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La parola e la cura

Il pregiudizio: l'evitabile e l'inevitabile delle convinzioni consapevoli Numero 1 Anno 2015 La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.

Il pregiudizio: l'evitabile e l'inevitabile delle convinzioni consapevoli
Numero 1 Anno 2015

La Parola e la cura è una rivista rivolta a tutti i professionisti che utilizzano la parola nel loro lavoro, parla di counselling perché con questo termine indichiamo le comunicazioni professionali caratterizzate da una costante attenzione alla relazione con l'altro, alla qualità dello scambio comunicativo, all'efficacia dei messaggi.

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<strong>la</strong> <strong>paro<strong>la</strong></strong> e <strong>la</strong> <strong>cura</strong> <br />

Il pregiudizio: l’evitabile e l’inevitabile delle convinzioni inconsapevoli <br />

Vivere e <strong>la</strong>vorare sotto pregiudizio <br />

Dagmar Rinnenburger <br />

Conosco il pregiudizio per esperienza diretta: nel<strong>la</strong> vita sociale e in quel<strong>la</strong> professionale. Sono <br />

tedesca, trasferita in Italia da quasi 25 anni; come medico <strong>la</strong>voro in un ospedale pubblico. Anche <br />

se parlo bene l’italiano, ho un po’ di accento; fisicamente risulto nordica al primo sguardo. Non <br />

posso impedire che qualcuno affermi: “Lei non è di lingua italiana: non avrà capito”. Oppure che al <br />

mercato venga interpel<strong>la</strong>ta in inglese. <br />

L’essere considerata tedesca emerge nelle forme imprevedibili del<strong>la</strong> vita quotidiana. In ospedale <br />

quando fa caldo e tutti sbuffano, se mi <strong>la</strong>mento io mi dicono: “Certo, tu non sei abituata”. Se <br />

invece come gli altri mi <strong>la</strong>gno del freddo, mi becco: “Ma come: tu dovresti essere abituata”. Per <br />

non par<strong>la</strong>re dei pregiudizi alimentari. Chi è invitato a mangiare a casa mia viene con sospetto: “Sai, <br />

tutte le vostra salse tedesche… Fanno male e voi le mettete dappertutto”. Gli ospiti si ri<strong>la</strong>ssano <br />

solo quando vedono che non si serve il cappuccino a cena, accanto al tubetto di senape e di <br />

ketchup. E non parliamo dell’aspetto delle donne nordiche, considerate genericamente sgraziate e <br />

malvestite (sul<strong>la</strong> falsariga del<strong>la</strong> cancelliera Merkel; “Donna tosta, però”, si aggiunge in genere con <br />

benevolenza). <br />

Ma è soprattutto nell’ambito professionale che sento più forte il peso dei pregiudizi culturali. <br />

L’ho percepito fin dall’inizio del mio trasferimento in Italia, in partico<strong>la</strong>re nel mio modo di <br />

rapportarmi con i pazienti. Una delle prime esperienze mi è rimasta impressa. Avevo iniziato a <br />

spiegare a una ma<strong>la</strong>ta di sclerosi <strong>la</strong>terale amiotrofica il decorso del<strong>la</strong> ma<strong>la</strong>ttia; il mio intento era <br />

quello di illustrarle le alternative che le si aprivano davanti riguardo ai possibili trattamenti e <br />

sondare se voleva partecipare consapevolmente alle decisioni. Una collega mi ha confrontato <br />

duramente, accusandomi di essere crudele e insensibile. A causa del mio essere tedesca… <br />

L’atteggiamento più diffuso tra i colleghi era l’omissione di informazioni: i ma<strong>la</strong>ti di ma<strong>la</strong>ttie <br />

croniche e degenerative erano sistematicamente tenuti all’oscuro. Il più cinico degli atteggiamenti <br />

dei medici lo trovavo in oncologia: <strong>la</strong> flebo rossa del citostatico, i capelli caduti sul cuscino, mentre <br />

medici e infermieri par<strong>la</strong>vano di una brutta polmonite… Questo era ritenuto essere <br />

compassionevoli. Se proponevo l’informazione e il coinvolgimento del paziente nelle scelte, non <br />

si voleva vedere <strong>la</strong> questione etica sottostante, ma tutto veniva ricondotto a una diversa <br />

sensibilità culturale: quel<strong>la</strong> tedesca, appunto, in contrasto con quel<strong>la</strong> dolce e protettiva di stampo <br />

mediterraneo. Le cose nel frattempo sono cambiate anche in Italia, con <strong>la</strong> diffusione del consenso <br />

informato. Tuttavia ho sempre l’impressione che <strong>la</strong> comunicazione aperta mi venga addebitata <br />

come un tratto culturale, piuttosto che come un’esigenza del<strong>la</strong> buona medicina. <br />

Qualche volta il pregiudizio cade a mio favore. C’è chi mi confessa che mi sceglie per il mio nome <br />

tedesco: “Sa, dottoressa: voi <strong>la</strong>vorate meglio, siete più ordinati, più coscienziosi”. “Certo, siete <br />

anche molto severi”, concluse una volta un paziente dopo aver decantato le mie presunte qualità <br />

tedesche: io non avevo ancora aperto bocca. Il commento più stridente l’ho avuto da una paziente <br />

americana. Mi ha confessato che viene a farsi <strong>cura</strong>re da me perché evita i medici italiani: “Gli <br />

italiani sono Untermenschen (“sottouomini”: il termine con cui i nazisti designavano le razze <br />

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