallizzazione<br />

sociale e vincere le lacciaie del mito” (Gambi, 1972, pp. 16-17 e 32).<br />

Così, almeno fino a qualche decennio or sono, era ancora possibile distinguere (specialmente<br />

nella montagna peninsulare e nel Meridione del microfondo contadino e del latifondo cerealicolo-pastorale)<br />

“le regioni d’Italia ove l’uomo ha continuato […] a sentire con energia, a volte<br />

quasi plasmativa, l’influsso ambientale”, adattandovisi con generi di vita soprattutto di sussistenza<br />

o comunque contemplanti un basso grado di investimenti di capitali e di interventi territoriali.<br />

In altre regioni, invece, era stato possibile elaborare “vocazioni di natura più complessa,<br />

cioè dotate di una maggiore articolazione o più impegnanti da fare giungere a frutto le vocazioni<br />

che richiedono un grado di dinamica economica e un ordine di istituzioni sociali abbastanza<br />

elevati, perché non si limitano ad una mera fruizione di quanto la terra può fornire alla<br />

alimentazione, agli abbigliamenti, alle dimore, ma investono la mobilitazione delle forze naturali<br />

per la produzione di materiali industriali e di beni d’uso, o implicano relazioni di mercato<br />

e di cultura fra paesi diversi e lontani”.<br />

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Queste ultime vocazioni di natura complessa e implicanti relazioni di mercato, a prescindere<br />

dalla diversità delle esperienze realizzate nello spazio e nel tempo, sono sempre correlate alla<br />

città, alle sue funzioni, alle iniziative delle sue istituzioni e dei suoi ceti dirigenti. Ad esempio,<br />

“ai fenomeni di colonizzamento, cioè di conquista svolta dai ceti urbani che dirigono uno stato,<br />

in periodi di particolare fortuna economica”: e ciò sia nei tempi delle colonizzazioni antiche<br />

(dei greci e fenici, degli etruschi e soprattutto dei romani), distribuite un po’ in tutta l’Italia<br />

piano-collinare, e delle colonizzazioni alto-medievali delle abbazie benedettine e degli arabi<br />

(queste ultime essenzialmente concentrate nella Sicilia), e sia nei tempi delle colonizzazioni dei<br />

secoli successivi al Mille: quelle comunali, rinascimentali e moderne che (appoggiandosi a tipologie<br />

aziendali assai differenziate fra loro, come la grande e media ‘cascina’ capitalistica padana,<br />

in genere gestita da imprenditori affittuari, e come la piccola azienda familiare concessa dal<br />

proprietario alla conduzione di un mezzadro o di un affittuario) ora investono e organizzano stabilmente,<br />

o tornano ad investire ed organizzare dopo gli abbandoni tardo-antichi, larghe parti<br />

delle aree pianeggianti e collinari dell’Italia centro-settentrionale (Gambi, 1972, pp. 25-26).<br />

L’elevato grado di storicità espresso da quasi tutti gli ambienti italiani, anche da quelli che i<br />

nostri sensi percepiscono come ‘natura’ per antonomasia, quali i boschi, i pascoli e le zone<br />

umide, non è sempre riconosciuto dalla società attuale: lo dimostrano sia i comportamenti e le<br />

fruizioni individuali e collettive, e sia le politiche ambientali che (soprattutto nei parchi e nelle<br />

altre aree protette) appaiono riferibili a concezioni rigorosamente naturalistiche o ‘ecologiste’ e<br />

che possono arrivare a produrre anche un impoverimento degli stessi valori sui quali ci si propone<br />

di intervenire con finalità ‘positive’.<br />

Le configurazioni paesistico-territoriali – e non solo quelle legate alle urbanizzazioni e industrializzazioni<br />

da una parte e agli abbandoni di uso dall’altra – sono dovute al processo di attribuzione<br />

di valore allo spazio, indipendentemente dalla sua capacità produttiva agricola o d’altro<br />

genere, da parte di una società che, nel XX secolo almeno, “ha portato avanti il suo recente<br />

sviluppo secondo i più selvaggi modi di appropriazione del suolo, con le disfunzionalità territoriali<br />

che ne conseguono per effetto di un ‘consumo’ rapinoso e antisociale” (Turri, 1990, p.<br />

104).<br />

La crisi ecologica è una conseguenza di tali logiche. Essa si misura non solo nel gravissimo<br />

depauperamento della vita biologica – attraverso non solo le pratiche di prelievo smodato, con<br />

guasti irriproducibili, della caccia e della pesca – ma anche e più in generale nei guasti sociali<br />

e ambientali e nella crescente estraneazione dei cittadini dai luoghi prodotti nel paese dal complesso<br />

di interventi riferibili alla ‘Grande trasformazione’ e realizzatisi nella seconda metà del<br />

XX secolo.<br />

Guasti ed estraneazione che devono essere sanati e ricomposti se vogliamo assicurare al paese<br />

un futuro coerente con la sua identità, il suo ‘cuore antico’.<br />

“Un tempo a decidere che cosa conservare erano gli uomini che detenevano il potere e la cultura<br />

superiori, e che perciò stesso davano valore ai grandi edifici, ai palazzi, alle chiese, ai<br />

monumenti e ai paesaggi che si legavano ai loro affetti e alle loro visioni culturali. Oggi si devono<br />

conservare anche le cose di significato più modesto – le case contadine, i capitelli dell’antica<br />

devozione, le fontane, i sentieri – in quanto testimonianza di un momento storico e culturale,<br />

riferimenti di una storia come storia dell’intera società, non semplicemente di una classe<br />

sociale.<br />

Riconoscere il valore di un elemento – o di un sistema di elementi – che si ponga come fondamentale<br />

‘memoria territoriale’ si può solo sulla base di una ricostruzione del passato che faccia<br />

emergere i vari momenti storici nelle loro componenti più varie. Soltanto in questo modo si può<br />

superare quella visione parziale e soggettiva che crea tanta incertezza nel selezionare, al<br />

momento della pianificazione, ciò che va salvaguardato, rispettato”: e ciò, anche in considera-<br />

28


zione della vaghezza di definizioni che caratterizzano la legislazione italiana della tutela, eredità<br />

della vecchia concezione vedutistica, di puro privilegiamento estetico. Se è vero che la<br />

valutazione dei beni ambientali e paesistici “deve nascere e lievitare negli uomini che vivono<br />

localmente, in chi vi ha i propri interessi e i propri affetti”, è anche vero che “tutto ciò comporta<br />

una vera e propria riconversione antropologica, coinvolgente la cultura, la mentalità, la moralità<br />

degli uomini”.<br />

Il fatto è che “la gente locale ignora il passato, la storia, sta fuori da una visione culturale come<br />

quella che oggi richiede partecipazione come ricerca di nuovi equilibri: spesso, come già si è<br />

osservato, vuole seppellire il passato, perché gli ricorda condizioni di miseria. Che questo accada<br />

è certo la più grande delle contraddizioni in cui si è realizzato lo sviluppo recente della vita<br />

italiana, il dramma di questi anni, con lo scollamento da ogni valore passato, la disgregazione<br />

culturale, il rifiuto di quelle componenti positive che pur esistevano anche in una società che ha<br />

visto umiliate le classi subalterne […]. Per recuperare alla cultura queste testimonianze occorre<br />

passare attraverso un momento conoscitivo al quale devono partecipare geografi e specialisti<br />

delle più varie discipline, ma soprattutto gli studiosi locali – che oggi in Italia sono numerose<br />

e agguerrite schiere –, unendo insieme gli apporti più vari, in modo da costituire una sorta di<br />

grande archivio che contenga schedati i vari oggetti di significato storico e culturale, al quale<br />

possano attingere non solo gli ‘attori’ della pianificazione, ma ogni cittadino e in special modo<br />

gli insegnanti, che quelle conoscenze dovrebbero trasmettere nelle scuole […]. La scoperta dei<br />

valori da difendere deve passare attraverso questa consapevolezza che consenta, con la partecipazione,<br />

diretta o delegata, una pianificazione ‘diversa’, intesa come controllo del mutamento,<br />

come aggiornamento continuo del territorio alle mutevoli esigenze della società e dell’economia<br />

(economia come ecologia), senza con ciò spezzare i fili che legano la società all’ambiente,<br />

la cultura alla natura”.<br />

Importante “è che nel contesto del paesaggio che si rinnova resti incastonata la testimonianza<br />

del passato, l’oggetto della storia” (Turri, 1990, pp. 164-166).<br />

Il paesaggio. Struttura e rappresentazione<br />

Il nostro Paese ha approvato leggi di tutela dei beni paesistici fin dal primo Novecento (n. 149<br />

del 1902, n. 778 del 1922, e soprattutto n. 1089 e 1497 del 1939, per altro applicate solo per gli<br />

aspetti vincolistici e della 'conservazione passiva'), che si sono dimostrate tutte figlie della cultura<br />

umanistico-idealistica del tempo. Questa concepiva il paesaggio in quanto qualità di rilievo<br />

dello spazio geografico, con apprezzamento solo delle componenti eccezionali presenti in<br />

modo discontinuo: vale a dire delle “bellezze” e dei “panorami naturali”, oppure dei complessi<br />

ed elementi edilizi di pregio architettonico conclamato (cioè i “monumenti”), con i relativi valori<br />

artistici, letterari o più in generale storico-culturali, sempre in funzione del loro godimento<br />

estetico.<br />

Nonostante tali leggi, è da tutti riconosciuta – grosso modo fino agli anni '70 – la generale deficienza<br />

della sensibilità comune e istituzionale volta a disciplinare le attività antropiche che potessero<br />

avere ripercussioni negative sul paesaggio e più in generale sugli equilibri ambientali.<br />

Si potrebbe concordare con Eugenio Turri, per cui “si sono avuti in Italia diversi tentativi di disarticolare<br />

la nozione di paesaggio, di svilirla culturalmente. Ciò allo scopo ben mirato di<br />

mostrare l’inutilità e l’inanità della pianificazione paesistica”. Con tali presupposti, non c’è da<br />

meravigliarsi del fatto che i “nostri paesaggi” sono “tra i peggiori paesaggi possibili se si considerano<br />

le disgiunzioni, gli scollamenti operati tra ieri e oggi, tra cultura ed economia, e perfino<br />

tra storia e geografia” (Turri, 1998, pp. 11 e 15).<br />

L’Italia – per la sua ricchezza di storie diverse – presenta, infatti, una geografia disorganica in<br />

termini non solo di assetti territoriali, ma anche di ambienti e paesaggi con le loro specificità<br />

29


diacroniche: una geografia fatta di ‘pieno’ e di ‘vuoto’, di centralità e marginalità, di paesaggi<br />

dinamici e improntati dall’innovazione e di paesaggi statici e residuali, con componenti che<br />

assurgono al valore di monumento, di testimonianza e di identità difficilmente cancellabili.<br />

La crescita economica della seconda metà del XX secolo “è stata tale da recuperare in pochi<br />

decenni i ritardi dell’industrializzazione che l’Italia aveva accumulato nei confronti di altri<br />

paesi inseriti nell’area forte dell’Europa. Essa è passata al di sopra di ogni istanza correttiva<br />

imposta a salvaguardia non solo del paesaggio-immagine, ma delle stesse condizioni ambientali.<br />

L’Italia brutta derivata da questo processo di travolgente sviluppo economico [è] anche<br />

l’Italia inquinata, dove risulta difficile vivere bene per una larga parte degli italiani, finiti nelle<br />

periferie delle grandi città e lungo le strade di irradiazione degli stessi piccoli centri”. Le disfunzioni<br />

odierne trovano motivo “nelle carenze legislative come nei deboli e inefficienti interventi<br />

nell’applicazione di norme o leggi contro gli inquinamenti, contro le speculazioni edilizie<br />

e gli abusi territoriali, contro il capitalismo travolgente disposto a invadere ogni pezzetto libero<br />

del suolo nazionale, con i privilegi lasciati alle società immobiliari […]. L’assenza di una<br />

politica di piano ha fatto sì che i mutamenti suscitati dall’inserimento, poniamo, di un’autostrada<br />

abbiano introdotto istanze e necessità nuove per far fronte ai mutati equilibri, in un gioco<br />

senza fine che investe via via nuovi paesaggi” (Turri, 1990, pp. XIV e XVI e 37-38). In altri<br />

termini, “la ripetitività, gli allineamenti, gli ordini standardizzati non sono stati adottati in Italia,<br />

nonostante l’urbanizzazione fosse fondata anche da noi sul ‘grande numero’ […]. Il caos delle<br />

recenti urbanizzazioni – prive o povere di verde e servizi pubblici –, dove gli edifici della più<br />

diversa foggia e misura si mescolano in modi spesso irritanti, è il segno, al di là dei mancati<br />

interventi amministrativi e urbanistici, di iniziative poco rispettose l’una dell’altra, invasione e<br />

possesso dello spazio puramente avulsi da ogni rapporto sociale, oltre che di diversa potenzialità<br />

in funzione classista” (Turri, 1990, p. 85)<br />

In tal modo, i più o meno tradizionali tipi della regionalizzazione paesistico-sociale italiana –<br />

aree ad agricoltura intensiva meccanizzata interna o costiera, aree litoranee turistiche, aree industrializzate<br />

del pedemonte e delle valli prealpine, aree montane zootecnico-forestali soprattutto<br />

alpine, aree montane agricolo-pastorali soprattutto appenniniche, ecc. – dovrebbero essere oggi<br />

integrati in una classificazione di tipo ecosistemica, per verificare il grado di equilibrio o di<br />

degradazione dei vari ambienti. Tale regionalizzazione non potrebbe che dimostrare “come lo<br />

spazio italiano non sia ancora strutturato in un unico e funzionale sistema. Il processo di trasformazione<br />

recente, con la sua stessa rapidità, non ha certo contribuito a risolvere queste disfunzioni:<br />

le ha anzi in molti casi accentuate […], con la formazione di uno spazio relativo tutto<br />

in fermento da una parte e di uno spazio del tutto indebolito dall’altra, con gerarchizzazione sbilanciata<br />

della rete urbana” (Turri, 1990, pp. 38 e 43).<br />

Infatti, “il paesaggio d’oggi non è più la proiezione di una collettività o di singoli individui, ma<br />

il prodotto di scelte politiche. Il paesaggio, cioè, è sempre meno degli individui e sempre più di<br />

forze complesse e non direttamente controllabili”, tanto che il mutamento si presenta spesso<br />

come “invadenza barbarica della modernità”, come “mancanza di rispetto per il segno ereditato”,<br />

e il paesaggio che ci circonda esprime – con la dissociazione ormai generalizzata fra interessi<br />

collettivi e individualistici – “l’incapacità dell’Italia di trovare i suoi equilibri e una più<br />

corretta dimensione del vivere e rappresentare degli italiani” (Turri, 1990, pp. XXII-XXIII).<br />

I mutamenti paesistici della “Grande Trasformazione” (Turri, 1990, p. XIII) verificatasi tra gli<br />

anni ’50 e ’70 possono essere riassunti con pochi dati. “Tra il 1951 e il 1971 l’Italia, che demograficamente<br />

è cresciuta del 12%, si è arricchita di ben 6,69 milioni di nuove abitazioni (passate<br />

da 10,7 milioni a 17,5 milioni, di cui solo 15,3 milioni occupate). Le strade, nello stesso<br />

periodo, sono passate da 170.563 km (di cui 479 di autostrade) a 286.496 km (di cui 4342 di<br />

autostrade)”. Contemporaneamente, la produzione di cemento è passata da 10 milioni a 32<br />

30


milioni, “cifra che pone l’Italia tra i maggiori produttori mondiali […]. Questo consumo di<br />

cemento ha significato la sottrazione di enormi quantitativi di materiale calcareo ai monti italiani”,<br />

così come il correlato fabbisogno di sabbie e ghiaie (sottratto specialmente agli alvei fluviali)<br />

ha fortemente peggiorato i già delicati equilibri idrogeologici delle pianure e delle linee<br />

di costa.<br />

La violenza di una così rapida “fase cantieristica” è stata tanto maggiore per l’estraneità alle<br />

realtà locali del processo di cambiamento. Non c’è quindi da meravigliarsi se l’assorbimento<br />

psicologico e culturale del cambiamento è avvenuto con grande difficoltà e lentezza (Turri,<br />

1990, p. 33).<br />

Gli interventi “hanno avuto nei decenni scorsi intensità e velocità diverse da zona a zona. Ancor<br />

oggi il processo di ispessimento edilizio e di trasformazione territoriale, benché registri non<br />

poche novità, ha una distribuzione legata ai grandi centri urbani, alle direttrici principali che li<br />

collegano tra loro, alle linee di costa, alle conche intermontane peninsulari, al pedemonte alpino”<br />

– è questa l’Italia fatta di ‘linee forti’ –, mentre esistono pure “intensificazioni sparse, quelle<br />

che hanno fatto proliferare le aree della piccola industria specializzata, le corone dei piccoli<br />

e grandi centri, le valli alpine e appenniniche. Questa Italia coinvolta dalle intensificazioni<br />

modificatorie copre non meno del 30-40% del paese”. E’ un’Italia dove sempre più spesso è<br />

impossibile distinguere le specificità microregionali e locali, “ormai simile a un’unica periferia,<br />

anonima, poco accogliente, poco ordinata, dove però vive la maggior parte degli italiani e dove<br />

si vive in quel modo che si rifà a modelli più o meno omologati a livello nazionale. L’Italia dove<br />

si produce di più […], della confusione automobilistica, del traffico intasato, delle case condominiali<br />

senza volto, dei supermercati affollati, delle autostrade che sorvolano le case – o comunque<br />

dei grandi rettifili delle strade nuove non più serpeggianti come le antiche, che si adeguavano<br />

alle accidentalità e agli insediamenti –, dei capannoni industriali appiccicati agli edifici<br />

residenziali, degli inquinamenti, dei rumori, delle brutture edilizie, della droga ecc. […].<br />

Dentro questi stessi paesaggi senza volto e senz’anima, e di lettura sempre più difficile – dominati<br />

da segni nuovi come la fabbrica e il laboratorio artigianale, il grande capannone adibito a<br />

centro commerciale, gli autogrill e le stazioni di rifornimento e servizio al traffico veicolare, i<br />

cavalcavia e gli intrecci stradali, i grandi cartelloni pubblicitari, i ripetitori radiotelevisivi e telefonici,<br />

gli elettrodotti – vi sono spesso permanenze eccezionali, sparse qua e là o raccolte nei<br />

centri antichi delle piccole e grandi città. Questi sono gli spazi della sacralizzazione storica, artistica<br />

e sentimentale dove i valori del passato sembrano custoditi nel modo migliore (ciò che non<br />

sempre è vero, anche se il turismo costituisce un affare economico che rende produttiva la tutela)”.<br />

Ma, anche qui, la motorizzazione imperversa, ingombrando tali spazi “con la melma automobilistica”.<br />

E’ quasi superfluo “ricordare ciò che è avvenuto con l’esplosione motoristica nelle nostre città,<br />

costruite su tessuti di vecchie e anguste viuzze incapaci di sostenere il traffico delle automobili.<br />

L’abbrutimento delle città italiane per effetto dell’insostenibile, pletorica presenza della macchina<br />

è ancor oggi – e a maggior ragione oggi – vistosissimo. Il grande accatastarsi delle automobili<br />

sullo sfondo di architetture e scenografie urbane d’altre epoche suscita contrasti stridenti,<br />

manifestazioni di una inadattabilità che concretamente si misura nel disagio del cittadino a<br />

muoversi e vivere oggi nella città italiana” (Turri, 1990, p. 64)<br />

L’americanizzazione o la neotecnicizzazione del paesaggio è evidente anche “sulle spiagge, sui<br />

monti – e s’incunea persino nelle campagne di pregio residenziale e turistico – con gli alberghi,<br />

le piscine, i dancing, le drinking houses” (Turri, 1990, p. 68)<br />

Oltre a ciò, poco è rimasto del vecchio sentimento d’abitare degli italiani, per lo sfaldamento<br />

psicologico che si è verificato “del rapporto tra l’uomo-abitante e il proprio territorio vitale, l’allargamento<br />

dei riferimenti spaziali, il trapianto degli uomini (gli emigrati) in realtà diverse,<br />

31


l’imporsi di ordini spaziali nuovi creati da forze esterne. In un’Italia che cresceva in modo disordinato<br />

si è avuta pertanto, con la perdita del senso locale e l’alienazione dello spazio, la formazione<br />

di quella ‘nazione di stranieri’, [vale a dire] la società che ha perduto il senso del luogo”,<br />

del vicinato, del dintorno dell’abitazione, del sentimento sociale e della memoria storica.<br />

Infatti, con l’individualismo sfrenato e l’allargamento dello spazio vissuto consentito dallo sviluppo<br />

della motorizzazione privata, “non si vive più di questo rapporto tutto locale, che nella<br />

società di ieri, in molte parti d’Italia, comportava cura e rispetto per il posto dove si abitava: il<br />

cortile, la corte, la strada e l’angolo di strada, la piazza, luoghi che avevano una crosta sociale,<br />

anche se non belli, un odore di socialità, di umanità […]. Lo squallore delle nuove aree urbanizzate<br />

è rapportato in modo diretto alla perdita di questo ‘fuori’ sociale”, con la realizzazione<br />

di veri e propri ‘ghetti’ e ‘quartieri dormitorio’ con i loro nuovi ‘edifici-alveari’, o comunque<br />

con i modelli di edilizia che ripetono “schemi e tipologie di breve durata, scontate, ma alla moda<br />

e di facile acchito per le masse italiane alla ricerca di un ‘dentro’ nuovo, diverso”.<br />

A tale forme di degrado paesistico e territoriale si aggiunge poi la costituzione di un diverso<br />

modello di utilizzazione individualistica e privilegiata del territorio che è dato dalla “villa di<br />

lusso chiusa nei giardinetti ben recintati, con piscina, al di fuori o in posizione dominante rispetto<br />

alle zone di edilizia popolare, le zone dei poveri, dove tutto è cresciuto secondo le leggi della<br />

speculazione, prive di verde, di spazi per la distensione” (Turri, 1990, p. 87).<br />

In verità, “al di là di queste aree di grande mutamento che contengono le oasi storiche […] c’è<br />

un’Italia rimasta ancora fedele a quella del passato”, con i piccoli centri che esprimono ancora<br />

un sentimento municipale, con l’amore e il rispetto per le immagini che identificano un luogo<br />

o un paesaggio: un’Italia “non ingombrata dai nuovi segni che si sovrappongono tanto spesso<br />

violentemente alle immagini ereditate”. Tuttavia, “questi territori patiscono spesso la condizione<br />

propria degli spazi secondari o marginali. In essi poi i nuovi segni, quando vi entrano, hanno<br />

effetti anche più deleteri che nelle zone dove essi appartengono alla normalità. Dove l’agricoltura<br />

si è modernizzata il paesaggio è cambiato, nuove geometrizzazioni hanno talvolta abbellito<br />

il paesaggio (come spesso è accaduto nelle aree della viticoltura più ricca o della pioppicoltura<br />

padana ecc.)” (Turri, 1990, pp. XVIII-XX). Al di là dell’effetto estetico non sempre positivo,<br />

nelle aree più adatte ad un’agricoltura razionale e meccanizzata si è avuto un processo di<br />

unificazione colturale che ha soppiantato le varie forme di coltura promiscua del passato. Tale<br />

‘urto neotecnico’ ha prodotto innovazioni spesso poco positive sul piano paesistico-ambientale,<br />

come “l’ordine geometrico, meccanico, degli impianti arborei […] nelle campagne riconvertite,<br />

le palificazioni di cemento dei vigneti, la creazione di spazi viari e operativi per i trattori e<br />

le varie macchine agricole, la eliminazione delle ‘piantate’ e delle siepi divisorie ai limiti delle<br />

parcelle, la costruzione di edifici nuovi e più ampi di quelli che erano i vecchi porticati, i vecchi<br />

fienili” (Turri, 1990, p. 67)<br />

Assai estesi, comunque, continuano ad essere gli spazi soggetti a emarginazione e abbandono.<br />

Aree che si ritrovano nel Meridione e nel Centro, in ambito alpino ed appenninico, estranee ai<br />

tumulti modificatori indotti dalle nuove forme di produzione. “In esse si possono anche comprendere<br />

quelle aree di elevata naturalità in quanto sempre poco interessate dalle attività di<br />

sfruttamento” e in parte organizzate dai poteri amministrativi centrale e regionali, soprattutto<br />

dagli anni ‘70, in parchi o in altre forme di aree protette; zone che – nell’attuale età post-industriale<br />

– possono improvvisamente assumere anche valori nuovi. E’ infatti possibile che i nuovi<br />

rapporti di comunicazione arrivino a “legare alle aree più vitali ed evolute le aree povere e attardate”,<br />

proprio perché “aree diverse, in quanto residualità testimoni d’una Italia passata, silente<br />

e remota nel tempo”, e quindi particolarmente adatte all’agriturismo, alla seconda casa e ad altre<br />

forme di ‘turismo verde’, alla stessa residenzialità che vi cerca rifugio quieto ed aria salubre,<br />

lontano dall’inquinamento e dalla congestione delle città e delle aree urbanizzate, soprattutto<br />

32


con il modello della casetta-villino: una componente, peraltro, che è da considerare “appendicolare<br />

(consentito dalla motorizzazione) delle aree urbanizzate, parassitaria per il fatto che non<br />

si collega a delle risorse locali e vive staccata dai grandi centri di produzione” (Turri, 1990, pp.<br />

XVIII-XX, p. 26 e p. 54).<br />

In queste aree ancora rurali spesso l’eredità di strutture agrarie vecchie, difficili da riconvertire,<br />

è ancora evidente: il tessuto dei campi è rimasto uguale o quasi uguale a quello della prima<br />

metà del Novecento, anche “se possono essere mutate le forme e le tecniche colturali per effetto<br />

della razionalizzazione produttiva e dell’ormai diffusa meccanizzazione”. Pertanto, qui si<br />

può ancora scoprire “una certa Italia di ieri [ove] si intravede un certo legame tra l’insediamento<br />

e lo spazio circostante che esso presiede e organizza” (Turri, 1990, pp. 25-26).<br />

Con la “Grande Trasformazione”, dunque, si è verificato un po’ ovunque – sia pure in diversa<br />

misura – “un progressivo distacco tra l'identità dei luoghi e quella dei loro abitanti. L'identità<br />

locale, cioè dei luoghi, è sicuramente uno dei valori base per qualsiasi criterio di tutela del paesaggio:<br />

ne garantisce la diversità, la riconoscibilità, la segnalazione nel sistema di riferimenti<br />

spaziali dei suoi abitanti” (Castelnovi, 1998, p. 6).<br />

A fronte degli scempi paesistici e ambientali perpetrati nell'ultimo dopoguerra (nonostante il<br />

dettato dell'art. 9 della Costituzione), infine si è gradualmente e faticosamente diffusa nelle<br />

nozioni elementari di milioni di italiani una qualche cultura del paesaggio. “Oggi anche nel più<br />

appartato centro d’Italia c’è qualcuno impegnato nella riscoperta del paesaggio, dei miti e dei<br />

valori della passata ruralità, della locale testimonianza storica o archeologica”. Il riferimento<br />

concreto e filologicamente corretto al paesaggio, ai suoi contenuti storici e ai suoi lineamenti<br />

naturali, come “reazione a quel processo di omologazione culturale e a quella cultura televisiva<br />

e della carta stampata che crea simulacri, rappresentazioni di rappresentazioni”, riveste un<br />

evidente significato “per legarsi ad un paese o a una valle o a un territorio qualsiasi” (Turri,<br />

1990, pp. XIII- XIV).<br />

Tale ‘riconsacrazione’ del paesaggio è anche conseguenza del trasferimento delle prerogative<br />

statali alle regioni a statuto ordinario operato nel 1972-77, e dell'approvazione sia della legge<br />

Galasso n. 431 del 1985 (comunque a lungo osteggiata nella sua applicazione dagli stessi enti<br />

locali, e ancora oggi male e poco applicata, e quindi incidente “sulla pianificazione e sulle attività<br />

trasformatrici con esiti discontinui e contraddittori”) (Castelnovi, 1998, p. 4), e sia della<br />

legge sulle autonomie locali n. 242/1990 e della legge quadro sulle aree protette n. 394/1991:<br />

tre normative grazie alle quali il paesaggio, almeno sulla carta, diviene il fondamentale strumento<br />

concettuale di tutela dell'ambiente e i piani paesistici diventano il fulcro dell'interesse di<br />

politici e tecnici del territorio.<br />

I termini ‘ambiente’ e ‘paesaggio’ – al di là delle interpretazioni confuse – se non sono sinonimi,<br />

“sono pur sempre inscindibili” (Turri, 1990, p. VII). In tale contesto, non va dimenticato il<br />

contributo positivo fornito dall'opera ‘attiva’ di Italia Nostra e delle altre e più giovani associazioni<br />

ambientaliste, oltre che delle vecchie istituzioni (tardo-ottocentesche) del Club Alpino<br />

Italiano e del Touring Club Italiano, perché trovassero risposte adeguate le richieste sociali<br />

espresse nella difesa delle condizioni ambientali, nel migliore funzionamento dell’assetto territoriale<br />

e nella tutela/valorizzazione del paesaggio. Il fatto è che – grazie anche alle puntuali sollecitazioni<br />

svolte nell'ultimo ventennio dall'UNESCO e dal Consiglio d'Europa, oltre che alle<br />

coerenti normative approvate dall'Unione Europea – si è attivata, pure in Italia, una domanda<br />

sociale di buone conoscenze paesistico-territoriali da applicare concretamente a politiche regionali<br />

e locali di pianificazione urbanistica, dell'ambiente e dei beni culturali a base paesistica:<br />

politiche senz'altro più equilibrate rispetto a quelle del passato, e miranti alla proposizione di<br />

uno sviluppo diverso (se non alternativo), aperto sì al progresso ma anche fedele all'eredità cul-<br />

33


turale della società pre-capitalistica e pre-industrialistica in fatto di rapporti ‘ecosistemici’ con<br />

la natura e con l'ambiente storicizzato, in modo anche da evitare calamità e danni ambientali.<br />

Politiche nuove che valgano anche a reinserire le 'forme' storiche ormai svuotate di funzioni e<br />

di valori culturali identitari (ridotte a nonluoghi) nel contesto del territorio/spazio da produrre,<br />

per assicurare crescita economica e mutamento sociale, e ricreare così un nuovo e duraturo rapporto<br />

ambiente-società che non comporti traumatiche fratture con la nostra storia (Quaini, 1992;<br />

Sereno, 1981). In altri termini, per elaborare e realizzare piani e regole attenti ad attivare ‘sviluppo’<br />

(più che ‘crescita’) in territori che conservano la loro identità spaziale, saldando funzionalmente<br />

il nuovo all’esistente, recuperando “lo spirito rinascimentale della progettazione, con<br />

i suoi magici innesti urbanistici e architettonici, nei quali l’Italia ha avuto maestri impareggiabili”<br />

(Turri, 1990, p. XXI).<br />

Il paesaggio è “il referente del nostro guardare il mondo e del nostro progettarlo; il pertugio o<br />

la finestra attraverso cui arriviamo a percepire l’organismo territoriale per viverlo e modificarlo”;<br />

il paesaggio è quindi da concepire “come interfaccia o momento di congiunzione, così sfumato<br />

nei suoi contorni, tra il nostro percepire e il nostro agire, tra il nostro rappresentare la realtà<br />

e il nostro viverla, tra il nostro guardare e il nostro studiare, il nostro analizzare e il nostro<br />

progettare, tra un guardare da fuori e un guardare da dentro” (Turri, 1990, p. IX).<br />

“I cento, mille campanili [italiani] esprimevano la singolarità di tante storie locali, rispetto alle<br />

quali il paesaggio era prodotto forte, sentito, partecipato, specchio immediato […] del rapportarsi<br />

dei singoli e delle collettività locali al territorio produttivo”. Nel passato pre-industriale,<br />

gli interventi modificatori erano, di regola, “particellari, frammentati, individuali, controllati<br />

solo dal protagonista”; e, tuttavia, il loro sommarsi portava “a risultati complessivi armonici”<br />

perché le rappresentazioni individuali e collettive e le iniziative “nascevano dentro regole secolari<br />

di comportamento, al di là dei regimi della proprietà terriera, delle forme di urbanesimo, dei<br />

rapporti di dipendenza dalla città alla campagna, i quali si esprimevano come specificità regionali”.<br />

In generale, gli agricoltori, i veri ‘costruttori del paesaggio’, avevano innata la rappresentazione<br />

del paesaggio nel loro operare giornaliero: “il contadino dà sempre un’occhiata finale<br />

di tipo estetico al suo intervento, siano arature, piantumazioni o altro” (Turri, 1990, p. XII).<br />

E’ ormai chiaro, dunque, che l’opera di salvaguardia, e ove possibile di recupero e restauro (non<br />

solo delle forme estetiche, dei paesaggi ‘belli’ per gli osservatori esterni e i turisti, ma anche di<br />

quelli ‘significativi’ per la cultura locale), non può avere successo se non diventando referente<br />

e controllo sociale della trasformazione: intrecciandosi, cioè, con la dimensione identitaria dei<br />

luoghi e con la partecipazione civica. Se non facendo leva, cioè, sul senso di appartenenza delle<br />

comunità che li abitano e (per certi aspetti) li producono, sul significato ‘positivo’ da esse dato<br />

ai beni paesaggistici (sulla consapevolezza del valore di monumenti e manufatti, itinerari e<br />

acque, vegetazione e fauna, interi sistemi ambientali…), da gestire e fruire collettivamente e<br />

oculatamente come risorsa per il futuro. In mancanza di questi basilari presupposti, e quindi con<br />

la perdita di interesse sociale per la matrice storica e il conseguente abbandono dei beni, c’è da<br />

attendersi come ineluttabile il processo della destrutturazione/distruzione del paesaggio, con la<br />

sua più o meno rapida ‘rinaturalizzazione’ ad ambiente indifferenziato.<br />

D’altra parte, però, è anche difficile accogliere in modo rigido l’assunto che il paesaggio (in<br />

quanto territorio strutturato in unità spaziali “definite e determinate da caratteristiche, o per<br />

meglio dire da un sistema di rapporti che unificano queste caratteristiche e che sono dovuti […]<br />

a una solidarietà conferita da qualche forma di organizzazione umana”) sia soltanto una costruzione<br />

cosciente di società che abitano il territorio: che cioè sia tale solo “quando i suoi abitanti<br />

ne riconoscono la peculiare individualità e lo trasformano, conseguentemente, in modo costruttivo”;<br />

in altri termini, quando i residenti ne esprimono una chiara e per così dire solidale “presa<br />

di coscienza intersoggettiva” (Gambi, 1986). E’ difficile accettare integralmente tale concetto<br />

34


perché, in questo modo, insorge il problema su cosa possa accadere “quando vengono meno<br />

quelle ‘genti vive’ che attraverso processi coscienti hanno costruito il loro paesaggio”, così<br />

come è avvenuto un po’ ovunque nel nostro Paese con la crisi o disgregazione delle società tradizionali<br />

per effetto della modernizzazione degli anni ’50, ’60 e ‘70.<br />

Al di là del pericolo di una “ipostatizzazione di queste società”, coll’idea di “un ordine costitutivo<br />

del paesaggio come specchio di un’organizzazione sociale armoniosa e di una cultura in cui<br />

i valori d’uso predominano ancora su quelli di scambio”, si dovrebbe, allora, purtroppo, prendere<br />

coerentemente atto “della morte del paesaggio”; e quindi – se non prende forma con successo<br />

una riattualizzazione del “valore di società locale” e, insieme, se non perviene a maturazione<br />

nelle comunità locali una coscienza estetica generale sui valori dei loro paesaggi, atta a<br />

produrre intorno ai medesimi “un senso comune che fonda, o meglio, individua la comunità” –<br />

ci si dovrebbe, allora, rassegnare alla sua inevitabile museificazione o rimessa “in circolazione<br />

nella cultura contemporanea per stupire e istruire”, come sostiene da tempo l’urbanista Pier<br />

Luigi Cervellati.<br />

Solo con quest’ultimo atteggiamento di ordine estetico ed etico, infatti, “si può decidere di<br />

sospendere l’attività di trasformazione del paesaggio diretta da motivazioni economiche e dare<br />

spazio al tempo della contemplazione: ciò che significa che i valori della contemplazione<br />

dovrebbero guidare (almeno in parte) le attività pratiche che si svolgono nel e con il paesaggio”<br />

(Baldeschi, 1997, pp. 44 e 48).<br />

In effetti, il sapere paesistico-ambientale e territorialistico prodotto fino a pochi decenni or sono<br />

per essere applicato all'azione appariva – e in parte appare tuttora – inficiato da un'errata prospettiva<br />

che, trascurando il ruolo attivo dell'approccio storico, non considerava i valori del passato<br />

utili a preparare il futuro. E' noto che – come del resto, e a maggior ragione, per gli strumenti<br />

urbanistici comunali – i piani paesistici regionali previsti dalla legge n. 431/1985, che<br />

hanno come punto di riferimento della tutela del territorio proprio il paesaggio, inteso finalmente<br />

come ambiente (tutto il paesaggio e non solo quello di rilevante valore estetico), solo<br />

sporadicamente, finora, hanno tenuto conto della storia del paesaggio e dei censimenti dei beni<br />

culturali a base paesistica (Fazio, a cura di, 1996); tale limite si riscontra anche nei piani considerati<br />

“buoni” per l'attenzione prestata agli aspetti funzionali socio-economici. In gran parte di<br />

loro, e a maggior ragione negli strumenti urbanistici comunali e nei piani settoriali intercomunali,<br />

si continua ad evidenziare una notevole “carenza di ordine conoscitivo” in tema di studi<br />

storico-territoriali o geografico-storici che – con la 'lettura' critica delle fisionomie e delle funzioni<br />

dei luoghi, urbani e agricoli – sono il fondamento irrinunciabile per potere “compiere il<br />

salto concettuale e operativo dalla considerazione delle sole [e singole] emergenze alla considerazione<br />

sintattica o di sistema delle stesse” (Muscarà, 1995).<br />

Sostiene il più accreditato studioso del paesaggio, Lucio Gambi, in una lucida intervista rilasciata<br />

alla rivista di Italia Nostra nel decennale della legge Galasso, che “il paesaggio è un archivio<br />

e occorre una sensibilità storica molto acuta per studiarlo, e quindi tutelarlo. Quella sensibilità<br />

oggi non c’è” (Fazio, a cura di, 1996, p. 11).<br />

Resta ancora un lungo cammino da percorrere, quindi. In tal senso, significativa appare la risoluzione<br />

n. 53 del 1997 sui paesaggi culturali approvata dal Consiglio d'Europa (poi evolutasi<br />

nella “convenzione e carta del paesaggio” sottoscritta nell’ottobre 2000 a Firenze). Verificato<br />

che la tutela e la valorizzazione integrate del paesaggio, specialmente in Italia, non sono ancora<br />

consolidate e che, di conseguenza, ampio è lo sviluppo di una territorializzazione non corretta,<br />

il Consiglio ha chiesto di “prendere in conto sistematicamente il paesaggio nelle politiche<br />

in materia di aménagement del territorio, nelle politiche urbanistiche e culturali, ambientali,<br />

agricole, sociali ed economiche e nelle altre politiche settoriali che possono avere un effetto<br />

diretto ed indiretto sul paesaggio” (Castelnovi, 1998, p. 4).<br />

35


Nonostante tali limiti, si è avuto modo di enunciare che, negli ultimi anni – grazie anche allo<br />

sviluppo dell’agriturismo e del ‘turismo rurale’ –, si va diffondendo la considerazione del paesaggio<br />

come bene comune sempre più importante (in quanto risorsa non riproducibile, e quindi<br />

da fruire con consapevole oculatezza), ma anche come fonte di ricchezza inestimabile: bene<br />

e ricchezza utili a far fronte a diversi bisogni economici, socio-culturali, ambientali, delle comunità<br />

rurali e raralurbane, anche e soprattutto di quelle rimaste alle periferie dello 'sviluppo'.<br />

Da qui, l’avvio (ancora sperimentale) di politiche di tutela/valorizzazione che mettano freno o<br />

almeno limitino sensibilmente gli eccessi delle iniziative individuali relative all’uso del territorio,<br />

e siano invece armonizzate al concetto di sviluppo sostenibile; mediante queste potrà essere<br />

possibile evitare molti disastri ambientali prodotti dall’abbandono o dalla trasformazione<br />

incompatibile, e anche il pericolo incombente di una generale 'spersonalizzazione' paesisticoterritoriale,<br />

con omologazione di un mosaico paesaggistico così spazialmente differenziato (con<br />

le sue mille peculiarità e identità locali, sia fisiche, sia storiche e culturali) come quello italiano:<br />

uno spazio già 'vissuto' che, perduti i suoi valori identitari e storico-relazionali, è altrimenti<br />

sulla strada di diventare un inanimato 'teatrino della domenica', una specie di 'fondale di cartapesta'<br />

buono per ambientare i più disparati messaggi pubblicitari, oppure per meravigliare gli<br />

spettatori di spettacoli cinematografici e televisivi di successo, per incuriosire lettori di belle<br />

immagini di 'monumenti' della natura e della storia (specialmente i ricercatissimi, e dai costi sempre<br />

più proibitivi, ‘casali’ da ridurre a ville per il ‘buon ritiro’ domenicale dei ceti cittadini abbienti),<br />

edite su fascinose e raffinate riviste di carta patinata o su accattivanti strumenti ipertestuali.<br />

Astraendo dalla considerazione delle numerose iniziative sul paesaggio, sia scientifiche (organizzate<br />

da atenei, fondazioni ed enti locali), sia politiche (riguardanti la musealizzazione del<br />

paesaggio mediante l'istituzione di parchi culturali, musei territoriali diffusi o ecomusei, che si<br />

pongono specificamente l'obiettivo di integrare la conservazione del paesaggio con lo sviluppo<br />

economico), davvero significativa appare la citata Conferenza di consultazione integrativa sul<br />

progetto di Convenzione Europea del Paesaggio organizzata a Firenze nell’aprile 1998 dal<br />

Consiglio d'Europa, in collaborazione con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e la<br />

Regione Toscana, al fine di redigere gli articoli del testo (approvato due anni dopo). Invero, tale<br />

Convenzione Europea – programmata in base alla riflessione circa la inadeguatezza delle politiche<br />

territoriali a “valutare adeguatamente l'aspetto paesaggistico che rappresenta, nella definizione<br />

fornita dal Consiglio stesso, quella delicata relazione che esiste tra gli individui ed il territorio<br />

in un dato momento storico, e che risulta dall'azione di fattori naturali e culturali o dalla<br />

loro combinazione” – costituisce un provvedimento giuridico organico e coordinato “dedicato<br />

interamente al paesaggio nella sua dimensione europea globale, alla sua protezione, gestione e<br />

valorizzazione”. Essa si propone di risolvere il “problema della sensibilizzazione e formazione<br />

delle popolazioni” e degli studi scientifici volti ad “una più adeguata identificazione e valutazione<br />

dei valori e delle qualità dei paesaggi” (Guido e Mastruzzi, 1998).<br />

Un po’ in tutte le regioni italiane (soprattutto del Centro-Nord), si possono citare molteplici episodi<br />

significativi che valgono a dare il senso della svolta radicale che sta germinando tra le pubbliche<br />

amministrazioni, pur tra contraddizioni anche stridenti, evidenziate dagli innumerevoli<br />

gravi attentati ai valori paesistico-ambientali che continuano ad essere perpetrati per realizzare<br />

opere infrastrutturali pubbliche e piani urbanistici di vario genere.<br />

E’ certo che l’attenzione delle istituzioni locali per il paesaggio (spesso con dichiarazioni di<br />

principio non ancora supportate da atti concreti coerenti) deve essere vista come conseguenza<br />

soprattutto dello straordinario apprezzamento che il turismo colto e 'intelligente' va sempre più<br />

dichiarando per i ‘bei paesaggi’ agricoli e forestali e per la qualità della vita delle campagne italiane,<br />

con i loro valori culturali e gastronomici, con i loro prodotti tipici e la fitta trama di insediamenti<br />

storici che hanno mantenuto larga parte dei caratteri tradizionali.<br />

36


Al recente riaccredito sociale del paesaggio (dovuto, però, anche all'acquisizione di una nuova<br />

sensibilità ecologica e alla maggiore consapevolezza delle sempre più gravi problematiche<br />

ambientali), ha fatto seguito l’interesse scientifico di molte aree disciplinari, compresa la geografia:<br />

e ciò, grazie al risorgere di correnti di pensiero di tendenza geografico-storica che riaffermano<br />

i valori della storicità delle strutture paesistiche, in quanto quadri del territorio meritevoli<br />

di processi di conoscenza scientifica e di politiche equilibrate di riuso o di tutela.<br />

Il paesaggio presuppone sempre il dualismo fra realtà e rappresentazione, fra forma e struttura<br />

oggettiva, da una parte, e immagine o percezione culturale intersoggettiva o personale – o,<br />

meglio, coscienza estetica generale (nel senso di “non legata a specifiche comunità territoriali”)<br />

e “senso comune locale, non estetico, in quanto orientato da scopi pratici” (Baldeschi, 1997, p.<br />

47) –, dall’altra. Esprime, quindi, un significato malfermo e ambiguo, di difficile interpretazione<br />

scientifica, anche per il suo incessante dinamismo: come manifestazione materiale del contesto<br />

socio-culturale in cui si vive, di continuo si ripete rinnovandosi, in quanto appunto reca in<br />

sé, congiuntamente, caratteri sincronici e diacronici; costituisce un inesauribile ‘palinsesto',<br />

ovvero struttura complessa (Lando, 1995 e 1996).<br />

Tali problemi non impediscono di tentare di comprendere attentamente il paesaggio come geosistema<br />

e “come patrimonio certo della nostra cultura” (Andreotti Giovannini, 1995), con tutta<br />

la strumentazione, i valori e anche i preconcetti di cui si dispone. Per questa ragione, non pare<br />

utile continuare a differenziare rigidamente, nell’analisi paesistica, approcci interpretativi di<br />

tipo percettivo-narrativo da altri di tipo più propriamente scientifico-oggettivo, che anzi devono<br />

integrarsi compiutamente nell'approccio pluridisciplinare.<br />

L'apporto della dimensione storica appare di fondamentale importanza, in quanto ogni manifestazione<br />

del paesaggio sottende dei processi. In altri termini, studiare per capire il paesaggio è<br />

un passaggio obbligato per “capire il territorio”.<br />

Di conseguenza, la comprensione non può che andare oltre l'aspetto visibile e topografico,<br />

mirando dritto al recupero della memoria e dell’identità culturale nelle comunità locali. Infatti,<br />

la finalità forse più importante di tale pratica di ricerca è applicativa, essendo volta a far prendere<br />

coscienza le comunità locali dell’importanza della specificità dei valori identitari espressi<br />

da luoghi ed aree. Le ricerche empiriche devono quindi porsi in funzione dell’azione, per orientare<br />

i progetti di governo delle trasformazioni paesistico-territoriali, perché siano coerentemente<br />

ancorati ai concetti di tutela, riqualificazione e valorizzazione (Castelnovi, 1998).<br />

Così, grazie soprattutto ai bisogni emergenti nel Paese, il paesaggio è tornato ad essere uno dei<br />

temi centrali di studio della geografia storica più impegnata sul piano civile, soprattutto da<br />

quando si è affermato un indirizzo storicistico attivo e problematico che affida alla scienza del<br />

territorio una funzione di progresso sociale.<br />

Partendo dalla consapevolezza che il paesaggio non può essere ritenuto solo una sintesi di elementi<br />

visibili – e quindi venire facilmente racchiuso nelle ormai obsolete 'formule' descrittive<br />

(per esempio, in una definizione topografica o corografica, o in una rappresentazione cartografica<br />

modernamente costruita col metodo zenitale) – si conviene, però, che esso deve essere considerato<br />

una struttura che dall'attività degli uomini è prodotta nel corso della storia, come 'complesso'<br />

costitutivo di una civiltà, quindi di una realtà di carattere sociale. Col riguadagnare all'analisi<br />

paesistica i fondamenti verticali (in primo luogo quei “fattori che implicano la socialità,<br />

le istituzioni giuridiche, i miti religiosi e l'indefinito gioco della libera scelta umana”), si finisce<br />

coll'esaltare le possibilità di incontro con la storiografia, in particolare con quei settori di<br />

essa che pongono al centro della loro attenzione tali strutture.<br />

Il paesaggio nasce, infatti, dal territorio: da quello prende forma ed è una realtà indiscutibile,<br />

sia quando lo si considera oggettivamente in sé, sia quando lo si filtra sentimentalmente in una<br />

interpretazione artistica figurativa o in moduli letterari. Su questa base, può e deve essere stu-<br />

37


diato, come “una sorta di memoria in cui si registra e si sintetizza la storia dei disegni territoriali<br />

degli uomini” (Quaini, 1998, p. 191).<br />

Affondando l'analisi sul problema dei processi storici che lo hanno prodotto, è dunque possibile<br />

mirare alla conoscenza storica oggettiva del paesaggio, giovandosi necessariamente di nozioni<br />

e categorie interpretative piuttosto eterogenee tra di loro, come fonti catastali, cartografiche,<br />

iconografiche e fotografiche (cioè i punti di vista della scienza della rappresentazione e della<br />

tradizione pittorico-vedutistica e delle arti figurative), testimonianze ‘volontarie’ presenti<br />

soprattutto nella pubblicistica di natura socio-economica, fonti ‘involontarie’ conservate negli<br />

archivi, metodologie di studio proprie degli approcci demo-antropologico, ecologico-botanico,<br />

ed archeologico riferiti al ‘terreno’ assunto come ‘memoria e documento’ (Moreno, 1990).<br />

L’integrazione e il corretto utilizzo critico di questi strumenti e documenti comportano, inevitabilmente,<br />

problemi di non facile risoluzione, non essendo agevole trovarle tutte padroneggiate<br />

dal geografo, così come da qualsiasi altra figura di studioso (Vecchio, 1997a).<br />

Va da sé che questo studio richiede una lettura particolarmente fine e penetrante, perché sia possibile<br />

cogliere, insieme, gli specifici valori materiali e le immagini identitarie dei luoghi, con i<br />

processi di identificazione e di appartenenza che li contraddistingue o li contraddistingueva<br />

prima che la struttura economica si distaccasse dai paesaggi. E ciò per impedire il pericolo –<br />

latente in tutti i progetti di pianificazione territoriale – che da ricostruzioni paesistiche di tipo<br />

scientifico-oggettivo, trascendenti la presenza delle società locali, possano scaturire pratiche di<br />

tutela-valorizzazione correlate “esclusivamente alla figura del turista” e del cittadino che “spende<br />

il proprio tempo libero sul territorio” (Quaini, 1998, p. 191). In altri termini, per consentire<br />

specificamente la ‘riambientazione’ dei cittadini che hanno perduto la memoria della storia territoriale<br />

e del significato particolare di luoghi, ambienti o monumenti della tradizione, anche per<br />

i legami allacciati con altri simboli di una modernità senz’anima e estraniante, quali i ‘nonluoghi’<br />

e gli ‘spazi effimeri’, specialmente propri del grande commercio e del divertimento o spettacolo<br />

di massa, comunque sempre incapaci di produrre cultura e senso di identità negli abitanti.<br />

Una conoscenza che va riconquistata, per ricreare un rapporto socio-culturale cosciente e virtuoso<br />

con essi, senza il quale non si conservano i paesaggi e le stesse identità locali.<br />

Per il ‘riconoscimento’ e la ‘lettura’ dei valori paesistico-insediativi e architettonici storici<br />

Partendo dagli odierni, talvolta violenti, contrasti visivi (propri della condizione post-industriale<br />

e post-moderna), l’analisi storico-paesistica deve proporre una efficace chiave di ‘lettura’ –<br />

come ad esempio quella geografica retrospettiva suggerita da Eugenio Turri nel 1994 e nel 1998<br />

– lungo uno svolgimento storico a ritroso, “cancellando via via, idealmente, tutto ciò che vi è<br />

stato aggiunto in anni recenti e poi, più indietro, negli anni passati”.<br />

In particolare, occorre preliminarmente “identificare sulla carta topografica – per i piccoli spazi<br />

va bene la Carta d’Italia 1:25.000 dell’IGM, oppure la relativa carta tecnica regionale – il territorio<br />

che ci interessa” e delimitare l’area e/o gli oggetti da considerare. “Per esempio distinguendo<br />

le case e le corti contadine dalle ville e dalle case padronali, le case d’abitazione recenti<br />

dai capannoni industriali, le case edificate secondo le epoche, periodizzando opportunamente<br />

la storia del territorio, cioè riconoscendo valore alle fasi più significative storicamente: gli<br />

ultimi decenni, il secolo scorso, il Settecento, il Quattrocento e il Cinquecento, l’età delle signorie,<br />

l’età comunale, il periodo romano e ancora a ritroso l’età preistorica che spesse volte ha dato<br />

un imprinting decisivo all’organizzazione territoriale. Per ognuna di queste epoche, che riflettono<br />

solitamente le tappe storiche più importanti della vita regionale o nazionale, potremo<br />

costruire una carta specifica, sulla quale riporteremo via via tutte le informazioni relative che<br />

riusciremo a mettere insieme” con l’indagine da condurre sia negli archivi e nelle biblioteche e<br />

sia direttamente sul terreno, con l’interrogare “i singoli attori e sapere come e in che misura<br />

