Narrativa
Bonato Aldo Un sindaco per amico Da fine Ottocento a metà Novecento, il Veneto era terra di emigranti e un’ Italia povera. Si può dire un esercito allo sbando, con 20-25 e più milioni di italiani in attesa; con la valigia di cartone pronti a lasciare il tricolore, per cercare fortuna o, l’Eldorado sognato oltre oceano. Era realtà! Quasi sempre, una guerra personale vinta con onore! Tempi difficili per tutti, tra venti di guerra lunga e snervante…. Dio, che tristezza. Emigrazione, ultima spiaggia della speranza di ideali e solitudine. Dura lex della vita. E poi, si aggiungeva con orgoglio scaramantico una battuta ben nota in ogni paese, contrada: “ la xè terra de pòra xènte, dal còre grande e de Fede, più che Cristiana; onesta e de grandi lavoratori…. – Sì, con la valsa pronta, - par emigrare in ‘Merica!.” E fu così, con questa “etichetta”, (Veneti lavoratori), fummo ben accetti in ogni angolo d’Europa e Nuovo Mondo ma, quanti sacrifici!! Naturalmente quei sacrifici erano tanti e, ancora più amari i “bocconi” da ingoiare da malavoglia; chiusi nel nostro silenzio di riverente sottomissione e omertà in terra straniera per non offendere chi ci ospitava con lavoro e un pezzo di pane. Noi vicentini, più analfabeti che studiati; era ancora più dura da accettare certe condizioni, al limite del disumano, per forza fisica e aggregazione ostile, di incomprensione a lingue diverse, difficili. Per noi, poveri Cristi, magri come grissini o, peggio ancora, poco studiati: sì e no, la terza Elementare; i più fortunati alla Quinta, era già un ambito traguardo per pochi e…un’unica lingua parlata: il nostro dialetto veneto, spontaneo, a volte intriso di lacrime, di sorrisi forzati e, una accorta mimica di gestualità da provetti attori, sì, per farci capire al meglio nel Nuovo Mondo: in ‘Merica! La Grande Mela. L’italiano era già difficile da imparare scrivere a scuola, peggio ancora nel parlare – quasi-, ci vergognavamo a pronunciarlo, arricchendolo facilmente di strafalcioni che non figurano certamente nel vocabolario e, avrebbero fatto rizzare i bei capelli all’Insegnante di italiano. Eravamo fatti così: “ xùcche vòde “; in testa c’erano ben altri pensieri: fame e lavoro. Altro che inglese o francese di oggi; il tedesco, era da noi vicentini definito “Krucco” e, tale resta inteso così; anche oggi e, dagli ultimi emigranti in Germania che ahimé, prima ancora, ai “viaggi” senza ritorno, nei campi di concentramento… Una realtà triste di una pagina di storia infamante, di cui vergognarcene. Ovunque andavamo, noi chiedevamo il lavoro che non c’era, col nostro naturale idioma veneto, vero, spontaneo: un biglietto da visita vincente. Il dialetto è tutt’ora una radice antica ben radicata, difficile da estirpare. E’ come una cantilena accorata, che strega chi ti ascolta: per la sua semplice musicalità versatile di vocalizzi che assomiglia al dialetto veneziano. Una parlantina chiara, pulita: dal sapore di filastrocca! Allora l’istruzione era quella che era; ma l’etica morale del vivere nella fede, era nel nostro DNA già ben programmata nella gènetica dai nostri vecchi, artefici fautori di vita; unici eredi e testimoni di un vivere cristiano da umili, senza Onorificenze: ai confini della disperazione ma determinati, consapevoli di lasciare una natura agrèste ove ci si aiutava come si poteva, con lo scambio di manodopera o, animali per il lavoro della terra e si sudava; sia al sole d’agosto, sia al freddo d’autunno, senza risparmio di energie, dall’alba al tramonto, finché c’era luce… Questo era un codice di morale ética & mutuo soccorso tra il povero e ricco. Allora c’era più solidarietà di oggi. Poveri contadini arricchiti di vistosa “ gobba ”, tanto erano chinati sui campi, dall’alba al tramonto, in terra magra, sassosa di “ vegra ”, vicino la Brenta per renderla fertile, togliendone i sassi più grossi con piccone e gerla sempre piena, massacrando le ossa della schiena e “ Lei “, madre terra, così ben lavorata, grazie a Dio ci offriva del generoso grano dorato; per un pezzo di pane o una fumante polenta gialla; delle patate grosse o dei fagioli “ Borlotti “ nostrani: i migliori però, erano quelli del Bellunese, di “ Lamon “, coltivati in “ selvatiche “ terre strappate dai rovi di boschi sassosi. Tutto un lavorio certosino, paziente, fatto a mano, - oh sì, - mani ferite da calli e tagli profondi… questi eravamo noi, i Veneti – anzi -, i Vicentini purosangue tutto: casa, lavoro, famiglia. Emigranti fieri, emigranti lavoratori incalliti! - Si, - tutto quello che la terra offriva era indubbiamente un grande tesoro – frutta e verdura -, per un felice pranzo da nozze, e che nozze …. per tutta quella nidiata di figli da sfamare in ordine crescendo, uno per anno e… per i gemelli era una doppia Benedizione ma, anche una fitta al cuore, pensando alla povertà che era di casa in casa e, ci si consolava dicendo: “ il buon Dio ha voluto così, pazienza!..” a sera, tutti riuniti, si pregava con più fervore per un aiuto Divino. Tanti figli “ voluti ” o “ venuti ” per sbaglio; ben pochi avevano la pelle rosata di salute e, molti bambini in tenera età, volavano in cielo come Angioletti, tra una malattia e l’altra. Carenza di vitamine?.. In tanti già erano malaticci di “ pellagra “…. poco pane e poche le vitamine. Gran brutta bestia la fame! E ancora più pena era sentire il loro pianto ostinato o liberatorio, che ti struggeva il cuore.