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un caffè letterario - Comunità Italiana

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16Gennaio / 2005Gennaio / 200517tare i pantaloni l<strong>un</strong>ghi, presi atornare in piazza Vittorio. Daallora e per <strong>un</strong> l<strong>un</strong>go periodo,la piazza ebbe <strong>un</strong> esclusivop<strong>un</strong>to di attrazione: le GiubbeRosse e l’<strong>un</strong>iverso artisticoe <strong>letterario</strong> che dietro quellavetrata magica, quella speciedi porta del Parnaso, accendevaper me di miraggi coloratiil desertico sfondo della genteordinaria, dei “borghesi” cheleggevano il giornale o se nestavano senza far niente, seduticome grigi, immobili esilenziosi ectoplasmi, davantia cappuccini brioches granitee cioccolate in tazza. Io,già stregato da fitte se pur disordinateletture, ero arrivatolì <strong>un</strong> po’ a ritrovarvi l’ombradi mio padre, ma anche incerca di emozioni per nutrirele mie fantasie libresche. Inbreve, senza che neppure mene rendessi conto, cominciaia considerarmi <strong>un</strong>o di quellaparte dell’ambiente che eraviva e colorata e dove, in definitiva,mi ero aggirato sin dabambino. Infine, tra i diciassettee i vent’anni, lo divennidavvero, essendo ormai <strong>un</strong>tuttofare dell’intellettualità.Ai tempi di mio padre, <strong>un</strong>odei tipi che mi avevano piùcolpito era stato Ottone Rosai.In tutto <strong>un</strong> omaccione: alto,robusto, il volto dai lineamentitirati via a colpi di sgorbia,due manacce, <strong>un</strong>a voceadatta al parlare senza finezze.Arrivato in piazza Vittorioper la mia seconda frequentazionenon mi dispiaceva attardarmial suo tavolino. Eronel pieno di ardori futuristie avanguardisti e, allargati imiei orizzonti al costruttivismo,al dada e al surrealismo,ero gi<strong>un</strong>to alla conclusioneche le avanguardie letterariee artistiche fossero <strong>un</strong>a autenticarivoluzione delle intelligenze,l’<strong>un</strong>ica (lo proclamai“Alle GiubbeRosse, risalendoil fiume delleletture, cercavole tracce dellasorgentefuturista, ilqualcosa chedoveva puressere rimasto,imbevutonei muri,inventariato dagliantichi specchi,delle voci edelle immagini,del clima deLacerba”con l’enfasi e l’esagerazionedella giovinezza) nella qualesi poteva contare per <strong>un</strong>asperanza di rinnovamento.Alle Giubbe Rosse, risalendoil fiume delle letture, cercavole tracce della sorgente futurista,il qualcosa che dovevapur essere rimasto, imbevutonei muri, inventariato dagliantichi specchi, delle voci edelle immagini, del clima deLacerba. E mi stupivo di quantofossero distanti dagli ardorimarinettiani i protagonisti diquelle passate avventure cheora mi avevano in amicizia.Ne fui sorpreso e sbigottito,specie nell’osservare il Sofficiche sovrastava ogni altro nellamia considerazione e cheera al centro delle mie venerazioni.Ottone Rosai era, precisostampato, tale e quale <strong>un</strong>opoteva immaginarselo dopoaver letto Il libro di <strong>un</strong> teppista.Nel fisico che dichiaravaforza e certezza, nel tonoalto e grave della parola,nell’irruenza dell’argomentare,nella ferocia delle invettive.“Quella troia di...”, dicevaparlando di <strong>un</strong> famoso personaggiodi quei giorni. E subito,però, giudizi attenti, rispostechiare rivolte all’interessatoche non c’era ma al quale,era sottinteso, il tutto sarebbepoi stato abbondantemente riferito.“Quella merda di...”, equella era l’espressione massimadel suo disprezzo perqualc<strong>un</strong>o.Le parolacce erano perOttone anche <strong>un</strong> intercalare,<strong>un</strong> tirare il fiato in mezzo aidiscorsi seri. C’è di più: a dispettodelle apparenze becere,e a dispetto delle sicurezzeche la sua fisicità desse a vedere,mi resi conto col tempoche quell’aggressività celava<strong>un</strong> carattere tuttaltro che spavaldoe <strong>un</strong>a natura agitata davizi oscuri. L’arditismo ostentato,poi, era <strong>un</strong>a voglia di tirarsifuori dalla truppa, di raggi<strong>un</strong>gerein <strong>un</strong> qualche avampostoamici di pari levatura eassieme a loro sottrarsi al pesodella solitudine ed essere daloro aiutato a lottare contro lacittà che era la sua. La Firenzeche si ostinava a non capirloe a osteggiarlo, come avevasempre fatto con chi avevapreteso di innalzarsi su di lei.“E’ <strong>un</strong>a città di merda...E’ <strong>un</strong>acittà di merda...”