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Cultura Italiana a Oriente

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conto che temeva non tanto il rimprovero quantola semplice testimonianza di atti che lui stessoavvertiva anormali e misteriosamente intrisi dicolpevolezza.Dai fiori e dalle piante agli animali, il passaggiofu insensibile, come lo è in natura. Marcello nonavrebbe potuto dire quando si accorse che quellostesso piacere che provava nello schiantare le piantee nel decapitare i fiori, gli si rivelava più intensoe più profondo nell’infliggere le stesse violenzeagli animali. Forse fu soltanto il caso che lo spinsesu questa via, un colpo di giunco che, invece distorpiare un arbusto, colpì sulla schiena una lucertolaaddormentata su un ramo o forse un principio dinoia e di sazietà che gli suggerì di cercare nuovamateria sulla quale esercitare la crudeltà ancorainconsapevole. Comunque, un pomeriggio silenziosoche tutti in casa dormivano, Marcello si ritrovò adun tratto, come colpito da una folgore di rimorsoe di vergogna, davanti ad una strage di lucertole.Erano cinque o sei lucertole che con varii modi erariuscito a scovare sui rami degli alberi o sulle pietredel muro di cinta, fulminandole con un solo colpodi giunco proprio nel momento in cui, insospettitedalla sua presenza immobile, cercavano di fuggireverso qualche riparo. Come fosse giunto a questonon avrebbe saputo dire o meglio preferiva nonricordarlo, ma ormai tutto era finito e non restavache il sole ardente e impuro sui corpi sanguinolentie lordi di polvere delle lucertole morte. Egli stavain piedi davanti al marciapiede di cemento sul qualegiacevano le lucertole, il giunco stretto in pugno; esentiva ancora per il corpo e sul viso l’eccitazioneche l’aveva invaso durante la strage, ma non piùpiacevolmente fervida, come era stata allora, bensìgià trascolorante nel rimorso e nella vergogna. Sirendeva conto, inoltre, che al solito sentimentodi crudeltà e di potenza si era aggiunto questavolta un turbamento particolare, nuovo per lui,inspiegabilmente fisico; e, insieme con la vergognae il rimorso, provava un confuso senso di spavento.Come a scoprire in se stesso un carattere del tuttoanormale, di cui dovesse vergognarsi, che dovessemantenere segreto per non vergognarsi oltre che conse stesso anche con gli altri e che, di conseguenza,lo avrebbe per sempre separato dalla società deicoetanei. Non c’era dubbio, egli era diverso dairagazzi della sua età che, loro, non si dedicavanoné insieme né soli a simili passatempi; e per giuntadiverso in maniera definitiva. Perché le lucertoleerano morte, su questo non c’era dubbio e questamorte e gli atti da lui compiuti, crudeli e folli, perprovocarla, erano irreperibili. Egli era, insomma,quegli atti, come in passato era stato altri atti deltutto innocenti e normali.Quel giorno, a conferma di questa scoperta cosìnuova e così dolorosa della propria anormalità,Marcello volle confrontarsi con un suo piccoloamico, Roberto, che abitava nel villino attiguo alsuo. Verso il crepuscolo, Roberto, dopo aver finitodi studiare, scendeva in giardino; e fino all’oradella cena, per mutuo consenso delle famiglie, idue ragazzi giocavano insieme, ora nel giardinodell’uno ora in quello dell’altro. Marcello aspettòquel momento con impazienza, per tutto il lungopomeriggio silenzioso, solo in camera sua, distesosul letto. I genitori erano usciti, in casa non c’erache la cuoca di cui, ogni tanto, udiva la voce checantarellava sommessamente nella cucina, alpianterreno. Di solito, il pomeriggio, studiava ogiocava, solo nella propria camera; ma quel giornoné gli studi né il gioco lo attraevano; si sentivaincapace di fare quel che sia e al tempo stessofuriosamente insofferente dell’ozio: lo paralizzavanoe, insieme, lo spazientivano lo sgomento dellascoperta che gli pareva di aver fatto e la speranzache questo sgomento venisse dissipato dal prossimoincontro con Roberto.Se Roberto gli avesse detto che anche luiuccideva le lucertole e che gli piaceva ucciderle enon vedeva alcun male nell’ucciderle, gli sembravache ogni senso di anormalità sarebbe scomparso eche egli avrebbe potuto guardare con indifferenzaalla strage delle lucertole come ad un incidenteprivo di significato e senza conseguenze. Nonavrebbe saputo dire perché attribuisse tanta autoritàa Roberto; oscuramente pensava che se ancheRoberto faceva di queste cose e in quel modo econ quei sentimenti, questo voleva dire che tutti lefacevano; e quel che tutti facevano era normale ossiabene. Queste riflessioni non erano, d’altronde, benchiare nella mente di Marcello e gli si presentavanopiuttosto come sentimenti e impulsi profondi checome pensieri precisi. Ma di un fatto gli pareva diessere sicuro: dalla risposta di Roberto dipendeva latranquillità del suo animo.In questa speranza e in questo sgomento, aspettòcon impazienza l’ora del crepuscolo. Stava quasiper assopirsi, quando, dal