38


sanno farsi spettatori, cioè come sentono e vedono il paesaggio nel quale recitano, quali sono<br />

per loro i luoghi che contano, quali memorie ritengono importanti, a quali topoi sono affettivamente<br />

legati” (Turri, 1998, pp. 182-184).<br />

Il percorso alternativo è, ovviamente, quello geostorico diacronico tradizionale che, in Italia,<br />

non può non prendere il via dai tempi della civilizzazione greco-etrusco-romana e arrivare<br />

all’attualità.<br />

In altri termini, all'interno della generale periodizzazione storica antica, medievale, moderna o<br />

contemporanea – con le organizzazioni soprattutto agrarie, ora peculiarmente o largamente individualistiche<br />

e di mercato governate dalle città, ora prettamente autarchiche come quelle incentrate<br />

sul potere feudale o su interessi comunitari e collettivi, con il libero-scambismo e le riforme<br />

borghesi dei tempi illuministici e risorgimentali, con la prima industrializzazione post-unitaria<br />

e le politiche dello Stato liberale, con il ventennio autarchico fascista, con la ricostruzione<br />

post-bellica, con la seconda e più incisiva e generale industrializzazione realizzatasi nel contesto<br />

del ‘miracolo economico’ e dell'integrazione europea –, si deve provvedere all'individuazione<br />

delle più brevi fasi temporali e dei momenti salienti e significativi dei radicali cambiamenti<br />

dell'organizzazione territoriale: ad esempio, con il mutare dei rapporti città-campagna e<br />

dei sistemi economici, con le bonifiche e le trasformazioni delle forme di utilizzazione del<br />

suolo, con l’espansione degli insediamenti industriali, con l’urbanizzazione e il gigantismo<br />

urbano, con la regionalizzazione turistica, con la spinta de-urbana e del decentramento produttivo<br />

e residenziale, con la ‘ricolonizzazione’ turistico-insediativa e agrituristica delle campagne<br />

e la valorizzazione dei beni ambientali.<br />

In altri termini, con le fasi di una evoluzione discontinua in cui anche le forme paesaggistiche<br />

hanno assunto aspetti via via diversi, non sempre meritevoli di particolare apprezzamento da<br />

parte della nostra cultura, ma che è comunque indispensabile conoscere e considerare.<br />

Ogni ricerca così impostata deve quindi mettere a fuoco anche e soprattutto gli ‘iconemi’ o unità<br />

di percezione del paesaggio, con i loro valori simbolici, sui quali ciascuno – in base alla propria<br />

cultura – costruisce l’immagine di un paese e dei luoghi, comunicando con i medesimi. Ogni<br />

iconema “è un pertugio, una finestra attraverso la quale ci poniamo in relazione con il territorio<br />

inteso come spazio organizzato, come sistema concreto”: è il caso dei valori locali tradizionali<br />

(chiesa, paese o piazza o corte, strada, ecc.), ma anche di non poche delle immagini spesso<br />

stridenti del mutamento contemporaneo che sono ormai stabilmente fissate nello ‘spazio vissuto’<br />

delle popolazioni (Turri, 1990, p. 102 bis).<br />

Dall’epoca antica, e specialmente dalle civiltà greca, etrusca e romana, “ci è pervenuta un’eredità<br />

vastissima formata non soltanto dagli insediamenti diruti di numerosissime aree archeologiche,<br />

ma da città vive, in cui l’impronta del passato si tramanda nelle forme planimetriche e in<br />

qualche costruzione tuttora utilizzata, esempio illustre il Pantheon nella stessa Roma”, e tanti<br />

altri edifici specialmente religiosi che, almeno in parte (come la cattedrale di Siracusa), si sorreggono<br />

su resti e portano incorporate strutture murarie di due o tre millenni or sono. Basiliche,<br />

templi e santuari pagani ebbero una continuità funzionale nella romanità cristiana, con gli adattamenti<br />

architettonici dettati anche da “componenti rituali” (come la rotonda mutuata dagli<br />

impianti imperiali dei mausolei e ninfei, seppure poi ridotta al mezzo cerchio delle absidi)<br />

(Fanelli, 1979, p. 66).<br />

Il caso già citato della cattedrale di Siracusa non è da ritenere isolato ma, anzi, piuttosto diffuso<br />

e individuabile in tanti altri monumenti specialmente dell’Italia centro-meridionale: “tempio<br />

ellenico, basilica romana, chiesa cristiana, moschea musulmana, cattedrale cattolica, dove in<br />

due millenni e mezzo sulle stesse pietre si sono adorate divinità e celebrati culti di religioni<br />

tanto diverse: un simbolo, forse, tra i più eloquenti di ciò che la storia vuol dire nel paesaggio<br />

39


italiano” (Galasso, 2000, p. 39).<br />

Per la preistoria, è invece unico in Italia – pur in un contesto assai ricco di resti come dolmen e<br />

altre strutture megalitiche, castellieri, insediamenti su palafitte, ecc. – il paesaggio sardo della<br />

Valle dei Nuraghi, con le “singolarissime e a volte grandiose costruzioni, arroccate su crinali e<br />

ciglioni” a strapiombo sul mare, che “affollano un territorio ancora dominato dalle tradizionali<br />

attività agricole e pastorali”.<br />

Per l’età romana, poi, disponiamo di “estesissimi graticolati della centuriazione delle pianure,<br />

di resti delle raffinate ville, delle vie consolari – con il corredo dei ponti, delle altre opere d’arte<br />

e degli insediamenti a quelle correlati – per lunghissimi tratti funzionanti, degli acquedotti,<br />

di cui qualcuno in servizio, dei ruderi degli impianti portuari. Tutto un immenso tesoro di concrete<br />

testimonianze” (Piccardi, 1986, pp. 106-108), di cui è bene avere consapevolezza, imparando<br />

cioè a conoscere “di abitare talvolta entro la scacchiera d’una città romana, come a<br />

Piacenza, ne seguiamo addirittura il contorno delle mura, come ad Alife, o viviamo entro abitazioni<br />

su una fronte di strada ricurva, perché ricavate negli alveoli di un grosso edificio antico,<br />

come nell’anfiteatro di Lucca, o più semplicemente fruiamo ancora di certi servizi, come l’acquedotto<br />

romano del Setta a Bologna, lo scolo del sistema di cloache del centro romano di<br />

Pavia. Gli esempi sono infiniti” (Susini, 1978, p. 26; v. pure Moscati, 1984).<br />

Tra queste testimonianze, spicca per l’età antica “la predilezione per l’organizzazione del territorio<br />

su reti quadrate”. In effetti, la limitatio romana “ha lasciato tante tracce sul territorio e in<br />

particolare su quello padano, ha infatti basi culturali mitico-religiose e misteriche molto evidenti<br />

e insieme rivela una indubbia funzionalità. Tra le basi culturali c’è l’affermazione sintetica<br />

di Platone che (Timeo, XXI 55e) ritiene il tetragono equilatero, cioè il quadrato, la forma da<br />

attribuire alla terra come la più ‘stabile’ per mantenerne la ‘verosimiglianza’. Quanto alla funzionalità<br />

del quadrato, essa risiede” nella considerazione della massima area possibile tra tutte<br />

le figure geometriche di pari lunghezza di perimetro (cerchio escluso) e nell’apertura “su direttrici<br />

lineari che si prolungano indefinitivamente uscendo dai suoi angoli. Quindi la ‘forma quadrata’<br />

permette una organizzazione del territorio che, a parità di altre condizioni, è più omogenea<br />

e priva di punti di congestione” (Ugolini, 1985, p. 162).<br />

Notevole importanza è rivestita pure dai santuari antichi extraurbani: “anzitutto come luogo di<br />

rapporto con gli indigeni, secondo un modello conosciuto in tutta l’Italia antica, anche nell’età<br />

romana (è per esempio questo il caso dei santuari di Fortuna Primigenia a Palestrina ove nel<br />

XVII secolo venne costruito il palazzo Barberini, o di Giove posti ai limiti delle aree popolate<br />

dai coloni romani, come a Monte Rinaldo nella piccola valle dell’Aso e a Bagnacavallo nella<br />

pianura romagnola). Talvolta si è ritenuto che tali santuari, specialmente se collocati su promontori<br />

(quelli di Era Lacinia a Crotone e di Erice) o alla foce di fiumi (quello del Sele presso<br />

Pestum/Posidonia), abbiano costituito la prima rete di approdi dei più antichi navigatori, poi<br />

collegati alle città da vie sacre percorse da processioni periodiche” (Susini, 1978, p. 51).<br />

Molti santuari anche rupestri furono infatti costruiti da greci, etruschi e romani, con dedica specialmente<br />

alle divinità acquatiche, cioè con riferimento al culto delle acque sia sorgive e fluviali<br />

e sia termali, e quindi con ubicazione in luoghi particolarmente adatti all’espressione di tali<br />

riti, comportanti l’elargizione, da parte dei fedeli, di quei doni votivi che hanno arricchito le raccolte<br />

archeologiche italiane pubbliche e private. Addirittura, è stato ipotizzato che anche le diffuse<br />

denominazioni di “Acqua Santa” o “Bagno Santo” (per esempio, presenti in Toscana a<br />

Chianciano, Bagno Vignoni, Saturnia, Sarteano, ecc.) siano da collegarsi con i culti antichi e –<br />

con continuità da quelli pagani a quelli cristiani – pure con i riti tardo-antichi o alto-medievali<br />

di sacralizzazione delle acque, così come i nomi di “Madonna al Bagno”, “Fonte Benedetta” e<br />

“Fonte Buona o “Acqua Buona” richiamerebbero, con maggiore sicurezza, la percezione e considerazione<br />

miracolosa che ebbe di certe acque la religiosità cristiana (a Pergo in Val di Chiana,<br />

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a Siena, nell’Amiata, in Mugello, a Talla e Camaldoli in Casentino, all’Impruneta e altrove). E,<br />

ancora, si è ritenuto non casuale che non pochi santuari e abbazie siano stati fondati nel<br />

Medioevo – con tanto di ospizi per i pellegrini – nei pressi di sorgenti considerate “sante”: è il<br />

caso, tra gli altri, del santuario della Madonna dell’Impruneta, delle abbazie di San Salvatore a<br />

Capo d’Arno, di San Salvatore sul Monte Amiata, di San Salvatore della Berardenga, di San<br />

Salvatore a Taona nell’Appennino Pistoiese, della Santissima Trinità dell’Alpi a Talla, della<br />

Madonna dei Tre Fiumi di Ronta, dello stesso monastero di Camaldoli (Aebischer, 1932, pp.<br />

139-140).<br />

Tra tardo-antico ed età moderna – se si fa eccezione per l’Italia meridionale ove, fino a tutto<br />

l’alto Medioevo e talvolta anche assai oltre, gli influssi bizantini sono ben percettibili nelle<br />

componenti architettoniche e artistiche di molteplici chiese e monasteri (a Rossano, Stilo,<br />

Tridetti, ecc.), e ove continuava a perpetuarsi una corrente anacoretica cui si devono ascrivere<br />

le numerose grotte eremitiche di Matera e del Salento – si collocano poi quelle innumerevoli<br />

testimonianze di fede, di cultura e di civiltà del monachesimo occidentale che fu inizialmente<br />

(dal VI al XII secolo) essenzialmente benedettino, seppure rinnovato (dai secoli XI-XII) da cluniacensi,<br />

cistercensi e vallombrosani, e infine (dal XIII secolo) dagli ordini mendicanti tardomedievali<br />

e in special modo dai francescani e domenicani, o dagli ordini di origini eremitiche<br />

dei carmelitani e agostiniani.<br />

L’architettura delle sedi monastiche – fondate non solo dai sovrani, ma anche dalle grandi famiglie<br />

dell’aristocrazia prima feudale e poi anche imborghesita, come vere e proprie strutture “di<br />

famiglia” (Ascheri, 2001, p. 90) – rispecchia in modo abbastanza preciso la spiritualità propria<br />

di ogni comunità religiosa, e quindi le regole imprimono agli edifici i loro caratteri fondamentali:<br />

in effetti, i monasteri e le abbazie che fanno riferimento alla vigorosa famiglia benedettina<br />

– con l’essenzialità dei corpi di fabbrica (chiesa, dormitori/refettorio/cucina, magazzini per le<br />

provviste), che si articolano secondo una distribuzione, che si ripete nei secoli, intorno al chiostro,<br />

pur con l’arricchimento, ritenuto da molti ‘lussuoso’, prodotto dai cluniacensi, e dato dall’aggiunta<br />

di ampie attrezzature di foresteria per accogliere i viandanti e di ambulacri semi-anulari<br />

intorno al coro, concessioni poi eliminate o fortemente ridotte dal più rude rigorismo cistercense<br />

– si riconoscono agevolmente dalle forme planimetriche e architettoniche dei conventi<br />

francescani e domenicani (anch’essi conformati in genere allo spirito di austera povertà dei<br />

chiostri e delle celle); come pure, e a maggior ragione, dagli insediamenti realizzati dalle congregazioni<br />

cinquecentesche come i gesuiti, i teatini, i cappuccini, i barnabiti, i serviti, ecc. Di<br />

certo, a partire dal XVI secolo viene a mancare la chiarezza di programmi edilizi e di idee estetiche<br />

che ebbe a distinguere ciascuno degli ordini monastici medievali, mentre ora “sopravviene<br />

una certa uniformità di tipi, frutto di princìpi generali comuni” (Fallani e Zander, 1974).<br />

Le età ‘dell’oro’ della costruzione degli insediamenti religiosi (e non solo religiosi), con valori<br />

di arte e architettura, sono comunque quelle feudale e comunale, con la loro cultura romanica<br />

che – pur conservando una sua unità di fondo – “si sviluppa a livelli diversi, ora distinguendo<br />

ed ora intrecciando l’elemento aulico e il popolare”. Ma – anche a tal riguardo – “il panorama<br />

italiano è molto complesso: nella valle padana si riscontrano momenti più vicini alle grandi correnti<br />

del romanico internazionale […]; il Mezzogiorno e la Sicilia restano sostanzialmente<br />

estranei alla cultura occidentale, risolvendo ancora componenti bizantine e islamiche. Fra queste<br />

due situazioni, l’Italia centrale si pone come terra di confine dell’Occidente, dove vengono<br />

filtrate e mediate le diverse influenze orientali e mediterranee, pervenendo peraltro a una cultura<br />

altamente originale a Firenze e Pisa”, avvertibile in tante cattedrali, pievi, chiese, abbazie<br />

e conventi, che divengono i veri e propri fulcri della vita non solo spirituale ma anche socioculturale.<br />

Tra i secoli XIII e XIV, poi, la rapida diffusione in Italia di molte decine di insediamenti mona-<br />

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stici cistercensi introduce le strutture della nuova trionfante cultura d’Oltralpe, il gotico, dal<br />

Piemonte alla Sicilia (ma soprattutto nel Centro-Nord), che finirà col contaminare tante costruzioni<br />

precedenti e sostituire lo stile romanico nelle nuove relizzazioni specialmente urbane<br />

(Fanelli, 1979, pp. 68 e 75).<br />

La città dell’alto Medioevo mostra caratteri peculiari che richiamano l’architettura delle ‘signorie<br />

di castello’. Infatti, l’edilizia, per mancanza di spazio e per ragioni difensive, si sviluppa in<br />

altezza in tessuti urbani esigui ma addensati, dando luogo alla tipologia delle torri isolate o<br />

riunite in un isolato-castellare controllato da una consorteria, come una sorta di unità autonoma<br />

nell’agglomerato urbano (Di Benedetto, 1979, pp. 134-135).<br />

Abbastanza analoghi risultano i connotati dello sviluppo urbanistico del Medioevo arabo, attivato<br />

cioè dai musulmani, di cui restano tracce concrete nel tessuto urbano e soprattutto nel tracciato<br />

viario di Palermo e delle altre città costiere che, nei secoli IX-XI, manifestarono una crescita<br />

rilevante, come Marsala, Mazzara del Vallo, Sciacca e Agrigento. “Sinuoso e irregolare<br />

perfino nelle principali vie di scorrimento; spesso quasi labirintico nella rete minore, dove ricorre<br />

spesso il vicolo cieco terminale su cui si appostano gli ingressi delle abitazioni del gruppo,<br />

strettamente unito da legami di sangue o di alleanza” (Sanfilippo, 1978, p. 71).<br />

All’interno delle città italiane, i governi comunali realizzarono – o contribuirono a realizzare –<br />

i simboli dei nuovi equilibri politici ed economici (i palazzi pubblici, le cattedrali, gli ospedali,<br />

gli oratori delle confraternite assistenziali, i mercati coperti e spesso con portici), previo diradamento<br />

del tessuto urbano alto-medievale o definitosi comunque subito dopo il Mille, anche<br />

con l’ingrandimento e l’abbellimento di vie e piazze. Del resto, soprattutto nei secoli XIII-XIV,<br />

“dappertutto è esplicito il richiamo continuo alla necessità di migliorare l’aspetto della città, di<br />

provvedere al suo ‘decoro’. Dalla semplice ricerca decorativa (pittorica, scultorea, in formelle<br />

di ceramica, ecc.) si passa ad interventi edilizi secondo una tipologia costante, portici, logge private<br />

e pubbliche, sedili, fontane e fonti coperte, ecc., per arrivare a interventi di ristrutturazione<br />

urbana: recupero dell’andamento rettilineo delle strade o, almeno, allineamento parziale<br />

della case sul filo stradale; creazione di nuovi spazi pubblici e recupero delle usurpazioni;<br />

nuove costruzioni o accorpamenti e ristrutturazione di vecchi fabbricati. Ma è necessario sottolineare<br />

che tutto questo avviene in base a una precisa ideologia urbana” (Sanfilippo, 1978, pp.<br />

81 e 84), ed in base anche ad una consapevole operazione d’arredo cittadino che privilegia la<br />

strada, con i ponti sui corsi d’acqua e canali (anche di grande impegno ingegneristico, ora<br />

costruiti in pietra e/o laterizio, spesso con speciale attenzione agli elementi architettonici e ornamentali,<br />

compresi tabernacoli e cappelle votive), e soprattutto la piazza: vale a dire quelle componenti<br />

che “sono luoghi ricchi di funzioni oltreché di sempre diverse qualificazioni formali.<br />

La strada è continuazione della strada e della bottega; la piazza luogo di scambio e d’incontro,<br />

nonché scena delle attività comunitarie e pubbliche; la fontana pubblica, il sagrato, il mercato<br />

luoghi di incontro giornaliero. Botteghe e laboratori della stessa merce e dello stesso genere tendono<br />

a raggrupparsi nella stessa via e nello stesso settore urbano, che prende spesso il nome<br />

appunto dal genere di commercio o di attività che vi si svolgono”.<br />

In effetti, già nel 1290, a Firenze – così come in altre città – era ritenuto normale che le vie fossero<br />

lastricate. “Le tecniche usate sono diverse anche nella stessa città e talvolta nella stessa via:<br />

a Genova si usa ammattonare la fascia centrale della carreggiata e lastricare le laterali; il selciato<br />

si trova a Venezia e a Bologna insieme all’ammattonato; l’acciottolato prevale nell’area<br />

umbra e nel Mezzogiorno”.<br />

Come già enunciato, “per conferire decoro alla strada si interviene anche sulle fronti edificate.<br />

Le facciate di Treviso – ma anche di Vicenza e Venezia e di altri centri settentrionali – in questo<br />

periodo sono interamente coperte da motivi geometrici affrescati a colori vivaci […]. E’ questo<br />

il momento in cui nelle città settentrionali si generalizzano i portici lungo le vie principali<br />

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[…]. Elementi notevoli dell’arredo stradale sono logge e fontane. Le prime vengono aperte non soltanto<br />

dal comune e dalle corporazioni maggiori (logge pubbliche), ma anche da potenti famiglie, le<br />

quali in genere sacrificano a ragioni di prestigio e al pubblico vantaggio un settore a terreno delle<br />

loro case (alla fine del Medioevo si contano nella sola Firenze una trentina di logge private).<br />

La riattivazione degli acquedotti (Genova, notizie dal 1232; Sulmona, 1256; Napoli, 1268; ecc.)<br />

o il più razionale sfruttamento delle sorgenti locali consentono quasi dappertutto di sostituire ai<br />

pozzi le fontane, che ridivengono una presenza costante sulla scena stradale” un po’ di tutte le<br />

città grandi e piccole, non di rado con ricerca di elementi decorativi e monumentale (Viterbo,<br />

Perugia, Verona, Siena, Volterra, San Gimignano, ecc.).<br />

“Ulteriore elemento dell’arredo sono i tabernacoli, straordinariamente diffusi ovunque; i tipi più<br />

comuni sono la nicchia, ricavata nella fronte di una casa, e l’edicola, posta in genere ad un cantonale,<br />

ma non sono rari i casi di vere e proprie cappelle aperte sulle due facce di una angolata”<br />

(Di Benedetto, 1979, pp. 136-138).<br />

Le città tardo-medievali sono articolate in ‘quartieri’, ciascuno con un suo centro, una sua strada<br />

principale con le botteghe, una sua chiesa. In tale tradizionale policentrismo – che si sviluppa<br />

soprattutto con l’insediamento degli ordini religiosi secondo un preciso programma, vale a<br />

dire con la costruzione di chiese nei diversi settori dell’abitato, circondate da grandi piazze<br />

necessarie alla predicazione – le abitazioni, comunque, all’inizio presentano sostanzialmente<br />

un’identica tipologia, che è quella della casa a schiera unifamiliare, “insieme luogo di residenza<br />

e luogo di lavoro con la bottega o il laboratorio al pianterreno”: gli edifici tendono a prolungarsi<br />

sulla strada o sulla piazza “con le tende e anche con le mostre in muratura o di legno per<br />

esporre le merci”. L’unica eccezione è ovviamente rappresentata dalla selva delle arcigne torri<br />

nobiliari – erette con geniali sistemi costruttivi soprattutto nei secoli XI-XII – per chiare finalità<br />

di controllo e difesa e dominanti un po’ tutto il paesaggio urbano almeno fino al XIII o XIV<br />

secolo. Di tali possenti simboli del potere restano “ancora splendidi esempi” soprattutto in<br />

Toscana, a partire da Firenze, Siena, Lucca e San Gimignano (Fanelli, 1979, pp. 73-75).<br />

La cura speciale dedicata all’edificazione della cattedrale romanica, o comunque delle chiese<br />

principali, si spiega col fatto che “essa non viene considerata edificio tra altri edifici, funzione<br />

tra altre funzioni (come il monumento nell’antichità) e neppure il più prezioso degli edifici, funzione<br />

privilegiata tra le funzioni, espressione della supremazia feudale (la corte, il castello), ma<br />

è sintesi, articolazione, concentrazione di valori, di simboli, di memorie […]. Il monumento è<br />

simbolo e momento di convergenza di forze che in comunità ricercano il progresso, l’invenzione,<br />

attraverso la nuova intelligenza del lavoro”.<br />

Ovviamente, il palazzo pubblico rappresenta il pendent di quello religioso, contribuendo ad<br />

articolare la città in due poli che sono espressione degli altrettanti poteri, e sviluppando “un originale<br />

rapporto palazzo-piazza, paragonabile a quello piazza-chiesa”. Ancora più che per i<br />

monumenti religiosi, “la tipologia del palazzo pubblico è diversa da area ad area, in rapporto<br />

alle differenti situazioni sociali”, oltre che culturali. Nelle città padane (Milano, Pavia, Brescia,<br />

Bergamo, Piacenza, Parma, Modena, Bologna, ecc.), dove la rivalità fra nobili e borghesi risulta<br />

spesso presto composta, si diffonde “la soluzione loggiata, cioè un’architettura aperta, rifacendosi<br />

alle strade porticate. Nell’Italia centrale, invece – dove le lotte ‘di fazione’ continuano<br />

a caratterizzare la vita politico-sociale urbana fino al Rinascimento –, si hanno soluzioni tipologiche<br />

anche differenziate ma in generale si può dire che la sede del potere cittadino (palazzi<br />

del comune, dei priori, del podestà) costituisce un blocco plastico chiuso turrito che deriva dal<br />

castello munito”. Spesso (come avviene per il fiorentino palazzo Vecchio nei riguardi di quelli<br />

di Volterra, Montepulciano, Scarperia, ecc.), il monumento pubblico finisce col costituire “un<br />

prototipo per i palazzi comunali delle città” minori via via sottomesse (Fanelli, 1979, pp. 68 e<br />

70-72).<br />

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Le città nuove e le nuove aree urbane edificate per lottizzazioni dovute all’iniziativa di conventi,<br />

confraternite e capitoli religiosi o di grandi famiglie e non di rado degli stessi governi<br />

comunali, nei secoli successivi al Mille, si caratterizzano quasi sempre – lo si ripete – per un<br />

modello di residenza che era destinato a riprodursi per secoli, fino ai tempi moderni, come ad<br />

esempio a Bologna: la casa a schiera, edificio a due-tre e anche più piani, in origine unifamiliare,<br />

costruito “su lotti a fronte stretto che raggiungono a volte una notevole profondità. Spesso<br />

al pianoterra c’è una bottega, un laboratorio artigiano [con] una grande apertura sul fronte,<br />

affiancata da un ingresso che conduce alla scala e, in certi esempi, anche ad un giardino interno<br />

all’isolato”. Questi edifici – accostati l’uno all’altro in lunghi isolati – ancora oggi si riconoscono<br />

agevolmente dalla strada per la loro semplicità e “per il taglio stretto delle facciate, in<br />

genere con una o due finestre per piano, e per il profilo ineguale delle coperture”. Anche le città<br />

ricostruite dal governo borbonico in Calabria, su schemi regolari, dopo il devastante terremoto<br />

del 1783 (Rosarno, Scilla, Laureana di Borrello, Cittanova e Polistena), “mostrano estese applicazioni<br />

delle case a schiera monovano accostate sul retro” (Di Cristina e Donatini, 1979, pp.<br />

152-153). Dalla casa a schiera “si sviluppa anche la casa del ricco mercante medievale, che conserva<br />

il fronte stretto ma ha spesso un’elegante facciata di mattoni o di pietra a bozze lisce con<br />

un disegno che sottolinea gli stipiti e gli archi delle aperture. La casa mercantile è organizzata<br />

in genere su tre livelli, con la bottega al pianoterra, al primo piano la camera da letto dei padroni,<br />

utilizzata anche per ricevere gli ospiti, e la cucina e gli altri ambienti per la famiglia all’ultimo.<br />

E’ l’abitazione di una famiglia estesa che, oltre ai membri consanguinei, accoglie gli<br />

apprendisti e i dipendenti del capofamiglia”. Col tempo, nei secoli XIII e XIV, la casa del mercante<br />

tende a qualificarsi maggiormente dal punto di vista architettonico, specialmente negli<br />

ambienti “di rappresentanza e per le attività economiche” disposti verso la strada, e nella facciata:<br />

questa “è in muratura a vista e spesso al pianoterra, più alto degli altri, presenta un trattamento<br />

più accurato, con pietre ben connesse e rifinite, per il maggior rilievo della visuale. E’<br />

frequente l’uso di sovrastrutture in legno, palchetti e tettoie, sorretti da mensole inserite nelle<br />

apposite buche pontaie” (Di Cristina e Donatini, 1979, pp. 155-156).<br />

Più in generale, dal lungo e differenziato Medioevo, “oltre ai centri [della spiritualità religiosa<br />

monastica e secolare, ai castelli e ai palazzi cittadini, sia pubblici che dei mercanti], ci sono arrivati<br />

molti impianti urbani caratterizzati [ora] dalla tortuosità e dall’angustia degli spazi viari” e<br />

ora dalla linearità a scacchiera delle ‘terre nuove’, “mentre all’espressione urbanistica rinascimentale”<br />

sono dovute – con le tante città di fondazione dalle razionali e geometriche conformazioni<br />

– alcune “celebri ‘addizioni’ o nuovi quartieri dotati di vie larghe, piane, a geometria<br />

regolare che sembrano aprire all’uomo, finalmente affrancato, un universo più ampio secondo<br />

gli ideali dell’Umanesimo” (Piccardi, 1986, pp. 114-115).<br />

Tra Tre e Quattrocento, e quindi tra Medioevo e Rinascimento, inizia la stagione – nel contesto<br />

di una fervida ripresa dell’attività edilizia privata dopo le gravi crisi trecentesche – dei massicci<br />

ma distesi e simmetrici palazzi privati urbani (inizialmente di proprietà dei mercanti e poi<br />

degli esponenti dell’aristocrazia e dell’alta burocrazia statale e pontificia), che segnano una<br />

svolta rispetto alle alte ma strette case unifamiliari a schiera, con la bottega al terreno e l’abitazione<br />

sovrapposta.<br />

A partire da Firenze, “attraverso l’opera di Brunelleschi, Michelozzo, Alberti e Benedetto da<br />

Maiano, il palazzo italiano trova la sua codificazione tipologica ed espressiva. Rispetto all’edilizia<br />

residenziale delle classi medie ed anche agli esempi trecenteschi, il palazzo della nuova<br />

aristocrazia borghese si distingue per le nuove e imponenti dimensioni, per il nuovo rapporto<br />

col tessuto urbano e per la separazione delle funzioni tradizionalmente integrate nella casa<br />

medievale” (Di Cristina e Donatini, 1979, p. 156). Ora “la tipologia residenziale della borghesia<br />

mercantile assume un’importanza predominante. Le case di dimensioni nuove, inusitate, che<br />

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i patrizi costruiscono – possibilmente isolate in uno splendido e sdegnoso distacco – possono<br />

meglio affermare il prestigio e il nuovo ruolo politico sociale della classe che le realizza (governo<br />

oligarchico) e della singola famiglia nelle aree più libere” (in genere relativamente periferiche)<br />

del tessuto urbano o in luoghi centrali resi liberi mediante l’abbattimento delle case medievali<br />

a schiera ivi presenti. Così, a Firenze, “i Medici, i Rucellai ricevono i clienti nella loggia<br />

connessa alla nuova casa, ma il centro dell’attività economica familiare (banca, ecc.) rimane nel<br />

cuore della città vecchia. Per la prima volta residenza e luogo di lavoro si separano”.<br />

Uno degli esempi più eccelsi dell’architettura di palazzo borghese quattrocentesca, simbolo del<br />

potere e monumento urbano, è costituito dal fiorentino palazzo Pitti, realizzato dal grande architetto<br />

Filippo Brunelleschi come blocco autonomo di forma regolare che tende a costituirsi in<br />

isolato, previo abbattimento di case sulla via Romana: “viene creata la grande piazza, la prima<br />

davanti a un palazzo privato, e forse anche il primo esempio di piazza rinascimentale chiusa su<br />

tre lati. La facciata del palazzo, sul pendio di Boboli, alto, rispetto alla strada, raggiunge la stessa<br />

altezza di palazzo Vecchio” (Fanelli, 1979, pp. 78 e 82).<br />

La facciata del palazzo diventa il principale elemento di qualificazione formale e viene disegnata<br />

“ricorrendo al principio classico della sovrapposizione degli ordini oppure scalando ai<br />

vari piani dal bugnato rustico a quello liscio e organizzando i pieni e i vuoti secondo rapporti<br />

proporzionali. I singoli elementi (colonne, lesene, archi, porte, finestre) tendono ad assumere<br />

una ‘forma tipica’, facilmente riconoscibile, desunta dai modelli dell’antichità romana” (Di<br />

Cristina e Donatini, 1979, p. 158).<br />

Significativi risultano pure certi caratteri urbanistici prettamente regionali, che si perpetuano<br />

come costanti tra tempi medievali e rinascimentali – ma con riproposizioni moderne e contemporanee<br />

– e consistono nella diffusa presenza dei portici e delle vie porticate nelle città padane,<br />

a partire da Bologna (Caldo e Guarrasi, 1994, pp. 61-112).<br />

Dai tempi comunali, e soprattutto “dalla fine del Medioevo”, viene poi al Rinascimento e all’età<br />

moderna “un segno che caratterizza la campagna di una parte dell’Italia centro-settentrionale<br />

e precisamente la disseminazione di case coloniche sparse – che, ora, cominciano a distinguersi<br />

dalle piccole e modeste casette medievali, non di rado dalla struttura monocellulare o<br />

comunque elementare realizzata con materiali poveri (terra battuta, legno, paglia). Le nuove<br />

dimore assumono caratteri di fabbricati in muratura di maggiore conformazione volumetrica e<br />

dalle architetture le più diverse, da quelle ‘aperte’ con la scala esterna e non di rado la loggia<br />

per l’accesso alla residenza contadina ricavata al piano superiore, a quelle ‘chiuse’ con disposizione<br />

dei fabbricati intorno ad una corte che si presenta come una sorta di recinto fortificato –,<br />

dovuta essenzialmente all’appoderamento mezzadrile affermatosi in quell’epoca” (Piccardi,<br />

1986, pp. 114-115; v. pure Comba, 1985, pp. 370-372).<br />

E’ significativo riscontrare – all’interno dello spazio che, in una stessa fase cronologica, venne<br />

improntato dallo stesso sistema mezzadrile – una notevole varietà di forme paesistiche che<br />

devono essere correlate ad altrettante varietà culturali. In proposito, basti indicare che i diversi<br />

schemi mentali che stanno alla base della genesi del paesaggio agrario della mezzadria risaltano<br />

nei due opposti versanti dell’Appennino Tosco-Emiliano: in sintesi, “il paesaggio toscano è<br />

in genere molto più ‘estetizzato’ di quello emiliano. Un elemento di questa estetizzazione – il<br />

cipresso usato negli accessi delle ville, lungo le strade, ecc., e non solo nei cimiteri – si trova<br />

anche nei comuni romagnoli già facenti parte della Toscana (zona di Rocca S. Casciano): si tratta<br />

evidentemente di un portato culturale” (Bortolotti, 1976, pp. 201-202).<br />

Nello stesso tempo, le campagne padane organizzate inizialmente dalla mezzadria e poi dalla<br />

grande o media azienda con salariati – ma anche gli stessi borghi rurali creati a servizio dell’agricoltura<br />

–, cominciano ad esprimere il modello della casa ‘a corte’, o ‘cascina’, che sembra<br />

derivare “dalla domus romana, attraverso un processo di continuità della storia civile e urbana<br />

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[…]. Negli esempi più antichi la parte edificata è opposta o perpendicolare alla strada, sulla<br />

quale non ha aperture, ed è in comunicazione con la corte tramite un portico sormontato da una<br />

loggia, nella quale si trova la scala […]. Il pianoterra di queste case era adibito a deposito, ricovero<br />

degli animali e ambiente di lavoro; il primo piano serviva per l’abitazione vera e propria e<br />

il secondo, più basso degli altri, era utilizzato come granaio […]. L’eredità della domus è presente,<br />

oltre che nell’impianto a corte, nella chiusura verso l’esterno e nel sistema portico-loggia-corte<br />

che svolge un ruolo analogo all’atrio e al peristilio della casa romana” (Di Cristina e<br />

Donatini, 1979, p. 156).<br />

La ‘casa a corte’ non è espressione solo della grande azienda capitalistica padana e non si presenta<br />

solo con configurazione ‘chiusa’, soprattutto nelle aree di bonifica più recente. Infatti,<br />

essa si ritrova pure in aree organizzate con la piccola azienda diretto-coltivatrice in proprietà o<br />

in affitto ed enfiteusi o a mezzadria (come nell’alta pianura padana tra il Canavese e l’arco<br />

morenico gardesano, nella pianura friulana e nella piana di Lucca, dove tali aggregati sono od<br />

erano costituiti da varie dimore monofamiliari), oltre che in aree meridionali incentrate su grandi<br />

imprese cerealicolo-pastorali estensive (come nella Terra di Lavoro e negli altopiani della<br />

Sicilia orientale) (Gambi, 1964).<br />

La varietà tipologica straordinaria delle case contadine e dei centri aziendali tradizionali che<br />

sono pervenuti all’attualità riflette non solo i modelli culturali generali, con le specificità stilistiche<br />

e ornamentali o le tradizioni popolari locali dei diversi periodi nel lungo periodo storico<br />

che va dal Medioevo (essenzialmente dal XII secolo) all’età contemporanea (Comba, 1985), ma<br />

esprime anche i diversi rapporti di lavoro, i diversi contesti economici e le diverse funzioni<br />

sociali riferibili alle strutture rurali rappresentate.<br />

Questo intreccio fra i caratteri culturali, da una parte, e le organizzazioni socio-economiche e<br />

produttive, dall’altra, è sempre identificabile – pur tenendo conto dei ‘condizionamenti’ e degli<br />

‘adattamenti’ ai connotati ambientali dei luoghi (clima, rilievo, disponibilità di materiali da<br />

costruzione) – in primo luogo nella gamma assai articolata delle case sparse della mezzadria,<br />

ma anche in quelle – vuoi isolate e vuoi riunite in piccoli agglomerati e in veri e propri villaggi<br />

– della piccola proprietà coltivatrice, nate ‘spontaneamente’ (nella montagna alpina e in quella<br />

appenninica, nell’alta pianura padana e nelle colline che vi digradano dagli anfiteatri montani,<br />

nei ‘giardini’ meridionali, nello spazio agro-pastorale sardo, nei lembi dell’orticoltura-floricoltura<br />

e del vivaismo che punteggiano alcune aree irrigue del Centro-Nord); oppure create in<br />

tante aree pianeggianti e collinari del paese dall’azione pianificata delle bonifiche o delle riforme<br />

agrarie dei tempi contemporanei.<br />

Come ciascuno sa, la più grande azione pianificata dello spazio agrario – dopo quella romana<br />

– è stata prodotta dal governo italiano nel 1950 con l’assegnazione di terre ad oltre 100.000 coltivatori<br />

diretti e con la costruzione di quasi 50.000 casette rurali sparse ad uno o due piani che<br />

(che si appoggiavano ovunque a qualche borgo di servizio, ma si aggregavano in qualche decina<br />

di borgate rurali in Sicilia e in Sardegna) rispondono a pochi modelli standardizzati di estrema<br />

semplicità costruttiva e funzionale e di grande economicità. Assai meno conosciute sono<br />

invece quelle poche esperienze di colonizzazione prodotte dai governi pre-unitari (raramente<br />

anche da grandi proprietari privati come Alvise Mocenigo che nel 1790 creò Alvisopoli nel<br />

Veneto e il marchese Nunziante che nel 1823 fondò San Ferdinando nell’agro di Rosarno in<br />

Calabria) (Barberis, 1999, pp. 304 e 309), nei secoli XVIII-XIX, a coronamento dei loro interventi<br />

di bonifica: è il caso dei cinque villaggi di Orta, Ordona, Stornara, Stornarella e Carapelle<br />

edificati dai Borboni nella campagna di Foggia negli anni ’70 del XVIII secolo, con tanto di<br />

concessione di lotti di terra ai nuovi abitanti, per popolare un latifondo gesuitico espropriato, e<br />

del villaggio di San Ferdinando di Puglia edificato a sud di Manfredonia da Ferdinando IV di<br />

Borbone nella bonifica Trinitapoli e delle saline di Barletta (oggi Margherita di Savoia)<br />

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(Barberis, 1999, pp. 304 e 309); oppure delle borgate maremmane (Vada, Cecina e Follonica)<br />

fondate, con le stesse modalità e finalità, negli anni 30 del XIX secolo, da Leopoldo II di Lorena<br />

(Barberis, 1999, pp. 42 e 144; Barsanti e Rombai, 1986).<br />

Ugualmente differenziata risulta la casistica degli spesso ragguardevoli centri direzionali delle<br />

fattorie appoderate a mezzadria (ville-fattorie), delle cascine o corti padane, anch’esse spesso<br />

notevoli fulcri di medie e grandi imprese capitalistiche derivate dalle solide, e non di rado fortificate,<br />

grance cistercensi dei secoli XII-XIII (Comba, 1985, pp. 372-377), e dei complessi edilizi<br />

– di solito dalle forme massicce e non di rado fortificate, talora dominate (come nella pianura<br />

jonico-metapontina) dal palazzotto baronale – che sono correlati al latifondo tosco-laziale<br />

e meridionale (tenute, casali e masserie, non di rado derivati da villaggetti agricoli), e persino<br />

delle elementari dimore soprattutto temporanee ed ausiliarie della piccola proprietà alpina<br />

(essenzialmente malghe e alpeggi per i pascoli d’altura) e di quella dell’Italia peninsulare e<br />

insulare (per finalità ora composite di tipo agro-silvo-pastorali, ora latamente agricole o solo<br />

viticole o solo pastorali, ecc.) (Comba, 1985, pp. 395-404).<br />

L’origine di tutti questi tipi di insediamento agricolo e rurale – così come delle dimore dal carattere<br />

sicuramente più omogeneo (di regola uniformi e misere casette a schiera di entità minima)<br />

dei villaggi e dei grossi agglomerati compatti dell’Italia meridionale, correlati al binomio del<br />

microfondo contadino e del latifondo signorile – è ugualmente da ricercare nei secoli XII-XIII,<br />

anche se gli elementi si diffonderanno soprattutto negli ultimi secoli del Medioevo e nei tempi<br />

moderni e contemporanei (Barbieri e Gambi, 1970; Gambi, 1976; Comba, 1985, pp. 389-395).<br />

Nei secoli XII-XIV, poi, gli spazi agricoli più prossimi alle città dell’Italia centro-settentrionale<br />

vengono punteggiati anche di ‘ville’, cioè di residenze di cittadini proprietari di quegli stessi<br />

beni agricoli affidati alla coltivazione di famiglie coloniche, che assumono forme mutuate<br />

dalle residenze incastellate o urbane delle famiglie feudali: la torre (detta anche, nella Toscana<br />

comunale, ‘torre appalagiata’) (Comba, 1985, pp. 377-382). Nel Rinascimento, e precisamente<br />

a partire dalla metà del XV secolo, tali ‘caseforti’ turrite, o turriformi case di campagna dei cittadini,<br />

vengono accorpate in nuove più ampie e comode residenze (i ‘palagi/palazzi’), che ora<br />

assumono (sia nei casi di ristrutturazione che, a maggior ragione, in quelli di nuova edificazione)<br />

caratteri volumetrici e architettonici a sviluppo orizzontale che si richiamano alla proporzione<br />

e alla simmetria dei modelli classici, secondo le teorizzazioni e i contributi concreti di<br />

grandi architetti umanisti come Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi, Michelozzo, ecc.<br />

Viene allora recuperata la concezione classica di luogo di delizie in una natura accogliente, lontano<br />

dagli affanni cittadini (Di Cristina e Donatini, 1979, p. 162).<br />

Ovviamente, tali residenze per la villeggiatura – che in molti casi tenderanno gradualmente a<br />

dotarsi pure degli ambienti necessari a svolgere un ruolo direzionale nel processo produttivo<br />

agricolo, a divenire cioè sedi ‘d‘agenzia’ o di fattoria, con le indispensabili strutture per l’amministrazione,<br />

la conservazione e la trasformazione dei generi agricoli e zootecnici – furono<br />

presto affiancate da elementi nuovi, come i viali alberati di accesso sempre più monumentali,<br />

le cappelle e gli oratori, i geometrici giardini ‘all’italiana’ (con l’immancabile corredo delle fontane<br />

e delle cascatelle o dei giochi d’acqua, delle statue e delle grotte artificiali, dei vialetti e dei<br />

belvederi, dei prati e delle siepi ornamentali realizzati con essenze sempreverdi, delle limonaie<br />

e dei ninfei) e i parchi alberati ove si voleva ricreare la natura selvaggia con l’impianto artificiale<br />

di boschetti di piante sempre per lo più sempreverdi (leccio, pino, cipresso, alloro e lauro,<br />

agrifoglio, ecc.), da utilizzare anche per la caccia agli uccelli, alle lepri, ai daini e ai cervi ivi<br />

allevati in speciali recinti.<br />

Il giardino diventa “un insieme di parti ben relazionate e proporzionate secondo un disegno<br />

generale; la prospettiva è lo strumento per unificare gli elementi e stabilirne l’ordine visuale e<br />

il rapporto con l’edificio. La geometria s’impone anche alla natura e così i dislivelli del terreno<br />

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diventano calcolate sequenze di piani, le acque scorrono in percorsi progettati, gli alberi si susseguono<br />

secondo trame precise e le siepi sono trattate come volumi. Il giardino continua ad<br />

essere un luogo circoscritto, spesso con muri, e il contatto uomo-natura, vagheggiato da poeti e<br />

umanisti, avviene in questo paesaggio creato artificialmente” (Di Cristina e Donatini, 1979, pp.<br />

165-167).<br />

Nel tardo Rinascimento e nei tempi del manierismo, poi, molti di questi contorni verdi artificiali<br />

(ad esempio, come quelli degli Orsini a Bomarzo, dei Lante a Bagnaia, degli Aldobrandini<br />

a Frascati, dei Farnese a Caprarola) si caricano “di significati allegorici, simbolici, esoterici,<br />

commemorativi”, sotto la spinta di “una intellettualistica concezione della natura come sede di<br />

tutti i mostri e di tutte le meraviglie, anche nelle sue possibilità metamorfiche” (Fanelli, 1979,<br />

p. 86).<br />

Contemporaneamente, anche la villa si evolve. Dal volume compatto, essenzialmente chiuso o<br />

con pochi raccordi con il giardino e l’esterno, si passa a modelli più aperti, con ampi loggiati al<br />

pianoterra e con gli edifici che si articolano con funzioni di paesaggio-teatro, cioè anche “per<br />

accogliere il paesaggio quale parte integrante dell’architettura. Scalee, esedre, ali porticate,<br />

avancorpi vengono impiegati come elementi di mediazione con la natura costruita” (Di Cristina<br />

e Donatini, 1979, p. 167).<br />

Nel Mezzogiorno e nelle isole “è difficile trovare un emblema egualmente diffuso e significativo<br />

del paesaggio agrario”, come risultano le ville nel Centro-Nord. Le ville meridionali e insulari<br />

“sanno sempre, assai più, del palazzo baronale, tranne casi e zone limitate (come quello<br />

delle ville vesuviane); e i giardini sanno sempre, a loro volta, assai più della macchia o del giardino<br />

mediterraneo. E la differenza tra campagne più ordinate, pulite, governate, sistemate, civilizzate<br />

dall'uomo e campagne più affidate alla logica della rendita che a quella del profitto, più<br />

a ciò che consente la natura che all’originale e creativa azione dell’uomo, più alla fatica che al<br />

lavoro” (Galasso, 2000, pp. 47-48).<br />

Nel Rinascimento, questo ambiente del latifondo – non solo meridionale ma anche laziale e<br />

toscano maremmano – viene ad esprimere, anziché il sistema delle ville signorili e borghesi,<br />

piccoli centri isolati di gestione dell’economia agro-pastorale estensiva (tenute, casali, masserie,<br />

che non di rado riutilizzano, in condizioni di assoluta appropriazione privata, antichi villaggi<br />

fortificati), che ora si collegano con il lontano Appennino mediante una rete di strade e<br />

tratturi ‘doganali’ obbligati di transumanza, via via organizzati con stazioni di sosta, vasche e<br />

fontane e punti di controllo fiscale laddove gli Stati (Senese, Pontificio e Aragonese poi<br />

Spagnolo) provvidero ad assoggettare i pascoli allo sfruttamento monopolistico a vantaggio dell’erario.<br />

Per effetto del concilio di Trento e dell’operato della Controriforma, i suburbi e soprattutto le<br />

campagne italiane vedono la fioritura di un gran numero di santuari mariani. “Per i pellegrinaggi,<br />

favoriti con ogni mezzo dalle autorità ecclesiastiche, si vengono ad organizzare degli itinerari<br />

devozionali, che in molti casi assumono una precisa configurazione fisica, dando luogo<br />

ad una categoria tipologica a sé, la via del santuario, definita in genere da forti pendenze (l’ascesa<br />

come purificazione), da portici capaci di garantire l’affluenza dei fedeli in ogni stagione,<br />

da cappelle, oratori, [tabernacoli e semplici croci], scalee, fontane, ecc. Gli esempi maggiori<br />

sono assai noti: il Sacro Monte di Varallo, la Madonna lauretana a Spoleto, il santuario di monte<br />

Berico a Vicenza, quello di Montevergine a Mercogliano, presso Avellino, quello francescano<br />

di Orta, S. Maria del Monte a Varese, la Madonna di Oropa, la Madonna di S. Luca a Bologna.<br />

Ma i casi analoghi e meno conosciuti sono decine”, a partire dalla medicea Madonna di<br />

Fontenuova da cui avrebbe avuto origine il centro di Monsummano Terme (Di Benedetto, 1979,<br />

p. 144).<br />

“Origini più o meno antiche – nel significato originario prevalentemente tardo-comunale e rina-<br />

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scimentale – hanno anche i paesaggi delle corti della Padania, dei casoni veneti, delle tenute<br />

della Campagna Romana, delle masserie del Mezzogiorno, degli agrumeti della Calabria e della<br />

Sicilia, delle malghe e casere alpine, dei pascoli dotati di capanne e di stazzi del Gran Sasso,<br />

della Maiella e del Gennargentu, e infine quelli più che bimillenari delle cave marittime delle<br />

Alpi Apuane” (Piccardi, 1986, pp. 114-115). E’ certo, comunque, che occorre attendere i secoli<br />

XVII-XVIII, perché “le aree extraurbane delle grandi città si arricchiscano [maggiormente]<br />

di strutture laiche (ville, giardini, parchi) o religiose (in particolare i già ricordati grandi santuari)<br />

e infrastrutture (percorsi attrezzati), venendo a costituire veri e propri sistemi, con componenti<br />

anche ‘turistiche’: i Castelli romani, la Collina torinese, i Navigli, la Brianza, i laghi<br />

lombardi, la valle del Brenta, la Riviera ligure, il golfo di Napoli, Bagheria”, le ville medicee e<br />

lucchesi, ecc. (Fanelli, 1979, p. 88).<br />

La ‘rivoluzione stradale’ dei secoli XVIII-XIX – che produsse la realizzazione, da parte dei vari<br />

stati preunitari, di innumerevoli vie rotabili interne e di attraversamento di Alpi e Appennini –<br />

si tradusse pure nell’inserimento nel paesaggio di tanti “elementi caratteristici, oltre ai cippi<br />

militari, agli indicatori, alle opere d’arte (ponti e gallerie), alle stazioni di posta per le diligenze<br />

e alle dogane fra i vari stati (che in genere sono passate in toponimo: Dogana Nuova o<br />

Vecchia, Doganaccia, La Gabellina, ecc.), quali i monumenti eretti a ricordo dell’immane sforzo<br />

finanziario e tecnologico occorso per la loro realizzazione. Ai capi di strada, sui valichi, nei<br />

punti più difficili da attraversare, quasi sempre si trova una lapide, un arco onorario, una piramide,<br />

un obelisco”, ciascuno dei quali – come l’inconfondibile piramide sormontata dalla sfera<br />

di fattura lorenese – risponde ad un modello culturale e ad un significato simbolico locale preciso<br />

e differenziato dagli altri (Di Benedetto, 1979, p. 149).<br />

Corre obbligo di ribadire la mai scontata considerazione che qualsiasi paesaggio italiano e qualsiasi<br />

insediamento umano o impianto produttivo del passato – a prescindere da ogni giudizio di<br />

ordine estetico, artistico, architettonico, scientifico-culturale – sono da ritenere ‘valori della storicità’,<br />

in quanto alimentati dalle forme più o meno antiche della cultura soprattutto locale, e<br />

specialmente dai richiami o allo spirito (o, meglio, all’ideale estetico) e al sacro, da intendere<br />

come valori etici generali e per così dire ‘universali’, oppure all’ideologia e al potere politico<br />

che, non di rado, s’intrecciano con il fattore economico, e che invece sono sempre da riferire a<br />

singoli ceti sociali (Bellezza, 1999; Mautone, 2001).<br />

Per tale ragione, lo studio del paesaggio (come unità ambientale, fatta di coltivazioni e boschi<br />

‘giardinizzati’ o d’impianto artificiale, oppure di una sua singola componente, quale l’insediamento<br />

umano), non si può esaurire nella messa a fuoco delle scelte orientate, e non di rado rigidamente<br />

determinate, dalle caratteristiche fisico-naturali (climatiche, morfologiche e idrologiche,<br />

geolitologiche, vegetazionali) degli ambienti interessati, ad esempio in rapporto alla disponibilità<br />

locale dei materiali da costruzione (pietra, argilla, legno), alle difese contro gli estremi<br />

climatici e all’esigenza dell’approvvigionamento idrico (con accorgimenti funzionali soprattutto<br />

al rapporto con le precipitazioni e l’irraggiamento solare, al drenaggio e alla raccolta delle<br />

acque), alla migliore scelta localizzativa delle sedi, delle attività e strutture produttive e delle<br />

vie di comunicazione, in relazione alle forme e alle dinamiche del suolo e delle acque superficiali.<br />