. Le rivolgeval’insulto maggiore di cuiera capace, senza acrimonia,con l’incredulità e il lamentodi <strong>un</strong> bambino maltrattatodalla mamma.Molti anni avanti, si sa, <strong>un</strong>altro incompreso, Dino Campana,passava tra quegli stessitavoli delle Giubbe recandosottobraccio quattro o cinquecopie dei suoi Canti orfici,<strong>un</strong>o dei più autentici libri dipoesia di questo secolo, tentandodi affibbiarne qualc<strong>un</strong>aai “borghesi” fiorentini. E trovatol’acquirente lo guardavain faccia e poi cercava nel libro,attentamente, alc<strong>un</strong>e paginee le strappava: “Queste,lei non le potrebbe capire”,diceva. E avvenne che a certitipi vendesse soltanto la copertinadel libro.Ecco il mondo in cui simuoveva l’Ottone Rosai cheio giovanetto inondavo disguardi curiosi. Erano, quelli,anni piuttosto cupi e, al di làdelle passioni futuriste, avvertivo<strong>un</strong> incalzante bisogno dinovità e di luce. Attorno era<strong>un</strong> dilagare di conformismi,di divise che erano anchementali, oltre a quelle di stoffache il regime imponeva.Quell’atmosfera noiosa potevafar pensare, a chi c’era natodentro, di esser venuto almondo in <strong>un</strong>a terra di pococonto. Fu quindi tranquillizzantemotivo di speranza loscoprire, leggendo libri e frequentandole Giubbe Rosse,<strong>un</strong>a ben diversa realtà.Seppi che c’erano due Firenze.L’<strong>un</strong>a, dove viveva lamaggior parte della sua gente,era <strong>un</strong>a Firenze mummificata,<strong>un</strong>a sorta di museo dov’eranoconservate testimonianze diantichi fasti e grandezze, <strong>un</strong>luogo immobile da secoli,dove per convenienza era doverosocamminare in p<strong>un</strong>ta dipiedi per non disturbare i forestieriche arrivavano a venerarele reliquie e che perciòdovevano essere servitie blanditi (“E’ Firenze quellacosa“ / Dove tutto sa di muffa/ Tutto vive sulla truffa, /“Movimento forestier” ironizzava<strong>un</strong> sonetto maltusianodell’Almanacco purgativo1914). Per questa Firenze, seè vero che qui i grandi artistihan sempre odorato di zolfo,noi, loro progenie, saremmocome quei bimbi del paradisozavattiniano, che lassù nelluogo celestiale se ne stannoin <strong>un</strong> angolo - soli, tristi e malinconici- perché hanno i genitoriall’inferno.L’altra Firenze, quella cheaveva eletto i caffè a suoi capitalie della quale esigevo lacittadinanza, proclamava chela vita è continuata fino allanostra epoca e che i discendentidegli antichi grandi nonsono rimasti nell’angolo soli emalinconici ma son cresciuti,meritandosi anch’essi famadi grandezza e l’ingresso, accantoai progenitori, nell’infocatorad<strong>un</strong>o di delizie dell’intelligenzadove è sicuramentebandita la noia.Fu parlando con Rosai, epoi con Soffici e conquistandol’amicizia di Lucio Venna,Romano Bilenchi, CarloParenti, Primo Conti e AlfonsoGatto che potei capire e in<strong>un</strong> certo senso vivere da vicino,attraverso i loro racconti,la vicenda di quelle riviste incui l’intelligenza toscana avevatrovato modo di manifestarsi,spesso nonostante l’accidiosaostilità dei “borghesi”conterranei. Non per nienteSoffici e Papini, nel dare allaluce Lacerba il primo gennaiodel 1913, avevano posto sottola testata il distico “Qui non sicanta al modo delle rane” esi erano richiamati nel titoloa L’Acerba di Cecco d’Ascoli,l’astrologo bruciato vivocome eretico nel 1327. Peri futuristi a Firenze ci furonoderisioni e insulti, ma ci volevaben altro per metterli atacere.I futuristi si divertivano,nelle loro chiassate. E scrivevano,dipingevano, facevanoarchitettura, moda, musica,teatro, cinema, sempre divertendosi.Questo diceva Rosai,e io avvertivo del rimpiantonelle sue descrizioni, e misforzavo di capire dove ci fosse<strong>un</strong> fedele quadro di allorae dove l’umana nostalgia di<strong>un</strong>a lontana gioventù.Gli dava noia in <strong>un</strong> artistao in <strong>un</strong> letterato l’esser troppoconciliante, l’imborghesire,persino l’eleganza e addiritturail buon ordine dei vestitie la cura della persona. Avevaben capito il suo carattereil povero Ugo Tommei (morì,ventiquattrenne, a Caporetto)inventore di Quartiere latinoe autore su L’Italia futurista diprogetti per <strong>un</strong> “domani frenetico”.Passando da Firenzeper l’ultimo suo ritorno versoil fronte e non avendo trovatoin città l’amico Rosai, gli avevarivolto <strong>un</strong> saluto malinconicoche conteneva <strong>un</strong> ritrattofolgorante, nella brevità deidue versi finali: “Una grondaiagocciola gocciola / sullatettoia di <strong>un</strong> baraccone / io eRosai si fanno progetti / di <strong>un</strong>agrande opera in collaborazione./ O Rosai se tu tornassi / sifarebbe insiem baldoria / giàsi sa che la tua gloria / vuolesser detta coi sassi”.Anch’io vidi Rosai chiusonella sua scorza, nel suo scriverela vita coi sassi, ma nonera difficile scoprirlo, nei momentidi abbandono, alle presecon la malinconia e con leansie di quei suoi profondi affettifuori dalle regole, per noiindecifrabili e osservati condisagio.16 17

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