VIVERE CON LA FIBROSI CISTICAdi Rachele PerbelliniSto sul fronte della valanga. E ancora vivoIn corridoio mi raggiunge la vocedi Bice: «È arrivato Marco!». E midomando che faccia avrà l’adultoche da bambino mangiava un kilo dimiele alla settimana, storceva il collodavanti alle fette biscottate con il burroe faceva osservare alla nonna preoccupata:«Questo bambino è tropposalato e cresce come i gerani quandoli tieni dentro d’inverno». «Sai che filano…– mi aveva spiegato Bice. «Allostesso modo Marco cresceva moltoma non in maniera armonica. Era moltolungo e un po’ patito. Un bambinoesile. Aveva 7 anni quando diagnosticaronola malattia. Allora iniziarono aspiegarsi alcune cose: mangiava <strong>tu</strong>ttoquel miele e detestava il burro perchéassorbiva solo gli zuccheri e inconsapevolmenteandava a cercare le coseche facevano bene al suo organismo.Inoltre, scoloriva la parte superiore dellenzuolo, dove mettevo dentro il piumino,perché aveva una concentrazionedi cloro nel sudore particolarmenteelevata [si tratta di uno dei parametriche individuano la fibrosi cistica]».Varco la soglia della cucina e stalì, di fronte a me, con gliocchi pieni di cielo e la «mano tesa. È alto e slanciatoe ha la barba dallasua. Non sembra affattomalato. So di cosa parleremoe mi sento già abbastanza a disagiosenza dovermi chiedere se avràvoglia di rispondere. Marco si muovesciolto, con gesti misurati, da signore.Ha imparato a fare economia di parole.È uno che pensa, perciò quandoparla gliene bastano poche.Esordisco con una premessa: le miedomande saranno quelle dell’uomodella strada, di un profano, insomma.So che la fibrosi cistica è una malattia39 anni, la passioneper l’alpinismo e il fiatocorto per la fibrosi cistica.Eppure Marco si dimenticadi essere malato e regalaa chi lo incontra un pezzodella sua montagnaincantata, quella sulla qualeogni giorno costruiscela sua felicitàgenetica grave che interessa soprat<strong>tu</strong>ttopolmoni e pancreas. È degenerativae le cure at<strong>tu</strong>ali ne rallentano soloil decorso, ma non la guariscono. Holetto <strong>anche</strong> che la durata media di vitaè di 36 anni. So che Marco ne ha 39,è sposato, lavora ed è tra i pazientipiù vecchi. Quello che mi piacerebbeconoscere sono le domande chesi faceva da bambino, come si sonotrasformate durante l’adolescenza ela giovinezza e quali risposteè arrivato a darsiin età adulta.«Sapevo di mia sorellamorta per la stessa malattia»,attacca Marco. Parlapiano. Con tono gentile. «Per me,l’equazione è sempre stata malattiauguale morte. Mamma ha iniziatomolto presto a collaborare con l’AssociazioneVeneta Mucoviscidosi,quindi in casa c’era materiale informativo.Na<strong>tu</strong>ralmente leggevo <strong>tu</strong>tto.La mortalità era sempre scritta e così,a forza di leggerlo, sono diventatomalato epistemologico. Sapevo che lamalattia portava a una morte rapida eLe domande suimassimi sistemile ho evitate »scomoda. Ho sempre avuto l’idea chela mia vita sarebbe stata comunquebreve. Amo lo sci alpinismo. Lo usoper farti una metafora. Hai presentegli sciatori inseguiti da una valanga?Ecco, io sto sul fronte della valanga eper ora non mi sono fatto ancora travolgere».Decisamente no, mi dico.E intanto Marco continua: «Ancheperché quando avevo 10 anni l’aspettativadi vita era di 16. Quando necompii 16 era cresciuta a 20. Ora neho 39 e l’età media è di 36. Penso chela stessa sorte non tocchi a <strong>tu</strong>tti. Midico: “Sei un sopravvissuto”».Parla come un libro stampato e davverone deve avere letti molti o per lomeno quelli che contano. Cita Diceriadell’untore di Gesualdo Bufalino. «Lamontagna incantata di Thomas Mannl’hai letto?». «No, – rispondo – era inun’edizione troppo costosa ed è finitache non l’ho mai comprata». <strong>Entra</strong>mbiraccontano la malattia come si<strong>tu</strong>azioneesistenziale e hanno la stessa forzae la stessa poesia delle parole diMarco. «Il <strong>tu</strong>o cervello ti dice che staimale e le domande sono semanticamentesempre le stesse ma ontologicamentesempre diverse perché le cosecambiano nelle diverse fasi della vita.Comunque le domande sui massimisistemi le ho evitate perché credevo disapere le risposte».Lo incalzo: «So <strong>anche</strong> che vi dovetesottoporre a una terapia continua».Sorride. «In 30 anni di cure sono passatodai semplici antibiotici per boccapresi ogni tanto e la fisioterapia giornaliera,agli antibiotici in infusionecontinua e all’ossigenoterapia not<strong>tu</strong>rnaalla necessità. In questa fase dellamia vita faccio circa 3 ore al giornodi fisioterapia respiratoria ed aerosolvari – per lo meno dovrei. Nei mo-20 NOTIZIARIO FFC N. <strong>29</strong> DICEMBRE 2010