Ma lo studio paesistico, lungi dall’esaurirsi “nell’analisi descrittiva delle forme, deve anche tentare<br />

di definire il significato complessivo […] e scoprirne i contenuti culturali dominanti”<br />

(Piccardi, 1986, pp. 45 e 82), il ruolo e le funzioni affidate al sistema o all’oggetto spaziale da<br />

una determinata società e cultura.<br />

Si pensi, in proposito, agli innumerevoli esempi addotti, con vantaggio, proprio da Silvio<br />

Piccardi, a partire dalla città contemporanea, con la sua chiara “composizione sociale” che<br />

comincia ad intravedersi nei tempi rinascimentali e moderni, ma che doveva affermarsi com-<br />

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piutamente nell’età della rivoluzione industriale: una ‘composizione’ che è data dal superamento<br />

del tradizionale policentrismo del tessuto urbano, col raggiungimento di una netta omogeneità<br />

zonale – cioè di cascuna delle tante zone che la compongono – del suo paesaggio ottonovecentesco<br />

(rispetto alla complessità, commistione e grande ricchezza formale dei quartieri<br />

storici costituitisi, più o meno spontaneamente, nel corso di parecchi secoli). In altri termini, la<br />

città dei tempi dell’industria arriva a caratterizzarsi con aree occupate dalle grandi ville-parco,<br />

anche suburbane, dei ceti aristocratici e borghesi, e con i ‘villini’ piccolo-borghesi (con le loro<br />

molteplici architetture, anche coeve, “di imitazione: romaniche, gotiche, rinascimentali, neoclassiche”<br />

o anche liberty) delle aree periferiche, comunque sempre di alto o buon valore residenziale;<br />

dei palazzi cittadini dei ceti borghesi che dalla residenza unifamiliare (a partire dai<br />

secoli XVII-XVIII, come nell’ampliamento meridionale della “città nuova” di Torino) si articolano<br />

a comprendere anche appartamenti per affitto e quindi per rendita, fenomeno che non di<br />

rado comporta una graduale perdità di decoro e rappresentatività degli immobili, anticipando gli<br />

edifici multipiano con accessi comuni, suddivisi verticalmente in alloggi serviti a coppie da una<br />

scala, che diventeranno le abitazioni familiari più diffuse nei quartieri costruiti nei secoli XIX-<br />

XX (Di Cristina e Donatini, 1979, pp. 160-162 e 168); o, viceversa, con l’uniforme, banale e<br />

non di rado squallido tessuto dei quartieri di casermoni e ‘case minime’ popolari o dei villaggi<br />

operai aziendali realizzati, più o meno nella stessa epoca, a stretto contatto delle manifatture e<br />

delle stazioni ferroviarie o degli scali marittimi (Piccardi, 1986, pp. 47-48).<br />

“In quanto valore nel tempo, ogni architettura (o ogni pezzo di struttura urbana come insieme<br />

di architetture) riassume in sé una realtà complessa in cui entrano in gioco: 1) la stratificazione<br />

di strutture; 2) la variazione dell’uso delle strutture; 3) gli effetti del passaggio del tempo su una<br />

struttura. In alcune città la sostanziale permanenza dell’impianto romano, originario o nella<br />

‘versione’ medievale, dà luogo a una caratteristica stratificazione degli interventi dei secoli successivi<br />

nelle strutture in elevazione (città stratosferiche). Uno dei casi maggiori è quello di<br />

Lucca” (Fanelli, 1979, p. 64).<br />

Lo stesso autore spiega con chiarezza esemplare il meccanismo di dissociazione (che è frutto<br />

dei nuovi equilibri politici principeschi od oligarchici) che minaccia la città rinascimentale –<br />

certamente solo i principali organismi urbani, pressoché quelli con funzione di capitale di stato<br />

o di grandi porti – e che allora, sostanzialmente nel XVI secolo, “riveste il ruolo e il significato<br />

degli spazi fondamentali”, a partire dalla piazza principale.<br />

In effetti, “il Rinascimento segna il passaggio da un’entità organica alla città quale manifestazione<br />

e risultato della vita comunitaria, a un’entità premeditata e programmata dove prevalgono<br />

i valori rappresentativi e simbolici del potere politico signorile: a Vigevano come a Rimini,<br />

a Mantova come specialmente a Torino, a Firenze e a Roma, si realizza tutta una serie di interventi<br />

che, nel complesso, portano ad una netta riconfigurazione della città come ‘scena del principe’<br />

o comunque del potere statale.<br />

La specializzazione delle funzioni e quindi delle diverse aree dell’organismo urbano, già avviata<br />

nel Quattrocento, si accentua nel Cinquecento e poi ancora più diffusamente nel Seicento,<br />

quando – con il trionfo del manierismo prima e del barocco poi – nuove piazze e nuovi fabbricati<br />

assumeranno “caratteri di macrostruttura”, a conferma “della funzione rappresentativa e<br />

propagandistica dell’architettura, che si accentua ulteriormente rispetto al Cinquecento”<br />

(Fanelli, 1979, p. 86). In ogni caso, nel XVI secolo, “le nuove qualificazioni tipologiche, il<br />

numero degli edifici pubblici, configurano la zona del governo e degli affari come centro direzionale,<br />

distinto dalle zone delle attività produttive. Le necessità organizzative, culturali, ricreative<br />

della corte e della società organizzata intorno alla corte portano da una parte alla ristrutturazione-reinterpretazione<br />

delle strutture esistenti (vie, piazze, settori residenziali e inserimento<br />

di elementi nuovi di arredo, come logge, statue, monumenti), dall’altra anche alla creazione di<br />

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nuovi tipi per le attrezzature e i servizi urbani pubblici (uffici per la burocrazia dello stato, ospedali,<br />

lazzaretti, teatri, carceri, caserme, poi anche collegi e seminari, accademie, ecc.). Le opere<br />

di fortificazione non svolgono più un ruolo puramente difensivo, ma corrispondono anch’esse<br />

ad una accezione complessa della città come nucleo di potere in un sistema territoriale più<br />

vasto. In particolare, nel periodo manierista, la (ri)configurazione delle sedi del potere (abitazione<br />

del signore = corte) e lo sviluppo di nuove forme di edifici pubblici, entità statali più complesse<br />

di quelle comunali, sono forme di intervento molto emblematiche e diffuse”: lo dimostrano<br />

le realizzazioni a Firenze (la nuova reggia di palazzo Pitti e la vicina via Maggio che ne<br />

diventa l’accesso solenne e inizia a riempirsi di nuovi palazzi dell’aristocrazia e dei notabili, la<br />

riorganizzazione degli Uffizi e di piazza della Signoria, di piazza Santissima Annunziata, di<br />

palazzi, giardini e fortificazioni, ecc.) del granduca Cosimo dei Medici e dei suoi figli e successori<br />

Francesco e Ferdinando, tra gli anni ’30 del XVI e l’inizio del XVII secolo. I Medici<br />

non mancarono di applicare “gli stessi modelli politico-culturali, e quindi tipologici, anche nelle<br />

città toscane soggette a Firenze, da Arezzo a Sansepolcro, da Pistoia a Livorno (creazione di<br />

logge, mercati, uffici, palazzi di notabili, nuove fortificazioni)” (Fanelli, 1979, pp. 82-83).<br />

Particolare cura – come e ancor più che nei tempi comunali – viene ora prestata, un po’ in tutte<br />

le città maggiori, alla riorganizzazione delle strade principali secondo i canoni dettati da Leon<br />

Battista Alberti: vale a dire, con la ricostruzione di vie larghe e dritte e di incroci monumentali,<br />

per consentire la percezione prospettica immediata della dimensione urbana. Opere che vengono<br />

valorizzate da edifici notevoli (come a Firenze via della Vigna Nuova che funse un po’ da<br />

modello dopo i celebri interventi a palazzo Rucellai e alla sua loggia) e da altre componenti<br />

minori di arredo, come i panconi in pietra addossati al fronte delle abitazioni, le logge angolari,<br />

i tabernacoli, gli elementi architettonici elaborati espressamente per la parte ad altezza d’uomo<br />

delle facciate (zoccoli e finestre col davanzale su mensole e per questo dette ‘inginocchiate’),<br />

gli stemmi e le lapidi in pietra (più raramente le statue) apposti sui cantonali o sulle facciate<br />

del palazzi nobiliari, tutti motivi che avranno in seguito una grande fortuna (Di Benedetto,<br />

1979, pp. 139 e 142).<br />

Modifiche assai più incisive, che prefigurano anzi una svolta radicale, si registrano nei tempi<br />

del razionalismo e dell’ottimismo illuministico, quando gli stati imboccano – seppure con diversa<br />

coerenza e fiducia – la via delle riforme amministrative e giuridico-economiche, che porta<br />

inevitabilmente a riconsiderare il significato e l’utilità reali della qualificazione tradizionale<br />

operata (soprattutto all’interno della città, ma anche al di fuori si essa) sui grandi complessi, e<br />

“che tendono ad adeguare l’ambiente alle esigenze di rappresentazione e di esercizio pubblico<br />

del governo: da una parte regge, ville, casini reali, ma dall’altra anche ospedali e lazzaretti,<br />

dogane, caserme, mercati, fiere, magazzini, alberghi dei poveri, acquedotti”, accademie e<br />

biblioteche, teatri e musei, scuole e conservatori, insieme con opere di arredo urbano (pavimentazioni<br />

e giardini, rifacimento di facciate, illuminazione pubblica, ecc.). Tutte opere realizzate<br />

in gran copia e in modo diffuso nel territorio, anche mediante il riuso di strutture già esistenti<br />

e soprattutto rese disponibili dalle soppressioni di istituzioni ed enti religiosi, cavallereschi,<br />

assistenziali e dalle espropriazioni dei loro patrimoni (Fanelli, 1979, pp. 88-90).<br />

Ora, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, nel moltiplicarsi dei lavori ‘utili’ per dotare<br />

città e territori dei servizi essenziali – non di rado realizzati all’insegna di una esemplare<br />

semplicità in termini costruttivi e architettonici –, oltre che per adeguare i centri urbani principali<br />

(Torino, Firenze, Roma, Napoli) ad una domanda crescente di crescita dei medesimi,<br />

“comincia a intervenire una nuova committenza: le imprese edilizie – che possono avvalersi<br />

della sempre più affermata cultura architettonica neoclassica – non sono più promosse unicamente<br />

dal principe [o dallo stato], dalla nobiltà e dal clero, ma anche da operatori che appartengono<br />

ai quadri della borghesia” (Fanelli, 1979, p. 88).<br />

51


Le città settecentesche, infatti, sono interessate da una modesta attività di trasformazione urbana<br />

ma da “una diffusa prassi di rinnovo edilizio, che investe non solo chiese e palazzi, ma anche<br />

il tessuto residenziale ‘minore’, e contribuisce in misura preponderante, specie in Toscana e in<br />

Veneto, a definire il volto attuale […] dei centri storici”, e persino degli spazi suburbani dove<br />

si ampliano i borghi creatisi nel XVI secolo lungo le strade principali e se ne formano altri<br />

nuovi. Particolamente importanti risultano gli interventi di arredo urbano (con lastricatura e/o<br />

impianto di alberature di platani, ippocastani, tigli, lecci, ecc.) alle strade e ai viali cittadini e<br />

suburbani frequentati dal ‘passeggio’ dei ceti aristocratici e borghesi, e non poche vie vengono<br />

anche costruite ex novo. Nel primo caso, basti pensare al Corso e via XX Settembre a Roma,<br />

allo Stradone Farnese a Piacenza, alla strada Marina a Milano; nel secondo, ai viali alberati realizzati<br />

da Vittorio Amedeo II intorno alla cittadella a Torino, al largo e dritto Stradone alberato<br />

aperto parallelamente alle mura tra la cittadella e il tessuto urbano a Parma, alla Lizza pure alberata<br />

costruita a Siena, oppure ai passeggi ricavati sui bastioni smilitarizzati a Lucca e Ferrara,<br />

Brescia e Bergamo. Di sicuro, “i viali alberati settecenteschi – riproposti in gran copia nel secolo<br />

successivo – sono la prima affermazione del moderno gusto del verde nell’arredo stradale”<br />

(Di Benedetto, 1979, pp. 144 e 147).<br />

Molte di queste strade nuove o rivitalizzate dal potere – specialmente quelle dei centri storici –<br />

nei secoli XIX e XX finiranno col rappresentare lo spazio della più intensa socializzazione urbana,<br />

“percorse da una vitalità eccezionale e ininterrotta. Sono le vie – a Roma via Nazionale, a<br />

Milano via Indipendenza, a Firenze le vie Cavour, Cerretani e Calzaioli, a Napoli il Rettifilo, a<br />

Palermo le vie Roma e della Libertà, a Bari via Sparano, ecc. – sedi del potere comunale e statale<br />

(centrale o periferico), del culto, dell’approvvigionamento quotidiano, ma anche la stazione,<br />

la borsa, la posta, le sedi della grande dirigenza privata, i musei, i teatri e i politeama, i giardini<br />

pubblici. Lungo di esse si sviluppa il fitto tessuto connettivo degli esercizi commerciali di<br />

nuovo tipo, i negozi specializzati, i caffè, i grandi magazzini; e si svolge un movimento continuo<br />

di pedoni, di carrozze, di fiacres e di omnibus, i moderni mezzi del trasporto pubblico. E’<br />

nelle strade centrali che si realizzano i primi impianti di illuminazione pubblica a gas” a partire<br />

dagli anni ’30 dell’Ottocento, e ad elettricità a cavallo tra Otto e Novecento. “E’ su di esse<br />

che si sperimentano le prime tramvie urbane, si rinnova radicalmente l’arredo pubblico (dai<br />

marciapiedi alle cassette postali, alle mostre per le affissioni, ai monumenti celebrativi del<br />

Risorgimento nazionale), si pone in evidenza l’arredo privato (edicole e chioschi, insegne pubblicitarie,<br />

mostre di negozi, vetrine, tende parasole, tavolini all’aperto).<br />

Si fissano alcuni tipi stradali ricorrenti: il viale della stazione, presente in quasi tutte le città; la<br />

strada ricavata dalla copertura di un canale urbano (via Garibaldi a Lucca, via Solferino a<br />

Firenze, via Riva di Reno a Bologna, ecc.); la strada in galleria vetrata, sull’esempio delle arcades<br />

inglesi, presente a Milano (galleria de Cristoforis) e a Firenze (bazar Bonaiuti) fin dagli anni<br />

’20 del secolo XIX e poi diffusa in forme monumentali a Roma, Napoli, ancora Milano, e persino<br />

in centri minori (Anghiari); i lungofiume, spesso alberati, che rispondono a esigenze viabilistiche<br />

e insieme di abbellimento urbano; i viali panoramici (Napoli, corso Vittorio<br />

Emanuele, 1853-60; Firenze, viale dei Colli, 1865-70) e i viali lungomare (Venezia-Sant’Elena,<br />

Livorno, Napoli, Bari, Catania) che riflettono una specifica aspirazione contemplativa della cultura<br />

romantica” (Di Benedetto, 1979, p. 149).<br />

Riguardo agli ‘spazi aperti’ della campagna, si è già avuto modo di ricordare come, non di rado,<br />

i ‘paesaggi e gli insediamenti della produzione’ – come le “splendide case coloniche” tardomedievali<br />

e rinascimentali e sette-ottocentesche della Toscana medicea e lorenese, oppure le più<br />

modeste dimore contadine dei tempi unitari riferibili anch’esse alle operazioni pianificate della<br />

bonifica e della riforma agraria, come le massicce torri d’impronta signorile dei secoli dopo il<br />

Mille e le simmetriche e distese ville che le affiancano e le sostituiscono nei tempi rinascimen-<br />

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tali, oppure le barocche e ‘imbarocchite’, o comunque sempre più grandi e scenografiche<br />

costruzioni di villeggiatura dei tempi moderni e contemporanei, almeno in origine realizzate per<br />

gli ozi e gli svaghi in campagna dei proprietari fondiari (tra le quali spiccano i massicci e sontuosi<br />

“palazzi” laziali costruiti nell’età moderna, specialmente della cosiddetta ‘rifeudalizzazione’,<br />

per il soggiorno estivo di papi e cardinali, oppure i tipici ‘castelli’ merlati otto-novecenteschi,<br />

a partire da quelli di Brolio e Vincigliata nel contado fiorentino, che dimostrano l’immensa<br />

suggestione esercitata dal Medioevo feudale sulla borghesia terriera, dall’epoca romantica<br />

in avanti) – subiscono, insieme ai loro giardini, ‘arboreti’ e parchi dai più diversi stili (‘all’italiana’,<br />

manieristico e barocco, neoclassico, romantico o ‘all’inglese’, liberty, ecc.), l’influenza<br />

di valori del tutto estranei all’economia: vale a dire, i valori culturali e ideologici.<br />

Scrive un colto e grande imprenditore agrario della Toscana della prima metà del XIX secolo,<br />

Cosimo Ridolfi, che il ricco borghese toscano era disposto a spendere il suo danaro in campagna<br />

unicamente mirando a far bello il paesaggio, anche a costo di non ricavarsi nulla, “dando<br />

quindi uno sbocco estetico, teatrale, in definitiva culturale, a tutto il suo agire economico”<br />

(Turri, 1998, p. 79).<br />

La stessa interpretazione può essere addotta per un certo industrialismo che – lo dimostrano<br />

numerose vestigia odierne – “oscillava, nell’architettura e nel modo di essere della fabbrica nel<br />

paesaggio, tra modelli franco-inglesi e tedeschi” (Turri, 1990, p. 61). Oltre alle molte manifatture<br />

preunitarie – tra cui spiccano alcune strutture toscane di straordinario valore architettonico<br />

(la ceramica Ginori di Doccia a Sesto Fiorentino degli anni ’30 del XVIII secolo, la grande fonderia<br />

siderurgica granducale di Follonica degli anni ‘20/’50 del XIX secolo) e vari opifici borbonici<br />

tardo-settecenteschi (come lo stabilimento-colonia per l’industria serica di San Leucio<br />

presso Caserta, le fonderie del ferro di Mongiana in Calabria e della carta di Isola del Liri in<br />

Campania) (Cresti, Lungonelli, Rombai e Tognarini, 1993; Barberis, 1999, pp. 144-146), anche<br />

un numero non trascurabile di opifici otto-novecenteschi: pur essendo, questi ultimi, inquadrabili<br />

in una fase assai poco attenta al perseguimento di risultati edilizi di pregio culturale, quale<br />

quella del decollo della rivoluzione industriale, ciò non di meno, anch’essi “interessano l’archeologia<br />

industriale per la bellezza delle soluzioni architettoniche” adottate dalla proprietà per<br />

il perseguimento di chiare finalità promozionali (Piccardi, 1986, pp. 73-74)<br />

Questi valori spesso rispondono a visioni pluralistiche e locali, e quindi si differenziano socialmente<br />

e spazialmente, all’interno di modelli generali che improntano le arti (architettura e urbanistica<br />

comprese) nelle lunghe fasi temporali in qualche modo già considerate, come ad esempio<br />

il classicismo antico, il romanico, il gotico e il classicismo rinascimentale (che improntano<br />

soprattutto l’Italia centro-settentrionale), il manierismo tardo-rinascimentale, il barocco (“grande<br />

e originale stagione soprattutto del Mezzogiorno”) (Galasso, 2000, p. 45), il neoclassicismo<br />

illuministico, il romanticismo o neogotico ottocentesco, il liberty e il neoclassicismo novecentesco,<br />

il futurismo, ovviamente anche in virtù delle scelte individualistiche effettuate dai ceti<br />

egemoni.<br />

Oltre a quanto già ricordato in materia di facili ed emblematici esempi di incidenza dei fattori<br />

culturali locali o subregionali, si potrebbe qui addurre il caso della calcarea e petrosa Murgia<br />

dei Trulli, con la singolare forma delle abitazioni (che, “su un perimetro quadrangolare di muri<br />

costituiti da pietrame calcareo innalzano uno o più tetti conici, formati dalle stesse pietre disposte<br />

in più strati concentrici di diametro decrescente”, con tanto di comignoli o pinnacoli ornamentali<br />

scolpiti e decorazioni a calce dei tetti), di chiaro significato etnologico (Piccardi, 1986,<br />

pp. 112-113); e di alcune aree facilmente scavabili come quelle tufacee, ad esempio l’Etruria<br />

vulcanica tosco-umbro-laziale, oppure quelle calcaree o ‘a gravina’, come il Materano, od altre<br />

ancora di sedimentazione marina pliocenica (come la Valdelsa toscana), con l’altrettanto peculiare<br />

ramificazione degli insediamenti ipogei, o parzialmente ipogei, che impronta capillarmen-<br />

53


te campagne e centri abitati.<br />

E non è da tacere sul significato del sistema dei santuari, delle edicole e cappelle, dei tabernacoli<br />

e vie crucis e di altri oggetti ancora che – specialmente nell’età della Controriforma – sacralizzano<br />

capillarmente lo spazio alpino, prealpino e appenninico (noti anche come “Sacri<br />

Monti”), esprimendo la profonda spiritualità e religiosità di popolazioni montanare aduse,<br />

comunque, a combattere strenuamente contro le difficoltà di ambienti avversi o poco generosi<br />

(Caldo e Guarrasi, 1994, pp. 171-181). Specialmente nelle Prealpi piemontesi e lombarde, i<br />

“Sacri Monti” sono “l’assimilazione spontanea e popolaresca del messaggio biblico: una sorta<br />

di feuilleton a puntate, secondo la regolare cadenza delle cappelle su un percorso di fede che<br />

cinge un colle a somiglianza del Calvario. Dai Sacri Monti più famosi, come Varese o Varallo,<br />

a quelli meno noti, come Ghiffa o Crea, fede e paesaggio generano esiti sorprendenti coniugando<br />

la bellezza estetica delle forme artistiche con la dimensione del soprannaturale. Dal loro<br />

modello discende tutto un repertorio sacrale minore che punteggia le nostre montagne”<br />

(Marcarini, 2000, pp. 256-257).<br />

Il fatto è che ogni regione e microregione italiana del passato “aveva un suo paesaggio” inconfondibile.<br />

L’originalità italiana “era quella di avere tanti e differenti paesaggi nei quali si riflettevano<br />

rapporti affatto locali tra uomo e natura in un quadro generale disaggregato per effetto<br />

di processi storici che avevano suscitato delle ‘vocazioni’ diverse […] all’interno del paese […]<br />

riconducibili a un’economia più o meno stimolata, più o meno commercialmente aperta, ma<br />

fondamentalmente rurale”: una ruralità non chiusa in se stessa, “come fatto autonomo, ma.sempre<br />

legata alla città, sin dall’epoca comunale, quando si costituì il tessuto urbano del paese”.<br />

Non a caso, quando un qualsiasi abitante del contado “pensava a un ‘centro’ del suo spazio vissuto,<br />

lo individuava istintivamente nel paese o nella cittadina vicina, come il musulmano che si<br />

rivolge per vecchio istinto alla Mecca […]. E’ ovvio, a questo punto, che con simili rapporti psicologici<br />

e spaziali si creano un sentimento forte e un’identificazione profonda con lo spazio vissuto”<br />

non solo rurale (della casa con il podere, del podere con la chiesa, il borgo o castello) ma<br />

anche con quello della città dominante.<br />

“Anteriormente al secolo scorso, se si escludono alcune città che ebbero – come Venezia,<br />

Firenze, Genova, Milano, Roma e Napoli – una dimensione sopraregionale, la città italiana<br />

aveva funzioni magari diverse ma sempre piuttosto limitate” ad “un dintorno di non grandi<br />

dimensioni col quale hanno vissuto sempre in intima unione. Questi dintorni di dipendenza<br />

urbana, questi territori che si riconoscono in una città (ciò succede non solo alle città d’origine<br />

comunale del Nord e del Centro, ma anche, in altro modo, al grande borgo di origine feudale<br />

dell’Italia meridionale, pur così povero di capacità coordinatrice del proprio dintorno), formavano<br />

in passato altrettante piccole unità territoriali, con loro paesaggi, conservatisi nel tempo<br />

per l’inerzia, il poco dinamismo di tali centri […]. La peculiarità dei diversi paesaggi del passato<br />

esprimeva, in funzione di questi rapporti locali o a livello di città e del suo dintorno, originalità<br />

di adattamenti culturali e mesologici. Essa si ritrovava concretamente, ad esempio, nella<br />

ripetitività degli elementi antropici, in senso stilistico e funzionale, fossero architetture, trame<br />

viarie, uso dello spazio coltivabile, utilizzazione della vegetazione, ecc. Ripetitività od omogeneità<br />

a livello locale che erano il frutto, nell’ambito di economie e culture chiuse, di elaborazioni<br />

stilistiche particolari, di gusti ed esperienze tecniche proprie, di valorizzazione degli spazi<br />

e delle risorse locali in forme adeguate alle condizioni economiche e ai rapporti di produzione<br />

consolidati, per cui solo quel tipo di casa, quel tipo di insediamento, quel tipo di intervento nelle<br />

campagne, quel dato rapporto tra insediamento e dintorno coltivato avevano funzionalità”<br />

(Turri, 1990, pp. 40-42 e 50-51).<br />

E’ quindi chiaro che, anche quando un paesaggio urbano o rurale sembra esprimere, in apparenza,<br />

non una pluralità ma una unitarietà di contenuti, per una sua più approfondita compren-<br />

54


sione si richiede sempre lo svolgimento di indagini storico-politico-sociali e culturali particolari<br />

“sugli stili architettonici e sulle concezioni urbanistiche che hanno dato forma alle città e agli<br />

insediamenti in genere, sulle strutture difensive o comunque separatorie, sui segni storici, sulle<br />

suggestioni artistiche e letterarie, ecc.”, persino sulle vicende e sui caratteri etnici o sui rapporto<br />

stabiliti con popolazioni forestiere.<br />

A quest’ultimo proposito, si pensi alla portata e alla diffusione delle impronte lasciate dalle<br />

tante e lunghe dominazioni straniere, tra cui la bizantina, l’araba, la normanna, la sveva, l’angioina/francese,<br />

la catalana/spagnola e l’austriaca, in parti non trascurabili dell’Italia.<br />

Oltre a ciò, soprattutto l’Italia del Nord deve alla sua contiguità con l’Europa centro-occidentale<br />

talune peculiarità dei suoi paesaggi: ad esempio, alle forme dell’abitare specifiche “delle<br />

colonie walser in val Sesia o in val Formazza” (Marcarini, 2000, p. 256); e, nell’Alto Adige, ai<br />

centri abitati (con i porticati, le architetture e le ornamentazioni di gusto tirolese), e ai ‘masi’<br />

isolati, o centri direzionali di poderi di piccoli proprietari coltivatori. Anche attualmente, gli<br />

altoatesini sono ritenuti figli di una civiltà alpina “che si fonda sul presupposto della difesa<br />

ambientale come condizione vitale. Ma cio, si direbbe, si è trasformato nell’aspirazione ad<br />

affermare la propria identità, in ciò favoriti dal fatto di non aver conosciuto i traumi delle rivoluzioni<br />

industriali, conservando i tratti fondamentali della loro antica cultura montanara. I risultati<br />

si vedono nel paesaggio: esso è dovunque bello e ben curato, come belle e ben curate sono<br />

le case. Ogni manufatto è costruito nel segno dell’efficienza e della funzionalità. La ricerca di<br />

queste sembra spesso assumere carattere maniacale” (Turri, 1998, p. 107).<br />

Pure nel Piemonte e nella Valle d’Aosta, molti segni paesistici fanno riferimento alle etnie francese<br />

e franco-provenzale, oltre che – nelle valli Pellice e Germanasca – alla presenza quasi millenaria<br />

della minoranza religiosa valdese. Persino nell’urbanistica “signorile ed elegante di<br />

Torino” emergono i segni dell’influenza francese, che fu una costante nel Ducato di Savoia dal<br />

1718 Regno di Sardegna, mentre molte delle tipiche architetture veneziane sono arricchite di<br />

chiare reminescenze dell’Oriente bizantino nella penisola. Dagli aragonesi a Palermo il gotico<br />

catalano e nel continente fortezze e palazzi costruiti nella seconda metà del Quattrocento. Dagli<br />

spagnoli un’impronta stilistica profonda a Napoli e in tutto il Mezzogiorno, compresa la<br />

Sicilia”, ma anche nella piccola exclave toscana di Orbetello e Monte Argentario che ne dipese<br />

nei secoli XVI-XVIII. “Palazzi, monasteri e chiese, in fastoso barocco spagnolo, e sistemazioni<br />

urbanistiche. Intere vie di Napoli, di Catania e di Lecce sono contrassegnate dal gusto spagnolo.<br />

A Lecce il trapianto è particolarmente felice e raggiunge una completa espressione nella<br />

bellissima Piazza del Duomo” (Piccardi, 1986, pp. 59, 109, 134 e 140).<br />

Come già evidenziato per le città medievali, rinascimentali e moderne, molti sono poi, e spazialmente<br />

assai diffusi, i casi di paesaggi ed insediamenti “costruiti d’autorità, per esprimere un<br />

determinato concetto politico”, con caratteri formali e funzionali finalizzati all’esaltazione del<br />

potere, soprattutto di quello “assoluto o dittatoriale” (Piccardi, 1986, p. 51) (con palazzi pubblici<br />

per l’assistenza amministrativa, giudiziaria, ospedaliera e religiosa, monumenti di monarchi<br />

e uomini di stato o di chiesa, loggiati e spazi di mercato, piazze e viali, parchi e giardini),<br />

ma non solo, come dimostra il patrimonio edilizio e urbanistico più o meno analogo (con in più<br />

almeno i centri di istruzione e di cultura), realizzato nei tempi dell’intensa ‘partecipazione<br />

comunale’ basso-medievale, oppure nell’ambito dei più élitari governi liberali dell’Italia unita.<br />

Gli esempi non possono che riguardare gli insediamenti fortificati del potere signorile laico ed<br />

ecclesiastico (come i castelli e più di rado le abbazie o altre strutture religiose, quali residenze<br />

vescovili, pievi e santuari, che, tra i secoli VIII e XV, punteggiarono un po’ tutte le campagne<br />

italiane organizzate dal cosiddetto ‘sistema curtense’ o comunque dall’agricoltura di matrice<br />

feudale), con le strutture pure fortificate realizzate in quella stessa fase cronologica, o successivamente,<br />

per la difesa e il controllo militare e doganale del territorio, specie nelle aree di fron-<br />

55


tiera e nei litorali (torri, forti e ridotti); e quegli innumerevoli insediamenti urbani – ugualmente<br />

chiusi all’interno di possenti cinte murarie – che furono “creati da una singola volontà, o ispirati<br />

comunque da una determinata filosofia o scuola architettonica o urbanistica”, talmente forte<br />

da improntare durevolmente la loro configurazione.<br />

E’ il caso delle città di fondazione greca e soprattutto romana, con la loro maglia impostata su<br />

assi ortogonali. Una forma razionale che ebbe grande fortuna, tanto da essere poi ripresa (non<br />

solo nella fase della grande crescita comunale e primo-rinascimentale, fino almeno alla quattrocentesca<br />

Pienza, ma anche nei tempi moderni e contemporanei) per la costruzione o ricostruzione,<br />

dopo eventi traumatici, di città e centri minori pianificati dal potere statale o signorile<br />

e, da ultimo (con i centri otto-novecenteschi del tempo libero e della vacanza specialmente<br />

marittima), pure da quello economico e della rendita fondiaria. E, ancora, come le città di fondazione<br />

rinascimentale, allorché l’imperante filosofia platonica (“la città intesa come simbolo<br />

concreto dello stato ideale e della sua società”), la riscoperta della geometria euclidea, e l’esigenza<br />

di offrire una difesa maggiore alla nuova e temibile arma dell’artiglieria, dettarono anche<br />

nuove e più raffinate e simmetriche configurazioni poligonali o stellari, con i vertici difesi da<br />

spessi bastioni, agli organismi urbani grandi e piccoli, come ad esempio dimostrano Livorno e<br />

Palmanova, Carlentini e Grammichele, Portoferraio e Terra del Sole (Piccardi, 1986, pp. 63-64<br />

e 74-75).<br />

A tali modelli aulici si possono, in qualche modo, accostare le cittadine e i villaggi di colonizzazione<br />

baronale (Leonforte, Sperlinga, Montemaggiore, Alia, Alimena, Vallelunga, Aliminusa,<br />

Valledolmo, Ogliastro, Villafrate, Altavilla, Ventimiglia, ecc.), edificati in gran copia, in Sicilia,<br />

tra Cinque e Settecento – con conformazioni urbanistiche che, non di rado, richiamano quelle<br />

regolari della pianificazione tardo-medievale e rinascimentale –, per popolare o ripopolare i<br />

grandi latifondi cerealicolo-pastorali, mediante il trapianto di migliaia di contadini strappati da<br />

villaggi o città preesistenti (Aymard, 1985; Davies, 1985; e Dufour, 1985).<br />

In ogni epoca – a partire da quella antica – è dunque ovunque visibile il ruolo affidato dal potere<br />

all’urbanistica e specialmente all’architettura, nella strategia della ricerca del consenso sociale<br />

e più in generale del rafforzamento (anche sul piano militare) del sistema politico.<br />

Così, “le opere architettoniche e gli interventi urbanistici nelle città italiane durante il periodo<br />

napoleonico rivelano chiaramente la prevalenza di scopi celebrativi (archi di trionfo come<br />

l’Arco della Pace a Milano, grandi monumenti, piazze per parate, ecc.) o di rappresentanza<br />

(centri alternativi di quelli tradizionali, religiosi)”.<br />

Così, gli sventramenti urbanistici dei vecchi e consolidati centri urbani effettuati tra la seconda<br />

metà del XIX secolo e la seconda guerra mondiale, sia dai governi liberali e sia specialmente<br />

da quello fascista (in entrambi i periodi a Roma e Firenze, Torino e Napoli, e successivamente<br />

a Milano, Padova, Siena e Napoli e in altri centri ancora) (Fanelli, 1979, pp. 90 e 92), con apertura<br />

di grandi piazze ed ampi viali, assumono un significato preciso ed inequivocabile: che è<br />

quello di creare assi di scorrimento e ampliamenti, cioè nuovi tessuti abitativi e produttivi<br />

(essenzialmente servizi terziari avanzati, come sedi di banche, assicurazioni, imprese finanziarie<br />

e commerciali e negozi, oppure altre sedi istituzionali come municipi, palazzi di giustizia,<br />

mercati, musei, gallerie e monumenti celebrativi): operazioni massive realizzate non tanto per i<br />

conclamati fini igienici e sociali (il reclamato ‘risanamento’ di quartieri oggettivamente degradati),<br />

bensì per motivi essenzialmente politico-militari ed economico-speculativi insieme. Si<br />

trattava, infatti, di impedire la minaccia delle rivolte del proletariato cittadino (attivate da ideologie<br />

rivoluzionarie come quelle anarchiche e socialiste), nell’intrico difficilmente controllabile<br />

dei tessuti edilizi medievali; e, contemporaneamente, di aprire agli usi residenziali ed economici<br />

della borghesia (previa espulsione dei ceti più poveri in nuovi edifici popolari in corso di<br />

costruzione nelle emarginate periferie urbane) i palazzi e gli uffici o esercizi commerciali che<br />

56


si andavano edificando con forme architettoniche e moduli costruttivi tipicamente improntati<br />

dal decoro borghese.<br />

Anche per effetto di tali interventi, la città contemporanea viene ad essere gravemente alterata<br />

nei caratteri “delle strutture e dell’ambiente antico”, con compiuta dissociazione delle diverse<br />

funzioni urbane; “la realtà urbana si scompone in parti distinte, per funzioni separate: residenza,<br />

circolazione, educazione, cultura, spettacolo, attività ricreative, attrezzature della repressione<br />

istituzionale”, ecc. Una rete di strutture che spiega la complessità e gli scompensi del rapporto<br />

residenza-funzioni pubbliche e residenza-attività lavorativa (con i sempre più gravi problemi<br />

di circolazione) che si manifestano nella città odierna, ove la vita è dispersa in molteplici<br />

poli e interessi: “non è più unitaria, riferita al quartiere ma al tempo stesso all’intera città<br />

come in passato, bensì indirizzata in molteplici canali che percorrono, il più delle volte in modo<br />

casuale, la quasi totalità del tessuto urbano disperso” (Fanelli, 1979, p. 92).<br />

E basti pensare, ancora, alle realizzazioni urbanistiche del fascismo nelle aree di bonifica e di<br />

colonizzazione agraria, oppure nei bacini di sviluppo industriale e minerario, con le città e i borghi<br />

di servizio di nuova fondazione, dalla classica maglia ortogonale romana, di Latina (già<br />

Littoria) divenuta presto città, e di Sabaudia, Pontinia, Guidonia, Aprilia e Pomezia nel Lazio,<br />

di Carbonia, Fertilia e Mussolinia poi Arborea nella Sardegna, rimaste invece a lungo – con<br />

qualche altro insediamento più piccolo (Arsia, Torviscosa e Pozzo Littorio) – “borgate di qualche<br />

dozzina di case intorno a una scenografica piazza centrale” e ai turriti palazzi comunali e<br />

del Fascio (Mioni, 1978, pp. 168-169; v. pure Ghirardo e Forster, 1985).<br />

Più che nel passato, in genere, gli interventi del Ventennio hanno avuto la forza di improntare<br />

la forma e talora anche le funzioni delle città, a partire ovviamente dalla capitale, specialmente<br />

con il Foro Italico, il Vittoriano e l’Esposizione Universale Romana (EUR): e sia con tanti uniformi,<br />

banali e squallidi quartieri e borgate popolari, oppure con innumerevoli edifici pubblici<br />

in stile inconfondibile, come le stazioni ferroviarie e gli stadi, le poste e i palazzi di prefetti e<br />

questori, i cinema e i teatri, gli ospedali e i sanatori, le colonie e gli istituti d’istruzione e di cultura<br />

(scuole e università, biblioteche e archivi, accademie), le case del fascio e le industrie in<br />

qualche modo dipendenti dallo Stato, con i loro stilemi che – in modo assai più evidente rispetto<br />

alle ‘opere di regime’ realizzate in precedenza – si rifanno largamente alle basi ideologicoculturali<br />

del fascismo, come il mito classicista della romanità, pur con concessioni alle tradizioni<br />

recenti – come il romanico e il gotico, che richiamavano i fasti del Medioevo comunale –<br />

e persino alla cultura futurista (Cresti, 1986; Ghirardo e Fostner, 1985, pp. 645-651). In genere,<br />

si presentano ai nostri occhi come “palazzi tronfi, spesso dotati di portici di grande altezza,<br />

coperti di marmi, con colonne, paraste, lesene, stipiti massicci, timpani d’ogni stile e forma, nicchie<br />

e mensole, con bassorilievi o statue a tutto tondo, massicce figure seminude di tipi italici<br />

idealizzati, intenti a improbabili ma edificanti attività. Frequenti le torri in stile 'littorio', mentre<br />

appaiono i primi tozzi grattacieli. Non mancano fabbricati di stile ‘moderno’, in genere pomposi<br />

cubotti sproporzionati” (Mioni, 1978, pp. 164-166).<br />

Appendice - Geografia storica, valori paesistici e insediativi. Uno schema per ‘riconoscere’sul<br />

terreno – specialmente nelle aree extraurbane – strutture, beni e simboli definitisi<br />

tra l’antichità e i tempi contemporanei<br />

1.ANTICHITA’<br />

a) Civiltà greca: città in piano o in modesti rialzi (forma regolare)/portualità marittima/agri pianificati<br />

su impianto geometrico/giardino mediterraneo coltivato specialmente a vite e olivo/santuari<br />

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) Civiltà etrusca: città d’altura (forma irregolare dominata dall’acropoli)/portualità marittima/cunicoli<br />

(tagliate o canali a cielo aperto o sotterranei)/vie cave/santuari/miniere-metallurgia/terme/cipresso<br />

c) Civilta romana: città coloniale (forma a graticola, posizione ‘aperta’)/portualità<br />

marittima/strade consolari (rettifili su basolati) con ponti, miliari e strutture di servizio del traffico/canali<br />

naviganti/acquedotti/agri centuriati (piantata)/ville rustiche (piantagioni)/villaggi<br />

agricoli e circoscrizioni amministrative di base (vici-pagi)/santuari e templi isolati (poi pievi e<br />

chiese)/miniere-metallurgia/terme/pinete costiere<br />

2.ALTO MEDIOEVO<br />

a) Insediamenti: corti (villaggi aperti-casali, aziende signorili-masse-sale-cafaggi)/guardinghitorri<br />

isolate/castelli/mercatali/mulini ad acqua/cenobi e abbazie benedettini/pievi/spedali<br />

b) Vie di comunicazione: strade (povertà tecnica, tortuosità)/vie romee<br />

c) Strutture produttive: sistema curtense/beni comuni e usi civici/chiuse arborate (Centro-<br />

Nord)/giardino ‘chiuso’ irriguo arabo-siciliano (nuove colture: riso, cotone, canna da zucchero,<br />

agrumi…)<br />

3.BASSO MEDIOEVO<br />

a) Insediamenti: castelli/città nuove (villenuove/castelfranchi)/mercatali/palazzi turriti di campagna<br />

(torri appalagiate) e castelli ridotti a ville (Centro-Nord)/corti-cascine padane/corti lucchesi<br />

e napoletane/case mezzadrili ‘chiuse’ (turrite, a corte)/mulini ad acqua e a vento-gualchiere-ferriere<br />

ad acqua/saline costiere/torri costiere/miniere-metallurgia/spedali e locande stradali/terme/pievi<br />

e chiese-canoniche/abbazie cluniacensi-cistercensi/conventi degli ordini monastici<br />

b) Vie di comunicazione e infrastrutture: strade e ponti nuovi (maggiore corredo tecnico)/tabernacoli/canali<br />

navigabili/canali irrigui<br />

c) Strutture produttive: piantata padana-alberata toscoumbromarchigiana/prato<br />

irriguo/risaia/gelsi/castagneti collinari-montani/abetine montane/peschiere<br />

4.RINASCIMENTO<br />

a) Insediamenti: città geometriche/fortificazioni bastionate/ville venete-toscane-liguri-laziali<br />

con giardini-parchi/santuari mariani-conventi-cappelle-oratori-tabernacoli/opifici ad acqua<br />

(mulini-forni e ferriere-cartiere-valichi da seta)/mulini a vento/miniere/saline/case coloniche<br />

‘aperte’ (logge e scala esterna)/corti e cascine padane/masserie meridionali<br />

b) Vie di comunicazione e infrastrutture: strade e poste-dogane/tratturi di transumanza tra<br />

Abruzzo-Molise e Tavoliere pugliese e vie doganali nella Maremma Senese/canali navigabili/canali<br />

irrigui/acquedotti<br />

c) Strutture produttive: piantata padana-alberata toscoumbromarchigiana/prato<br />

irriguo/risaia/gelso/giardino mediterraneo ‘chiuso’ irriguo nel Meridione/sistemazioni idraulico-agrarie<br />

orizzontali (lunette, ciglioni, terrazzi)/peschiere<br />

5.ETA’ MODERNA<br />

a) Insediamenti: città nuove regolari e villaggi di colonizzazione baronale in Sicilia o di ricostruzione<br />

regia in Calabria/palazzi principeschi e aristocratici nelle città/masserie fortificate nel<br />

Sud/ville fattorie nel Centro-Nord/cascine e corti padane/masi Alto Adige/case coloniche lorenesi<br />

in Toscana (simmetria, portico-loggia)/terme/forti, dogane e lazzeretti costieri/saline/opifici<br />

andanti ad acqua (mulini-forni e ferriere-cartiere)/mulini a vento/manifatture moderne/santuari<br />

mariani-Sacri Monti-tabernacoli-cappelle-oratori


) Vie di comunicazione e infrastrutture: strade rotabili, grandi ponti e poste-dogane/canali<br />

navigabili/calloni e ponti con cateratte per navigazione e bonifica/canali irrigui/acquedotti<br />

c) Strutture produttive: bonifiche idrauliche e sistemazioni fluviali/sistemazioni idraulico-agrarie<br />

e forestali (terrazzi, briglie-serre)/piantata padana e alberata toscoumbromarchigiana/prati<br />

irrigui/risaie/gelsi/piantagioni meridionali (olivi, viti, agrumi, mandorli, noccioli)/pinete costiere/peschiere<br />

6.ETA’ CONTEMPORANEA<br />

a) Insediamenti: centri e sedi di vacanza e tempo libero (marine-lacustri-termali-montane)/città<br />

pianificate di bonifica-di termalismo-d’industria-di guarnigione (Toscana lorenese, Italia unitaria,<br />

fascista e della ricostruzione repubblicana…)/centri polarizzati spontaneamente da stradeporti-industrie/miniere<br />

e manifatture/sedi di bonifica e colonizzazione-riforma agraria<br />

b) Vie di comunicazione e infrastrutture: strade rotabili-ferrovie-autostrade con grandi pontiviadotti-trafori/acquedotti/invasi<br />

artificiali e centrali idroelettriche/impianti di risalita<br />

c) Strutture produttive: manifatture e villaggi operai/chiusure e beni comuni privatizzati (appresellamenti)/piccole<br />

aziende di colonizzazione o riforma agraria/piantagioni di mercato (vitiolivi-meli-peri-peschi-agrumi-mandorli-noccioli…)/sistemazioni<br />

idraulico-agrarie e forestali<br />

(terrazzi-a spina, briglie-serre)/coniferamenti montani o collinari/arboreti collinari e<br />

montani/pinete costiere/arboricoltura da legno di pianura (pioppete)/parchi naturali/rinaturalizzazioni<br />

montane-collinari<br />

• Per le referenze bibliografiche si rimanda a L. ROMBAI, Geografia storica<br />

dell’Italia. Ambienti, territori, paesaggi, Firenze, Le Monnier, 2002.<br />

59


DIDATTICA AMBIENTALE<br />

Silvana Grippi- Cultore di Geografia Ambientale<br />

L’importanza di educare al rispetto del nostro habitat, fin dall’età scolare, deve essere considerata<br />

come forma di “dovere sociale” all’interno della scuola, ma purtroppo l’Educazione<br />

ambientale non è definita come materia. Il Comune di Firenze ha appoggiato la nascita di laboratori<br />

di supporto scolastico e sono stati sperimenti alcuni corsi nelle Scuole elementari e medie<br />

che hanno avuto ottimi risultati. Ci auguriamo che la politica scolastica si indirizzarsi sempre<br />

più verso la sensibilizzazione di tali tematiche. Naturalmente, se la valutazione dei consumi<br />

inutili fosse alla portata di tutti i cittadini - con campagne di informazioni assidue sul danno prodotto<br />

dalle azioni compiute da ogni cittadino quotidianamente - potremmo avere più sensibilità<br />

ambientale contro gli sprechi.<br />

Dovrebbe essere insegnato dai genitori fin da piccoli che ‘lo spreco è un danno sociale condannabile<br />

come un omicidio’: forse questo diminuirebbe il disastro ecologico in corso dovuto<br />

all’utilizzo di inquinanti, l’uso incondizionato di riscaldamento, aria condizionata, acqua potabile,<br />

energia elettrica con sprechi enormi, l’uso incontrastato dei detersivi, l’acquisto di materiale<br />

giornaliero incartato con plastiche varie e così via. Quindi l’educazione ambientale deve<br />

essere finalizzata all’acquisizione di comportamenti corretti e deve mirare a costruire un diverso<br />

rapporto “uomo-ambiente” che prenda in considerazione la percezione, le sensazioni non<br />

trascurando le emozioni.<br />

In pratica ciò che contraddistingue l’educazione ambientale dalla semplice informazione (o formazione)<br />

è la modalità con cui concetti, nozioni, elementi di valutazione pratica vengono trasmessi<br />

al soggetto fruitore: non soltanto attraverso un approccio tradizionale, tramite un sistema<br />

articolato di forme comunicative ed espressive che prevedono il coinvolgimento, diretto o<br />

indiretto, del soggetto, privilegiando attività di gruppo.<br />

L’educatore ambientale si pone quindi come un facilitatore dei rapporti uomo-ambiente capace<br />

di semplificare, anche attraverso attività sensoriali, i processi di apprendimento e di fornire nel<br />

contempo adeguati strumenti di analisi empirica per la valutazione del territorio, capaci di evidenziare<br />

le relazioni fra l’ambiente naturale e le attività umane.<br />

Possiamo quindi dire che le finalità dell’educazione ambientale sono:<br />

- la trasmissione del sistema di conoscenze, di metodi ed esperienze attraverso le quali<br />

un gruppo prende coscienza della realtà dell’ambiente nel quale vive e assume un<br />

comportamento corretto e responsabile nella gestione dei sistemi e delle risorse<br />

ambientali.<br />

- divenire consapevoli che le scelte e le azioni individuali e collettive comportano con<br />

seguenze non solo sul presente ma anche sul futuro e assumere comportamenti<br />

coerenti, cioè individuare e sperimentare strategie per un vivere sostenibile.<br />

- favorire lo sviluppo delle qualità dinamiche. Educazione ambientale e discipline<br />

scolastiche.<br />

- fornire nozioni tecnico pratiche ai partecipanti inerenti al tema dello Sviluppo<br />

Sostenibile. L'approccio concreto fa sì che il tema possa essere proposto sotto forma<br />

quasi ludica, trasmettendo contemporaneamente messaggi sull'importanza del rispetto<br />

dell'ambiente con particolare riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili.<br />

L’educazione ambientale si fonda su due presupposti fondamentali: l’interdipendenza dei fenomeni<br />

e l’interdisciplinarità (aspetti in comune con le altre educazioni: diritti, pace, intercultura,<br />

60


sviluppo...). Se i problemi, per essere compresi nelle loro dimensioni reali, vanno letti da varie<br />

angolature, individuando le interazioni e i nessi, non si tratta di inventare altre materie scolastiche<br />

ma di ripensare la funzione delle discipline, utilizzando l’educazione ambientale come<br />

risorsa per selezionare in fase di programmazione: obiettivi formativi, concetti-chiave, temi,<br />

problemi.<br />

Percorsi educativi - con la collaborazione di Alessandro Regoli e Shara Monteleone<br />

(DEApress/Firenze)<br />

Da una ricerca dei fattori sociali che intervengono nella didattica ambientale, approfondita sul<br />

campo dal nostro centro studi DEApress, per quanto riguarda il rapporto tra i percorsi di educazione<br />

geo-ambientale e le varie aree disciplinari, è stato rilevato quanto segue:<br />

- Le discipline costituiscono delle chiavi di lettura per leggere un tema-problema che<br />

costituisce il fulcro attorno al quale si costruiscono percorsi didattici.<br />

- L'esperienza pratica è il proseguimento del lavoro svolto in classe: fare educazione<br />

ambientale significa pertanto favorire le occasioni di incontro diretto dei ragazzi con<br />

la natura.<br />

Il principale obiettivo di ogni progetto di educazione ambientale è quello di fornire gli strumenti<br />

analitici necessari con cui si possa capire e valutare l’ambiente. Il percorso didattico si può articolare<br />

in:<br />

Ricerca sul campo (entrare nell’ambiente per percepirlo, esplorarlo, raccogliere dati, modificarlo);<br />

formulazione di ipotesi, ricerca di soluzioni; individuazione di aspetti positivi e negativi<br />

in relazione a un problema; discussioni, domande aperte; giochi di ruolo e di simulazione;<br />

attività artistico espressive; interviste, questionari, dossier in video.<br />

L’educazione ambientale permette un confronto e un’interazione tra le varie discipline, e permette<br />

agli studenti di vivere l’apprendimento scolastico come strumento per capire la realtà<br />

locale e globale. È importante riuscire a fondere assieme elementi formativi classici ad altri di<br />

origine diversa (attività ludiche, partecipative e sensoriali) che vanno a integrarsi e a fornire i<br />

giusti stimoli per un apprendimento basato sull’esperienza diretta. La dimensione ambientale<br />

costituisce una componente insostituibile dell’educazione alla complessità del reale, che possiamo<br />

considerare una finalità generale che sta a monte del bagaglio di concetti, conoscenze e<br />

metodologie che competono alle varie discipline scolastiche e non. I temi legati a sviluppo e<br />

ambiente, nel contesto storico e sociale, quali demografia, salute, pace, diritti umani, democrazia,<br />

fame, degrado di flora e fauna, devono essere intesi come fondamentali; la formazione<br />

quindi deve essere rivolta a Operatori, Volontari e Animatori di Centri di Educazione<br />

Ambientale, Centri di Aggregazione Giovanile e Ludoteche, Insegnanti di Scuole Elementari e<br />

