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numero 48 - Okinawa goju-ryu

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Tora Kan Dojo Anno 17° n. <strong>48</strong><br />

Il Kata: un Esercizio Esoterico<br />

di Gary Gabelhouse<br />

tradotto da Andrea Ramberti<br />

Pubblichiamo integralmente questo articolo per la sincera ricerca operata dall’autore e per rispetto<br />

all’oneroso lavoro di traduzione che ha comportato. Riteniamo comunque che molte delle conclusioni e supposizioni<br />

dell’autore siano piuttosto fantasiose ma senz’altro possono indurre a interessanti riflessioni.<br />

Faceva molto caldo quel luglio a Nishinomiya, mentre<br />

mi spostavo di dojo in dojo per studiare il Goju<br />

Ryu giapponese. La mia improvvisata sacca del “gi” -<br />

una pesante sacca di plastica - spesso si apriva sul<br />

treno da Osaka e Kyoto per Nishinomiya, e pozzanghere<br />

di sudore fuoriuscivano da quel supersaturo<br />

“gi” e fluivano giù come un fiume sul pavimento. Sicuramente<br />

questo rappresentava una maleducazione<br />

indicibile, così come l’offerta di cedere il mio posto,<br />

fradicio di sudore. Ma mio Dio, si suda a luglio in<br />

Giappone.<br />

Stavo cercando di dirigermi verso l’aria fresca del<br />

monte Koya, verso il mio soggiorno studio presso il<br />

monastero Buddhista di Shingon in Koyasan. Inavvertitamente,<br />

prendendo per errore un treno locale<br />

invece dell’espresso come avevo pianificato, mi ritrovai<br />

alla stazione ferroviaria di Koyasan con alcune<br />

ore di ritardo. Rinunciando al tram, che sale per mezzo<br />

miglio, decisi di continuare a piedi lungo il sentiero<br />

per Koyasan, una sorta di Shugyo privato reso tollerabile<br />

dall’aria fresca. Ad ogni passo un respiro e<br />

piano piano mi lasciavo alle spalle ogni cosa. I santuari<br />

e le statue di Buddha, diventavano una parte delle<br />

radici degli alberi, come testimoni, mentre io camminavo<br />

lentamente assaporando il silenzio e la solitudine.<br />

Quando arrivai al confine di Koyasan, la mia<br />

maglietta era zuppa di sudore a dispetto della fresca<br />

aria di montagna. La prima cosa che vidi fu un monaco<br />

Shingon che si occupava delle candele di un santuario<br />

vicino alla strada. Mi guardò, lo guardai. Non<br />

dicemmo nulla. Dopotutto ero io l’alieno e non sapevo<br />

trovare parole per giustificare perché questo grande<br />

Gaijin era lì - quanto mi conoscevo poco.<br />

Avevo una mappa per arrivare al monastero, datami<br />

da un amico, un insegnante inglese che aveva vissuto<br />

e lavorato in Giappone. Trovai il monastero facilmente,<br />

entrai attraverso l’enorme cancello e camminai<br />

verso le porte aperte, attraverso un mare di ghiaia,<br />

passando su vecchie tavole di legno. Lì, sui gradini<br />

erano appoggiate un paio di pantofole. Mi tolsi le Reebok,<br />

infilai il mio grosso piede nelle pantofole di<br />

gomma blu, quando un monaco in tunica marrone e<br />

rossastra s’inchinò e mi disse “konichi wa, Garysan”.<br />

Ovviamente sapevano chi fossi. Il monaco mi portò<br />

prima ai miei alloggi e dopo mi accompagnò per tutto<br />

il monastero. Infine, mi mostrò la sala da bagno. Sci-<br />

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