Bisogna scendercia patti con la vita »menti di riacutizzazione, poi, il tempoda dedicare alla malattia raddoppia.Penso a una persona sana, allosforzo che deve fare semplicementeper ricordare di prendere una pastiglia,la sera, per pochi giorni. L’ideadi sottomettersi a una regola del tipocura le è intollerabile. Io prendo trale 30 e le 40 pastiglie al giorno. Laterapia a vita porta via tante energiementali e ne richiede altrettante permantenere la lucidità. Più sto malepiù divento cinico e irriverente».Non è difficile credergli. Marco èabbastanza diretto da non amare leperifrasi. Chiama ogni cosa con il suonome e non si fa sconti. Me lo avevaanticipato Bice, la sua mamma. «Se glidicevano fai così così e così, cascassel’universo faceva così così e così».Prosegue Marco: «Bisogna scendercia patti con la vita. Avrei voluto esserepiù alto, avere un fisico più atletico.Superata l’adolescenza te ne fai unaragione e te la metti via».Conosce a memoria le Dolomiti.Di <strong>tu</strong>tte le cime cita nomi e altezze.Molte le ha pure scalate. Mi mostra lefoto che ha scattato: roccia, azzurro ealti pascoli. Mi indica il punto in cuisi è fatto il bagno sotto una cascata equello di un sentiero sfuggito alla suaesperienza. «E questo è un raperonzolodi montagna – dice puntando ildito verso lo schermo. «Cresce solosulle rocce. L’ho incontratoe gli ho fatto unafoto. Vedi? Cresce su un«cucchiaio di terra». Senzaguardarlo penso alladelicatezza di quelle parole. Intantomi mostra altre fotografie. «Questoè il lago di Misurina dall’alto. Guardandoquell’isola a forma di cuore hopensato potesse essere di buon auspicioper il mio matrimonio».Ritorno alle domande sui massimisistemi del mondo: «Dunque capitano<strong>anche</strong> cose belle: si scalano le montagne,ci s’innamora e ci si sposa. Nonostantela terapia continua ci sonodei momenti in cui riuscite a dimenticaredi essere malati?». Silenzio. Marcomi guarda. Sembra perplesso. Unpo’ serio un po’ divertito. Passa <strong>tu</strong>ttodietro il suo sguardo perché il viso restaimmobile. Poi dice: «Io non sonosicuro di pensare a me stesso come auna persona malata». Lo fisso senzapunti d’appoggio. Lui lo chiama spiritodi sopravvivenza, dimostrandosilucido una volta di più. Non si puòspendere <strong>tu</strong>tto il tempo a meditaresulla morte, l’accidentalitàdella vita, la precarietàdel respiro. Sene esce di senno. Ma,certo, quando Irene (suamoglie) gli chiede se è felice la suarisposta è sempre la stessa, perché sì,lo è, ma non come vorrebbe. «Perchéso di non poterle promettere di piùdel presente, assicurarle di esserlesempre vicino». Ma chi può?Mi mostra altri scatti. C’è il lago Barcise in lontananza <strong>anche</strong> l’Antelao.Marco insegna: «3264 metri. Un giornovorrei ritornarci. Molto probabilmentelo farò davvero. Penso di rifarlosoprat<strong>tu</strong>tto quando sono in difficoltàDall’alto in senso orario: Marco sul monteServa; sulla neve con alle spalle il Pelmo;con la moglie Irene nel giorno del loromatrimonio; con il padre mentre cura le arniea fare le scale di casa e ho bisogno diuno sprone alto quanto le mie difficoltà».È la sua montagna incantata. Senzaaccorgermene, ne trasporto un poca incittà, dove mi attende un’altra montagnaincantata, che in questi giorni, lasera, ripongo sul comodino.Pensavo che avrei raccontato unastoria di malattia. Invece mi accorgodi avere scritto una storia di vita.Dentro gli occhi la tenacia di vivere diMarco, che questa volta, ma solo <strong>nella</strong>mia immaginazione, se ne sta distesosull’erba faccia al cielo e mi risponderubando le parole a John Fante: «Stosulla riva dell’acqua e sogno». Sostenerela ricerca, mi dico, è l’unicomodo per resti<strong>tu</strong>ire sogni di vita, anzi,semplicemente sogni. A <strong>tu</strong>tto il restopoi, ci penserà la vita, appunto. nNOTIZIARIO FFC N. <strong>29</strong> DICEMBRE 201021