Medie.<br />

Durante il corso ci si avvale delle diverse discipline scientifiche e sociali (geologia, botanica,<br />

zoologia, climatologia, bioarchitettura, geografia, ecc..), ma soprattutto dei princìpi e dei metodi<br />

dell'Ecologia Applicata. In base ai temi specifici di ogni incontro, è previsto l'uso di diapositive,<br />

lucidi, campioni di materiale raccolto sul campo, schede di indagine da compilare durante<br />

le uscite, dispense. Nelle uscite lo studente sarà chiamato ad un ruolo attivo, ad utilizzare correttamente<br />

l’osservazione diretta, ad effettuare il campionamento biologico, a raccogliere e conservare<br />

materiali.<br />

61


Educare all’ambiente significa educare al futuro<br />

Il nostro tempo è caratterizzato da una accelerazione intensa e sempre più difficilmente prevedibile<br />

dei mutamenti politici, ideologici, economici, culturali e ambientali, che rende questa<br />

epoca storica diversa da tutte le precedenti. Questa caratteristica deve essere presa in considerazione<br />

anche in campo educativo, dove è possibile delineare nuove grandi finalità formative<br />

che favoriscono la percezione, l’analisi e la comprensione dei cambiamenti da parte di insegnanti<br />

e studenti, al fine di diventare cittadini consapevoli e responsabili nei confronti di sé, dell’ambiente<br />

e della comunità intesa non solo come società di appartenenza.<br />

Le attività di educazione ambientale mirano a cambiare sostanzialmente sia a livello individuale<br />

sia a livello collettivo i comportamenti e gli atteggiamenti; se l’educazione ambientale si propone<br />

di cambiare il modo di agire delle persone coinvolte nel processo di apprendimento nei<br />

confronti dell’ambiente, non può prescindere dalla dimensione socio-affettiva che interagisce<br />

con la dimensione cognitiva in modo inscindibile.<br />

62


ENERGIA E MOBILITA’ SOSTENIBILI,<br />

BIOARCHITETTURA E BIOLUCE


SOSTENIBILITÀ ED ENERGIA<br />

Fausto Ferruzza - Associazione Legambiente<br />

La definizione SVILUPPO SOSTENIBILE comparve nel 1987 e fu enunciata dalla<br />

Commissione dell’ONU per l’Ambiente e lo Sviluppo. Essa definì “sostenibile uno sviluppo<br />

che soddisfa i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità delle generazioni<br />

future di rispondere ai loro…”<br />

Oggi, nella comunità scientifica, il termine è superato perché il sostantivo ‘sviluppo’ ha ingenerato<br />

non pochi equivoci, nel senso che ha dato implicitamente credito ad un’idea di crescita<br />

positiva. Così si preferisce usare le definizioni “società sostenibile” o “futuro sostenibile”.<br />

Energia e biomassa: energia da biomasse e biocombustibili<br />

Si tratta di energia solare indiretta che può essere prodotta da qualunque materiale organico vegetale,<br />

come alberi e residui forestali, piante erbacee ed acquatiche, residui agricoli, residui industriali,<br />

rifiuti urbani. I processi di conversione prevedono la combustione, la gassificazione, la<br />

pirolisi (per produrre bio-olio), la fermentazione e la digestione anaerobica (per produrre gas).<br />

Le biomasse rappresentano il 15% dell'offerta energetica mondiale, che però viene consumata<br />

in maniera episodica, al di fuori dei circuiti commerciali dell'energia. L'Unione Europea - nella<br />

quale il 2,5% del fabbisogno energetico è coperto da tale fonte - ha avviato un aggressivo programma<br />

di dimostrazione che prevede la diffusione di colture energetiche, l'utilizzo di residui<br />

agroindustriali e zootecnici e di biomasse acquatiche, con l'obiettivo di raddoppiare o triplicare<br />

in pochi anni il contributo di questa fonte di energia.<br />

In Italia le biomasse già contribuiscono alla produzione di energia elettrica (103 MW) e di energia<br />

termica (1240 MW). All'ENEL, a seguito dei provvedimenti legislativi per la promozione<br />

degli investimenti (leggi n.9 e n.10) e l'incentivazione alla autoproduzione di elettricità (CIP<br />

6/92), sono state inoltrate proposte di convenzione per la produzione di energia elettrica dalle<br />

biomasse per circa 700 MW (60 MW biogas; 306,2 MW residui agricoli; 196 MW rifiuti solidi<br />

urbani; 129,3 MW altri rifiuti).<br />

Il sole è la fonte energetica che alimenta la vita sulla terra, da vita alle piante che diventano cibo<br />

per gli animali, attraverso le differenze di temperatura da origine al vento, alla pioggia, alle<br />

onde.<br />

L’uomo ha adattato il suo stile di vita alla disponibilità del sole. Per ovviare alla discontinuità<br />

dell’irraggiamento solare nel passato si migrava alla ricerca di climi più caldi.<br />

L’invenzione più importante nella storia dell’umanità è stata la scoperta del fuoco, attraverso la<br />

combustione del legno. Il fuoco fornisce la luce se è buio, riscalda se fa freddo, protegge dagli<br />

animali predatori, permette di cuocere i cibi. Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha continuato a<br />

sviluppare le tecniche della combustione imparando a cuocere l’argilla e fondere i metalli, producendo<br />

utensili sempre più sofisticati. Il legno rimaneva comunque la materia prima più utilizzata.<br />

Le deforestazioni più importanti sono avvenute nei secoli a cavallo del primo millennio<br />

e hanno prodotto un danno ecologico permanente su intere regioni della terra.<br />

Fino al diciottesimo secolo le uniche forme di energia meccanica usate erano il vento e l’acqua<br />

(grazie ai mulini). Con l’invenzione della macchina a vapore divenne possibile ottenerla bruciando<br />

legno. L’esigenza di sempre maggiori quantità di combustibile spinse l’uomo ad utiliz-<br />

64


zare le risorse non rinnovabili della terra (carbone, petrolio etc.) immagazzinate per milioni di<br />

anni nel sottosuolo e ritenute infinite. Sull’utilizzo di queste fonti di energia si è costruita la<br />

Rivoluzione industriale. Il progressivo miglioramento delle tecniche di combustione ha permesso<br />

di ottenere grandi quantità di energia in modo costante. Ciò ha reso possibile creare negli<br />

edifici un comfort artificiale senza dipendere dal ciclo discontinuo del sole. In questo modo<br />

l’uomo e l’architettura hanno cominciato ad allontanarsi dalla natura senza accorgersene. La<br />

combustione delle risorse energetiche non rinnovabili ha introdotto inoltre un nuovo problema:<br />

l’inquinamento.<br />

La combustione del legno o delle biomasse, al contrario, causa un inquinamento ambientale<br />

ridotto (essenzialmente CO2 ) che può essere neutralizzato attraverso nuove piantumazioni.<br />

Il legno venne sostituito anche come materiale da costruzione, soppiantato da calcestruzzo,<br />

acciaio, alluminio, plastica, etc. materiali apparentemente più efficienti ed inesauribili.<br />

Si ipotizzò che il non utilizzo del legno, avrebbe contribuito a proteggere l’ambiente naturale,<br />

mentre invece si cominciò a danneggiarlo più gravemente. La produzione e lavorazione dei<br />

nuovi materiali da costruzione richiedono un consumo di energia molto più elevato detta energia<br />

di produzione. Le fonti energetiche non rinnovabili poi, richiedono maggior energia nel processo<br />

di produzione, trasporto, distribuzione. La somma di queste perdite nella trasformazione<br />

viene chiamata energia grigia. Il legno nel corso della sua vita accumula energia e CO2, richiede<br />

poca energia di produzione come materiale da costruzione e costa poca energia grigia se utilizzato<br />

come combustibile. Un m3 di legno assorbe 1.000 Kg di Biossido di carbonio (CO2)<br />

durante la sua crescita; dopo circa 50 anni un albero costituisce una buona riserva di Carbonio<br />

ma una volta che questa è ultimata inizia ad assorbire sempre meno CO2 e a produrre meno<br />

Ossigeno ( O2 ). Inoltre diventa più vulnerabile ad insetti, funghi e soggetto a facile rottura, la<br />

sua funzione di collettore biologico si fa sempre più ristretta, quindi un albero non più efficiente<br />

biologicamente deve essere abbattuto.<br />

Dal punto di vista energetico un m3 di legno può essere convertito in 2500 kWh, mentre se utilizzato<br />

come materiale da costruzione circa il 75% può essere tagliato in legni squadrati, il<br />

restante 25% di scarto può essere utilizzato come combustibile ottenendo 625 kWh.<br />

Per abbattere, trasportare, segare, piallare, etc., 1 m3 di legno occorrono circa 660 kWh di energia,<br />

dei quali 200 kWh per il processo meccanico, il resto è usato termicamente per l’essicazione,<br />

ciò significa che utilizzando l’energia contenuta negli scarti per alimentare il processo di<br />

produzione e lavorazione, il bilancio energetico è quasi in pari. Se poi si considera che la maggior<br />

parte del processo di essicazione può essere effettuato impiegando tecnologie solari, il<br />

bilancio diventa attivo.<br />

Una volta utilizzato come materiale da costruzione ha una vita che varia da pochi anni a molti<br />

secoli durante i quali non perde il proprio contenuto energetico; potendo essere rimosso e sostituito<br />

si deve considerare una riserva nascosta di liquidità energetica. Ciò significa che è il materiale<br />

ideale per risparmiare energia e ridurre l’inquinamento.<br />

Energia dai rifiuti<br />

L'Italia ricicla e fa sperimentazioni all'avanguardia. Le aziende cominciano a puntare sull'ambiente.<br />

L'Italia che Ricicla è la prima grande iniziativa di informazione e sensibilizzazione realizzata<br />

in Italia sul tema della promozione della raccolta differenziata e del riciclo dei rifiuti.<br />

Promotori dell'iniziativa sono il Ministero dell'Ambiente e il Conai, Consorzio Nazionale<br />

Imballaggi. Con questa occasione, coordinata dall'Agenzia nazionale per l'ambiente che gestisce<br />

la segreteria scientifica dell'Osservatorio nazionale sui rifiuti, si sollecitano imprese, scuo-<br />

65


le ed operatori di settore ad organizzare una giornata educativa per i cittadini. L'Italia che<br />

Ricicla è il banco di prova per vedere qual è la conoscenza della collettività su questo mondo.<br />

Ma perché una giornata sui Rifiuti? Il motivo lo dice la sua storia. Nel mondo c'è un grande<br />

aumento dei consumi e di conseguenza di avanzi. Fino agli anni cinquanta non esistevano molti<br />

imballaggi e i prodotti venivano venduti sfusi e si avevano percentuali di scarto elevati. Poi le<br />

tecnologie diedero, tramite gli imballaggi, l'opportunità alle aziende di avere una più efficiente<br />

movimentazione delle merci, che inoltre permise di ridurre gli sprechi. Oggi basta fare il confronto<br />

fra Europa che ha solo il 2-3% di spreco dal produttore alla vendita, contro il 30-40% nei<br />

paesi in via di sviluppo, per capire l'importanza dei contenitori. Un esempio certamente rivoluzionario<br />

riguarda il Tetra Pak che ha dato il nome al più grande gruppo del mondo specializzato<br />

in cartoni per bevande. Nasce infatti nel '52, il contenitore d'eccellenza per latte e altri alimenti<br />

liquidi, fatto con un tubo di carta rivestito di un film di polietilene (una macroparaffina<br />

atossica della famiglia del metano a combustione pulita) riempito di prodotto e saldato in condizioni<br />

igieniche avanzate. Il tetrapak, seguito poi dal tetra brik, il "mattone" di cartone asettico,<br />

in assoluto l'imballaggio più diffuso al mondo per il latte a lunga conservazione. Gli imballaggi<br />

diventano dunque una questione critica per i governi che debbono smaltirli e per le industrie<br />

che debbono ridurne il consumo. Anche perché questi hanno un costo e dunque le aziende<br />

hanno ragioni, sia commerciali che ambientali, per abbassarne l'utilizzo. In effetti, il costo percentuale<br />

del contenitore sul costo totale può variare dal 22.4% delle bevande analcoliche, al<br />

7.9% del latte o al 2.7% dei tabacchi anche se le nuove tecnologie di resistenza dei materiali<br />

hanno consentito la produzione di involucri più leggeri. Se gli imballaggi sono più leggeri si<br />

risparmia nei trasporti, si riducono le emissioni, si ottengono materie prime a costi più bassi.<br />

I primi progetti pilota italiani<br />

Le famiglie oggi producono 4 chili di avanzi settimanali, le coppie 7 e i single 11. Dato che nei<br />

paesi di benessere si sta riducendo il nucleo famigliare il problema diventa pressante.Quattro i<br />

comuni di sperimentazione di raccolta differenziata dei cartoni per bevande promossa dalla<br />

Tetrapak insieme al Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica<br />

(Comieco): Abbiategrasso, Castellaneta e Ginosa con sacco porta a porta; a Pistoia nella raccolta<br />

multimateriale insieme a vetro-plastica-alluminio. Esperimento dove primariamente il cittadino<br />

viene informato su cosa sia il cartone per bevande ossia il poliaccoppiato. Un contenitore<br />

oggi totalmente riciclabile composto da un cartoncino con un film di polietilene. Se ha anche<br />

un foglio di alluminio è un imballaggio per i liquidi a lunga conservazione senza necessità di<br />

refrigerazione. Ma quali sono gli imballaggi sotto esperimento? I contenitori di yogurt, succhi<br />

di frutta, salse, latte, panna, acqua e vino. Non fanno parte della raccolta i vari film plastici che<br />

avvolgono normalmente surgelati e snacks che invece dovranno essere gettati nel sacco dei<br />

rifiuti indifferenziati. Ovviamente bisogna ricordarsi, onde evitare spiacevoli e sgradevoli odori<br />

in casa, di sciacquare tutti i contenitori una volta consumati. Inoltre è necessario appiattirli per<br />

occupare poco spazio. A questo riguardo è interessante la raccolta finlandese dei cartoni del<br />

latte: un'imballaggio contiene altri dieci appiattiti. Quando si riempie il sacco casalingo viene<br />

portato davanti al supermercato dove un camion della Stora-enso (uno dei più grandi gruppi cartari<br />

del mondo e fornitore privilegiato Tetrapak) recupera il rifiuto per riciclarlo in parte come<br />

carta kraft, la carta grezza dei rotoli di carta igienica, e in parte come recupero energetico per la<br />

stessa fabbrica. Anche in Italia la tecnologia Tetrapak punta sul recupero energetico dai rifiuti<br />

selezionati e se il progetto pilota sui quattro comuni risulterà efficace, certamente sarà esteso a<br />

66


molti comuni. Difficile comunque pensare attualmente a queste metodologie avanzatissime su<br />

una città come Roma che ha, a tutt'oggi, una delle più grandi discariche d'Europa.<br />

Probabilmente la ricerca di Tetrapak ed altri sta già studiando come risolvere e recuperare energia<br />

dalla discarica capitolina e non si dubita che a breve queste nuove tecniche possano essere<br />

applicate anche nelle grandi città dei paesi in via di sviluppo dove i rifiuti sono un'emergenza.<br />

Energia per il futuro<br />

I fabbisogni energetici sono in continuo aumento. A livello di Unione Europea (UE) il mercato<br />

ammonta a circa 1.370 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) dei quali effettivamente<br />

il 42% derivanti da petrolio e la rimanente parte fornita dal gas naturale, dai combustibili<br />

solidi e da altre fonti.<br />

Ciò corrisponde a consumi pro-capite variabili tra 2,5 t/anno per la Spagna e 11,9 t per il<br />

Lussemburgo (Italia: 2,9 t) con una media di 3,7 t. La corrispondente produzione annua di anidride<br />

carbonica (il principale prodotto della combustione) ammonta a 3.496 milioni di t, corrispondenti<br />

a una media di 9,4 t/persona (7,5 t per l'Italia). Si stima che il fabbisogno energetico<br />

aumenterà nel 2010 a 1.571 Mtep (+15%) e nel 2020 a 1.637 Mtep (+20%). I consumi, tuttavia,<br />

non possono incrementare indefinitamente a causa di ovvie implicazioni strategiche,<br />

ambientali e socio-economiche. Un ulteriore gravissimo problema è dato dall'esplosivo aumento<br />

dei consumi dei paesi in via di sviluppo (PVS), i cui consumi medi pro-capite variano tra 0,5<br />

(Africa e Asia meridionale) e 1,9 (America Latina) t/anno. I PVS interessano 4,5 miliardi di persone,<br />

cioè l'85% della popolazione mondiale e ben il 95% della relativa crescita.<br />

"In questo quadro, l'obiettivo primario è quello di ridurre i fabbisogni energetici e il relativo impatto<br />

sull'ambiente attraverso: processi, macchine e impianti più efficenti, risparmio energetico e<br />

ricorso alle fonti energetiche rinnovabili. Tra le fonti rinnovabili rientrano i biocombustibili."<br />

Rinnovabile<br />

5% Nucleare<br />

13%<br />

Rinnovabile<br />

7% Nucleare<br />

4%<br />

Petrolio<br />

56%<br />

C. Solidi<br />

8%<br />

Petrolio<br />

45%<br />

C. Solidi<br />

19%<br />

Gas<br />

25%<br />

Gas<br />

18%<br />

Distribuzione del fabbisogno<br />

in dipendenza del tipo di fonte energetica<br />

EU Distribuzione del fabbisogno Italiano<br />

in dipendenza del tipo di fonte energetica<br />

Protezione dell'ambiente. L'uso dei biodiesel, se comparato con quello dei combustibili di origine<br />

fossile, permette la riduzione delle emissioni gassose prodotte dai motori e ritenute pericolose<br />

per la salute. Inoltre consente l'azzeramento del bilancio dell'anidride carbonica. Infatti,<br />

la CO2 prodotta durante la combustione di una certa quantità di biodiesel è riutilizzata dalla<br />

fotosintesi dalle colture destinate alla sostituzione della medesima quantità. In questo modo, il<br />

contenuto di anidride carbonica presente in atmosfera non cambia e vengono limitati tutti gli<br />

effetti oggi provocati dai cosiddetti "gas serra" (aumento della temperatura media del globo).<br />

67


40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

Colza<br />

Girasole<br />

Energia Spesa<br />

Energia dal Solo Biodiesel<br />

Confronto tra le spese energietiche<br />

totali e il solo contributo energetico<br />

fornito dal biodiesel. Questo è già<br />

sufficiente per rendere il bilancio<br />

positivo (valori in GJ per ettaro<br />

coltivato).<br />

Riduzione delle emissioni. L'utilizzo del biodiesel nei motori riduce sostanzialmente: gli idrocarburi<br />

incombusti, l'ossido di carbonio (CO) e la fumosità. Le emissioni di ossidi si azoto<br />

(NOx) e di particolato (PM) si comportano diversamente in dipendenza dal tipo di motore e dal<br />

tipo di test effettuato. Molto frequentemente, comunque, le emissioni di PM sono nettamente<br />

inferiori per il biodiesel. Le emissioni di ossidi di zolfo (SOx), invece sono sempre praticamente<br />

nulle. La produzione di anidride carbonica (CO2), come visto è azzerata a livello di bilancio<br />

globale.Il CO e alcuni componenti del particolato sono dannosi alla salute umana in modo diretto;<br />

gli ossidi di azoto e zolfo sono alla base dei complessi fenomeni di inquinamento che causano<br />

le piogge acide e la riduzione della fascia d'ozono alle alte quote; l'aumento della CO2 è<br />

strettamente legata al crescente "effetto serra", cioè l'aumento della temperatura media ambientale.<br />

Il giudizio che ne esce è globalmente positivo per il biodiesel e migliora ulteriomente se il<br />

confronto venisse esteso anche alle emissioni non regolamentate e a tutta la filiera di produzione<br />

("life cycle analysis" - "analisi del ciclo di vita").<br />

120%<br />

100%<br />

80%<br />

40%<br />

20%<br />

0%<br />

Fumosità CO NOx HC Particolato<br />

Gasolio<br />

Biodiesel<br />

Emissioni: risultati medi ottenuti con un test di lunga durata svolto dall'Università di Idaho (USA).<br />

I dati si riferiscono a due anni di prove, impiegando 7 automezzi e percorrendo una media di<br />

oltre 90.000 Km con ogni autoveicolo. Si evidenzia: una decisa riduzione della fumosità, dell'ossido<br />

di carbonio (CO) e degli idrocarburi incombusti (HC) e un leggero aumento del particolato.<br />

Nel test svolto si è notata anche una diminuzione degli ossidi di azoto (NOx).<br />

68


120%<br />

100%<br />

80%<br />

40%<br />

20%<br />

Fumosità CO NOx HC Particolato<br />

Gasolio<br />

Biodiesel<br />

Biodiesel<br />

Emissioni: risultati medi ottenuti con il test Euro 2 dalla Mercedes - Benz AG su un motore a<br />

iniezione diretta senza catalizzatore. Con quest'ultimo, i risultati sono ancora migliori per il biodiesel.<br />

Si evidenzia: una drastica riduzione della fumosità, dell'ossido di carbonio (CO), del particolato<br />

e degli idrocarburi incombusti (HC) e un leggero aumento degli osidi di azoto.<br />

Effetti sulla salute. E' ormai provato come talune componenti del particolato prodotto dai<br />

motori siano dei potenziali cancerogeni. Questo aspetto è stato messo in evidenza a partire dal<br />

1988 dal National Institute for Occupational Safety and Health (Istituto per la Sicurezza e la<br />

Salute sul Lavoro - NIOSH) degli USA. Il biodiesel riduce significativamente quasi tutti i livelli<br />

di emissione regolamentati e, in particolare, la frazione di carboniosa che influisce sulla<br />

fumosità dei motori. In aggiunta, i relativi incombusti (HC) hanno un minore impatto sulla salute<br />

rispetto a quelli del gasolio. Questo aspetto è messo in evidenza dalla forte riduzione degli<br />

indici di mutagenicità: 50% per il particolato e quasi totalmente per i composti gassosi. Ciò ha<br />

indotto l'US Bureau of Mines (Ente statunitense per le Miniere) a indicare il biodiesel come<br />

combustibile ideale per motori operanti in ambienti di lavoro chiusi. Ciò grazie anche al suo elevato<br />

punto di infiammabilità (oltre 170 °C, contro i 50 °C del gasolio di origine minerale) che<br />

rende questo combustibile biodegradabile sicuro anche nella relativa movimentazione sia all'esterno<br />

che all'interno dei luoghi dove viene impiegato. Inoltre, test condotti secondo il protocollo<br />

USA EPA/600/4-90/027 su organismi vegetali e animali hanno evidenziato come il biodiesel<br />

sia atossico.<br />

Biodegradabilità. Il biodiesel è prontamente biodegradabile nelle acque superficiali (secondo<br />

la definizione EPA) e questa caratteristica lo rende desiderabile per vari utilizzi, quali: impiego<br />

in aree protette per nautica e trasporti su terra e ovunque sussista il pericolo di perdite di combustibile.<br />

Ricerche svolte dall'Università di Idaho (USA), evidenziano un comportamento molto<br />

simile a quello del destrosio: in soluzione acquosa (protocollo EPA 560/6-82-003) dopo due<br />

giorni gli acidi grassi non sono più rivelabili, mentre dopo 28 giorni risulta trasformata in CO2<br />

una quantità variabile tra l'85 e l'89% del prodotto iniziale (contro il 18% del gasolio). Peraltro,<br />

il biodiesel in miscela aumenta le caratteristiche di biodegradabilità in misura più che proporzionale<br />

alla sua concentrazione nel gasolio.<br />

69


Come produrre un BioDiesel in casa o in fattoria<br />

Il Biodiesel di canapa potrebbe costituire il carburante liquido del futuro. La canapa può dare<br />

una produzione di olio maggiore di qualsiasi altro tipo di raccolto odierno (soia, cartamo, etc).<br />

Trent'anni fa i fagioli di soia erano un argomento su cui ridere per gli agricoltori americani. Chi<br />

avrebbe detto che in trent'anni la soia sarebbe diventata la principale coltura americana per olio<br />

e proteine? La stessa cosa sta succedendo per la canapa. E chi sa cosa i prossimi trenta anni porteranno<br />

all'agricoltura della canapa americana. I carburanti di canapa sono un ulteriore beneficio<br />

dell'Agricoltura Industriale Nazionale della Canapa. Nel 1997 più di 10 Stati (americani)<br />

stanno prendendo in considerazione leggi per la coltivazione industriale della canapa. Nel frattempo<br />

il seme di canapa deve essere coltivato fuori dagli Stati Uniti. La maggior quantità del<br />

peso del costo dell'altrimenti economicissima canapa è dovuto esattamente al trasporto attraverso<br />

il globo. Il seme per produrre un gallone di olio può costare sino a 100$. Tutte le produzioni<br />

e i trasporti vengono colpiti dai costi astronomici. Aspetto con ansia il giorno quando un<br />

agricoltore potrà produrre il suo olio di canapa per carburante al prezzo di un dollaro al gallone.<br />

La seguente formula per produrre Carburante Diesel con la canapa funzionerà egregiamente<br />

per ottenere piccole quantità di carburante che attiverà il vostro altoparlante al "Rally della<br />

Canapa" di quest'estate. Un generatore diesel da 4 Kw usa circa un litro all'ora. Immaginate di<br />

andare al microfono e dire: "la mia voce vi giunge grazie al carburante ottenuto dalla canapa!".<br />

Vedere per credere. "Vi farò fare un giro per la capitale dello Stato, Signor Senatore, con la mia<br />

macchina funzionante a canapa!" BioDiesel, non nuovi carburanti. La DOE e la USDA hanno<br />

fornito fondi per la ricerca per anni. La conferenza delle Americhe sulle Biomasse a Burlington<br />

nel Vermont ha fornito più di una dozzina di documenti presentati su tutti gli aspetti della canapa<br />

come coltura da olio. Ma continuiamo.<br />

Come ottenere un Titolare Biodiesel privo di acidi grassi<br />

Misurate il contenuto di acidi grassi del vostro olio: mescolate 1 ml di olio con 10° ml di Alcool<br />

Isopropile = 2 gocce fenoltaliano in soluzione (disponibile nei negozi di forniture chimiche).<br />

Aggiungete lentamente lo 0,1% di soluzione di lisciva ( 1 gm in 1 l d'acqua) fino a quando la<br />

soluzione rimane rosa per 10 secondi (2° gocce = 1ml). Tenete nota dei millilitri usati di soluzione<br />

o,1%. Metanolo. Avrete bisogno di 200 ml di metanolo per litro di olio di semi di canapa.<br />

Il Metanolo può essere acquistato come Drigas nella maggior parte di negozi di auto, leggete<br />

le etichette per trovare il metanolo. Evitate il metanolo dei negozi di ferramenta (alcool di<br />

legno) in quanto può contenere troppa acqua.<br />

Metossido di Sodio<br />

Per ogni litro di olio di canapa avrete bisogno di 1 gr di lisciva granulare solida per ogni ml di<br />

soluzione 0,1% di lisciva usata nel Titolare privo di acidi grassi più 3,5 gr. Sciogliete completamente<br />

la giusta quantità di lisciva nel metanolo (Lisciva Red Devil può essere acquistata in<br />

drogheria). Questo miscuglio produce Metossido di sodio.<br />

Mixer<br />

Il tipo di mixer dipende dalla quantità utilizzata. Un frullatore va bene per piccole quantità. Un<br />

trapano elettrico e un miscelatore di vernici su asta allungabile va bene per un bidone da 5 galloni.<br />

Un interruttore per controllare la velocità può essere ricavato da un interruttore di controllo<br />

della luminosità.<br />

70


Transesterfication<br />

Una volta che la lisciva catalizzatrice si è sciolta senza sedimenti può essere aggiunto l'olio al<br />

metanolo/lisciva mescolando continuamente. All'inizio il miscuglio diventa più spesso, poi si<br />

raffina continuando con la reazione. Prendere campioni ogni 5 minuti con un contagocce in un<br />

tubo per test o in un contenitore chiaro. Il miscuglio si separerà in uno strato leggero, in cima,<br />

di bio diesel, ed uno in fondo più scuro di glicerina, sapone e catalizzatore. Continuare a mescolare<br />

30, 60 minuti.fino a quando rimane costante. Smettere di mescolare. Andate a pranzo.<br />

Quando tornate il tutto si sarà separato in due strati distinti. Avete appena preparato quello che<br />

potrebbe essere il carburante del futuro per una società autosufficiente. Lasciate riposare 8 ore.<br />

Versate e tenete lo strato superiore di diesel in un contenitore separato. Un contenitore con<br />

fondo a imbuto va bene<br />

Pulizia<br />

Il carburante biodiesel greggio potrebbe avere qualche catalizzatore, alcool e glicerina che causerebbero<br />

problemi al motore, così per assicurarne lunga durata il carburante greggio deve essere<br />

pulito con acqua. Prima gentilmente, poi energicamente, sciacquatelo con acqua fino a quando<br />

l'acqua risulta chiara e il ph dell'acqua è lo stesso dell'acqua iniziale. Lasciare riposare.<br />

Asciugare l'acqua nel Biodiesel crea vapore. Così scaldatelo lentamente e con attenzione. A 100<br />

gradi C la maggior parte dell'acqua crea una coalescenza e ricade sul fondo. Deve essere completamente<br />

rimossa dal fondo prima di scaldare a temperatura superiore. ATTENZIONE!<br />

INDOSSARE ABITI PROTETTIVI E PROTEZIONE ANCHE <strong>PER</strong> GLI OCCHI. SE NON<br />

ELIMINATE L'ACQUA PRIMA DI SCALDARE NUOVAMENTE POTETE PROVOCARE<br />

UN'ESPLOSIONE DI LIQUIDO BOLLENTE!. Tolta l'acqua scaldate il biodiesel a 15°°<br />

C/300F per terminare l'asciugatura. Raffreddate, filtrate e tenete in un recipiente ben chiuso<br />

marcato da etichetta ben visibile: "100% carburante di canapa-Metil-.estere- Carburante casalingo".<br />

Questo carburante può essere mescolato in qualsiasi proporzione con diesel di petrolio.<br />

Test dinamometrici indicano uscita di potenza con fino al 75% di riduzione in particelle e scorie.<br />

Non necessita di modifiche alcun motore che lo utilizzi. Altri oli vegetali al momento risultano<br />

troppo costosi per usarli per guidare attraverso il paese. Non è questo l'obbiettivo dell'articolo.<br />

Il nostro scopo è di dimostrare la possibilità di esistenza di questo tipo di carburante. E'<br />

tempo di dare una possibilità alla canapa. Le piccole quantità di carburante diesel possono giocare<br />

un ruolo importante nell'educare noi ed i nostri politici sulle speranze riposte nella canapa.<br />

Per altri lettori sorgeranno domande: che altro posso usare come materiale base che sia poco<br />

costoso fino a quando non sarà possibile coltivare la canapa? Soia, girasole, cartamo sono al<br />

momento oggetto di tests.<br />

Presentato alla Conferenza: " Il futuro della canapa della British Columbia (Canada)<br />

"Gli autobus del New Jersey provano carburante vegetale"<br />

La Società dei Trasporti del New Jersey sta conducendo un test di quattro mesi su di un carburante<br />

modificato contenente olio vegetale come quello di soia (semi di canapa). Il Comitato<br />

Nazionale per Bio Diesel fornisce gratuitamente il carburante grazie ad un sussidio del<br />

Comitato Unificato della Soia. Il carburante B-20 contenente il 20% di olio vegetale, è stato sviluppato<br />

dalla Twin Rivers Technology di Quincy-Massachussets. La canapa industriale non ha<br />

proprietà psicoattive secondo la definizione della Comunità Economica Europea, il contenuto<br />

di THC è meno dello 0,3%. In generale, le varietà con seme a basso THC senza proprietà psicoattive<br />

sono quelle che hanno un contenuto di THC di meno dello 0,1%.<br />

71


ENERGIA TERMICA DAL GRANTURCO<br />

Il granturco è un importante alimento usato fin dall'antichità come per uomini e bestiame. Ora<br />

diventa anche una fonte di energia per il riscaldamento di alloggi, ville, condomini e acqua sanitaria,<br />

utilizzando le speciali stufe, termostufe e caldaie di Casa Felice.<br />

E' possibile realizzare degli ottimi impianti tradizionali, a parete, a pavimento, a battiscopa,<br />

tutto in automatico e con dei risparmi notevolissimi e, molto importante, senza inquinare.<br />

Il granturco (mais) usato da millenni nell'alimentazione ha ora assunto una importanza notevolissima<br />

anche come fonte energetica con numerose applicazioni. Da diversi anni sono in produzione<br />

motori alimentati a biodiesel ricavato dal granoturco ed ora si è rivelato un ottimo combustibile<br />

che opportunamente usato in speciali stufe, termostufe e caldaie sviluppano una elevata<br />

potenza rispettosa dell'ambiente.<br />

Il Granturco si è rivelato uno dei combustibili più potenti esistenti in natura: non inquinante, rinnovabile,<br />

di facile reperibilità. Facilissimo il trasporto, semplice l'immagazzinamento.<br />

Bruciato in apposite stufe o caldaie adattate a questo tipo di combustibile, si è rivelato il prodotto<br />

più economico per riscaldare.<br />

COMBUSTIBILE<br />

GRANOTURCO<br />

METANO<br />

GASOLIO<br />

GPL<br />

LEGNA DI FAGGIO 15% UMIDITA’<br />

PELLETS<br />

Altre biomasse utilizzabili nelle nostre stufe e caldaie (GUSCI DI<br />

NOCCIOLE, SEMI DI UVA, SANSA DI OLIVA, NOCCIOLINO DI<br />

OLIVA, GUSCI DI PINOLI, etc...)<br />

ENERGIA ELETTRICA<br />

POTERE CALORIFERO<br />

6180 Kcal/Kg<br />

8500 Kcal/Kg<br />

10000 Kcal/Kg<br />

9000 Kcal/Kg<br />

3500 Kcal/Kg<br />

4500 Kcal/Kg<br />

4500 Kcal/Kg<br />

860 Kcal/Kg<br />

Caldaia a Pellets completamente automatica: accensione, caricamento dei pellets anche se posti<br />

in serbatoi lontani dalla caldaia, pulizia in automatico ogni ora del bruciatore, estrattore ceneri<br />

automatico, modulazione della fiamma, regolazione dei fumi mediante sonda lambda, cronotermostato,<br />

autodiagnosi, accensione tramite telefono, sicurezza per adulti e bambini, antincendio<br />

incorporato, sonde per esterno ed interno.<br />

72


ENERGIA EOLICA<br />

I generatori eolici o aerogeneratori convertono direttamente l'energia cinetica del vento in energia<br />

meccanica, che può essere quindi utilizzata per il pompaggio, per usi industriali e soprattutto<br />

per la generazione di energia elettrica.<br />

1. Come funziona un aerogeneratore<br />

La tipica configurazione di un aerogeneratore ad asse orizzontale è schematizzata nella figura;<br />

il sostegno porta alla sua sommità la gondola o navicella, costituita da un basamento o da un<br />

involucro esterno; nella gondola sono contenuti l’albero di trasmissione lento, il moltiplicatore<br />

di giri, l’albero veloce, il generatore elettrico e i dispositivi ausiliari.<br />

All’estremità dell’albero lento e all’esterno della gondola è fissato il rotore, costituito da un<br />

mozzo, sul quale sono montate le pale (1, 2 o 3 con un diametro da 10 a 40 m per macchine di<br />

media taglia). Il rotore può essere posto sia sopravvento che sottovento rispetto al sostegno.<br />

La gondola è in grado di ruotare rispetto al sostegno allo scopo di mantenere l’asse della macchina<br />

sempre parallelo alla direzione del vento ed è per questo che l’aerogeneratore viene definito<br />

“orizzontale”. Opportuni cavi convogliano al suolo l’energia elettrica prodotta e trasmettono<br />

i segnali necessari per il funzionamento.<br />

La forma delle pale è disegnata in modo che il flusso dell’aria che le investe azioni il rotore.<br />

Dal rotore, l’energia cinetica del vento viene trasmessa a un generatore di corrente collegato ai<br />

sistemi di controllo e trasformazione tali da regolare la produzione di elettricità e l’eventuale<br />

allacciamento in rete. L’aerogeneratore opera a seconda della forza del vento; al di sotto di una<br />

certa velocità la macchina è incapace di partire; perché ci sia l’avviamento è necessario che la<br />

velocità raggiunga una soglia minima di inserimento, diversa da macchina a macchina (circa 4-<br />

5 m/s).<br />

Durante il funzionamento la velocità del vento “nominale” è la minima velocità del vento che<br />

permette alla macchina di fornire la potenza di progetto (10-12 m/s per qualche centinaia di kW<br />

per macchine di media taglia). Ad elevate velocità (20-25 m/s) l’aerogeneratore viene posto<br />

fuori servizio per motivi di sicurezza.<br />

2. I costi<br />

L’investimento per la realizzazione chiavi in mano di una centrale eolica è, in media, dell’ordine<br />

di 2 milioni di lire per kW di potenza installata. Tuttavia in Danimarca, le macchine con<br />

potenze pari a 500-600 kW, hanno un costo per kW installato che varia tra 1,57 a 1,83 MLit.<br />

In particolare, è da prevedere una riduzione del costo della potenza installata al crescere della<br />

taglia unitaria delle macchine.Infatti, in Germania si è passati dai 2,4 MLit per macchine intorno<br />

ai 150 kW, a 1,8 MLit per macchine da circa 300 kW, fino a 1,7 MLit per macchine di 600<br />

kW.<br />

Il costo annuo di esercizio e manutenzione è, in genere, pari al 3% dell’investimento, e la cosiddetta<br />

“disponibilità” delle macchine (rapporto tra il numero di ore durante il quale l’aerogeneratore<br />

è “disponibile” per la produzione di energia e il numero di ore dell’anno) è vicina al 98%.<br />

Per ciò che concerne il costo dell’energia, dipendente anche dalle condizioni anemologiche del<br />

sito, va ricordato quanto è emerso dal 3° Non Fossil Fuel Obligation (NFFO), in Inghilterra,<br />

Galles e Scozia: l’energia è stata pagata a costi variabili da 90 e 142 lire/kWh. Nel 4° NFFO c’è<br />

stata un ulteriore riduzione con costi compresi tra 84 e 123 lire/kWh.<br />

Anche per il costo dell’energia, si è potuto, inoltre, constatare l’effetto della taglia dell’aeroge-<br />

73


neratore. In Danimarca, ad esempio, è stato valutato un decremento quasi lineare del costo dell’energia:<br />

si è passati da lire 183 lire/kWh per macchine da 100 kW a 70 lire/kWh per macchine<br />

da 600 kW, a parità di altre condizioni.<br />

L’Unione Europea, in effetti, ha fissato come obiettivo da raggiungere attraverso i propri programmi,<br />

un costo dell’energia da fonte eolica di circa 77 lire/kWh; un costo, che, come si è<br />

visto, è già ottenibile con le migliori macchine in siti con una buona ventosità.<br />

Un altro elemento da tenere in considerazione per valutare il costo unitario dell’energia eolica<br />

sono le condizioni di accesso al capitale: negli ultimi 10 anni il tasso di interesse praticato sui<br />

progetti ha subito un progressivo calo in tutti i paesi europei.<br />

Queste cifre indicano chiaramente che l’eolico ha raggiunto un buon livello di maturità tecnologica<br />

e costi di produzione dell’energia elettrica sufficientemente bassi da consentirne, in presenza<br />

di tariffe che ne riconoscano il basso impatto ambientale, la diffusione nel mercato energetico.<br />

3. Impatto ambientale: benefici globali<br />

Una delle maggiori perplessità sulla installazione di centrali eoliche, da parte dei decisori politici<br />

e delle popolazioni locali, dipende dalle preoccupazione sul loro impatto ambientale. E’<br />

quindi opportuno sottolineare le caratteristiche di questa fonte il cui impatto ambientale è limitato,<br />

specialmente attraverso una buona progettazione: l’energia eolica è una fonte rinnovabile,<br />

in quanto non richiede alcun tipo di combustibile, ma utilizza l’energia cinetica del vento (conversione<br />

dell’energia cinetica del vento, dapprima in energia meccanica e poi in energia elettrica);<br />

è pulita, perchè non provoca emissioni dannose per l’uomo e per l’ambiente. Gli aerogeneratori<br />

non hanno alcun tipo di impatto radioattivo o chimico, visto che i componenti usati per<br />

la loro costruzione sono materie plastiche e metalliche.<br />

Gli aspetti ambientali che vengono presi inconsiderazione sono invece correlati a possibili effetti<br />

indesiderati, che hanno luogo su scala locale; essi sono:<br />

• occupazione del territorio<br />

• impatto visivo<br />

• rumore<br />

• effetti elettromagnetici<br />

• interferenze elettromagnetiche<br />

• effetti su flora e fauna<br />

Vedremo nel prossimo mese come questi aspetti siano tuttavia di lieve rilevanza tanto da poter<br />

affermare che il bilancio costi ambientali/benefici ambientali è ampiamente positivo.<br />

La costruzione degli impianti deve comunque avvenire valutando attentamente l’impatto<br />

ambientale in tutte le fasi del progetto. A tale proposito esistono norme del 1995 del Ministero<br />

dell’Ambiente che recepiscono la direttiva europea 85/337/CEE, concernente la valutazione<br />

d’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati. (oggi la 97/11/CE del Consiglio<br />

dell’U.E. modifica la citata direttiva).<br />

Sono comunque nella maggior parte dei casi le autorità regionali a valutare (con legge o caso<br />

per caso) se sia necessario procedere a uno studio di impatto ordinario o, semplicemente, a uno<br />

studio preliminare dei rapporti tra progetto e ambiente.<br />

74


EMISSIONI EVITATE<br />

La produzione di energia elettrica mediante combustibili fossili comporta l’emissione di sostanze<br />

inquinanti e di gas serra. Il livello delle emissioni dipende dal combustibile e dalla tecnologia<br />

di combustione e controllo dei fumi. Ecco i valori delle principali emissioni associate alla<br />

generazione elettrica:<br />

CO2 (anidride carbonica): 1.000 g/kWh<br />

SO2 (anidride solforosa): 1,4 g/kWh<br />

NO2 (ossidi di azoto): 1,9 g/kWh<br />

Tra questi gas, il più rilevante è l’anidride carbonica o biossido di carbonio, il cui progressivo<br />

incremento potrebbe contribuire all’effetto serra e quindi causare drammatici cambiamenti climatici.<br />

Se pensiamo ai circa 700 MW di impianti eolici ammessi a beneficiare delle tariffe previste<br />

dal provvedimento CIP 6/92, possiamo ipotizzare un’energia prodotta pari a 1,4 miliardi<br />

di chilowattora (0,5% del fabbisogno elettrico nazionale). Questa produzione potrà sostituire la<br />

combustione con combustibili fossili; in tal caso le emissioni annue evitate sarebbero:<br />

CO2: 1,4 milioni di tonnellate<br />

SO2: 1.960 tonnellate<br />

NO2: 2.660 tonnellate<br />

Altri benefici dell’eolico sono: la riduzione della dipendenza dall’estero, la diversificazione<br />

delle fonti energetiche, la regionalizzazione della produzione.<br />

4. L'impatto ambientale locale<br />

Occupazione del territorio<br />

In base al rapporto tra la potenza degli impianti e il terreno complessivamente necessario (anche<br />

per la distanza delle macchine), la densità di potenza per unità di superficie è circa di 10 W/m2.<br />

Tuttavia le macchine eoliche e le opere di supporto (cabine elettriche, strade) occupano solamente<br />

il 2-3% del territorio per la costruzione di un impianto, quindi la densità di potenza ottenibile<br />

è da considerarsi nettamente superiore, dell’ordine delle centinaia di W/m2. Bisogna<br />

ricordare che la parte del terreno non occupata dalle macchine può essere impiegata per altri<br />

scopi, come l’agricoltura e la pastorizia, senza alcuna controindicazione.<br />

Impatto visivo<br />

Gli aerogeneratori per la loro configurazione sono visibili in ogni contesto in cui vengono inseriti,<br />

in modo più o meno evidente in relazione alla topografia e all’antropizzazione del territorio.<br />

Un aerogeneratore da 500 kW di potenza ha un diametro del rotore e un’altezza della torre<br />

di circa 40 metri, mentre uno da 1500 kW misura, per questi due valori, circa 60 m. L’impatto<br />

nel paesaggio tra i due tipi di macchina è moderatamente diverso, per cui aumentare la taglia<br />

delle macchine potrebbe ridurre, a parità di potenza globale installata, l’impatto visivo.<br />

L’impatto visivo è un problema di percezione e integrazione complessiva nel paesaggio;<br />

comunque è possibile ridurre al minimo gli effetti visivi sgradevoli assicurando una debita<br />

distanza tra gli impianti e gli insediamenti abitativi. Sono state individuate, inoltre, soluzioni<br />

costruttive tali da ridurre tale impatto: impiego di torri tubolari o a traliccio a seconda del contesto,<br />

di colori neutri, adozione di configurazioni geometriche regolari con macchine ben<br />

75


distanziate.L’aspetto dell’impatto visivo è ormai oggetto di approfonditi studi.<br />

Impatto acustico<br />

Il rumore emesso da una centrale eolica non è percettibile dalle abitazioni, poiché una distanza<br />

di poche centinaia di metri è sufficiente a ridurre il disturbo sonoro. In generale, la tecnologia<br />

attuale consente di ottenere, nei pressi di un aerogeneratore, livelli di rumore alquanto contenuti,<br />

tali da non modificare il rumore di fondo, che, a sua volta, è fortemente influenzato dal<br />

vento stesso, con il risultato di mascherare ancor più il contributo della macchina.<br />

Interferenze sulle comunicazioni<br />

La macchina eolica può influenzare: le caratteristiche di propagazione delle telecomunicazioni<br />

(come qualsiasi ostacolo), la qualità del collegamento in termini di segnale-disturbo e la forma<br />

del segnale ricevuto con eventuale alterazione dell’informazione. Una adeguata distanza degli<br />

aerogeneratori fa sì che l’interferenza sia irrilevante.<br />

Flora e fauna<br />

Sulla base delle informazioni disponibili, si può affermare che le possibili interferenze di qualche<br />

rilievo degli impianti eolici con la flora e la fauna riguardano solo l’impatto dei volatili con<br />

il rotore delle macchine. In particolare, le specie più influenzate sono quelle dei rapaci; gli<br />

uccelli migratori sembrano adattarsi alla presenza di questi ostacoli. In genere le collisioni sono<br />

molto contenute.<br />

5. I benefici occupazionali: l'Europa<br />

L'eolico è caratterizzato, come le altre tecnologie che utilizzano fonti di energia rinnovabili, da<br />

costi di investimento elevati in rapporto ai ridotti costi di gestione e manutenzione. A parità di<br />

costo dell'energia prodotta, tale specificità può avere il vantaggio di essere trasformata in occupazione,<br />

in quanto si viene a sostituire valore aggiunto al combustibile utilizzato negli impianti<br />

convenzionali.<br />

Secondo un'analisi del Worldwatch Institute, l'occupazione diretta creata per ogni miliardo di<br />

kWh prodotto da fonte eolica è di 542 addetti, mentre quella creata, per la stessa produzione di<br />

elettricità, dal nucleare e dall'utilizzo del carbone (compresa l'estrazione del minerale) è, rispettivamente,<br />

di 100 e 116 addetti.<br />

L'occupazione nel settore eolico è associata alle seguenti principali tipologie di attività: costruzione<br />

(generatori eolici, moltiplicatori di giri, rotore - cioè pale e mozzo - torre, freni, sistemi<br />

elettronici, navicella) installazione (consulenza, fondazioni, installazioni elettriche, cavi e connessione<br />

alla rete, trasformatori, sistemi di controllo remoto, strade, potenziamento della rete<br />

elettrica) e gestione/manutenzione.<br />

Se guardiamo alla realtà della Danimarca, paese che produce il 60% delle turbine installate nel<br />

mondo, notiamo che il numero di addetti coinvolti direttamente e indirettamente (in quest'ultimo<br />

caso per i componenti acquistati da produttori nazionali) nel 1995, con una potenza prodotta<br />

di 566 MW, è stato di 8.500. In questo computo non è considerata la voce "ricerca" che comprende<br />

attività di ricerca in senso tradizionale, ma anche attività eseguite da società di ingegneria,<br />

istituzioni bancarie e assicurative. Per quanto riguarda l'occupazione creata dalla gestione<br />

degli impianti, trascurata in questa cifra, si stima che sia pari a circa 1 addetto per MW installato<br />

(vanno aggiunte, in questo caso, qualche centinaio di persone).<br />

Da questi dati risulta quindi che l'occupazione associata alla costruzione delle macchine è circa<br />

76


4 volte maggiore a quella associata all'installazione e gestione degli impianti.<br />

Uno studio sul settore, nel Regno Unito, è particolarmente interessante perché condotto in un<br />

paese che, al contrario della Danimarca, importa gran parte delle turbine eoliche; si è stimato<br />

che gli addetti nell'eolico, per il periodo 1994-95, siano, comunque, anche in questo caso, un<br />

numero significativo, cioè circa 1.300.<br />

6. I primi dati sull'occupazione in Italia<br />

Nel nostro paese l’occupazione nel settore eolico era fino a pochi anni fa concentrata nelle attività<br />

di ricerca, sviluppo e dimostrazione. Grazie alla costruzione di impianti commerciali si possono<br />

avere, oggi, le prime indicazioni sulla creazione di posti di lavoro associata ad attività<br />

industriali. Se escludiamo l’occupazione presso l’ENEL e gli enti pubblici, i dati ci provengono<br />

essenzialmente da 3 industrie: Ansaldo West, Riva Calzoni e Italian Vento Power<br />

Corporation (IVPC).<br />

Nello stabilimento di Taranto, l’Ansaldo West impiega direttamente 80-90 persone per le fasi di<br />

lavorazione in materiale composito di pale, serbatoi e isolanti, qualificazioni di siti, montaggio<br />

navicelle, realizzazione e manutenzione centrali. La società possiede attrezzature per la<br />

costruzione di pale fino a 60 m di lunghezza.<br />

La Riva Calzoni, che ha inaugurato nel settembre scorso la nuova fabbrica di Foggia (Riva<br />

Wind Turbines srl), nell’ambito della sua strategia di spostamento delle proprie attività nell’area<br />

eolica apulo-campana, ha occupate una decina di persone che, entro la fine del ‘98, diventeranno<br />

15. Nella sede di Bologna sono 25 le persone impegnate nel settore tecnologia delle<br />

macchine e 15 quelle che si occupano delle attività necessarie alla costruzione di impianti (sitologia,<br />

anemologia, progettazione, ecc.). Vanno aggiunte altre unità nel campo delle consulenze<br />

locali (in Campania e Puglia) e per l’occupazione indiretta associata alla costruzione delle torri<br />

(a Parma e Anagni) e delle pale, in parte costruite a Lioni (AV). Entro il 1998, la Riva Calzoni<br />

intende spendere il 70% del budget per la costruzione delle macchine nel Mezzogiorno.<br />

L’Italian Vento Power Corp. (IVPC) costruisce centrali eoliche con macchine importate dalla<br />

Danimarca e con i suoi 60 MW è al primo posto in Italia per l’installato. Occupa direttamente<br />

oltre 20 persone e ne utilizza 5 per attività di consulenza tecnica e finanziaria. Le persone che<br />

gestiscono gli impianti in esercizio sono 40. La IVPC ha adottato come linea di condotta la massimizzazione<br />

del lavoro nelle zone interessate alle installazioni: le torri vengono costruite ad<br />

Altavilla Irpina (12 persone-giorno per torre); per il loro montaggio servono 30 persone per<br />

alcuni giorni. I trasformatori sono approvvigionati a Caserta, altri materiali di carpenteria ed<br />

elettrici sono costruiti in zona. Le opere civili sono realizzate da ditte locali e, per il futuro, la<br />

IVPC non esclude che le navicelle siano costruite in Italia.<br />

In definitiva, in base ai progetti eolici previsti, si può prevedere, nel Mezzogiono, un incremento<br />

di ulteriori attività, con particolare riguardo a quelle manifatturiere. Ulteriore creazione<br />

di posti di lavoro si può ottenere con l’impiego degli impianti all’interno di circuiti turisticoculturali<br />

che siano così da stimolo per le economie locali. Nelle aree con centrali eoliche potranno<br />

essere anche create attività di sostegno, che riguardano la ricerca, la certificazione e la fornitura<br />

di servizi alle imprese.<br />

7. L'iter autorizzativo<br />

Una delle barriere alla realizzazioni di centrali eoliche è da individuare nel complesso iter auto-<br />

77


izzativo. In Italia non esistono procedure specifiche per la pianificazione e la localizzazione<br />

degli impianti. Esiste comunque una normativa generale a sostegno, ma anche a limitazione di<br />

tali insediamenti. La legge 10/91 (art.1, comma 4) stabilisce che l’uso delle fonti rinnovabili è<br />

da considerarsi di "pubblico interesse e di pubblica utilità", quindi le relative opere sono da considerarsi<br />

indifferibili ed urgenti ai fini dell’applicazione delle leggi sulle opere pubbliche. L’art.<br />

