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ARGOMENTI Da una considerazione di Mel Brooks, lo spunto per una riflessione con l’attrice e autrice Giuliana Musso di Filippo Bordignon La questione del politically correct si sta allargando a macchia d’olio a livello mondiale: un numero crescente di artisti di prima grandezza denuncia pubblicamente l’insofferenza nel doversi attenere, rispetto alle proprie scelte creative, a tutti i paletti imposti da una società globalizzata che, per il proprio benessere, cavalca il baluardo dell’inclusività a tutto tondo, anche a costo di escludere chi non è disposto ad adeguarsi a questo nuovo corso. Perché il rischio è duplice: trascurando di rispettare i valori di un qualche gruppo minoritario, ci si preclude di rimando una papapile fetta di pubblico pagante e, oltre a ciò, si rischia, nei casi peggiori, una denuncia per aver leso, anche indirettamente, dignità o sensibilità di un dato soggetto. È un rischio sempre più concreto, soprattutto nell’attuale periodo storico, in cui l’opinione pubblica si plasma a partire da social network in cui conta chi ragiona con la pancia, per mantenere visibile il miraggio di uno scandalo costante. Fa riflettere, perciò, il grido d’allarme lanciato da un colosso della comicità Made in Usa, il regista e attore Mel Brooks, il quale ha evidenziato come oggi sarebbe impossibile girare Ma il teatro può essere politicamente corretto? una commedia al vetriolo quale il suo Mezzogiorno e mezzo di fuoco e aggiunge: «La commedia deve destreggiarsi sul filo del rasoio, deve correre rischi. La commedia è il piccolo elfo lascivo che sussurra nell’orecchio del re, dicendo sempre la verità sul comportamento umano». In occasione della trasposizione teatrale prevista per il 2024 del capolavoro dei Monty Python Brian di Nazareth, è stato invece chiesto all’attore John Cleese, cofondatore del leggendario gruppo comico britannico, di rimuovere lo sketch dove uno dei protagonisti maschili dichiara l’intenzione di essere considerato una donna e di generare un figlio; a offendere la comunità lgbt, la battuta che definisce queste intenzioni una Giuliana Musso in una foto Matteo Lavazza 10 11
«lotta contro la realtà». Cleese si è limitato a ribattere che, nonostante la sensibilità moderna, lo sketch non verrà rimosso. Contro Cleese, Brooks e tanti altri artisti maiuscoli, si ergono i paladini del wokeism, una giovane generazione di persone che si è scoperta capace di raddrizzare ogni stortura, denunciando a pieni polmoni ogni battuta, sketch o opera artistica che si permetta di ironizzare o fare satira su una qualche minoranza etnica o di altro genere. Una prima perplessità rispetto ai “ragazzi woke” è questa: la cosiddetta generazione Z vanta oggettività e capacità di analisi tali da permetterle di separare la fuffa dalla sostanza? In breve, è sveglia abbastanza per arrogarsi un tale fardello ma, soprattutto, lo è nei fatti imprescindibili e non di superficie? La questione è complessa e delicata sicché, per meglio eviscerarne i punti salienti, abbiamo chiesto alla regista e attrice di origini vicentine Giuliana Musso, autrice di un teatro della compassione che scandaglia fatti della contemporaneità con originalità e pluripremiato talento, di darci il suo punto di vista. L’opinione di Giuliana Musso «I linguaggi della comicità e della satira vanno difesi, questo è certo. Ma va fatta una considerazione: chi ride dei deboli, delle vittime, sta prendendo una posizione precisa a fianco ai loro carnefici» attacca lapidaria. La “cancel culture” imperante, però, non si limita a rimuovere le statue e i simboli del male conclamato (pensiamo alle statue di sanguinari dittatori abbattute alla caduta dei loro regimi); sta prendendo piede infatti l’intenzione di censurare quelle opere artistiche del passato che non rispettano la già citata sensibilità moderna. L’iterazione della parola “negro”, ad esempio, fa sì che gli studenti afroamericani negli States condannino il capolavoro della lettura picaresca di Mark Twain Le avventure di Huckleberry Finn, così come alcuni storici cartoni animati di Walt Disney. Per Disney si parla addirittura di rimuovere le scene incriminate dalle prossime edizioni in dvd, modificando così un’opera senza il volere del suo creatore, avvalendosi al massimo dell’autorizzazione di quelle società che ne detengono i diritti e non vogliono rischiare un calo di gradimento. «Certo, possiamo rimuovere la statua di un dittatore, poiché si tratta di un