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Tutto il nero del noir - Cineforum del Circolo

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sceneggiatore Delmer Daves. Il peculiare espediente adottato da Daves fu quello di girare i primi 30 minuti<br />

<strong>del</strong> f<strong>il</strong>m interamente in soggettiva, facendo sì che <strong>il</strong> punto di vista <strong>del</strong>lo spettatore aderisse a quello <strong>del</strong>la<br />

macchina da presa, e favorendo di conseguenza l’identificazione <strong>del</strong> pubblico con <strong>il</strong> protagonista Vincent<br />

Parry, un galeotto evaso dal carcere e ricercato dalla polizia.<br />

Per più di mezz’ora, dunque, Daves fornisce una prova di magistrale virtuosismo registico, ut<strong>il</strong>izzando una<br />

tecnica che, a Hollywood, era stata sperimentata soltanto pochi mesi prima (e con assai meno successo)<br />

per un’altra pellicola <strong>noir</strong>, “Una donna nel lago” di Robert Montgomery. Nel caso de “La fuga”, la lunghissima<br />

soggettiva iniziale non soltanto ha l’obiettivo di intensificare <strong>il</strong> coinvolgimento degli spettatori, ma<br />

risponde ad una precisa esigenza narrativa: Vincent Parry, infatti, è costretto a sottoporsi ad un’operazione<br />

di chirurgia plastica per cambiare i propri connotati e poter così sfuggire alla caccia all’uomo scatenata<br />

contro di lui. Nella parte centrale <strong>del</strong> f<strong>il</strong>m <strong>il</strong> protagonista compare sullo schermo ma con la faccia coperta<br />

dalle bende, e dovrà passare un’intera ora prima che <strong>il</strong> pubblico possa vedere per la prima volta <strong>il</strong> suo<br />

“nuovo” volto, vale a dire quello <strong>del</strong>l’attore Humphrey Bogart.<br />

La coraggiosa scommessa di Daves, che osò “nascondere” una star come Bogart per più di metà f<strong>il</strong>m, alla<br />

resa dei conti risultò però una scelta vincente: “La fuga” si presenta infatti come uno dei più formidab<strong>il</strong>i<br />

esempi <strong>del</strong> genere <strong>noir</strong>, tanto in virtù <strong>del</strong>la sua sorprendente impronta registica, quanto per la capacità di<br />

costruire una torbida atmosfera metropolitana intorno alle strade di San Francisco. L’opera di Daves riesce<br />

a tenere <strong>il</strong> pubblico con <strong>il</strong> fiato sospeso anche grazie ad una trama avvincente, in cui non mancano i colpi<br />

di scena, e soprattutto all’apporto di un cast azzeccatissimo: al fianco di Bogart troviamo per la terza volta<br />

sua moglie, l’affascinante ventiduenne Lauren Bacall (la coppia<br />

aveva da poco interpretato <strong>il</strong> capolavoro <strong>nero</strong> di Howard Hawks<br />

Il grande sonno), oltre ad un’eccezionale caratterista quale<br />

Agnes Moorehead, in grado di rubare la scena perfino a Bogey.<br />

Stefano Lo Verme<br />

IL REGISTA: DELMER DAVES<br />

Dopo essersi laureato in giurisprudenza ed aver recitato in teatro,<br />

entrò nel mondo <strong>del</strong> cinema nel 1927 come assistente di<br />

James Cruze. In seguito, lavorò a lungo come sceneggiatore per<br />

la MGM e la Warner e per registi come Leo McCarey, Archie<br />

Mayo e Frank Borzage.<br />

Nel 1938, si sposò con l’attrice Mary Lawrence che gli rimase<br />

accanto fino alla morte, avvenuta nel 1977. Nel 1943 l’esordio<br />

alla regia con Destinazione Tokio, f<strong>il</strong>m di guerra con Cary Grant<br />

e John Garfield. Scrivendo le sceneggiature di quasi tutti i suoi<br />

lavori, Daves caratterizzò le sue opere con un tono volto al<br />

melodramma, trattato in maniera onesta e robusta, dove spesso<br />

lo scontro al centro <strong>del</strong>la narrazione è quello tra bene e male, tra<br />

lealtà ed avidità.<br />

In questa prima fase <strong>del</strong>la sua carriera si distinguono due pellicole, entrambe <strong>del</strong> 1947: La casa rossa è un<br />

f<strong>il</strong>m insolito per l’epoca, uno psicodramma attraversato da un’incerta linea che separa la sessualità sana da<br />

quella malata ed è caratterizzato da un’interpretazione magistrale di Edward G. Robinson. La fuga invece<br />

è uno dei <strong>noir</strong> più memorab<strong>il</strong>i di quel periodo d’oro per <strong>il</strong> genere.<br />

Ma è con <strong>il</strong> western che Daves negli anni cinquanta ha scritto pagine memorab<strong>il</strong>i. Nell’arco <strong>del</strong> decennio<br />

ne girò ben nove. Subito <strong>il</strong> suo impatto col genere produsse <strong>il</strong> notevole L’amante indiana (1950) primo f<strong>il</strong>m<br />

di Hollywood in cui gli indiani non venivano trattati da selvaggi e che segnò la svolta nel modo in cui i<br />

nativi americano venivano visti dal cinema statunitense. Ottimi western furono anche Rullo di tamburi<br />

(1954), L’ultima carovana e Vento di terre lontane, entrambi <strong>del</strong> 1956. Nel 1957 girò Quel treno per Yuma,<br />

pellicola interpretata da Glenn Ford e Van Heflin che ebbe un grande successo di pubblico e di cui è stato<br />

fatto un remake nel 2007. Daves confermò la sua predisposizione per <strong>il</strong> genere con altre due pellicole girate<br />

nel 1958: Cowboy e Gli uomini <strong>del</strong>la terra selvaggia, una trasposizione nella frontiera di Giungla<br />

d’asfalto. Il suo ultimo f<strong>il</strong>m western è L’albero degli impiccati (1959), uno dei suoi migliori in assoluto,<br />

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