22 della legge 9/91 esclude, inoltre, per tali impianti le autorizzazioni ministeriali previste dalla<br />

vecchia normativa sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Altra legge a favore dell’eolico<br />

è da considerarsi la 394/91 (art. 7, comma 1) che prevede misure di incentivazione alle<br />

amministrazioni comprese nelle aree protette che promuovano l’uso delle fonti energetiche rinnovabili.<br />

Per ciò che concerne le limitazioni, le centrali eoliche devono sottostare ad una legislazione<br />

generale di tutela del paesaggio, dell’ambiente e della salute, nonché di disciplina di uso del<br />

suolo, cosa che impone il rilascio di diversi nullaosta da parte di enti, amministrazioni centrali<br />

dello Stato e degli Enti locali, come ad esempio: concessione dei suoli di uso (rilasciata da<br />

Comune e Regione), concessione edilizia (Comune, Regione), nullaosta paesaggistico<br />

(Regione, Sopraintendenza beni culturali e ambientali, Ministero beni culturali e ambientali),<br />

nullaosta idrogeologico (Corpo forestale dello Stato, Corpo delle miniere), nullaosta sismico<br />

(Ufficio sismico regionale), nullaosta militare per la sicurezza al volo (Comando Regione<br />

Militare, Regione). I lunghissimi tempi (possono anche passare due o tre anni dall’inizio dell’iter)<br />

e le complesse procedure di richiesta causano gravi difficoltà nel completamento delle<br />

opere, spreco di tempo e una particolare aleatorietà del processo decisionale.<br />

Il problema autorizzativo dovrebbe essere affrontato, nel breve periodo, cercando di attuare uno<br />

snellimento delle procedure attualmente disponibili e, in un immediato futuro, inserendo i programmi<br />

eolici all’interno di procedure di pianificazione energetica locale.<br />

8. Rapporti tra costruttori ed Enti Locali<br />

La realizzazione di progetti eolici comporta il coinvolgimento di un gran numero di Enti Locali.<br />

Come si è visto nel numero precedente, non va dimenticato che questo è un aspetto che, se può<br />

causare dei ritardi nell’iter autorizzativo, permette un maggiore coinvolgimento delle popolazioni<br />

prossime agli impianti e, soprattutto, arreca vantaggi di natura economica non sottovalutabili<br />

per gli stessi Enti Locali che ospitano sul proiprio territorio le centrali eoliche.Rispetto a<br />

quest’ultimo punto, possiamo far riferimento ad una serie di rapporti contrattuali stabiliti tra<br />

imprenditori-costruttori e Comuni, che sinteticamente elenchiamo e descriviamo:<br />

Concessione terreno<br />

Viene concesso il diritto di superficie, in alcuni casi solamente per la costruzione e l’esercizio<br />

del’impianto, in altri casi anche per la fase preliminare di indagine anemologica che ha durata<br />

biennale. Per la costruzione e l’esercizio, la concessione è valida per 29 anni rinnovabili.<br />

Corrispettivo della concessione<br />

Per le prime convenzioni si prevedeva un corrispettivo annuo fisso al Comune. Ad esempio, per<br />

l’impianto ENEL di Collarmele (AQ) da 9 MW (36 aerogeneratori distribuiti su 36 ettari) il corrispettivo<br />

pattuito è stato di 72 milioni/anno, oltre il canone per l’uso civico. Successivamente<br />

si è stabilito che il corrispettivo economico debba variare alla produttività dell’impianto. In particolare,<br />

esso è generalmente quantificato nell’1,5% della fatturato al netto dell’IVA, dell’energia<br />

ceduta all’ENEL. Ad esempio se si ipotizza che un impianto abbia una producibilità annua<br />

di 2,5 miliardi di kWh per MW installato, ne consegue che, alle attuali tariffe del CIP 6/92, il<br />

corrispettivo per il Comune ammonterebbe a circa 6.9 milioni di lire per MW installato per i<br />

78


primi 8 anni e circa 3.4 milioni di lire per MW per gli anni successivi. Può capitare che le aziende<br />

si impegnino anche a fornire un corrispettivo minimo garantito, in caso di insufficiente produzione<br />

dell’impianto, dell’ordine del 15% dell’atteso per i primi 8 anni.<br />

Imprenditoria<br />

Le aziende costruttrici si impegnano al coinvolgimento dell’imprenditoria locale, nel rispetto delle<br />

norme nazionali e comunitarie, sia direttamente, sia attraverso le commesse e subcommesse.<br />

Occupazione<br />

Le aziende costruttrici si impegnano ad impiegare personale, di professionalità adeguata, per la<br />

realizzazione, gestione e custodia delle centrali. Le Aziende si impegnano anche alla formazione<br />

del personale.<br />

Obbligazioni relative al terreno concesso<br />

Le società eoliche hanno l’obbligo di mantenere la disponibilità per il Comune e i cittadini delle<br />

aree non direttamente interessate alla presenza di manufatti (ad esempio, il diritto di pascolo);<br />

esiste pertanto il divieto di recinzione.<br />

Ripristino del terreno<br />

Gli operatori si impegnano a restituire il terreno nelle stesse condizioni in cui è stato loro concesso<br />

dai Comuni.<br />

9. Diffusione in Europa e nel mondo<br />

Rispetto all’anno 1996, il settore eolico è cresciuto a livello mondiale del 25-26%. I dati ufficiali<br />

per il 1997, evidenziati nel grafico) mostrano infatti che alla fine dello scorso anno erano<br />

in funzione nel mondo 7.636 MW (dati della danese BTM Consult) e circa l’84% della nuova<br />

capacità (1.566 MW) è stata installata in Europa, in particolare in Germania, Danimarca, Italia,<br />

Olanda, Spagna e Irlanda.<br />

Nel 1997 le vendite di turbine sono state pari ad un valore di 1,5 miliardi di dollari (oltre 2.500<br />

miliardi di lire), cifra che dovrebbe raddoppiare nell’arco dei prossimi 5 anni. Infatti le previsioni<br />

sullo sviluppo dell’energia eolica indicano in oltre 20.000 MW la potenza installata entro<br />

il 2002 (più della metà in Europa). La maggiore crescita avverrà in Germania, Spagna,<br />

Danimarca, India, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti.<br />

Il 1997 ha segnato un cambiamento al vertice dei maggiori costruttori di aerogeneratori: la<br />

danese NEG Micon ha spodestato dal primo posto la connazionale Vestas (vedi tabella).<br />

Tuttavia se vengono incluse le vendite della società spagnola Gamesa, che commercializza prodotti<br />

Vestas, quest’ultima resta la compagnia leader. Nella tabella si possono notare due particolari<br />

interessanti; il primo è che i produttori danesi dominano ancora, a livello mondiale, il<br />

mercato, con circa il 60% delle vendite; il secondo è che 3 aziende spagnole (Made, Desarrollos<br />

e Gamesa) sono tra le prime 10 compagnie eoliche del mondo.<br />

In Europa, dove è installata il 62% della potenza eolica presente al mondo, capofila (dati EWEA<br />

- fine ‘97) è la Germania, con 2.000 MW, seguono la Danimarca con 1.059 MW, la Spagna con<br />

378, la Gran Bretagna con 312, la Svezia con 110; l’Italia è al sesto posto con poco meno di 100<br />

MW.Gli obiettivi per l’Europa, secondo quanto indicato dall’EWEA (European Wind Energy<br />

Association) e dalla Commissione europea nel Libro Bianco, sono di raggiungere 8.000 MW<br />

per il 2000 e 40.000 MW per il 2010. Intanto, alla fine del mese di marzo 1998, il nostro continente<br />

ha superato la soglia dei 5.000 MW installati (5.097 secondo dati EWEA).<br />

Per informazioni: “International Wind Energy Development: World Market Update 1997”,<br />

BTM Consult: tel: +45 97 325299 fax: +45 97 325593 e-mail: btmcwind@post4.tele.dk<br />

EWEA - European Wind Energy Association<br />

e-mail: ewea@ewea.org http://www.ewea.org/<br />

79


10. I programmi nazionali al 2010<br />

L’eolico nel nostro paese ha avviato il suo processo di diffusione in coincidenza con il provvedimento<br />

CIP 6/92 che regola gli incentivi all’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili.<br />

Nelle prime 6 graduatorie del CIP 6 finora esaminate, sono stati accettati progetti per circa 740<br />

MW; tuttavia le richieste non accettate (graduatorie 7-9) ammontano ad ulteriori 1.500 MW.<br />

Gran parte delle attuali e future installazioni sono localizzate sul crinale appenninico centromeridionale<br />

e nelle isole.<br />

Alcuni ostacoli, principalmente di natura autorizzativa e finanziaria, hanno bloccato o rallentato<br />

le iniziative finora accettate. Per superare tali difficoltà è in vigore dal 1 giugno 1998 il primo<br />

esempio di Accordo di Programma volontario nel campo delle rinnovabili. L’Accordo coinvolge,<br />

oltre agli imprenditori eolici, Governo, Regioni, Enti Locali, Sindacati, ENEL, ENEA e operatori<br />

bancari che, in un’azione concertata, si impegnano ciascuno per il proprio ambito di competenza,<br />

ad individuare le soluzioni in grado di risolvere i vari problemi e di portare a conclusione<br />

la realizzazione di circa 700 MW entro il 31/12/2001.<br />

Al di là di questo primo pacchetto di iniziative nel settore, i programmi nazionali per l’eolico<br />

puntano alla realizzazione di complessivi 3.000 MW per il 2010, con un investimento di circa<br />

4.600 miliardi di lire (il costo medio è stato stimato a 1,5-1,6 miliardi di lire ‘97 per MW installato)<br />

e con una occupazione, a quella data, di oltre 5.000 unità.<br />

Il futuro dell’eolico sarà comunque anche legato al processo di riassetto del settore elettrico e,<br />

quindi, al recepimento della direttiva europea 96/92/CE, che il Governo sta attuando. In effetti,<br />

alcune misure specifiche saranno determinanti per la diffusione dell’eolico, come di altre fonti<br />

rinnovabili: la precedenza nel dispacciamento all’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili;<br />

l’obbligo, per i soggetti che producono o importano energia elettrica per oltre 100 GWh (100<br />

milioni di kWh) all’anno, di immettere in rete dal 1 gennaio 2001 almeno il 20% dell’energia<br />

su base annua prodotta da fonti rinnovabili o di acquistarne una quota equivalente da altri produttori;<br />

subordinare l’autorizzazione alla costruzione di nuovi impianti alla costruzione di<br />

impianti alimentati da fonti rinnovabili che contribuiscano per almeno l’1% all’energia immessa<br />

in rete; infine, sarà fondamentale la rapida emanazione di un chiaro provvedimento sostitutivo<br />

del CIP6/92 che molto probabilmente si baserà su procedure di gara.<br />

Nei futuri programmi eolici, Regioni ed Enti Locali avranno un sempre maggiore coinvolgimento<br />

soprattutto se saranno loro garantite disponibilità di risorse finanziarie utili ad incentivare<br />

la produzione di energia da rinnovabili. Su questa linea di azione il Governo richiederà, tra<br />

l’altro, l’inserimento di uno specifico asse, dedicato alla promozione delle fonti rinnovabili e<br />

quindi anche dell’eolico, nella programmazione 2000-2006 dei Fondi Strutturali dell’Unione<br />

Europea. Anche all’interno del V Programma Quadro di ricerca e sviluppo tecnologico europeo<br />

dovranno essere sfruttate le possibilità di reperire fondi per il finanziamento delle iniziative.<br />

ENERGIA DALL’IDROGENO<br />

L’idrogeno è il più leggero ed abbondante elemento dell’universo ed è presente nell’acqua ed<br />

in tutti, i composti organici. L’idrogeno è contenuto nell’acqua in maniera abbondante, infatti<br />

la molecola d’acqua è costituita da 2 atomi di idrogeno e 2 d’ossigeno. Il procedimento attraverso<br />

il quale l’idrogeno viene estratto dall’acqua viene detto elettrolisi. L’idrogeno è il miglior<br />

combustibile conosciuto, sia perché è molto potente (viene usato come combustibile per gli<br />

80


Shuttle) e sia perché può essere bruciato senza che per questo emetta sostanze inquinanti.<br />

L’idrogeno è però un combustibile molto pericoloso perché è in grado di reagire con la maggior<br />

parte degli elementi (ad esempio l’ossigeno), e quindi deve essere immagazzinato in serbatoi<br />

molto sicuri. Questa sua caratteristica rende molto più sicura la produzione negli stessi luoghi<br />

d’utilizzo, in modo da minimizzare i rischi dovuti al trasporto e all’immagazzinamento.<br />

Le celle a combustibile<br />

Come sono fatte<br />

Una cella a combustibile è un dispositivo fondamentalmente<br />

semplice, costituito da due elettrodi (un anodo e un catodo) tra<br />

i quali è posto un elettrolita (una materiale che permette il passaggio<br />

degli ioni, ma blocca gli elettroni).<br />

Un combustibile contenente idrogeno finisce verso l’anodo<br />

(1)m dove vengono liberati elettroni dall’idrogeno lasciando<br />

ioni di carica positiva (cationi). Gli elettroni possono attraversare<br />

un circuito esterno (2), mentre i cationi si diffondono attraverso<br />

l’elettrolita (3). In corrispondenza del catodo (4), gli elettroni<br />

si combinano con gli ioni d’idrogeno e con l’ossigeno fornendo<br />

dell’acqua come sottoprodotto. Per accelerare la reazione<br />

si usa spesso un catalizzatore, come il platino. Le celle a<br />

combustibile e le batterie sono simili, in quanto entrambe si<br />

basano su processi elettrochimici, ma i reagenti di una cella a<br />

combustibile sono l’idrogeno ed un ossidante, mentre in una<br />

batteria sono i materiali usati negli elettrodi (ad esempio il<br />

piombo).<br />

La Fusione a freddo<br />

La misteriosa reazione nucleare, che avviene con la fusione di atomi leggeri, viene ancora oggi<br />

studiata in molte parti del mondo. Perché é stata tanto ostacolata? A quali risultati sono arrivati<br />

i ricercatori? In questa breve rassegna, ipotesi e speranze per la risoluzione dei problemi energetici<br />

ed ecologici del pianeta Terra.<br />

Il 25 marzo 1989 é la data storica in cui due coraggiosi ricercatori dell’Università di Salt Lake<br />

City (Utah - USA), Martin Fleischmann e Stanley Pons, annunciarono alla stampa l’aver trovato<br />

un modo molto semplice e poco costoso per produrre energia pulitissima: l’energia derivata<br />

dalla fusione di atomi di deuterio (isotopo dell’idrogeno) a bassa temperatura. In sostanza<br />

l’energia del futuro. Nonostante che i due scienziati disponessero di risultati ben documentati,<br />

successivamente riprodotti in più di duecento laboratori sparsi in tutto il mondo, si innescò<br />

una inconcepibile serie di polemiche ed anche qualcosa di più. Una campagna di disprezzo,<br />

in particolare, venne imbastita dai loro colleghi, studiosi della fusione calda , così denominata<br />

perché necessita di milioni di gradi di temperatura ed inoltre di ingenti risorse economiche.<br />

Ed anche la stampa e le riviste specializzate rivolsero pesanti critiche al loro operato. Il<br />

risultato fu che, dopo il terremoto scatenato dall’entusiasmo per l’annuncio rivoluzionario,<br />

seguì un crescente scetticismo, sconfinato in precise minacce per i due ricercatori. Essi scomparvero<br />

per alcuni mesi, fino a quando approdarono a Nizza. Qui stanno ancora lavorando per<br />

il loro progetto in un laboratorio privato finanziato con nove milioni di dollari dalla IMRA<br />

81


Europe S.A., impresa affiliata alla giapponese Toyota. Nella titanica lotta di interessi di ogni<br />

tipo, il movimento scientifico scaturito dalla fusione fredda é ancora vivo e i risultati raggiunti<br />

sono da tenere veramente nella più alta considerazione, nonostante che essi producano energia<br />

di tipo calorico, cioé una forma non nobile, ma pur sempre benedetta. Inoltre i ricercatori si<br />

incontrano annualmente per scambiarsi pareri e risultati. A differenza della tecnica studiata e<br />

portata avanti da circa 40 anni per attuare la fusione calda degli atomi di idrogeno, sfruttando<br />

enormi macchine capaci di far arrivare la temperatura interna anche a centinaia di milioni di<br />

gradi, la fusione fredda proposta da Fleischmann e Pons si basa sul principio dell’elettrolisi e<br />

sfrutta un’apparecchiatura semplicissima. Facendo passare elettricità tra due elettrodi, uno di<br />

palladio e l’altro di platino, immersi in acqua pesante D2 0 (dove D é il simbolo del Deuterio)<br />

si può produrre una quantità di energia molto superiore a quella immessa. Secondo quanto sinora<br />

accertato, nel reticolo cristallino del Palladio si crea una forma di fusione, ancora misteriosa,<br />

tra i nuclei di deuterio. Il mistero é questo: come può avvenire una fusione tra due nuclei i quali,<br />

essendo dotati di stessa carica positiva, in realtà dovrebbero respingersi in maniera molto potente<br />

per effetto della forza coulumbiana? Negli ultimi anni poi sono state sviluppate nuove tecniche<br />

che in verità hanno maggiormente aumentato il mistero, come l’uso di particolari accorgimenti<br />

sugli elettrodi soprattutto l’uso di acqua normale. Si, proprio l’acqua del rubinetto.<br />

Risultati sorprendenti mostrano rendimenti energetici addirittura del 900%. A qualcuno questo<br />

non va assolutamente bene. E allora si creano i problemi: ci sono in ballo ricchissimi brevetti e<br />

il Premio Nobel. Le teorie della "scienza" sentono in pratica il profumo dei soldi. non secondario<br />

é il problema economico: cosa succederebbe, tra l’altro, se tale reazione nucleare arrecasse<br />

del benessere a tutta la popolazione mondiale e nello stesso tempo risolvesse il crescente inquinamento<br />

del pianeta? Ci accorgiamo purtroppo che il vero problema é l’uomo. Sicuramente il<br />

suo spirito é ammalato. Uno spirito che ha portato la scienza in un vicolo cieco dove la saggezza<br />

é tuttora evanescente. Ci si chiede poi: é possibile oggi, ed era possibile nei decenni passati<br />

rimettere le cose al loro giusto posto per dare un futuro migliore ai nostri figli? La risposta é<br />

inesorabilmente affermativa, ma é la volontà dell’uomo che deve entrare in azione per far emergere<br />

concretezza e dignità. Dall’analisi storica di questa vicenda si può capire come le scelte<br />

abbiano potuto determinare una simile situazione, dove l’interesse personale o delle lobby, é<br />

sempre prevalso su quello della collettività. Di conseguenza il modo di produrre energia col<br />

metodo della combustione ha sempre avuto il sopravvento, ma i mezzi per cambiare li potevamo<br />

già avere sin dagli anni venti e addirittura anche prima. Per restare nel tema della fusione<br />

nucleare fredda, ricordiamo l’esempio del chimico tedesco Friedrich Paneth. Questo ricercatore,<br />

ancora sconosciuto, nell’anno 1926 pubblicò sull’ "Annuario della Società chimica tedesca"<br />

il rendiconto dei suoi esperimenti sulla fusione. Recentemente tali studi sono stati ripresi dal<br />

prof. Vyaceslav Alekseyev, direttore del Laboratorio sulle Energie Rinnovabili dell’Università<br />

di Mosca. Un altro avvenimento, che reputo di fondamentale importanza é lo studio che Enrico<br />

Fermi intraprese negli anni ‘30, per creare un generatore artificiale di neutroni. La nota, a firma<br />

di Amaldi, Rasetti e Fermi, venne pubblicata su "La Ricerca Scientifica" nel 1937 e dove si<br />

dimostrava la possibilità di sfruttare la reazione atomica:<br />

2 2 3 1<br />

D + D -------> He + n<br />

1 1 2 0<br />

per produrre neutroni necessari per bombardare gli atomi. Per realizzare tale impianto Fermi<br />

ebbe necessità di usare acqua pesante, cioè un bersaglio contenente un’alta percentuale di<br />

Deuterio allo stato solido. Visto il notevole sviluppo di calore, si dovette ricorrere all’aria liquida<br />

per mantenere a bassissima temperatura il blocco di ghiaccio. Forse tutto ciò non é una rea-<br />

82


zione di fusione nucleare fredda? Anzi, superfredda. Perché allora non venne mai proposta e<br />

applicata ? Andando avanti nel tempo, ci sono stati notevoli esempi di questo tipo di reazione,<br />

sfruttabile in vario modo, fino ad arrivare al fatidico 25 marzo 1989. Da quel momento centinaia<br />

e centinaia di ricercatori si sono costantemente impegnati, nonostante le notevoli avversità,<br />

per portare avanti uno dei migliori sistemi per produrre energia pulita. Nel Congresso di<br />

Nagoya (Giappone) del 1992, si sostenne che si doveva aprire un nuovo capitolo nella storia<br />

della fisica e cioé la nascita della "fisica nucleare dello stato solido". In questa occasione un<br />

medico della Pennsylvania (USA) e Presidente della Hydrocatalysis Power, Randell Mills,<br />

annunciò di essere riuscito ad ottenere, con acqua normale, risultati ancora migliori di quelli<br />

fino ad allora conseguiti e cioè una reazione con un rendimento del 900%. Naturalmente anche<br />

in Italia ci sono alcune Università che studiato il fenomeno. Tra i ricercatori italiani dobbiamo<br />

citare, senza dubbio, il prof. Giuliano Preparata, uno degli uomini ancora capaci di lottare per<br />

la fusione a freddo e di denunciarne la pericolosa situazione di insabbiamento ed in particolar<br />

modo l’"intrappolamento" dell’ingegno di Fleischmann e Pons. Recentemente ha dichiarato: "Il<br />

fatto che la fusione a freddo sia una small science, e quindi difficile da governare da parte delle<br />

oligarchie scientifiche e finanziarie, ne ha permesso, nonostante tutto, la crescita a tal punto che<br />

oramai mi sembra molto improbabile che essa scompaia nel nulla, senza portare a maturazione<br />

nel giro di qualche anno le idee che ne permettono lo sfruttamento industriale su larga scala".<br />

In questi ultimi otto anni in effetti la ricerca ha raggiunto un accettabile livello nel cercare di<br />

creare energia a basso costo senza l’incubo dell’inquinamento o di altre diavolerie simili. Ma<br />

quando i risultati potevano avere già applicazione industriale, una mente invisibile é riuscita<br />

ancora a fermare i più audaci. Consola il fatto che molteplici scienziati, i nuovi apprendisti<br />

alchimisti, avessero nel loro spirito la volontà di rendere la vita più sana e più facile al loro prossimo.<br />

La natura ancora non ci svela completamente i suoi segreti, e questo perché il materialismo<br />

dell’uomo ancora non accetta le leggi dello spirito. E’ un nodo che dobbiamo sciogliere<br />

prima o poi perché l’evoluzione dell’uomo verte sulla conoscenza profonda della vita, in tutte<br />

le sue innumerevoli espressioni a forme, e sulle leggi che la governano. Rimane indelebile nella<br />

mia mente una dichiarazione di un insigne scienziato italiano, Gianfranco Valsé Pantellini:<br />

"Mendeleev ha parlato di elementi leggeri, elementi medi e elementi pesanti. Tutta la fisica atomica<br />

attuale é basata sull’uso di elementi pesanti. Però il fondamento della FISICA ATOMICA<br />

della NATURA, il meccanismo base che consente lo scorrere della vita é dato proprio dagli elementi<br />

leggeri e dalla loro suscettibilità di trasmutare a bassa energia".<br />

ENERGIA GEOTERMICA<br />

L'energia geotermica è una delle risorse energetiche che l'Unione Europea, grazie a finanziamenti<br />

nell'ambito delle Energie Rinnovabili, intende implementarne lo sfruttamento, passando<br />

dal 6% al 12% per il 2010.<br />

L'energia geotermica è una fonte che può essere utilizzata in differenti aree, ma essenzialmente<br />

si possono distinguere due principali categorie, energia geotermica ad alta entalpia (>150°C)<br />

per la produzione di energia elettrica con cicli convenzionali, ed energia geotermica a bassa<br />

entalpia (


Il grafico sottostante riporta i valori delle diverse tipologie di sfruttamento dell'energia geotermica<br />

a livello mondiale:<br />

Impianti attivi al 1997<br />

4000<br />

3000<br />

MW<br />

2000<br />

1000<br />

0<br />

EU non EU N.<br />

America<br />

C.& S.<br />

America<br />

Asia Africa Oceania<br />

Produzione di elettricità<br />

Usi diretti<br />

Attualmente si ha produzione di energia elettrica da fonti geotermiche in 21 paesi al mondo e<br />

la produzione europea ammonta a 4.300 GWh/a, concentrata per lo più in tre paesi: Italia,<br />

Islanda e Turchia. La produzione della stessa quantità di energia elettrica da fonti tradizionale<br />

comporterebbe un'emissione in atmosfera di 5 milioni di tonnellate di CO2, 46.000 tonnellate<br />

di SO2, 18.000 tonnellate di NOx e 25.000 tonnellate di particolati ogni anno.In Europa la produzione<br />

di energia da fonti geotermiche per usi diretti è di 18.000 GWh/a, utilizzata per il condizionamento<br />

di edifici, serre, piscine e processi industriali. Questi ultimi a livello mondiale<br />

rappresentano il 52 % degli usi diretti, mentre per l' Europa sono l'11% del totale.Sia gli impianti<br />

a bassa entalpia che quelli ad alta entalpia possono essere installati secondo unità modulari.<br />

Questo approccio riduce i costi iniziali, che sono strettamente dipendenti dalle condizioni dell'area<br />

e dal tipo di applicazione, e favorisce gli investimenti. I costi sono strettamente dipendenti<br />

dalle condizioni dell'area e dal tipo di applicazione.Nel caso degli usi diretti i costi di investimento<br />

e per la produzione di calore variano considerevolmente in funzione dell'area dove è<br />

situato l'impianto e della tipologia dell'impianto stesso. I fattori che maggiormente influiscono<br />

sui costi sono le caratteristiche geofisiche della sorgente, le condizioni climatiche locali, la<br />

richiesta e il consumo di calore.La competitività delle fonti geotermiche è anche determinata<br />

dalla comparazione con le altre fonti rinnovabili. Solitamente i costi energetici sono basati su<br />

standard economici ed analisi finanziarie. I finanziamenti dei progetti geotermici da parte delle<br />

principali agenzie finanziarie internazionali vengono effettuati sulla base dell'analisi costi minimi.L'energia<br />

geotermica dovrebbe diventare ancora più competitiva se i parametri di confronto<br />

con le fonti tradizionali di energia non si limitassero esclusivamente agli aspetti finanziari,<br />

ma possono prendere anche in considerazione i costi ombra con le relative conseguenze economiche,<br />

anche chiamati "esternalità".I costi esterni relativi alla produzione di energia da fonti<br />

convenzionali diventano nel caso delle sorgenti geotermiche benefici esterni, e sono parametri<br />

che sostanzialmente cambiano i livelli di competitività a favore dell'energia geotermica. Tali<br />

benefici possono essere quantificati in termini monetari e dovrebbero essere considerati come<br />

fattori per un'analisi comparativa. Se le esternalità sono incluse nei parametri per l'analisi degli<br />

investimenti, si potranno ottenere elevati benefici sociali ed economici, e questo dovrebbe<br />

incentivare i finanziamenti pubblici per assicurare il successo degli investimenti nell'ambito<br />

delle energie geotermiche. La quantificazione delle esternalità è un aspetto cruciale dell'ener-<br />

84


gia geotermica e dovrebbero essere sempre considerate, per evitare che i progetti vengano penalizzati<br />

da una sola analisi di tipo economico.<br />

La Geotermia in Toscana<br />

La geotermia può essere vista sotto molti aspetti: naturalistico, energetico, terapeutico, turistico,<br />

ambientalista. E’ un pianeta con molte facce, che il Co.Svi.G. considera in primo luogo una<br />

ricchezza di tutti, che deve essere sfruttata attraverso uno sviluppo "sostenibile e compatibile",<br />

affinché possa generare il maggior numero possibile di ricadute socio-economiche per la<br />

Toscana.<br />

L’esistenza di calore all’interno della terra è reso evidente da fenomeni ben noti, quali i vulcani,<br />

i geysers e le fumarole, distribuiti sulla superficie terrestre secondo fasce geografiche ben<br />

delineate e contraddistinte dal punto di vista geologico<br />

1. - Fascia Pacifico-americana<br />

2. - Fascia Medio-atlantica<br />

3. - Fascia Africa Orientale<br />

4. - Fascia Alpino-Himalaiana (CUI APPARTENGONO I NOSTRI SITI)<br />

5. - Fascia Asia Continentale<br />

6. - Fascia Pacifico-asiatica<br />

85


La possibilità pratica di sfruttare l'enorme quantità di calore contenuta nella terra è legata alla<br />

condizione che si concentrino in una stessa area sia la fonte di calore, che la copertura impermeabile<br />

e che in quella zona si instauri anche una circolazione profonda di acqua meteorica.<br />

Si forma così un campo geotermico,<br />

all’interno del quale<br />

si possono trovare, a seconda<br />

della temperatura e della<br />

pressione esistenti, vapore<br />

oppure acqua, sempre<br />

accompagnati da quantità<br />

variabili di gas e di sali minerali.<br />

Nelle situazioni più<br />

favorevoli si può estrarre,<br />

attraverso pozzi profondi da<br />

qualche centinaio fino a oltre<br />

4.000 metri, vapore ad alta<br />

temperatura e pressione (a<br />

Larderello fino a oltre 400 °C<br />

a fondo pozzo e tra 5-15<br />

atmosfere a boccapozzo), che<br />

è possibile utilizzare per la<br />

produzione di nergia geotermoelettrica,<br />

facendolo espandere<br />

in una turbina che, a sua<br />

volta, aziona un generatore<br />

elettrico.<br />

Il vapore, che al termine del ciclo termodinamico è condensato in acqua, viene reimmesso nel<br />

86


serbatoio originario attraverso appositi pozzi di reiniezione, in tale modo, si riducono gli abbassamenti<br />

di pressione nel giacimento e si genera anche nuovo vapore, per riscaldamento dell'acqua<br />

nelle profondità della "caldaia geotermica" naturale. Attualmente nel mondo sono installate<br />

centrali geotermiche per circa 7.000 MW, dei quali 748.5 MW in Italia, per ora ancora tutti<br />

nella Toscana, dove la geotermia fornisce un contributo del 20 % alla produzione elettrica regionale.<br />

Il nostro Paese è stato un pioniere in questo campo: la prima lampadina "geotermoelettrica" è<br />

stata accesa nel 1904 e l’Italia è stata fino a metà degli anni cinquanta l’unica nazione ad utilizzare<br />

la geotermia come fonte industriale per la produzione elettrica. La produzione geotermoelettrica<br />

dell’ERGA S.p.A. nel 1999 è stata di 4.402731 MWh (equivalente all’1.5 % della<br />

produzione nazionale e cioè a circa al consumo medio annuo di più di un milione di famiglie).<br />

Lo sviluppo industriale della geotermia e non è però iniziato con la produzione di energia elettrica,<br />

ma con l’estrazione dell’acido borico e di altri sali borici presenti nel fluido geotermico.<br />

Lo sfruttamento chimico dei fluidi geotermici ha avuto, infatti, un impulso straordinario da<br />

quando, a metà del secolo scorso, si è pensato di utilizzare il calore stesso del vapore per concentrare<br />

i sali contenuti nei fluidi geotermici. Questo processo chimico e l’industria collegata,<br />

sono diventati, nel tempo, talmente importanti, da caratterizzare come "area boracifera" l’intero<br />

comprensorio dell’alta Val di Cecina. Geotermia significa anche e soprattutto calore a basso<br />

costo per iniziative agricole, artigianali e industriali che utilizzano energia termica nel processo<br />

lavorativo.<br />

La sfida per il futuro è rappresentata dalla applicazione del calore geotermico a nuovi processi<br />

produttivi (quali l’essicazione del legname e di prodotti agricoli, il settore caseario, l’itticoltura,<br />

l’industria dei laterizi), in modo da creare nuova occupazione ed aumentare il risparmio di<br />

combustibili fossili. Il contributo del calore geotermico ceduto dall’ERGA in Italia consente già<br />

oggi un risparmio energetico di 40365 tonnellate equivalenti di petrolio all’anno.<br />

Nel 1999 ERGA ha inaugurato a Carboli presso Monterotondo Marittimo due moderne centrali<br />

geotermiche, ponendo le basi per un ulteriore avanzamento del programma di sviluppo della<br />

geotermia in Italia che nel 2000 si concretizzerà con l'entrata in servizio di nuovi impianti.<br />

Contemporaneamente alle due centrali geotermoelettriche è stato inaugurato l'impianto di produzione<br />

di lattulosio di proprietà della Monterotondo Ecomilk srl.<br />

SOLARE FOTOVOLTAICO<br />

Che cos'è il fotovoltaico<br />

Il fotovoltaico è una tecnologia che consente di trasformare direttamente la luce solare in energia<br />

elettrica, sfruttando il cosiddetto effetto fotovoltaico. Questo effetto si basa sulla proprietà<br />

che hanno alcuni materiali semiconduttori opportunamente trattati (fra cui il silicio, elemento<br />

molto diffuso in natura), di generare direttamente energia elettrica quando vengono colpiti dalla<br />

radiazione solare, senza l'uso di alcun combustibile.<br />

Che cos'è la cella fotovoltaica<br />

Il dispositivo più elementare capace di operare tale conversione è la cella fotovoltaica che è in<br />

grado di produrre circa 1/1,5 Watt di potenza quando è investita da una radiazione di 1000<br />

W/m2 (condizioni standard di irraggiamento). Molte celle assemblate e collegate tra di loro in<br />

una unica struttura formano il modulo fotovoltaico. Un modulo fotovoltaico tipo è costituito da<br />

87


36 celle, ha una superficie di circa mezzo metro quadrato ed eroga, in condizioni ottimali tra 40<br />

e 50 W.<br />

Il sistema fotovoltaico Un insieme di moduli, connessi elettricamente tra loro, formano il campo<br />

fotovoltaico che, insieme ad altri componenti meccanici, elettrici ed elettronici, consente di realizzare<br />

i sistemi fotovoltaici. Il sistema fotovoltaico, nel suo insieme, capta e trasforma la radiazione<br />

solare incidente e la rende disponibile per l'utenza sotto forma di energia elettrica.<br />

Costi e applicazioni<br />

Nonostante la maturazione della tecnologia sia testimoniata dalla diminuzione dei costi dei<br />

moduli FV di circa 10 volte in 20 anni e da un aumento dei rendimenti, il prezzo attuale dei<br />

moduli è di 4-5 dollari per Watt di picco e il costo del chilowattora prodotto intorno a 0,15 dollari,<br />

sono ancora troppo elevati per consentirne la competitività commerciale. Il loro rendimento<br />

(dal 10 al 13%) ha consentito comunque la diffusione del fotovoltaico - inizialmente impiegato<br />

solo per applicazioni spaziali e in piccoli calcolatori, orologi e gadget - nelle telecomunicazioni,<br />

nella segnaletica terrestre e marittima, nell'alimentazione elettrica di utenze isolate e di<br />

reti in isole minori. Il fotovoltaico risolve efficacemente i problemi di elettrificazione rurale nei<br />

paesi in via di sviluppo. Il grande sviluppo del fotovoltaico dovrà tuttavia concretizzarsi nei<br />

paesi più industrializzati attraverso la sua integrazione negli edifici (tetti e facciate fotovoltaiche),<br />

con relativa immissione dell'energia elettrica prodotta in rete.<br />

La produzione mondiale<br />

La capacità mondiale di produzione di celle fotovoltaiche alla fine del 1997 è stata di circa 125<br />

MW di potenza (in Europa circa 30 MWp) con una crescita del 43% rispetto all'anno precedente.<br />

Si prevede che tale valore sarà più che raddoppiato per l'anno 2000. In Italia si produce<br />

circa 2 MWp/anno di fotovoltaico e la potenza installata è di circa 16 MW.<br />

PROGRAMMA NAZIONALE 10.000 TETTI FOTOVOLTAICI<br />

numero verde: 800 466 366<br />

Il numero verde fornisce informazioni preliminari sul Programma Nazionale 10.000 Tetti<br />

Fotovoltaici, in corso di attivazione da parte dei Ministeri dell'Industria e dell'Ambiente, con la<br />

gestione tecnica dell'ENEA.<br />

Il numero verde è operativo secondo il seguente orario: 9,30-13,30 da lunedì a venerdì.<br />

Per informazioni rivolgersi a: ISES ITALIA Piazza Bologna, 22 00162 Roma – Italia Tel: + 39 06<br />

44249241 / 44249247 Fax: + 39 06 44249243 info@isesitalia.it<br />

PROGRAMMA NAZIONALE 10.000 TETTI FOTOVOLTAICI<br />

Proposto dai Ministeri dell' INDUSTRIA E AMBIENTE<br />

OBIETTIVI<br />

Il programma promuove la realizzazione, nell'arco di 5 anni, di 10.000 impianti fotovoltaici<br />

(FV), dei quali 9.000 di piccola taglia (potenza da 1 a 5 kWp) e 1.000 di media taglia (da 5 a<br />

50 kwp) per una potenza complessiva di 50 MWp.<br />

Gli obiettivi principali sono:<br />

la diffusione di sistemi fotovoltaici integrati negli edifici e connessi alla rete elettrica<br />

la creazione di un mercato nazionale stabile negli anni, per l'abbattimento dei costi e l'ottimizzazione<br />

tecnico-economica dei singoli componenti<br />

GESTIONE DEL PROGRAMMA<br />

L'impostazione, la supervisione ed il controllo del Programma saranno assicurati da un<br />

Comitato di indirizzo e Controllo presieduto dall'ENEA.<br />

La gestione operativa sarà curata dall'ENEA che si avvarrà a tal fine di un'apposita


Commissione Tecnica.<br />

DESCRIZIONE DEL PROGRAMMA<br />

Il Programma riguarda la realizzazione di impianti FV da installare/integrare direttamente su<br />

edifici (facciate, tetti) o su loro pertinenze (cortili, terrazzi, lastrici solari, pensiline, ecc.).<br />

Gli impianti ammessi all'iniziativa dovranno essere collegati alla rete elettrica monofase (fino a<br />

5 kwp) o a quella trifase in bassa tensione (al di sopra dei 5 kwp).<br />

Il Programma è rivolto a soggetti privati e/o pubblici che intendano installare impianti<br />

fotovoltaici su immobili di loro proprietà.<br />

Tali soggetti si avvarranno delle prestazioni di qualificate ditte di progettazione e installazione.<br />

Tra le due tipologie di impianto sopra individuate, quella da I a 5 kwp si presuppone sia di interesse<br />

maggiore per i privati cittadini, e quella di potenza superiore a 5 kwp potrà interessare<br />

enti, società ecc.<br />

Il Programma sarà regolato da un "bando generale", che definirà le modalità di partecipazione:<br />

i soggetti e la tipologia di impianti ammessi, le relative forme di contributo, i criteri per essere<br />

inseriti nell'elenco dei progettisti ed installatori autorizzati.<br />

Sono, poi, previsti'" bandi specifici", emessi con cadenza annuale, che definiranno il numero<br />

degli impianti, la potenza complessiva finanziabile per ogni anno, i costi ammissibili, l'elenco<br />

dei progettisti/installatori (aggiornato anno per anno), le procedure per la richiesta e l'assegnazione<br />

dei contributi.<br />

INCENTIVI ECONOMICI<br />

Sono in conto capitale e diversificati per tipologia di impianto. Per il primo anno è previsto che<br />

tale incentivo sia dell'ordine del 75-80% per gli impianti di piccola taglia (1-5 kwp) e del 70-<br />

75% per gli impianti di taglia superiore (5-50 kwp)<br />

MANUTENZIONE<br />

Gli impianti dovranno essere mantenuti in buone condizioni per almeno 12 anni dalla data della<br />

loro messa in esercizio.<br />

Per gli impianti di taglia inferiore ai 5 kW la società elettrica interessata assicurerà la manutenzione<br />

ordinaria dalla scadenza del periodo di garanzia fino al termine dei 12 anni dalla messa<br />

in esercizio. La manutenzione straordinaria è a carico del soggetto interessato.<br />

Per gli impianti di taglia superiore sia la manutenzione ordinaria che quella straordinaria saranno<br />

a carico dell'interessato.<br />

MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE - Presentazione della domanda:<br />

La domanda di partecipazione al programma deve essere presentata e firmata dal soggetto interessato<br />

secondo uno schema-tipo che, in linea di massima, prevede:<br />

a) autocertificazione di essere proprietario dell'edificio su cui va installato l'impianto,<br />

b) dichiarazione di disponibilità a concedere l'accesso al personale tecnico della Società elettrica<br />

distributrice e dell'ENEA, per le verifiche di competenza,<br />

c) obbligo di allegare alla domanda il progetto esecutivo dell'impianto firmato da un<br />

tecnico/progettista abilitato,<br />

d) impegno a non alienare l'impianto per almeno 12 anni dalla data del collaudo,<br />

e) dichiarazione di aver ottemperato agli obblighi previsti dai regolamenti edilizi vigenti,<br />

f) indicazione della società elettrica gestore della rete cui il richiedente è allacciato come utente<br />

e tipo di fornitura contrattuale.<br />

Esame della domanda e assegnazione del contributo<br />

La data di ricezione della domanda costituisce il criterio di priorità di valutazione. In caso di<br />

accettazione della domanda, il Richiedente può dare avvio all'installazione. L'accettazione delle<br />

domande proseguirà, per ciascun bando annuale, fino al raggiungimento della potenza massima<br />

89


finanziabile prevista dal bando stesso per ciascuna tipologia di impianto.<br />

L'esito positivo del collaudo tecnico finale, effettuato dall'Enea su richiesta dell'utente, darà<br />

luogo all'erogazione del contributo finanziario previsto dal Programma.<br />

NORMATIVA<br />

La realizzazione degli impianti deve avvenire nel pieno rispetto della normativa vigente circa<br />

l'esecuzione delle opere civili ed elettriche.<br />

REGOLAMENTI EDILIZI:<br />

secondo la normativa vigente, la realizzazione di un impianto FV può essere equiparata a quella<br />

di un impianto tecnologico (intervento di manutenzione straordinaria).<br />

A tale riguardo si può fare riferimento alla legge 662/96 che prevede la procedura di silenzioassenso.<br />

Ove esistano vincoli paesaggistico-ambientali è invece necessario il rilascio di autorizzazione<br />

comunale (legge 457/78).<br />

NORME ELETTRICHE:<br />

in considerazione del fatto che un impianto FV costituisce un sistema di autoproduzione di energia<br />

elettrica, il suo collegamento alla rete deve essere effettuato secondo quanto indicato dalle<br />

norme CE 11-20 circa l'interfacciamento e dalle norme CE 64-48 con riguardo alla sicurezza<br />

degli impianti elettrici.<br />

Devono essere inoltre rispettate le prescrizioni che le società elettriche stabiliscono circa le<br />

caratteristiche tecniche delle apparecchiature di interfaccia con la rete.<br />

REGIME FISCALE:<br />

l'esercizio dell'impianto deve fare riferimento alle norme che regolano il regime fiscale degli<br />

impianti di produzione di energia elettrica, cioè:<br />

denuncia di officina elettrica all'Ufficio Tecnico di Finanza, richiesta di licenza di esercizio e<br />

pagamento del relativo diritto annuale, installazione di un contatore per la contabilizzazione<br />

dell'energia prodotta e pagamento dell'imposta erariale.<br />

Gli impianti di potenza non superiore a 20 kW sono esonerati da tali obblighi (legge 133/99).<br />

REGIME TARIFFARIO:<br />

è previsto (delibera 13/99 dell'Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas) lo scambio non oneroso<br />

dell'energia tra Utente e Società Elettrica.Lo scambio prevede un corrispettivo per l'uso della<br />

rete ed il conguaglio annuale sull'energia scambiata. Per avere maggiori informazioni N° Verde<br />

800466366 (lun. ven. 9.30 / 13.30) oppure www.enea.it<br />

SOLARE TERMICO<br />

Le tecnologie per utilizzare l'energia solare per produrre calore sono di tre tipi: a bassa, media<br />

ed alta temperatura.<br />

Le tecnologie a bassa temperatura comprendono i sistemi che usano un pannello solare per<br />

riscaldare un liquido o l'aria, con lo scopo di trasferire il calore solare per produrre acqua calda<br />

o riscaldare gli edifici. Il rendimento dei pannelli solari è aumentato del 30 % nell'ultimo decennio,<br />

rendendo varie applicazioni nell'edilizia, nel terziario e nell'agricoltura commercialmente<br />

mature e competitive. Nel mondo sono installati oltre 30 milioni di metri quadri di pannelli solari<br />

di cui 3 milioni nell'Unione europea.<br />

In Italia l'applicazione dei pannelli solari per scaldare l'acqua è poco diffusa. Nel 1994 sono stati<br />

installati circa 10.000 m2 contro i 98.000 m2 installati in Austria.<br />

Le tecnologie a media e alta temperatura sono relative a sistemi a concentrazione parabolici<br />

lineari o puntuali. I concentratori parabolici lineari sono utilizzati in un impianto di oltre 350<br />

MW costruito in California. Impianti con collettori parabolici puntuali o a disco sono stati sviluppati<br />

in Germania, Stati Uniti, Israele e Australia. I recenti sviluppi tecnologici fanno preve-<br />

90


dere un rilancio applicativo di questa tecnologia sia per la generazione di energia elettrica sia<br />

per la produzione di calore di processo per l'industria chimica.<br />

In Italia, l'esperienza di maggior rilievo nel solare termico a media temperatura è stata realizzata<br />

agli inizi degli anni ottanta con la costruzione della più grande centrale solare del mondo<br />

ad Adrano in provincia di Catania. L'impianto, chiamato Eurelios, era costituito da una torre<br />

centrale alla sommità della quale era posta la caldaia riscaldata dalla radiazione riflessa da un<br />

campo di specchi. La centrale aveva la potenza di 1 MW.<br />

I PANNELLI SOLARI: COSA SONO E QUALI SONO LE LORO TIPOLOGIE<br />

I pannelli solari vengono utilizzati per produrre acqua calda con una temperatura che può raggiungere<br />

fino i 70°. L'acqua prodotta viene immagazzinata in un apposito serbatoio che permette<br />

di utilizzarla per i più svariati motivi.<br />

Le parti che compongono il sistema di riscaldamento sono essenzialmente tre:<br />

Il Pannello solare: trasferisce il calore dalla luce solare all'acqua<br />

Il serbatoio: il contenitore dell'acqua<br />

Una pompa: utilizzata per la circolazione dell'acqua.<br />

Il pannello é formato da una lastra (in rame, in acciaio) all'interno della quale è installato un<br />

sistema di tubatura per il ricircolo dell'acqua che viene riscaldata dal calore prodotto dalla luce<br />

solare. Spesso nell'acqua viene aggiunta una sostanza antigelo atossica per evitare il congelamento<br />

nelle stagioni più fredde.<br />

Sopra la lastra del pannello viene istallata una superficie di vetro, meglio se si tratta di vetro<br />

temperato con basso contenuto di piombo, per permettere l'effetto serra: i raggi solari entrano<br />

nel sistema e sono trattenuti per aumentare l'effetto di riscaldamento. Tutto l'impianto viene poi<br />

racchiuso in uno chassis.<br />

Nel serbatoio avviene il vero e proprio scambio di calore, infatti l'acqua riscaldata dal pannello<br />

entra in contatto con quella contenuta nel serbatoio e, attraverso uno scambiatore di calore, cede<br />

la propria energia riscaldando l'acqua da utilizzare per scopi sanitari.Nel serbatoio si possono<br />

quindi trovare due circuiti idraulici separati: quello per scopi sanitari e quello che apporta il<br />

calore che arriva direttamente dal pannello solare. Per riscaldare un serbatoio di circa 80 litri è<br />

necessaria circa mezza giornata, su tale media influisce però il posizionamento geografico del<br />

sistema (paesi più o meno freddi).<br />

Anche quando il cielo è coperto si può, in modo minore, produrre acqua calda poiché è la radiazione<br />

solare che produce il calore e tale radiazione è comunque sempre presente, anche nelle<br />

giornate meno soleggiate.<br />

Tale discorso non è valido chiaramente in giornate temporalesche e con cielo totalmente coperto,<br />

per questo motivo tali sistemi di riscaldamento sono spesso integrati a quelli più tradizionali<br />

permettendo un grande risparmio energetico.<br />

TIPOLOGIE DI PANNELLI SOLARI:<br />

Pannelli a superficie selettiva<br />

L'assorbitore di calore, di colore nero, è stato trattato con un prodotto selettivo all’infrarosso,<br />

che trattiene il calore del sole e riduce la riflessione. Buon rendimento anche durante i mesi<br />

invernali.<br />

Pannelli non selettivi<br />

La superficie dell’assorbitore di calore è verniciata in nero ma non trattata, il rendimento è inferiore<br />

di circa il 10% a quello dei pannelli trattati.<br />

Pannelli con serbatoio integrato<br />

91


L’assorbitore di calore ed il serbatoio di accumulo sono un tutt'uno e l’energia solare giunge<br />

direttamente a scaldare l’acqua accumulata.<br />

Pannelli solari vetrati con aria calda<br />

Circola aria anziché acqua. L’aria viene fatta circolare tra vetro e assorbitore o, in alcuni casi,<br />

in una intercapedine ricavata tra l’assorbitore ed il fondo di poliuretano isolante.<br />

Particolarmente adatto per il riscaldamento degli edifici o per essiccare prodotti alimentari.<br />

Pannelli sottovuoto<br />

Si presentano come tubi di vetro contenenti un elemento assorbitore di calore, al cui interno la<br />

pressione dell’aria è ridottissima così da impedire la cessione del calore da parte dell’assorbitore.<br />

L’aria tra assorbitore e vetro viene aspirata. I pannelli solari sottovuoto hanno un ottimo<br />

rendimento.<br />

Pannelli scoperti<br />

Sono privi di vetro e l’acqua passa direttamente all’interno dei tubi del pannello dove viene<br />

riscaldata dai raggi solari ed è pronta per essere usata.<br />

I finanziamenti per i pannelli solari sugli edifici storici<br />

Gazzetta Ufficiale n. 79 del 04-04-2001 - Ministero dell'Ambiente - DECRETO 22 dicembre<br />

2000 Finanziamenti ai comuni per la realizzazione di edifici solari fotovoltaici ad alta valenza<br />

architettonica. Il DIRETTORE GENERALE DEL SERVIZO INQUINAMENTO ATMO-<br />

SFERICO ACUSTICO E INDUSTRIE A RISCHIO Vista la delibera CIPE del 19 novembre<br />

1998 "Linee guida per le politiche e misure nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra"<br />

con al quale vengono stabiliti gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra al<br />

2008-2012;Visto il libro bianco per la valorizzazione energetica delle fonti rinnovabili, approvato<br />

dal CIPE in data 6 agosto 1999, con il quale si individuano, per ciascuna fonte rinnovabile,<br />

gli obbiettivi che devono esssere conseguiti per ottenere le riduzioni di emissioni di gas serra<br />

che la precedente delibera CIPE 19 novembre 1998 assegna all'azione "produzione di energia<br />

da fonti rinnovabili"; Visto in particolare che, per la tecnologia fotovoltaica, il libro bianco<br />

stima uno sviluppo annuo simile a quello registrato negli ultimi anni sul mercato internazionale,<br />

tale da consentire di giungere al 2008-2012 a una potenza di picco installata di circa 300<br />

MW; Ritenuto che l'impegno pubblico per lo sviluppo della tecnologia fotovoltaica debba continuare<br />

e riguardare, da un lato, la ricerca e, dall'altro, in modo più mirato, la promozione di quei<br />

settori di mercato più vicini alla competitività tecnico-economica; Considerato che l'integrazione<br />

nelle strutture edilizie di sistemi fotovoltaici operanti in connessione alla rete di distribuzione<br />

elettrica viene ritenuta una strada promettente per favorire la riduzione dei costi e mitigare i<br />

problemi connessi all'occupazione di territorio causata dalle applicazioni fotovoltaiche tradizionali;<br />

Visto il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 122, e in particolare gli articoli 29, 30 e<br />

31 con i quali sono stati individuati compiti e funzioni dello Stato, delle regioni e degli enti<br />

locali in materia di energia, ivi incluse le fonti rinnovabili; Ritenuto opportuno avviare, in attuazione<br />

della citata delibera CIPE 6 agosto 1999, azioni dirette alla diffusione della tecnologia<br />

fotovoltaica per applicazioni nell'edilizia; Considerato che l'art. 29, comma 2, lettera h), del<br />

decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, attribuisce allo Stato il compito di fissare gli obiettivi<br />

e i programmi nazionali in materia di fonti rinnovabili; Visto l'accordo di programma tra il<br />