giardino, gli giunse unlungo fischio modulato: era il segnale convenutocon il quale Roberto avvertiva della sua presenza.Marcello si levò dal letto e, senza accender luci,nella penombra del tramonto, uscì dalla camera,discese la scala e si affacciò al giardino.Nella luce bassa del crepuscolo estivo gli alberistavano immobili e aggrondati; sotto i rami, l’ombraappariva già notturna. Esalazioni floreali, odor dipolvere, irradiazioni solari emananti dalla terrariscaldata stagnavano per l’aria immobile e densa.La cancellata che divideva il giardino di Marcello daquello di Roberto scompariva completamente sottoun’edera gigantesca, folta e profonda, simile ad unmuro di foglie sovrapposte. Marcello andò dritto adun angolo in fondo al giardino dove l’edera e l’ombraerano più fitte, salì in piedi su un grosso sasso e conun solo gesto deliberato scostò tutta una massa dirampicante. Era stato lui ad inventare quella speciedi sportello nel fogliame dell’edera, per un sensodi gioco segreto e avventuroso. Spostata l’edera,apparvero le sbarre della cancellata e, tra le sbarre, ilviso fine e pallido, sotto i capelli biondi, dell’amicoRoberto. Marcello si alzò in punta di piedi sul sassoe domandò: “Nessuno ci ha visti?”Era la formula d’inizio di questo loro gioco,Roberto rispose come recitando una lezione: “No,nessuno...” E poi dopo un momento: “Hai studiato,tu?”Parlava sussurrando altro procedimentoconvenuto. Sussurrando anche lui, Marcello rispose:“No, oggi non ho studiato... non avevo voglia... diròalla maestra che mi sentivo male.”“Io ho scritto il compito di italiano,” mormoròRoberto, “e ho fatto anche uno dei problemi diaritmetica... me ne resta un altro... perché non haistudiato?”Era la domanda che Marcello si aspettava: “Nonho studiato”, rispose, “perché ho dato la cacciaalle lucertole.” Sperava che Roberto gli dicesse:“Ah davvero... anch’io qualche volta do la cacciaalle lucertole,” o qualche cosa di simile. Ma il visodi Roberto non esprimeva alcuna complicità eneppure curiosità. Soggiunse con sforzo, cercandodi dissimulate il proprio imbarazzo: “Le ho uccisetutte.”Roberto prudentemente domandò: “Quante?”“Sette in tutto,” rispose Marcello. E poi,sforzandosi ad una vanteria tecnica e informativa:“Stavano sui rami degli alberi e sui sassi... io hoaspettato che si muovessero e poi le ho colte alvolo... con un solo colpo di questo giunco... un colpoper una.” Fece una smorfia di compiacimento emostrò il giunco a Roberto.Vide l’altro guardarlo con una curiosità nondisgiunta da una specie di meraviglia: “Perché le haiammazzate?”“Così,” egli esitò, stava sul punto di dire:“perché mi faceva piacere,” poi non sapeva neppurlui perché, si trattenne e rispose: “Perché sonodannose... non lo sai che le lucertole sono dannose?”“No,” disse Roberto, “non lo sapevo... dannose ache cosa?”“Mangiano l’uva,” disse Marcello, “l’altr’anno,in campagna, hanno mangiato tutta l’uva dellapergola.”“Ma qui non c’è uva.”“E poi,” egli continuò senza curarsi di raccoglierel’obbiezione, “sono cattive... una, come mi ha visto,invece di scappare, mi è venuta addosso con labocca spalancata... se non l’avessi fermata a tempo,mi saltava addosso...” Egli tacque un momento poi,più confidenzialmente, soggiunse: “Tu non ne haimai ammazzate?”Roberto scosse il capo e rispose: “No, mai.”Quindi abbassando gli occhi, compunto in viso:“Dicono che non bisogna far male agli animali.”“Chi lo dice?”“La mamma.”“Dicono tante cose...” disse Marcello sempremeno sicuro di sé, “ma tu prova, stupido... ti assicuroche è divertente.”“No, non proverò.”“E perché?”“Perché è male.”Così non c’era niente da fare, pensò Marcellocon disappunto. Gli venne un impeto d’ira control’amico che, senza rendersene conto, lo inchiodavaalla propria anormalità. Riuscì tuttavia a dominarsie propose: “Guarda, domani rifaccio la caccia allelucertole… se tu vieni a dar la caccia con me, tiregalo il mazzo delle carte del Mercante in Fiera.”Sapeva che per Roberto l’offerta era tentante:aveva più volte espresso il desiderio di possederequel mazzo. E infatti Roberto, come illuminato dauna subita ispirazione, rispose: “Io vengo a cacciama a un patto: che le prendiamo vive e poi lechiudiamo in una scatolina e poi le lasciamo libere…e tu mi dai il mazzo.”“Questo no,” disse Marcello, “il bello sta proprionel colpirle con questo giunco… scommetto che nonne sei capace.”L’altro non disse nulla. Marcello proseguì: “Alloravieni... siamo intesi… ma cercati anche tu ungiunco.”“No,” disse Roberto con ostinazione, “non verrò.”“Ma perché? È nuovo quel mazzo.”“No, è inutile,” disse Roberto, “io le lucertole nonle ammazzo… neppure se,” egli esitò cercando unoggetto di un valore proporzionato, “neppure se midai la tua pistola.”Marcello comprese che non c’era niente da faree tutto ad un tratto, si lasciò andare all’ira che glibolliva da qualche momento nel petto: “Non vuoi24 25

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