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programma_2013 - GEA - Gruppo Escursionisti d'Aspromonte

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VARDARI<br />

Non tutte le schiene sono uguali, non quelle degli asini e neppure<br />

quelle dei muli.<br />

Era questa la circostanza che rendeva il mestiere del mastro vardaru<br />

degno di molta considerazione e anticamente soggetto alla protezione<br />

di Minerva. Esso radunava molte abilità e prevedeva l’uso di arnesi diversi.<br />

Ciò che colpiva l’immaginazione dei nostri antenati sì da renderli<br />

tanto assorti nell’insellare e dissellare le bestie da soma era, ad<br />

ogni modo, l’imbastitura della varda: accennava alle forme gentili<br />

della sella ed ogni ciucciaro o mulattiere si portava dentro il sogno del<br />

cavallo che stemperava, come eccessivo, con ogni sorta di pendagli, di<br />

fiocchi, di campanelli con i quali s’ornava la varda nei giorni di festa.<br />

Il “perciabardi”, lungo e robusto ago arcuato simile alla lesina degli<br />

scarpari, rappresentava da solo, in emblema, il mestiere di vardaru.<br />

La sua perizia era insieme di custureri, mastro d’ascia, scarparo, carpentiere,<br />

seggiaro e persino di architetto.<br />

Mastri vardari e sellari avevano l’occhio assuefatto alle forme combinate<br />

e alle strutture complesse debordanti dall’ordinaria geometria.<br />

Era questa, per così dire, la capacità politica del mastro. Egli non solo<br />

intuiva l’indole della cavalcatura, che è pure molto varia, come sapevano<br />

a loro spese i maniscalchi, ma ne possedeva pure perfettamente<br />

l’ossatura.<br />

Con ambedue le mani palpava le bestie sulla lunga schiena, tra il garrese<br />

e la groppa, per individuarne l’assetto. Neppure questo è uguale<br />

in tutte le bestie sicché le varde venivano fatte per l’ordinario su misura<br />

per evitare all’asino o al mulo piaghe dolorose.<br />

Ma queste non erano del tutto evitabili perché agli asini e ai muli come<br />

ai figlioli che calzavano scarpe nuove di scarparo non si chiedeva<br />

mai l’opinione. Le “càie” bisognava tenerle sino a che non diventavano<br />

calli. La varda non era propriamente una sella. Detta anche “mbàstu”,<br />

consisteva in una imbracatura di legno di faggio, completata all’arco<br />

da una imbastitura di paglia pressata e di tela di sacco.<br />

Vi si appoggiavano o si legavano i carichi o si appendevano i quartieri<br />

contrapposti delle vertule. Solo in parte poteva fungere da sella perché<br />

il ciucciaro o il vaticale vi si sedevano talvolta per traverso se non<br />

v’era carico o se il carico era dispari.<br />

Poteva capitare che parroci, galantuomini o gli stessi vaticali esigessero<br />

dal vardaru la nobilitazione della varda e il suo adattamento a sella<br />

con le cure aggiuntive dell’allargamento del ponte di legno e dell’imbastitura<br />

superiore, alla forcatura dell’inguine.<br />

Come ordinariamente al custureri, erano consentiti in questo caso al<br />

vardaru inusitati toccamenti periziali. Essi s’avviavano con la domanda<br />

consueta: “aviti pisi? ... aundi battiti... a destra o a sinistra? “.<br />

Questa delicata evenienza non si poneva con le donne. Andassero a cavallo,<br />

sull’asino o sul mulo esse sedettero sempre per traverso.<br />

Domenico Raso

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