Ministero dell'ambiente e l'ENEA, stipulato in data 25 novembre 1998, allo scopo di raccordare<br />

le attività dell'ENEA agli obiettivi prioritari della politica di tutela e risanamento ambientale<br />

del Governo nonché per definire le modalità di collaborazione dell'ENEA alle diverse linee di<br />

intervento avviate dal Ministero, per il raggiungimento degli stessi obiettivi;Considerato che è<br />

in corso di perfezionamento un atto integrativo al succitato accordo di programma con l'ENEA<br />

per lo svolgimento delle attività tecniche e scientifiche relative ai programmi di sostegno alla<br />

92


diffusione della tecnologia fotovoltaica; Visto il protocollo d'intesa tra il Ministero dell'ambiente<br />

e il Ministero dei beni e delle attività culturali, firmato in data 7 giugno 2000, per l'individuazione<br />

delle soluzioni più adeguate ad un corretto inserimento delle tecnologie solari nel<br />

tessuto urbano;<br />

Decreta:<br />

Art. 1. - Oggetto e obiettivo del finanziamento<br />

Il presente decreto finanzia le amministrazioni pubbliche e gli enti pubblici per la realizzazione<br />

di un impianto solare fotovoltaico di grande scala, completamente integrato in un complesso<br />

edilizio, caratterizzato da elevate prestazioni energetico-ambientali e da alta valenza architettonica.<br />

Art. 2. - Criteri e modalità del finanziamento<br />

I criteri e le modalità di finanziamento degli interventi saranno oggetto di apposito bando, che<br />

sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana a cura di questo Ministero. Il<br />

bando, inoltre, stabilirà i termini, i requisiti, le condizioni e i documenti per la partecipazione,<br />

nonché gli elementi per la valutazione delle domande.<br />

Art. 3. - Disponibilità finanziaria e assunzione dell'impegno<br />

Per la finalità di cui al presente decreto, è impegnata la somma di L. 3.111.000.000 utilizzando<br />

le disponibilità del capitolo 8254 della U.P.B. 7.2.1.2 (Prevenzione inquinamento atmosferico e<br />

acustico) dello stato di previsione del Ministero dell'ambiente per l'anno finanziario 2000.<br />

Il presente provvedimento sarà trasmesso al competente organo di controllo per gli adempimenti<br />

di competenza.<br />

RIFERIMENTI CULTURALI, BIBLIOGRAFICI E STORICI<br />

Qualche data da ricordare…<br />

Giugno 1992: Conferenza ONU sullo stato dell’ambiente a Rio de Janeiro: viene presentato<br />

un nuovo strumento, l’Agenda XXI (da XXI secolo, appunto) che si compone di 6 fasi:<br />

Attivazione di un forum composto da tutti gli attori sociali<br />

Consultazione permanente con la comunità locale<br />

Redazione di un rapporto sullo stato dell’ambiente<br />

Definizione degli obiettivi da raggiungere<br />

Redazione di un Piano d’azione ambientale<br />

Monitoraggio, valutazione e aggiornamento del Piano…<br />

Maggio 1994: Conferenza europea sulle città sostenibili ad Aalborg. La “Carta di Aalborg”<br />

impegna le città ad attuare un’Agenda 21 l ocale e ad elaborare piani d’azione ambientale a<br />

lungo termine. Firenze è firmataria della Carta dal 1998 ma… ad essa inadempiente nei fatti.<br />

Dicembre 1997: Conferenza ONU sui cambiamenti climatici a Kyoto. Il “Protocollo di<br />

Kyoto” impegna i paesi sviluppati a ridurre le emissioni dei cosiddetti gas-serra (CO2, CH4,<br />

NOX, CFC) del 5,2 % entro il 2010 rispetto ai dati del 1990.<br />

Dicembre 1999: fallimento del vertice WTO a Seattle. La linea della liberalizzazione degli<br />

OGM (portata avanti da USA, Australia e Giappone) non passa per la ferma avversione di<br />

UE e paesi in via di sviluppo.<br />

93


Agosto – settembre 2002: Conferenza ONU sullo stato dell’Ambiente (Rio+10).<br />

Livello istituzionale: sostanziale fallimento del vertice per l’avversione degli USA ad accettare<br />

il principio ‘multilaterale’ e l’impegno su percentuali e date precise e vincolanti. Passa la<br />

linea del ‘bilateralismo’ occasionale.<br />

Ratifica del Protocollo di Kyoto: due importanti risultati politici, la ratifica di Russia e<br />

Canada tra i G8 e della Cina tra i paesi in via di sviluppo.<br />

Grande protagonismo in parallelo delle Organizzazioni Non Governative.<br />

Per sostenibilità e sviluppo sostenibile la bibliografia essenziale è la seguente:<br />

“Archeologia dello sviluppo” (1992), di W. Sachs,<br />

“La fine del lavoro” (1995), di J. Rifkin,<br />

“Futuro sostenibile” (1997), del Wuppertal Institut,<br />

“Sviluppo sostenibile” (1997), di W. Sachs,<br />

“Italia capace di futuro” (2000), a cura di G. Bologna,<br />

“Manuale delle Impronte Ecologiche” (2002), di AA.VV.,<br />

“Ambiente e giustizia sociale” (2002), di W. Sachs.<br />

Per il quadro sinottico delle ere (Rurale, Industriale, Post-Industriale) la bibliografia di riferimento<br />

è la seguente:<br />

“L’avvento post-industriale” (1988), a cura di D. De Masi,<br />

“La città diffusa” (1990), a cura di F. Indovina,<br />

“Città di III Millennio” (1997), di E. Scandurra,<br />

“Il territorio degli abitanti” (1998), a cura di A. Magnaghi,<br />

“I futuri della città” (1999-2000), di AA.VV.<br />

Riferimenti bibliografici<br />

Per un compendio storico dell’ambientalismo scientifico consultare i fondamentali:<br />

“La bomba demografica” (1968) di Paul Ehrlich;<br />

“Il cerchio da chiudere” (1971) di Barry Commoner;<br />

“Ambiente, potere e società” (1971) di Howard Odum;<br />

“I limiti dello sviluppo” (1972) dei coniugi Meadows;<br />

“Piccolo è bello” (1978) di E.F. Schumacher;<br />

“GAIA: un nuovo sguardo sulla vita nel Pianeta Terra” (1979) di James Lovelock.Fondamentali<br />

infine i testi di Jeremy Rifkin:<br />

“Entropia. La fondamentale legge della natura…” (1982),<br />

“Guerre del tempo. Il mito dell’efficienza…” (1989)<br />

“Il secolo biotech” (1998),<br />

“L’era dell’accesso” (2000),<br />

“Economia a idrogeno” (2002).<br />

94


MOBILITÀ SOSTENIBILE<br />

Alessandro Margaglio – Coordinatore Progetto “BiciTrenoBici”<br />

Gli effetti negativi del traffico urbano automobilistico sono la più grande emergenza delle aree<br />

urbane in tutto il mondo. Gli effetti negativi più importanti sono:<br />

• Inquinamento atmosferico: Le stime dell’OMS indicano che il PM10 è responsabile<br />

a livello europeo di circa 80.000 morti all’anno.<br />

• Inquinamento acustico: Le stime dell’OMS indicano che oltre il 90% della popolazione è<br />

esposta rumori di intensità superiore a 55 dB e il 27% ad intensità superiori a 75dB.<br />

• Incidenti: Statistiche ISTAT indicano che oltre il 70% di questi avviene in ambito<br />

urbano con oltre il 40% dei morti a livello nazionale.<br />

• Danni paesaggistici: Circa il 15% del territorio è occupato da strade e parcheggi.<br />

• Danni sociali: L’assenza di trasporti collettivi adeguati limita l’accessibilità a servizi<br />

e territorio ad alcune categorie sociali non autosufficienti (anziani, bambini,<br />

portatori di handicap).<br />

• Inefficienza tecnico economica derivante dalla congestione: La perdita di tempo da<br />

traffico, in studi condotti a livello europeo, è stimata in circa il 2% del PIL.<br />

Alla luce di questi dati risulta quindi inevitabile predisporre una strategia di intervento che preveda<br />

la disincentivazione del trasporto privato in favore di un miglioramento del trasporto collettivo,<br />

su ferro e su gomma.<br />

Gli interventi possibili comportano il mutamento di abitudini acquisite e consolidate da una<br />

larga parte della popolazione, ovvero il cambiamento dall’uso dell’autovettura privata in favore<br />

di modalità di trasporto intermodali ed eco-sostenibili, nonché la diminuzione del numero<br />

stesso degli spostamenti.<br />

Il Ministero dell’Ambiente in questi anni ha portato avanti una politica in favore della mobilità sostenibile,<br />

promovendo progetti relativi al rinnovo del parco veicolare con veicoli a ridotto impatto<br />

ambientale, alla introduzione di modalità di trasporto collettivo complementari al trasporto di massa<br />

come il taxi collettivo, alla introduzione di misure per la gestione della domanda di mobilità come le<br />

domeniche senza auto o il Mobility Management. Quest’ultimo è un approccio orientato alla gestione<br />

della domanda di mobilità riguardante gli spostamenti casa–lavoro ed è regolato dal Decreto<br />

Ronchi del 1998, nel quale viene imposto alle Aziende ed agli Enti pubblici con oltre 300 dipendenti<br />

per ogni unità locale, ed alle Imprese con 800 dipendenti complessivi, di individuare un Mobility<br />

Manager, al fine di ottimizzare gli spostamenti dei dipendenti, diminuendo l’uso dell’auto privata,<br />

mediante l’adozione di un Piano degli spostamenti casa-lavoro redatto secondo I principi della<br />

Mobilità Sostenibile.<br />

Infine si deve ricordare che l'articolo 36 del Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo Codice<br />

della strada) fa obbligo a tutti i Comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti, o comunque soggetti<br />

a congestione per il traffico veicolare, di redigere, adottare ed attuare il Piano Urbano del Traffico,<br />

da rinnovarsi ogni due anni. In particolare si evidenziano alcuni punti qualificanti dei P.U.T., contenuti<br />

nelle direttive pubblicate nella Gazzetta Ufficiale in data 24 giugno 1995:<br />

7.3.1.1 - Classifica funzionale delle strade<br />

8.3.1.2 - Viabilità principale ed isole ambientali<br />

9.3.1.3 - Principali interventi di miglioramento dell'offerta<br />

10.3.2.1 - Tipi di componenti del traffico<br />

95


ove, fra le quattro componenti fondamentali del traffico, si pone al vertice della scala dei valori<br />

all'interno del Piano la mobilità elementare, ovvero la "circolazione dei pedoni", e la ciclabilità<br />

("specialmente per le aree urbane in pianura", cfr. punto 3.2.2 - Alternative spaziali, modali<br />

e temporali ), quale "precisa strategia del Piano".<br />

Pertanto l’adozione di una strategia complessiva per la mobilità sostenibile intermodale è ineludibile<br />

ed improcrastinabile, se l’obiettivo è quello di conseguire un miglioramento significativo<br />

della qualità della vita nel quotidiano, nonché preservare l’ambiente per le generazioni<br />

future.<br />

96


BIOARCHITETTURA<br />

Piero Funis – Bioarchitettura - sez. Firenze<br />

La Bioarchitettura nasce come disciplina architettonica che prende in considerazione l’ecologia<br />

e porta avanti come capisaldi quello di progettare in uno spazio capace di rapportarsi con l’ambiente<br />

per creare un habitat a misura d’uomo.<br />

La Bioarchitettura è supportata dalla Bioedilizia di cui si avvale per un costruire equilibrato con<br />

l’ambiente, pensato dall’uomo e capace di soddisfare le esigenze attuali senza il consumo indiscriminato<br />

di risorse e contenendo fino ad eliminare l’inquinamento per il benessere umano e<br />

quello della generazione futura.<br />

I materiali per costruire, ristrutturare e rinnovare le abitazioni devono essere ecologici con una<br />

scelta di colori atti a valorizzare gli ambienti. La combinazione di luce-colore influisce in modo<br />

straordinario sul nostro comportamento. L’architetto moderno deve acquisire conoscenze e<br />

arricchirsi professionalmente per proteggere l’uomo nel suo ambiente naturale.<br />

I principali agenti inquinanti in ambiente confinato possono essere generati sia dai materiali utilizzati<br />

per effettuare opere di rivestimento e di rifiniture interne sia da quelli utilizzate per gli<br />

arredi, altre sorgenti tossiche possono essere emanate nei processi di combustione, legate principalmente<br />

al riscaldamento degli ambienti (gas, cherosene ecc.).<br />

Determinanti sono anche le sorgenti legate ad attività svolte dagli occupanti come:<br />

- manutenzione (uso di prodotti per pulizia),<br />

- operazioni di vita quotidiana (uso di cucina a gas),<br />

- uso di macchine (computer),<br />

A tutto questo si aggiunge il contributo offerto dall’ambiente esterno.<br />

I rischi principali che corriamo a contatto con l’ambiente confinato possono essere divisi in due<br />

grandi categorie: gli infortuni (eventi dannosi improvvisi e occasionali) e le malattie (danni<br />

derivanti da cause che agiscono in modo continuativo e ripetuto sull’organismo).<br />

La condizione principale che sta alla base di una visione bioecologica del costruire è l’utilizzo<br />

razionale ed ottimale delle risorse e quindi una conciliazione delle tecniche pianificatorie ed<br />

edili atte ad assicurare standards abitativi elevati con costi ambientali contenuti.<br />

In una progettazione bioecologica, relativamente ai principali fattori d’inquinamento dobbiamo<br />

ricordare che le varie sostanze nocive sono obbligatoriamente accompagnate da una scheda di<br />

Sicurezza compilata secondo la direttiva CEE 91/155 in applicazione della direttiva CEE<br />

88/379, con indicazione della composizione della sostanza, dei pericoli, delle misure di pronto<br />

soccorso ecc.<br />

Una visione condivisa ed ecologicamente sostenibile di città è quella che pensa che nei contesti<br />

urbani si possa realizzare un’edilizia non aggressiva volta ad individuare materiali, modalità<br />

costruttive, tecnologie e tipologie abitative ecocompatibili. Alla base di una corretta concezione<br />

del costruire c’è l’idea di concepire gli edifici come organismi complessi capaci di interagire<br />

con l’ambiente esterno, con quello ad essi interno e con il resto della città.<br />

97


BIOLUCE<br />

Francesco Ciulli - Giornalista del settore bioarchitettura<br />

Un percorso che parte dalla consapevolezza ecologica, oggi arriva alla conoscenza dei campi<br />

elettromagnetici e della loro pericolosità. La bio-architettura ci insegna a costruire impianti elettrici<br />

“puliti”.<br />

Il risparmio energetico è un valore irrinunciabile, una necessaria esigenza sociale: anche con<br />

l’illuminazione, per quanto piccolo sia il suo “consumo”, possiamo contribuire a contenere gli<br />

sprechi.<br />

Ma nella luce artificiale viviamo molte ore del nostro tempo. Sia nei luoghi di lavoro, a casa<br />

che negli esterni urbani siamo felicemente in sua compagnia.<br />

Interrogarci su come utilizziamo la luce può farci scoprire una nuova confortevolezza e una<br />

nuova estetica. Quale effetto ha la luce artificiale sul nostro equilibrio psicofisico? Sarà migliore<br />

la luce alogena o quella fluorescente?<br />

Possiamo imparare a valutare un apparecchio illuminante con nuovi criteri e nuovi “bisogni”;<br />

valutare i materiali di costruzione, le sorgenti luminose, il rendimento.<br />

Che cosa ci dicono i produttori di lampadine sulla loro degradabilità? Come fare per smaltirle<br />

senza procurare danni all’ambiente?<br />

Il dibattito, infine, sull’inquinamento luminoso non può più essere rimandato. Il problema deve<br />

assolutamente essere risolto.<br />

La luce artificiale ci affascina, ci fa “stare bene”. Forse può provocare stanchezza e stress? Con<br />

qualche attenzione in più riusciremo a limitare i danni e aumentare il piacere, raggiungendo un<br />

livello di benessere insperato e sostenibile.<br />

98


ARPAT E INQUINAMENTO, PARTICOLATO<br />

ATMOSFERICO, AMIANTO


ARPAT - AGENZIA REGIONALE <strong>PER</strong> LA PROTEZIONE AMBIENTALE<br />

TOSCANA<br />

Gabriele Fornaciai - ARPAT<br />

La Toscana è stata la prima Regione a istituire l'Agenzia regionale per la protezione ambientale,<br />

ARPAT. L'Agenzia è attiva dal 1996. È dotata di autonomia operativa, agile, aperta alla partecipazione,<br />

l'Agenzia offre servizi di controllo, di informazione, ricerca e consulenza per la<br />

protezione dell'ambiente, attraverso una rete di laboratori e uffici presenti nelle dieci province<br />

della Toscana, e, inoltre, a Piombino, Empoli, Borgo San Lorenzo, Sesto Fiorentino, San<br />

Romano, in Valdarno e in Versilia. L'azione dell’ ARPAT è guidata dall'idea di sviluppo sostenibile:<br />

proporre alle Amministrazioni e alle imprese l'adozione di provvedimenti e di azioni in<br />

grado di assicurare compatibilità tra ambiente e sviluppo.<br />

Di cosa si occupa<br />

• Monitoraggio ambientale e rilevamento dei fattori fisici, geologici, chimici,<br />

biologici, di inquinamento acustico, dell'aria, delle acque e del suolo.<br />

• Funzioni di vigilanza e controllo sul rispetto della normativa vigente in campo<br />

ambientale, nonche delle prescrizioni contenute nei provvedimenti di autorizzazione<br />

rilasciati dalle amministrazioni competenti.<br />

• Supporto tecnico per la pianificazione ambientale, per la programmazione di inter<br />

venti di risanamento e bonifica, per la promozione di tecnologie e prodotti<br />

ecologicamente compatibili.<br />

• Attività istruttorie, di consulenza e assistenza tecnico-scientifica per i soggetti titolari<br />

di funzioni amministrative in materia ambientale.<br />

• Effettuazione delle analisi di laboratorio di rilevo ambientale e di prevenzione<br />

sanitaria collettiva.<br />

• Supporto tecnico al Servizio sanitario per le attività di prevenzione e controllo sulla<br />

tutela della salute della collettività.<br />

• Controlli fitosanitari.<br />

• Organizzazione e gestione del Sistema informativo regionale ambientale, SIRA.<br />

• Costituzione di sistemi di contabilità ambientale ed attività tecniche connesse<br />

all'ambiente, anche a favore di terzi.<br />

• Informazione, educazione e formazione in campo ambientale.<br />

Dal controllo alla protezione ambientale<br />

ARPAT, tuttavia, non si limita a effettuare analisi, controlli e a vigilare sul rispetto delle leggi,<br />

ma lavora per una protezione ambientale intesa come risorsa e non come vincolo, come opportunità<br />

e non come ostacolo allo sviluppo. Per questo ARPAT si occupa anche di ricerca, di for-<br />

100


mazione e di educazione ambientale, collaborando con le tre Università toscane, con le associazioni<br />

e i movimenti ambientalisti, le organizzazioni sociali ed economiche. Il sistema informativo<br />

dell'Agenzia mette a disposizione della società toscana quattro banche dati (aria, acqua,<br />

rifiuti, ambiente di vita e di lavoro). Il battello oceanografico di ARPAT, Poseidon, effettua in<br />

permanenza il monitoraggio sullo stato di salute del mare toscano.<br />

Le attività<br />

Rischio industriale: attività istruttoria tecnica sui rapporti di sicurezza; vigilanza sul mantenimento<br />

delle condizioni di sicurezza degli impianti e verifiche ispettive sui sistemi di gestione<br />

della sicurezza; archiviazione delle informazioni raccolte ai fini dell'inventario informatizzato<br />

nazionale; collaborazione con i Comuni per l'informazione alla popolazione; supporto alle<br />

Prefetture per la pianificazione dell'emergenza esterna; supporto tecnico alle Autorità locali per<br />

la pianificazione dell'uso del territorio; studio integrato del rischio per le aree ad elevata concentrazione<br />

di stabilimenti; specifici programmi di studio e di ricerca, anche in collaborazione<br />

con altri enti.<br />

Acque interne e marine: monitoraggio delle acque superficiali; controllo dell'efficienza depurativa<br />

degli impianti di depurazione centralizzati; progetto "mare"; progetto risorse e produttività<br />

marina.<br />

Aria: monitoraggio della qualità dell'aria; controllo delle fonti di emissione; specifici programmi<br />

di studio e di ricerca, anche in collaborazione con altri enti.<br />

Agenti fisici e rumore: monitoraggio dell'inquinamento acustico; controllo e studio di interventi<br />

di bonifica; monitoraggio e controlli sull'esposizione della popolazione a radiazioni ionizzanti<br />

e a campi magnetici; specifici programmi di studio e di ricerca, anche in collaborazione<br />

con altri enti.<br />

Rifiuti e bonifiche dei siti contaminati: controllo degli impianti di smaltimento, trattamento e<br />

recupero di rifiuti; progetto di individuazione di indicatori di produzione di rifiuti per comparto<br />

produttivo; indagini sui siti da bonificare, censimento aree interne ai luoghi di produzione,<br />

nonche di raccolta, smaltimento e recupero di rifiuti.<br />

Strumenti volontari: studi di fattibilità sull'applicazione dell'EMAS ad aree e distretti industriali;<br />

studi sulle simbiosi eco-industriali.<br />

Zone umide: censimento, salvaguardia e rapporto per la formulazione dei piani di gestione<br />

delle aree palustri toscane.<br />

Controlli fitosanitari: vigilanza fitosanitaria; programma di controllo Erwinia amylovora; programma<br />

organismi geneticamente modificati.<br />

Formazione ed educazione ambientale: piano di formazione interna; catalogo offerte formazione<br />

in qualità di Agenzia formativa; costruzione di sinergie e partenariati.<br />

Comunicazione, informazione, relazioni con il pubblico: promozione dell'immagine e dell'identità<br />

di ARPAT, informazione attraverso strumenti cartacei e tecnologici, pubblicazione volumi<br />

di ricerche, studi e progetti, gestione dei rapporti con la cittadinanza.<br />

101


Centri tematici nazionali, CTN: in base alla convenzione con l'Agenzia nazionale per la protezione<br />

dell'ambiente, ANPA stipulata nel novembre 1998, ARPAT ha assunto il ruolo di<br />

"organizzazione leader' per il CTN "Acque interne e marino costiere" e di "organizzazione<br />

co-leader" per il CTN "Atmosfera, clima e emissioni in aria". Partecipa attivamente ai lavori<br />

di tutti gli altri CTN<br />

TAV: in base ad una convenzione stipulata nel ottobre 1998, ARPAT ha avuto l'incarico di fornire<br />

supporto tecnico all'Osservatorio ambientale previsto dall'accordo procedimentale del 1995<br />

sui lavori relativi alla tratta ad alta velocità (TAV) Bologna-Firenze.<br />

102


IL PARTICOLATO ATMOSFERICO<br />

Giovanni Pratesi - Ricercatore Università degli Studi di Firenze<br />

L'aria che respiriamo è una miscela di gas costituita essenzialmente da azoto (circa 78% in volume<br />

e 75% in massa), ossigeno (circa 21% in volume e 23% in massa) ed altri gas (per un volume<br />

complessivo < 1%) tra cui anidride carbonica, acqua allo stato vapore, gas nobili, idrogeno,<br />

ozono ed altri costituenti in tracce. L'aria rappresenta una materia prima indispensabile per la<br />

vita degli organismi viventi: è infatti fonte dell'ossigeno necessario ai processi di produzione<br />

dell'energia che sono alla base della vita e della attività cellulare. Il fabbisogno di aria di un<br />

individuo adulto, in condizioni di riposo, è di circa 6-9 litri al minuto; tale fabbisogno aumenta<br />

fino ad oltre 100 litri al minuto in condizioni di intensa attività fisica. Considerando la grande<br />

quantità di aria che respiriamo ogni giorno, risulta evidente che sostanze estranee (introdotte<br />

da attività antropiche) possono facilmente costituire un problema per il nostro organismo fino<br />

a diventare un vero e proprio pericolo per la salute umana.<br />

Le sostanze estranee che si ritrovano nell’aria possono essere di natura solida, liquida o gassosa.<br />

Con il termine di polveri atmosferiche, o di materiale particellare, si intende una miscela di<br />

particelle solide e liquide, sospese in aria, che varia per caratteristiche dimensionali, composizione<br />

e provenienza. Le particelle che costituiscono le polveri atmosferiche si distinguono in<br />

primarie (quando emesse come tali da diverse sorgenti naturali ed antropiche) e secondarie<br />

(quando derivano da una serie di reazioni chimiche e fisiche che avvengono nell’atmosfera). In<br />

relazione al processo di formazione, le particelle che compongono le polveri atmosferiche possono<br />

variare sia in termini dimensionali sia di composizione chimica.<br />

Le polveri atmosferiche sono definite con i nomi più diversi, tra i quali i più usati sono: PTS<br />

(polveri totali sospese) e PM (dall’inglese "particulate matter"). Le polveri totali sospese (PTS)<br />

sono un insieme molto eterogeneo di particelle solide e liquide che, a causa delle ridotte dimensioni,<br />

restano in sospensione nell’aria. Anche se esistono diversi sistemi di classificazione del<br />

materiale particellare, il più usato è quello che discrimina le diverse classi di polveri in relazione<br />

alla dimensione del diametro delle particelle (misurato in micrometri) e che consente di<br />

quantificarne la presenza in aria in termini di concentrazione (espressa in microgrammi di particelle<br />

in sospensione per metro cubo di aria ambiente). Sulla base di questa classificazione si<br />

definiscono:<br />

grossolane le particelle con diametro compreso tra 2,5 e 30 µm<br />

fini le particelle con diametro inferiore a 2,5 µm.<br />

Le polveri grossolane si originano a seguito di combustioni incontrollate e per processi meccanici<br />

di erosione e disgregazione dei suoli. Pollini e spore fanno parte di questa classe dimensionale.<br />

Le polveri fini derivano dalle emissioni prodotte dal traffico veicolare, dalle attività industriali,<br />

dagli impianti di riscaldamento, da impianti di produzione di energia elettrica nonché a seguito<br />

di combustioni di residui agricoli.<br />

Studi epidemiologici, condotti in diverse città americane ed europee nel corso degli ultimi vent’anni,<br />

hanno mostrato che esiste una notevole correlazione fra la presenza di polveri fini ed il<br />

numero di patologie dell’apparato respiratorio, di malattie cardiovascolari e di episodi di mortalità<br />

riscontrati in una determinata area geografica. Oltre alle PTS, la legislazione italiana in<br />

materia di inquinamento atmosferico regolamenta la presenza in aria delle polveri PM10, aventi<br />

diametro inferiore a 10 µm e comprendenti un sottogruppo di polveri più sottili denominate<br />

PM2,5, aventi diametro inferiore a 2,5 µm. Nonostante tra PM10 e PM2,5 vi sia una certa<br />

103


sovrapposizione dimensionale, le due classi sono generalmente ben distinte sia in termini di sorgenti<br />

di emissione e di processi di formazione, sia per quanto riguarda la composizione chimica<br />

ed il comportamento nell’atmosfera. Tanto inferiore è la dimensione delle particelle, tanto<br />

maggiore è la loro capacità di penetrare nei polmoni e di produrre effetti dannosi sulla salute<br />

umana. Per questo motivo le polveri PM10 e PM2,5 presentano un interesse sanitario sicuramente<br />

superiore rispetto alle PTS.<br />

Le polveri PM10 sono denominate anche polveri inalabili, in quanto sono in grado di penetrare<br />

nel tratto superiore dell’apparato respiratorio (dal naso alla laringe).<br />

Le polveri PM2,5 sono invece denominate polveri respirabili in quanto sono in grado di penetrare<br />

nel tratto inferiore dell’apparato respiratorio (dalla trachea sino agli alveoli polmonari).<br />

Le polveri PM10 e PM2,5 sono prodotte da un’ampia varietà di sorgenti sia naturali sia antropiche.<br />

Tra le sorgenti naturali si hanno:<br />

aerosol marino (sali, …)<br />

suolo risollevato e trasportato dal vento<br />

aerosol biogenico (spore, pollini, frammenti vegetali, …)<br />

emissioni vulcaniche<br />

incendi boschivi<br />

Le più rilevanti sorgenti antropiche sono invece:<br />

emissioni prodotte dal traffico veicolare<br />

emissioni prodotte da altri macchinari e veicoli (attrezzature edili/agricole, aeroplani, treni,<br />

navi, …)<br />

processi di combustione di carbone ed oli (centrali termoelettriche, riscaldamenti civili), legno,<br />

rifiuti,…<br />

processi industriali (cementifici, fonderie, miniere, …)<br />

combustione di residui agricoli<br />

104


AMIANTO<br />

Pier Luigi Parrini - Tecnico dell’Università degli Studi di Firenze<br />

L’amianto, chiamato anche absesto, è un minerale naturale a struttura fibrosa appartenente alla<br />

classe dei silicati e alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. E’presente in molti<br />

luoghi della Terra ed è facilmente estraibile con tecniche a basso costo.<br />

SERPENTINO<br />

Silicato di magnesio<br />

CRISOLTILO<br />

Mg3Si2O5(OH)4<br />

AMIANTO O<br />

ASBESTO<br />

ANFIBOLI<br />

Silicato di calcio e magnesio<br />

ACTINOLITE<br />

Ca2(Mg,Fe)5Si8O22(OH)2<br />

TREMOLITE<br />

Ca2Mg5Si8O22(OH)2<br />

ANTOFILLITE<br />

(Mg,Fe)7Si8O22(OH)2<br />

AMOSITE<br />

(Mg,Fe)7Si8O22(OH)2<br />

CROCIDOLITE<br />

Na2(Mg,Fe)7Si8O22(OH)2<br />

Classificazione dei vari tipi secondo la normativa italiana<br />

L’amianto è resistente al fuoco, all’azione degli agenti chimici, all’abrasione. Per la sua struttura<br />

fibrosa si presta a essere tessuto. Per le sue caratteristiche fonoassorbenti e di isolamento<br />

termico è stato usato in edilizia miscelato a materiali da costruzione quali cemento gesso ecc.<br />

L’uso dell’amianto in edilizia ha avuto crescita costante dai primi del 900 fino alla fine degli<br />

anni 60 dello scorso secolo.<br />

Ci troviamo oggi con una pesante eredità per il massiccio uso del materiale in edifici pubblici<br />

e privati ad alta frequentazione quali: Scuole, palestre, cinema, mense, ospedali, capannoni<br />

industriali, condomini, ecc.; in mezzi di trasporto collettivo quali navi, vagoni ferroviari ecc. e<br />

in materiali usurabili ad alto rilascio quali freni e frizioni.<br />

L’alto rischio del materiale è nella situazione di deterioramento e quindi nella potenzialità di<br />

rilascio di fibre nella frazione respirabile quando si aereodisperdono nell’ambiente, sapendo che<br />

in un millimetro si possono allineare oltre 30.000 fibre di amianto.<br />

Le malattie principali che possono essere provocate dall’inalazione di fibre di amianto sono:<br />

Asbestosi, mesotelioma, carcinomi polmonari, tumori gastro-intestinali e di altre sedi.<br />

105


Le metodologie analitiche necessarie per indagini sull’amianto sono:<br />

Microscopia ottica in contrasto di fase, diffrattometria a raggi X, microscopia elettronica a scansione,<br />

spettrofotometria di assorbimento infrarosso.<br />

Per la bonifica i metodi di intervento sono:<br />

Rimozione del materiale, certamente necessario per materiali friabili, che comporta però rischi<br />

per i lavoratori addetti, di contaminazione ambientale e produce quantitativi notevoli di materiali<br />

nocivi da smaltire.<br />

Incapsulamento, che usando prodotti “isolanti” tendono a ripristinare la compattezza del materiale<br />

e a imprigionare le fibre di amianto. Questo metodo necessita il monitoraggio periodico<br />

del materiale trattato e può ridurre l’efficacia delle proprietà fonoassorbenti e antifiamma del<br />

manufatto.<br />

Confinamento, che consiste nell’isolamento delle parti contenenti amianto dalle parti frequentate<br />

dell’edificio. Si presta per interventi molto circoscritti (parte di tubature, colonne, ecc.) è<br />

spesso associato ad incapsulamento.<br />

Per le bonifiche si devono rispettare delle specifiche quali:<br />

Allestimento cantiere e collaudo cantiere, area decontaminazione, protezione dei lavoratori, tecniche<br />

di rimozione, imballaggio rifiuti contenenti amianto, modalità smaltimento rifiuti o tecniche<br />

di sconfinamento-incapsulamento, decontaminazione cantiere, protezione zone esterne<br />

cantiere, monitoraggio ambientale.<br />

In prospettiva dato che l’amianto tende a perdere le sue caratteristiche tra i 1000 e 1250 °C e a<br />

vetrificare sopra i 1250 °C con opportune tecniche pare un utile materiale per ceramiche tradizionali<br />

e potrebbe essere utilizzato per questo uso.<br />

L’amianto è stato sostituito con altri materiali quali, tra l’altro, lana di vetro, lana di roccia, wollastonite.<br />

Quest’ultimo, che è un minerale metamorfico a lunghe fibre, pare rimpiazzare egregiamente<br />

l’amianto in molte applicazioni.<br />

106


LA PROTEZIONE CIVILE E L’ASSOCIAZIONISMO<br />

AMBIENTALE


V.A.B - GLI INCENDI BOSCHIVI: CAUSE, TIPOLOGIA, INTERVENTO,<br />

EFFETTI, LEGISLAZIONE<br />

Guido Tozzi - VAB – Vigilanza Antincendi Boschivi<br />

La presente relazione dovrebbe, secondo i nostri intendimenti, servire per avere una breve visione<br />

di quelle che sono le problematiche connesse agli incendi nei boschi e le modalità di intervento<br />

sugli stessi, nonché per dare una breve informativa sulle disposizioni normative in materia,<br />

sia vigenti che precedenti al fine di meglio comprenderne l’excursus normativo.<br />

Quella che segue, dunque, è un'esposizione senza pretese, scritta da un volontario che fonda le<br />

sue considerazioni prevalentemente sull'esperienza diretta personale e su quella che<br />

l'Associazione V.A.B. si è formata dal 1973 ad oggi!<br />

Cause dell'incendio e sua propagazione<br />

Le cause che provocano un incendio di bosco possono essere raggruppate nel seguente modo:<br />

- CAUSE NATURALI: sono considerate le eruzioni vulcaniche, il fulmine e l'autocombustione.<br />

Mancando in Toscana la possibilità materiale che si verifichi la prima ipotesi, e costituendo<br />

altresì il secondo caso un fenomeno statisticamente parlando molto limitato, la causa naturale è<br />

quella praticamente ininfluente, dal momento che si può escludere il fenomeno generativo dell'autocombustione.<br />

Quest’ultima - infatti - può manifestarsi, almeno in Italia, solo laddove vi siano particolari situazioni<br />

non riscontrabili normalmente nei boschi: esempio-stereotipo è la discarica a cielo aperto<br />

di rifiuti solidi urbani. Qui la fermentazione aerobica di alcune sostanze depositate può dare origine<br />

ad esalazioni gassose facilmente infiammabili le quali, con il surriscaldamento dovuto alla<br />

radiazione solare, possono costituire facile esca ad incendi che rimangono (di norma) spazialmente<br />

limitati alla sola area della discarica.<br />

Autocombustione, fuori da questo caso, si può avere solo con temperature ambientali particolarmente<br />

alte e con un bassissimo tasso di umidità nell'aria: in questo modo i vegetali si disidratano<br />

al punto di potersi incendiare - davvero - da soli con l'incidenza dei raggi solari.<br />

- CAUSE ANTROPICHE: indicano quelle attività umane che vengono ad incidere, in modo<br />

determinante, sul verificarsi dell'evento calamitoso e che si distinguono, a seconda dell'elemento<br />

soggettivo dell'agente, in:<br />

a) dolose: laddove il dolo consiste in quel comportamento umano diretto, volutamente, all'incendiare<br />

una superficie boscata per ragioni diversificate (dalla piromania, all'atto terroristico<br />

vero e proprio); caratteristica peculiare è la volontarietà dell'azione e non la sua casualità rispetto<br />

agli effetti.<br />

È utile, in questa sede, specificare che la piromania consta, nosograficamente parlando, di una<br />

complessa e specifica turbe psichica non certo frequente, per cui erroneamente si impiega tale<br />

termine per indicare tutte quelle motivazioni che rivestono, invece, una connotazione criminale.<br />

b) colpose: laddove la colpa consta nell'aver tenuto, da parte del soggetto agente, un comportamento<br />

deficiente di quell'attenzione, quella diligenza, quella perizia necessarie allorquando ci<br />

si accinga ad accendere fiamme libere. Elemento caratterizzante è - al contrario di quanto visto<br />

sopra - la mancanza del voler porre in essere un'attività dannosa ed antigiuridica che viene realizzata<br />

per inosservanza di norme comportamentali o di prevenzione.<br />

c) dolose preterintenzionali: che consistono (secondo una mia classificazione) in quell'agire<br />

diretto sì all'incendiare una data superficie, ma con predeterminati limiti di spazio o tipologici<br />

108


della vegetazione (ad esempio l'abbruciamento di cotichi pascolivi al fine della pastorizia) ma<br />

che poi prende campo, estendendosi ai terreni limitrofi e degenerando in evento calamitoso. Si<br />

va “oltre l'intenzione” quindi ma sempre all’interno del concetto dell'evento colposo.<br />

E' chiaro che l'incendio - a parte l'eguale ed indubbio disvalore morale che riveste - rileva in<br />

modo diverso dal punto di vista delle conseguenze giuridiche per chi lo causa, a seconda che<br />

sia riscontrabile l'ipotesi del dolo o della colpa.<br />

Ogni incendio, dovuto ad una delle classificazioni genetiche di cui sopra, si differenzia dagli<br />

altri per caratteristiche peculiari individuabili in esso: il tipo di bosco, l'ora, la stagione etc....<br />

Per fare un esempio, un incendio doloso, appiccato da un "professionista", si svilupperà in un<br />

periodo particolarmente siccitoso, in contemporanea con altri nella medesima zona, di notte o<br />

in una giornata ventosa, su di una area fortemente boscata e con un'orografia tormentata e partendo<br />

da più punti diversi fra loro distanti.<br />

La combustione<br />

La combustione può essere definita come un complesso di reazioni chimico fisiche irreversibili<br />

che liberano energia termica e luminosa; al di là della definizione, perché possa aversi combustione<br />

è necessaria la presenza contemporanea di tre elementi:<br />

- il combustibile che, nel nostro caso, è costituito dal legno e dai materiali cellulosici che pos<br />

sono trovarsi in un qualsiasi bosco;<br />

- il comburente che è l'ossigeno presente nell'aria e che serve a far ossidare le sostanze com<br />

bustibili;<br />

- l'energia di innesco costituente la quantità di energia (calore) necessaria ad iniziare la com<br />

bustione.<br />

Questi tre elementi possono - schematicamente - essere rappresentati da un triangolo avente gli<br />

stessi per ogni lato: in tal modo, interrompendo la continuità fra i lati si avrà il termine della<br />

combustione (visualizzata nell'area del triangolo medesimo). Ciò accade per sottrazione di<br />

almeno una delle tre conditiones sine qua non dell'incendio (vedasi la parte sulle modalità di<br />

repressione).<br />

La combustione può verificarsi sia in un ambiente ricco di comburente (l'ossigeno) e dar origine<br />

in tal caso alla fiamma viva, sia in situazione di scarsità di ossigeno e dar luogo alla cosiddetta<br />

pirolisi. Negli incendi forestali si verificano regolarmente entrambe le situazioni, in quanto<br />

nella parte esterna del combustibile la combustione inizia con abbondanza di ossigeno (presenza<br />

di fiamma), mentre all'interno il calore si propaga per conduzione in situazione opposta<br />

(assenza di fiamma viva).<br />

Possono influire sulla combustione anche altri elementi, quali la presenza o meno di un catalizzatore<br />

positivo (ad esempio alcuni particolari sali minerali), il tasso di umidità del combustibile,<br />

particolari resine presenti nella composizione del legno.<br />

Senza volere approfondire le differenze fra pirolisi e combustione viva, che peraltro sono notevoli<br />

sia per il tipo di reazioni che per la velocità con cui esse si verificano, basterà ricordare che<br />

la pirolisi è caratterizzata da svariate fasi, la prima delle quali ne consente la reversibilità, nel<br />

senso che sospendendo l'erogazione di calore la combustione si arresta.<br />

Il legno morto, bruciando in situazione di ipossia, trattiene all'interno il calore - reazione<br />

endotermica - per poi liberarlo successivamente - reazione esotermica - e ritenerlo di<br />

nuovo, terminando così il processo. Il legno vivo, già nella prima fase di reversibilità,<br />

muore per la presenza di condizioni incompatibili con la sua vita.<br />

La propagazione dell'incendio è, poi, più o meno rapida in funzione dei seguenti parametri:<br />

- tipo di vegetazione: aghifoglie o latifoglie; resinose o meno. Quando le fiamme attaccano<br />

109


angoli acuti (aghifoglie) avremo una alta velocità propagativa, che aumenterà nel caso in cui la<br />

pianta sia una resinosa: tali essenze, come l’abete, il pino, il cipresso... bruciano molto più velocemente<br />

di altre magari ricche di acqua.<br />

Per comprendere al meglio la prima affermazione è sufficiente - empiricamente - cercare di dar<br />

fuoco ad un foglio di carta: se proviamo ad accenderlo nel mezzo della pagina, il foglio impiegherà<br />

qualche tempo per scaldarsi, annerirsi ed infine accendersi. Se, invece, avviciniamo l'accendino<br />

ad un angolo della pagina stessa, il tempo per iniziare la combustione sarà sicuramente<br />

più breve, in quanto la superficie sulla quale va ad agire l'energia di innesco è minore ed essa<br />

si surriscalda più rapidamente.<br />

- fattori esterni: di particolare interesse sono il vento, l'umidità, la pendenza del suolo interessato,<br />

la temperatura ambiente, le precipitazioni atmosferiche precedenti:<br />

Il vento sospinge rapidamente le fiamme (che ricevono maggiore quantità di ossigeno) e costituisce<br />

un fattore di incremento delle difficoltà di repressione in quanto può far cambiare repentinamente<br />

la direzione del fronte di fiamma, vanificando eventuali procedure di intervento<br />

messe in atto. In situazioni particolari, come la sommità di un crinale ove si ha il cosiddetto<br />

“effetto phon” o in un canalone con “l’efftto camino”, il vento può sospingere l’incendio in<br />

maniera impressionante.<br />

L’umidità è determinante in quanto il fogliame e il legno ben umidi (periodi piovosi, esposizione<br />

a nord, presenza di bacini idrici o fiumi etc...) difficilmente costituiscono facile esca. Al<br />

contrario, la vegetazione riarsa e disidratata dei periodi siccitosi ha una estrema infiammabilità:<br />

si pensi all’erba secca dei bordi delle strade. In tale ottica si inquadra l’effetto delle precipitazioni<br />

atmosferiche piovose dei giorni precedenti.<br />

La pendenza del terreno costituisce, poi, un fattore molto importante per chi si accinge ad attaccare<br />

un incendio forestale. Il fuoco corre, a parità delle altre variabili, molto di più in salita; ciò<br />

in quanto il calore prodotto dalle fiamme crea una corrente d’aria calda ascensionale che incontra<br />

la vegetazione soprastante, la surriscalda, e la incendia rapidamente.<br />

La temperatura è, anch’essa, un fattore determinante che va ad incidere sia sulla secchezza del<br />

combustibile che sulla energia di innesco, facilitando l’accensione di un fuoco.<br />

Modalità di intervento repressivo<br />

Le operazioni di estinzione dell'incendio forestale possono assumere configurazioni diverse a<br />

seconda del tipo di incendio, potendosi avere un attacco diretto o indiretto del fronte di fiamma<br />

ed un attacco da terra o dal cielo.<br />

1. attacco indiretto: si ha in tutti quei casi in cui, per l'intensità del fronte di fiamma, per la<br />

velocità di propagazione o per le particolari situazioni orografiche o meteorologiche, non è possibile<br />

aggredire l'incendio in modo diretto ma è consigliabile porre in essere delle operazioni<br />

repressive “a distanza”. Avremo, quindi, un attacco indiretto:<br />

dal cielo, ed uno da terra.<br />

L'attacco indiretto dal cielo si ha con l'aspersione con liquido ritardante lanciato da mezzi<br />

aerei (vedasi le righe seguenti) dell'area boscata antistante il fronte di fiamma, di quella zona<br />

cioè ove si prevede si diriga il fronte stesso.<br />

È opportuno, adesso, delineare brevemente, cosa sono i ritardanti ed in che modo agiscono:<br />

sono prodotti chimici che rallentano la combustione e si dividono in:<br />

a) ritardanti a breve termine, che favoriscono la funzione raffreddante e soffocante dell'acqua<br />

e possono essere:<br />

bagnanti: sono tensioattivi che diminuiscono la tensione superficiale dell'acqua aspersa, ottimizzandone<br />

la disposizione e la permanenza;<br />

110


viscosanti o gelificanti: fanno in modo che sui vegetali possa rimanere una quantità di acqua<br />

maggiore del normale; sono spesso dei derivati della cellulosa, diluiti in bassa concentrazione<br />

in acqua.<br />

b) ritardanti a lungo termine, sono a base di fosfato e solfato di ammonio ed agiscono (essendone<br />

l'acqua solo il vettore) protraendo la funzione dell'acqua anche dopo la sua evaporazione;<br />

dette sostanze infatti - comuni all'agricoltura quali concimi - seguono un meccanismo comune<br />

a molti sali derivati da acidi inorganici forti, come l'acido fosforico, che si legano ai composti<br />

del legno variandone la possibilità di combustione. Anche nonostante il costo elevato, essi possono<br />

essere usati per "trattare" alcune aree di particolare interesse al fine di rallentare il propagarsi<br />

di eventuali incendi, con evidente scopo "preventivo".<br />

L'attacco indiretto da terra si ha con il controfuoco, che è un'operazione distruttiva consistente<br />

nell'accendere un altro fronte di fiamma che avanzi verso il fronte di fiamma principale<br />

da debellare; così si fanno scontrare le due linee di fuoco che vengono ad annullarsi reciprocamente<br />

per eliminazione del combustibile.<br />

Il controfuoco (che può essere posto in essere in tre modalità diverse, due con fronti di fiamma<br />

paralleli al principale ed uno perpendicolare) è una operazione particolarmente difficoltosa<br />

che richiede la creazione di una ampia linea di sicurezza, atta ad evitare che bruschi cambiamenti<br />

direzionali del vento possano far sfuggire il fronte ausiliario. Il controfuoco deve essere<br />

effettuato come ultima ratio, in situazioni di sovrabbondanza di personale addetto e di mezzi e<br />

deve essere autorizzato dal direttore delle operazioni di spegnimento individuato ai sensi delle<br />

vigenti Leggi.<br />

2. attacco diretto: viene effettuato in tutte quelle situazioni in cui sia possibile "avvicinarsi" al<br />

fronte di fiamma, laddove si sia in presenza di sufficienti mezzi aerei e terrestri.<br />

Per spiegare, in sintesi, le varie modalità in cui può concretizzarsi il presente tipo di attacco,<br />

basterà rifarsi al sopra esplicato triangolo del fuoco, dalla considerazione del quale si evince che<br />

per spegnere un incendio si può eliminare:<br />

- il combustibile: in tal caso di sottrarrà materiale forestale per mezzo di roncole, pennati, rastri,<br />

decespugliatori, motoseghe, soffiatori o altro, al fine di creare una fascia sterrata o, comunque,<br />

priva di vegetazione che farà in modo il fuoco si arresti per mancanza di combustibile;<br />

- il calore di innesco: risultato che può essere raggiunto per mezzo del raffreddamento, che si<br />

ottiene aspergendo acqua sul fronte di fiamma. L'acqua viene a realizzare una duplice azione,<br />

nel senso che da un lato crea uno strato isolante che impedisce il contatto con l'aria (azione soffocante)<br />

e dall'altro abbassa l'energia termica necessaria al proseguimento della combustione<br />

(azione raffreddante);<br />

- il comburente: l'obiettivo si ottiene togliendo ossigeno, soffocando perciò l'incendio; detto<br />

procedimento si può ottenere con la "classica" frasca, con pale, flabelli (batti-fuoco), o con lo<br />

stesso atomizzatore utilizzato direttamente su fiamme basse. Per comprendere tale metodologia<br />

basti pensare ad una candela che si spegne se coperta da un bicchiere…<br />

Organi preposti alla lotta agli incendi e mezzi disponibili<br />

Due sono gli organi statali preposti alla repressione degli incendi nei boschi e due sono i<br />

Ministeri competenti: il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, facente capo al Ministero degli<br />

Interni, e il Corpo Forestale dello Stato, appartenente al Ministero per le Politiche Agricole.<br />

Questa affermazione è plausibile a partire dall’entrata in vigore della L. 353/2000 in quanto<br />

prima i Vigili del Fuoco erano chiamati ad intervenire solo nei casi in cui l'incendio fosse degenerato,<br />

minacciando la pubblica incolumità o il patrimonio pubblico o privato.<br />

Accanto a questi è presente tutta una serie di competenze demandate alle autonomie locali:<br />

111


Regioni, Province e Comuni che si avvalgono, spesso, delle Associazioni del volontariato organizzato.<br />

Alcune di esse, come la V.A.B., hanno stipulato una convenzione con<br />

l'Amministrazione regionale Toscana.<br />

Tale atto prevede la corresponsione di una somma forfetaria annuale determinata sulla bse del<br />

numero dei volontari e dei mezzi che l’Associazione mette a disposizione. A consuntivo viene<br />

poi dato una specie di “premio” si si è riusciti a mantenere il numero degli eventi inferiore o<br />

uguale a quello del triennio precedente. In tal modo si evita qualsiasi forma di “interesse” a che<br />

si manifestino incendi, avendo pattuito un meccanismo inversamente proporzionale al numero<br />

di eventi che si verificano.<br />

I mezzi a disposizione delle forze a terra sono, per lo più, autobotti stradali o a trazione integrale<br />

e veicoli fuoristrada leggeri (vecchie Fiat Campagnola, UAZ, Land Rover Defender 90,<br />

110 e 130 e così via) equipaggiati con un particolare modulo antincendio - in gergo chiamato<br />

"TSK" dal nome del prodotto della ex Baribbi - formato da un serbatoio per l'acqua, una motopompa<br />

e uno o più naspi ad alta pressione.<br />

Accanto a questi mezzi, distribuiti sul territorio fra V.V.F, Comunità Montane e, soprattutto in<br />

Toscana, forze del volontariato, vi sono gli indispensabili mezzi aerei, che possono essere<br />

distinti in regionali e nazionali:<br />

- i mezzi aerei regionali sono a disposizione delle Regioni: o di appartenenza dei locali<br />

Distaccamenti del C.F.S. (come lo NH 500 di stanza a Cecina, LI) o presi in appalto da aziende<br />

private. In Toscana, nel periodo estivo, vi sono sei elicotteri antincendio della Regione e due<br />

piccoli elicotteri da avvistamento. Negli anni passati vi era anche una flottiglia di cinque aerei<br />

Piper da avvistamento (questi devono essere caratterizzati da una bassa velocità di stallo e da<br />

ala alta, onde permettere una ottimale azione di avvistamento).<br />

Gli elicotteri sono equipaggiati con speciali "secchi", detti benne, con capienza variabile (solitamente<br />

di 800 litri) con i quali viene presa l'acqua in fiumi, laghi, piscine o bacini artificiali<br />

all'uopo predisposti, e viene poi gettata direttamente sul fronte del fuoco. Le benne possono<br />

essere rigide - e devono stare affisse sotto l'elicottero anche durante gli spostamenti - o morbide<br />

- e possono, in tal caso, essere ripiegate all'interno del velivolo - e permettono, a seconda del<br />

tipo, di frazionare lo sgancio o di poterlo effettuare solo in un'unica soluzione.<br />

- i mezzi aerei nazionali, coordinati dal C.O.A.U. (Centro Operativo Aeronautico Unificato)<br />

che sono, senza pretese di esaustività:<br />

a) gli elicotteri Augusta CH-47C Chinook e Augusta Bell 212 e 412 in dotazione all'Esercito e<br />

alla Marina Militare (base di Luni SP), nonché alcuni Agusta Bell 412 dello stesso Corpo<br />

Forestale dello Stato;<br />

b) i "fire bombers" C130 Hercules e G222 i quali montano particolari moduli contenenti, rispettivamente,<br />

11500 e 6500 litri di liquido ritardante; essi (di stanza in Toscana presso la 46°<br />

Aerobrigata di Pisa, Gruppo Antincendio) hanno tempi di intervento e di riempimento abbastanza<br />

lunghi e vengono impiegati per contenere il propagarsi dell'incendio: infatti operano<br />