simbolo negativo ben preciso - prosegue la Musso - Se lei vedesse in una piazza una statua di Hitler, cosa penserebbe? Rimuoviamo uno di quei simboli perché è chiaro che ci ricorda l’omaggio a qualcosa che non vogliamo omaggiare. Credo si possa modificare l’iconografia, a patto che la ragione per cui si fa sia una ragione compresa e condivisa, motivata e rispettosa. Però mi chiedo: è più importante rimuovere una statua o osservarla con lo sguardo giusto? Il problema va spostato sulla consapevolezza, sul rispetto delle vittime della Storia. È questo che deve essere assurto come punto zero». E anche sulla questione della censura a opere d’arte del passato, l’attrice espone una posizione non scontata: «Si tratta di un falso problema. L’unica forma di censura che dobbiamo temere è quella che viene imposta da chi ha il potere. Il resto possono essere discorsi aperti, il vero problema non sta lì. Pensiamo all’Huckleberry Finn: è più importante bandire un testo dove compare iterata la parola ‘negro’ o passare il messaggio di cosa sia significata questa parola in un epoca di terribili violenze, mancanza di diritti e sfruttamento della popolazione di colore?». E l’artista? Come si dovrebbe muovere un artista, sospeso sulla tela di ragno della sensibilità moderna? E se la censura del potere avesse educato le nuove generazioni a una prudente autocensura, per scansare seccature e rischi più grandi? «Nell’arte, l’autenticità di un artista non è un lusso - replica netta la Musso - è un fattore organico e indispensabile. Il problema non è dell’arte ma della società, che può consentire o non consentire l’espressione artistica per ciò che è. Ciò che stiamo perdendo, a ben guardare, è la capacità di tenere insieme nella società le posizioni diverse. Questo è un momento drammatico. In una società veramente democratica, non ci dovrebbe preoccupare così tanto se viene espresso qualcosa che non ci trova d’accordo: anzi, ci dovrebbe preoccupare l’opposto, e cioè che quel qualcosa in cui non siamo d’accordo non possa essere esposto. E invece stiamo solo stringendo le maglie». Mel Brooks in una foto di Angela George, CC BY-SA 3.0 https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10257010 Una celebre massima, erroneamente attribuita a Voltaire, recita: «Non la penso come te ma darei la vita per farti dire quello che pensi». È quel che accade nell’Italia multiculturale del <strong>2023</strong>? «È esattamente l’opposto - conclude l’attrice -. Oggi a teatro ciò che è lievemente disturbante o perturbante fa fatica a trovare spazio. Sono decenni che la cosa va avanti e adesso noi artisti la sentiamo più che mai e riguarda ogni settore, dalla prosa alla satira e fino alla scrittura per la televisione. È questo che ci deve preoccupare. Filosoficamente parlando, il punto è che troviamo molto conforto nell’adattamento e nell’adeguamento alla struttura gerarchica della società: per fare contenti i capi, siamo disposti a tutto. E, di conseguenza, pretendiamo la stessa cosa da chi ci sta sotto. Il diritto alla Parola, dunque al Pensiero, non è più un diritto naturale ma acquisito, a seconda della nostra posizione gerarchica. In una situazione del genere l’unico antidoto, a mio avviso, è tenersi saldi al nostro cuore. Sembra una risposta assurda, ma in realtà ho molta fiducia nel sentimento, quel sentimento che è legato alla verità dei corpi e che è più forte del pensiero». Per chiudere il cerchio su una situazione a oggi irrisolta, torniamo alle dichiarazioni di Brooks. Il regista, denunciata «la società del politically correct che sarà la morte della commedia», aggiunge nella già citata intervista una postilla che ribalta la situazione. Quando il giornalista gli chiede se esiste un soggetto che non impiegherebbe per scopi comici egli evidenzia che, sì, temi come le camere a gas e la tragedia degli ebrei per mano dei nazisti dovrebbero essere intoccabili. E qui, crolla l’effcacia della denuncia brooksiana: perché se ogni artista rivendicasse paletti etici e morali in base alla propria appartenenza a una qualche etnia o gruppo specifico (nel caso di Brooks, le origini ebraiche), ci ritroveremmo al punto di partenza, nell’immobilismo di una società globalizzata in cui ogni passo solleva il polverone di un’indignazione vicina o lontana, gettando l’artista nell’incapacità di raccontare la propria storia senza una mordacchia che, giorno dopo giorno, lo ridurrà incapace di pensare liberamente. 11
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