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Un biglietto per sobibòr solo andata ANDREA DEPANIS<br />
Questo maledetto sferragliare del treno continua a farmi sobbalzare. Mi ero assopito ma de�nirlo dormire<br />
è praticamente ridicolo. Sono ormai tre giorni che abbiamo lasciato il campo di concentramento di Vught.<br />
Tre giorni rinchiusi dentro a questo vagone, ammassati come topi; ma anche la nozione del tempo ormai si è<br />
ridotta in briciole come tutto il resto. Non conosco nessuno di questi volti terrorizzati e rassegnati, anche se<br />
so che sono tutti miei connazionali. Nessuno parla. Nessuno ha il coraggio di incrociare lo sguardo di qualcun<br />
altro. Aleggia nell'aria soltanto l'odore nauseabondo di sudore misto all'urina e agli escrementi, che ci hanno<br />
costretto a fare qui sui nostri stessi piedi, dentro a questo convoglio senza meta. Questo tanfo insopportabile<br />
si attacca alla gola arsa. Non so cosa darei per un po' d'acqua.<br />
Quando la milizia ci è venuta a prendere a casa ci ha chiamato "maiali", e in mezzo a questa calca di persone,<br />
quasi per ironia della sorte, non vedo la di�erenza. Hanno detto che serviva della manodopera per nuove armi<br />
ed uniformi, ma questa guerra per me non ha alcun senso.<br />
Continuo a pensare a mia moglie Gerda e mia �glia Helga. Me l'hanno strappata dalle braccia quei bastardi;<br />
ho tentato di reagire e ne ho ricavato il calcio di un fucile sulla faccia. Quando ho riaperto gli occhi ero steso<br />
per terra. Dopo aver messo a fuoco la sagoma indistinta di Klaus il panettiere, che mi dice "forza ragazzo,<br />
rimettiti in piedi", gli chiedo notizie della mia famiglia. Ma Klaus con aria paterna mi dice di stare tranquillo,<br />
che le donne e i bambini li portano in posti più agiati. Io gli voglio credere perché ho bisogno di attaccarmi<br />
a qualcosa. Ma l'angoscia che si attorciglia alle viscere è più forte; so che razza di belve schifose sono quei<br />
nazisti. Due settimane prima che mi venissero a prendere li ho visti assassinare mio cognato Jacob. L'hanno<br />
fatto spogliare e stendere per terra in mezzo alla strada fangosa. Due soldati ridevano e lo prendevano in<br />
giro. Io ero ad una decina di metri dietro al muretto del Tod Café. Pensai che l'avrebbero strapazzato un po'<br />
come avevo già visto fare con chi come me porta la stella sulla giacca. Ma in un attimo il soldato più giovane<br />
tira fuori la pistola, mette il colpo in canna e gli spara alla testa con la stessa naturalezza di chi beve un sorso<br />
d'acqua, tornando poi a ridere a crepapelle con il suo compagno. So con certezza che queste persone non<br />
hanno più nulla di umano.<br />
Adesso provo a stendere un po' le gambe indolenzite, cercando di mettermi in piedi ma ho un capogiro e cado<br />
sulle mie ginocchia scarne. Un ragazzo sui vent'anni dai capelli rossicci mi dice: " ehi amico non farti vedere<br />
così, non li vogliono quelli malconci". Ha ragione, non devo arrendermi. Infondo c'è chi sta peggio. Un'ora fa<br />
un signore anziano è crollato a terra. Qualcuno ha cercato di rianimarlo, ma credo che non raggiungerà mai la<br />
meta di questo viaggio e da una parte meglio così. Non sono stupido e so cosa ci attenderà all'arrivo. L'unica<br />
via di salvezza sarebbe tentare la fuga, ma sono così debole. E poi per scappare dove? Sento come se non ci<br />
fosse più posto in questo mondo, per quelli come me. Tanto vale arrendersi a questo triste destino. Io con�do<br />
in Dio, e nella sua misericordia. Chissà se un giorno �niranno tutte queste barbare persecuzioni e guerre inutili.<br />
Con la mente viaggio in avanti nel tempo e vorrei tanto che un giorno l'intera umanità si possa sentire unita<br />
da una stessa uguaglianza, senza che una razza si professi "L'eletta" e sia �nalizzata alla repressione di un intera<br />
popolazione.<br />
Sento il treno che rallenta. Il rumore all'esterno di soldati tedeschi che vengono ad aprire le porte del vagone. Le<br />
persone che erano in prossimità della porta, cadono giù sulla banchina, sospinte da quelle più indietro. Io vengo<br />
accecato dalla forte luce del giorno, dopo questo interminabile viaggio nel buio del vagone. Sento l'aria fresca<br />
e il profumo dell'inizio autunno e la mente mi riporta al giorno in cui é nata mia �glia ma stranamente non mi<br />
sento felice. Quando gli occhi si abituano totalmente, scorgo in lontananza centinaia di metri di �lo spinato che<br />
circonda il campo. Ci sono almeno altri cinque convogli carichi di persone che come me portano una stella a sei<br />
punte. Mi guardo in torno disorientato. Vedo il retro di un grosso cartello di legno. Faccio una decina di passi per<br />
riuscire a leggere la scritta sul davanti: CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI SOBIBOR. Un attimo dopo sento un<br />
forte colpo alla nuca. Cado a terra e sento la voce di un soldato che mi dice di tornare in �la con gli altri. Non c'è<br />
rabbia, non c'è dolore... solo rassegnazione.<br />
Quando raggiungo il gruppo, mi si avvicina il giovane ragazzo dai capelli rossicci di prima. Con aria ottimistica<br />
mi dice: "Vedi là dove ci sono quei capannoni con le ciminiere? E' lì che ci portano. Stai tranquillo che a noi<br />
giovani dice bene. Un anno o al massimo due e la guerra è �nita e ci rispediscono a casa".<br />
Io vorrei tanto credere a queste parole ma ho la sconvolgente sensazione che non sarà così.<br />
I Racconti<br />
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