"sganci" davanti al fronte del fuoco, in modo da rallentarne, chimicamente, l'avanzare (il prima<br />

analizzato attacco indiretto);<br />

c) gli anfibi Canadair CL 215 e CL 415 che hanno la possibilità di caricare 5300 litri di acqua<br />

direttamente da laghi o dal mare e di sganciarla sul fronte del fuoco: hanno una maggiore efficacia<br />

soprattutto sulle coste e sulle isole (grazie ai tempi di rotazione molto ridotti) e vengono<br />

impiegati per l'attacco diretto anche impiegando ritardanti.<br />

112


Come riconoscere un incendio e cosa fare<br />

Sul come riconoscere un fumo di un incendio da quello di una ripulitura controllata si potrebbero<br />

scrivere trattati interi senza raggiungere, nella pratica, un risultato soddisfacente. In linea<br />

di massima si può asserire che un incendio boschivo emette un fumo a base estesa, di colore<br />

scuro (ma non totalmente nero), grigiastro, denso, che aumenta di intensità progressivamente e<br />

si allarga rapidamente. Una ripulitura è, invece, di solito distinguibile perché la fumata mantiene<br />

una base limitata, a colonna, aumentando e diminuendo periodicamente di volume e intensità.<br />

Se si avvista un fumo di dubbia provenienza (spesso gli incendi di bosco partono da quelli di<br />

terreni agrari incolti o da una semplice ripulitura) è necessario, in ogni caso, avvertire gli organi<br />

competenti specificando: la località il più precisamente possibile, se vi si può accedere con<br />

veicoli pesanti o solo con fuoristrada, se vi sono case o altre infrastrutture vicine, se si manifesta<br />

sotto linee elettriche (possibilmente, in tal caso, darne i numeri riportati sui piloni), se vi<br />

sono bacini idrici per il pescaggio degli elicotteri o colonnine per l'approvvigionamento dei<br />

mezzi a terra, ogni altra informazione ritenuta utile.<br />

Trovandoci sul fronte di un incendio conviene, se si è da soli, avvisare il prima possibile ed<br />

attendere le squadre sul posto, per indicare la via di accesso. Altrimenti, trattandosi di un principio,<br />

anche con una frasca è possibile iniziare l'opera di spegnimento, battendo le fiamme.<br />

Sicuramente, per chi fosse interessato alla partecipazione attiva e coordinata alla operazioni di<br />

prevenzione e spegnimento degli incendi boschivi, il consiglio migliore che può essere dato è<br />

quello di iscriversi ad una delle numerose Associazioni che operano in Toscana: in tal modo sarà<br />

possibile frequentare corsi approfonditi di preparazione, essere regolarmente assicurati ed equipaggiati<br />

e rendere così un servizio ottimale per la salvaguardia del bosco.<br />

Gli effetti dell'incendio<br />

Come un periodo siccitoso o eccessivamente piovoso, oppure attacchi parassitari o fitopatologie<br />

in genere, possono influenzare negativamente l'attività vegetativa della pianta, è di certo, a<br />

maggior ragione, ben deducibile che i danni causati dalla combustione siano solitamente i più<br />

gravi.<br />

Quindi il fuoco può danneggiare irrimediabilmente l'intero ecosistema del bosco; se le fiamme<br />

si sono propagate unicamente nel sottobosco, con tempi di permanenza molto brevi, i danni<br />

sono limitati alla combustione della bassa vegetazione presente e delle sostanze organiche di<br />

superficie (humus). Se, invece, sono state interessate le chiome degli alberi o il fuoco ha "covato"<br />

a lungo così da carbonizzare i tessuti delle piante, allora i danni sono sicuramente più gravi<br />

e provocano effetti durevoli nel tempo.<br />

È quindi ben chiaro come il danno provocato dall'evento calamitoso, anche se circoscritto, interferisca<br />

con quelli che sono i cicli biologici del suddetto ecosistema: ad esempio l'annuale caduta<br />

delle foglie è, per il bosco, di primaria importanza ai fini della naturale produzione di sostanza<br />

organica (autoconcimazione); il manto di foglie che viene così a ricoprire il terreno, oltre che<br />

creare un naturale ed ottimale habitat per i microrganismi terricoli animali e vegetali, costituisce,<br />

in autunni particolarmente siccitosi, un ottimo vettore per il fuoco; esso riesce così a propagarsi<br />

velocemente in tutta l'area boschiva, distruggendo, al contempo, la sua stessa esca che<br />

significava vita per gli organismi che vi abitavano.<br />

La combustione della sostanza organica provoca, quindi, un "impoverimento" del terreno che,<br />

113


in casi eccezionali, può raggiungere anche la sterilità (ad esempio un bosco che viene ripetutamente<br />

percorso dal fuoco).<br />

Il fuoco modifica, quindi, il suolo che risulta alterato anche nelle sue caratteristiche chimiche:<br />

è provato che terreni acidi (a basso Ph), sottoposti a combustione, si sono in breve tempo trasformati<br />

in basici (alto Ph), facendo mutare così la stessa vegetazione della zona con conseguenti<br />

alterazioni anche sul paesaggio.<br />

Altri tipi di mutamenti si sono verificati a livello strutturale del terreno: spesso, infatti, le sostanze<br />

colloidali sottoposte ad innalzamenti della temperatura, induriscono per la perdita dell'acqua<br />

di costituzione.<br />

I danni possono essere ben più gravi se il fuoco, propagatosi nel sottobosco, colpisce i fusti<br />

degli alberi raggiungendo così facilmente le chiome: in tal caso, oltre alla macroscopica conseguenza<br />

del danno diretto alle piante, si ha un'azione negativa anche sulla fauna che, solitamente,<br />

viene coinvolta.<br />

È necessario fare, inizialmente, una distinzione fra animali con buone capacità di spostamento,<br />

che riescono a fuggire alle fiamme, e quelli che si spostano con lentezza e che, inesorabilmente,<br />

periscono.<br />

Gli abitanti alati del fitto dei cespugli, delle chiome, che cercano rifugio nel loro ambiente più<br />

congeniale - che è però fatalmente il principale elemento di combustione - quivi trovano la<br />

morte. Le penne e le piume dei volatili, infatti, si alterano facilmente anche a decine di metri di<br />

distanza dalla fonte di calore, pregiudicandone così le possibilità di movimento e di fuga.<br />

Per la fauna boschiva, poi, è facile perdere il senso dell'orientamento, senza così riuscire a trovare<br />

la giusta direzione di fuga (come nel caso del cinghiale e del capriolo).<br />

Gli insetti, i rettili, gli anfibi, e tutti gli altri animali che si muovono lentamente nella macchia<br />

vengono perciò irrimediabilmente coinvolti: riescono invece a trovare scampo quelli animali<br />

che sono soliti rintanarsi in cunicoli sotterranei come la volpe, l'istrice, il riccio; essi però, se<br />

costretti dalle fiamme a rimanere nascosti per lunghi periodi, muoiono spesso per asfissia.<br />

Le ustioni<br />

Senza dilungarsi in un argomento certamente ampio e non di nostra competenza, sarà utile soffermare<br />

brevemente l'attenzione sugli effetti lesivi che le alte temperature possono avere su chi<br />

si accinga allo spegnimento di un incendio forestale.<br />

La capacità lesiva dell'energia termica è legata alla proprietà che hanno i corpi di cedere energia<br />

termica ad altri corpi, con aumento o meno della temperatura; la propagazione del calore<br />

può avvenire per:<br />

- conduzione: senza trasporto di materia, è tipica dei corpi allo stato solido (nel caso di specie<br />

toccando materiale incandescente o comunque caldo);<br />

- convezione: con trasporto di materia, è tipica dei fluidi (non rileva nella materia di cui stiamo<br />

trattando);<br />

- irraggiamento: senza necessità di alcun supporto materiale, stante la capacità dei corpi di trasformare<br />

parte della loro energia termica in energia elettromagnetica con emissione di radiazioni<br />

elettromagnetiche.<br />

Gli effetti lesivi delle ustioni sono rappresentati da un'iperemia e da un aumento della permeabilità<br />

capillare, dal che derivano situazioni patologiche diverse a seconda del grado dell'ustione<br />

che può essere:<br />

1. ustione di primo grado: è caratterizzata da arrossamento cutaneo (eritema) per l'iperemia e da<br />

uno stato di turgore della cute per l'edema;<br />

2. ustione di secondo grado: sono presenti delle raccolte liquide sottoepidermiche (flittene) che<br />

114


possono rompersi esponendo il derma e provocando un'ulteriore essudazione sierosa;<br />

3. ustione di terzo grado: presenta fenomeni di necrosi profondi che generano escare che possono<br />

interessare non solo gli strati profondi del derma ma anche il sottocutaneo;<br />

4. ustione di quarto grado: si manifesta con fenomeni di carbonizzazione che possono giungere<br />

ad interessare anche le strutture scheletriche.<br />

L'addetto alle operazioni di spegnimento è esposto agli eventi patologici in esame, che possono<br />

assumere notevole gravità in rapporto alla superficie corporea interessata (espressa in percentuale),<br />

al tempo di esposizione ed all'intensità del calore.<br />

Per ustioni lievi è necessaria l'immediata aspersione con acqua fresca ed abbondante, mentre<br />

sono da sconsigliarsi le pomate e gli oli (se non per ustioni puntiformi o quasi). In caso di ustione<br />

estesa è necessario coprire l'infortunato con un telo sterile (se disponibile) ed inviarlo al più<br />

vicino presidio ospedaliero.<br />

Legislazione vigente in materia<br />

Si ritiene qui opportuno, senza pretese di ottimale sistematicità dell’approccio, ripercorrere brevemente<br />

le più importanti Leggi nazionali e regionali in materia fino ad arrivare all’attuale<br />

panorama normativo. Prendendo in esame importanti atti non più in vigore si cercherà di comprendere<br />

ragioni e modifiche delle varie fasi storiche accanto alle radici del vigente impianto<br />

legislativo.<br />

Note introduttive e pianificazione<br />

Si può asserire che il problema degli incendi nei boschi sia sempre stato avvertito: partendo,<br />

infatti, da quella che può essere considerata la "preistoria" nella cronologia di questo annoso<br />

problema, troviamo il greco Diodoro Siculo il quale riporta che, sui Pirenei, "si verificarono<br />

incendi tanto gravi da far fondere i metalli contenuti nella terra"; in epoca a noi più vicina - e<br />

per arrivare all'argomento della normazione - sappiamo che Napoleone, per arginare i vasti<br />

incendi che tormentavano la Costa Azzurra, diede disposizione ai Prefetti di fucilare i colpevoli,<br />

e qualora essi non vi fossero riusciti, dispose la sostituzione dei Prefetti stessi.<br />

Ancora, sono degni di menzione gli incendi (di proporzioni incredibili per noi) che colpirono,<br />

dalla prima metà del 1800 sino al periodo della seconda guerra mondiale, la Foresta Nera in<br />

Germania, la Svezia, la Danimarca, le Lande e lo Stato del Wisconsin, negli USA, ove un unico<br />

incendio interessò una superficie di 500.000 ettari di territorio causando la morte di 1.500 persone.<br />

In seguito a tali accadimenti, si iniziò a parlare di pianificazione e di legislazione in materia:<br />

dopo un altro catastrofico incendio che colpì l'Australia, venne istituita una commissione con il<br />

compito di individuare le cause degli incendi e le misure di prevenzione, la quale portò alla<br />

emanazione dei Forest Act e dei Bush Fire Act. Ancora, in Canada nel 1948 entrarono in vigore<br />

delle speciali misure di difesa del patrimonio arboreo (Forest Fire Prevenction Act) valide per<br />

l'Ontario, ed analoghi documenti vennero elaborati in Nuova Zelanda.<br />

Questi atti, più che vere leggi in materia di incendi boschivi, sono documenti che parlano - come<br />

accennato - della pianificazione, menzionando anche quell'impiego particolare, e voluto, del<br />

fuoco che può essere definito "fuoco prescritto". Negli USA infatti si passò da una totale esclusione<br />

di tale impiego (Fire Control) ad una considerazione del fuoco come elemento di gestione<br />

dell'assetto del territorio (Fire Management dal 1943 in poi). In Italia una tale idea non è mai<br />

stata recepita, e per la configurazione dei nostri boschi e per la loro estensione limitata rispetto<br />

a quelli di cui abbiamo parlato, con l'unica eccezione costituita dalla Legge regionale della<br />

Liguria n° 22 del 16 Aprile 1984 la quale lo permette al fine, notorio, di diminuire la biomassa<br />

bruciabile o di contenere parassiti vegetali o di stimolare la germinazione di alcuni semi etc...<br />

115


(come viene ammesso in Spagna, Portogallo, Francia, Grecia).<br />

Legislazione “storica” e vigente in Italia.<br />

Fondamentale per la comprensione e l'interpretazione della normativa in materia di incendi<br />

boschivi è, a mio avviso, l'art. 59 del Regio Decreto 18 Giugno 1931 n° 773, cioè del T.U.L.P.S.<br />

(Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, di matrice fascista, abrogato per la maggior<br />

parte delle sue statuizioni divenute incostituzionali dopo il 1948) il quale elenca quelli che sono<br />

i divieti posti all'abbruciamento di stoppie:<br />

"È vietato di dar fuoco nei campi e nei boschi alle stoppie fuori del tempo e senza le condizioni<br />

stabilite dai regolamenti locali e a distanza minore da quella in essi determinata. In mancanza<br />

di regolamenti, è vietato di dar fuoco nei campi o nei boschi alle stoppie prima del 15 agosto<br />

e ad una distanza minore di cento metri dalle case, dai boschi, dalle piantagioni, dalle siepi,<br />

dai mucchi di biada, di paglia, di fieno, di foraggio e da qualsiasi altro deposito di materia<br />

infiammabile o combustibile. Anche quando è stato acceso il fuoco nel tempo e nei modi ed alla<br />

distanza suindicati, devono essere adottate le cautele necessarie a difesa della proprietà altrui, e<br />

chi ha acceso un fuoco deve assistere di persona e col numero occorrente di persone fino a quando<br />

il fuoco sia spento".<br />

Tale norma, forse obsoleta in alcune sue parti, è però quella (potremmo sentirci di asserire) sulla<br />

base della quale sono state plasmate le successive Leggi analoghe e dalla quale prendono le<br />

mosse gli annuali decreti che vengono emanati per limitare il rischio degli incendi boschivi.<br />

Ovviamente si sono persi per strada tutti quegli espliciti riferimenti a quei beni privati (biada,<br />

fieno, foraggio etc...) che allora rivestivano un'importanza oggi difficilmente comprensibile, e<br />

si è preferito, invece, sottolineare la ratio della difesa del bosco-patrimonio di tutti. Effetto quest'ultimo<br />

della sensibilizzazione che si è fatta strada in proposito anche a livello politico, anche<br />

se spesso con intento demagogico più che di reale difesa dell'ambiente.<br />

Fondamentale - anche se è stata espressamente abrogata con l'entrata in vigore della L. n. 353<br />

del 21/11/2000 - è inoltre la:<br />

LEGGE 1 MARZO 1975 N° 47<br />

intitolata "Norme integrative per la difesa dei boschi dagli incendi", alla quale veniva fatto<br />

costantemente riferimento, dagli organi preposti, per la risoluzione del contenzioso agro forestale.<br />

L'art. 1 del titolo I predispone che i "piani regionali ed interregionali articolati per province o<br />

per aree territoriali omogenee... elaborati dagli organi competenti delle Regioni avvalendosi del<br />

personale tecnico del CFS, di intesa con il Corpo Nazionale dei VV.F., sentite le Comunità<br />

Montane, sono coordinati ed approvati dal Ministro per l'agricoltura e le Foreste di concerto con<br />

il Ministro per l'interno e con il Ministro per i beni culturali ed ambientali..." (Ministero quest'ultimo<br />

oggi affiancato, nelle competenze, dal Ministero dell'Ambiente).<br />

Vediamo da qui quella sorta di delega alla legislazione regionale, (che sarà completata dal DPR<br />

616/77 di cui di seguito) in base alla quale ogni Regione ha potuto organizzare il piano antincendio<br />

in modo razionalizzato in relazione alle esigenze locali e, soprattutto, notiamo quello<br />

sdoppiamento di competenze fra più Ministeri (come accennato in precedenza) che è, al contempo,<br />

funzionale al sistema e patologico dello stesso.<br />

Il successivo art. 2 circostanzia quanto dovrà essere contenuto dai piani regionali di cui all'articolo<br />

precedente, mentre l'art. 3 elenca quelli che sono considerati "opere e mezzi per la prevenzione<br />

ed estinzione degli incendi boschivi" stabilendo che essi, se inseriti nei piani, sono a<br />

totale carico dello Stato.<br />

Degno di menzione è l'art. 5 che istituisce il Servizio Antincendio Boschivo del Corpo Forestale<br />

dello Stato "articolato in uno o più centri operativi mediante gruppi meccanizzati di alta specializzazione<br />

e di pronto impiego" che sono stati oggi - almeno in Toscana - se non demoliti di<br />

116


certo limitati nelle loro capacità operative.<br />

In proposito si pensi - con grande amarezza di chi scrive - che la figura dell'agente del C.F.S.<br />

che spegne l'incendio è morta e sepolta da qualche anno: sull'intera Provincia di Firenze vi<br />

erano nel 2000 solo trentuno membri di tale meritorio Corpo, compresi gli addetti agli Uffici<br />

del Coordinamento Provinciale. In tal modo anche le strutture operative (come autobotti dal<br />

costo milionario) sono destinate ad arrugginire in attesa che una Legge ormai assurda le devolva<br />

alla Croce Rossa Italiana…<br />

Per tornare alla "nostra" Legge, l'art. 6 definisce le competenze per l'avvistamento, lo spegnimento<br />

e la circoscrizione degli incendi che sono, in prima istanza, "compito delle autorità locali...<br />

e precisamente delle sezioni forestali, delle stazioni dei carabinieri e dei comuni che sono<br />

congiuntamente tenute" fra l'altro "alla: ...(omissis)... immediata mobilitazione delle apposite<br />

squadre di volontari previamente organizzate..."; ancora il comma 3 prevede l'intervento dei<br />

Vigili del Fuoco allorquando (e solo quando, n.b.) "...l'incendio abbia assunto o minacci di assumere<br />

caratteri tali da non potere essere circoscritto e spento con le sole forze a disposizione<br />

degli organi locali..." Tale asserzione ha costituito una prima razionalizzazione di quella, più<br />

volte menzionata, pluralità di competenze dell'intervento repressivo.<br />

Ancora fondamentale il titolo III dove, all'art. 9 comma 1, si stabilisce la facoltà per le<br />

Amministrazioni Regionali di render noto, nei rispettivi territori, lo stato di grave pericolosità.<br />

Il comma 3, ad integrazione della Legge 30 Dicembre 1923 n° 3267 sul vincolo idrogeologico,<br />

pone - per il periodo in cui sia stata dichiarata la grave pericolosità - i divieti di: "accendere fuochi,<br />

far brillare mine, usare apparecchi a fiamma o elettrici per tagliare metalli, usare motori,<br />

fornelli o inceneritori che producano faville o brace, fumare o compiere ogni altra operazione<br />

che possa creare comunque pericolo mediato o immediato di incendio"; lampante è la derivazione<br />

dall'art. 59 del T.U.L.P.S. come prima ricordato.<br />

Assolutamente meritevole di nota è l'ultimo comma dello stesso art. 9, il quale deve essere<br />

ricordato in quanto rende possibile sfatare la comune credenza (fuorviante e indicativa di qualunquismo<br />

metropolitano) secondo la quale si incendierebbero i boschi al fine della speculazione<br />

edilizia: "nelle zone boscate, comprese nei piani di cui all'art. 1 della presente Legge, i cui<br />

soprassuoli boschivi siano stati distrutti o danneggiati dal fuoco, è vietato l'insediamento di<br />

costruzioni di qualsiasi tipo. Tali zone non possono comunque avere una destinazione diversa<br />

da quella in atto prima dell'incendio". Tale prescrizione è ripresa dalla penultima Legge regionale<br />

toscana emanata nel 1996. e dagli atti successivi.<br />

A tale proposito è utile ricordare, però, che tale fondamentale divieto rischia di cadere nel nulla<br />

e di vedere vanificata la sua portata, laddove non si tengano e non si aggiornino le mappe delle<br />

aree percorse dal fuoco. Se non si ha, infatti, un continuo aggiornamento cartografico di quali<br />

particelle catastali sono state colpite da incendi non si può attuare il divieto all’edificazione.<br />

In ultimo l'art 10 (richiamandosi alla già menzionata Legge forestale 3267 del 30 Dicembre<br />

1923 nonché agli artt. 423 e 449 del Codice Penale che ricorderemo poi) pone le sanzioni amministrative<br />

per chi contravviene a quanto disposto dal precedente art. 9, precisando che, in caso<br />

di violazione del divieto di edificare sulle aree bruciate, "....(omissis)... l'autorità giudiziaria dispone,<br />

mediante ordinanza provvisoriamente esecutiva, il ripristino, entro sei mesi, dello stato<br />

dei luoghi da eseguirsi a cura e a spesa del trasgressore in solido con il proprietario o il possessore.<br />

Trascorso il termine predetto, in caso di inadempienza, i lavori di ripristino sono eseguiti<br />

dall'autorità forestale e le relative spese sono anticipate dallo Stato con diritto di rivalsa".<br />

Dalla lettura di tale comma 4 del su richiamato art. 10, emerge come il legislatore abbia voluto<br />

colpire (con precisa puntualizzazione) sia il trasgressore che l'avente diritto sul terreno in questione,<br />

con provvedimento immediatamente esecutivo, al fine di evitare, alla radice, il fenomeno<br />

della speculazione edilizia in seguito ad incendio doloso.<br />

117


L'art. 11 comma 1 dispone quelle che sono le sanzioni amministrative da applicare ai casi di<br />

violazione dei divieti del comma 3 dell'art. 9, durante il periodo di grave pericolosità, stabilendo<br />

una somma compresa fra un minimo di Lire 20.000 ed un massimo di Lire 200.000; a tali<br />

cifre sono elevate anche le sanzioni previste dall'art. 3 della Legge 9 Ottobre 1967 n° 950 relative<br />

alle norme di prevenzione degli incendi boschivi previste nei regolamenti delle prescrizioni<br />

di massima e di polizia forestale.<br />

Altra Legge, che ha portato - anch'essa - ad un inasprimento delle sanzioni, è la 4 Agosto 1975<br />

n° 424 la quale, ha unificato le sanzioni alle cifre ora viste; stiamo parlando, è bene ricordarlo,<br />

di Leggi che trattano le ipotesi di accensione di fuochi controllati e non i casi di incendio colposo<br />

o doloso, per i quali vigono norme penali che irrogano sanzioni anche gravose che vengono<br />

computate calcolando le superficie percorse dall'incendio e il danno pecuniario arrecato.<br />

Un accenno va ancora fatto al Decreto Presidente della Repubblica 24 Giungo 1977 n° 616 di<br />

attuazione della Legge delega di cui all'art. 1 della Legge 22 Luglio 1975 n° 382. Detto D.P.R.,<br />

all'art. 68, sopprime l'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali (ASFD) trasferendo, al contempo,<br />

i beni della stessa "alle Regioni in ragione della loro ubicazione", escludendo da tale trasferimento<br />

alcune aree ed edifici tassativamente elencati. Le Aziende di cui sopra continuano<br />

ad esistere (col nome di ex ASFD) con gestione regionale.<br />

L'art 69 è basilare in quanto ultima quella delega alle Regioni che avevamo visto sopra: vengono<br />

infatti delegate anche le funzioni stabilite dalla Legge 22 Maggio 1973 n° 269 (sul commercio<br />

e la produzione di sementi e di piante di rimboschimento) ma, soprattutto, è espressamente<br />

prevista la delega alle Regioni stesse di quanto previsto dalla Legge 1 Marzo 1975 n° 47<br />

prima commentata. Le Regioni possono ora affidare la gestione dei beni forestali ad aziende<br />

interregionali, provvedono a costituire servizi antincendi boschivi, predispongono i piani di cui<br />

alla 47/1975.<br />

Ancora, viene fatta salva la competenza statale - seppure d'intesa con le autonomie regionali -<br />

"... dell'organizzazione e della gestione del servizio aereo di spegnimento degli incendi..." (tramite<br />

il COAU, di cui abbiamo già parlato a proposito degli interventi dal cielo) nonchè "...l'impiego<br />

del Corpo dei Vigili del Fuoco...", costituendo quest'ultimo un ulteriore momento di precisazione<br />

di quelle competenze che, all'inizio, avevamo affermato essere decisamente confuse<br />

e fluide, ma che vanno man mano delineandosi in modo più puntiforme.<br />

Dall'analisi comparata delle normazioni analizzate (e nel periodo della loro vigenza), emerge,<br />

in modo lapalissiano, che il fulcro delle competenze in materia di incendi boschivi - e, più in<br />

generale, di pianificazione del territorio rurale e di forestazione - è affidato alle autonomie locali:<br />

in primis, alla Regione e, subito di poi, al Comune, individuato come primo momento di<br />

intervento sull'evento calamitoso (con le modalità prescritte). Immediatamente dopo vi è lo<br />

Stato che, con le Prefetture e con il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, subentra allorquando<br />

l'incendio sconfina da quelle dimensioni che possono essere contenute dalle strutture a livello<br />

periferico.<br />

Per finire questa sessione, riterrei opportuno un accenno alla normativa comunitaria, ed in particolare<br />

al Regolamento CEE 17 Novembre 1986 n° 3529, intitolato Protezione delle foreste<br />

della Comunità contro gli incendi, il quale prevede un cointervento sinergico degli Stati membri,<br />

l'elaborazione di relazioni da parte del comitato per la protezione della foresta - creato con<br />

regolamento CEE 3528/86 - lo stanziamento di finanziamenti appositamente iscritti nel bilancio<br />

delle Comunità Europee etc...<br />

Degne di nota le considerazioni che precedono il Regolamento stesso, in qualità di parte motiva,<br />

laddove è stata riaffermata la funzione fondamentale che la foresta svolge "... per il mantenimento<br />

degli equilibri ... per quanto riguarda il regime delle acque, il clima, la fauna, la flora<br />

..." e nella parte in cui si è dichiarata urgente ed importante la difesa del bosco stesso dal fuoco,<br />

118


una volta constatato che "... la foresta della Comunità è fortemente danneggiata dagli incendi e<br />

che questa aggressione ... registra un inquietante sviluppo...".<br />

In ultimo, un accenno ai due articoli del Codice Penale che abbiamo prima menzionato nella<br />

loro formulazione antecedente alla modifica introdotta con la L. 353/2000:<br />

- l'art. 423 comma 1 C.P. dice testualmente che: "chiunque cagiona un incendio è punito con<br />

la reclusione da tre a sette anni" precisando subito dopo che ciò si applica anche se l'incendio<br />

ha riguardato la cosa propria, se da esso è derivato pericolo per la pubblica incolumità”.<br />

- l' art. 449 comma 1 (del Capo III sui delitti colposi di comune pericolo) recita come segue:<br />

"chiunque cagiona per colpa un incendio ... (omissis) ... è punito con la reclusione da uno a cinque<br />

anni"; prevedendo il primo articolo l'ipotesi dell'incendio doloso e quest'ultimo quella del<br />

fuoco appiccato per incuria, disattenzione, mancanza o deficienza delle opportune misure di<br />

sicurezza.<br />

Le novità introdotte con la l. 353/2000<br />

Il 21 Novembre è stata emanata la nuova Legge 353 che viene ad incidere in maniera determinante<br />

sull'approccio normativo al problema degli incendi boschivi: perché abroga la L. 47/75,<br />

perché modifica il codice penale introducendo l'ipotesi di reato dell'incendio boschivo, perché<br />

ridetta le "regole del gioco" in tema di competenze ed attribuzioni.<br />

Trattasi di una norma chiara e ben formulata per la quale rimando alla sessione normativa del<br />

sito limitandomi ad alcune considerazioni, la prima delle quali concerne l'art. 1 che, finalmente,<br />

pone il patrimonio boschivo come "bene insostituibile per la qualità della vita".<br />

Appare subito quel cambiamento, in termini soprattutto culturali, che intercorre fra quanto<br />

riportato dal T.U.L.P.S. (che dava particolare valore economico alla campagna) e la nuova affermazione<br />

di principio della Norma attuale: attenzione al bosco quale elemento indispensabile per<br />

garantire salubrità alla vita dei cittadini, emersione dell'ambiente come valore - anche estetico<br />

- atto ad influire sulla qualità stessa della vita dell'uomo.<br />

Peccando, forse, di egocentrismo mi sento di affermare che questo è anche il risultato dell'opera<br />

di quelle Associazioni di Volontariato, di quei Gruppi ambientalisti, di quei partiti politici che<br />

da anni lottano per una tutela dell'ambiente che prescinda da qualsiasi valutazione economica<br />

dello stesso: dall'azione concreta della V.A.B. agli arrembaggi di Greenpeace, dalle azioni<br />

dimostrative di Legambiente alle campagne del WWF al popolo di Seattle credo siano numerosi<br />

i fattori che hanno contribuito a cambiare un certo modo di gestire il paese…<br />

Superando i principi cui la Legge si ispira, è l'art. 2 ad attirare la mia attenzione, con la sua definizione<br />

di incendio boschivo: "un fuoco con suscettibilità a espandersi su aree boscate, cespugliate<br />

o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all'interno delle<br />

predette aree, oppure su terreni coltivati o incolti e pascoli limitrofi a dette aree".<br />

Si tratta, evidentemente, di una definizione molto ampia che può - a mio avviso - creare alcune<br />

difficoltà di carattere operativo su quelle che sono le competenze di intervento. Penso, infatti,<br />

all'ampia gamma di casi che possono essere compresi nel periodo "strutture e infrastrutture<br />

antropizzate" ed immagino probabili incomprensioni fra VV.F. e Volontari o casi di "rambismo"<br />

da parte di gruppi di questi ultimi….<br />

Il succedaneo art. 7, poi, pone le Regioni quali titolari della funzione di programmazione e di<br />

coordinamento delle strutture proprie e statali, avvalendosi delle strutture di: VV.F., C.F.S.,<br />

Organizzazioni di Volontariato "riconosciute secondo la vigente normativa, dotato di adeguata<br />

preparazione professionale e di certificata idoneità fisica" . Seguono, infine, in posizione del<br />

tutto straordinaria le Forze Armate e quelle di Polizia dello Stato.<br />

Dal punto di vista del Volontariato quest'articolo risulta essere significativo, non tanto perché<br />

119


ne riconosce ancora una volta il ruolo, ma perché ne specifica tre importanti caratteristiche: il<br />

riconoscimento, la preparazione, l'idoneità fisica certificata. Tali limitazioni, seppure incrementino<br />

una certa "burocratizzazione" del Volontariato serviranno di certo a far piazza pulita di tutti<br />

quei gruppuscoli di pseudo e sedicenti volontari che non hanno caratteristiche di affidabilità e<br />

preparazione.<br />

Modifiche al codice penale ex l. 353/2000<br />

Tali modifiche introducono, finalmente, il reato di incendio boschivo:<br />

- Art. 423-bis del C.P. "Chiunque cagioni un incendio su boschi, selve o foreste ovvero su vivai<br />

forestali destinati al rimboschimento, propri o altrui, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni.<br />

Se l'incendio di cui al primo comma è cagionato per colpa, la pena è della reclusione da 1 a 5<br />

anni. Le pene previste dal primo e dal secondo comma sono aumentate se dall'incendio deriva<br />

pericolo per edifici o danno su aree protette. Le pene previste dal primo e dal secondo comma<br />

sono aumentate della metà se dall'incendio deriva un danno grave, esteso e persistente all'ambiente".<br />

Se confrontiamo il 423-bis con il 423 notiamo, icto oculi, un considerevole inasprimento della<br />

sanzione con l'innalzamento dei minimi edittali da 3 a 5 anni e dei massimi da 7 a 10 anni di<br />

reclusione. Particolarmente significativa è poi la duplice previsione di aggravanti soprattutto<br />

qualora si consideri che difficilmente gli incendi dolosi non cagionano danni gravi, estesi, permanenti.<br />

Anche in questo non ci resta che attendere la giurisprudenza, augurandoci in un uso particolarmente<br />

parsimonioso - da parte degli organi giudicanti - degli istituti della sospensione della<br />

pena, della condizionale, degli arresti domiciliari e via dicendo. Se, infatti, l'istituto della detenzione<br />

in carcere è considerato dal nostro impianto normativo come l'ultimo rimedio a cui ricorrere,<br />

è pur vero che un certo rigore in materia dovrà esser mostrato, a meno di non voler svuotare<br />

di significato una norma volutamente e doverosamente rigorosa.<br />

Tornando al vigente Codice Penale, anche gli artt. 424 e 449 subiscono una variazione assumendo<br />

il seguente aspetto:<br />

- Art. 424 C.P. "Chiunque, al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una<br />

cosa propria o altrui è punito, se dal fatto sorge il pericolo di un incendio, con la reclusione da<br />

6 mesi a 2 anni. Se segue l'incendio, si applicano le disposizioni dell'art, precedente, ma la pena<br />

è ridotta da un terzo alla metà. Se al fuoco appiccato a boschi, selve e foreste, ovvero vivai forestali<br />

destinati al rimboschimento, segue incendio si applicano le pene previste dall'art. 423-bis".<br />

- Art. 449 C.P. "Chiunque al di fuori delle ipotesi previste nel secondo comma dell'art. 423-bis<br />

cagiona per colpa un incendio [omissis] è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”.<br />

Anche in questi due ultimi articoli si è sottratto il caso dell'incendio o dell'appiccagione del<br />

fuoco al regime, per così dire, ordinario per sottoporlo a quello, più rigoroso, della nuova fattispecie<br />

di reato dell'incendio boschivo.<br />

Legislazione regionale toscana<br />

Risalendo indietro nel tempo, incontriamo la Legge della Regione Toscana 1 Agosto 1981 n°<br />

62 che, in un articolo unico, "... attribuisce al Presidente della Giunta regionale la dichiarazione<br />

dello stato di grave pericolosità di cui all'art. 9 della Legge 1 Marzo 1975 n° 47... (omissis)...”<br />

Subito prima la fondamentale L.R.T. 52/73, recentemente abrogata, la quale ha anticipato,<br />

cronologicamente parlando, la legislazione nazionale del settore (che risale, con la 47, al<br />

1975).<br />

120


Tale norma del ’73 è stata abrogata dalla L.R.T. n. 73 del 13 Agosto 1996 che attribuisce importanti<br />

competenze alle Amministrazioni provinciali oltre che comunali, riprendendo però per la<br />

maggior parte il vecchio testo. Successivamente è stata emanata la “Legge forestale della<br />

Toscana” n. 39/2000 poi integrata e modificata dalla L.R.T. n 6 del 31 Gennaio 2001 e dalla<br />

L.R.T. n. 1 del 2 Gennaio 2003 .<br />

Di tale Legge Forestale della Toscana è qua opportuno riportare e commentare buona parte del<br />

Capo II, titolato “Difesa dei boschi dagli incendi”, partendo dal comma 1 dell’art 69 che dà la<br />

definizione di incendio boschivo: “Per incendio boschivo si intende un fuoco, con suscettività<br />

ad espandersi, che interessa il bosco, le aree assimilate e gli impianti di arboricoltura da legno<br />

di cui all’articolo 66 oppure i terreni incolti, i coltivi, ed i pascoli situati entro 50 metri da tali<br />

aree. Il successivo comma 2 individua l’attività antincendi boschivi regionale come: “la previsione,<br />

la prevenzione e la lotta attiva degli incendi boschivi”.<br />

L’art. 70 viene ad individuare le competenze della Regione, fra le quali spiccano: l’approvazione<br />

del piano pluriennale regionale aib, i servizi aerei di supporto alle attività di prevenzione<br />

e lotta attiva, l’addestramento e l’aggiornamento del personale operante nell’aib (ivi incluso il<br />

Volontariato convenzionato). Tali attività possono essere “affidate alle Province, alle Comunità<br />

montane, ai Comuni, agli Enti gestori dei parchi regionali e ad altri enti regionali”.<br />

Ex art 70 anche alle Province vengono affidati importanti compiti, quali: l’approvazione del<br />

piano operativo annuale AIB e la predisposizione dell’inventario e della cartografia delle aree<br />

percorse dal fuoco. Tale ultima funzione e svolta in maniera sinergica con i Comuni che, ex art.<br />

70 ter comma 2), “provvedono ad istituire il catasto dei boschi e dei pascoli, situati entro 50<br />

metri dai boschi percorsi dal fuoco, avvalendosi anche dei rilievi effettuati dal Corpo forestale<br />

dello Stato”. Tali mappature delle aeree bruciate e ad esse limitrofe serve a dare piena attuazione<br />

a quei divieti, primo fra i quali quello di edificazione, che vedremo subito dappresso.<br />

Tornando alle attività demandate ai Comuni, prosegue l’art. 70 ter dicendo che essi: “istituiscono<br />

proprie squadre AIB, anche attraverso convenzioni con le associazioni di volontariato di<br />

cui all’articolo 71, comma 1, lettera b), per provvedere alla prevenzione e lotta attiva degli<br />

incendi boschivi; assicurano i servizi logistici necessari per le squadre di pronto intervento e per<br />

gli altri soggetti che concorrono all’estinzione dell’incendio, adottando gli eventuali provvedimenti<br />

autoritativi; assicurano la disponibilità, previo apposito censimento, degli automezzi e<br />

delle macchine operatrici esistenti nell’ambito territoriale di competenza e utilmente impiegabili<br />

nelle operazioni d’estinzione attraverso convenzioni con i proprietari...”.<br />

L’art. 70 quater, al primo comma, individua nelle Province, Comunità montane, Comuni, ed<br />

Enti gestori dei parchi regionali i soggetti chiamati a provvedere all’insieme delle attività aib<br />

che vengono elencate, mentre il successivo art. 71 li chiama in causa, assieme alla Regione,<br />

anche per la lotta attiva agli incendi boschivi.<br />

A tale proposito si specifica che la Regione può avvalersi: “a) di risorse, mezzi e personale del<br />

Corpo forestale dello Stato e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, in base a specifici accordi<br />

o convenzioni; b) di squadre costituite da appartenenti ad Associazioni del volontariato, ai<br />

sensi della legge 11 agosto 1991, n. 266 (Legge quadro sul volontariato) e della l.r. 28/1993 e<br />

successive modificazioni”.<br />

Tale articolo è degno di un minimo di attenzione in quanto viene a specificare che, in base a<br />

rapporto contrattuale (direi di diritto privato) la Regione può avvalersi di strutture dello Stato,<br />

già deputate alla lotta agli incendi, e di Organizzazioni del Volontariato organizzato e riconosciuto.<br />

Da notare che l’art. 73, che parlava proprio del Volontariato, è stato abrogato dalla L.R.T.<br />

1/2003.<br />

Al fine di permettere il coordinamento delle strutture regionali e statali è poi prevista la costituzione<br />

di una sala operativa unificata permanente (SOUP), definita nel dettaglio dal piano plu-<br />

121


iennale aib che costituisce una sorta di “regolamento di attuazione” in senso atecnico della<br />

norma che stiamo analizzando e, al contempo, lo strumento operativo per la gestione della attività<br />

aib.<br />

L’art. 76 comma 1) demanda al Regolamento forestale la definizione di:<br />

a) le azioni che possono determinare, anche solo potenzialmente, l’innesco di incendio, i divieti,<br />

le prescrizioni e le precauzioni da adottare, nonché le eventuali deroghe; b) i periodi a rischio<br />

per lo sviluppo degli incendi boschivi, determinati su base statistica meteo-climatica; c) le aree<br />

che, dall’analisi dei dati statistici degli incendi, stazionali e vegetazionali, hanno un rischio particolarmente<br />

elevato per lo sviluppo degli incendi boschivi.<br />

Di indubbia pregnanza il comma 4) dello stesso articolo che vieta nei boschi percorsi dal fuoco:<br />

per dieci anni, il pascolo di qualsiasi specie di bestiame, fatte salve le deroghe previste dal regolamento<br />

forestale in caso di favorevole ricostituzione del soprassuolo boschivo; b) per cinque<br />

anni l’esercizio dell’attività venatoria, qualora la superficie bruciata sia superiore ad ettari uno”.<br />

Il panorama dei divieti alle attività sulle aree bruciate è, infine, ampliato dal comma 7 che prosegue<br />

dicendo: “Sia nei boschi percorsi dal fuoco che nei pascoli, situati entro 50 metri dai<br />

boschi percorsi dal fuoco, sono vietate, per cinque anni, le attività di rimboschimento e di ingegneria<br />

ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche, salvo specifica autorizzazione<br />

concessa dal Ministro dell’ambiente...”.<br />

Prima di chiudere la parte dedicata alla vigente normativa regionale, un breve accenno alla<br />

L.R.T. 1/2003 che ha novellato la Legge Forestale e che estende, al suo art. 66, la validità del<br />

“piano operativo antincendi boschivi, approvato con deliberazione del Consiglio regionale 16<br />

luglio 1997, n. 253, e successive modificazioni... [omissis]... fino all’esecutività del piano pluriennale<br />

regionale AIB di cui all’articolo 70 della l.r. 39/2000”.<br />

Come conclusione si rende necessario riportare il testo della ultima parte del medesimo art. 66,<br />

che recita al comma 3): “Fino alla data di entrata in vigore del piano pluriennale regionale AIB<br />

il personale del Corpo forestale dello Stato assume la direzione delle operazioni di estinzione,<br />

ferme restando le competenze del Corpo dei vigili del fuoco. In assenza del personale del Corpo<br />

forestale dello Stato, la direzione delle operazioni è assunta dai tecnici degli enti di cui al<br />

comma 2, lettera b), secondo quanto stabilito dal piano operativo AIB, approvato con del. cons.<br />

reg. 253/1997.”<br />

Prosegue il comma 4) con le cautele da prendere nel periodo di dichiarazione dello stato di pericolosità<br />

aib: “Fino alla data di entrata in vigore delle modifiche al regolamento forestale, di cui<br />

all’articolo 64, si applicano le seguenti norme cautelative con le deroghe previste dal piano operativo<br />

AIB, approvato con del. cons. reg. 253/1997:<br />

a) la Giunta regionale individua i periodi a rischio per lo sviluppo degli incendi boschivi, parificati<br />

alla dichiarazione dello stato di grave pericolosità per lo sviluppo degli incendi boschivi<br />

prevista dal piano operativo AIB di cui al presente comma;<br />

b) è vietato accendere fuochi nei boschi ed in una fascia contigua di larghezza pari a 50 metri,<br />

qualunque sia la destinazione dei terreni della fascia stessa;<br />

c) durante i periodi a rischio di cui alla lettera a), nei boschi ed in una fascia contigua di larghezza<br />

pari a 200 metri, qualunque sia la destinazione dei terreni della fascia stessa, è vietato<br />

accendere fuochi, far brillare mine, usare in luogo aperto apparecchi a fiamma o elettrici, motori,<br />

fornelli, inceneritori e altre attrezzature che possono produrre faville o brace e compiere ogni<br />

altra operazione che può comunque creare pericolo d’incendio.”<br />

122


Conclusioni<br />

Se dunque consideriamo le potenzialità del bosco nelle sue varie funzioni, la necessarietà che<br />

esso riveste per la nostra stessa esistenza, l'aspetto paesaggistico, l'importanza essenziale che<br />

esso occupa nell'ecosistema, risulta ben chiaro quanto sia utile, nonchè imprescindibile, preservarlo<br />

dai danni che, troppo spesso, attività antropiche procurano più o meno direttamente.<br />

Un'opera di sensibilizzazione dunque è da ritenersi fondamentale in capo al cittadino quivis de<br />

populo che deve, pertanto, adoperarsi affinché vengano rispettate quelle norme comportamentali<br />

che la coscienza del singolo, ancor prima che la Legge, dovrebbe dettare ad ognuno di noi,<br />

affinché i nostri figli, al pari nostro, possano godere di quell'irripetibile paesaggio naturale che<br />

ci è stato donato.<br />

123


VAS – VERDI AMBIENTE E SOCIETÀ<br />

Simone Secchi – Associazione VAS – Verdi Ambiente e Società<br />

Verdi Ambiente e Società un nome difficile da memorizzare, ma che ha voluto riassumere in tre<br />

sostantivi un progetto da realizzare: l'impegno di imperniare le proprie azioni intervenendo a<br />

tutto campo nel difficile rapporto tra uomo e ambiente.<br />

Un'associazione, nata nel 1991 che, rifiutando ogni collateralismo politico, ha cercato in questi<br />

pochi ma significativi anni di vita di incontrare le sensibilità di tutti coloro che sentivano comune<br />

il desiderio di costruire un diritto al futuro per l'umanità. Dove l'ambiente fosse la matita per<br />

disegnarlo ma la solidarietà costituisse l'elemento necessario per viverlo in pace con gli uomini<br />

e la natura.<br />

Un pensiero ambientalista rivolto al futuro che, superando schematismi, sia capace di abbattere<br />

i muri di ideologismi fini a se stessi per dare un contributo alla sua ricostruzione.<br />

La sfida lanciata dall'Associazione è stata quella di immaginare grandi convergenze su temi che<br />

sapessero nuovamente sollecitare l'immaginario collettivo, chiamando la parte migliore del<br />

nostro Paese a proporsi come soggetti attivi e consapevoli della costruzione del proprio futuro.<br />

Tante sono state le azioni che hanno portato Verdi Ambiente e Società a radicarsi in quasi tutte<br />

le regioni italiane, sia per gli interventi locali molto decisi a difesa del territorio sia per l'adesione<br />

a iniziative internazionali di particolare rilievo ambientale.<br />

Tra queste ultime una da ricordare in modo particolare: la presentazione in Italia della Carta dei<br />

Diritti delle Generazioni Future lanciata nel mondo da quel personaggio straordinario che è<br />

stato Jacques-Yves Cousteau, che si prefiggeva un obiettivo decisamente ambizioso: riscrivere,<br />

alle soglie del terzo millennio, la Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo alla luce delle<br />

sensibilità e conoscenze etiche e scientifiche sui problemi ambientali. Far adottare questi principi<br />

dall'assemblea Generale delle Nazioni Unite.<br />

Per dare risalto e visibilità mondiale a tale progetto, si scelse di lanciare una grande Petizione<br />

in tutto il mondo che, raggiungendo il maggior numero possibile di persone, facesse comprendere<br />

appieno l'importanza dell'adozione dei principi contenuti in quel documento.<br />

Grande è stato il successo della raccolta di firme, 10 milioni, a cui ha dato un grande contribuito<br />

la nostra Associazione coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, semplici cittadini, personaggi<br />

della politica, dello spettacolo e dello sport.<br />

Le nostre iniziative hanno abbracciato tutto lo spettro delle tematiche di difesa dell'ambiente :<br />

dal nucleare all'agricoltura, dalla difesa del mare ai beni ambientali, dai problemi generati dalla<br />

produzione dei rifiuti a quelli di politiche dei trasporti dannose per l'ambiente e le comunità. Più<br />

di recente le iniziative in difesa delle popolazioni esposte all'inquinamento elettromagnetico e<br />

l'impegno verso la difesa del patrimonio naturale in una visione dinamica e di opportunità per<br />

quelle fortunate comunità che vivono a contatto con i parchi nazionali o locali. Ultimo in ordine<br />

di tempo l'impegno per scongiurare uno sviluppo dissennato delle tecnologie genetiche e lo<br />

sviluppo di una civiltà biotecnologica che con la stessa facilità con la quale propone un'agricoltura<br />

senza terra annuncia un progresso senza l'uomo.<br />

Molto del nostro impegno è stato indirizzato alla produzione editoriale affinché la coscienza dei<br />

problemi fosse sostenuta dalla conoscenza specifica degli stessi.<br />

In questi anni abbiamo sempre cercato di tenere fissi due elementi :<br />

1) cercare le soluzioni o percorsi di soluzioni per i problemi, perché la nostra azione vuole sempre<br />

essere in positivo ;<br />

2) avere ben chiaro che oggi più che mai la conoscenza delle realtà degli altri paesi è fonda-<br />

124


mentale per conoscere, confrontarsi e cercare i percorsi di soluzione dei problemi.<br />

Da qui il rapporto significativo, diretto e personale con Cousteau e la sua Equipe, con Lester<br />

Brown ed il World Watch Institute, con Wolfgang Sacs ed il Wuppertal Institute, con Mikhail<br />

Gorbaciov e la Green Cross International, con il Centro Internazionale Crocevia e la rete delle<br />

ONG che si occupano di ambiente e sviluppo. Ma anche con le grandi organizzazioni delle<br />

Nazioni Unite, in primo luogo la FAO ma anche UNESCO, Unicef e con la Croce Rossa.<br />

125


W.W.F. - WORLD WIDE FUND<br />

Carlo Scoccianti – Associazione WWF – World Wide Fund<br />

Il WWF si costituisce nel 1961 con sede legale in Svizzera. Nel 1996, un piccolo gruppo di persone<br />

dettero vita al WWf Italia, organizzato come Associazione in piena autonomia rispetto all’organizzazione<br />

internazionale, ma strettamente collegata as essa nell’idealità degli scopi e da un preciso<br />

accordo di collaborazione. La sigla significa World Wildlife Fund (Fondo Mondiale per la<br />

“vita selvaggia”). Nel corso degli anni, con l’espandersi delle attività del WWF a tutte le problematiche<br />

ambientali (inquinamento, risorse energetiche, ecc.) il termine “wildlife” risultava limitativo.<br />

Si decise allora, nel 1986, di cambiare il nome in World Wide Fund for Nature”.<br />

Attualmente il WWF può essere considerata la più grande organizzazione mondiale che si occupa<br />

della difesa della natura. L’associazione, presente con ben 27 organizzazioni nazionali può<br />

infatti contare su oltre cinque milioni di sostenitori regolari, mentre la spesa annuale per realizzare<br />

concrete attività di tutela del patrimonio naturale è di oltre 200 milioni di franchi svizzeri.<br />

La missione del WWF è la conservazione della Natura e dei processi ecologici. Il WWF si impegna<br />

a conservare la diversità genetica, cioè la varietà delle specie e degli ecosistemi; inoltre lavora<br />

per promuovere un uso “sostenibile” delle risorse naturali e dell’energia, per combattere l’inquinamento<br />

e lo spreco.<br />

Nel concreto, gli scopi principali del WWF sono:<br />

- lavorare affinché la natura incontaminata del mondo resti tale, negli anni a venire. Numerose<br />

sono le aree che sono state messe sotto tutela anche grazie all’intervento del WWF.<br />

- salvare le specie animali che rischiano l’estinzione.<br />

L’obiettivo finale del WWF è fermare e far regredire il degrado dell’ambiente naturale del nostro pianeta<br />

e contribuire a costruire un futuro in cui l’umanità possa vivere in armonia con la natura.<br />

Per conseguire questo obiettivo, il WWF adotta cinque metodi d’azione:<br />

- Progetti sul campo per la conservazione di specie ed ecosistemi, per l’istituzione e la<br />

gestione di aree protette.<br />

- Politica Azioni di analisi e lobbying presso le istituzioni locali, nazionali ed<br />

internazionali al fine di ottenere una legislazione più efficace a difesa dell’ambiente.<br />

- Comunicazione Campagne di informazione per contribuire a creare consenso e<br />

sostegno alle attività del WWF.<br />

- Educazione Diffondere conoscenza e consapevolezza soprattutto presso i giovani,<br />

con dei programmi didattici specifici su temi ambientali.<br />

- Sostegno istituzionale Sostegno finanziario e tecnico a istituzioni governative,<br />

soprattutto nei Paesi poveri, al fine di favorire la crescita del movimento<br />

ambientalista.<br />

In Italia il WWF lavora da oltre trent’anni per conservare l’immenso patrimonio naturalistico<br />

del nostro paese e proteggere le specie animali rare e preziose che vi abitano. In questi anni,<br />

grazie al sostegno dei Soci, l’associazione ha potuto creare 130 oasi: territori incontaminati<br />

come coste, foreste, tratti di mare, paludi e laghi, dove più di cento specie animali minacciate<br />

di estinzione vivono indisturbate e al sicuro.<br />

Ma l’impegno del WWF non si limita a questo: gran parte delle sue attività sono volte a favorire<br />

la creazione di nuovi parchi e ad ottenere leggi migliori in difesa della natura.<br />

126


LEGISLAZIONE E COMUNICAZIONE


LA TUTELA PENALE DEGLI ANIMALI. LA TUTELA DEGLI ANIMALI.<br />

SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL REATO DI MALTRATTAMENTO<br />

Alessandra Valastro - Ricercatore Università degli Studi di Firenze<br />

Premessa<br />

Si afferma generalmente che gli animali sono ancora oggi considerati, soprattutto sul<br />

piano giuridico, come oggetti e non come soggetti.<br />

In realtà, di norme che tutelano direttamente gli animali in quanto soggetti sensibili ce<br />

ne sono: si può discutere sulla loro validità, sulla loro cattiva formulazione, ma certamente sono<br />

norme che tutelano direttamente l’animale in quanto essere capace di soffrire. Si pensi alla<br />

legge n. 281/1991 sul randagismo (ad es. quando impone di utilizzare metodi indolori per la<br />

soppressione di animali randagi gravemente ammalati); al D. Lgs. del 1992 sulla sperimentazione<br />

