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ARTA ntis.<strong>info</strong><br />

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ferendo al termine sintetico sia il senso di parziale, dal momento<br />

che si presterà più attenzione ad alcuni temi, tralasciandone<br />

altri, sia quello del raccogliersi attorno a ciò che<br />

nel testo viene individuato come l’essenziale che si agita<br />

al fondo dell’intera riflessione. Quest’avvertenza si fonda<br />

sulla convinzione che la filosofia di Celli non sia una forma<br />

di problematicismo, né espressione del nichilismo contemporaneo<br />

ma contributo alla ripresa di un criticismo neomoderno.<br />

La lettura dell’opera di Celli, tenendo conto del<br />

movimento di riapertura e rilancio proprio del confronto<br />

tra biologia e letteratura, si propone di rispondere alle domande<br />

sollevate dalla stessa riflessione celliana: quali sono<br />

le conseguenze che un concetto come quello di «animalità»<br />

prescrive? O anche: che cosa significa e come è<br />

possibile essere rigorosi con un concetto come quello di<br />

«animalità, ecologia e comunicazione»? Il primo capitolo,<br />

orientandoci a una lettura della vita e di alcune opere<br />

dello studioso italiano, è il tentativo di attraversare l’intera<br />

parabola esistenziale di Celli, rivelandone il movimento<br />

dehors/dedans rispetto ad un milieu di formazione quanto<br />

mai eclettico, tanto che Perretta non ha potuto fare a<br />

meno di prendere in considerazione aspetti decisivi della<br />

riflessione celliana, identificati come “temi importanti”<br />

per un’adeguata comprensione dell’opera. Nel secondo<br />

capitolo viene messo in risalto il tema della scrittura come<br />

risultato dell’analisi incrociata di essere e segno. A partire<br />

dalla “complicazione originaria dell’origine”, che guida<br />

l’intera opera del poeta, Perretta traduce in domanda<br />

l’affermazione celliana secondo cui “il segno è all’inizio”.<br />

Attraverso il concetto di segno, indagato da Celli si giunge<br />

all’affermazione che non esiste nessuna idealità senza<br />

iterabilità e quindi nessuna presenza ideale al di fuori<br />

del raddoppiamento/ripetizione della traccia mediale<br />

dell’animalità. Questo significa che la ragione non potrà<br />

più essere pensata (forse non ha potuto mai esserlo) come<br />

pura e che “fra i gatti” ci si muove tra due principi: “quello<br />

del lucido riconoscimento della necessità di fatto del rinvio<br />

al linguaggio e più precisamente all’iscrizione mondana,<br />

e quello della decisa affermazione di diritto della non<br />

essenzialità del segno”. Ma allora, come si fa esperienza<br />

del linguaggio? Celli avrebbe risposto: nella parola della<br />

poesia/natura; secondo Perretta, fin dal principio, nella<br />

contaminazione della scrittura. Tale prospettiva esibisce la<br />

possibilità di pensare l’esperienza reale a partire dal piano<br />

cui dà vita la scrittura, orizzonte in cui si fa esperienza<br />

dell’esercizio del pensiero. Allora il segno, e dunque il<br />

linguaggio, si configura come lo spazio dell’istituzione, ovvero<br />

come luogo della (im)posizione della differenza che<br />

si fa spazio come condizione della possibilità del segno e<br />

quindi dell’espressione tutta. La scrittura, infatti, custodisce<br />

le due caratteristiche della dinamica differenziale: il luogo,<br />

la permanenza del tratto e il suo superamento, il testo.<br />

Allora l’annotazione letteraria dovrebbe essere riscritta<br />

come “archi-scrittura” cioè movimento della letteratura/<br />

natura, per marcarne il carattere istitutivo e quindi imprescindibile<br />

per l’esperienza in quanto testo. Ecco perché<br />

“non c’è fuori-testo”. Il terzo capitolo, leggendo la storia<br />

dell’opera-teatrale di Celli come logocentrismo, ovvero in<br />

quanto alterazione cosciente, secondo la determinazione<br />

dell’essere come presenza, denuncia ogni forma di dominio<br />

(politico) da parte del soggetto su questo ente fino a<br />

renderlo un oggetto animale. Tale atteggiamento implica<br />

sempre un doppio: da un lato la fase del rovesciamen-<br />

to e dall’altro quella dell’irrompente emergenza di una<br />

nuova immagine che non si lascia annoverare nel regime<br />

anteriore. Non è un metodo, ma una pratica propria del<br />

pensiero che se è, lo è solo operativamente. Il quarto e ultimo<br />

capitolo si concentra sulle tematiche etico-politiche<br />

(preponderanti a partire dalla metà degli anni Ottanta)<br />

della riflessione celliana, nelle quali Perretta rinviene il segno<br />

della recita. Il rinvio a Celli/Darwin è in relazione al<br />

concetto di finitezza che Perretta così trasforma: “solo un<br />

essere finito e mortale può essere responsabile, solo un essere<br />

definito da una «finitezza infinita» può compiere una<br />

decisione autenticamente responsabile; al tempo stesso:<br />

laddove vi è decisione e responsabilità vi è sempre un soggetto<br />

finito e mortale . Il testo, secondo il percorso intessuto<br />

da Perretta, articola abilmente gli snodi concettuali<br />

che modulano la riflessione di Celli seguendo il tema della<br />

scienza/cultura, ritagliando uno spazio di riflessione teoretico<br />

e insieme etico-politico del versante evenemenziale<br />

come sottotraccia di un cammino marcato dal rapporto<br />

irriducibile con l’alterità. Alla questione, ancor più complessa,<br />

della connessione tra l’identità e il riconoscimento<br />

è dedicato un altro saggio del volume, intitolato a Martino<br />

Oberto, una tessitura complessa, che ripercorre il cammino<br />

del primo e dell’ultimo anafilosofo, che va dal riconoscimento<br />

di sé al riconoscimento reciproco, fino alla testimonianza<br />

del dono della scrittura, a confronto con aporie<br />

costitutive, tra le quali in primo luogo la dissimmetria originale.<br />

La domanda centrale è se sia possibile una forma di<br />

riconoscimento sociale al di fuori della scrittura filosofica,<br />

al di fuori del classico schema della dialettica tra linguaggio<br />

filosofico scritto e decostruzione del testo visivo. A tal<br />

proposito Perretta individua alcune esperienze particolari,<br />

che definisce “stati di medialità” e che identifica in tre<br />

modalità: interazione, relazione e concettualità. Il momento<br />

del dono mediale sorge proprio a questo punto. C’è<br />

quasi un filo teso che unisce la sintesi dell’anafilosofia alle<br />

riflessioni sul dono e sullo scambio linguistico che chiudono<br />

la memoria, la storia, l’oblio e i testimoni della scrittura costruttiva<br />

dell’architesto. Il dono dell’anafilosofia - sottolinea<br />

Perretta - è il vertice del riconoscimento, dell’attestazione,<br />

della singolarità.<br />

TINA LUPO<br />

L’Ardito, 1995<br />

metallo bianco brunito, 40x43x8<br />

SCULTURE<br />

www.kultrunmuseum.it

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