(con particolare riferimento all’obbligo di anestesia e alle condizioni di mantenimento<br />

degli animali negli stabulari); all’art. 727 c.p. sul maltrattamento, e via dicendo.<br />

Eppure queste norme non funzionano, ossia sono dotate di scarsa efficacia.<br />

Se quindi è vero che esiste tuttora un grosso problema di adeguamento del nostro sistema<br />

normativo, al fine di tutelare in modo adeguato gli interessi animali, il vero problema sul<br />

piano giuridico risiede nel fatto che le norme a tutela degli animali vengono scarsamente rispettate<br />

e, quel che è peggio, raramente applicate.<br />

La constatazione dello scarso rispetto è certamente grave perchè dimostra quanto sia<br />

ancora debole la sensibilità degli esseri umani verso il problema degli animali; tuttavia la situazione<br />

sarebbe un pò meno grave se comunque vi fosse una pronta e ferma applicazione delle<br />

norme e delle sanzioni previste. E invece sono poche le pronunce di condanna per maltrattamento<br />

di animali o per violazione delle norme poste a loro tutela.<br />

Le ragioni sono svariate; è vero che c’è ancora una certa ritrosia in una parte della<br />

magistratura, ma a questa si accompagna sovente la formulazione ambigua o compromissoria<br />

delle norme, che si prestano così ad interpretazioni divergenti o discutibili.<br />

In particolare, vorrei concentrare l’attenzione sull’art. 727 c.p., per il particolare ruolo<br />

che questa norma può assumere nel sistema giuridico di tutela degli animali dopo la riforma del<br />

1993: per le ragioni che vedremo, l’art. 727 si presta ad operare come una sorta di norma generale<br />

e di chiusura, dotata di un ambito applicativo molto ampio. Questo, però, a patto che vi sia<br />

accordo su alcune nozioni generali e che si risolvano alcuni problemi interpretativi.<br />

La nozione di maltrattamento<br />

L’art. 727 ruota come è evidente attorno alla nozione di maltrattamento (la Cassazione<br />

ha precisato nel 1995 che le singole ipotesi previste dal I comma sono mere “esemplificazioni”<br />

della condotta di maltrattamento): ma fino a quando non vi sarà accordo sull’estensione di questa<br />

nozione, quantomeno a livello di principi generali, la norma si presterà alle più diverse interpretazioni<br />

e applicazioni giurisprudenziali, come in effetti è accaduto.<br />

In generale, per maltrattamento deve intendersi la violazione delle caratteristiche biologiche<br />

naturali dell’animale, a livello fisiologico, psichico, genetico e ambientale: questo deve<br />

costituire il I punto fermo. Tale affermazione può sembrare un’ovvietà; eppure occorre scardinare<br />

un’applicazione decennale dell’art. 727 in termini di mera sofferenza fisica.<br />

128


Sul piano scientifico è ormai pacifico che la sofferenza è uno stato assai più complesso<br />

del dolore meramente fisico, più complesso via via che si sale lungo la scala zoologica.<br />

Questo impone di fare riferimento anche al maltrattamento psichico (che può derivare ad esempio<br />

dall’isolamento); genetico o meccanico (si pensi alle selezioni genetiche per ottenere animali<br />

o prodotti animali anomali, o alla costrizione in condizioni di allevamento che ne impediscono<br />

i movimenti); ambientale (si pensi a situazioni esasperate di cattività).<br />

La nozione di maltrattamento rinvia quindi, a sua volta, a nozioni extragiuridiche, provenienti<br />

cioè dalle discipline scientifiche e in particolare dalla psicologia animale e dall’etologia;<br />

è una sorta di “contenitore” che deve essere riempito, a seconda dei casi, grazie alle cognizioni<br />

scientifiche esistenti in ordine a ciascuna specie animale.<br />

Si può quindi affermare che:<br />

a) a livello giuridico, occorre stabilire una volta per tutte che la nozione di maltratta<br />

mento deve essere riferita a tutte le caratteristiche dell’animale, non solo a quelle<br />

meramente fisiche, e dunque a tutte le possibili fonti di sofferenza.<br />

b) a livello scientifico, occorre definire le condizioni del benessere delle varie specie<br />

animali.<br />

La prima ragione della scarsa efficacia ed effettività dell’art. 727 risiede dunque nella<br />

insufficiente chiarezza delle nozioni scientifiche e giuridiche che costituiscono il presupposto<br />

logico del reato di maltrattamento; ne sono prova le profonde divergenze che si possono riscontrare<br />

nelle decisioni di casi giurisprudenziali del tutto simili<br />

Ciò non significa, ovviamente, che non possano esservi dei margini di diversità nelle<br />

varie decisioni giurisprudenziali; anzi questo è inevitabile ed entro certi limiti costituisce un<br />

aspetto fisiologico dell’applicazione della legge da parte degli organi giudiziari. Il problema è<br />

mantenere queste divergenze nei limiti del fisiologico, e ciò si ottiene appunto individuando<br />

parametri interpretativi delle norme il più possibile oggettivi.<br />

La fattispecie dell’”incrudelimento”<br />

Tralasciando per ragioni di tempo le altre fattispecie, anche se molto vi sarebbe da dire<br />

ad esempio sull’uso degli animali in giochi e spettacoli, vale la pena di soffermarsi sulla prima:<br />

incrudelire verso animali senza necessità. Questa ipotesi, che in realtà deve essere considerata<br />

insieme a quella di strazio e sevizie dal momento che anche queste rappresentano forme di crudeltà<br />

(si tratta a ben vedere di una inutile duplicazione di fattispecie), occupa a mio avviso un<br />

posto centrale nell’art. 727, perchè contraddistinta dalle maggiori potenzialità applicative.<br />

Questa fattispecie si riferisce alla tipologia di comportamenti più riprovevoli, da ritenere<br />

vietati incondizionatamente in quanto privi di ogni giustificazione e nei confronti dei quali<br />

non è quindi possibile alcun bilanciamento tra interessi animali e interessi umani, come invece<br />

viene fatto nelle altre fattispecie.<br />

Inutile dire che il riferimento alla necessità, che richiama la vecchia formulazione della<br />

norma, è qui assolutamente fuori luogo, dal momento che la crudeltà è per sua stessa definizione<br />

caratterizzata dalla superfluità delle sofferenze inflitte, e dunque risulta intrinsecamente non<br />

necessaria. Ipotizzare una crudeltà necessaria è una contraddizione in termini.<br />

A parte questo dato letterale, che sembra più che altro sfuggito dalla penna del legislatore,<br />

il divieto di incudelire verso animali senza necessità altro non è che l’espressione del<br />

principio generale che ispira tutta la normativa esistente in tema di protezione degli animali: il<br />

dovere, etico oltre che giuridico, di non causare sofferenza inutilmente ad esseri viventi (lo stesso<br />

principio che del resto sta alla base dei rapporti tra gli esseri umani).<br />

129


E infatti il divieto di incrudelire è formulato in modo aperto, cioè non indica attraverso<br />

quali comportamenti può realizzarsi il maltrattamento, bensì soltanto il risultato, ossia la sofferenza<br />

arrecata all’animale: questa diventa allora una fattispecie residuale, idonea a ricomprendere<br />

tutte quelle forme di maltrattamento che non trovano ancora alcuna specifica collocazione<br />

nelle discipline di settore.<br />

Questa conclusione è importante perchè le forme di maltrattamento più insidiose sono<br />

proprio quelle mascherate sotto il velo tranquillizzante delle consuetudini. Si pensi ai metodi di<br />

addestramento e di educazione degli animali, a certe forme di intervento sugli animali domestici<br />

a fini puramente estetici, ai metodi di cattura, allevamento e uccisione degli animali da pelliccia<br />

(in cui spesso prevale l’obiettivo di non rovinare il pelo dell’animale rispetto a quello di<br />

non farlo soffrire).<br />

In tutti questi casi l’applicazione dell’art. 727 richiede naturalmente un accertamento<br />

in concreto, volto a verificare che il comportamento incriminato abbia arrecato effettivamente<br />

sofferenza all’animale; e come si è detto questo accertamento deve tenere conto delle caratteristiche<br />

specifiche di quell’animale, con riferimento però a tutte le componenti del benessere animale<br />

(fisica, psichica, genetica e ambientale). Per questa ragione è importante che vi sia accordo<br />

sull’interpretazione della nozione di maltrattamento.<br />

L’ipotesi dell’uccisione ingiustificata di animali<br />

Una anomalia vistosa è rappresentata dal fatto che la norma non contempla il caso<br />

della mera uccisione dell’animale, ossia dell’uccisione ingiustificata indipendentemente dal<br />

maltrattamento.<br />

Si tratta di un’evidente paradosso: quando il maltrattamento (e dunque la sofferenza)<br />

è tale da comportare la morte dell’animale il fatto non solo è punito ma la pena è addirittura<br />

aumentata (si ha cioè il reato aggravato); mentre se è realizzata senza far soffrire l’animale, l’uccisione<br />

dovrebbe andare esente da pena anche se ingiustificata.<br />

Si tratta di una conclusione illogica sul piano giuridico (oltre che su quello etico) per<br />

svariate ragioni:<br />

a) se la morte figura come aggravante del reato di maltrattamento, ciò significa che il<br />

legislatore ha compiuto una valutazione giuridica negativa in ordine a questo evento; e tale<br />

valutazione sarebbe incompatibile con la volontà di lasciare impunita la mera uccisione dell’animale;<br />

b) non è sempre facile stabilire se la morte è derivata da un precedente maltrattamento;<br />

c) la mancata punizione dell’uccisione ingiustificata si porrebbe in contrasto con l’impianto<br />

complessivo di tutta la normativa in tema di animali. Ad esempio, la legge del 1991 sul<br />

randagismo vieta di sopprimere i cani e i gatti randagi: non si vede perchè un principio diverso<br />

dovrebbe valere per gli animali che non sono randagi e che hanno un legittimo proprietario. A<br />

meno di non ricadere in una logica proprietaria per cui l’uomo può disporre a proprio piacimento<br />

del proprio animale.<br />

In realtà, quello richiamato costituisce a mio avviso un falso problema: l’uccisione<br />

ingiustificata dovrebbe rientrare senz’altro nella nozione di maltrattamento, e in particolare<br />

nella fattispecie dell’incrudelimento senza necessità, in quanto violazione massima delle leggi<br />

naturali dell’animale.<br />

La formulazione attuale dell’art. 727, con il riferimento costante alle caratteristiche<br />

anche etologiche dell’animale, deriva dalla volontà di tutelare l’interesse animale a non soffri-<br />

130


e; ma la matrice di questo interesse è il diritto alla vita, perchè se questo diritto viene negato<br />

anche l’interesse a non soffrire non ha alcun senso.<br />

Anche ammettendo che in alcuni casi la vita degli animali possa essere sacrificata in<br />

funzione di interessi umani ritenuti prevalenti, tuttavia si tratta di eccezioni da applicare in<br />

maniera assolutamente restrittiva e tassativa, al di fuori delle quali si riespande il diritto alla vita<br />

di qualunque essere vivente.<br />

L’art. 727/I comma deve quindi essere interpretato nel senso di considerare sempre<br />

punita l’uccisione ingiustificata di animali: con la pena base, oppure con la pena aggravata ove<br />

si provi che la morte è derivata da un precedente maltrattamento.<br />

Il coordinamento con la legislazione speciale<br />

Il II comma dell’art. 727 prevede che il reato di maltrattamento è aggravato se è commesso<br />

nell’ambito del traffico, del commercio, del trasporto, dell’allevamento, della mattazione<br />

o di uno spettacolo di animali.<br />

Si tratta delle principali attività che prevedono l’utilizzazione di animali; attività che<br />

dunque sono di per sé lecite, anche se leggi specifiche ne impongono l’esercizio con particolari<br />

modalità, al fine di ridurre al minimo la sofferenza degli animali. Siamo quindi su un piano<br />

diverso: il maltrattamento non deriva da crudeltà gratuita, ma dalla violazione delle modalità di<br />

esercizio di attività lecite.<br />

Prima della riforma dell’art. 727 era dubbio se la violazione di queste norme potesse<br />

rientrare nel reato di maltrattamento; adesso si è creato un importante punto di raccordo tra la<br />

norma generale e le discipline di settore.<br />

La conseguenza di questo raccordo è che risulta notevolmente ampliata la sfera dei<br />

comportamenti punibili in base all’art. 727: questo comprende cioè, oltre alle crudeltà gratuite,<br />

anche tutte quelle violazioni che riguardano soltanto le modalità di esercizio di un’attività lecita.<br />

Non solo, ma in questi casi, a differenza delle ipotesi previste dal I comma, l’applicabilità<br />

dell’art. 727 non dovrebbe richiedere alcun accertamento in concreto circa la sofferenza<br />

arrecata all’animale, poiché questa dovrebbe ritenersi presunta. Infatti, la valutazione circa l’idoneità<br />

ad arrecare sofferenza è stata già fatta nel momento in cui sono state individuate quelle<br />

modalità di trattamento degli animali (ad es. le dimensioni minime delle gabbie, le tecniche<br />

di macellazione; ma sebbene non siano richiamate, lo stesso vale per le norme in materia di caccia<br />

e di sperimentazione); modalità che sono determinate appunto dall’esigenza di circoscrivere<br />

la sofferenza alla soglia minima che risulti assolutamente indispensabile e inevitabile. È evidente,<br />

quindi, che la violazione di queste prescrizioni minime è di per sé idonea a cagionare sofferenza.<br />

Il fatto che in tutti questi casi sia superflua la prova della sofferenza, è un dato che<br />

dovrebbe contribuire non poco alla valorizzazione dell’art. 727.<br />

Eppure, come si è anticipato, questa norma è scarsamente efficace. Nonostante che ad<br />

essa possa riconoscersi un ambito di applicabilità potenzialmente molto ampio, essa viene<br />

applicata raramente, e soprattutto non esercita quel potere dissuasivo che normalmente è collegato<br />

alle norme penali e alla minaccia della pena. E se la prima ragione risiede nell’incertezza<br />

che caratterizza la nozione di maltrattamento, la seconda ragione deve essere individuata nell’inadeguatezza<br />

dell’apparato sanzionatorio.<br />

131


L’apparato sanzionatorio<br />

La legge di riforma del 1993 ha rivalutato la pena principale; tuttavia essa continua ad<br />

essere rappresentata dalla sola ammenda, come tale oblazionabile con la somma di poco più di<br />

tre milioni (cifra non modica, ma neppure significativa, soprattutto in ipotesi di violazioni gravi<br />

motivate da fini commerciali).<br />

Non solo, ma l’oblazione comporta l’estinzione di tutto l’apparato di pene accessorie che il<br />

nuovo testo dell’art. 727 usa con abbondanza.<br />

Normalmente le pene accessorie sono dotate di un notevole potenziale dissuasivo dalla<br />

commissione del reato, anche più della stessa pena (perchè è evidente il danno che l’interessato<br />

riceve dal fatto di dover sospendere o interrompere la propria attività).<br />

Invece in questo caso il grande apparato di pene accessorie finisce soltanto con l’incentivare<br />

il ricorso al meccanismo estintivo dell’oblazione, proprio per eliminare le pesanti conseguenze<br />

derivanti dal reato. Le pene accessorie finiscono in buona sostanza per rappresentare<br />

uno stimolo alla pronta monetizzazione dell’offesa; ed è una constatazione desolante, perchè<br />

una norma che è stata scritta proprio per combattere la vecchia considerazione degli animali<br />

come cose dotate soltanto di valore patrimoniale, rischia paradossalmente di ricadere in quella<br />

stessa logica.<br />

Conclusione<br />

Le legittime aspettative che possiamo avanzare nei confronti dell’art. 727 non devono<br />

comunque far dimenticare che non tutti i problemi possono essere risolti con lo strumento del<br />

diritto penale. Sebbene si debba certamente valorizzarne le potenzialità applicative, il ruolo<br />

della norma penale è necessariamente limitato, poichè essa può soltanto stabilire dei divieti. La<br />

norma penale, cioè, ci dice cosa non dobbiamo fare agli animali ma non ci dice anche, in positivo,<br />

come dobbiamo trattare gli animali; eppure si tratta di due aspetti che devono esistere<br />

entrambi ed integrarsi.<br />

Per l’imposizione di doveri in positivo, cioè di regole che dicano come trattare gli animali,<br />

occorrono fonti più snelle del codice, come le leggi speciali già presenti in alcuni settori.<br />

Sotto questo profilo, un ruolo fondamentale può essere svolto dagli enti locali,<br />

Regioni, Province e Comuni; questi dispongono di strumenti giuridici ancora più elastici, con i<br />

quali possono essere ulteriormente specificati i principi generali dettati a livello nazionale.<br />

Provvedimenti come le ordinanze comunali possono contribuire a creare o rinforzare<br />

dal basso la sensibilità verso il problema degli animali, con strumenti meno duri della sanzione<br />

penale e dunque meglio accettati dalla collettività. E via via che questa sensibilità si diffonde<br />

riacquistano efficacia anche i divieti, come quelli dell’art. 727.<br />

Le iniziative degli enti locali possono insomma contribuire a chiudere il cerchio<br />

della delicata questione degli animali: se si osservano i doveri, e gradualmente ci si convince<br />

della loro opportunità, si può sperare che il passo verso il rispetto dei divieti e quindi<br />

l’abbandono delle forme più gravi di maltrattamento diventi via via un po' meno lungo.<br />

132


GUERRA, INFORMAZIONE E AMBIENTE<br />

Giulio Gori - Giornalista<br />

Che relazione corre tra la guerra e la difesa dell’ambiente? Che ruolo ha l’informazione in questo<br />

rapporto? Sono queste le due domande cui questa riflessione vuole cercare di rispondere.<br />

Capire la realtà dei conflitti, le conseguenze dell’uso delle armi, le strategie militari, scoprire le<br />

incongruenze tra quanto avviene nella realtà e quanto siamo tenuti a credere sulla base delle<br />

informazioni che ci pervengono, sono strumenti essenziali per chiunque voglia operare nel<br />

campo della protezione dell’ambiente, umano e naturalistico che esso sia.<br />

La relazione che segue parte da un analisi schematica delle armi belliche oggi più diffuse, della<br />

loro produzione e delle loro implicazioni politiche per poi giungere a un’analisi del ruolo dell’informazione<br />

in queste vicende, anche attraverso l’analisi di una guerra esemplare, quella contro<br />

la Federazione Jugoslava del 1999.<br />

Armi e altri strumenti bellici<br />

Uranio impoverito - L’uranio impoverito è un sottoprodotto della tecnica di arricchimento dell’uranio<br />

utilizzato per alimentare i reattori delle centrali nucleari. La parte del minerale utile per<br />

la fissione è l’isotopo U 235, ma non rappresenta che lo 0,7% della massa totale; la parte restante<br />

infatti è essenzialmente composta dall’isotopo U 238. L’arricchimento dell’uranio consiste<br />

dunque nell’eliminare questo secondo tipo di isotopo, il quale rappresenta invece il cosiddetto<br />

uranio impoverito. L’uranio impoverito possiede una forte densità, superiore a quella del piombo<br />

e simile a quella dell’oro. Inoltre, possiede una notevole resistenza ed ha un costo di fabbricazione<br />

estremamente basso. Il fisico Raymond Sené ha affermato che l’isotopo U 238 ha una<br />

vita di 4 miliardi e mezzo di anni.<br />

In campo militare viene usato per appesantire le armi convenzionali e renderle quindi più potenti<br />

e penetranti: in altre parole può permettere a un ordigno sganciato dal cielo di penetrare agevolmente<br />

al di là delle spesse pareti d’acciaio di un blindato.<br />

La radioattività dell’uranio impoverito è piuttosto bassa. Tuttavia esso diviene estremamente<br />

pericoloso nel caso in cui venga disperso nell’aria in microparticelle, perché attraverso l’apparato<br />

respiratorio può essere immesso nell’organismo. Non è difficile rendersi conto che proprio<br />

un’esplosione è il modo migliore per trasformare un blocco di uranio impoverito in una miriade<br />

di pericolosissimi corpuscoli disseminati nell’atmosfera.<br />

Le riserve d’uranio impoverito nel mondo superano il milione di tonnellate e crescono al ritmo<br />

di 50mila tonnellate l’anno. L’uranio impoverito a scopo militare è stato usato per la prima volta<br />

nella II guerra del golfo (1991), e poi in Jugoslavia (1999) e in Afghanistan (2001). In Iraq le<br />

conseguenze sono già evidenti: sono stati registrati numerosissimi casi di perdita di capelli,<br />

emorragie inspiegabili, scompensi renali e epatici; ma soprattutto sono cresciuti a dismisura (in<br />

particolare nel sud del paese, la regione più bombardata) cancri e leucemie.<br />

Mine antiuomo - Le mine antiuomo sono uno degli strumenti di guerra e di guerriglia che più<br />

si sono diffusi nell’ultimo ventennio. L’Afghanistan è certamente il paese più colpito da questa<br />

piaga, soprattutto a causa della guerra contro l’Unione Sovietica. Le mine antiuomo rappresentano<br />

una minaccia gravissima i territori coinvolti, perché per il carattere proprio di ordigni invisibili<br />

e inesplosi non esauriscono il danno al momento del contatto col terreno. Il primo pro-<br />

133


lema riguarda i gravissimi danni provocati alle persone, da danni irreversibili agli arti, con<br />

conseguente necessità di amputazioni, fino alla morte. Uno degli aspetti più gravi riguarda il<br />

fatto che spesso questo genere di armi viene fabbricato con la forma di un giocattolo, ed è evidentemente<br />

destinato ai bambini; non a caso nei paesi con più mine antiuomo si registrano i<br />

valori più alti di amputazione delle mani sui bambini. Il secondo problema concerne invece il<br />

blocco dello sviluppo dei territori colpiti: la presenza di mine antiuomo impedisce completamente<br />

ogni possibilità di uso agricolo della terra, di costruzione di infrastrutture e di uso delle<br />

vie di comunicazione. Di fatto chi vive in una zona invasa dalle mine rischia di morire di fame<br />

perché non può in alcun modo provvedere ad un’economia di sostentamento ed è seriamente<br />

limitato nella possibilità di migrare.<br />

Le mine antiuomo sono state messe al bando nel 1997 col Trattato di Ottawa, ma la loro proliferazione<br />

da allora non è affatto rallentata. Negli anni ’90 sono stati prodotti in media tra i 5 e<br />

i 10 milioni di mine antiuomo all’anno. L’Italia è il secondo produttore mondiale dopo la Cina,<br />

seguite a ruota dall’ex-URSS e dagli Stati Uniti d’America.<br />

Nucleare - Le armi nucleari rappresentano ancora una minaccia per l’umanità, benché sia largamente<br />

diffusa l’opinione contraria. Molti paesi ammettono di possedere bombe atomiche:<br />

USA, Russia, Francia, Regno Unito, Cina, Israele, Pakistan e India. Tra Pakistan e India è in<br />

corso una disputa per la regione del Kashmir, aggravata dal recente conflitto contro<br />

l’Afghanistan, e spesso i rispettivi capi di stato hanno ventilato la possibilità di farne uso. Ma<br />

il solo fatto che il presidente degli Stati Uniti d’America abbia in mano il mandato da parte delle<br />

proprie camere che gli permette di fare uso anche di queste armi è estremamente preoccupante.<br />

In un’epoca in cui l’equilibrio del terrore della guerra fredda non c’è più, di fronte a prospettive<br />

future così incerte e fluide non porre dei paletti all’attività politico-militare dei governanti è<br />

un pericoloso errore.<br />

La distruttività di questi ordigni è spaventosa, se si pensa che soltanto una piccola testata tattica<br />

potrebbe polverizzare una città come Firenze e radere al suolo i comuni limitrofi. Le bombe<br />

atomiche più distruttive di cui si sia a conoscenza hanno una potenza tale da poter fare sparire<br />

l’intera Toscana.<br />

E’ da sottolineare che anche nel caso del nucleare i dati ci dicono che la proliferazione delle<br />

armi è direttamente proporzionale alla sua produzione, checché ne dicano i grandi produttori di<br />

armi a propria discolpa. Non c’è dubbio tuttavia che il nucleare rappresenta un terreno meno<br />

gestibile di altri sistemi bellici, perché se uno stato non è abbastanza ricco e non ha una ricerca<br />

sufficientemente sviluppata, anche con testate atomiche in mano difficilmente riuscirebbe a produrre<br />

adeguati razzi vettori per lanciarli a media o lunga distanza.<br />

Armi chimiche e batteriologiche - Dopo i fatti dell’11 settembre 2001, si fa un gran parlare di<br />

possibili attacchi terroristici con armi chimiche o batteriologiche. Purtroppo spesso i grandi<br />

organi d’informazione non sono precisi nello specificare i termini usati e spesso finiscono nell’equivoco.<br />

Anzitutto è da rilevare che armi chimiche e armi batteriologiche sono cose distinte<br />

tra loro, per una differenza fondamentale: nel primo caso si tratta di semplici molecole, nel<br />

secondo invece di organismi vivi; con conseguenze anche molto diverse.<br />

Nel breve periodo entrambi gli strumenti bellici hanno una mortalità altissima, ma è nel lungo<br />

periodo che si vedono i danni peggiori. Le armi chimiche portano regolarmente a un forte<br />

aumento di cancri, leucemie e deformazioni prenatali nelle zone colpite. Le armi batteriologiche<br />

diffondono invece malattie e sono forse peggiori perché gli organismi, riversati in enormi<br />

quantità in un’area, possono dare vita a larghi ceppi di mutazioni resistenti agli antibiotici, e<br />

soprattutto non si limitano al territorio inizialmente colpito, perché le epidemie non hanno<br />

potenzialmente confini.<br />

Riguardo all’enorme dibattito che si è creato attorno a queste armi e a chi può usarle è neces-<br />

134


sario fare alcune precisazioni. Oggi Osama bin Laden sembra passato di moda, mentre Saddam<br />

Hussein ha riconquistato la palma del criminale internazionale numero uno. Effettivamente ci<br />

sono buone ragioni per considerarlo un terrorista; ma è bene ricordare che quando, tra l’87 e<br />

l’88, scaricava armi chimiche nel nord del paese, uccidendo migliaia di kurdi, era rifornito di<br />

armi dall’occidente, e in particolare dagli USA, che lo ritenevano un alleato affidabile in funzione<br />

antiiraniana. Dal ’90 le posizioni sono cambiate, ma non perché effettivamente Saddam<br />

Hussein abbia dato prova di peggiori atrocità (del resto era difficile), al contrario perché aveva<br />

messo le mani sul petrolio del Kuwait e minacciava di andare oltre.<br />

Armi non letali - La “guerra pulita” è l’ultima frontiera degli strateghi militari. Sta infatti<br />

nascendo una nuova categoria di armi, cosiddette “non letali”, destinata a creare ciechi, paralitici<br />

e mutilati, anziché morti: munizioni che non penetrano nel corpo ma stordiscono la vittima,<br />

sistemi di dispersione di agenti chimici, calmanti, scosse elettriche, stimoli acustici, reti, raggi<br />

laser isotropi (fonti di luce intense e pluridirezionali), superpolimeri (che creano una caligine<br />

viscosa e immobilizzante) e laser accecanti. Sembra uno scenario da fantascienza, ma che è pura<br />

realtà, nata dalla volontà di qualche scienziato di lavarsi non si sa come la coscienza. Al di là<br />

delle apparenze, questo tipo di strumenti sta già raccogliendo un certo successo tra i governi: se<br />

infatti questi mezzi appaiono poco concreti per una guerra, efficacissimi si dimostrano nel<br />

campo dell’ordine pubblico interno, ossia contro i civili. Gli agenti chimici anti-sommossa possono<br />

provocare dolori generali acuti, cecità temporanea, vomito, e/o soffocamento. A Genova<br />

durante il G8 le forze dell’ordine italiane hanno fatto uso per la prima volta nella loro storia dei<br />

gas CS, dannosissimi per l’organismo, persino proibiti in tempo di guerra dalla Convenzione di<br />

Ginevra del 1924. Un problema grave riguarda la versatilità di questo tipo di armi. Mettere in<br />

mano un arma acustica alle forze dell’ordine durante un tumulto, ad esempio, può portare al<br />

rischio che qualcuno, perso il controllo, possa regolarla ad un livello di intensità tale da diventare,<br />

anziché un agente stordente, un vero e proprio strumento letale. Stesso discorso si può fare<br />

per gli apparecchi che emettono scosse elettriche. Ma l’aspetto più inquietante del problema sta<br />

nel fatto che sulla ricerca che sta dietro a queste armi si stia mantenendo un pericoloso silenzio,<br />

che le fa sfuggire al controllo democratico.<br />

Armi intelligenti - Dalla seconda guerra del Golfo (1991) si fa un gran parlare della presunta<br />

intelligenza delle armi, che sarebbero così diligenti da evitare “quasi” sempre gli “effetti collaterali”<br />

(detti anche, più propriamente, obiettivi civili) e colpire soltanto gli obiettivi militari.<br />

Dopo pochi mesi dalla fine della guerra ci si rese conto, vedendo le immagini di Baghdad e<br />

Bassora, distrutte, che la storia raccontata dagli ufficiali delle truppe occidentali era un’enorme<br />

bufala. Durante la guerra in Kosovo (1999) ci hanno cantato lo stesso ritornello, e anche in quel<br />

caso c’è voluto ben poco ad accorgersi che i morti civili non si contavano e che il livello di<br />

distruzione di infrastrutture, città e ambiente, era disastroso. In Afghanistan (2001) hanno fatto<br />

impudicamente la stessa cosa. E la maggior parte dei giornalisti, che tendono a scordare la differenza<br />

che corre tra la loro professione e quella dei portavoce, ci ha riproposto ciecamente tutte<br />

le bugie dette dai militari.<br />

Informazione e guerra in un caso esemplare<br />

La guerra contro la Federazione Jugoslava del 1999 è stata definita dai promotori attraverso<br />

l’ossimoro di “guerra umanitaria”. Questo conflitto è l’esempio perfetto di come un’informazione<br />

al servizio di una parte abbia contribuito a descrivere una storia ben diversa dalla realtà<br />

dei fatti. Nascondendo orrori, tragedie umane e ambientali, ribaltando il senso di leggi internazionali<br />

e cancellando persino ogni principio logico. Se l’espressione guerra umanitaria è già di<br />

135


per sé confutabile, ci sono molte cose su cui è necessario puntare la nostra attenzione.<br />

La NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) ha abbandonato la propria storica<br />

funzione difensiva per compiere un attacco, senza alcuna autorizzazione del Consiglio di<br />

Sicurezza delle Nazioni Unite e, in barba alle leggi internazionali, si è autoproclamata legittimata<br />

al diritto d’ingerenza in uno stato sovrano. La guerra è stata giustificata sulla base di un<br />

necessario intervento in aiuto dell’etnia albanese del Kosovo, oppressa dal governo di Belgrado.<br />

Al di là del fatto che le missioni precedenti al conflitto non si sono sforzate minimamente di<br />

valutare la possibilità di un intervento non armato, è indubbio che le condizioni degli stessi<br />

albanesi siano peggiorate dopo l’inizio dei bombardamenti. Non solo perché le bombe su<br />

Pristina non sono carezze, ma anche perché con lo scoppio della guerra gli osservatori internazionali<br />

(governativi e non) sono dovuti rientrare nei rispettivi paesi e non hanno più potuto svolgere<br />

quella funzione di mediazione e di controllo tanto importante negli anni precedenti. Così,<br />

senza di loro, tutto può essere successo. Del resto, dopo la guerra la repressione albanese contro<br />

Serbi e Rom è stata completamente oscurata.<br />

Javier Solana, allora segretario della NATO, per giustificare le morti dei civili, ha tirato fuori<br />

dal cilindro la vecchia litania degli effetti collaterali, benché i dati dimostrino che la stragrande<br />

maggioranza delle vittime non siano militari.<br />

Sono stati bombardate ad esempio fabbriche di automobili, industrie per la ricerca oncologica<br />

e persino la televisione di Stato, dimenticando che la missione era nata per restituire la libertà,<br />

anche d’espressione, ove essa mancava. In Jugoslavia la maggior parte delle famiglie possiede<br />

un’antenna parabolica, e può quindi vedere programmi occidentali. Noi occidentali al contrario<br />

non abbiamo alternative ai nostri media.<br />

Tra gli obiettivi non militari bombardati ci sono i ponti sul Danubio, un fiume internazionale<br />

necessario alle attività commerciali di molti paesi. Demolirli e bloccare la navigabilità del corso<br />

d’acqua ha significato dichiarare guerra anche a paesi come l’Ungheria, la Romania e la<br />

Bulgaria.<br />

Durante il bombardamento di un ponte ferroviario, è stato “involontariamente” colpito e distrutto<br />

un treno che lo stava percorrendo. In quell’occasione, durante la conferenza stampa indetta<br />

dalla NATO per giustificare l’accaduto, la ricostruzione a computer dell’incidente è stata proiettata<br />

a una velocità tre volte superiore a quella reale, per dimostrare che non c’era affatto la<br />

volontà di uccidere dei civili. Naturalmente nessun giornalista presente ha sollevato obiezioni.<br />

Sono state bombardate città, come Ni_ e Belgrado, che alle ultime elezioni amministrative avevano<br />

eletto sindaci oppositori di Milosevic, ritenendo responsabili tutti i serbi della politica<br />

sulle minoranze del governo. Bombe sono piovute anche su un parco naturale e su alcune carovane<br />

di Albanesi che cercavano di arrivare in Albania.<br />

Ci hanno persino raccontato che dei civili morivano perché Milosevic ne faceva degli scudi<br />

umani. Qui non si vuole stabilire se questo fosse vero o no, ma ci basti ricordare una metafora<br />

proposta allora da Antonio Gambino su L’Espresso: uccidere civili perché usati come scudi di<br />

obiettivi militari è come se un poliziotto, dopo aver ucciso un rapinatore e il suo ostaggio con<br />

una cannonata, affermasse che era suo dovere sparare indipendentemente dalle sorti del secondo.<br />

Un altro fatto gravissimo è stato l’uso improprio del termine genocidio, parola chiave nelle giustificazioni<br />

dell’attacco: genocidio implica la volontà di sterminio di un popolo, di un’etnia, di<br />

una nazione; nel caso del Kosovo si può parlare di pulizia etnica violenta, non certo di un piano<br />

sistematico per uccidere centinaia di migliaia di persone. In un bellissimo articolo (“Cronaca di<br />

una disinformazione”, Le monde diplomatique, marzo 2000) Serge Halimi e Dominique Vidal<br />

dimostrano come dati e cifre siano stati scientemente inventati per giustificare l’aggressione e<br />

come l’informazione occidentale si sia supinamente piegata alle veline dei propri governi.<br />

136


Dovere di ciascuno di noi è quello di conquistare un’informazione migliore, che ci consenta di<br />

avvicinarci quanto più possibile alla realtà, e di capire a fondo, con precisione e senza retorica,<br />

la tragedia delle popolazioni vittime dei conflitti. Questo lavoro non è impossibile, basta non<br />

fossilizzarci sulla televisione, che purtroppo è l’anello più debole e deviato del sistema dell’informazione.<br />

Leggere giornali diversi, possibilmente non editi da colossi legati alla guerra per<br />

interessi economici. Vedere la stampa straniera, se si conoscono una o più lingue. Navigare su<br />

Internet, trovare magari miriadi di informazioni false, di bufale incontrollate, ma verificare<br />

incrociando fonti diverse, riflettendo a fondo sulle parole d’ordine che ci vengono proposte da<br />

una parte o dall’altra. Errori se ne compiono per forza, perché una guerra è il momento in cui il<br />

giornalista non può vedere direttamente ciò che succede, ma avvicinarci a una rappresentazione<br />

verosimile della realtà non è una chimera. Anzi è un dovere, in particolare per chi si occupa<br />

di politica, di informazione, di pace, di giustizia, di cultura, di ambiente.<br />

Guerra e ambiente<br />

Le conseguenze del conflitto nella Federazione jugoslava, in termini economici, umani e<br />

ambientali sono gravissime. Per ricostruire il paese non basteranno dieci anni. Anzi allora probabilmente<br />

si cominceranno a vedere le conseguenze sanitarie, dovute all’inquinamento dell’aria<br />

e delle falde acquifere a seguito della distruzione di numerosi impianti industriali e chimici.<br />

La guerra contro l’Iraq del 1991 ci dimostra che dovremo aspettarci nuove tragedie. Ma questi<br />

conflitti non sono che degli esempi. Il mondo, lungi dalla fase di stabilità e di pace promessa<br />

dopo il crollo del blocco sovietico, sembra sempre più instabile e vittima di infiniti scontri<br />

armati. Il terrorismo di dittatori locali, di organizzazioni internazionali, di bande mafiose del<br />

racket e del narcotraffico, ma anche il terrorismo di stato di chi propugna la guerra preventiva,<br />

sembra sempre più forte e minaccia il nostro futuro.<br />

E’ penoso vedere che gruppi ambientalisti si adoperano per costruire un parco naturale, un oasi,<br />

per far approvare una legge che tuteli l’ambiente, e poi questi sforzi vengano vanificati da<br />

un’improvvisa raffica di bombe, da un esperimento nucleare o dalla disseminazione di mine.<br />

E’ altrettanto penoso che sedicenti ambientalisti si schierino a favore di una guerra o per la creazione<br />

di un esercito speciale che in teoria dovrebbe garantire l’ordine e la pace.<br />

I dati riportati e le argomentazioni addotte sono probabilmente sufficienti a dimostrare la relazione<br />

inversamente proporzionale che corre tra guerra e difesa dell’ambiente; senza retorica, ma<br />

con crudo realismo, si può senz’altro affermare che la guerra è la più grande offesa all’ambiente<br />

che l’uomo sia stato capace di inventare.<br />

137


STAGES FORMATIVI


GLI STUDENTI DEL CORSO, COME PROVA FINALE, HANNO PARTECIPATO A DUE<br />

MOMENTI DI VERIFICA CON RELATIVI ESERCIZI FORMATIVI: IL PRIMO INCON-<br />

TRO A CURA DEL LABORATORIO DIDATTICO-AMBIENTALE DI VILLA DEMIDOFF<br />

IL SECONDO PRESSO L’OASI DEL W.W.F. - STAGNI DI FOCOGNANO. DEI SEGUEN-<br />

TI LABORATORI ALLEGHIAMO LE RELATIVE SCHEDE DESCRITTIVE:<br />

INCONTRO N. 1<br />

LABORATORIO DIDATTICO AMBIENTALE DI VILLA DEMIDOFF<br />

Via Fiorentina 276 – Pratolino – Vaglia - e-mail: lda@provincia.fi.it<br />

Il Laboratorio Didattico Ambientale di Villa Demidoff è un servizio allestito al fine di offrire un<br />

esperienza di educazione ambientale alle classi elementari, medie inferiori e medie superiori (1°<br />

biennio) della Provincia di Firenze. Un limitato programma didattico è disponibile anche per<br />

classi provenienti da altre province della Toscana.<br />

L’istituzione del Laboratorio è stata promossa dagli Assessorati Pubblica Istruzione ed<br />

Ambiente della Provincia di Firenze d’intesa con il Provveditorato agli Studi di Firenze.<br />

Provincia e Provveditorato hanno infatti sottoscritto nel dicembre del 1994, rinnovato nel 1998,<br />

uno specifico protocollo d’intesa per sancire un impegno comune sull’educazione ambientale<br />

assumendola come terreno primario sul piano educativo.<br />

L’iniziativa da un punto di vista educativo consiste in una serie di attività didattiche che affrontano<br />

il rapporto uomo-ambiente. Esse vengono svolte principalmente nell’ambito del parco e<br />

nelle aule didattiche al fine di rielaborare il lavoro svolto all’aperto.<br />

Il Laboratorio offre anche servizi di formazione per i docenti e attività di soggiorno estivo per<br />

gli utenti dei centri estivi del Comune di Firenze e di alcuni Comuni limitrofi.<br />

Periodi e orari:<br />

Il Laboratorio è aperto tutto l’anno.<br />

Le attività con gli utenti sono sospese solo nel mese di agosto.<br />

Le attività con le classi si svolgono da ottobre a maggio con orario 10 – 16.30.<br />

Le attività con i gruppi dei centri estivi si svolgono dalla metà di giugno alla fine di luglio con<br />

orario 10 – 16.30.<br />

Esercitazione<br />

Le attività percettivo sensoriali<br />

Diversi sono i modelli epistemologici di riferimento in fatto di educazione ambientale. Il modello<br />

adottato dal LDA di Villa Demidoff, a differenza di quelli di impostazione normativa o naturalistica,<br />

non individua un comportamento aprioristicamente corretto nei confronti dell’ambiente,<br />

ma problematizza il concetto stesso di ambiente, inserendolo nell’ottica della relazione<br />

tra soggetto che conosce e realtà conosciuta e in quella della teoria della complessità. Di tale<br />

modello epistemologico, intendendo sempre con ciò un qualcosa di dinamico e in continua evoluzione,<br />

se ne riassumono qui di seguito i tratti più salienti. Il modello fa riferimento a una concezione<br />

di educazione ambientale che mira non tanto alla trasmissione di conoscenze dei vari<br />

140


contesti ambientali, ma a promuovere una trasformazione dei comportamenti nei confronti dell’ambiente,<br />

e questo perché non vi è rapporto con l’ambiente che non presupponga un “conoscere”<br />

o comunque un mettere in moto le proprie conoscenze. I comportamenti sono relazioni<br />

che vengono stabilite con l’ambiente e tali comportamenti implicano dei modelli mentali che<br />

riguardano i “modi di guardare il mondo”. Tali modelli mentali sono però così radicati che<br />

diventa prioritario promuovere nei soggetti una consapevolezza e una capacità critica, al fine di<br />

sviluppare una sempre maggiore autonomia del soggetto di fronte all’ambiente, ma soprattutto<br />

di fronte al modo di costruire la conoscenza.<br />

Un modello di educazione ambientale così concepito non può non avere corrispondenze sul<br />

piano educativo e didattico. Si tratta quindi di predisporre un contesto educativo che si imperni<br />

sì sulla realtà che ci circonda, ma anche sul fatto che la conoscenza che si ha è sempre una<br />

conoscenza mediata dalla nostra struttura biologica, dai paradigmi, dagli epistemi e dalla nostra<br />

unicità di individui: in altre parole un contesto educativo che stimoli a pensare per relazioni e a<br />

tenere sempre in mente l’aspetto temporale e fenomenologico della nostra conoscenza. La questione<br />

non è però quella di imporre ai ragazzi nuovi schematismi che risultino più adeguati ai<br />

nostri occhi, quanto quella di creare una situazione didattica che stimoli a una riflessione autonoma<br />

sui dati di esperienza vissuti in prima persona e a costruire rappresentazioni della realtà<br />

sempre più complesse.<br />

In questo contesto si inseriscono le attività di tipo percettivo-sensoriale che hanno lo scopo<br />

innanzitutto di riportare l’attenzione su modalità di contatto con l’ambiente che sperimentiamo<br />

continuamente senza esserne consapevoli pienamente e senza riflettere realmente sulle informazioni<br />

che riceviamo e rielaboriamo. Un ritorno al “soggetto” che apprende e si muove nell’ambiente<br />

autonomamente cercando di reinterpretare attraverso i suoi canali percettivi i molteplici<br />

stimoli che riceve, consapevole altresì della non neutralità del suolo ruolo di osservatore.<br />

L’osservatore infatti è parte integrante del fenomeno che osserva e ne modifica gli effetti sia<br />

per la sua semplice presenza sia nel momento in cui necessariamente ne dà una interpretazione.<br />

Gli studenti vengono invitati ad eseguire i seguenti esercizi :<br />

Attività proposte<br />

1. Bendati nel prato. Il gruppo, diviso in due turni, è posto al centro di un ampio prato e osserva<br />

alcuni “target” posti ad una certa distanza. Il gruppo viene bendato e lievemente disorientato<br />

dopo di che viene dichiarato l’obiettivo da raggiungere. I partecipanti, bendati, utilizzando<br />

tutte le strategie a loro disposizione devono cercare di raggiungere li luogo indicato vegliati dal<br />

secondo gruppo che impedisce l’uscita inavvertita dal prato o situazioni di pericolo. Per i partecipanti<br />

in difficoltà dopo un po’ di tempo tutti coloro che sono arrivati a destinazione emetteranno<br />

dei suoni per favorire l’orientamento dei ritardatari. Si discuterà poi delle strategie utilizzate<br />

(mappa mentale, sole e calore sulla faccia, pendenza del terreno e altre indicazioni dal<br />

suolo…) e sulle sensazioni provate.<br />

2. Il sentiero artificiale. Una serie di oggetti evidentemente artificiali sono disseminati (non<br />

nascosti!) lungo un sentiero in un bosco. I partecipanti, singolarmente, percorrono il sentiero e<br />

cercano di individuare il maggior numero di oggetti. Una volta terminato un primo giro vengono<br />

date informazioni aggiuntive quali il numero di oggetti e se sono posti anche in alto e non<br />

solo al suolo. In senso inverso quindi l’esplorazione viene ripetuta ed al termine si discute sull’accaduto.<br />

Qual è il ruolo della vista nel “catalogare” le informazioni che riceviamo ed è così<br />

affidabile nel conoscere “tutta” la realtà? Maggiori informazioni consentono una visione più<br />

141


completa ed attenta e quindi ciò che conosciamo influenza ciò che vediamo? E’ così scontato<br />

distinguere oggetti naturali da oggetti artificiali? Qual è il ruolo dell’attenzione?<br />

3. Kim percettivi. Una serie di attività che mettono al centro dell’attenzione di volta in volta un<br />

solo canale sensoriale (tatto, vista, udito, olfatto) nel riconoscimento e nella re-interpretazione<br />

di percezioni per riflettere sui modi in cui entriamo in contatto con l’ambiente e la messe di<br />

informazioni che da esso riceviamo.<br />

Descrizione dell’esercitazione<br />

Incontro n. 2<br />

VISITA ALL’ OASI WWF - STAGNI DI FOCOGNANO<br />

Viene distribuita agli studenti una cartina topografica con la descrizione dell’oasi. All’arrivo<br />

veniamo accolti dalla prof.ssa Clara Lucchini, che ci invita a visionare i bacini lacustri, descrivendoci<br />

la fauna stagionale. Nei capanni vengono fatti gli appostamenti con i cannocchiali<br />

messi a disposizione e la prof.ssa Lucchini ci descrive e ci indica il nome di ogni specie. Dopo<br />

la pausa pranzo continuiamo a visitare la piccola oasi e i partecipanti danno un aiuto ai lavori<br />

di manutenzione. Qui di seguito la descrizione dell’oasi di Focognano.<br />

1. Ambiente<br />

A due passi da Firenze (Bus ATAF n.30 dalla Stazione FS S.M. Novella) acquisisce un indiscusso<br />

valore per la didattica e per l'opportunità di svolgere volontariato in natura.<br />

Tipico paesaggio storico della Piana Fiorentina. Estensione 65 ettari. Complesso di 5 bacini<br />

lacustri, costituisce un tassello essenziale nell'interno del territorio toscano, lungo le "vie d'acqua"<br />

seguite dagli uccelli migratori.<br />

2. Flora e Fauna<br />

La presenza di micro-ambienti ricostruiti su aree agricole marginali favorisce la conservazione<br />

della flora e della fauna minore:<br />

Flora<br />

Canna di palude, giunchi, Tifa, Carici, il piccolo Ranuncolo d'acqua e il Giglio di palude<br />

Fauna<br />

Punto obbligato di sosta e di transito durante le migrazioni e lo svernamento, ospita numerose<br />

specie di Anatre: Germano reale, Fischione, Codone, Alzavola, Mestolone. Numerosi i limicoli:<br />

Pittima reale, Pantana, Albastrello, Pettegola e gli ardeidi Airone bianco maggiore, Nitticora,<br />

Garzetta, Airone cenerino che possono essere avvistati nei laghi nel corso dell'anno. Molte le<br />

specie che vi nidificano: Cavaliere d'Italia, Svasso maggiore, Tuffetto, Tarabusino, Cannaiola,<br />

Cannareccione e Martin pescatore.<br />

Anfibi. Nelle pozze e nei micro-rifugi sono presenti: Tritone crestato, Tritone punteggiato,<br />

142


Raganella.<br />

Rettili: Biscia dal colare, Biacco, Ramarro.<br />

Oltre ai grandi laghi sono stati realizzati piccoli laghetti, superfici acquitrinose, pozze e microrifugi<br />

per la fauna minore. per la tutela delle popolazioni locali di Tritone crestato, Tritone punteggiato,<br />

Raganella, Ramarro, Natrice e Biacco.<br />

143


RELAZIONE FINALE - TEST DI VERIFICA<br />

a cura di Vanna Innocenti – Zoomedia<br />

L'attività di valutazione, prevista dal progetto del corso, è stata organizzata durante lo svolgimento<br />

dello stesso, con la compilazione da parte dei partecipanti di schede di valutazione, allestite<br />

ad hoc, sulla base delle indicazioni fornite dal Centro Nazionale per il Volontariato ed in<br />

sede finale del corso con una discussione di gruppo dove sono stati relazionati i dati raccolti<br />

emersi sull'andamento del corso. L'attività è proseguita con la compilazione di una scheda finale<br />

complessiva.<br />

La valutazione è stata completata con la redazione di questa relazione finale riassuntiva per consentire<br />

la verifica e la conformità degli obiettivi prefissati e di tener conto dei bisogni emersi.<br />

In questa sede è stata verificata anche la trasferibilità dell'esperienza in altri contesti e con altri<br />

volontari, in un'ottica di diffusione dei risultati raggiunti.<br />

Una ulteriore valutazione dei risultati a distanza di tempo ci potrebbe permettere di verificare<br />

l'efficacia dell'azione formativa sul lungo periodo, con valutazioni anche esterne, confrontandosi,<br />

per esempio, con nuove problematiche che emergeranno dall'ambiente o nuovi bisogni<br />

espressi dai volontari.<br />

Nella prima fase, dalle schede compilate, e nella scheda finale sono risultati:<br />

1. Gli argomenti trattati nelle lezioni hanno ottenuto valutazioni abbastanza alte (su una scala<br />

da 1 ad 8): il punteggio mediamente ha oscillato dal 5 all'8, con qualche segnalazione più bassa<br />

per quanto riguarda la voce “utili” (saper fare).<br />

2. I relatori hanno ricevuto un voto di gradimento abbastanza alto, in genere da 7 a 8.<br />

3. Il "clima" è risultato percepito quasi sempre più vicino al "caldo", "stimolante" e “piacevolissimo"<br />

in confronto a "freddo", "noioso"e "conflittuale".<br />

4. L'impegno richiesto dal corso non è stato percepito come eccessivo, anzi abbiamo punte di<br />

valutazione 1 (scarso). Questa valutazione risente ovviamente del basso numero di ore settimanali<br />

e della collocazione nella giornata del sabato, che ha reso possibile la frequenza.<br />

5.L'andamento del corso è stato giudicato nel complesso spostato verso "ottimo".<br />

6.Infine le richieste ed i suggerimenti non sono stati molti, ma alcuni anche stimolanti come il<br />

gradimento della sede del corso "che facilita la discussione", un invito ad "approfondire maggiormente<br />

gli argomenti nelle realtà e nelle esperienze esistenti", inviti ad usare maggiormente<br />

diapositive nelle lezioni, ad offrire esperienze pratiche così da poter intervenire positivamente<br />

sull'ambiente.<br />

7. La discussione, nella giornata finale di valutazione ha messo nuovamente in evidenza le<br />

motivazioni di ciascuno e discusso il ruolo di educatore ambientale.<br />

Nella giornata sono emersi i bisogni di approfondire ulteriormente e in modo specifico molte<br />

tematiche ambientali come l'inquinamento, l'energia, i rapporti con la salute, come intervenire<br />

maggiormente sulla prevenzione e i modi di trasmettere i saperi ossia la capacità di educare e<br />

di saper valutare l'efficacia della propria azione educativa.<br />

Sono state evidenziate le notevoli capacità del corso per aver fatto conoscere le tante attività<br />

operanti nell'ambiente che erano sconosciute per la maggior parte dei corsisti; si è posto in evidenza<br />

l'interesse particolare suscitato dai temi della Bioarchitettura e della Bioluce.<br />

Le valutazioni di questa attività di formazione, infine, è stata un valido supporto per conoscere<br />

l'efficacia della nostra azione formativa e per impostare il proseguimento del corso "Conoscere<br />

l'Ambiente per difenderlo".<br />

144


Relazione pubblicata all'indirizzo: www.zoomedia.it/didatticambientale/


Finito di stampare nel mese di OTTOBRE 2003<br />

Presso: Tipografia ESSEGI<br />

Via Ponte alle Mosse, 141/A<br />

Tel. 055 36 60 91 - Fax 055 33 20 50<br />

graph.essegi@tin.it<br />

Grafica e impaginazione<br />

Linda Vinci

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